De Dante A Camilleri: Estudios Sobre Literatura y Cultura Italiana
De Dante A Camilleri: Estudios Sobre Literatura y Cultura Italiana
De Dante A Camilleri: Estudios Sobre Literatura y Cultura Italiana
Editores
De Dante a Camilleri:
Estudios sobre
literatura y cultura italiana
DE DANTE A CAMILLERI:
ESTUDIOS SOBRE
LITERATURA Y CULTURA ITALIANA
Cátedra Extraordinaria Italo Calvino
XIII Jornadas Internacionales de Estudios Italianos
6-10 de noviembre de 2017
Este volumen recoge una selección de los trabajos presentados en las XIII
Jornadas de Estudios Italianos, que tuvieron lugar en noviembre 2017 en la Fa-
cultad de Filosofía y Letras de la Universidad Nacional Autónoma de México.
El interés en la lengua, la literatura y la cultura italiana en nuestro país, y en
nuestra universidad en particular, tienen una tradición ya consolidada, que se
refrenda cada dos años con una nueva edición de las Jornadas de Estudios Ita-
lianos, que se llevan a cabo ininterrumpidamente desde 1995. A esto se añade
la publicación de un volumen derivado de las mismas. En esta ocasión, hemos
agrupado las colaboraciones recibidas y las hemos distribuido en tres partes,
atendiendo su contenido y manteniendo un orden cronológico dentro de cada
sección.
La primera parte “Literatura y pensamiento italiano” da inicio con un es-
tudio de Diego Tapia Perea sobre la dimensión histórico-profética de la Come-
dia dantesca como un texto basado, por un lado, en la interpretación alegórica
de los textos clásicos y, por otro, en la visión laica de la burguesía bajomedie-
val. El análisis de la combinación de los mecanismos retóricos literarios con
los tonos proféticos en algunos pasajes muestra un fuerte cambio de perspecti-
va de Dante con respecto a sus fuentes: si bien la interpretación alegórica sigue
presente, se lleva a cabo un proceso de reapropiación y refuncionalización de
la misma, retomando elementos tanto de la tradición clásica como de la lírica
cortés como una operación literaria consciente, una afirmación de madurez
literaria e individualidad política que coloca a Dante en el umbral de la mo-
dernidad.
La obra de Ariosto, cuya primera edición del Furioso festejó en 2016 los
quinientos años, motivó la primera dedicatoria de una sección de nuestras Jor-
nadas de Estudios Italianos, con tres artículos. En el primero, Sabina Longhi-
tano recurre a la intertextualidad y al análisis de fuentes para poner en relación
el Morgante de Luigi Pulci y algunas fuentes vulgares marginales con respecto
al canon (dos textos juglarescos: La Sferza dei villani e Il cantare dei cantari)
con el Orlando Furioso. Es a partir de una memoria poética colectiva y de un
imaginario compartido que los indicios intertextuales de los poemas cómico-
burlescos, el Morgante en particular, tienen la función de evocar escenarios
grotescos y carnavalescos.
5
6 Presentación
11
12 Diego Tapia Perea
In questo episodio, che è uno dei momenti in cui oltre alla teologia o alla poe-
sia il poeta mette in evidenza la componente politica della sua opera, Dante fa
esplicito il suo parteggiare per la separazione dei poteri dell’Impero, e condan-
na il papa che, a suo parere, ha portato la rovina all’intera umanità inseguendo
beni mondani.
Nonostante lo sfondo teologico-allegorico, la missione del Dante perso-
naggio e i numerosi esempi di lettura allegorica che si possono trovare nel
poema, non bisogna dimenticare che, come segnala Carlo Dionisotti,10 in que-
sto periodo in cui lo sviluppo delle città comunali e l’avanzata della borghesia
hanno prodotto una certa laicizzazione della cultura, se non si desse la dovuta
attenzione alla dimensione letteraria, cioè alla coscienza dell’Io dell’autore che
rende Dante un poeta non del tutto medioevale, e anche a quella politica ver-
10
C. Dionisotti, op cit., pp. 57-58.
14 Diego Tapia Perea
sate nella Commedia,11 del poema si potrebbe fare una lettura solo in chiave
allegorica, cioè pensare ai riferimenti classici sia come prefigurazioni del Dio
cristiano o come exempla di virtú premiata o di peccato punito e quindi si
potrebbe pensare a Dante come un poeta religioso quando invece, come dice
Auerbach,
11
Si pensi alle numerose invettive contro Firenze, le profezie dell’esilio o all’invettiva con-
tro i papi simoniaci fra cui Niccolò III e Bonifacio VIII, quest’ultimo solo nominato giacché la
diegesi costruita nella Commedia è situata nel 1300 e Bonifacio muore tre anni dopo.
12
E. Auerbach, San Francesco, Dante, Vico e altri saggi di filologia romanza. Trad. Vittoria
Ruberl. Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 32.
13
Albert Russell Ascoli, “Tradurre l’allegoria: Convivio 2.1”, in Roberto Antonelli, Annalisa
Landolfi, Arianna Punzi, ed., Critica del testo, XIV-I (2011), p. 155.
Fra poesia e profezia. Dante poeta-profeta 15
E piú avanti: “Per te poeta fui, per te cristiano” (Purg. XXII, v. 73).
14
Ibidem, p. 158.
15
Su questo argomento è di vitale importanza l’opera di Miguel Asín Palacios, Escatología
musulmana en la Divina Comedia. Madrid, Imprenta de Estanislao Maestre, 1919.
16
Per un approfondimento sull’argomento si veda la tesi: Eszter Draskóczy, Metamorfosi,
allusioni ovidiane e strutture antitetiche nella Commedia di Dante Szeged, Università degli Studi
di Szeged, 2014. <http://doktori.bibl.u-szeged.hu/2314/2/draskoczy%20eszter-olasz%20tezisek.
pdf>. [Consultazione: 24 giugno, 2019.], e anche l’articolo di Federica Coluzzi, “Rivaleggiare col
divino. Il mito di Aracnee fra Ovidio e Dante”. <https://www.academia.edu/3429455/Rivaleggia-
re_col_divino._Il_mito_di_Aracne_fra_Dante_e_Ovidio>. [Consultazione: 24 giugno, 2019.]
16 Diego Tapia Perea
17
Per un approfondimento sull’interpretazione allegorica e cristianizzazione di Virgilio si
veda l’ormai classico Virgilio nel medioevo di Domenico Comparetti. Firenze-Roma, Tip. fra-
telli Bencini, 1896; inoltre, la tesi di dottorato La versione greca della IV Ecloga di Virgilio e il
commento di Costantino di Melania Giardino. e l’articolo “Il culto di Virgilio nel medioevo” di
Francesco Lamendola. <http://www.centrostudilaruna.it/il-culto-di-virgilio-nel-medioevo.html>.
[Consultazione: 24 giugno, 2019.]
18
Per approfondire questo argomento si veda Ilaria Ramelli, “La concezione del divino in
Stazio e la conversione del poeta secondo Dante”. Gerión. Revista de Historia Antigua, 17 (1999),
pp. 417-432. <https://revistas.ucm.es/index.php/GERI/article/viewFile/GERI9999110417A>.
[Consultazione: 24 giugno, 2019.]
Fra poesia e profezia. Dante poeta-profeta 17
19
E. Auerbach, San Francesco, Dante, Vico, p. 29.
20
Teodolinda Barolini, “La poesia della teologia e la teologia della poesia. Dalle Rime di
Dante al Paradiso”, in Marco Veglia, Lorenzo Paolini e Riccardo Parmeggiani, a cura di, Il mondo
errante. Dante fra letteratura, eresia e storia, Atti del convegno internazionale di studio, Fonda-
zione. Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2013, pp. 537-546. <https://www.
academia.edu/7436788/La_poesia_della_teologia_e_la_teologia_della_poesia_dalle_Rime_di_
Dante_al_Paradiso>. [Consultazione: 24 giugno, 2019.]
18 Diego Tapia Perea
Con questo ammonimento al lettore Dante non solo avverte, al modo dell’e-
pica cavalleresca, che si sta per ascoltare qualcosa mai raccontato prima, e la
cui materia richiede profonde conoscenze per essere capita; ma dà anche per
scontato che le Muse e lo stesso Apollo siano dalla sua parte e che gli facciano
da guida nel raccontare il suo viaggio nel paradiso. Evidentemente, guida solo
in termini retorici, perché le vere guide saranno Beatrice e San Bernardo.
In altri episodi del poema troviamo riferimenti a dei miti della tradizione
classica che in effetti rappresentano esempi di lettura in chiave allegorica, cioè
di sovrapposizione dei valori cristiani ai testi classici. È il caso di Diana, che
nel XXV canto del Purgatorio viene presentata come esempio di castità (Purg.
XXV, 130-132), e anche quello di Pasifae che invece nel XXVI canto del Pur-
gatorio diventa un esempio di lussuria (Purg. XXVI, 40-42). In entrambi i casi
i riferimenti ai miti classici sono accompagnati da un riferimento biblico, quel-
lo della Vergine per la castità e quello di Sodoma e Gomorra per la lussuria;
un accostamento che sembra quasi mettere poesia e Sacre Scritture allo stesso
livello.21 Piú avanti Dante, in voce di Matelda, ‘cristianizza’ o legge allegori-
camente un intero topos della poesia latina: “Quelli ch’anticamente poetaro /
l’età de l’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro” (Purg.
XXVIII, 139-141), alludendo a una intuizione del Paradiso Terrestre che i poeti
dell’antichità potevano aver avuto in sogno, applicando quindi quasi la stessa
lettura allegorica che si era applicata a Virgilio ai poeti che hanno parlato del
Parnaso e dell’età dell’oro, per avvicinarli al mondo cristiano.
Nei primi versi, nei quali viene chiamato divina virtú e padre, Apollo
è presentato come raffigurazione del Dio cristiano23: “Oh buono Apollo, O
divina virtú”, poi come eulogia troviamo alcuni dei suoi attributi: l’alloro, il
Parnaso, la sfida di Marsia, l’allusione a Delfi, ecc., e infine la supplicatio è
rappresentata dalla richiesta dell’intervento della divinità affinché Dante sia in
poesia_nel_Paradiso_in_Preghiera_e_liturgia_nella_Commedia_._Atti_del_Convegno_interna-
zionale_di_Studi_Ravenna_12_novembre_2011_a_cura_di_Giuseppe_Ledda_Ravenna_Centro_
Dantesco_dei_Frati_Minori_Conventuali_2013_>. [Consultazione: 24 giugno, 2019.]
23
Dante mette in relazione il Dio cristiano anche con Giove: “O sommo Giove / che fosti in
terra per noi crocifisso”, Purg. VI, 118-119.
20 Diego Tapia Perea
grado di compiere la sua missione, cioè finire la terza cantica. Il poeta chiude
l’invocazione con un cenno di umiltà augurandosi che nel futuro altri poeti
scrivano delle opere simili alla sua, ma questo atteggiamento è annunciato
anche dal riferimento a un famoso episodio del VI canto delle Metamorfosi
di Ovidio, quello di Marsia,24 il satiro che ha osato sfidare Apollo e che, nella
tradizione classica, rappresenta appunto la hybris punita. In questi versi l’ar-
chetipo classico appare in un riferimento rovesciato giacché, mentre Marsia è
caduto nella superbia, Dante chiede umilmente l’aiuto della divinità per non
commettere lo stesso errore. Questo rovesciamento viene effettuato: “quando
Dante chiede al dio di essere fatto vaso della virtú divina [...], allude al modello
di Paolo, designato nel poema con l’epiteto biblico di vas electionis”,25 fonden-
do il modello derivato dai testi scritti sull’apostolo e quello del mito ovidiano.
Come mostrano i versi danteschi con cui ho cominciato questo studio,
all’interno della diegesi della Commedia, il Dante personaggio è investito da
una missione di tipo profetico: portare a termine il suo viaggio nell’oltretomba,
dagli inferi alla contemplazione di Dio e una volta tornato nella vita terrena
scrivere un’opera che narri la sua esperienza “in pro del mondo che mal vive”
(Purg. XXXII, v. 103), cioè scrivere un’opera capace di aiutare gli uomini a
salvare le loro anime. A questo punto mi sembra opportuno ricordare un epi-
sodio che sembra permetterci di intravedere in Dante un’idea degli effetti che
la letteratura può avere sulla realtà, quello di Paolo e Francesca, gli amanti che
sono stati trascinati al peccato dalla lettura delle storie di amore fra la regina
Ginevra e Lancillotto. Anche se in questo caso l’effetto è negativo, non sarebbe
da escludere come, nel caso di Marsia, una lettura rovesciata e proporre che
Dante volesse conferire alla letteratura la possibilità di influire positivamente
o negativamente sulla realtà e quindi dare un sostegno sia letterario, con il
riferimento all’effetto che hanno avuto sugli amanti i testi del ciclo arturiano,
che teologico, dotando di una dimensione profetica e una missione quasi evan-
gelica la sua opera.
In un altro episodio legato ai modelli tramandati alla poetica medievale
sia dalla tradizione classica sia dall’epica cavalleresca, l’impresa di scrivere
un’opera capace di narrare un viaggio simile, e che per di piú possa assistere
nella salvazione delle anime, sembra di portata tale da far dubitare il poeta di
esserne degno. Ma non parla della sua scrittura, bensí del suo “viaggio”: men-
ziona la discesa agli inferi, narrata da Virgilio, di Enea, radice prima dell’Im-
pero universale, e successivamente del papato; e continua:
26
G. Ledda, “Modelli biblici nella Commedia: Dante e San Paolo”, La Bibbia di Dante.
Esperienza mistica, profezia e teologia biblica in Dante [on line]. Ravenna, Centro dantesco dei
frati minori conventuali, 2011, p. 181. <https://www.academia.edu/8420206/Modelli_biblici_nel-
la_Commedia_Dante_e_san_Paolo_in_La_Bibbia_di_Dante._Esperienza_mistica_profezia_e_
teologia_biblica_in_Dante._Atti_del_Convegno_Ravenna_7_novembre_2009_a_cura_di_Giu-
seppe_Ledda_Ravenna_Centro_Dantesco_dei_Frati_Minori_Conventuali_2011_pp._179-216>.
[Consultazione: 24 giugno, 2019.]
22 Diego Tapia Perea
27
G. Ledda, “Modelli biblici e identità profetica nelle Epistole di Dante”, in Lettere italiane
[on line], LX, I (2008), p. 22. <https://www.academia.edu/8420056/Modelli_biblici_e_identità_
profetica_nelle_Epistole_di_Dante_in_Lettere_italiane_LX_2008>. [Consultazione: 24 giugno,
2019.]
28
E. Auerbach, Mimesis. La rappresentazione del realismo nella letteratura occidentale.
Trad. Alberto Romagnoli e Hans Hinterhäuser. Torino, Einaudi, 1952, p. 176.
29
E. Auerbach, Dante, poeta del mundo terrenal, p. 162.
30
E. Auerbach, Mimesis, p. 134.
Fra poesia e profezia. Dante poeta-profeta 23
31
Gianfranco Folena, Lingua e cultura poetica delle origini. Torino, Bollati Boringhieri,
2002, p. 205.
32
Idem.
Una rivalutazione della presenza
del Morgante nel Furioso
SABINA LONGHITANO
Universidad Nacional Autónoma de México
Premessa
Lo studio dell’intertestualità in generale e di conseguenza la relazione di Ario-
sto —un autore cardine dell’umanesimo rinascimentale— con le sue fonti sono
stati ampiamente problematizzati in tempi recenti, alla luce di nuovi modi di
analisi testuale e di nuove letture delle teorie sull’imitatio e sull’aemulatio,
come procedimenti apparentemente simili ma che sottendono invece poetiche
molto diverse. Nel contesto della cultura umanistica e di una poetica basata
sull’imitatio, teorizzata e difesa, fra gli altri, da Alberti, Poliziano, Bembo, la
varietas, e quindi la variatio, costituiscono un aspetto centrale della poetica fra
il xv e il xvi secolo.1
L’intertestualità diffusa è quindi un modello d’interpretazione di quasi
tutti i testi rinascimentali: si va dalla citazione esplicita alla mera evocazio-
ne, forse addirittura non cosciente; dall’uso di una fonte che si conosce bene
all’evocazione di fonti appena orecchiate. Questa memoria poetica in Ariosto
si mantiene quasi sempre distante dai due poli opposti della citazione diretta
e della parodia comica.2 In questa nuova prospettiva intertestuale, assumono
importanza le fonti evocate, che proiettano la propria luce su tutto un episodio:
ciò che si evoca infatti —non sempre per asserire ma spesso per opporsi dia-
letticamente ad esso su uno o piú livelli— non è solo un tema ma anche aspetti
formali, un tono, uno stile, rime e ritmi, istanze implicite nei testi o aspetti
simbolici del testo fonte rispetto alla cultura contemporanea ad Ariosto.
In quest’articolo, dopo una premessa generale che si configura come una
sommaria rassegna sui modi e le funzioni dell’imitatio ariostesca nella critica
recente, mi occuperò della relazione fra il Furioso e alcune fonti non canoni-
che, poco o nulla considerate finora, come il Morgante, la Sferza dei villani e il
Cantare dei cantari. Mostrerò come la relazione del Furioso con queste fonti
1
Stefano Jossa, “Classical Memory and Modern Poetics in Ariosto’s Orlando Furioso”,
in Yolanda Plumley, Giuliano Bacco, Stefano Jossa, ed., Citation, Intertextuality and Memory in
the Middle Ages and Renaissance, vol. 1. Text, Music and Image from Machaut to Ariosto. Exeter,
University of Exeter Press, 2011, pp. 85-87.
2
Cristina Cabani, “Fortune e sfortune dell’analisi intertestuale: il caso Ariosto”, in Nuova
Rivista di Letteratura Italiana, xi (2010), p. 10.
25
26 Sabina Longhitano
sia complessa, investendo non solo aspetti pragmatici (la relazione dell’autore
con la propria materia, il contesto condiviso da autore e pubblico), sintattici,
lessicali, metrici, stilistici e tematici, ma anche intrecciando questi testi a quelli
colti in un dialogo da pari a pari, in un’armonia polifonica tutta ariostesca.
È Carlo Dionisotti che osserva come la scelta della materia cavalleresca
da parte di Ariosto non sia stata accolta univocamente con entusiasmo: si tratta
di una scelta inattuale, problematica, lontana dalla nuova letteratura “lirica e
discorsiva, qual è quella rappresentata dall’Arcadia e dagli Asolani, e, perché
no, dal postumo trionfo di Serafino Aquilano”.3 Anche la letteratura narrativa
diverge, spesso in maniera esplicita e polemica, dalla tradizione cavalleresca:
forte della lezione umanistica si configurava come consapevolmente cortigiana
e non popolare, provocando quindi “una precipitazione degli elementi pro-
priamente popolari ed un isolamento preferenziale di quelli illustri. La nuova
letteratura […] tendeva a cristallizzarsi in imitazione di modelli riconosciuti e
rispettabili, classici e trecenteschi”,4 e ciò spiega “la polemica anti-romanzesca
in nome della storia”5 e l’infima opinione della poesia cavalleresca che, in un
saggio intitolato Qual stile tra’ volgar poeti sia da imitare, esprime il Calmeta.
Bisogna aver chiaro, afferma Dionisotti, che
fra Quattro e Cinquecento, subito dopo la morte del Boiardo, e prima che
l’Ariosto imprendesse a scrivere il suo poema, il successo dell’Innamorato
non fu incontrastato: urtò, indipendentemente dalla lingua, nella disistima
per quel genere di poesia da parte di uomini che miravano a nobilitare la
letteratura volgare riportandola nel solco della tradizione classica.6
Non è del resto un caso che, alla luce della polemica fra ariostisti e tassisti
scatenata dal Carrafa, il commento piú diffuso al Furioso fu quello di Dolce,
che assume come centro il modello epico virgiliano e staziano e si concen-
tra sull’identificazione dei modelli canonici, quali Dante e Petrarca, mentre fu
programmaticamente trascurato quello di Lavezuola, che sottolinea la natura
complessa dell’intertestualità ariostesca, prediligendo le fonti “stratificate”,
con una lunga genealogia di imitazioni previe.7
L’operazione di classicizzazione del Furioso che, nel quadro dei dibattiti
tardo cinquecenteschi fra ariostisti e tassisti punta alla ricerca delle fonti epiche
classiche, risponde alla necessità che sorge intorno alla metà del Cinquecento
3
Carlo Dionisotti, “Fortuna del Boiardo nel Cinquecento”, in Boiardo ed altri studi caval-
lereschi. Novara, Interlinea, 2003, p. 147.
4
Idem.
5
Ibidem, p. 153.
6
Ibidem, p. 155.
7
Per un’analisi del dibattito fra Dolce e Lavezuola, si veda Daniel Javitch, Proclaiming
a Classic: the Canonization of Orlando Furioso. Princeton, Princeton University Press, 1991, pp.
59-70.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 27
8
Ibidem, p. 25-27.
9
C. Cabani, art. cit., p. 25.
10
Ibidem, p. 10.
11
Ibidem, p. 14.
12
Ibidem, p. 16.
13
D. Javitch, “The Imitation of Imitations in Orlando Furioso”, Renaissance Quarterly, 38,
2, 1985, pp. 215-239 e C. Cabani, art. cit., p. 17.
14
Contrariamente a ciò che avveniva col Dante della Commedia: per un’analisi di un episo-
dio specifico, quello di Astolfo ed Alcina, si veda, oltre a C. Cabani, art. cit., Sabina Longhitano,
“Boccaccio come fonte dell’Orlando Furioso”, in Mariapia Lamberti, Fernando Ibarra e Sabina
Longhitano, ed., Giovanni Boccaccio (1313-1375). Influenza e attualità. Firenze, Franco Cesati,
2015; per Orazio e Petrarca, S. Jossa, art. cit., p. 87-88.
15
D. Javitch, “The Imitation of Imitations in Orlando Furioso”, p. 217 e 234-239.
28 Sabina Longhitano
perfino sfidato.16 Il livellamento delle fonti implica una critica all’idea stessa di
aemulatio, che si basa su una loro relazione gerarchica, a partire dal riconosci-
mento di una versione che sia superiore alle altre.
La differenza fra l’imitatio di Ariosto e quella di Tasso non è su quanto e
come imitare o sui procedimenti impiegati, bensí sulla funzione dell’imitazio-
ne, che se in Tasso amplifica costantemente il pathos, in Ariosto rappresenta
una strategia di smorzamento di tono. I suoi riferimenti intertestuali “entrano
sempre in frizione con almeno uno dei piani dell’enunciazione […] da un lato
operano da ironico contrappunto con effetto di svuotamento dell’enfasi […]
dall’altro si tengono sempre al di qua del rovesciamento comico, trattenendo il
riso o trasformandolo in sorriso”.17 Piuttosto che carpire, utilizzare, riscrivere
le proprie fonti, Ariosto sembra divergere da esse in una relazione dialogica
complessa:
Not only does he rely upon Horace, as the humanists generally did, but he
also shows his difference from certain other poets who had already relied
upon Horace. In so doing, he includes their writings in his text rather than
showing a radical difference that would not be recognized. Hence the pa-
radoxical nature of such an operation: the more I am similar, the more my
difference will be seen.18
16
Ibidem, p. 216.
17
C. Cabani, art. cit., p. 26.
18
S. Jossa, art. cit., p. 89.
19
Il petrarchismo nel Furioso si può considerare come una costante strutturale, operante
“sulla totalità del dettato ariostesco” (C. Cabani, art. cit., p. 22-23), ma solo a patto di notarne il
costante accento parodico, una costante divergenza su piú piani, una relazione apertamente dialet-
tica.
20
C. Cabani, art. cit., p. 15.
21
Ibidem, p. 15.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 29
22
S. Jossa, art. cit., p. 87. Sulla poetica della variatio si veda anche D. Javitch, “The Poetics
of Variatio in Orlando Furioso”, in Modern Language Quarterly, 66, 1, March 2005, pp. 1-20.
23
S. Jossa, art. cit., p. 85.
24
Carlo Ossola, “Dantismi metrici nel Furioso”, in Cesare Segre, ed., Ludovico Ariosto.
Lingua, stile e tradizione. Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 65-94.
25
C. Cabani, art. cit, p. 20.
30 Sabina Longhitano
30
Michel Olsen, “La voce dell’autore in Pulci ed Ariosto”, in Esperienze Letterarie, 3-4
(2005), p. 47.
31
Ibidem, p. 34.
32
Ibidem, pp. 37-38.
33
Luigi Pulci, Il Morgante. Introduzione e note di Giuliano Dego. Milano, Rizzoli, 2002.
34
Ibidem, p. 44.
32 Sabina Longhitano
che, con alcune variazioni (ci convien ritornare, ci bisogna ritornare) compare
ben otto volte. Va osservato che la combinazione “lasciàn / e (ri)torniamo” in
Boiardo la ritroviamo solo due volte, ma senza ulteriori riferimenti spaziali
o di movimento: “Lasciam costoro, e torniamo a Ranaldo, / Che nella mente
tutto se rodia” (I, IV, 63. 1-2); “Lasciàn costor, che del forte girone / Aprian
la porta, e il ponte fan callare; / E ritornamo a Ranaldo de Amone” (I, XXVI,
14, 1-3).
Questa tecnica eminentemente pulciana è presente nel Furioso: “Lasciàn
costui, che mentre all’altrui vita / ordisce inganno, il suo morir procura; / e tor-
niamo alla donna che, tradita, / quasi ebbe a un tempo e morte e sepoltura” (III,
6, 5-8).35 La variatio ariostesca affida lo stesso ruolo anche a “seguitiamo”, che
rafforza la denotazione fisica e spaziale del cambio di personaggio, e compare
tre volte: “Segue Rinaldo e d’ira si distrugge: / ma seguitiamo Angelica che
fugge.” (I, 32, 7-8); “Ma seguitiamo il cavallier ch’in fretta / brama trovarsi
all’isola d’Ebuda” (XI, 28, 1-2); la terza occorrenza sdoppia la prospettiva del
narratore, che da onnisciente diventa di colpo omodiegetica: “Non dubitate
già ch’ella non s’abbia / a provedere; e seguitiamo Orlando, / in cui non cessa
l’impeto e la rabbia / perché si vada Angelica celando” (XXIX, 67). Un’altra
variatio ariostesca sul tema del “lasciàn” mostra una doppia prospettiva, prima
interna e poi piú che onnisciente direi onnipotente: “Ma lasciàn Bradamante, e
non v’incresca / udir che cosí resti in quello incanto; / che quando sarà il tempo
ch’ella n’esca, / la farò uscire, e Ruggiero altretanto.” (XIII, 80, 1-4).
Anche questo sdoppiamento della prospettiva ha un precedente in tre stra-
ordinarie ottave dell’ultimo cantare del Morgante:
35
Ludovico Ariosto, Orlando Furioso. Prefazione di Ermanno Cavazzoni, cura di Giuliano
Innamorati. Milano, Feltrinelli, 1995.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 33
Pulci’s work on the Morgante and its continuations over more than twenty
years effectively created a new genre of narrative poetry, characterized by
the presence in the text of a self-aware narrator able to exploit his rela-
tionship with his material and with his audience, resulting in a high level of
topicality, verbal humour and parody.36
36
Mark Davie, Half-serious Rhymes. The Narrative Poetry of Luigi Pulci. Dublin, Irish
Academic Press, 1998, p. 27.
34 Sabina Longhitano
dividuato come una fonte dominante nei Cinque Canti38 e nelle commedie, Il
negromante in particolare.39
Nell’ultimo esempio di questa sezione, il punto di partenza è il celeberri-
mo verso dantesco “di qua di là di sú di giú li mena” (Inferno V, 43).
Se la semplice combinazione “di qua di là” è comunissima sia nella Spa-
gna che nel Morgante, nell’Innamorato e nel Furioso, quella piú complessa
“di qua di là di su di giú” non compare nell’Innamorato e la troviamo una volta
nella Spagna, XIII, 23, 4-5: “L’uno con l’altro molti colpi dava / In qua, in là,
in su, in giú, da parte” ed una nel Morgante, XIX, 81, 5-8: “Margutte in giú e ’n
sú, di qua, di là / dell’acqua va cercando il me’ che può, / tanto che pur trovava
un fossatello, / e d’acqua presto n’empieva il cappello”.
Se nella Spagna l’espressione descrive, sulla scorta dantesca, il caos della
battaglia, è interessante osservare che nel Morgante l’unica volta che si usa
quest’espressione emerge inoltre la connotazione di labirinto, di sforzo fru-
strato, di vanità della ricerca; ed è questa connotazione ad essere ripresa e
amplificata nel Furioso. Si tratta di un caso in cui una memoria intertestuale
“stratificata” (l’Inferno, la Spagna, il Morgante) diventa, per mezzo della ripe-
tizione e della variatio, memoria interna del poema.
IV, 44
Ruggier, Gradasso, Sacripante, e tutti
quei cavallier che scesi erano insieme,
chi di sú, chi di giú, si son ridutti
dove che torni il volatore han speme
XII
10, 5
Di su di giú va il conte Orlando e riede
18, 5
Di su di giú va molte volte e riede
19, 1-2
Poi che revisto ha quattro volte e cinque
di su di giú camere e logge e sale
29, 3
di su di giú, dentro e di fuor cercando
79, 1-2
38
Alberto Casadei, “The History of the Furioso”, Donald Beecher, Massimo Ciavolella e
Roberto Fedi, ed., Ariosto Today. Contemporary Perspectives. Toronto, Toronto University Press,
2003, p. 65.
39
April D. Weintritt, Pulci’s Transgressive Poetry and Two Sixteenth-Century Comedies. M.
A. dissertation, University of Carolina at Chapel Hill, 2012.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 37
XXIV, 14, 1
Di qua, di là, di su, di giú discorre
XXIV, 2
Vari gli effetti son, ma la pazzia
è tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giú, chi qua, chi là travia.
40
Sulle apostrofi pulciane, si veda M. Olsen, art. cit., p. 40.
38 Sabina Longhitano
II, 42.
Orlando, come e’ giunse, gli domanda:
-Ditemi un poco, perché v’azzuffate?
41
Purtroppo non ho potuto avere in mano l’Orlando mediceo, riconosciuto, anche se non
senza polemica, come una fonte diretta di Pulci; ma la superiorità stilistica, lessicale, sintattica e
metrica del Morgante rispetto alle sue fonti è già stata ampiamente mostrata da critici come Remo
Ceserani, “L’allegra fantasia di Luigi Pulci e il rifacimento dell’Orlando”, in Giornale Storico
della Letteratura Italiana, 135 (1958), pp. 174-214.
42
Per l’iconografia del motivo misogino e caricaturale della vecchia brutta ed elegante (e
quindi ridicola), si veda per esempio La Duchessa brutta, un dipinto di Quentin Massys del 1513,
conservato alla National Gallery di Londra, basato probabilmente su una caricatura di Leonardo o
su un disegno di Wenceslaus Hollar.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 39
“per gentilezza” gli si accosta per offrirgli di aiutarlo a risalire in arcione, e ciò
provoca un “doppio scorno”, consolandolo con le sue sagge parole:
Sia nell’episodio pulciano (VII, 57-69) che in quello ariostesco (I, 64-
71) c’è una forte corrispondenza tematica e di parole chiave: la presenza e lo
sguardo della donzella, in Pulci “Ed ogni cosa la donzella vide”, in Ariosto
“Angelica presente al duro caso”; la reazione fra cortese e divertita della don-
zella, in Pulci “e fra se stessa di tal colpo ride.”, “Per gentilezza allor quella
fanciulla / se gli accostava e diceva: — Ulivieri, / rimonta, vuoi tu aiuto? in sul
destrieri”, “Meredïana pigliava la briglia, / dicendo: -Monta, cavaliere ador-
no”, in Ariosto “sua donna poi / fu che gli tolse il gran peso d’adosso”, “Mentre
costei conforta il Saracino”; i discorsi delle donzelle (citati supra); il tema
della perdita della fama, e dell’onore, nel Morgante “caduto son dirimpetto
alla dama, / donde ho perduto il suo amore e la fama”, e nel Furioso “tu dei
saper che ti levò di sella / l’alto valor d’una gentil donzella. […] fu Bradamante
quella che t’ha tolto / quanto onor mai tu guadagnasti al mondo”; la fenomeno-
logia della vergogna, nel Morgante Ulivieri “mena vampo / e per dolore il cor
se gli divide”, “Non domandar se questo il cor gli tocca”, “Or questo fu ben
del doppio lo scorno, / e parve fuoco la faccia vermiglia: / are’ voluto morire in
quel giorno”, “e per dolor dubitò sanza fallo / non poter risalir sopra il cavallo”,
“Ulivier tutto arrossí, come fanno / gli amanti presso alla dama, il visaggio”;
“Io vorrei esser morto veramente / quand’io cascai che tu v’eri presente”; nel
Furioso, Sacripante “Sospira e geme, non perché l’annoi / che piede o braccio
s’abbi rotto o mosso, / ma per vergogna sola, onde a’ dí suoi / né pria né dopo
il viso ebbe sí rosso:”, “Muto restava”, “il Saracin lasciò poco giocondo, / che
non sa che si dica o che si faccia, / tutto avvampato di vergogna in faccia”, e
infine “tacito e muto: / e senza far parola, chetamente”, ma è ciò che segue,
solo nella variatio ariostesca, a sintetizzare l’effetto finale del paradosso: “tol-
se Angelica in groppa, e differilla / a piú lieto uso, a stanza piú tranquilla”.
Se il fedele Ulivieri, amante corrisposto di Meredïana, pur vergognoso
accetta che la donna lo vendichi sfidando a duello Manfredonio: “Disse Uli-
vier: — Se cosí ti contenti, / che poss’io dir, se non ch’io affermo e lodo?”,
diversi sono gli esiti dello scorno nel Furioso descritti in due intere ottave, una
al principio dell’episodio, che descrive l’effetto del disarcionamento con una
efficacissima similitudine:
71
Poi che gran pezzo al caso intervenuto
ebbe pensato invano, e finalmente
si trovò da una femina abbattuto,
che pensandovi piú, piú dolor sente;
montò l’altro destrier, tacito e muto:
e senza far parola, chetamente
tolse Angelica in groppa, e differilla
a piú lieto uso, a stanza piú tranquilla.
(Furioso, I, 71)
V, 60 Furioso XXIV, 8
tanto che l’aria e la terra rimbomba Già potreste sentir come ribombe
e si sentiva un suon fioco e interrotto l’alto rumor ne le propinque ville
come quando esce il sasso della fromba: d’urli e di corni, rusticane trombe.
are’ quel colpo ogni adamante rotto; e piú spesso che d’altro, il suon di squille;
giunse in sul masso sopra della tomba e con spuntoni ed archi e spiedi e frombe
e féssel tutto come un cacio cotto; veder dai monti sdrucciolarne mille,
partí il cervello e ‘l capo e ‘nsino al piede ed altritanti andar da basso ad alto,
al crudel mostro; e sciocco è chi nol crede. per fare al pazzo un villanesco assalto.
Salta agli occhi la parola “rimbomba” della Sferza, in fin di verso, ripresa
da tutti gli altri testi (in Furioso, con la variatio “ribombe”), ed in rima con
“tromba”, ripreso dal Furioso con la variatio “trombe”, mentre nel Morgante
e nell’Innamorato si riprende un’altra rima, “tomba”. La rima “fromba”, del
Morgante, viene ripresa sia dall’Innamorato che, con la consueta variatio, dal
Furioso, “frombe”.
È Pulci l’unico a riprendere il riferimento ad Ecco, ma è Ariosto l’unico
a utilizzare la citazione con la stessa intenzione comunicativa dell’originale,
in funzione di una descrizione caricaturale e fortemente spregiativa dei con-
tadini: nella Sferza i “rustichi crudel”, nel Furioso il “villanesco assalto” e le
“rusticane trombe”; affinché “risuoni per tutto la lor fama” “di ville in valle”
nella Sferza, e “l’alto rumor” che si diffonde “ne le propinque ville” nel Furio-
so. Invece l’Innamorato sembra riecheggiare la stessa funzione della seconda
citazione del Morgante, quella di mostrare la forza sovrumana di Orlando: il
verso boiardesco “sembrava un sasso uscito da una fromba” riprende chiara-
mente quello pulciano “come quando esce il sasso dalla fromba”. Quest’esem-
pio sembra suggerire, oltre all’estrema popolarità della Sferza, che la relazione
dell’Innamorato con questo testo può essere stata mediata da Pulci, mentre
43
Cito la Sferza dei villani nell’edizione di Domenico Merlini, contenuta nell’“Appendice”
al Saggio di ricerca sulla satira contro il villano. Torino, Loescher, 1894.
44 Sabina Longhitano
Ariosto mostra di aver ben presente —e di dialogare— sia con la Sferza che
con il testo pulciano, che è il primo dei tre a riprendere la Sferza.
Infine bisogna notare che la rima ville / squille del Furioso rimanda a
Morgante IV, 38, 7-8: “cominciono a veder casali e ville / e sopra a’ campanil
gridar le squille”.44
Sempre nel canto V del Morgante, dopo l’ottava 60 che ho appena presen-
tato, in cui si narra l’uccisione di un mostro da parte di Rinaldo, segue:
Il tema del sasso ridotto in schegge compare nell’episodio della pazzia di Or-
lando, quando il mesto conte distrugge il locus amoenus teatro dell’amore di
Angelica e Medoro. E mi sembra significativo che nel caso del Morgante la
distruzione del sasso è in funzione della distruzione di un mostro “reale” da
parte di Rinaldo, e, nel secondo, del tentativo di distruggere un incubo, un
mostro della mente, da parte di Orlando: entrambi “signor di Montalbano”,
entrambi arrivati in quel luogo per caso. Nel Furioso inoltre il sasso è anche
uno scritto, e di fatto è proprio lo scritto e non il sasso in sé a causare la reazio-
ne di Orlando; nel Morgante invece lo scritto, inciso con la spada da Dodone,
è successivo all’abbattimento del mostro e serve a ricordare l’avvenimento
narrato a futura memoria.
La parola “sasso” è molto presente nell’episodio ariostesco: un esempio
per tutti “rimase al fin con gli occhi e con la mente / fissi nel sasso, al sasso
indifferente” (XXIII, 111, 7-8), che chiarisce proprio il valore del sasso solo
come supporto dello scritto, che è la causa reale della furia di Orlando, cosí
come, nell’episodio pulciano, il sasso è solo ciò che contiene il mostro che
Rinaldo deve uccidere.
44
Sull’importanza della rima nell’evocazione intertestuale, si veda Stefano Nicosia, “Spie
intertestuali negli incipit di alcuni poemi burleschi in ottave tra Cinquecento e Settecento: appunti
per una rilettura”, in Esperienze Letterarie, xxxviii/2 (2013), pp. 71-86.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 45
XXIV, 1
Chi mette il piè su l’amorosa pania,
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
che non è in somma amor, se non insania,
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno piú espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
3, 7-8
ma tosto far, come vorrei, nol posso;
che ‘l male è penetrato infin all’osso.
Oltre alla rima comune “esso” ed alla parola “promesso”, e le due parole in
rima “posso” ed “osso”, chiare spie di relazione intertestuale, è soprattutto il
topos dell’amore che spossessa l’amante di sé e la “sentenza peraltro già dif-
46 Sabina Longhitano
fusa nella tradizione volgare”:45 “lasciar costei dunque io non voglio o posso
/ però che questo è mal che sta nell’osso” (Morgante XVI, 55, 1-4) “ma tosto
far, come vorrei, nol posso / che ’l male è penetrato infin all’osso” (Furioso I,
3, 7-8.).46
Questo è un egregio esempio della tecnica ariostesca di evocazione, in-
treccio e livellamento delle fonti piú disparate all’interno dello stesso episodio,
una combinazione funzionale al “tono medio” ariostesco, che normalmente
prende le distanze sia dall’eccesso comico che da quello tragico.
La pazzia di Orlando ha caratteri ferini sulla scorta della follia di Tristano,
ma anche iperbolici, cioè comici e carnevaleschi, mutuati dalla caratterizzazio-
ne di Morgante; per esempio quando, nella sua prima apparizione, sradica gli
alberi, proprio come Orlando impazzito:
La similitudine ariostesca per cui Orlando sradica gli alberi “Come fosser fi-
nocchi, ebuli o aneti” è una variatio di quella pulciana “come s’un gambo di
finocchio fosse”, riferito però all’uso che fa Morgante di un albero come stuz-
zicadenti dopo aver divorato da solo un elefante, in una scena iperbolica tipi-
camente pulciana. Attraverso l’evocazione del mondo del Morgante, la pazzia
di Orlando si tinge cosí di toni iperbolici, comici e carnevaleschi.
Sempre nel I canto, Morgante riceve in dono dall’abate un bel cavallo, lo
monta e lo fa scoppiare per il suo peso. Poi, sebbene Orlando cerchi di con-
vincerlo ad abbandonare il cavallo in quanto inutile, Morgante gli chiede aiuto
per caricarselo addosso e lo porta via. Nel canto XXIX del Furioso è proprio
Orlando pazzo a riservare lo stesso trattamento alla giumenta di Angelica (67-
72): prima la sfinisce, poi l’azzoppa, quindi se la carica in spalla, e, “sentendo
poi che gli gravava troppo” (Furioso, XXIX, 70, 1) cerca di farla cammina-
re ma finisce per trascinarla per una zampa, facendola morire in malo modo;
Anche Blasucci aveva notato la paternità pulciana di quest’espressione (art. cit., p. 209),
46
ciononostante “Di trarla, ancorché morta, non rimase” (XXIX, 72, 1), in una
straordinaria amplificazione comica dell’episodio pulciano.
Un ulteriore spia di intertestualità è rappresentata dalla parola “giotto”,
che compare nel Furioso nell’episodio dell’incontro del pazzo con Angelica
e Medoro (XXIX, 61: “Come di lei s’accorse Orlando stolto, / per ritenerla si
levò di botto: / cosí gli piacque il delicato volto, / cosí ne venne immantinente
giotto”)47 è, nella variante “ghiotto”, parola del Morgante, spesso riferita al
gigante o a Margutte.
47
Quest’aggettivo è anche usato da Ariosto per caratterizzare il personaggio del protagoni-
sta, mastro Iachelino, nel Negromante, le cui relazioni col Morgante sono state messe in luce da
Weintritt.
48 Sabina Longhitano
71
e cosí la strascina, e la conforta
che lo potrà seguir con maggior agio.
Qual leva il pelo, e quale il cuoio porta,
dei sassi ch’eran nel camin malvagio.
La mal condotta bestia restò morta
finalmente di strazio e di disagio.
Orlando non le pensa e non la guarda,
e via correndo il suo camin non tarda.
72
Di trarla, anco che morta, non rimase,
continoando il corso ad occidente;
e tuttavia saccheggia ville e case,
se bisogno di cibo aver si sente;
e frutte e carne e pan, pur ch’egli invase,
rapisce; ed usa forza ad ogni gente:
qual lascia morto e qual storpiato lassa;
poco si ferma, e sempre inanzi passa.
XXX, 11
Cominciò il pazzo a gridar forte: -Aspetta! -
che gli venne disio d’andare in barca.
Ma bene invano e i gridi e gli urli getta;
che volentier tal merce non si carca.
Per l’acqua il legno va con quella fretta
che va per l’aria irondine che varca.
Orlando urta il cavallo e batte e stringe,
e con un mazzafrusto all’acqua spinge.
Oltre a una chiara corrispondenza del tema, che è un tema carnevalesco, legato
ad una materializzazione del “mondo alla rovescia” nella figura del cavaliere
che trasporta il proprio cavallo, e alla parola “giotto”, le spie interstestuali sono
molte, a cominciare dall’evocazione delle tre parole in rima dell’ottava 72 di
Pulci, “morto / conforto / porto” che, nell’ottava 71 di Ariosto presentano la
variatio “conforta / porta / morta /”. Non è poi un caso che una parola pulciana
come “mazzafrusto” (in Pulci ne troviamo otto occorrenze —al singolare o al
plurale— ed è quasi sempre uno strumento da giganti, mentre non compare
mai nell’Innamorato né nella Spagna) appaia una sola volta nel Furioso, in
questo stesso episodio (XXX, 11, 8). Inoltre, in XXIX, 72 Ariosto descrive il
comportamento del pazzo Orlando, che è molto simile a quello di Morgante e
Margutte quando rubano il cibo picchiando gli osti, usando la parola “frutte”,
che è parola pulciana a doppio senso: “frutta” e “botte”:
Nel Furioso questa parola compare solo due volte, ma solo qui in un contesto
che evoca il mondo del Morgante: “Frutte e carne e pan, pur ch’egli invase /
rapisce”, riecheggiando inoltre, di questo stesso episodio del Morgante, l’ae-
numeratio “vino, carne e pan” (Morgante XVIII, 154).48
La caratterizzazione della pazzia di Orlando —“d’uom che sí saggio era sti-
mato prima”— è (anche) una rappresentazione del “mondo alla rovescia”, un
fenomeno carnevalesco e pertanto iperbolico, grottesco, comico: Ariosto ha il
Morgante nell’orecchio, ed è proprio in funzione di un’espressività iperbolica
e carnevalesca che se ne evocano passaggi con queste spiccate caratteristiche.
A farvi caso, sono esattamente quelle che ornavano di norma i bordi delle
carte tra Quattro e Cinquecento, cosí fedelmente e puntualmente descritte
che si potrebbe con un poco di pazienza risalire in modo alquanto agevole
alla mappa o alle mappe (piú probabilmente all’edizione o alle edizioni del
48
Del resto anche la parola “mazzafrusto” ha una connotazione oscena registrata dal Tesoro
della Lingua Italiana delle Origini, che cita un esempio tratto dal Trecentonovelle di Sacchetti,
proprio a proposito di un cavallo: “il vostro cavallo ne va drieto una cavalla col mazzafrusto teso”
(novella 159).
50 Sabina Longhitano
49
Franco Farinelli, “Ipotesi sul Furioso”, in Sandro Parmiggiani, ed., L’Orlando furioso. In-
cantamenti, passioni, follie. L’arte contemporanea legge l’Ariosto. Catalogo della mostra. Reggio
Emilia, Silvana, 2014, pp. 113-127.
50
Lorenzo De’ Medici, “Canzona di Bacco”, in Gianfranco Contini, ed., Letteratura italia-
na del Quattrocento. Firenze, Sansoni, 1976, pp. 429-431.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 51
51
Blasucci (art. cit., pp. 209-210) aveva notato questa parola come una ripresa dantesca e
pulciana in Ariosto, ma non è necessario concludere —come Blasucci— che in questo passo Dante
è ripreso attraverso la mediazione pulciana: si tratta di un ennesimo caso di “contaminazione”
delle fonti, di evocazione “stratificata”, tipica del Furioso.
52
Pio Rajna, Le fonti dell’Orlando furioso. Ristampa della seconda edizione 1900 accre-
sciuta d’inediti. A cura e con presentazione di Francesco Mazzoni. Firenze, Sansoni, 1975.
53
Cito dall’edizione di Rajna apud Tito Saffioti, I giullari in Italia. Lo spettacolo, il pubbli-
co, i testi. Milano, Xenia, 1990, p. 491.
52 Sabina Longhitano
Conclusioni
La somiglianza della voce narrante ariostesca con quella pulciana piuttosto che
con quella boriardesca, definita come un’affinità al livello della pragmatica del
testo, cioè relativa alla relazione concreta dell’autore e del suo narratore con
la propria materia, da una parte, e col proprio pubblico, dall’altra, si configura
come un aspetto di modernità del dettato cavalleresco introdotta da Pulci e
perseguita anche e naturalmente da Ariosto, una modernità che colloca questi
due testi al di sopra della massa del materiale precedente.
Blasucci, considerando l’enumerazione sia lessicale che sintattica come
una cifra comune alla tradizione canterina, al Morgante —in cui essa “diventa
un principio compositivo, un modo di appropriazione e insieme di ricreazione
del reale”–,54 all’Innamorato, al Mambriano e al Furioso, analizza la modalità
stilistica delle strutture enumeratorie nel Morgante e nel Furioso, individuando
nello stile pulciano un’“espressività ascendente”, che colloca le parole esoti-
che, o comunque lessicalmente o fonicamente espressive, a fine verso, rallen-
tando il ritmo dell’ottava, e in quello ariostesco un’“espressività discendente”,
che tende a smorzare la forza espressiva di queste parole inserendole in un
montaggio che risente della “numerosità” petrarchesca, risolvendole nel ritmo
piú complesso del verso e dell’ottava. Ma sulla funzione di questa struttura si
limita a concludere che all’accumulazione pulciana, lessicale e giustappositi-
va, corrisponde l’enumerazione ariostesca come fatto metrico, come un ritmo
all’interno dell’organizzazione dell’ottava:55 modalità e funzioni interamente
stilistiche, quindi, non discorsive, non argomentative né tematiche.
In questo studio ho identificato nel Furioso alcuni echi intertestuali les-
sicali e stilistici del Morgante che spesso si intrecciano a riprese boiardesche
—come una loro riscrittura toscana— ricollegandosi anche alla tradizione can-
terina, sulla scorta del lavoro di Blasucci. Per questo tipo di esempi vale la
pena citare un’acuta distinzione di Cabani all’interno dell’intertestualità ario-
stesca: Cabani sottolinea che la relazione non solo con l’Innamorato ma anche
con la lirica boiardesca,56 è peculiarmente di occultamento, in opposizione alla
relazione di allusione che presiede all’intertestualità ariostesca in generale.
Lo stesso succede con Ovidio —narratore “ironico”, distaccato dalla propria
materia—, che nelle Metamorfosi opera una trasgressione del modello epico:
sono ovidiane “le strategie retoriche, di modalità proprie del narrare e, so-
prattutto, di un atteggiamento ‘ironico’, cioè distanziato dagli eventi, ottenuto
54
L. Blasucci, op. cit., p. 217.
55
Ibidem, pp. 219-221.
56
C. Cabani, art. cit., p. 22.
Una rivalutazione della presenza del Morgante nel Furioso 53
57
Ibidem, p. 24.
58
Ibidem, p. 25.
59
Sabina Longhitano, “Un estudio preliminar sobre las fuentes del episodio de la locura de
Orlando: su significado e interpretación en el marco de la poética ariostesca y de la cultura huma-
nista y renacentista”, in Anuario de Letras Modernas, 16 (2012), p. 21.
60
Massimo Colella, “L’episodio del liocorno: un’impresa ‘eroicomica’ nel pellegrinaggio
gastronomico di Morgante e Margutte (Morgante, XVIII, 188-200)”, in Studi Rinascimentali, 11
(2013), p. 52.
54 Sabina Longhitano
1
Jean Chevalier y Alain Gheerbrant, Diccionario de los símbolos. Barcelona, Herder,
1986, s. v. mar.
2
Lorena Uribe Bracho, El amor como travesía marítima: la evolución de un tópico en el
soneto renacentista y barroco, tesis. México, unam, 2013, p. 59.
3
Antonio de Guevara, Menosprecio de corte y alabanza de aldea. Ed. Asunción Rallo.
Madrid, Cátedra, 1984, p. 359.
55
56 Yordi Enrique Gutiérrez Barreto
La mar a nadie convida ni a nadie engaña para que en ella entren ni della se
fíen, porque a todos amuestra la monstruosidad de sus peces, la profundidad
de sus abismos, la hinchazón de sus aguas, la contrariedad de sus vientos, la
braveza de sus rocas, y la crueldad de sus tormentas, de manera que los que
allí se pierden no se pierden por no ser avisados sino por unos muy grandes
locos.4
Y aún frente a todas estas condiciones, el hombre navega. Así, ante las
consideraciones que he señalado con respecto al mar, navegar significa trasla-
darse de la esfera de lo conocido a la de los riegos y las amenazas constantes. Y
dentro de esta visión, una de las más peligrosas es la crueldad de las tormentas.
La tempestad marítima es el caos de los elementos de la naturaleza, y para
quien navega, la inseguridad de la vida misma. El momento más dramático de
una navegación que sufre la tempestad es el naufragio, donde la nave represen-
ta la protección entre los navegantes y el caos. De esta forma, como dice Josiah
Blackmore, el naufragio es la muerte de la nave y representa el choque violen-
to entre el artificio humano y el mundo natural.5 Así, las representaciones de
tempestades y naufragios han aparecido con una gran fortuna y desarrollo en
la historia de la literatura debido a los vínculos que establece con el vivir, el
pensar y el sentimiento humano.
En lo que se refiere al viaje marítimo, desde las primeras realizaciones
literarias se establecieron relaciones entre el sentir humano con determinados
temas y motivos literarios; y dentro de éstos, la representación de la tormenta
marítima ha sido uno de los elementos con mayor fortuna y desarrollo en la
historia de la literatura. Debo aclarar que para fines de este estudio me refe-
riré a las tempestades y naufragios como motivos literarios, es decir, como la
unidad mínima narrativa que expresa determinado sentido en la historia que
se desarrolla en el texto,6 debido a la naturaleza descriptiva que presenta la
épica. Asimismo, esta metodología “puede aplicarse a una amplia gama de
textos y géneros, permite el análisis narratológico desde el nivel más concreto
(el discurso) hasta el más abstracto (el mito), así como determinar los valores
constantes y variables de los modelos dinámicos”.7 De esta manera, se preten-
de explicar la construcción y el funcionamiento de dicho motivo en Orlando
furioso.
4
Ibidem, p. 358.
5
Josiah Blackmore, Manifest Perdition. Shipwreck Narrative and the Disruption of Empi-
re. Minneapolis, London, University of Minnesota Press, 2002, p. 52.
6
Aurelio González, “El concepto de motivo: unidad narrativa en el Romancero y otros
textos tradicionales” en Lillian von der Walde Moheno, ed., Propuestas teórico-metodológicas
para el estudio de la literatura hispánica medieval. México, unam-uam, 2003, p. 381.
7
Donají Cuéllar Escamilla, El modelo serrana. Libro de Buen Amor, Romancero, Leyenda
y Teatro del Siglo de Oro, tesis. México, El Colegio de México, 2003, p. 14.
Tempestades marítimas y naufragios en Orlando furioso 57
8
El motivo se encuentra en textos de carácter dramático, como la tragedia Agamenón de
Esquilo, pero el género donde tempestades y naufragios se reprodujeron con fortuna fue la novela
bizantina.
9
Santiago Fernández Mosquera, La tormenta en el Siglo de Oro. Variaciones funcionales
de un tópico. Madrid, Universidad de Navarra / Frankfurt, Iberoamericana Vervuert, 2006, p. 17.
10
Ibidem, p. 19.
11
Oliver Pot, “Prolégomènes pour une étude de la tempête en mer (xvie-xviiie siècles)”, en
Versants: Revue Suisse des Littératures Romanes, 43 (2003), p. 77.
58 Yordi Enrique Gutiérrez Barreto
Por otra parte, respecto a las imágenes poéticas empleadas para la forma-
ción del motivo, se pueden establecer tres esferas particulares: las imágenes re-
lacionadas con el mar y la tempestad, las que se refieren a la nave y, finalmente,
las que hablan del propio ser humano visto como navegante y náufrago, donde
se muestran imágenes relacionadas con su estado anímico, sobresaliendo el
sentimiento de miedo y dolor. En cuanto a la configuración de las imágenes, las
que pertenecen al mar y la tempestad se organizan a partir de una significación
negativa que provoca el daño en la nave y el ser humano, imágenes caracteri-
zadas por la fragilidad. Además, ambas se encuentran en relación y, en muchos
casos, representan los elementos principales del sentido metafórico.
El esquema narrativo del desenvolvimiento de la tempestad en secuencias
estables e identificables, además de la configuración y características de las
imágenes poéticas, son los ejes que sigue y muestra Orlando furioso. Así, a
partir de estas bases es posible realizar una categorización de las tempestades
marítimas y naufragios en el Furioso, y observar las características de cada
una de ellas.
El mar aparece continuamente en el poema de Ariosto. Es uno de los es-
pacios que cumple una función narrativa importante, tanto para los personajes
como para el desarrollo de la historia. En la geografía marítima de esta obra
aparecen diversos elementos que proyectan el aspecto positivo y negativo del
mar, como descripciones de los mares, navegaciones, viajes, abandonos, islas,
guerras navales, profecías de descubrimientos futuros y, finalmente, el objeto
de este estudio: las tempestades marítimas y los naufragios.
En Orlando furioso aparecen mencionadas 53 tempestades marítimas y
naufragios, de los cuales se pueden establecer 4 categorías. Así, la configura-
ción final se organiza en 31 tempestades, 18 naufragios, 3 fórmulas y 1 descrip-
ción de un blasón que exhibe un naufragio. Con respecto al desenvolvimiento
épico, existen 26 representaciones en total, de las cuales 14 son tempestades
marítimas épicas en las que se salva la nave y la tripulación al llegar a tierra
—a excepción de la que sufre Ruggiero y la tripulación–; mientras que hay 12
naufragios épicos presentes.
El motivo muestra su mayor desarrollo y riqueza de expresión, especial-
mente, en cuatro momentos de la historia: la tempestad que sufre Rinaldo (can-
tos ii y iv), el naufragio de Isabella (cantos xiii, xx, xxiii, xxiv), la tempestad que
padecen Marfisa, Astolfo, Aquilante, Grifone y Sansonetto (cantos xviii y xix)
y, por último, la tempestad a la que se enfrenta Ruggiero (cantos xli y xlii).
Esta última representa un caso especial, pues en el momento de la tempestad,
al creer todos que la nave se hundirá, se lanzan al agua, exponiéndose como
náufragos; pero después la nave llegará sana a tierra, aunque sin personas.
Estos cuatro sucesos —sobre todo los tres últimos— representan un mo-
mento de giro en la narración para el destino de los personajes. Además, es
60 Yordi Enrique Gutiérrez Barreto
interesante que, en estas cuatro expresiones del motivo, por la extensión y por
la importancia narrativa, se interrumpe la historia en el momento de intensidad
de la tempestad amenazante para intercalar otras historias anteriormente inte-
rrumpidas; posteriormente, se retoma el relato y se concluye. De esta forma,
se genera el suspenso.
En lo que se refiere al primer grupo de las tempestades, se puede hacer
una división de acuerdo con la posición temporal de la narración respecto al
suceso narrado. Así, se puede hablar de las generadas a través de una narración
simultánea al desarrollo de la tempestad, y de otras narradas una vez ocurridos
los hechos, sobre todo a manera de alusión. En las narraciones simultáneas
se desarrolla el motivo de forma amplia, en casi todos los casos con todas las
secuencias en un orden cronológico. Además, en estas tempestades el agente
causante es la naturaleza, aunque en la que se ubica en el canto xlii se dice cla-
ramente que es Dios quien causa la borrasca. Considero que ésta es la tempes-
tad que tiene una mayor importancia narrativa para la obra, pues desencadena
que Ruggiero se convierta al cristianismo y, por lo tanto, que pueda unirse a
Bradamante, marcando así el inicio de la familia de Este. Éste es el gran ejem-
plo de cómo no siempre la tempestad implica un sentido negativo o adverso
para el náufrago.
Esta tempestad propicia que Ruggiero llegue a la tierra del ermitaño, quien
ya había sido avisado en un sueño por Dios y que guiará al caballero moro al
cristianismo.
Por otra parte, en las alusiones a tempestades ya ocurridas vemos que la
expresión del motivo cambia, pues sólo se muestra una breve mención, sin la
presencia de todas las secuencias, como se observa en el siguiente ejemplo:
12
Ludovico Ariosto, Orlando furioso e cinque canti. A cura di Remo Ceserani e Sergio
Zatti. Torino, UTET, 1997, p. 1246-1247
Tempestades marítimas y naufragios en Orlando furioso 61
3. Irrupción de la tempestad
Inesperadamente, comienza la tempestad. El primer elemento en mostrar alte-
ración es el viento. Inclusive, dentro de las tempestades del Furioso, sin contar
las tres con valor de fórmula, en 20 de ellas se menciona explícitamente la tur-
bación de los vientos como el primer momento de la tempestad. En las siguien-
tes octavas se observa claramente la progresión, pues tras el viento se suscita
el oscurecimiento, la agitación del mar, truenos, relámpagos, nubes y hielo:
Ante este daño, los marineros hacen uso de su “arte”, es decir, realizan
todas las maniobras para evitar el naufragio. En las tempestades de los cantos
xviii y xli, encontramos un gran desarrollo de estas acciones, incluso se mues-
tran las ordenes que se les da a los marineros:
6. Agravamiento de la tempestad
Ya está presente la tempestad, pero el motivo en general se caracteriza por una
progresión que se hace cada vez más intensa; por ello, la voz narrativa hace
énfasis en el agravamiento de ésta y, por consiguiente, en la clara amenaza de
naufragio. En los siguientes versos incluso se utilizan los adjetivos superba y
arrogante para caracterizar a la tormenta:
7. Destrucción de la nave
Al intensificarse la tempestad, ocurre lo mismo con los daños de la nave, des-
encadenando una destrucción progresiva que provoca que cada vez entre más
agua y sea más latente la amenaza de hundimiento. La destrucción puede pro-
vocarse a través de los embates de la tormenta y el mar sobre la nave:
O también puede ser provocada también por un choque violento contra peñas-
cos, bajíos o contra un escollo, como parecía que ocurriría con la tempestad
de Ruggiero.
8. Hundimiento de la nave
En el caso de las tempestades donde no ocurre el naufragio total, el narrador
indica que, a pesar del daño, la nave puede seguir navegando, hasta que fi-
nalmente llegue a tierra. Pero cuando sí ocurre, ésta es la secuencia clave que
indica precisamente la distinción entre tempestad y naufragio. Tras los daños
irremediables de la nave, ocurre el hundimiento definitivo y total. En los si-
guientes versos se dice que la nave fue directa al mar tras romperse:
Por otra parte, la nave de Isabella naufraga, pero ella, al subirse a una barca,
se salva sin exponerse al mar. Los demás tripulantes, en cambio, mueren allí.
Tempestades marítimas y naufragios en Orlando furioso 67
71
72 Mario Murgia Elizalde
1
John Milton, El Paraíso perdido. Trad. de Enrique López Castellón. Madrid, Abada,
2005, p. 67.
2
La cita original de Milton proviene de Paradise Lost i, 16. El italiano original de Ariosto
reza: “cosa non detta in prosa mai né in rima” (Orlando furioso, i, 2, v. 2). Como podrá observarse,
el verso de Milton es una traducción casi literal del italiano, si no fuese porque la oralidad que persi-
gue Ariosto (“non detta”) encuentra una forma de expresión más bien parafrástica en un attempt (o
“intento”). Nótese que en su traducción española de El Paraíso perdido, López Castellón favorece la
narrativa de hechos heroico-espirituales. La versión de Petrarca en Triumphus cupidinis, IV, 70-71, es
la siguiente: “che né ’n rima poria / né ’n prosa ornar assai né ’n versi.” Finalmente, Horacio escribe:
“Carmina non prius audita musarum… cano” en sus Carmina (Odas, iii, 1, vv. 2-4).
3
R. Ceserani y L. de Federicis, Il materiale e l’immaginario. Manuale e laboratorio di let-
teratura, vol. 3.1, La società signorile. Quattrocento e Cinquecento 1378-1545. Torino, Loescher,
2002, p. 149.
De armas y plumas: traducir el Orlando furioso al inglés 73
4
Baste aquí mencionar un ejemplo famoso en este sentido: el “Cuento del terrateniente”
(como Pedro Guardia Massó ha traducido “The Franklin’s Tale”), incluido en Los cuentos de Can-
terbury de Geoffrey Chaucer. Aquella pieza narrativa que Chaucer reconfigura en lo que algunos
consideran su magnum opus como un lay bretón versificado aparece originalmente, dos veces, en
la obra de Boccaccio: en el libro cuarto del Filocolo y en la última jornada del Decameron, como
relato ejemplar de la generosidad.’
5
Lawrence Venuti, “Translation, Community, Utopia”, en The Translation Studies Reader.
New York, Routledge, 2004, p. 469.
6
Orlando Furioso in English Heroical Verse, by Sr Iohn Haringto[n] of Bathe Knight
<http://quod.lib.umich.edu/e/eebo/A21106.0001.001/1:4?rgn=div1;view=fulltext>. [Consulta: 16
de marzo, 2018.] Todas las citas de la versión inglesa del Furioso provienen de la misma fuente, la
cual no incluye números de página.
De armas y plumas: traducir el Orlando furioso al inglés 75
Idem.
7
Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione. Bologna, Il Mulino, 1983, p. 88.
8
76 Mario Murgia Elizalde
9
“Hipertexto del Orlando furioso”, trad. Jerónimo de Urrea. <http://stel.ub.edu/orlando/>.
[Consulta: 16 de marzo, 2018.]
10
Esto contrasta de forma evidente, en cuanto a registro y tono, con el “si diè vanto di ven-
dicar” de Ariosto y el “vow’d to wreake death” de Harington.
De armas y plumas: traducir el Orlando furioso al inglés 77
11
Según Miguel Ángel De Bunes Ibarra, en cuanto a la palabra Berbería, “el primero que
busca la etimología y el significado de la misma es Mármol Carvajal. Siguiendo el texto de Juan
León ‘El Africano’, que a su vez emplea a Ibn Jaldūn, fija tres posibles orígenes para ella”. El
“origen” que nos interesa, por referirse a la naturaleza despectiva del término, es el tercero, el cual,
según De Bunes, “obtuvo más éxito en la España del momento [los siglos xvi y xvii]: ‘que cuando
los romanos conquistaron la Affrica llamaron a esta parte de tierra Barbaria, porque hallaron la
gente de ella tan bestial que aun en la habla no formavan mas acento que los animales, y de alli se
llamaron Barbaros’”. Carvajal apud De Bunes, La imagen de los musulmanes y del norte de África
en los siglos xvi y xvii. Los caracteres de una hostilidad. Madrid, Consejo Superior de Investiga-
ciones Científicas, 1989, p. 17.
12
El término también se utilizaba para referirse a los árabes y a los musulmanes de Anda-
lucía, así como a los almorávides de África occidental. Véase De Bunes, op. cit., pp. 19-21.
13
Véase Lawrence Venuti, op. cit., p. 469.
78 Mario Murgia Elizalde
Por crudo y parcial que esto pudiese sonar, y con todo el humor y la
ironía que corresponde, el cura de Cervantes ha dado en el clavo al referirse
a los poetas y traductores en términos de esfuerzo, habilidad y hasta de do-
lor, si ha de estirarse un poco la metáfora del “primer nacimiento”. A fin de
cuentas, las traducciones más eficientes y los rifacimenti más satisfactorios (y
esto únicamente en el sentido de la recepción) son por lo general aquellos que
desafían el original, aquellos que llevan las posibilidades representacionales
de la lengua a extremos retóricos sorprendentes. O bien, como sostiene Edith
Grossman en términos más o menos mercantiles: “A mindless, literalist trans-
lation would constitute a serious breach of contract”.15 Luego entonces, la falta
contractual no se daría sólo entre traductor y editorial, sino, de manera más sig-
nificativa, entre poeta, traductor y público. Esto se debe a que, entre aquellos
tres, el contrato, por metafórico que sea, se ve determinado por una serie de
expectativas de convencimiento, no tanto así de reproducción literal. De esto
deviene que la idea de lograr al menos cierto grado de fidelidad —es decir, “el
punto” al que se refiere el cura-crítico de Cervantes— sea tan sólo un ideal.
En este sentido, la fidelidad poética, al menos en el caso de aquella que ha de
procurársele al Furioso de Ariosto, se manifiesta tal vez con más claridad en
el enamoramiento (un caso extremo de convencimiento) italianizante que sus
traductores padecen y en las formas que tal infatuación con la lengua italiana
encuentra más apropiadas al momento de articularse los versos. No obstante,
y como bien sabemos, el enamoramiento es, indefectiblemente, fuente inago-
table tanto de idealización como de pena. Observemos pues la octava 61 del
canto XLIV del Furioso, en la que Bradamante envía una apasionada misiva a
Ruger o, si se prefiere, a Ruggiero:
Nótese que Harington ha sustituido el nombre del héroe con el dulce epí-
teto yámbico “my deare”. ¿Será que el traductor está evitando conscientemente
la dificultad de pronunciar en voz alta algo así como “Ruggier [en sí mimo
un yambo], as erst I…”? Esto constituye un marcado contraste con la muy
poco sentimental inmediatez de Bradamante al llamar a Ruger por su nombre.
A continuación, en observancia a la tradición a la que pertenece, Harington
requiere construir sus rimas con algunos monosílabos que, comparativamente
hablando, pudiesen resultar un tanto sosegados en el sentido fonético: bide /
pride, cast / fast). Un poco más difícil de justificar es el pareado unremovable
/ unreproveable, que, por el carácter plurisilábico y esdrújulo de los vocablos,
se percibe poco eufónico y aun tortuoso en el sentido prosódico. Sin embargo,
los escollos retóricos que lo anterior presupone se ven superados, en buena
medida, gracias a la habilidad que, por otra parte, reflejan algunas de las solu-
ciones de Harington. Entre éstas pueden contarse ciertas paráfrasis e incluso
reescrituras de algunos pasajes. Obsérvese, por ejemplo, el verso “My stable
faith shall never faile nor slide”. Dado que aquí el sujeto es Bradamante, su
80 Mario Murgia Elizalde
16
Urrea nunca se ocupa de este asunto en su advertencia a los lectores. Sin duda, su patro-
no, Felipe II, el Prudente, hubiese encontrado el tema poco más que inapropiado. El prefacio de
Harington, sin embargo, es particularmente explícito con respecto a la “lascivia literaria” de la
corte de Isabel I: en varios pasajes del mismo alude a las supuestas obscenidades de Ariosto y a
De armas y plumas: traducir el Orlando furioso al inglés 81
sus propios métodos para lidiar con ellas en su traducción. Harington, quizá a diferencia de Ur-
rea, está consciente de su papel no sólo como hombre de letras, sino también como artista, como
“animador”, de la corte.
82 Mario Murgia Elizalde
del abuso que Angélica enfrenta; también pospone los rubores de la heroína,
mientras que el poeta italiano es mucho más presuroso al mencionarlos. A pe-
sar de su evidente expresión de vergüenza, cuando la Angélica de Harington
finalmente reacciona ante los embates del anciano, lo hace con violencia. Ade-
más de empujarlo hacia atrás, ella…
17
“O Italy, the academy of manslaughter, the sporting place of murder, the apothecary
shop of poison for all nations; how many kind of weapons hast thou invented for malice?” Esta
cita proviene de la sátira Pierce Penniless, His Supplication to the Divell, escrita en 1592 por el
dramaturgo y poeta inglés Thomas Nashe (¿1567?-¿1601?). La italofobia isabelina, en enorme y
paradójico contraste con la admiración inglesa por las letras italianas de la época, se hace aquí
evidente.
De armas y plumas: traducir el Orlando furioso al inglés 83
But now it may be and is by some objected that although he [Ariosto] write
christianly in some places, yet in other some he is too lascivious. [A] las,
if this be a fault, pardon him this one fault, though I doubt too many of
you (gentle readers) wil be to exorable in this point, yea me thinks I see
some of you searching already for these places of the booke and you are
halfe offended that I have not made some directions that you might finde
out and read them immediatly. But I beseech you stay a while and as the
Italian saith Pian piano, fayre and softly, and take this caveat with you, to
read them as my author ment them, to breed detestation and not delectation
[…]. When you read of Alcina, thinke how Joseph fled from his intising
mistres; when you light on Anselmus tale, learne to loth bestly covetousnes;
when on Richardetto, know that sweet meate wil have sowre sawce; when
on mine hostes tale (if you will follow my counsell) turne over the leafe and
let it alone, although even that lewd tale may bring some men profit, and I
have heard that it is already (and perhaps not unfitly) termed the comfort of
cuckold.
22
M. Polizzotti, Sympathy for the Traitor. A Translation Manifesto. Cambridge, Mass., The
MIT Press, 2018, p. 53.
23
Aunque, de acuerdo con Miranda Johnson-Haddad, el poeta Ben Jonson (1572-1637) bien
pudo comentar alguna vez que, de las traducciones del Orlando Furioso al inglés, la de Harington
era la peor, el dramaturgo Francis Beaumont (1584-1616) dejó por escrito su opinión en cuanto a
que “[Ariosto] instructed by M. Harrington [sic] doeth now speak as good English as he did Italian
before”. Op. cit., pp. 326, 345.
Dissimulazione, simulazione e verità: uno sguardo a
La retorica delle puttane di Ferrante Pallavicino
Ferrante Pallavicino
“Intanto i miei libri che son fatti contro le regole si vendono dieci scudi il
pezzo a chi ne può avere, e quelli che sono regolati, se ne stanno a scopar
la polvere delle librarie”. Queste sono alcune delle famose righe che scrisse
Giambattista Marino in una lettera per il suo seguace Girolamo Preti nel 1624.1
Si capisce che il poeta napoletano si riferiva allora alle regole formali della
poesia. Tuttavia, le sue parole ben potevano valere anche per un’altra situazio-
ne. Tutto il Seicento è caratterizzato e, si può dire, imprigionato dalla censura
stabilita dalla Chiesa controriformista di Roma e dall’Impero spagnolo. La rot-
tura delle loro regole e il desiderio di evitare la censura potevano determinare
il successo entro un pubblico che non cercava novità di forma ma di pensiero
critico, tuttavia il prezzo di questa fama non solo era quello di vedere la propria
opera, totale o parziale, dentro l’Index librorum prohibitorum —come accadde
appunto con Marino— ma era quasi certo che l’autore sarebbe stato oggetto di
una persecuzione violenta che sarebbe finita con un processo e, in molti casi,
con la pena di morte. Questo fu infatti il destino del parmigiano e libertino
Ferrante Pallavicino, scrittore di grande successo, tradotto in molte lingue e
protetto specialmente da grandi personalità di Venezia.
Nato il 23 marzo 1615 nel nucleo della nobile famiglia del marchese Sci-
pione, famigliare lontano del cardinale Sforza Pallavicino, fu obbligato per
questioni economiche a rinunciare alla sua eredità a favore del fratello e ad
accettare di entrare nella vita monastica presso il convento milanese di Sta.
Maria della Passione (nella Congregazione dei canonici regolari lateranensi),
dove prese i voti nel 1631 col nome di Marcantonio di Parma. Durante la sua
breve vita, Ferrante Pallavicino entrò in contatto con diverse accademie, ma
il suo rapporto piú stretto fu con l’Accademia degli Incogniti, dove conobbe
una serie di personaggi che lo aiutarono lealmente durante le persecuzioni e il
processo che dovette affrontare. Incogniti per esempio furono l’amico Giovan-
ni di Francesco Loredan —patrizio veneziano fondatore di questa accademia,
1
Gian Battista Marino, apud Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana,
II, Dalla decadenza al Risorgimento. Torino, Einaudi, 2009, p. 17.
87
88 Sharon Suárez Larios
libertino non solo non smise di promettere l’opera anche se proibita, ma riferí
altresí pubblicamente che era stata censurata durante la dedica a Loredan nel
Principe hermafrodito (Venezia, 1640).
Al suo ritorno da un viaggio di pochi mesi in Germania, riscrisse il Cor-
riero, aggiungendo una lettera contro “chi proibisce i libri” e lo pubblicò clan-
destinamente, dopo una seconda censura, sotto lo pseudonimo di Ginifacio
Spironcini con l’aiuto dello stampatore Agostino Piccinini, assassinato pochi
giorni dopo la pubblicazione.4 Francesco Vitelli ordinò allora il sequestro del
Corriero clandestino e l’arresto dell’autore non ben dissimulato. Con questa
prima incarcerazione di Pallavicino, si creò una grande controversia nella sfe-
ra politica di Venezia e, grazie alla forte tensione esistente fra questa città e
Roma, per il feudo di Castro, che si voleva includere nello stato pontificio, il
parmigiano fu liberato il 28 febbraio 1642, con l’unica proibizione del Cor-
riero. Dopodiché Vitelli cominciò un processo segreto e una persecuzione
feroce contro Pallavicino, che riuscí a sfuggire grazie alla sua gran rete di
conoscenze; tuttavia, il 12 gennaio 1643 —con una valigia strapiena di libri
stampati e manoscritti inediti, tutti piuttosto compromettenti—, fu arrestato
una seconda volta dai gendarmi pontifici, a Pont de Sorgues, nel confine con
l’enclave di Avignone. Pallavicino, che cercava disperatamente di sfuggire a
tutte le minacce di morte, era caduto in trappola. Il nunzio Vitelli con l’aiuto
del francese Charles de Bresche, figlio di un famoso libraio parigino, e tramite
lettere fraudolente che promettevano incarichi alla corte di Francia, riuscí ad
allontanare Pallavicino dagli amici veneziani per poterlo imprigionare. Duran-
te il processo, il libertino negò in ogni momento che la valigia contenesse libri
che portasse con sé per sua volontà, fingendo che fossero piuttosto incarichi
di amici, anche se non fece molti nomi. E sosteneva che i manoscritti fossero
stati dettati sempre da altri, presentandosi come un semplice segretario. Le sue
dissimulazioni e simulazioni però non furono efficaci. Il 4 marzo 1644 fu de-
gradato dal Vescovo di Vaison e il giorno dopo, a soli 28 anni, venne decapitato
pubblicamente nella piazza del palazzo apostolico di Avignone, sotto l’accusa
di lesa maestà pontificia.5
4
“fu Agostino Piccinini, appena venticinquenne, a stampare nel 1641 clandestinamente
il Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino e ad essere trovato ferito a morte solo pochi giorni
dopo la conclusione del lavoro. Anche se nessun documento lega direttamente questo assassinio
alla pubblicazione di uno dei libri piú famosi del libertinismo seicentesco, di certo gli ambienti in
cui doveva muoversi non paiono esser tra i piú raccomandabili, popolati com’erano di spie e di
personaggi pronti al tradimento o al doppio gioco”. Mario Infelise, I padroni dei libri. Il controllo
sulla stampa nella prima età moderna. Roma, Laterza, 2014, p. 146.
5
Le informazioni sulla vita di Pallavicino provengono da M. Infelise, s. v. Ferrante Pal-
lavicino, op. cit., e Luca Piantoni, s. v. Ferrante Pallavicino, Dizionario di eretici, dissidenti e
inquisitori nel mondo mediterraneo. <http://www.ereticopedia.org/ferrante-pallavicino>. [Con-
sultazione: 20 febbraio, 2019.]
90 Sharon Suárez Larios
ta come fonte di riguardo l’Arte rhetorica del gesuita Cipriano Suárez, per
una retorica diretta alle puttane; e si legga qui “università delle cortigiane” sia
come la totalità delle cortigiane o precisamente come l’istituzione educativa
delle cortigiane. E come se non fosse chiaro con quest’introduzione, aggiunge
ne “L’autore ai lettori”: “La tessitura di questo libro porta nome di retorica per
essere conforme alle regole che sono indicate nella Retorica di Cipriano Suario
gesuita, la quale è ritenuta la migliore, e quindi la piú accettata nelle pubbliche
scuole” (p. 8).
Infatti, insieme alla Poeticarum institutionum di Gerardus Joannes Vos-
sius (1595), la Rhetorica di Suárez —per Pallavicino, Suario— era dal 1561 il
libro base di quasi tutte le scuole sotto la direzione della Compagnia di Gesú.11
Pallavicino menziona allora e in vari momenti della Retorica delle puttane
l’opera di Suárez, per evitare che il lettore dimentichi l’identificazione di tutte
e due le retoriche, dove una, con propositi intellettuali e pedagogici onesti, per
chiamarli in una certa maniera, è il modello di struttura dell’altra, con una fun-
zione piuttosto oscura, ma con sfumature disoneste —o magari non tanto—,
in una troppo evidente beffa al sistema educativo gesuita. È però questo il suo
unico obiettivo? Il lettore si domanda in maniera sempre piú insistente quale
potrebbe essere veramente il proposito della Retorica di Pallavicino durante le
cinque sezioni dell’opera: la dedicatoria, la nota “L’autore ai lettori”, le quindi-
ci lezioni, la “Conclusione dell’opera” e la “Confessione dell’autore”. In ogni
momento di queste parti, Pallavicino gioca con la simulazione e la dissimu-
lazione, che letteralmente in parole di Accetto significa che “si simula quello
che non è, si dissimula quello ch’è”,12 offrendo al lettore un caleidoscopio di
possibili verità, dove una è ugualmente valida in confronto all’altra.
Si afferma nella dedica lusinghiera per le cortigiane: “Questo è un regi-
stro dei trionfi, poiché esercitate perfettamente nella pratica tutto ciò che qui
in teoria si propone” (p. 5); e piú avanti: “graditelo dunque come un regalo
di chi vi ama” (idem), alludendo al fatto che il libello può essere anche usato
come pagamento per i servizi delle fin qui chiamate cortigiane. Nonostante,
ne “L’autore ai lettori”, l’obiettivo e il soggetto cambiano violentemente. Non
sono piú cortigiane, ma puttane, termine che se era considerato poco toscano
all’epoca, comunque l’autore lo usa per esser chiaro con riguardo al tipo di
“professioniste” di cui si parla,13 perché questa retorica è stata fatta per svelare
gli inganni delle puttane, come conferma durante la “Confessione dell’autore”,
dove, simulando una vera confessione davanti a un prete, riconosce di esser
11
Miguel Batllori, Gracián y el barroco. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, p.
110.
T. Accetto, op. cit., p. 31.
12
“Ti darà forse nel naso questo nome per essere poco toscano, e nulladimeno lecito in
13
componimento scherzoso, affinché si capisca di primo tratto da tutti quale ne sia la materia, senza
porre in sostegno il libro con le parole ‘meretrici’ o ‘concubine’” (p. 7).
92 Sharon Suárez Larios
stato vittima delle puttane e dei loro artifici, e scrive allora la Retorica come
una sorta di vendetta:
14
Questo obiettivo era già stato prefigurato durante “L’autore ai lettori”: “Non ti scan-
dalizzare, o lettore, poiché ho per fine l’insegnare non tanto alle donne il vero modo di essere
buone puttane, quanto a te la necessità di fuggirle quando, con artificiosa tessitura, compongono
solamente ai tuoi danni lacci e reti d’inside e d’inganni” (p. 8). Tuttavia, questo proposito —cosí
come la maniera con cui Ferrante, sotto le sue diverse maschere, si riferisce alle puttane— diventa
sempre piú violento, per arrivare all’uso degli artifici delle puttane non per difendersi da loro, ma
per aggredirle e sfruttarle.
Dissimulazione, simulazione e verità 93
promise alla sua maestra, nelle di lei mani professando gli atti di questa
dolce religione, alla quale si obbligava sotto la di lei disciplina; oltre i tre or-
dinari voti di lussuria, d’avarizia e d’una eterna simulazione, in conformità
dei padri gesuiti, vi aggiunse il quarto di non credere mai ad alcun uomo nel
valutare la sua affezione o nel fondare alcun valore sopra le sue promesse.
(p. 76)
L’ultimo voto si rafforza dopo che la giovane puttana gesuita subisce il trauma
dell’incontro con il mercante, e conclude allora come unica realtà l’importanza
della simulazione anche quando ci si trova davanti alla verità, che a volte deve
essere abbellita con artifici per renderla vera. A questo punto l’autore, l’anoni-
mo-Pallavicino, lascia credere al lettore che in realtà questa sia la cronaca di
una puttana vera e famosa:
Pensi chi legge come ben capitasse chi s’impacciava con costei, dei cui modi
sarà pubblicamente informato chiunque conosce una tale di cui si tace il
nome per non onorarla con pubblica rimembranza; sarà benissimo nota poi-
ché ella è altrettanto famosa per la sua bestialità quanto è celebre per i suoi
artifici. (p. 78)
94 Sharon Suárez Larios
Fin qui la Retorica delle puttane è scherno dei gesuiti, repertorio teorico della
pratica puttanesca, regalo per le cortigiane, pagamento a queste, avvertenza
per gli ingenui, vendetta contro le “belve indiscrete”, confessione, penitenza,
retorica e cronaca di una famosa puttana. La polisemia però non è ancora finita.
È anche un’apologia di un mestiere di cui non si può fare a meno, perché Pal-
lavicino enuncia, sia ne “L’autore ai lettori” sia nella “Confessione”, diverse
ragioni per cui deve essere accettato socialmente e moralmente. Se esistono
manuali di guerra, perché non scrivere un manuale che educhi le “femmine
semplici e malaccorte” (p. 8) a un mestiere utile? Si usano inoltre argomenti
che possono identificarsi con i primi versi del primo sonetto dei “XVI modi”
di Aretino: “Fottiamci, anima mia, fottiamci presto, / poi che tutti per fotter
nati siamo”.15
Ritorniamo però alla questione originale: è la Retorica un’apologia del
sesso che si opponeva alle restrizioni morali del tempo, attaccando allo stesso
tempo i valori della Chiesa cattolica, accusandola non tanto sottilmente di bi-
gottismo superficiale, quando segnala, in uno slancio di verità, che tra i clienti
delle puttane si trovano persone appartenenti alla Chiesa, e Roma, capitale del
cattolicesimo, è per questo una delle migliori scuole di puttaneria?16 Sí, ma
non solo. Durante tutta la Retorica, specie durante le 15 lezioni, si rende ma-
nifesto lo stato miserabile, reale e vero, delle puttane, le quali, insieme a tutti
i simulatori la cui esistenza svergognava la classe dirigente che non pensava a
risolvere i loro problemi di miseria e necessità,17 appartenevano a quel genere
di sottouomini di cui parla lo studioso italiano Piero Camporesi.18 Infatti, prima
di diventare puttana, la ragazza (reale o simulata per effetti del racconto) con-
sultò “questo [gli insegnamenti] quando con i propri pensieri pensava alla mu-
tazione di questo stato, improprio della nascita ma comandato purtroppo dalla
necessità, dagli sforzi della quale si aboliscono i segni di ogni legge o rispetto”
(p. 75). Se consideriamo che, anche se giustificato e necessario, Pallavicino
non afferma in nessun momento, né nella voce della vecchia o né in quella
15
Pietro Aretino, Sonetti sopra i ‘XVI modi’. A cura di Giovanni Aquilecchia. Roma, Saler-
no, 2006, I, 1, p. 21.
16
“In Roma, dove regnano tutte le dissolutezze e per ben imitare gli esemplari migliori si
insegnano le maniere piú squisite per avere ottima riuscita in tutti i vizi, quasi ogni cortigiana in
canore voci fa ridondare quei vezzi che le danno pregio per meritare il commercio dei piú grandi”
(p. 66).
17
Si pensi per esempio a Diego Bartoli e la sua Povertà contenta, descritta e dedicata a’
ricchi non mai contenti (1678).
18
“Il contatto coi professionisti del vagabondaggio, con le prostitute e le ex vivandiere, coi
soldati sbandati, smobilitati o disertori, con i reduci della guerra, coi galeotti fuggiaschi li faceva
piombare in una specie d’inferno, in forme d’esistenza inimmaginabili [...]. La ‘tragica trasfor-
mazione’, la ‘dolorosa metamorfosi’ d’un uomo in un sottouomo (qualcosa di ancora piú basso
dell’anglosassone underdog) faceva dimenticare che ‘sotto quelle carni consumate, sotto quella
pelle tarmata, sotto quel corpo lacero’ si nascondeva un essere umano”. Piero Camporesi, Il paese
della fame. Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 9-10.
Dissimulazione, simulazione e verità 95
Introducción
Giacomo Leopardi es reconocido como uno de los más importantes poetas
del Romanticismo europeo y, sin duda alguna, en Italia fue el más importante.
Sin embargo, su posición preeminente e indiscutible como poeta, ensayista y
filósofo ha oscurecido hasta cierto punto el resto de su labor intelectual que
comprendió también otros ámbitos como la filología y la traducción.
La educación jesuítica que Leopardi recibió dio como resultado que es-
tuviera familiarizado desde su infancia con el latín y con otras lenguas, como
el español, francés, inglés, hebreo y griego. De manera específica, el griego, el
latín y sus respectivas literaturas representaron para Leopardi un interés per-
manente. Debido a esto, muy diversas obras de autores griegos y romanos se
mantuvieron abiertas en su escritorio durante toda su vida.
Respecto a la filología, sabemos que el poeta cultivó esta disciplina desde
una edad muy temprana y que continuó interesándose en ella hasta su madu-
rez. Conviene precisar que la inclinación de Leopardi hacia la filología abarcó
también la crítica textual, campo en el que propuso enmiendas y conjeturas en
diferentes obras; asimismo, incursionó en el comentario de textos y escribió
ensayos sobre muy diversos temas de filología clásica,1 contenidos, en su ma-
yoría, en el Zibaldone.2
Por lo que toca a la traducción, Leopardi la practicó igualmente desde
muy joven. Debemos tomar en cuenta que, a principios del siglo xix, la tra-
1
Sebastiano Timpanaro Jr. comenta que “l’attività filologica del Leopardi non ebbe soltan-
to, come gli studi classici della maggior parte degli altri poeti, un valore strumentale, di tirocinio
letterario, ma produsse anche risultati apprezzabili in sede strettamente filologica, e rappresentò
nella storia della filologia italiana dell’Ottocento molto piú di quanto comunemente si creda”, y
más adelante: “Nel Leopardi invece la filologia, oltre a costituire materia di elaborazione artistica,
si sviluppò anche parallelamente, come vera e propria filologia; e come tale durò assai piú di quan-
to di solito non si creda”. La filologia di Giacomo Leopardi. Bari, Laterza, 1955, pp. 13 y 203. Para
hacerse una idea de la actividad filológica de Leopardi, también es útil el artículo de L. de Sinner,
“Excerpta ex schedis criticis Jacobi Leopardii, Comitis”, en Rheinisches Museum für Philologie, 3
(1835), pp. 1-14.
2
El Zibaldone o Zibaldone di pensieri es una suerte de diario personal en el que Leopardi
registró una ingente cantidad de reflexiones y apuntes de carácter misceláneo a lo largo de un
período de más de quince años. Los apuntes relativos al mundo clásico pululan a lo largo de toda
la obra.
97
98 José Luis Quezada A.
Leopardi y la traducción
Es posible afirmar que la traducción constituye un punto de encuentro ideal
entre la teoría y la práctica dentro de la actividad intelectual del conde Giaco-
mo Leopardi.6 Sus primeros ensayos de traducción corresponden al año 1809
y continuó trabajando en este terreno por un par de décadas más. Con el fin de
tener presente la trayectoria de Leopardi como traductor, conviene hacer un
repaso por algunos de sus trabajos más importantes realizados en el período
1809-1816. Me limitaré en este caso a enumerar las versiones de obras poéti-
cas.
En cuanto a las traducciones de poetas griegos, significativamente más
abundantes que las de poetas latinos, destacan de manera particular los poe-
mas de Mosco (1815), del canto primero y de algunos versos del segundo de
la Odisea (1815-1816), de la Batracomiomaquia, atribuida a Homero, obra de
la que Leopardi elaboró tres versiones distintas (la primera es de 1815), y de
la Titanomaquia, atribuida a Hesíodo (1817). Mientras que, en el caso de la
poesía en latín, Leopardi tradujo una selección de las Odas de Horacio (1809)
y el Ars poetica (1811), el poema pseudo-virgiliano Moretum (1816) y, lo que
nos interesa aquí, el canto segundo y un fragmento del tercero (solamente los
primeros veintiún versos) de la Eneida de Virgilio (1816).
Como mencioné, en el caso de Leopardi, la práctica de la traducción es-
tuvo íntimamente ligada con la teoría traductológica.7 En el caso de los textos
3
Manuel Fernández-Galiano, “Leopardi, filólogo y poeta”, en Cuadernos de la Fundación
Pastor, 33 (1985), p. 88: “Ésta es la prueba de fuego que todo estudiante distinguido debe pasar
en su juventud. Solamente quien se haya lanzado a verter seriamente a los clásicos puede decir
que los conoce en su entraña; y sólo quien los conoce del todo podrá interpretarlos y enmendar sus
textos”.
4
Para comprender el proceso de aprendizaje en torno a la Antigüedad en la época de Le-
opardi, vid. Sotera Fornaro, “Lo ‘studio degli antichi’, 1793-1807”, en Quaderni di Storia, 43
(1996), pp. 109-155.
5
Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La poesia (1815-1817). Macerata, Quodlibet,
2016, pp. 31-32.
6
Bruno Nacci, “Leopardi teorico della traduzione”, en MLN, 114 (1999), p. 60: “[Leopar-
di] difende con passione il genere traduzione, a cui riconosce una evidente pari dignità e autono-
mia letteraria rispetto alle altre forme espressive”.
7
Sobre Leopardi como teórico de la traducción, además del trabajo citado en la nota an-
terior, véanse Rienzo Pellegrini, “La traduzione letteraria nel pensiero del Leopardi”, en Lettere
Italiane, 30 (1978), pp. 163-184 y Simonetta Randino, “Leopardi e la teoria del tradurre”, en
Giacomo Leopardi traductor de la Eneida 99
za, con este término Leopardi se refiere muy probablemente a la vis verborum,
es decir, el significado, el sentido preciso de las palabras. En segundo lugar,
es interesante notar su intención de que la traducción de poesía mantenga un
aspecto de originalidad. Para lograrlo es necesario que el traductor no sólo
vierta en verso el texto de partida, sino que sea capaz de reproducir el ritmo,
las metáforas, el contenido, en suma, el estilo de la obra original.12 También es
necesario considerar que las obras poéticas a las que se refiere fueron escritas
en griego o en latín y, por consecuencia, el aspecto esencialmente retórico de
las mismas no puede dejarse de lado. Es fundamental resaltar esta característi-
ca porque el mayor obstáculo para traducir estas obras reside precisamente en
el empleo concienzudo y minucioso de la retórica por parte de sus autores. Y
esta técnica compositiva no siempre es trasladada a la lengua de llegada, ya sea
por la gran dificultad que esto implica, por la incapacidad o por el gusto mismo
del traductor. En el caso de las versiones de Leopardi esto no ocurrió, puesto
que una de sus preocupaciones principales como traductor fue la de mantener
el contenido retórico.13
Ahora bien, las reflexiones personales de Leopardi acerca de la traducción
deben considerarse a la luz de la concepción que se tenía de esta actividad en
su propia época. Para hacerlo, es conveniente que nos detengamos por un ins-
tante en la influyente figura de la escritora francesa conocida como Madame
de Staël, quien en 1816 publicó en la revista de Milán, Biblioteca Italiana, un
artículo intitulado “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”.14 En este texto la
autora proponía que la traducción podía servir como el vehículo ideal para que
los italianos se acercaran a las innovadoras tendencias literarias imperantes en
Europa, concretamente en Francia, Alemania e Inglaterra.
Además de esto, el texto encendió por enésima vez el debate secular en-
tre lo antiguo y lo moderno como modelos de imitación literaria.15 En lo que
corresponde a esta discusión, se alinearon en Italia dos bandos claramente di-
12
Antonella Del Gatto, “Una lingua ‘pieghevole, duttile, elastica’: metafora e traduzione in
Leopardi”, en Studi Medievali e Moderni, 18 (2014), pp. 21-45 y Margherita Centenari, “Ospitare
gli antichi. Per una ricognizione sulle metafore del tradurre negli scritti giovanili dei Giacomo
Leopardi”, en Studi Medievali e Moderni, 20 (2016), pp. 129-147.
13
Giacomo Leopardi, Zibaldone. Ed. Lucio Felici. Roma, Newton & Compton, 1997, p.
105: “[319-320] Ora il traduttore necessariamente affetta, cioè si sforza di esprimere il carattere
e lo stile altrui, e ripetere il detto di un altro alla maniera e gusto del medesimo. Quindi osservate
quanto sia difficile una buona traduzione in genere di buona letteratura, opera che dev’esser com-
posta di proprietà che paiono discordanti e incompatibili e contradittorie. E similmente l’anima e
lo spirito e l’ingegno del traduttore”.
14
M. Tixi, art. cit., p. 547.
15
Respecto a la oposición entre lo antiguo y lo moderno, debemos recordar que, a lo largo
de la historia occidental, ha habido diversos momentos en los que se ha buscado una confrontación
con la Antigüedad para encontrar qué es lo que distingue a un período preciso de otros momentos
y circunstancias históricas. Un tratamiento completo del tema se puede leer en Arbogast Sch-
mitt, “Querelle des Anciens et des Modernes”, en en Hubert Cancik y Helmuth Schneider, eds.
Giacomo Leopardi traductor de la Eneida 101
Brill’s New Pauly. Encyclopaedia of the Ancient World [en línea]. <http://dx.doi.org.pbidi.unam.
mx:8080/10.1163/1574-9347_bnp_e15205340>. [Consulta: 19 de marzo, 2019].
16
Cristina Coriasso, “Leopardi traductor y traductólogo: la polémica sobre la manera y
utilidad de las traducciones en el primer Romanticismo italiano”, en Hieronymus, 12 (2005-2006),
pp. 79-80: “La cuestión de las traducciones es un tema candente en la época, tanto que el artículo
de Madame de Staël, “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”, publicado en el primer número
de la Biblioteca Italiana va a producir una agitada polémica literaria que, enfrentando clásicos y
románticos, es concebida por los historiadores como el incipit del romanticismo italiano”.
17
T. S. Eliot, Lo clásico y el talento individual. México, UNAM, 2004, p. 58.
18
Francesco De Sanctis, Opere di Francesco De Sanctis, 13. Leopardi. Ed. de Carlo Mu-
scetta y Antonia Penna. Torino, Einaudi, 1960, p. 61.
19
Ibidem, p. 65.
102 José Luis Quezada A.
20
Emilio Bigi, “Leopardi traduttore dei classici (1814-1817)”, en Giornale Storico della
Letteratura Italiana, 141 (1964), pp. 186-234.
21
M. Tixi, art. cit., p. 551: “Fedeltà al significante e fedeltà al significato sono dunque inse-
parabili nell’atto del tradurre: nella ri-creazione delle due facce della significazione della lingua di
partenza in un’altra lingua si colloca secondo Leopardi lo spazio di ‘originalità’ dell’atto tradutti-
vo”.
22
S. Timpanaro Jr., op. cit., p. 160: “Il Leopardi insieme al problema del come tradurre si
poneva sempre quello del capire il testo nelle sue sfumature, apprezzabili solo da chi legga l’ori-
ginale”.
23
Contrariamente a lo que dice F. De Sanctis, op. cit., p. 61: “Ma sentire Virgilio non è
ricreare Virgilio”. Con excepción de De Sanctis, prácticamente todos los estudiosos citados en
este trabajo coinciden en cuanto al juicio positivo de la versión leopardiana del libro segundo de
la Eneida, de igual forma concuerdan al referirse a la traducción de Leopardi como una recreación
poética.
24
Cito el preambolo siguiendo la edición de Luigina Stefani, “La traduzione leopardiana
del secondo libro dell’Eneide”, en Studi e Problemi di Critica Testuale, 10 (1975), p. 152, líneas
34-36. He utilizado también el texto impreso en G. Leopardi, Poeti greci e latini. Ed. Franco
D’Intino. Roma, Salerno, 1999, p. 322, así como la edición de K. H. Brungs, G. Leopardis Aeneis
Übersetzung. Die Übersetzung Leopardis in der Kritik des 19. und 20. Jahrhunderts. Textkritische
Ausgabe und Kommentar. Frankfurt, Lang, 1996.
Giacomo Leopardi traductor de la Eneida 103
25
Para mayores detalles con respecto a estas traducciones, véanse los trabajos de Giulia
Corsalini, “La traduzione del secondo libro dell’Eneide: Caro e Leopardi”, en Diego Poli et al.
eds., Annibal Caro a cinquecento anni dalla nascita. Atti del convegno di studi, Macerata, 16-17
giugno 2007. Macerata, Eum, 2009, pp. 359-384; “Fa d’uopo esser poeta. Le prefazioni alle tra-
duzioni dell’Eneide di Clemente Bondi e Giacomo Leopardi”, en Sinestesie on Line, 2 (2013), pp.
1-8; y “La notte consumata indarno”. Leopardi e i traduttori dell’Eneide. Macerata, Eum, 2014.
26
Respecto a la recepción de la obra de Virgilio en el ambiente literario italiano de la época,
vid. Jean-Marie André, “La Survie de Virgile dans le romantisme italien”, en Bulletin de l’Asso-
ciation Guillaume Budé, 3 (1982), pp. 306-323.
27
Vid., por ejemplo, lo que dice de la versión de Annibal Caro en el Preambolo a la Titano-
machia di Esiodo: “Io trovo vizioso il maggior pregio della traduzione del Caro. Il quale sta in
quella scioltezza, o volete disinvoltura, che fa parere l’opera non traduzione, ma originale”. Cito
el texto de G. Leopardi, Poeti greci e latini, p. 260.
28
M. Tixi, art. cit., p. 550: “lo scopo perseguito è infatti di riprodurre attraverso la traduzio-
ne lo stesso ‘effetto’ del testo originale presso i primi destinatari”.
29
L. Stefani, art. cit., pp. 152-153, líneas 39-41.
104 José Luis Quezada A.
30
Más adelante, en apéndice, se ofrece el texto virgiliano acompañado de una traducción al
español y confrontado con la traducción de Leopardi del episodio en el que la sombra de Héctor
aparece ante Eneas. Ahí el lector podrá encontrar señaladas características significativas de la
traducción leopardiana de estos versos.
31
Mario Marti, “Leopardi, Giacomo”, en Enciclopedia virgiliana, vol. III. Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1987, p. 182: “Ma oltre a quanto finora esposto (le cure ansiose e l’at-
tesa trepidante per l’edizione della traduzione; le correzioni, attestate da infinite varianti, dal L.
effettuate sul testo per piú mesi; il proposito di un commento estetico al 2o dell’Eneide, formulato
tanti anni dopo; e soprattutto la caldamente dichiarata consonanza delle voci fra poeta e traduttore-
poeta; e altro ancora), numerosi riscontri fra il testo della traduzione e quello dei Canti stanno a
confermare la profonda verità dell’affermazione leopardiana: ‘Quando leggo Virgilio, m’innamo-
ro di lui’ (al Giordani, 21 marzo 1817; Lett. 41-42)”.
32
L. Stefani, art. cit., p. 152, líneas 28-33: “né mai ebbi pace infinché non ebbi patteggiato
con me medesimo, e non mi fui avventato al secondo Libro del sommo poema, il quale piú degli
altri mi avea tocco, sí che in leggerlo, senza avvedermene, lo recitava, cangiando tuono quando si
convenia, e infocandomi e forse talvolta mandando fuori alcuna lagrima”. Vid. V. Camarotto, op.
cit., p. 128.
33
Para una muestra de esto considérense los siguientes ejemplos: v. 3, infando, v. 75, stette,
v. 81, staresti, v. 91, certa, vv. 170-171, un tremito per l’ime / ossa a tutti discorse, v. 192, ulva,
v. 208, l’arte catene, v. 210, con amici detti, v. 222, nefande scuri. Los latinismos están señalados
con cursivas, los números de verso corresponden a la versión leopardiana, para los términos cor-
respondientes en el canto segundo de la Eneida, véanse las páginas del artículo citado en la nota
siguiente, de donde fueron tomados estos ejemplos.
34
Vid. E. Bigi, art. cit. pp. 220-221, para un amplio elenco de arcaísmos y latinismos usados
por Leopardi en su traducción.
Giacomo Leopardi traductor de la Eneida 105
Conclusiones
En suma, mediante la utilización de diversos mecanismos expresivos, Leopar-
di, en efecto, logró trasladar a su propio texto, si no todos, al menos una consi-
35
L. Stefani, art. cit., 136: “[Le] ascendenze linguistiche possono inoltre essere individuate
nei poemi epici italiani: all’Ariosto il L. rimanda sovente in a; i prestiti tasseschi, sebbene solo una
volta dichiarati, sono altrettanto frequenti. Ma anche Dante è presente, sia nella scelta di singoli
elementi lessicali, sia nella costruzione di intere espressioni”, y más adelante: “ricercare le fonti
significherebbe dunque aprire un discorso che si allargherebbe all’infinito e risulterebbe generico”.
36
Ibidem, p. 131: “Il Leopardi si tiene il piú possibile lontano dal linguaggio normale (dalle
‘parole e frasi in tutto proprie della nostra lingua’) ed ‘inventa’ strumenti espressivi che, per la
loro lontananza dal consueto, siano atti a riprodurre l’atmosfera di eletta superiorità che egli sente
propria del poema virgiliano e iscrivano la traduzione in un piano stilistico costantemente alto”.
37
Vid. Norma Strammuci, La comparazione delle caratteristiche lessicali fra le traduzioni
leopardiane di Virgilio (Eneide, libri II e III) e Orazio (Odi, libri I e II), ed i Canti. Tesis, Univer-
sità di Macerata, 2010-2011.
106 José Luis Quezada A.
derable cantidad de elementos particulares del original que con toda seguridad
han sido vertidos en muy pocas traducciones del canto segundo de la Eneida
a cualquier lengua.38 Es necesario apuntar aquí que Leopardi pudo recrear este
texto y al mismo tiempo reproducirlo tan fielmente porque él mismo era un
poeta, como vimos que señalaba en su preambolo, y porque su erudición y su
profundo conocimiento del latín, del estilo virgiliano y de la literatura latina en
general le consintieron penetrar en este texto como tal vez no habían podido
hacerlo los traductores italianos de Virgilio a los que él mismo censuraba.
Las dotes intelectuales innatas de Giacomo Leopardi, así como su for-
mación privilegiada, combinación ideal entre ingenium y ars, produjeron un
escritor de condiciones excepcionales, un poeta-filólogo como los de época
helenística. Dicho de otro modo, con su traducción del canto segundo de la
Eneida Leopardi demostró ser un genuino poeta erudito capaz de hacer que la
poesía escrita en latín por Virgilio siguiera siendo poesía en su propia lengua
italiana. Aunado a esto, es importante resaltar la preocupación de Leopardi por
construir un armazón teórico que sostuviera esta traducción y, en general, las
restantes versiones que realizó de poetas griegos y romanos. La suma de todos
estos factores fue determinante para que Leopardi lograra reflejar en su traduc-
ción italiana prácticamente todos y cada uno de los matices contenidos en los
versos de la epopeya romana. De esta forma, Virgilio pudo hablar a través del
dictado poético de Giacomo Leopardi o como dijo el poeta mismo: “Virgilio la
cui anima hammi ispirato, anzi ha parlato solo per mia bocca”.39
Apéndice40
Virgilio, Aeneis, II, 270-286.
46
Latinismo por crinis (v. 277), es propiamente un término poético.
47
Latinismo por squalentem (v. 277), en realidad es un uso literario del término que signifi-
ca ispido, incolto, referido a la barba o al cabello de una persona.
48
F. D’Intino anota al respecto: “infinite: traduce plurima; L. amplifica usando un agg.
cardine della sua poetica”, en G. Leopardi, Poeti greci e latini, p. 351.
49
Ejemplo de arcaísmo, como tal referido a una persona significa debole, fiacco. Traduce
defessi del v. 285 del original.
50
G. Corsalini, “Fa d’uopo esser poeta. Le prefazioni alle traduzioni dell’Eneide di Cle-
mente Bondi e Giacomo Leopardi”, en Sinestesie on Line, 2, 2013, pp. 1-8, p. 8: “E’ tuttavia
interessante notare che Leopardi ricalca non solo i termini ma anche il costrutto dell’enjambement
infrasintagmatico di tanta/strage cotanta/strage”. En la versión de Bondi leemos “dopo tanta strage
/ de’ tuoi” (vv. 456-457). El encabalgamiento ya lo encontramos en los versos de Virgilio (283-
284).
51
Nuevamente hay un paralelo claro con la traducción de Bondi: “qual indegna / cagion”
(vv. 457-458). Vid., G. Corsalini, art. cit., p. 8.
52
Arcaísmo. Vid. E. Bigi, art. cit., p. 221 y n. 2.
53
Latinismo por cerno en el original (v. 286). Sobre esta expresión y su presencia en el
poema All’Italia, Vid. María de las Nieves Muñiz, “Traduzione, imitazione, riscrittura nei Canti di
Leopardi”, en Strumenti Critici, 29, 2 (2014), p. 230: “‘aut cur haec volnera cerno?’ (Aen., II 285-
86) —resa nel 1816 con un neutro ‘Perché tal piaghe io scerno?’ (v. 395)— e drammaticamente
amplificata in All’Italia ‘Oimè quante ferite, / che lividor, che sangue! O qual ti veggio’ vv. 8-9”.
Adriano Meis y Andrea Sperelli:
enmascaramientos en la novela italiana finisecular
1
“Gli scrittori hanno importanza e prendono posto, in quanto fanno epoca. Se volessimo
adottare questo sistema, dateremmo questa Epoca del romanzo moderno e contemporaneo con Gli
indifferenti di Moravia o meglio, la scoperta di Svevo, sia quello di Una vita e di Senilità, libri del
secolo scorso che vengono letti come nuovi nel 1925, sia quello della Coscienza di Zeno, libro
ancora quasi fresco di stampa al momento della scoperta (era uscito nel 1923)”. Giacomo Debene-
detti, Il romanzo del Novecento. Milano, Garzanti, 2003, p. 9.
2
Guido Mazzoni, La teoria del romanzo. Bologna, Il Mulino, 2011, p. 221.
109
110 Diego Mejía Estévez
Non ha un nome; ha una storia, ma quella storia risulta per il momento inac-
cessibile. Bisogna lasciar passare una trentina di pagine perché, uscendo in
fretta e furia da una porta, vada a sbattere contro tre giovani passanti che
lo riconoscono: “Raphaël”. Ancora dieci pagine perché affiori anche il suo
cognome: Raphaël de Valentin. E ancora una ventina prima che Balzac gli
conceda la capacità di vedere tutta la sua vita in un solo istante (“come un
unico quadro in cui sono fedelmente raffigurati colori, figure, ombre, luci,
mezze tinte”) e il diritto di raccontarla. Diritto che, se qui viene concesso
a un personaggio che da inconnu è arrivato passo dopo passo ad assumere
il ruolo di protagonista, altrove il narratore avoca a se stesso aprendo spet-
tacolari, e a volte amplissime, analessi introdotte quasi sempre da formule
ricorrenti: il faut… il est nécessaire… bisogna, è necessario perché il lettore
sia in grado di svolgere la sua parte, e di sostenerla nel gioco del roman-
zo, metterlo al corrente, rivelargli l’identità di colui che è entrato in scena
coperto dall’anonimato.5
5
Mario Lavagetto, Lavorare con piccoli indizi. Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 204.
6
Idem.
112 Diego Mejía Estévez
7
Sobre esto, coincido con Mazzoni cuando apunta que “l’epoca e il luogo in cui i personag-
gi nascono e vivono sono strutture esistenziali determinanti; gli eroi possono ribellarsi alle leggi
del contesto, ma non possono ignorarle, perché le loro vite e i loro destini sono sempre attraversati
dall’ambiente”. G. Mazzoni, op. cit., p. 221.
8
Annunziata Rossi, “La visión trágica de la vida en la obra de Luigi Pirandello”, en Acta
Poética, 25, 1 (2004), p. 265.
9
Enrique López Castellón refiere así este proceso: “En su última manifestación, la bohemia
se convirtió, empero, en una sociedad de vagabundos y proscritos, en un grupo de desesperados
(Rimbaud, Verlaine, Tristan Corbière, Lautréamont) que no sólo renegó de la burguesía, sino de
toda la cultura europea, y que buscó, con Thomas Hood, con Poe y con el propio Baudelaire,
‘cualquier lugar que no estuviese en el mundo’. La falta de domicilio fijo dejaba de ser un modelo
de vida para convertirse en una huida constante de sus airados acreedores”. Simbolismo y bohemia.
La Francia de Baudelaire. Madrid, Akal, 1999, p. 73.
Adriano Meis y Andrea Sperelli 113
osciló de la figura de vate que era aún plausible para los románticos alemanes,
hasta la bohemia todavía alegre y un tanto burguesa de Théophile Gautier,
para culminar con la abierta marginalidad del bohemio a lo Paul Verlaine o la
posición del dandi esteta a la manera de Oscar Wilde y Gabriele D’Annunzio;
con la añoranza de una religión del arte y de una aristocracia antiutilitaria en
este punto imposibles.
En el entorno finisecular, la postura del dandi se imbrica con la del bohe-
mio en su afán de distinción con respecto al burgués, personaje dominante de
este escenario que, en general, desestima la actividad artística. Enrique López
Castellón hace pensar en la actitud de la burguesía frente al artista, sobre los
lazos del dandismo con la bohemia y, finalmente, acerca de la mencionada vo-
luntad por distinguirse; fin que se consigue mediante las maneras y el atavío,10
portando una máscara que logre epatar al burgués:
Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo appa-
recchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sé; vi spendeva
12
Giuseppe Antonio Borgese, Gabriele D’Annunzio. Napoli, Ricciardi, 1909, p. 48.
13
Charles Baudelaire escribe en su emblemático “L’Albatros”: “Ce voyageur ailé, comme il
est gauche et veule / Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid !/ L’un agace son bec avec un
brûle-gueule, / l’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait !/ Le Poëte est semblable au prince des
nuées / qui hante la tempête et se rit de l’archer; / exilé sur le sol au milieu des huées, / ses ailes de
géant l’empêchent de marcher”. Les Fleurs du Mal. Paris, Gallimard, 1861, p. 38.
Adriano Meis y Andrea Sperelli 115
la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava cosí che non di rado
rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia,
ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un incantatore il quale fosse
preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.
Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita
che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d’una religione, gli
strumenti d’un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o
da cui l’immaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza.14
14
G. D’Annunzio, op. cit., p. 17.
15
Con respecto a esto, es precisa la opinión de Linda Garosi acerca de la sentencia que sigue
el esteta (convertir la vida en obra artística): “Un dictamen simplificado en la búsqueda del placer
sensual. El hedonismo de Sperelli remplaza la fuerza moral y volitiva y llega a ser el motor que le
empuja a la acción”. L. Garosi, “El personaje del esteta en la obra narrativa de Gabriele D’Annun-
zio y Ramón del Valle-Inclán: análisis y valoración”, en Analecta Malacitana, 27 (2009), p. 73.
con su identidad, y el segundo ejerce aquellas en consonancia con la antigua
función del artista, irrealizable en el fine secolo.
Crisis del personaje pirandelliano,
una relectura a partir de Giacomo Debenedetti
117
118 Rodrigo Jardón Herrera
4
Carlo Ginzburg, “Spie. Radici di un paradigma indiziario”, en Miti emblemi spie. Morfo-
logia e storia. Torino, Einaudi, 2012, p. 167.
5
Ibidem, p. 182.
Crisis del personaje pirandelliano 119
En esa obra Debenedetti dejó plasmadas las claves para entender en qué
consistió la crisis del realismo y del naturalismo literarios. Sin haber sido un
trabajo planeado para ser un libro orgánico los materiales funcionan como un
gran mosaico de la narrativa italiana en contraste con el panorama europeo.
Mariapia Lamberti apunta que en ese libro “delinea una verdadera teoría de
la novela. El lenguaje es técnico, complejo, de registro elevado: dirigido a
universitarios, es el ejemplo máximo de la calidad académica del discurso”.7
El primero y el último apartado son su lectura sobre la carencia de novelas en
Italia, a partir del auge de la prosa de arte, que tanto caracterizó a la generación
de intelectuales de las revistas literarias, especialmente quienes colaboraron en
La Voce; también son un homenaje al escritor que más lo influyó: Renato Serra.
Ese debate es el marco a partir del cual propone una constelación de narradores
italianos, casos únicos y aislados, que fungieron como los más claros repre-
sentantes de esa literatura de inicio del siglo xx donde los nombres de Marcel
Proust, James Joyce y Franz Kafka son esenciales.
Su triada la componen Federigo Tozzi, Luigi Pirandello e Italo Svevo.
En sus obras logró asentar su tesis más significativa: la pérdida de destino y la
huelga de los personajes; es decir, la épica de la existencia. El ensayo clave con
que inicia esta lectura de la modernidad literaria aparece en el tercer tomo de
Saggi critici: “Personaggi e destino” (1947). En este texto parte de una certeza:
la narrativa y el teatro de las primeras décadas del siglo xx tienen “una sua spe-
ciale facoltà di comprometterci, di rimestare entro i nostri disturbi morali e di
lasciarli piú agitati di prima”.8 Cabe señalar que, a diferencia de sus otros dos
contemporáneos, el autor siciliano siempre estuvo presente en la reflexión de-
benedettiana. De hecho, Debenedetti en este ensayo postula que en los casos de
Proust, Joyce y Pirandello “si pronuncia una rivolta dei personaggi, i quali non
sembrano piú disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. Si
sta profilando una dichiarazione dei diritti del personaggio”.9 En este cambio
radical de paradigma Pirandello, según nuestro crítico, tiene una forma muy
particular de enfrentar a sus creaciones. Los provoca y los castiga:
solo a se stessa obbediente, una sorta di furor logicus, era capace di esco-
gitare. Li avrebbe voluti sempre ancora in cerca di autore, pronti sempre a
insorgere contro l’autore che si prestasse a farli riposare in una sagoma di
personaggi.10
13
Ibidem, p. 274.
122 Rodrigo Jardón Herrera
14
Luigi Pirandello, Romanzi, vol. I. Milano, Mondadori, 1973, pp. 420-421.
Crisis del personaje pirandelliano 123
prensione in quel luogo vuoto dov’era il padre […]. Tolto di mezzo il padre,
che possedeva tutte le spiegazioni, il mondo, fino a un nuovo ordine, non ha
piú senso: è divenuto assurdo.15
Orfeo non riporta nel mondo la viva Euridice, riporta vivo invece il racconto
di come l’ha perduta, e la bellezza del proprio pianto. Il critico rifà il cam-
mino di Orfeo, guidato da quel racconto e da quel pianto, e riconduce viva
15
G. Debendetti, “Personaggi e destino”, en Saggi critici, pp. 912-915.
16
G. Debenedetti, “Commemorazione provvisoria…”, en Saggi critici, p. 35.
124 Rodrigo Jardón Herrera
Euridice, per aiutare se stesso e gli uomini a capire perché sempre si rinno-
vino quella perdita, quel racconto, quel pianto, e valgano per tutti, e ciascuno
vi ritrovi il proprio mito che ricomincia. Storia individuale eterna, quella di
Orfeo: e il critico spiega perché sia una storia di tutti e perché il poeta sia
uno dei piú eminenti cittadini della repubblica degli uomini, malgrado la
condanna di Platone. Giacché vogliamo che Platone ci rimanga amico, e gli
facciamo onore; ma proprio in virtú degli insegnamenti di Platone, maggior-
mente amica ci è la verità.17
17
G. Debenedetti, “Prefazione 1949” a Saggi critici, p. 123.
Sei personaggi in cerca di autore de Luigi Pirandello y
Se una notte d’inverno un viaggiatore de Italo Calvino:
el problema de la realidad y su representación
MAYERÍN BELLO
Universidad de La Habana
3
Luigi Pirandello, L’umorismo [en línea]. <https://www.pirandelloweb.com/saggi-e-di-
scorsi/lumorismo/>. [Consulta: 5 de septiembre, 2017.]
4
L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, p. 49. Al respecto, abunda el comentario
de Adriano Tilgher: “Si nasce personaggio artistico come si nasce pietra, pianta o animale, e se
la realtà del personaggio è un’illusione, illusione è anche destinata a scoprirsi ogni realtà quando
sia mutato il sentimento che l’alimentava. Chi è nato personaggio non solo, dunque, ha tanta vita
quanta i cosí detti uomini realmente esistenti, ma ne ha di piú, ché quelli, trasmutabili per tutte
guise, oggi son questo e domani quello, e passano e muoiono, e il personaggio artistico, invece, ha
una sua vita immarcescibile, fissata per l’eternità nelle caratteristiche essenziali della sua natura
che non cangiano nè possono cangiar mai, e la natura si serve dello strumento della fantasia umana
per proseguire, piú alta, la sua opera di creazione […]. E, una volta creato, il personaggio si stacca
dal suo autore, vive di vita propria ed impone a quello il voler suo, e l’autore deve tenergli dietro
e lasciarlo fare”. Studi sul teatro contemporaneo [en línea]. Roma, Libreria di scienze e lettere,
1923, p. 208. <https://www.liberliber.it/mediateca/libri/t/tilgher/studi_sul_teatro_contemporaneo/
pdf>. [Consulta: 5 de septiembre, 2017.]
128 Mayerín Bello
5
“La autonomía de los personajes es tal que aparecen en escena ‘en busca de autor’, cada
cual con su verdad contrapuesta a la de todos los demás, y ante la ausencia de un autor-mediador
capaz de recomponer ideológica y estéticamente las historias con un sentido unitario, catártico,
tranquilizador […]. Y ése es precisamente el drama que quiere contar Pirandello: un drama gnose-
ológico, es más, el drama gnoseológico de la modernidad. Por ello desaparece el autor tradicional,
con su capacidad de interpretación global y de mediación ideológica. Los personajes son aban-
donados a sí mismos, en busca de autor en la medida en la que buscan un ‘significado universal’
imposible ya. Su historia no es más que la ‘figura’ de esa imposibilidad. Al significado histórico-
literal de su drama, con sus pasiones vivientes, se añade otro, pero del todo negativo. Estamos, en
suma, en el campo de la gran alegoría moderna, esencialmente crítico-destructiva”. Romano Lu-
perini, “Introducción” a L. Pirandello, Seis personajes en busca de autor. Cada cual a su manera.
Esta noche se improvisa. Traducción de la introducción de María de las Nieves Muñiz. Romano
Luperini y Miguel Ángel Cuevas, eds. Traducción, notas y apéndice bibliográfico de Miguel Ángel
Cuevas. Madrid, Cátedra, 2001, pp. 36, 38-39.
6
A. Tilgher, op. cit., p. 175.
7
R. Luperini, op. cit., p. 18.
Sei personaggi in cerca di autore de Luigi Pirandello 129
8
Valga aclarar que existen otras percepciones al respecto, por ejemplo, en cuanto a la pro-
pia concepción del personaje, que oscilaría entre la “che propone il personaggio come una figura
coerente e organica, sia nella sua coordinazione psichica […], sia nella sua composizione artistica”
y “la esigenza di rendere sulla scena la condizione dell’uomo moderno, che è interiormente dila-
cerato e sconnesso”. Claudio Vicentini, “Pirandello. La lingua e il dialetto della scena”, en Alberto
Asor Rosa, ed., Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo. Torino, Einaudi, 2000,
p. 233.
9
Italo Calvino, “Presentazione” a I racconti. Milano, Mondadori, 1993, p. vii.
130 Mayerín Bello
10
I. Calvino, “La letteratura come proiezione del desiderio. (Per l’Anatomia della critica de
Northrop Frye)”, en Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società. Torino, Einaudi, 1980, p.
196.
11
Gérard Genette, Figures III. Paris, Éditions du Seuil, 1972.
12
Cfr. la breve presentación que Calvino antepone al ensayo en Una pietra sopra, p. 310.
13
I. Calvino, “I livelli della realtà in letteratura”, en Una pietra sopra, p. 316.
14
Ibidem, p. 323.
Sei personaggi in cerca di autore de Luigi Pirandello 131
terreno ficcional. En el primer nivel diegético, esto es, en la historia que fun-
ciona como marco de diez inicios de novelas, un Lector y una Lectora buscan
a toda costa “escuchar el canto de las sirenas”, esto es, leer un libro evanes-
cente que se metamorfosea en esa decena de comienzos diferentes, aunque con
funciones narrativas básicas comunes. Así pues, dos son los niveles narrativos,
uno más “realista” o cercano al mundo de la experiencia, el de la historia de
los Lectores, y otro más “ficcional”, correspondiente al de los relatos leídos;
distinción falaz pues la condición fictiva de ambos planos es patente y termina
por ser sugerida por esa figura autoral deprimida que es Silas Flannery, quien
goza del privilegio de un capítulo declarativo de todo el entramado que impli-
ca escribir, si bien esa exhibición del acto escritural aparece desde la primera
página con los rejuegos del narrador externo que apela al tú de uno de los dos
protagonistas del libro.
Resumiendo en ultrasíntesis, en Se una notte d’invierno un viaggiatore
encontramos:
1 La multiplicidad de los niveles de realidad, todos ficcionales, aunque
contaminados entre sí (recuérdese que Lectora y Lector terminan por ser
atrapados por circunstancias que parecían sólo propias del universo de la
lectura y que las diez historias metadiegéticas también se contaminan).
2 La explicitación de convicciones teoricoliterarias y estéticas mediante un
portavoz (Silas Flannery).
3 La autorreferencialidad a la vez que la contaminación con la realidad
extranovelística: el volumen se inicia con la lectura de una obra de Italo
Calvino —justo Se una notte d’inverno un viaggiatore—, ese autor que
cambia tanto de un libro a otro, y al que justo por eso se le reconoce, como
declara el narrador externo.
4 La disgregación del sujeto emisor del texto total, del supuesto yo unitario
del autor, que multiplica los niveles narrativos y se desdobla en los diez
“yo” enunciadores de las respectivas novelas inconclusas.
5 La puesta en evidencia del proceso creativo, o la metaficción. Flannery,
el seudoautor, especula sobre una novela posible que no es otra que la
que se está leyendo: “M’è venuta l’idea di scrivere un romanzo fatto
solo d’inizi di romanzo. Il protagonista potrebb’essere un Lettore che
viene continuamente interrotto. Il Lettore acquista il nuovo romanzo
A dell’autore Z. Ma è una copia difettosa, e non riesce ad andare oltre
l’inizio... Torna in libreria per farsi cambiare il volume...”.15
6 La incorporación del receptor como parte vital —constructiva y
constitutiva— de una obra.
Ahora bien: ¿no suena todo esto también a Pirandello? Porque lo cierto es
que cada uno de los aspectos enunciados podría corresponderse con el modus
15
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore. Torino, Einaudi, 1979, p. 197.
132 Mayerín Bello
operandi de una obra como Sei personaggi in cerca di autore. Una veloz ilus-
tración nos resume las concordancias:
1. La multiplicidad de niveles presentes en la obra se asocia tanto a la
extensión del espacio escénico (derrumbe de la cuarta pared), que
involucra al “público empírico” y convierte en espacio teatral la sala de
butacas, como a los diversos grados de ficción de la obra (el de la “vida
real”, el de los actores de la compañía, el de los personajes, el de Mme.
Paz). El cruce de fronteras entre los niveles es vinculante entre el arte y la
vida como lo prevé la reflexión estética pirandelliana.
2. La explicitación de una poética (la de L’umorismo), que encuentra su
portavoz más sistemático en la figura del Padre.
3. La autorreferencialidad, igualmente al inicio: “Direttore: Che vuole che
le faccia io se dalla Francia non ci viene piú una buona commedia, e ci
siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende
è bravo…”.16 Como sucedía con el Calvino evocado en Se una notte
d’inverno un viaggiatore también Pirandello se transforma en un personaje
(referido), lo que redimensiona el estatuto de la realidad literaria.
4. La disgregación del sujeto emisor del texto total y la de sus criaturas, que
multiplica los puntos de vista: “Il Padre: Il dramma per me è tutto qui,
signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi —veda— si crede
‘uno’ ma non è vero: è ‘tanti’, signore, ‘tanti’, secondo tutte le possibilità
d’essere che sono in noi…”,17 idea ponderada en L’umorismo.
5. La metaficción o metateatralidad: “Il figlio: Io non mi presto! non mi
presto! E interpreto cosí la volontà di chi non volle portarci sulla scena!”18
6. La incorporación del receptor como parte vital —constructiva y
constitutiva— de una obra que, como se ha explicado varias veces, se
concreta dramáticamente con la apertura del concepto de espacio escénico
y la multiplicación del público: además del que realmente asiste a la
representación, los actores funcionan, por momentos, como receptores
activos del drama que intentan montar los personajes.
Por otra parte, la permutabilidad entre realidad y signo artístico, que los
volvía equivalentes en la poética pirandelliana, termina por ser considerada,
y tal vez asumida como basamento gnoseológico, por el Calvino más tardío,
pero proyectada en una dimensión más amplia, y sobre todo múltiple, en el
sentido que este término asume en las Lezioni americane. Sei proposte per il
prossimo millennio (1988). En otras palabras: la opción calviniana por el ars
combinatoria y por la “lógica de los posibles narrativos”19 proyecta hacia el in-
16
L. Pirandello, Sei personaggi in cerca di autore, p. 7.
17
Ibidem, p. 22.
18
Ibidem, p. 56.
19
Tal es el título del ensayo de Claude Bremond, publicado en la revista Communications
n. 8 [traducción al español: Análisis estructural del relato, México, Premia, 1990], que recogía
Sei personaggi in cerca di autore de Luigi Pirandello 133
finito la representación artística del mundo o los modelos de realidad que la li-
teratura puede erigir. El reto consistirá en mostrar esa infinitud virtual median-
te estructuras que tienden a aherrojarla en construcciones narrativas dominadas
por la dialéctica del finito-infinito. A esa dialéctica se refería Alberto Asor Rosa
cuando analizaba el legado estructuralista en Le città invisibili, reflexiones que
podrían muy bien extenderse a Se una notte d’inverno un viaggiatore:
Nella vita del signor Palomar c’è stata un’epoca in cui la sua regola era que-
sta: primo, costruire nella sua mente un modello, il piú perfetto, logico, ge-
ometrico possibile; secondo, verificare se il modello s’adatta ai casi pratici
osservabili nell’esperienza; terzo, apportare le correzioni necessarie perché
modello e realtà coincidano. [...] Il modello è per definizione quello in cui
non c’è niente da cambiare, quello che funziona alla perfezione; mentre la
realtà vediamo bene che non funziona e che si spappola da tutte le parti;
dunque non resta che costringerla a prendere la forma del modello, con le
buone, o con le cattive.23
trabajos paradigmáticos y hoy clásicos del estructuralismo. Ese número es aludido por Calvino en
su ensayo “Cibernetica e fantasmi. (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)” (1967),
Una pietra sopra, p. 166.
20
Alberto Asor Rosa, op. cit., pp. 462, 463.
21
Sobre el tema me he ocupado en “La relación sujeto-objeto en la obra de Italo Calvino”,
en Mariapia Lamberti y Franca Bizzoni, eds., La Italia del siglo xx. México, unam, 2001, pp. 73-83
y —con algunas variaciones— en “Italo Calvino entre el cristal y la llama”, Algunas respuestas a
sutiles esfinges. La Habana, Unión, 2007, pp. 114-127.
22
En particular en “Esattezza” y en “Molteplicità”.
23
I. Calvino, “Il modello dei modelli”, en Palomar. Milano, Mondadori, 1994, pp. 107-108.
134 Mayerín Bello
Aunque, sin la tenue ironía que aquí Calvino le aporta al asunto, en Pi-
randello percibimos una tendencia semejante cuando el deseo de una concep-
tualización armónica se ve perturbado por la pulsión contraria hacia la relati-
vización de la experiencia debido al peso que pueden adquirir lo contingente,
la excepción, lo accidental. Es la misma tensión que existe entre la máscara
que a toda costa quiere fijar una identidad caracterológica y social, y las múl-
tiples “almas” que habitan en el sujeto, tironeándolo en sentidos contrarios. E
igualmente emerge tal bipolaridad, puesto en el caso de juzgar una experiencia
cultural o histórica. Al respecto, expresa Pirandello en L’umorismo:
24
L. Pirandello, L’umorismo.
Sei personaggi in cerca di autore de Luigi Pirandello 135
25
Stephen Hawking, “Mi posición”, en Voces de una época cercana, vol. I. Ed., Mayerín
Bello, La Habana, Editorial Universitaria Félix Varela, 2016, pp. 79-80.
Camilleri biografo di Pirandello*
GIUSEPPE MARCI
Università di Cagliari
137
138 Giuseppe Marci
alcuni mesi, poi nuovamente sommersa dalle acque mediterranee: “Tanti e tan-
ti anni dopo uno scrittore di quei paraggi vi ambientò una sua ideale nuova
colonia: e magari nella fantasia di quello scrittore l’isola finiva per tornarsene
in fondo al mare”.3
Piú importante del nome, difatti tralasciato, è la definizione di “scrittore
di quei paraggi” che sembra ribadita dalla seconda menzione, questa volta nel
glossario che chiude il volume, dove Pirandello viene citato come auctori-
tas linguistica, esperto della lingua agrigentina, quando si tratta di glossare
il termine urbigna: “dàrisi corpi all’urbigna”: “darsi botte da orbi”,4 colpire
alla cieca: anche Pirandello aveva adoperato l’espressione, rendendo in lingua
siciliana il testo del Ciclope.
Ne Il gioco della mosca (1995) comincia la tessitura dell’intreccio tra
il racconto di episodi della vita di Luigi Pirandello e l’esperienza diretta di
Andrea Camilleri che, per spiegare il lemma scantusu, narra un aneddoto e si
propone quale testimone dei fatti narrati. Scantusu “significa tanto cosa che fa
paura quanto chi è di natura pauroso”:5 per illustrare il concetto e restituire “in-
tegrità e autenticità”6 alla parola, Camilleri ricorda un episodio accadutogli nel
1932 (“o ’33?”7), quando, sentendo bussare alla porta di casa, andò ad aprire,
si trovò davanti “un vecchio che mi sembrò gigantesco [...] con una divisa che
pareva d’ammiraglio”.8 Il vecchio chiedeva della nonna, Carolina Camilleri; il
bambino ne ritrasse un terribile spavento, tanto che corse ad avvertire i genitori
dicendo “che di là c’era un uomo scantusu che si chiamava Pirandello”.9
Forse è la prima volta che nella pagina camilleriana viene narrato l’epi-
sodio, e già il racconto ha lo stigma che ritroveremo nella Biografia del figlio
cambiato: le famiglie Pirandello, Portolano (è il cognome della moglie di Luigi
Pirandello) Camilleri e Fragapane (è il cognome della madre dello scrittore),
legate dal comune lavoro nel commercio dello zolfo, hanno anche vincoli ma-
trimoniali, contraggono tra loro i matrimoni di súrfaro, i “matrimoni di zolfo,
[che] erano frequentissimi all’epoca, anche come sistema di difesa dei com-
mercianti contro le grosse compagnie straniere”.10
3
A. Camilleri, Un filo di fumo. Palermo, Sellerio, 1997, p. 100.
4
Ibidem, p. 136.
5
A. Camilleri, Il gioco della mosca. Palermo, Sellerio, 1995, p. 91.
6
Prendo in prestito questi termini da Salvatore Battaglia, che ne indica il valore nella “Pre-
messa” al Grande Dizionario della Lingua Italiana. Torino, Utet, [1961], 1980, p. V.
7
A. Camilleri, Il gioco della mosca, p. 91.
8
Idem.
9
Ibidem, p. 92.
10
A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato. Milano, Rizzoli, 2000, p. 143. Il concetto
è ripreso nell’intervista concessa a Gianni Bonina per parlare proprio della Biografia del figlio
cambiato, dove Camilleri afferma: “I siciliani, si sa, sono individualisti. I commercianti di zolfo
avrebbero potuto costituire tra di loro, alleandosi, forti società in grado di difendersi dalla concor-
renza delle compagnie estere. Era l’unica strada praticabile (questo fu il commento dell’avvocato
Agnelli dopo la lettura di Un filo di fumo). Non la praticarono. Si spinsero al massimo fino ai
Camilleri biografo di Pirandello 139
Ebbene, su uno di questi fogli ci sono, siamo nel maggio 1891, le firme di
Stefano Pirandello, Calogero Portolano, Carmelo Camilleri e Giuseppe Fra-
gapane. Il figlio di Stefano Pirandello sposerà la figlia di Calogero Portola-
no, il nipote di Carmelo Camilleri sposerà la nipote di Giuseppe Fragapane.
Posso garantire che il matrimonio tra mio padre e mia madre riuscí splendi-
damente, si amarono davvero.11
‘matrimoni di zolfo’ che erano un ben misero baluardo” (Gianni Bonina, Tutto Camilleri. Palermo,
Sellerio, 2012, p. 179).
11
Ibidem, p. 144. Le considerazioni sui “cosiddetti matrimoni di zolfo” ritorneranno nel
dialogo con Saverio Lodato (La linea della palma, p. 30, e in quello con Bonina, quando Camilleri,
tra l’altro, afferma: “Come tutti i matrimoni combinati, alcuni riuscirono, altri no. Quello dei miei
genitori fu un matrimonio felice”. G. Bonina, op. cit., p. 179).
12
A. Camilleri, Il gioco della mosca, p. 93.
13
Ibidem, pp. 94-95. L’episodio è narrato anche nella lunga intervista raccolta da Marcello
Sorgi dove si legge: “C’è una critica di Giorgio Prosperi, che è stato un importante critico, che
iniziava cosí: ‘Andrea Camilleri è un regista che ha lunghissimamente studiato Pirandello’. E giú
una serie di complimenti perfino esagerati; a un certo punto dice che Camilleri è l’unico in Italia
che può dare del ‘tu’ a Pirandello. Io per ringraziarlo gli scrissi una lettera: ‘Caro Prosperi, la rin-
grazio tanto di quello che ha scritto, però sappia che dovunque dovessi incontrare Pirandello gli
darei del ‘voscenza’, che in siciliano significa Vostra Eccellenza’”. Marcello Sorgi, La testa ci fa
dire. Dialogo con Andrea Camilleri. Palermo, Sellerio, 2000, p. 69.
140 Giuseppe Marci
Che Pirandello, anche negli anni precedenti la televisione, fosse delle parti
nostre lo sapevano tutti, contadini e pescatori; sapevano pure che era “omu
di littra”, uomo di lettere, e lo dipingevano, senza averlo mai conosciuto di
persona, di natura cervellotica e di tortuoso pensiero. Facevano insomma
stingere sull’uomo Pirandello i non facili colori dei suoi personaggi.14
e a Lodato:
Nel 1978 era uscito il mio primo romanzo, Il corso delle cose, presso l’e-
ditore Lalli. Ebbe una gran bella accoglienza. Però passeranno diversi anni
prima di dedicarmi alla scrittura, dopo un addio al teatro segnato da due
spettacoli di Pirandello. Metto insieme I giganti della montagna e La favola
del figlio cambiato, un unico grande spettacolo all’aperto, all’Accademia di
danza, all’Aventino. E mando in scena Majakovskij: Il trucco e l’anima, tre
poemi privi di scenografia.16
14
A. Camilleri, Il gioco della mosca, p. 100.
15
Ibidem, p. 69.
16
Saverio Lodato, La linea della palma. Milano, Rizzoli, 2002, p. 219.
Camilleri biografo di Pirandello 141
Credenziali: fra teatro, televisione e radio, mi trovo ad avere alle spalle tren-
tanove regie di opere —non solo di commedie ma anche di riduzioni di
novelle e romanzi— di Pirandello. Ho avuto anche l’incredibile fortuna e
gioia di mettere in scena in prima assoluta un atto unico scritto da Pirandello
nel 1899, intitolato Perché?, affidatomi gentilmente dagli eredi. E questo lo
ritengo un buon premio.18
Tema che, con qualche modifica, tornerà ne Il mio Pirandello, nel capitolo in-
titolato, appunto, “Credenziali”, in cui Camilleri ricapitola il lavoro svolto con
le regie teatrali e radiofoniche dei testi pirandelliani; racconta dell’incontro
con Pirandello in divisa di Accademico d’Italia quando andò a far visita alla
nonna Carolina; sintetizza la storia delle attività commerciali e dei matrimoni
legati allo zolfo nella Porto Empedocle degli anni tra fine Ottocento e inizi del
Novecento; cita la recensione su Il Tempo in cui era scritto che dava del tu a
Pirandello e la risposta inviata al recensore.
Ma Camilleri, tanto nella scrittura, quanto nel racconto orale, non è mai
un ripetitore di storie già dette e riprodotte in facsimile: è piuttosto come un
musicista che elabora un tema e lo riprende con variazioni capaci di innovare
e restituire nuove dimensioni di senso. In questo caso l’aggiunta carica di ul-
teriori significati è la seguente: “Che dire altro? Che la casa dove sono nato e
cresciuto dista cento metri dalla casa dove Pirandello, in vari periodi della sua
vita, ha vissuto a lungo”.19
Non è un dettaglio di poco conto, ma contiene in sé l’idea di una visione
del mondo comune non solo ai due autori ma a tutti coloro che nella terra sici-
liana sono nati e condividono il sentimento del luogo. Si potrebbe dunque ag-
giungere che la Biografia del figlio cambiato può essere letta come un esercizio
di indagine filologica attenta non solo ai dati testuali ma, piú ampiamente, al
macrotesto costituito dal luogo in cui il biografo e il biografato sono nati, dalla
sua fisionomia geografica, dalla storia tormentata che ha vissuto, dalla cultura
e dalla tradizione letteraria che vi si è sviluppata. In quella tradizione Camilleri
trova il germe dell’interesse per la lingua: un filo che lo lega a Pirandello e gli
consente di meglio capirne la scrittura.
17
A. Camilleri, L’ombrello di Noè. Come si diventa scrittori a teatro. A cura di R. Scarpa.
Milano, Rizzoli, 2013.
18
Ibidem, p. 69.
19
A. Camilleri, “Il mio Pirandello”, in Pagine scelte di Luigi Pirandello. Milano, Rizzoli,
2007, p. 9.
142 Giuseppe Marci
Letta in tale prospettiva, la Biografia del figlio cambiato non sarebbe solo
il racconto della vita di uno scrittore ma anche la ricostruzione della storia
culturale di una terra e degli autori che hanno contribuito ad elevarla a simbolo
di piú generali vicende.
(Proprio mentre scrivevo queste pagine, sono tornato al mio paese, Porto
Empedocle, per qualche giorno. Mi venne voglia, dopo tanti anni, di vedere
dall’alto la Scala dei Turchi, una collina di marna candida che digrada al
mare. Ma era stato costruito un ristorante che ne impediva la vista. Il figlio
del proprietario, gentilissimo, mi fece entrare, malgrado il locale fosse chiu-
so. E subito vidi un enorme olivo saraceno “dal tronco contorto, attorciglia-
to, di oscure crepe —Sciascia— come torturato, e par quasi di sentirne il
gemito”. Mi meravigliai che ne fosse sopravvissuto uno. Allora il giovane
mi spiegò che l’olivo era stato trapiantato con cura dispendiosa e con l’aiuto
di un botanico. Con orgoglio, mi disse che l’olivo aveva pigliato e m’indicò
i nuovi rametti con le foglie verde-argento.
“Chissà quanti anni avrà!” dissi.
“Lo sappiamo” fece il giovane “il botanico l’ha carotato”.
Intendeva dire che dalle piú profonde viscere dell’albero era stato cavato un
pochino di legno, quello che bastava per l’esame.
“Allora, quanti anni ha?” domandai.
“Mille e duecento” mi rispose il giovane).20
20
A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, pp. 265-266.
Camilleri biografo di Pirandello 143
Pirandello —si racconta— voleva chiudere il suo dramma non finito, I gi-
ganti della montagna, con l’immagine d’un olivo saraceno. Molti, da Anian-
te a Sciascia a Consolo, lo hanno sottolineato. Camilleri mette anche lui
un olivo saraceno alla fine del suo racconto, in una parentesi che segue la
conclusione. Ma il grande albero è trapiantato nel piazzale d’un odierno
ristorante tappapaesaggio, a Porto Empedocle. Il degrado pare evidente,
l’umiliazione pure, la differenza fra le scene, enorme. E invece no, perché
nell’ultima riga i mille e duecento anni che sono l’età dichiarata dell’albe-
ro bastano a inghiottire nella loro voragine interpretazioni, giudizi, dubbi e
tutto il resto.21
Gli arabi, speculativi e sagaci anche in fatto di idrica, avevano creato una
Sicilia di orti e giardini, una Sicilia ortofrutticola. Quale, praticamente, è ri-
masta per tanti secoli e fino a noi: sia quantitativamente, nell’estensione del
coltivato e nel volume della produzione, sia qualitativamente, nel modo di
coltivare e nel tipo del prodotto. Se ne può trovare riscontro nel fatto che in
molti paesi siciliani la località che quasi interamente soddisfaceva la richie-
21
Ferdinando Taviani, “Il dolore guardato in tralice”, L’indice [on line], marzo 2001.
<www-static.cc.univaq.it/culturatea/materiali/Taviani/camilleri.php>. [Consultazione: 28 de mar-
zo, 2019.]
22
Giuseppe Barbera, Abbracciare gli alberi, Milano, il Saggiatore, 2017, p. 49.
23
A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, p. 19.
144 Giuseppe Marci
Certo se n’è affoltita la pagina degli scrittori siciliani, da Pirandello agli al-
tri già richiamati nei passi riportati, fino al Santo Piazzese de I delitti di via
Medina-Sidonia (1996) e La doppia vita di M. Laurent (1998). Camilleri —di
volta in volta chiamandoli ulivi, olivi, aulivi— li inserisce in molti romanzi:
La stagione della caccia, Il birraio di Preston, Il cane di terracotta, La voce
del violino, Gli arancini di Montalbano, La gita a Tindari, Il re di Girgenti,
L’odore della notte, Maruzza Musumeci, Il casellante, Il gioco degli specchi.
Ma è La gita a Tindari che soprattutto deve richiamare la nostra attenzio-
ne, come già ha attirato quella di Nino Borsellino che introduce il Meridiano
dedicato alle Storie di Montalbano. La gita a Tindari è il primo romanzo in
cui il commissario Montalbano sceglie il riparo di un ulivo saraceno per le sue
meditazioni investigative:
C’era, proprio a mezza strata tra i due paísi, un viottolo di campagna, am-
mucciato darrè a un cartellone pubblicitario, che portava a una casuzza rusti-
ca sdirrupata, allato aveva un enorme ulivo saraceno che la sua para di centi-
nara d’anni sicuramente li teneva. Pareva un àrbolo finto, di teatro, nisciúto
dalla fantasia di un Gustavo Doré, una possibile illustrazione per l’Inferno
dantesco. I rami piú bassi strisciavano e si contorcevano terra terra, rami
che, per quanto tentassero, non ce la facevano a isarsi verso il cielo e che a
24
Leonardo Sciascia, “Le acque della Sicilia”, in Cruciverba [1983], Opere 1971-1983.
Milano, Bompiani, 1989, p. 1228.
25
L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, 1989, in Opere 1984-1989. Milano, Bompiani, 1991,
p. 489. Sempre in Sciascia, la denominazione “olivo saraceno” ricorre ancora in Pirandello e il
pirandellismo (1953), p. 1037; in Pirandello e la Sicilia, (1961), p. 1084, e nel capitolo della stessa
opera intitolato, appunto, “L’olivo saraceno”, pp. 1140-1143.
Camilleri biografo di Pirandello 145
Taliato da sotto, da questa nuova prospettiva, l’ulivo gli parse piú grande e
piú intricato. Vide la complessità di ramature che non aveva prima potuto
vedere standoci dintra. Gli vennero a mente alcune parole. “C’è un olivo
saraceno, grande... con cui ho risolto tutto” Chi le aveva dette? E che aveva
risolto l’albero? Poi la memoria gli si mise a foco. Quelle parole le aveva
dette Pirandello al figlio, poche ore prima di morire. E si riferivano ai Gigan-
ti della montagna, l’opera rimasta incompiuta.27
Forse non sarà un caso se il romanzo La gita a Tindari e la Biografia del figlio
cambiato escono entrambi nello stesso anno 2000. Ed è utile cogliere l’esplici-
to riferimento a Pirandello che aiuta a inquadrare meglio non solo questo, ma
molti dei romanzi di cui è protagonista il commissario Montalbano nei quali
sono evidenti alcuni dei temi che Borsellino sottolinea nella Biografia del fi-
glio cambiato: quello dello scambio, ad esempio o il tema filiale, quello della
“paternità putativa” che sta alla base de La favola del figlio cambiato incentrata
sul racconto tradizionale del bambino sottratto da li donni e sostituito con un
altro.
Nella lezione dedicata a I giganti della montagna, Camilleri illustra il
significato della favola, anche con riferimento alla propria esperienza di bam-
bino che, tuttavia, da quei racconti non ha ricavato traumi:
La favola del figlio cambiato è una minaccia. Per esempio una minaccia che
i miei genitori facevano a me. Appartiene a una tradizione orale delle nostre
zone. Io sono compaesano di Pirandello, e spesso ho sentito dire e anche a
me è stato detto:
“Ti cangiaro li donni!”
“Maria! Quanto sei vastaso.”
Maria, quanto sei maleducato, non sei figlio di persone per bene, “Ti cangia-
ro li donni”. Li donni, le donne, sono delle fate cattive che di notte scendono
per i camini e si deliziano ad “accrocchiare” i capelli ai bambini —quando
26
A. Camilleri, La gita a Tindari. Palermo, Sellerio, 2000, p. 97.
27
Ibidem, p. 204.
146 Giuseppe Marci
La matassa della storia siciliana è fin troppo aggrovigliata per poter essere
annodata in forza di plebisciti, leggi, decreti a quella della storia nazionale.
Per questo lo stato repubblicano vi ha provveduto concedendo all’isola uno
statuto autonomo regionale che forse non ha giovato alla sua governabilità.31
Questa matassa sta di fronte anche alla fantasia di Andrea Camilleri, che riesce
però ad affrontarla nei modi che gli sono propri, costruendo contesti narrativi
assai poco ideologici e assertivi e piuttosto caratterizzati da uno sguardo che si
volge sorridente pur verso questioni e problemi di greve consistenza.
Al confronto con la storia, comunque, Camilleri non intende sottrarsi,
né (ovviamente) nei romanzi storici e civili, né in quelli della serie polizie-
28
A. Camilleri, L’ombrello di Noè, p. 96.
29
Nino Borsellino, “Camilleri gran tragediatore”, in A. Camilleri, Storie di Montalbano, A
cura e con un saggio di M. Novelli. Milano, Mondadori, I Meridiani, 2002, p. xix.
30
Gesualdo Bufalino, “L’isola plurale”, in La luce e il lutto, in Opere, 1 [1981-1988]. A cura
di Maria Corti e Frencesca Caputo. Milano, Bompiani, 2006, p. 1140.
31
N. Borsellino, op. cit., p. xx.
Camilleri biografo di Pirandello 147
sca, come neppure nella trilogia fantastica che ai regni alti dell’immaginazione
accede dopo essere passata nei territori —duri, quando non terribili— della
storia. Certo: è uno storico che segue il particolare metodo del tragediatore,
per sua natura portato a dissimulare, a negare quello che sta facendo: “non
ho testa e stomaco di certi storici”32 scrive ne La strage dimenticata, per poi
ribadire nell’“Appendice” al volume: “Ho spiegato che non ho testa di storico,
e me ne rendo conto giunto alla fine, quando m’accorgo che non ho consultato
che pochi libri di storia e non ho messo piede in un archivio a cercare carte e
documenti”.33
Nino Borsellino, parlando de Il re di Girgenti, sembra che gli faccia il
controcanto, che si diverta a smentirlo, punto per punto: “Andrea Camilleri ha
tutte le doti dello storico; esplora gli archivi, legge sopra e sotto le righe, racco-
glie, come Manzoni, pareri giudizi ricostruzioni dell’evento e ne trae personali
conclusioni”.34
Cosí Camilleri si conduce anche nella Biografia del figlio cambiato, opera
che sembra sottrarsi a una immediata definizione, tanto che Gianni Bonina pro-
va a chiedere aiuto allo stesso autore: “Lei parla di racconto ma Biografia del
figlio cambiato è piuttosto un vero saggio: non fosse altro perché si vede che
ragiona moltissimo su lettere, biografie, libri e documenti”, e l’autore risponde
con una domanda, solo apparentemente bonaria e conciliante: “Lo vogliamo
chiamare racconto-saggio?”35
In realtà ci sta dicendo che questa sua opera —come del resto molte fra
le altre che ha composto e che solo per comodità espositiva raggruppiamo
secondo una definizione di genere— sfugge a una classificazione univoca per-
ché contiene informazioni sulla vita di Luigi Pirandello, spiegazioni sulla sua
personalità, interpretazioni dell’opera narrativa e drammaturgica; ma contiene
anche un ragionamento sull’autore della biografia, sulla sua famiglia, sulle fa-
miglie che nel paese d’origine svolgevano l’attività commerciale legata allo
zolfo, sui costumi che caratterizzavano la piccola società da loro formata e
inserita nella piú ampia società siciliana. La quale, a sua volta, per essere capita
—perché possiamo capire gli autori e le opere che ha prodotto— deve essere
osservata avendo come riferimento i parametri della geografia e della storia
che Carlo Dionisotti suggeriva di adottare; e poi il clima che segna la Sicilia, il
vento che contorce le piante, la salitudine che Bufalino ipotizzava fosse meglio
tenere presente:
32
A. Camilleri, La strage dimenticata. Palermo, Sellerio, 1997, p. 44.
33
Ibidem, p. 69.
34
N. Borsellino, op. cit., p. xxxix.
35
G. Bonina, Tutto Camilleri, p. 180.
148 Giuseppe Marci
36
G. Bufalino, Saline di Sicilia, in Opere, 2, (1989-1996). A cura di F. Caputo. Milano,
Bompiani, 2007, p. 1142.
37
G. Bufalino, Il malpensante, in Opere, 1, (1981-1988). A cura di M. Corti e F. Caputo.
Milano, Bompiani, 2006, p. 1085.
Pirandello e Camilleri. Biografia del figlio cambiato:
tra intertestualità e traduzione1
Introduzione
Il presente contributo affronta uno dei principali aspetti di Biografia del figlio
cambiato di Andrea Camilleri (Rizzoli, 2000), ossia l’intertestualità. L’opera
ha le sembianze di un puzzle, in quanto l’autore ricostruisce la vita privata e
professionale di un altro grande scrittore siciliano, Luigi Pirandello, inserendo
nella narrazione numerose citazioni e annotazioni.
L’analisi si sviluppa in un’ottica speculare e si concentra non solo sull’o-
riginale ma anche sulla sua traduzione in spagnolo.2 In primo luogo si prende
in considerazione l’intertestualità in quanto elemento caratteristico del testo e
si propone una classificazione delle diverse tipologie e del ruolo dei vari in-
dicatori intertestuali, tra i quali particolarmente significativa è la componente
dialettale. In secondo luogo, poiché la traduzione è forse l’esempio piú estre-
mo d’intertestualità, si esamina la versione in spagnolo proposta da Francisco
de Julio Carrobles (Madrid, Gadir, 2006). Ogni traduzione, del resto, può esse-
re considerata un’unica grande citazione di un ipotesto ad opera di un ipertesto,
il cui legame è reso esplicito mediante informazioni paratestuali come il nome
del traduttore, eventuali annotazioni o addirittura dalla presenza di entrambi
i testi nel caso di edizioni bilingui. In tale prospettiva si presterà particolare
attenzione agli “ostacoli” insiti nel trasferimento e nella ricomposizione di un
testo cosí complesso. La traduzione dell’intertestualità in quest’opera, infatti,
obbliga il traduttore a dover considerare una serie di problematiche linguisti-
che e può rendere arduo individuare le strategie traduttive piú adeguate.
Le domande di ricerca attraverso cui si sviluppa la riflessione sono le
seguenti: quanti e quali sono gli elementi intertestuali nel testo e che ruolo
svolgono? Francisco de Julio Carrobles tiene conto delle traduzioni precedenti
o ritraduce le citazioni presenti nell’originale? Che significato assumono nel
testo di partenza il dialetto e altri elementi culturalmente marcati come i pro-
verbi? In che modo tali elementi vengono trasferiti nel testo di arrivo?
A queste e altre domande si intende dare una risposta nelle pagine che
seguono. In particolare, per rispondere alle prime si procede, nel primo para-
1
Questo articolo è un lavoro collettivo scritto da Giovanni Caprara (Universidad de Mála-
ga), Simona Cocco (Università di Cagliari), Viviana Rosaria Cinquemani (Universidad de Mur-
cia), Carmen Mata Pastor (Universidad de Málaga), Angelo Nestore (Universidad de Málaga) y
Annacristina Panarello (Universitat Autònoma de Barcelona).
2
In appendice si indagano, invece, le possibili ragioni della mancata traduzione di questo
testo in inglese, malgrado in questa lingua siano state tradotte moltissime altre opere di Camilleri.
149
150 Giovanni Caprara et al.
grafo, a una classificazione degli elementi intertestuali; per rispondere alla se-
conda e alla terza domanda si analizzano, nel secondo paragrafo, la traduzione
del dialetto e, infine, nel terzo le strategie di traduzione dei proverbi.
Il termine presenta, infatti, connotazioni diverse quando impiegato, tra gli altri,
da Barthes, Riffaterre o Eco. Genette,5 per esempio, sistematizza il concetto
attraverso un’operazione tassonomica che distingue all’interno di una macro-
categoria, che denomina transtestualità, quattro tipologie differenti di rapporti
testuali, la prima delle quali è proprio l’intertestualità, ossia la presenza di un
testo in un altro, in maniera diretta, attraverso la citazione, o indiretta, attraver-
so l’allusione o il plagio. Le altre sono la paratestualità, ossia la relazione del
testo con gli elementi che lo accompagnano come titolo, sottotitolo, epigrafi,
note; architestualità, ossia l’ascrizione di un’opera a un genere letterario; iper-
testualità, ossia ogni relazione che unisce un testo (ipertesto) a un testo prece-
dente (ipotesto) e la metatestualità, ossia la relazione del testo con la critica,
come i commenti e le opere sulle opere.
3
Della redazione di questa parte si è occupata Simona Cocco.
4
Andrea Bernardelli, ed., La rete intertestuale. Percorsi tra testi, discorsi e immagini.
Perugia. Morlacchi, 2010, p. 15.
5
Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado. Trad. Raffaella Novità. Tori-
no, Einaudi, 1997 [1982]
Pirandello e Camilleri 151
Per certi versi Biografia del figlio cambiato, in cui molto si parla delle opere
di Pirandello, potrebbe essere analizzata in termini di metatestualità. Ma Camil-
leri, nella “Nota” che chiude il volume, precisa che il suo libro non è destinato,
come in genere lo sono le opere metatestuali, “agli accademici, agli storici, agli
studiosi di Pirandello ché queste cose sono loro risapute” ma a un “lettore piú
che comune” al quale, piú che delle opere di Pirandello parla con esse. E lo fa
grazie all’uso sia di citazioni letterarie sia di elementi tratti da lettere e scritti pri-
vati, che si intrecciano alla voce del narratore in una sorta di duetto. Tale duetto
diventa polifonico quando si inseriscono ulteriori voci, come quelle di scrittori
quali Sciascia e Capuana; di critici quali Gaspare Giudice; dei familiari, nonché
le citazioni di elementi della cultura popolare siciliana.
L’intertestualità, lungi dall’essere episodica, appare fondamentale in
quest’opera e contribuisce in maniera significativa alla costruzione di un testo
che si sviluppa in maniera polifonica, grazie alla maestria con la quale la voce del
narratore si intreccia con quella di altri, in particolare di Pirandello. Tale maestria
fa sí che quest’ultimo da oggetto della narrazione si converta in soggetto di cui
si sente chiara la voce o meglio le voci, proprio come nell’episodio della vita del
drammaturgo rievocato nel paragrafo dal significativo titolo di Il grande puzzle:6
TO (221) TT (232)
Dice Frateili “Appena finito di scrivere i Dice Frateili:
Sei personaggi in cerca di autore Pirandello «Nada más terminar de escribir los Seis
venne a leggere il lavoro a casa mia. C’era il personajes en busca de autor Pirandello
figlio Stefano, Silvio d’Amico […] fummo vino a mi casa a leer su obra. Estaba su hijo
presi e sconvolti non solo dalla commedia ma Stefano, Silvio D’Amico […] Nos sentimos
anche dalla passione che Pirandello metteva atrapados y turbados no solo por la obra, sino
nel recitarla… Quella era una recitazione también por la pasión que Pirandello ponía
nella quale egli sosteneva la parte di tutti i al declamarla… Era una lectura en la que él
suoi personaggi e viveva intensamente quasi desempeñaba el papel de todos los personajes
dolorosamente, tutte le loro passioni, amore y vivía intensamente, casi dolorosamente,
e odio, gioia e dolore, estasi e ironia… la sua todas sus pasiones, amor y odio, alegría y
voce a udirla da un’altra stanza, pareva non dolor, éxtasis e ironía… al oír su voz desde
di una, ma di dieci persone… Alla fine… otra habitación, parecía no la de una sino la
discutevamo come energumeni intorno a de diez personas… Al final discutimos como
Pirandello”. energúmenos alrededor de Pirandello”.
Per rispondere alla prima domanda di ricerca e quindi valutare numero e fun-
zione dei riferimenti intertestuali si è proceduto allo spoglio dell’originale al fine
di identificare le citazioni e, qualora non fosse presente la fonte, risalire ad essa.
Il primo elemento emerso dall’analisi è lo status peculiare riconosciuto nel
testo alle citazioni pirandelliane, che vengono segnalate in maniera semplice ma
efficace grazie al corsivo che le rende immediatamente riconoscibili al lettore,
mentre le citazioni da altre fonti vengono riportate tra virgolette e in tondo. Abbia-
6
Si tratta in questo caso di una citazione dello scrittore Arnaldo Frateili.
152 Giovanni Caprara et al.
mo perciò deciso di concentrarci sulle citazioni pirandelliane che sono 159, delle
quali 81 sono tratte da opere letterarie mentre le altre 78 da lettere e scritti privati.
Genette distingue due tipologie principali di citazione, quella evidente e
quella nascosta, che a sua volta si differenzia in allusione indiretta e in plagio,
quando la citazione è occultata dall’autore con precise finalità illecite.
In apparenza, le citazioni dirette rientrerebbero tra quelle meno rischiose
per i traduttori, per i quali l’insidia principale è proprio quella di non riconosce-
re i riferimenti intertestuali, privando il testo d’arrivo di importanti elementi di
significato. Nel caso in esame, l’uso del corsivo nell’originale ha sicuramente
agevolato il lavoro di Carrobles che lo mantiene nella sua versione, con alcune
eccezioni in tondo. Si ritiene plausibile che queste si debbano a una svista ma,
data la funzione del corsivo nel testo, tale errore potrebbe impedire al lettore
spagnolo di cogliere la natura intertestuale del brano. La riconoscibilità delle
citazioni pirandelliane garantita dal corsivo non ha comunque messo il tradut-
tore al riparo da ulteriori perdite o scelte difficilmente condivisibili.
Tra le citazioni dirette è stato possibile distinguere quattro tipologie. La
prima è rappresentata da brani esplicitamente indicati come citazioni e di cui
si precisa la fonte; la seconda da brani perfettamente integrati nella narrazione
e che non vengono né introdotti né seguiti da un esplicito riferimento alla loro
natura di testo altro. La terza tipologia è costituita dall’uso di singole parole
o frasi brevissime. Infine, nell’ultima tipologia rientrano versi o intere poesie.
Come si è detto, la prima tipologia di citazioni viene preceduta o seguita
da chiari riferimenti testuali alla sua natura di testo altro. Come nell’esempio
che segue, in cui è presente un inequivocabile riferimento alla fonte che sotto-
lineiamo in grassetto:
TO (199) TT (208)
All’angoscia di Luigi per la sorte del A la angustia de Luigi por la suerte
figlio si aggiungeranno le aggressioni fisiche del hijo se añadían las agresiones físicas de
di Antonietta, il suo rivolere a tutti i costi il Antonietta, su exigencia de querer a toda
figlio. Dalla novella Berecche e la guerra: costa tener su hijo a su lado. Del cuento
Non può sentirsi dir nulla la madre Berecche y la guerra:
disperata; grida fino a stracciarsi la gola, No quiere oír nada de lo que le dice
levando le braccia e scotendo le mani… la madre desesperada: grita, grita hasta
Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in desgarrarse la garganta, alzando los brazos
tratto s’avventa contro l’uscio dello studio; y sacudiendo las manos… No ve nada, no
lo forza a furia di manate, di spallate, di oye nada; de vez en cuando se lanza contra
ginocchiate, e si scaglia contro il marito, la puerta del estudio, la fuerza a manotazo
gli si para davanti con le dita artigliate su limpio, a empellones, a rodillazo, y arremete
la faccia, come volesse sbranarlo e gli urla contra el marido, se planta delante de él con
feroce: “Voglio mio figlio! Assassini! Voglio los dedos como garras sobre el rostro, como si
mio figlio! Voglio mio figlio! Assassini!”. quisiera despedazarle y le grita feroz: ¡Quiero
Come è logico e prevedibile, a poco a a mi hijo! ¡Quiero a mi hijo! ¡Asesinos!
poco le visite dei figli si diraderanno. ¡Quiero a mi hijo! ¡Quiero a mi hijo!
Como es lógico y previsible, las visitas
de los hijos se van espaciando poco a poco.
Pirandello e Camilleri 153
O l’ancora piú esplicito riferimento alla natura di citazione del testo nell’esem-
pio che segue:
TO (201) TT (210)
Delle accuse di tradimento che gli De las acusaciones de traición que le
venivano quotidianamente rivolte dalla dirigía cotidianamente la mujer?
moglie? Appena solo, gli pareva di scoprire Nada más quedarse solo, le parecía
in sé, vivo veramente a ogni passo… a descubrir en su interior, verdaderamente
ogni gesto, quell’altro lui che viveva nella vivo en cada paso, en cada gesto, a aquel
morbosa immaginazione della Frezzi, quel otro él que vivía en la morbosa imaginación
tristo fantasma odiato, che lo schermiva de la Frezzi, aquel triste fantasma odiado
dicendogli: “Ecco, tu ora vai dove ti piace, que le escarnecía por dentro: “Ya está,
tu ora guardi di qua e di là, anche le donne; ahora puedes ir donde te plazca, mirar hacia
tu ora sorridi, tu ora ti muovi, e credi di fare todos los lados, incluso a las mujeres: ahora
innocentemente? Non sai che tutto questo è sonríes, te mueves, y ¿qué te crees? ¿que lo
male, è male, è male? Se ella lo sapesse! Se haces inocentemente? ¿No sabes que todo
ella ti vedesse! Tu che hai sempre negato, tu esto está mal, mal, mal? ¡Si ella lo supiera!
che le hai detto sempre di non aver piacere ¡Si ella pudiera verte! Tú que siempre lo has
d’andare in alcun luogo, ad alcun ritrovo, di negado, tú que siempre le has dicho que no
non guardare le donne, di non sorridere… deseabas ir a ningun lugar, a ninguna cita,
Ma, tanto, sai? anche a non farlo, ella ni mirar a ninguna otra mujer, ni sonreír…
crederà sempre che tu l’abbia fatto; e dunque Pero, total, como bien sabes, ella creerá
fallo, fallo pure, che è lo stesso! siempre que lo has hecho, ¡así que hazlo,
Con questa citazione, tratta da Giustino hazlo, puesto que da lo mismo!
Roncella nato Boggiòlo, Gerorge Piroué Con esta cita, extraída de Giustino
avanza […] Rocella nacido Boggiòlo, Gerorge Piroué
avanza […]
In altri casi, anche se il testo non viene presentato come tale, la sua natura di
citazione è chiarita, non solo dal corsivo, ma dal ricorso ad espedienti tipici dei
testi teatrali, quali l’indicazione in maiuscolo del personaggio che pronuncia la
battuta o le direttive per gli attori indicate tra parentesi:
TO (88) TT (91-92)
Appena don Stefano torna a casa, donna Apenas don Stefano regresa a casa, doña
Caterina gli mostra la lettera e incita il marito Caterina le muestra la carta e incita al marido
a dare all’ex fidanzata ogni aiuto possibile. a prestar a la ex prometida toda la ayuda
LIVIA … arrivò un giorno una lettera. posible.
(Si ferma) LIVIA: …un día llegó una carta. (Se
GUGLIEMO che lettera? detiene)
LIVIA una lettera: la leggiamo insieme GUGLIELMO: ¿Qué carta?
(egli non aveva segreti per me); non LIVIA: Una carta: la leímos juntos (él
riconobbe in prima la scrittura; io stessa gli no tenía secretos para mí); al principio no
feci notare: Non vedi? È di tua cugina. reconoció la letra, yo mismo se lo hice notar:
GUGLIEMO quella Orgera? ¿Es que no lo ves? Es de tu prima.
LIVIA che era stata sua fidanzata: si GUGLIELMO: ¿Aquella Orgera?
erano lasciati per un puntiglio. LIVIA: Que había sido su prometida. Se
[…] habían dejado por una tontería.
[…]
154 Giovanni Caprara et al.
Le battute in corsivo sono tratte dalla Los diálogos en cursiva han sido
commedia La ragione degli altri, la prima extraídos de la comedia La razón de
di quelle riconosciute e che ebbe una lunga los demás, la primera de las que gozaron
gestazione, in origine una novella pubblicata de reconocimiento y que tuvo una larga
col titolo Il nido, poi la commedia vera e gestación; en sus orígenes un cuento
propria ritoccata per vent’anni e chiamata di publicado con el título El nido, luego la
volta in volta Il nibbio, Se non cosí…, Se non comedia propiamente dicha retocada durante
cosí e infine La ragione degli altri. veinte años y llamadas unas veces El milano,
Si no así…y por último La razón de los
demás.
TO (75) TT (77-78)
Per Luigino, che ha tredici anni, il Para Luigino, que tiene trece años, el
trasferimento è traumatico. traslado resulta traumático.
Si rivedeva ragazzetto trascinato per Se volvía a ver de niño arrastrado de la
mano dalla madre su e su per tutti i vicoli a mano por la madre subiendo y subiendo por
sdrucciolo, acciottolati come letti di torrenti aquellos callejones en cuesta, adoquinados
e tutti in ombra, oppresso dai muri delle como torrenteras y todos en sombra,
case sempre a ridosso, con quel po’ di cielo oprimidos por los muros de las casas siempre
che si poteva vedere nello stretto di essi, a al socaire, con aquel trocito de cielo que sólo
storcere il collo, che poi nemmeno si riusciva arqueando el cuello se alcanzaba a divisar
a vederlo… desde su angostura, y a veces ni aun así se
Dai vicoli a sdrucciolo di Girgenti, alla conseguía verlo…
Palermo come appare a Donna Mimma, uno Desde los callejones en cuesta de
dei suoi personaggi. Agrigento a la Palermo tal y como se le
È una piazza? Che grandezza!... aparece a Doña Mimma, uno de sus
Fra tutti quei palazzi, incubi d’ombre personajes:
gigantesche straforate da lumi accecata da ¿Es una plaza? ¡Qué grande!…
tanto rimescolío sotto, di sbarbagli, e sopra Entre todos aquellos edificios, pesadillas
da tanti strisci luminosi, file, collane di de sombras gigantescas perforadas de
lampade per vie lunghe diritte senza fine, tra luces, deslumbrada por abajo por aquella
il tramestío di gente che le balza, di qua di turbadora barahúnda, y por arriba por
là, improvvisa, nemica, e il fracasso che da tantos regueros luminosos, hileras, aureolaas
ogni parte la investe, assordante, di vetture de faroles a lo largo de las calles rectas e
che scappano precipitose… interminables, entre el ajetreo de gente que
Luigino però ha trovato la sua oasi nel se abalanza por ellas de un lado para otro,
giardino […] rauda, hostil y el estrépito que por todas
parte la embiste, ensordecedor, de coches
que corren presurosos…
Luigino, sin embargo, ha encontrado su
oasis en el jardín […]
Pirandello e Camilleri 155
Il fatto che nella seconda citazione, in cui si descrive Palermo, si faccia rife-
rimento esplicito alla novella Donna Mimma potrebbe indurre a pensare che
anche il brano precedente, in cui si descrive il trasferimento di Luigino, sia
tratto dalla stessa opera mentre in realtà è tratto da Il vitalizio.
La terza tipologia di citazione riguarda singole parole o brevissime frasi
che senza l’espediente del corsivo difficilmente potrebbero essere riconosciute
come citazioni dirette e potrebbero scivolare nell’area delle citazioni nascoste
o allusioni indirette.
Di fatto è quanto accade nell’esempio seguente:
TO (83) TT (86)
Aggiunge altri medicinali e se ne va Añade otros medicamentos a los ya
testiando. Intanto Luigino si dissugava prescritos y se va cabeceando. Mientras tanto
crescendo solo negli occhi. Ma donna Luigino se iba consumiendo, solo le crecían
Caterina, a questo punto, decide di non darsi los ojos. Pero doña Caterina, al llegar a este
per vinta. punto, decide no darse por vencida.
7
Ci sarebbe invece da discutere sulla scelta di rendere l’espressione “crescendo solo negli
occhi” che indica il profondo dimagrimento del personaggio con “abriendo los ojos”.
156 Giovanni Caprara et al.
La quarta e ultima categoria di citazioni è quella dei versi poetici, anche queste
in corsivo nell’originale. Nella versione in spagnolo si riporta il testo in italia-
no seguito dalla traduzione tra parentesi, entrambi in corsivo:8
TO (85) TT (88)
…diman ti giungerò, …diman ti giungerò,
Larva dei sogni miei, Larva dei sogni miei,
Lucifera fanciulla, Lucifera fanciulla,
te che il mio tutto sei, te che il mio tutto sei,
e pur, forse, sei nulla. e pur, forse, sei nulla.
(...mañana estaré junto a ti,/ larva de
mis sueños,/ lucífera muchacha, / tú que lo
eres todo para mí,/ y sin embargo, tal vez, no
eres nada...)
8
Trattamento, riservato nell’originale a espressioni della cultura popolare siciliana. Sono
invece riportati solo in spagnolo i versi tratti dalla storia popolare del figlio cambiato, mentre si
traduce in spagnolo dal tedesco una dedica non tradotta in italiano nell’originale.
9
Mundos de papel, raccolta completa delle Novelle per un anno pirandelliane è stata tra-
dotta in spagnolo per la prima volta da Marilena de Chiara nel 2011, quindi dopo la traduzione di
Carrobles. Sulla storia delle traduzioni spagnole di Pirandello, María de las Nieves Muñiz Muñiz,
“Sulla ricezione di Pirandello in Spagna (Le prime traduzioni)”, in Quaderns d’Italià, 2 (1997),
pp. 113-148; Wilma Newberry, “Luca de Tena, Pirandello, and the Spanish Tradition”, in Hispa-
nia, vol. 50, no. 2 (May, 1967), pp. 253-261.
Pirandello e Camilleri 157
varia da testo a testo, non segue una logica matematica di gradi di dialettalismo
uguale per ogni romanzo. Ed è proprio questo che fa di Camilleri un caso lin-
guistico, oltre che letterario. Nella Biografia del figlio cambiato si conferma,
ancora una volta, questo lavoro complesso che produce un romanzo piacevole,
linguisticamente intrigante.
Andrea Camilleri ha affermato numerose volte che la sua lingua, il suo
idioletto, è la lingua del sentimento, la lingua nostalgica che lo riporta in
quella dimensione confortevole di casa.12 Tuttavia, questa spontaneità è ap-
parente. È la spontaneità della lingua parlata, della conversazione informale,
nella quale il tragediatore (o il cantastorie) alterna registri, alterna codici
linguistici, ricorre a termini locali per esprimere concetti specifici, preferi-
sce il dialetto perché crea un legame di empatia con l’interlocutore, che si
sente comodo, che si sente a casa, che trova la narrazione “semplice”. Per
creare questa semplicità, è necessario, però, mettere a punto un complesso
processo di elaborazione linguistica. La voce narrante di Camilleri, quindi,
si costruisce attraverso uno studio delle forme dialettali comprensibili e di
quelle che, non essendolo, necessitano di un chiarimento, che arriva in glossa
interdialogica dentro il testo oppure si manifesta nelle forme italianizzate di
termini in siciliano.
Secondo una prospettiva traduttologica, risulta fondamentale, quindi, pen-
sare che la traduzione richieda uno sforzo altrettanto grave per poter garantire
non soltanto il rispetto dello stile, ma soprattutto per mantenere il senso della
figura del tragediatore, appiattita e svuotata dalle traduzioni standardizzate.
Prendendo in esame qualunque pagina del romanzo, noteremo che
la traduzione ci permette di accedere al contenuto, perdendo, nostro mal-
grado, la funzione principale della lingua. Inoltre, l’analisi contrastiva del
romanzo che presentiamo nel corso di questo studio consente perfino di
evidenziare alcuni errori che non si attribuiscono alla strategia di standar-
dizzazione, bensí a imprecisioni del traduttore. Ne deriva che non solo per-
diamo il senso del tragediatore, avendo indietro un testo in spagnolo in cui
il narratore non assolve questa funzione di cantastorie, ma abbiamo anche
delle perdite dovute ad una cattiva interpretazione del testo originale e del-
la traduzione.
Vediamo, di seguito, alcuni esempi dell’analisi che abbiamo realizzato.
12
Andrea Camilleri, Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole. Roma-Bari,
Laterza, 2013, p. 10.
Pirandello e Camilleri 159
TT (16-17) TT (13)
Quando scoppia l’epidemia di colera, Cuando estalla la epidemia de cólera,
la signora Caterina è incinta un’altra volta la señora Caterina está otra vez encinta y
e ha fatto preparare la cámmara apposita ha hecho preparar la habitación apropiada
dove è già nata Lina e dove dovrà nascere la donde ya había nacido Lina y donde deberá
nuova creatura. Ma lo scanto del contagio è nacer la nueva criatura. Pero el miedo al
grande. Il marito la porta, con la picciliddra, contagio es grande. El marido la lleva,
in una sua casuzza di campagna che è junto con la niña, a una pequeña casa de
quasi un pizzo sul ciglio del greto asciutto campo de su propiedad que se alza casi en
e dalla quale si vede il mare. Solo che la la cima del árido promontorio y desde la
costruzione è allocata proprio dove comincia cual se ve el mar. Solo que la construcción
il territorio di Girgenti. Don Stefano non è está situada justo donde empieza el territorio
omo di casa: in prímisi perché veramente de Agrigento. Don Stefano no es hombre
tiene tanto chiffàre tra Palermo e le miniere hogareño: en primer lugar porque tiene sin
dell’entroterra; in secúndisi perché è un omo duda mucho que hacer entre Palermo y las
vero e non è cosa da omo vero starsene tra le minas del interior, y en segundo lugar porque
mura domestiche con moglie e figli. es un hombre de verdad y no es cosa de
hombres quedar entre las paredes domésticas
con la mujer y los hijos.
TO (16) TT
La linea di confine tra i due comuni, La línea fronteriza entre los dos
lungo la litoranea, venne fissata all’altezza municipios, a lo largo del litoral, fue
della foce di un fiume da tempo immemorabile establecida a la altura del estuario de un río
essiccato che tagliava in due la contrada, desecado desde hacía tiempo inmemorial que
chiamata ora “u Càvusu” ora “u Càusu”, fitta cortaba en dos un poblado, llamado bien “u
tanto d’alberi da parere un bosco. Ora, in Càvusu” o bien “u Càusu”, tan tupido de
dialetto siciliano, tanto càvusu quanto càusu árboles que parecía un bosque.
significano la stessa cosa: pantaloni. Ahora bien, en dialecto siciliano, tanto
càvusu como càuso significan lo mismo:
pantalones.
160 Giovanni Caprara et al.
Possiamo osservare come Camilleri attinga dal dialetto per i giochi di parole e
per i riferimenti geografici reali, operazione non semplice da un punto di vista
traduttologico. In questo caso in concreto, possiamo vedere come il traduttore
opti per inserire il dialetto nel testo meta, anche se resta poco chiara la supposta
spagnolizzazione del termine Càusu, che diventa Càuso. Non sapremmo dire
se si tratti di un errore di stampa o se, invece, si tratti di una modifica creata ad
hoc per naturalizzare la pronuncia per il lettore.
TO (11) TT (7)
Una tinta matinata del settembre 1866, i Una aciaga mañana de septiembre
nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti de 1886, los nobles, los acomodados, los
all’ingrosso e al minuto, i signori tanto di comerciantes al por mayor y al por menor,
coppola quanto di cappello, le guarnigioni los señores tanto de gorra como de sombrero,
e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, las guarniciones y sus comandantes, los
sottouffici e ufficiuzzi governativi che dopo empleados de oficinas, suboficinas y
l’Unità avevano invaso la Sicilia pejo che oficinuchas gubernamentales que tras la
le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo Unidad habían invadido Sicilia peor que una
e malamente da uno spaventoso tribbílio di plaga de langosta se despertaron de repente
vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti y de mala manera a causa de una espantosa
di vestie, passi di corsa, invocazioni d’aiuto. algarabía de voces, disparos, ruidos de carros,
relinchos de bestias, pasos precipitados y
llamadas de socorro.
TO (11) TT (7)
Tre o quattromila viddrani, contadini Unos tres o cuatro mil viddrani,
delle campagne vicine a Palermo, armati e campesinos de los campos vecinos a
comandati per gran parte da ex capisquadra Palermo, armados y capitaneados en gran
dell’impresa garibaldina, stavano assalendo parte por ex jefes de escuadra de la empresa
la città. In un vídiri e svídiri, Palermo garibaldina, estaban asaltando la ciudad.
Pirandello e Camilleri 161
TO (13) TT (9)
Fino a quel momento il contagio si Hasta aquel momento se había
era riusciti a tenerlo distante attraverso un conseguido mantener alejado el contagio
severo controllo portuale, ma le necessità mediante un severo control portuario, pero
militari lo resero meno rigido. Fatto sta che las necesidades militares lo hicieron menos
il colera avanzò di pari passo con le truppe rígido. El hecho es que el cólera avanzó a
e, nell’Isola, trovò modo d’estendersi col la par que las tropas y en la Isla encontró
palmo e la gnutticatúra: dall’ottobre del ’66 el modo de extenderse como la palma de la
all’agosto del ’67 trovarono la morte circa mano: desde octubre del 66 hasta agosto del
cinquantacinquemila persone. 67 murieron cerca de cincuenta mil personas.
13
Gloria Corpas Pastor, Manual de fraseología española. Madrid, Gredos, 1997.
162 Giovanni Caprara et al.
14
<http://www.vigata.org/dizionario/camilleri_linguaggio.html>. [Consultazione: 18 giu-
gno, 2019.]
15
Della redazione di questa parte si sono occupate Viviana R. Cinquemani e Carmen Mata
Pastor.
16
Julia Sevilla Muñoz, Carlo Alberto Crida Álvarez, “Las paremias y su clasificación”,
Paremia, 22 (2013), pp. 105-114.
Pirandello e Camilleri 163
Come ricordato nel primo paragrafo, nella nota alla fine del testo17 Camil-
leri sottolinea, infatti, che questo libro vuole essere una trascrizione di un rac-
conto orale della vita di Pirandello, ma la dimensione orale che Camilleri vuole
recuperare in questo testo non si limita solo a fare da sfondo ma si ricollega
e s’inserisce nella dimensione della favola, della magia, della superstizione,
che è la cornice della novella Il figlio cambiato di Pirandello e al contempo la
chiave di lettura di questa biografia.
Abbiamo individuato 9 proverbi,18 raccolti e ordinati in schede, soffer-
mandoci sul loro significato letterale, sulla tipologia, sull’ambito di riferimen-
to, sulla forma in cui sono stati introdotti nel testo, sulla funzione che adem-
piono all’interno della narrazione nel testo originale, e come vengono resi nel
testo meta. Questi proverbi o detti sono tutti trascritti in siciliano e presentati
tra virgolette. La loro presenza si concentra nella prima parte del libro, quella
che si occupa della prima fase della vita di Pirandello, prima di affacciarsi
all’età adulta; questa è anche la parte del libro dove lo stile di Camilleri, il Ca-
milleri che siamo abituati a leggere, si evince piú chiaramente, rispetto al salto
stilistico che fa nella seconda e nella terza parte, dove la presenza dei proverbi
si riduce, rispettivamente, a due e poi a zero.
Camilleri nel libro intervista con De Mauro19 afferma, riprendendo un
concetto espresso proprio da Pirandello, che il dialetto è la lingua dei senti-
menti ed effettivamente in questa parte Camilleri racconta il Pirandello piú in-
timo, quello meno conosciuto, il suo rapporto con i genitori, la sua istruzione,
le prime crisi d’amore.
Nel corso della narrazione è lo stesso Camilleri a chiarirci la natura della
paremia, informandoci di volta in volta se si tratta di un detto o di un prover-
bio; la formula introduttiva che lo scrittore usa è di solito anteposta ai proverbi
e in alcuni casi posposta. Servendosi anche qui del suo oramai tipico espedien-
te della glossa interna (manca solo nel primo caso) ne spiega poi il significato
letterale in italiano, o tra parentesi o nella frase successiva o attraverso una ver-
sione parafrasata in italiano dopo una virgola o dopo la congiunzione “cioè”.
Si tratta per lo piú di proverbi (5 su 9) con una struttura bimembre, cioè
due parti tenute insieme oltre che dal contenuto, dalla rima; abbiamo anche
delle frasi proverbiali, caratterizzate foneticamente da una sorta di allittera-
zione (cu lu culu s’impara la littra) o di assonanza (la criata fa la criatura).
17
Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato. Milano, Rizzoli, 2000, p. 267.
18
I parte:“girala comu vo’, sempre è cucuzza” (p. 12),“figliu settiminu / o diavulu o par-
rinu” (p. 19),“unn addreva un patri / ma la minna di la matri” (p. 25),“casa senza birritta / num
po’ stari addritta” (p. 26), “la criata fa la criatura” (p. 41), “monaci e parrini/senticci la missa / e
stoccaci li rini” (p. 42), “cu lu culu s’impara la littra” (p.64); II parte: “Arraspa a lu to amicu unni
ci mancia” (p. 99),“cu nesci, arrinesci” (p. 141).
19
A. Camilleri, T. De Mauro, op. cit., p. 10.
164 Giovanni Caprara et al.
In quanto alla tipologia abbiamo notato che si tratta di proverbi e detti che
appartengono prevalentemente all’ambito familiare, religioso/superstizioso,
all’educazione, in perfetta sintonia con i temi trattati. Rispetto alla funzione,
abbiamo rilevato che in alcune occasioni il proverbio conferisce enfasi a ciò
che si sta raccontando, come nel caso di “Arraspa a lu to amicu unni ci mancia”
che sottolinea il ruolo dell’amicizia nel bisogno, o in quello di “girala comu
vo’, sempre è cucuzza” dove la metafora della zucca serve per esprimere che
da qualunque prospettiva si guardi la situazione, essa non cambia.
Scheda 8
Contesto
Qui viene descritta la relazione di amicizia con Carmelo Faraci, compagno di liceo e con il
quale condivide una camera in affitto a Palermo.
Tipologia Funzione
Detto legato all’amicizia. Sintetizza e giustifica il comportamento
dell’amico.
Versione tradotta p. 99
Comprende que lo que hace el amigo no lo hace por servilismo o por otras razones, sino que
carga con aquellas obligaciones desagradables por puro sentido de la amistad, para que Luigi
pueda dedicarse sólo al estudio y a escribir poesías y cuentos. “Arraspa a lu to’amicu unni ci
mancia”, rasca a tu amigo allí donde le pique, este es el deber de la amistad y Carmelo ya no
tiene necesidad de utilizar palabras, se entienden con una mirada.
Scheda 1
Contesto
Si sta cercando di individuare e giustificare le cause che hanno portato alla rivolta dei
contadini a Palermo.
Biografia del figlio cambiato p. 12
Pirandello e Camilleri 165
Ma “girala comu vo’, sempre è cucuzza”, si dice dalle parti nostre. E infatti il Governo
risponde con la sola parola che, dall’Unità in poi, sa adoperare per ogni moto meridionale a
torto o a ragione: repressione.
Traduzione letterale in italiano Significato
Girala come vuoi, sempre una zucca rimane. Pur cambiando il punto di vista nell’affrontare
un problema, non cambia la sua natura per
cui esso rimane tale e quale.
Formula introduttiva
La formula introduttiva viene posposta al proverbio: “si dice dalle parti nostre”.
Tipologia Funzione
Detto che fa riferimento all’ambito alimentare La funzione è quella di chiarire la situazione
(contadino). ingarbugliata di cui si sta parlando.
Versione tradotta p. 8
Pero “girala comu vo’, sempri è cucuzza”, (por muchas vueltas que le des la calabaza sigue
siendo calabaza) se dice por estos pagos.
Scheda 6
Contesto
Si fa riferimento alle abitudini religiose dei Pirandello che erano cattolici ma non praticanti.
Formula introduttiva
Si afferma che si tratta di un proverbio
Tipologia Funzione
Proverbio che fa riferimento all’ambito Spiega e sintetizza il comportamento adottato
religioso. nei confronti della chiesa
Versione tradotta p.42
En realidad no era así, pero los Pirandello pertenecían, por educación y convicción, a la
categoría de aquellos que suscribían el proverbio: “Monaci e parrini / senticci la Messa /
e stòccaci li rini” ( A los monjes y a los curas / hazles caso mientras dicen la Misa / y acto
seguido rómpeles el espinazo).
Scheda 3
Contesto
Si fa riferimento al fatto che Pirandello non ha potuto essere allattato dalla madre per colpa
del padre che le fece prendere uno spavento.
Biografia del figlio cambiato p. 25
Sicuramente, nel meccanismo elementare del picciliddro, si sarà formato un principio di
causa-effetto: ogni volta che il padre fa pigliare uno spavento alla madre, capita una disgrazia
macari a lui. Sí, perché la perdita del latte materno è sicuramente una menomazione:
“unn addreva un patri / ma la minna di la matri” recita il proverbio. Ad allevare un
figlio non è il padre, ma solo il seno della madre. E questo avergli impedito di crescere con
quel latte, forse si domanda, non è un tentativo del padre di negargli un’identità familiare,
un’appartenenza?
Traduzione letterale in italiano Significato
Non alleva il padre, ma la mammella della Ad allevare un figlio non è il padre, ma la
madre. madre
Formula introduttiva
La formula introduttiva viene posposta, e il proverbio tradotto in italiano.
Tipologia Funzione
Proverbio legato all’ambito familiare. Rafforzare quello che è stato detto.
Versione tradotta p. 22
Sí, porque la pérdida de la leche materna es con toda seguridad un menoscabo. “Unn addreva
lu patri / ma la minna di la matri”, dice el proverbio. No es el padre el que cría a un hijo, sino
la teta de su madre.
Scheda 5
Contesto
Si fa riferimento al rapporto di Pirandello con i genitori e la formazione ricevuta, e al peso che
ebbe la domestica sulla sua formazione
Biografia del figlio cambiato p. 41
Pirandello e Camilleri 167
Difficile scangiare parole con la madre, impossibile farlo col padre, nella casa girgentana
Luigino fortunatamente trova un’amica. È la cammarera, la criata Maria Stella. Con la quale
riesce ad avere una comunicazione vera, aperta. Maria Stella è una popolana che deve essere
stata un’ottima affabulatrice e che s’appaga dello sguardo intento e intenso del picciliddro
alle sue parole. Un detto popolare cosí una volta suonava: “La criata fa la criatura”. Il detto
aveva un doppio significato. Il primo era che la serva, se giovane, finiva immancabilmente col
restare incinta di qualche màscolo di casa, il padrone o il signorino. Il secondo, che spesso era
la serva di casa ad allevare e a “formare” il bambino o la bambina della famiglia. Per alcuni
aspetti, veramente Maria Stella formò Luigino.
Traduzione letterale in italiano Significato
La domestica fa il bambino/ la bambina. È la domestica che educa i bambini.
La domestica dà alla luce un/a bambino/a.
Formula introduttiva
Nella formula introduttiva si spiega che si tratta di un detto popolare; nella frase successiva
spiega il doppio significato di questo.
Tipologia Funzione
Detto popolare legato all’ambito familiare. Giustifica dal punto di vista di accettazione
popolare che l’educazione non fosse
esclusivamente data dai genitori.
Versione tradotta p. 40
Un dicho popular decía así una vez: “La criada hace la criatura”. El dicho tenía un doble
significado. El primero era que la sirvienta, si era joven, acababa sin excepción quedándose
embarazada de uno de los varones de la casa, el señor o el señorito. El segundo, que muy a
menudo era la sirvienta de la casa la que criaba y “formaba” al niño o a la niña de la familia.
Conclusioni
I meccanismi e le strategie messe in atto da Camilleri attraverso il gioco in-
tertestuale hanno generato un testo originale che, lungi dall’assumere una par-
venza monolitica e impermeabile, è multiforme e aperto alla contaminazione
linguistica e culturale. Può dirsi altrettanto del testo tradotto in spagnolo?
Per rispondere a questo quesito sono state formulate nell’introduzione
alcune domande di ricerca. Per quanto riguarda quelle relative agli elementi
intertestuali, l’analisi ha evidenziato che questi all’interno dell’opera sono tali
e talmente numerosi da svolgere un ruolo fondamentale e fondante nell’opera.
Per quanto riguarda invece la traduzione del dialetto e dei proverbi, emer-
ge la chiara percezione del fatto che l’enorme “giacimento” linguistico e cultu-
rale presente in Biografia del figlio cambiato non sempre sia stato reso adegua-
tamente nel testo di arrivo, soprattutto a causa di un trattamento non coerente
e uniforme degli elementi dialettali e culturalmente marcati. In alcuni casi,
Pirandello e Camilleri 169
20
Della redazione di questa parte si sono occupati Carmen Mata Pastor e Angelo Nestore.
21
<http://www.vigata.org/traduzioni/bibliost.shtml>. [Consultazione: 18 giugno, 2019.]
(
170
!"#$%&%'( Giovanni Caprara et al.
!)*+,-(.(
!"#$%&'(&()*'+,'*,-%,'."--*,/)(,'
012
!"#$%#&%'(%#)(*$+))% !"#$%#&%'(%#0+0#)(*$+))%
!"#$%#&%'(%#0+0#
)(*$+))%
12
13/
!"#$%#&%'(%#)(*$+))%
,-
,./
(
(
(
!)*+,-(/(
Per quanto riguarda invece le traduzioni nelle piú vaste comunità anglo-
4(*$56%+0%#%0#*&)(8#
parlanti, negli USA hanno visto,3la luce ben 27 opere di Camilleri, il che vuol
&%0758<0+0#)(*$+))%
dire un 90 % dei libri tradotti in,=/ questa lingua, mentre in Inghilterra le opere di
Camilleri pubblicate sono state 23, ovvero il 76,6 % dei libri tradotti in lingua
inglese. Di seguito sono riportati i rispettivi grafici:
(
(
!)*+,-(0(
Studio cronologico delle traduzioni in inglese delle opere di
Camilleri
Alla luce di risultati esposti in precedenza, la domanda necessaria per poter
proseguire lo studio e lo sviluppo della ricerca è stata la seguente: quando sono
state tradotte in inglese le opere di Camilleri? In che momento esatto della sua
carriera letteraria?
!"#$%#&%'(%#)(*$+))% !"#$%#&%'(%#0+0#)(*$+))%
sua pubblicazione in Italia e cinque anni prima della sua versione in inglese,
ha vinto l’undicesima edizione del Premio Letterario Chianti, un prestigioso (
(riconoscimento dedicato alla narrativa italiana contemporanea.
(
!)*+,-(/(
(%)+"3,&!,',!',!4*$5$'%,5.$((&'
)*'(&()*$'+$**$'."--*,/)3,&!,
4(*$56%+0%#%0#%07&898 4(*$56%+0%#%0#*&)(8#&%0758<0+0#)(*$+))%
4(*$56%+0%#%0#%07&898
:;
1-/
4(*$56%+0%#%0#*&)(8#
&%0758<0+0#)(*$+))%
,3
,=/
(
(
!)*+,-(0(
(%)+"3,&!,',!',!4*$5$'%,5.$((&'
)**$')*(%$'(%)+"3,&!,
4(*$56%+0%#%0#%07&898 4(*$56%+0%#%0#*&)(8#&%0758
4(*$56%+0%#%0#%07&898
:;
4(*$56%+0%#%0#*&)(8# :>/
&%0758
3-
.1/
(
(
(
!)*+,-(1(
(
(
( 172 Giovanni Caprara et al.
!)*+,-(1(
(%)+"3,&!,',!',!4*$5$'!$*'
#$%/)(&'5()("!,($!5$
?8(@*)+#ABC ?8(@*)+#0+0#ABC
?8(@*)+#0+0#ABC
:
=;/
?8(@*)+#ABC
1,
-;/
(
(
(
!)*+,-(2(
(%)+"3,&!,',!',!4*$5$'!$*'
#$%/)(&'-%,()!!,/&
?8(@*)+#AD ?8(@*)+#0+0#AD
?8(@*)+#0+0#AD
,
1:/
?8(@*)+#AD
1:
,,/
((
(
(
Invece, in base alla cronologia delle pubblicazioni dell’autore, il primo li-
!)*+,-(34(56*789:;-:(-,<(),6=*>;(*),6:=*-;(?:-(@<8A(,(-,<(),6=*>;(:-+<,B,(
bro sarebbe Un filo di fumo, pubblicato in Italia nel 1980 e tradotto, in seguito,
nel 2013 per il mercato inglese con il titolo A wisp of smoke.
Stando
7
ai dati forniti dal web
7
ufficiale
7
dell’autore siciliano, i suoi libri
sono
6 stati
6 tradotti6 in lingua
6 inglese
6 6 (considerando
6 6 il mercato europeo e ameri-
cano)
0 tra il
0 0 02002 e il 2017.
0 0 0 0
1
1;;3
1;=3
1;;1
1;;:
1;;2
1;;.
1;;,
1;;>
1;;-
1;=;
1;=1
1;=:
1;=2
1;=.
1;=,
1;=>
ABC AD
(
Pirandello e Camilleri 173
6 76 6 6 6 76 6 6 7
60 6 0 0 0 6 0 0 6 0 6 6 6 6 0
0 0 0 0 0 0 0 1 0
1;;3 1;;3
1;=3 1;=3
1;;1 1;;1
1;;: 1;;:
1;;2 1;;2
1;;. 1;;.
1;;, 1;;,
1;;> 1;;>
1;;- 1;;-
1;=; 1;=;
1;=1 1;=1
1;=: 1;=:
1;=2 1;=2
1;=.
1;=,
1;=>
1
1;=.
1;=,
1;=>
ABC AD
(
( ABC AD
( (
(
!)*+,-(C4!';))*(7,<<,(>6*789:;-:(-,<(),6=*>;(*),6:=*-;(,(:-+<,B,(
Somma delle traduzioni nel mercato americano e inglese
(
!)*+,-(C4!';))*(7,<<,(>6*789:;-:(-,<(),6=*>;(*),6:=*-;(,(:-+<,B,(
8 8
2 2 2 2 2
7 7
8 6 6 6 6 6 6 8 6
2 2 2 2 2
7 7
6 6 6 6 6 6 6
1;;3 1;;3
1;=3 1;=3
1;;1 1;;1
1;;: 1;;:
1;;2 1;;2
1;;. 1;;.
1;;, 1;;,
1;;> 1;;>
1;;- 1;;-
1;=; 1;=;
1;=1 1;=1
1;=: 1;=:
1;=2 1;=2
1;=.
1;=,
1;=>
1;=.
1;=,
1;=>
ABC#E##AD
(
( ABC#E##AD
2 La maggior parte dei libri tradotti in lingua inglese appartiene al periodo(
( posteriore al 2003, anno in cui Camilleri ha ricevuto il primo di numerosi
premi successivi.
Per queste ragioni, si potrebbe ipotizzare che Biografia del figlio cambiato
non sia ancora stato tradotto in lingua inglese in quanto è stato pubblicato nel
2000, dunque in una fase anteriore al periodo di maggior successo dell’autore.
A queste considerazioni, è necessario aggiungere che il libro in questione è
un’opera di difficile definizione e non un giallo, genere per il quale l’autore è
mondialmente conosciuto.
Lo Stato nell’interiorità dell’essere umano:
una prospettiva sul dantismo politico di Giovanni Gentile
DONATELLA STOCCHI-PERUCCHIO
University of Rochester
1
Giovanni Gentile, I problemi della Scolastica e il pensiero italiano. Firenze, Sansoni,
1963, p. 53.
2
“Non andare al di fuori, ritorna dentro te stesso, la verità vive nell’interiorità dell’uomo”
(trad. mia)
3
Si tratta della Monarchia, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni (Roma, Salerno,
2013). I riferimenti al testo latino e alla traduzione italiana contenuti nel presente saggio sono tratti
da questa edizione salvo diverse indicazioni.
175
176 Donatella Stocchi-Perucchio
entrare nell’inferno per reggere le sorti dei popoli, Dante figura l’Impero
come paradiso in terra.4
Unità e similitudine
La grande novità della Monarchia è che l’umanità, concepita nella sua unità, è
il nuovo protagonista della storia.7 Il punto di partenza di Dante è che l’uomo è
stato creato a immagine e somiglianza di Dio, e siccome Dio è uno, l’umanità
4
Marcello Veneziani, “De Monarchia, lo scettro del premier Dante Alighieri”, in Il Gior-
nale [on line], 30 dicembre 2013. <http://www.ilgiornale.it/news/cultura/de-monarchia-scettro-
premier-dante-alighieri-979207.html>. [Consultazione: 9 giugno, 2018.]
5
“Omnia que sunt unius generis reducuntur ad unum” (tutte le cose che appartengono a un
medesimo genere si riferiscono a una sola cosa). De monarchia, III xii 1, p. 209.
6
Si veda Maria Luisa Ardizzone, ed., Dante as a Political Theorist: Reading Monarchia.
Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars Publishing, 2018.
7
Condivido in pieno su questo punto l’opinione di Maria Luisa Ardizzone che parla di
umanità come “nuovo soggetto di storia”. Infatti, a mio parere, la Monarchia non è focalizzata né
sulla sovranità imperiale, né sull’Impero come istituzione, ma sull’umanità che trova nell’impero
Lo Stato nell’interiorità dell’essere umano: 177
è all’apice della sua perfezione quando realizza nella storia la similitudine se-
condo cui è stata creata.
Pensiero e azione
L’umanità ha un fine o un mandato dalla natura e dalla Provvidenza —che
nella visione dantesca coincidono— di raggiungere il pieno potenziale del pro-
prio intelletto sia speculativo che pratico nel pensiero e nell’azione, attraverso
cioè sia l’intelletto che la volontà. Quindi gli esseri umani sono fatti non solo
per pensare collettivamente, ma anche per agire di concerto nella concordia.8
Alcuni critici hanno parlato di “intelletto politicizzato” in Dante.9 Si preferisce
dire qui che Dante storicizza l’intelletto: pensare e fare sono nel processo sto-
rico una cosa sola.
Monarchia
Come potere nelle mani di uno, monos, la monarchia è il sistema politico
piú adatto a guidare il genere umano a questo fine in quanto il monarca è
l’incarnazione di questa unità.
Legge
L’essere sottoposto ad un’unica legge è il rimedio contro la cupidigia che l’u-
manità ha ereditato con il peccato originale, il desiderio immoderato per i beni
materiali che causa invidia e discordia. Perciò è il potere civile, e non la Chie-
sa, ad essere preposto a guida della vita morale dell’umanità.
l’espressione della sua unità naturale e il mezzo per reinstaurarla nella condizione postlapsaria. Si
veda a proposito Maria Luisa Ardizzone, “Introduction” a op. cit., pp. 1-32.
8
Ardizzone, nella sua lettura della Monarchia che appare a piú riprese e con diverse ango-
lazioni critiche nei suoi scritti su Dante, privilegia l’espressione “pensare insieme” per descrivere
questa unione degli intelletti orientati ad un comune fine speculativo. Si veda la nota precedente.
9
Per una ricognizione delle opinioni critiche in merito, si veda Donatella Stocchi-Peruc-
chio, “The Limits of Heterodoxy in Dante’s Monarchia”, in Maria Luisa Ardizzone, ed., Dante
and Heterodoxy. The Temptations of 13th Century Radical Thought. Newcastle upon Tyne, Cam-
bridge Scholars Publishing, 2014, pp. 201-204.
178 Donatella Stocchi-Perucchio
della sua filosofia dell’atto, la tradizione, come la storia, appartiene per Gentile
al presente ed è di natura dinamica e universalistica.
Vediamo ora come questi concetti si applicano al piú significativo scritto
di Gentile su Dante che è il saggio “La profezia di Dante” e come il filosofo
faccia suoi i principi fondamentali della Monarchia che adotta come chiave di
lettura della Commedia stessa. Siamo nella primavera del 1918 dopo la scon-
fitta di Caporetto, quando Gentile avverte piú che mai l’urgenza di manifestare
la sua idea dello Stato in interiore homine come antidoto alle ideologie divisi-
ve —“il cosiddetto nemico interno”— che, a suo avviso, stavano minando il
morale degli Italiani.21 “Una nazione non è né geografia né storia”, aveva scrit-
to recentemente, “ma programma, missione e sacrificio”.22 I valori danteschi
diventano ora un forte incentivo a quel sacrificio. Al momento dello scontro
con l’Impero Austro-ungarico, Gentile paragona il ruolo dell’Italia nella Prima
Guerra Mondiale con la rivolta dei comuni contro l’egemonia imperiale nel
Medioevo. Nel ricostruire la tradizione storica italiana, egli percepisce tale
rivolta come la prima rivoluzione della modernità: una rivoluzione politica
parallela a quella filosofica dell’umanesimo e alla manifestazione embrionale
dello spirito nazionale italiano ora cementato dall’esperienza della guerra con-
tro “l’ultimo erede del Sacro Romano Impero”.23
Il saggio si apre con l’evocazione dettagliata delle concrete circostanze stori-
che della contrastata avanzata di Arrigo VII di Lussemburgo in Italia da parte dei
comuni di Firenze e di Brescia e del vigoroso e forse non del tutto disinteressato
intervento di Dante nella disputa dalla parte dell’Imperatore. Si tratta di una scelta
significativa perché serve allo scopo che Gentile ha di risolvere il conflitto tra i due
punti di vista, aprendo cosí la via alla conciliazione della visione di Dante con la
propria. Al centro della disputa c’è la libertà, la libertà dall’Impero rivendicata dai
comuni e la libertà sotto l’Impero auspicata da Dante. Tra le due posizioni Genti-
le sceglie di stare con Firenze ma, dopo aver riflettuto sulla nozione della libertà
espressa da Dante, conclude commentando sulla modernità del concetto dantesco
e ponendo cosí le premesse che gli consentiranno di applicare i valori imperiali di
Dante alla sua idea di Stato nazionale. Una lunga citazione dall’Epistola VI, di cui
riporto qui il paragrafo iniziale e quello finale, fornisce la base testuale alla sua tesi:
Voi, trasgredendo ogni legge, umana e divina, sedotti da una perversa cupi-
digia […] ricalcitrando al giogo della libertà vi siete mossi contro la gloria
del principe romano […] Ah stoltissimi tra i toscani! Non avvertite voi la
21
Per l’impatto della guerra sullo sviluppo dell’attualismo si veda Claudio Fogu, “Fascism
and Philosophy: The Case of Actualism”, South Central Review, 23, no. 1, Fascism, Nazism: Cul-
tural Legacies of Reaction (Spring, 2006), p. 14 e sgg.
22
G. Gentile, “Le due Italie”, in M. Veneziani, ed. op. cit., p. 156.
23
G. Gentile, “La profezia di Dante”, Studi su Dante, p. 137. Per le circostanze storiche
a cui fa riferimento Gentile, si veda l’“Introduzione” di Diego Quaglioni alla Monarchia, in D.
Alighieri, Opere. Milano, Mondadori, 2014, p. 838 e sgg.
182 Donatella Stocchi-Perucchio
passione che vi governa, ciechi che siete, e vi blandisce col suo velenoso
sussurro, o vi stringe con vane minacce, mentre vi asservisce al peccato im-
pedendovi di obbedire alle sacratissime leggi, che rendono immagine della
giustizia naturale, e la cui osservanza, se lieta, se voluta, non solo non è da
schiavi, anzi essa è la piú alta libertà? Giacché che cos’altro è la libertà se
non il correre spontaneo del volere all’atto imposto dalle leggi? E se libero
è soltanto chi volontario obbedisce alla legge, come potrete credere voi di
esser liberi, voi che, sotto il manto dell’amore per la libertà, a dispetto d’ogni
legge cospirate contro lo stesso principe delle leggi?24
Egli, ripeto, vive della sua fede; e per questa fede, ai fiorentini che in nome
della libertà chiudono le porte di Firenze a lui come ad Arrigo VII, bisogna
che additi un’altra libertà: il giogo di quella libertà (secondo la sua energica
frase), a paragone della quale quella dei fiorentini, quella dei guelfi, quella
dei bresciani riottosi e di tutti gli altri che ne sostenevano in Italia gli sforzi,
era inconsapevole servitú.27
Il “giogo della libertà”, in cui Gentile coglie l’essenza della libertà politica di
Dante, è all’origine della risonanza che egli sente con il poeta:
Tale conclusione che glossa il passo dantesco con un riferimento alla mo-
dernità e al rapporto tra libertà e legge rivela che ciò che conta di piú per
24
D. Alighieri, Opere, p. 140.
25
“Siamo schiavi delle leggi per poter essere liberi” (trad. mia).
26
Marco Tullio Cicerone, Orazione Pro A. Cluentio [on line]. <http://www.thelatinlibrary.
com/cicero/cluentio.shtml>. [Consultazione: 10 giugno, 2018.] L’intero passo recita: “Legum mi-
nistri magistratus, legum interpretes iudices, legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi
esse possimus”.
27
G. Gentile, “La profezia di Dante”, p. 142.
28
Ibidem, p. 143.
Lo Stato nell’interiorità dell’essere umano: 183
Gentile, sia che parli dell’Impero che della nazione, è il principio etico fon-
dante di una comunità, principio che precede e sostiene ogni forma empirica
di organizzazione politica. Quel principio è il suo concetto di Stato e si può
dire che l’intero saggio è in effetti una ricostruzione attraverso Dante della
teoria gentiliana dello Stato. La teoria si articola intorno a due poli concettuali
sovrapposti: quello dello iugum libertatis, ‘il giogo della libertà,’ e quello della
concordia delle volontà che dipende, come dice Gentile citando Dante, ab uni-
tate quae est in voluntatibus, ‘dall’unità che è nelle volontà.’29 Lo iugum liber-
tatis che rende possibile l’unità delle volontà è necessario per la realizzazione
degli ideali di giustizia e libertà che Dante pone come obiettivo dell’umanità
nella storia e costituisce per Gentile il principio di universalità che sostiene la
società in interiore homine.
Un excursus sui punti principali della dottrina politica dantesca —che
sono la necessità della concordia nell’unità delle volontà, la provvidenziali-
tà dell’Impero, la redenzione attraverso il Cristo e la redenzione attraverso il
Veltro, la Chiesa e l’Impero come i due rimedi contro l’infermità del pecca-
to— porta Gentile a riconoscere in Dante un “assertore vigoroso del valore
dello Stato” in cui “le immanenti aspirazioni dello spirito” vengono soddisfat-
te. Per Stato egli intende qui lo Stato etico, espressione della “natura politica,
essenzialmente etica” dell’uomo, diversa dalla polis greca, “mera formazione
naturale”, e dall’Agostiniana città terrena, “radice di ogni male”, dove domina
la cupidigia. Agli occhi di Gentile, è la visione umanistica del Cristianesimo di
Dante che, in sintonia con la propria, permette al poeta di superare sia la sem-
plice nozione aristotelica di Stato, sia il pessimistico dualismo cristiano e pao-
lino di Agostino. Ma come fa Dante a risollevare “la città terrena che Agostino
aveva abbattuta”? Gentile risponde che “lo Stato risorge nella mente di Dante
non piú come legge naturale, ma come celebrazione della libertà”, all’interno
di un piano redentivo che era stato avviato dall’“Uomo-Dio” e che attende an-
cora di essere portato a compimento. Da qui viene l’idea gentiliana della mis-
sione religiosa, liberatrice del Veltro, cioè l’Imperatore, come secondo Messia:
“dopo Cristo venuto a riscattare l’uomo dalla servitú del peccato originale, [il
monarca] ripristina nell’uomo stesso il perduto vigore e, col sottoporre a legge
il volere, lo sottrae alla schiavitú non per anco abolita del peccato attuale”.30
L’intuizione gentiliana dell’Impero come continuazione dell’opera della re-
denzione deriva dalla sua lettura politica della profezia del Veltro nel Primo can-
to dell’Inferno in relazione ai compiti dell’Imperatore descritti nella Monarchia.
Questa lettura non è meno plausibile della sua interpretazione dell’obiettivo po-
litico dantesco di pace e giustizia attraverso la libertà come progetto in divenire.
Gentile capisce che, mediante la funzione correttiva dell’istituto imperiale che si
29
Monarchia, I xv 8.
30
G. Gentile, “La profezia di Dante”, p. 152-53.
184 Donatella Stocchi-Perucchio
esplica nel freno imposto alla cupidigia umana dalla volontà del monarca (l’uni
velle di Mn III x 5),31 Dante ci addita l’obiettivo di perfezione che sta davanti
all’umanità nella storia e alla storia stessa come processo di perfettibilità. Alla
luce di questa consapevolezza, Gentile cancella la distanza temporale che lo se-
para dal poeta e si esprime con il linguaggio dell’inclusione:
La pace dell’uomo d’accordo seco stesso e con gli altri, dentro la giustizia
che è libertà, non è dietro alle nostre spalle, quasi passato rimpianto con
vana nostalgia; anzi è l’ideale che brilla alto innanzi a noi; è il nostro dovere,
la nostra missione, la volontà di Dio che noi dobbiamo fare.
Lo Stato dunque risorge nella mente di Dante non piú come legge natura-
le, ma come celebrazione della libertà, opera dell’uomo rinfrancato da Dio,
prodotto dello spirito nella pienezza della sua virtú religiosa. Non è piú il
semplice concetto aristotelico, e neppure il pessimistico cristianesimo di
Agostino. L’aristotelismo è rinnovato dal punto di vista Cristiano […].32
Già qui vediamo delinearsi il Dante attualista di Gentile. Con la formula dello
Stato come celebrazione della libertà e come “realtà etica”, Gentile intende la
“consapevolezza di quel che si è” e la “volontà di quel che si dev’essere”.33
Questo passo su Dante riecheggia un altro testo importante di Gentile dove si
parla di libertà che è La riforma della dialettica Hegeliana:
La storia dell’umanità procede per gli sforzi continui del volere che vien
liberando se medesimo attraverso le lotte civili, economiche, politiche, reli-
giose, scientifiche, verso l’assoluta libertà della ragione, la cui forma ideale,
se in tutto realizzata, segnerebbe la conclusione della storia. Ma, poiché ogni
ideale si viene realizzando in una vita infinita, la conclusione non verrà mai,
né la perfetta libertà etica sarà mai un fatto, e gli uomini si travaglieranno
sempre a umanizzarsi, a farsi sempre piú liberi, con ritmo perpetuo di mo-
ralità e di filosofia.34
31
Ibidem, p. 160.
32
Ibidem, p. 153.
33
G. Gentile, “La filosofia e lo Stato”, in Giornale Critico della Filosofia Italiana, 10
(1929), p. 165.
34
G. Gentile, La riforma della dialettica Hegeliana, p. 125.
35
G. Gentile, “La profezia di Dante”, p. 159.
Lo Stato nell’interiorità dell’essere umano: 185
Lo spirito che si sublima nel cielo di Dio, […] è quello dell’uomo, che ha
imparato a sentire l’interesse di tutti come superiore al proprio, anzi come
l’unico: quello cioè che ha imparato ad obbedire alla legge come voce piú
intima, piú imperiosa e insieme piú soave, che gli parli dall’intimo della co-
scienza. E perciò, come predicava Dante a’ suoi fiorentini, è divenuto libero.
Libero di quella libertà, che è detta il maggior dono che Dio […] facesse alle
creature intelligenti.36
36
Ibidem, pp. 159, 162-163.
37
G. Gentile, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica. Firenze, Sansoni,
1945, p. 33.
38
G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, pp. 17-18.
39
G. Gentile, “La profezia di Dante”, p. 171.
186 Donatella Stocchi-Perucchio
gnifica filosofica nella misura in cui “investe tutta la sfera delle relazioni che
legano l’uomo al mondo”.40 Ne “La profezia di Dante”, Gentile scrive che sul
volto di Dante “batte […] il pensiero del destino dell’uomo”.41 Con una felice
sinestesia del battito del cuore applicato alla mente, il filosofo riesce a rendere
il carattere attivo-volitivo del pensiero dantesco e a convalidare nel contempo,
con Dante, il carattere universalistico e dinamico dell’attualismo come filoso-
fia dell’azione.
Gentile non parla mai della teoria dell’intelletto possibile che Dante pre-
senta nella Monarchia come principio guida della sua indagine e fondamento
filosofico della sua teoria dell’Impero (Mn I iii 2). Il motivo si può rintracciare
nella sua avversione per l’Averroismo sulla cui importanza ai fini del trattato
tanto si è dibattuto.42 Eppure un collegamento tra la nozione dantesca dell’in-
telletto possibile e la teoria attualistica gentiliana del pensiero pensante sembra
particolarmente pertinente alla teoria dello Stato che troviamo ne “La profezia
di Dante”. Nella Monarchia, Dante dichiara che l’attività propria del genere
umano (humana universitas, universitas hominum, o humanitas) è l’attività
conoscitiva dell’intelletto possibile, che il fine ultimo dell’umanità è l’attua-
zione dell’intero potenziale di tale intelletto e che questa attuazione consiste
in una incessante attività speculativa e per estensione pratica che richiede la
partecipazione di tutti gli esseri umani. Dante teorizza cosí l’universalità del
pensiero, l’inseparabilità del pensiero e dell’azione, del conoscere e del fare
(dove l’idea della prassi pertiene alla sfera sia dell’agire, cioè la politica, che
del fare, cioè l’arte intesa come lavoro e produttività), come pure la perpetuità
dell’attività stessa, almeno fino alla fine del mondo.43 Infine, dato che la Mo-
narchia tratta della sfera etica, cioè la sfera dell’azione umana, Dante non si
occupa tanto dell’attività speculativa dell’intelletto ma soprattutto di quella
pratica della volontà.44
Come Dante, Gentile si interessa al rapporto tra individualità e pluralità e
la sua reductio ad unum consiste nel risolvere l’“io empirico” nell’“io trascen-
dentale”. Come la comunità di soggetti pensanti che Dante concepisce unifica-
ta nell’attività dell’intelletto possibile, cosí lo Stato gentiliano esiste prima di
tutto in interiore homine. In quanto comunità interiore, esso non si identifica
con il governo come l’intelletto possibile di Dante non si identifica con l’Im-
pero ma ne è il presupposto filosofico:
40
G. Gentile, “La filosofia di Dante”, in Studi su Dante, pp. 205-206.
41
G. Gentile, “La profezia di Dante”, p. 169.
42
G. Gentile, I problemi della Scolastica, pp. 118-122.
43
È questa l’interpretazione che Bruno Nardi dà dell’actuare semper in Monarchia, I iv 1.
In “Note” alla Monarchia, in Opere minori, vol. 5, t. II. Milano, Ricciardi, 1979, p. 303.
44
Monarchia, I iii 1-10.
Lo Stato nell’interiorità dell’essere umano: 187
Lo Stato […] non è inter homines, ma in interiore homine. Non è quello che
vediamo sopra di noi; ma quello che realizziamo dentro di noi, con l’opera
nostra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti; non soltanto entrando in rappor-
to con gli altri, ma anche semplicemente pensando, e creando col pensiero
una realtà, un movimento spirituale, che prima o poi influirà sull’esterno,
modificandolo.46
[…] tutti gli uomini sono, rispetto al loro essere spirituale, un uomo solo, che
ha un solo interesse, in continuo incremento e svolgimento: il patrimonio
dell’umanità.48
[…] il nostro prossimo […] quello che propriamente si dice Noi […] for-
mano quell’unica persona, quell’unico soggetto, che è il vero soggetto, del
conoscere; del conoscere e dell’operare umano; quel soggetto che conosce e
opera sempre per un interesse universale, e, per cosí dire, per conto di tutti;
o meglio per conto di un Uomo, in cui tutti i singoli uomini concorrono e
s’immedesimano.49
[…] in fondo all’Io c’è un Noi; che è la comunità a cui egli appartiene, e che
è la base della sua spirituale esistenza, e parla per sua bocca, sente col suo
cuore, pensa col suo cervello.50
Questo è oggi il nostro ideale. Potrei dire, il nostro Stato, avvertendo che lo
Stato, al modo stesso d’ogni realtà etica, non è per l’appunto quello che c’è,
ma quello che si costruisce, quello che noi politicamente lavoriamo sempre
a costruire, senza poter dire mai di avere bella e compiuta l’opera nostra:
l’idea, per cui lottiamo, per cui diamo anche la vita, torcendo lo sguardo
dai difetti degli istituti e degli uomini in cui essa s’incarna, se non fosse per
45
G. Gentile, “La profezia di Dante”, p. 171.
46
G. Gentile, “Il problema politico”, in M. Veneziani, ed., op. cit., p. 189.
47
G. Gentile, “La filosofia e lo Stato”, p. 165.
48
G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto. Firenze, Sansoni, 1961, p. 75-76.
49
G. Gentile, La riforma dell’educazione. Firenze, Sansoni, 1955, p. 70.
50
G. Gentile, Genesi e struttura della società, p. 15.
188 Donatella Stocchi-Perucchio
colmarli col senso vivo e operoso del nostro ideale. Questa fu la profezia di
Dante […].51
Rapportando cosí l’impero allo Stato del futuro piuttosto che all’utopia del
passato, Gentile sostituisce l’utopia con la profezia aprendo l’universalismo
etico di Dante a future interpretazioni politiche proiettate temporalmente già
oltre la propria. Il metodo attualista mette in luce una reciprocità tra il poeta
e il filosofo. Grazie a Gentile, le idee politiche di Dante acquistano una nuo-
va urgenza, una nuova immediatezza e un nuovo potenziale per influenzare il
modo in cui pensiamo a noi stessi come società. Nel contempo la mediazione
di Dante contribuisce a distanziare la concezione gentiliana dello Stato etico,
stigma della sua illusoria e in ultima analisi tragica adesione al fascismo, av-
vicinandola ai suoi antecedenti antichi e medievali. Grazie a Dante possiamo
assumere un punto di vista inconsueto da cui riconoscere gli aspetti piú vitali
e forse ancora validi della filosofia gentiliana dell’atto agli effetti del nostro
odierno confronto con i bisogni e con le sfide di un mondo sempre piú global-
mente atomizzato.
51
G. Gentile, “La profezia di Dante”, p. 172.
52
Ibidem, p. 174.
Un’Europa nuova, un’Europa dei popoli:
releer La tregua hoy1
EUGENIO SANTANGELO
Universidad Nacional Autónoma de México
1
Quisiera dedicar estas breves reflexiones a las alumnas y alumnos con quienes compartí el
salón de clase en un seminario dedicado a la obra de Levi, así como en otros acerca de la relación
entre literatura y pueblos, en los que empezamos leyendo precisamente algunas páginas de La
tregua. Sin ellas y ellos, estas páginas no hubieran sido posibles. En conjunto, intentamos que el
salón se vuelva, quizás, un pequeño espacio para la construcción de las condiciones sociales de la
escucha.
2
Primo Levi, Il sistema periodico, en Opere complete, vol. I. Torino, Einaudi, 2016, p. 971.
3
En una entrevista con Giuseppe Grassano, además de considerar, con exceso de modestia,
“scarso” el valor de sus poemas, Levi describe su relación no metódica, “enigmática” y conflictiva
con la escritura poética: “è un fenomeno che non capisco, che non conosco, che non so teorizzare,
di cui rifiuto addirittura il meccanismo. Non fa parte del mio mondo. Il mio mondo è quello di
pensare ad una cosa, di svilupparla in modo quasi… da montatore, ecco, di costruirla poco per
volta. Quest’altro modo di produrre a folgorazioni mi stupisce”, citado por Marco Belpoliti, “Note
ai testi”, en P. Levi, Opere complete, vol. II, p. 1811.
4
P. Levi, Se questo è un uomo, en op. cit., p. 137.
189
190 Eugenio Santangelo
5
P. Levi, Ad ora incerta, en Opere complete, vol. II, p. 662.
Un’Europa nuova, un’Europa dei popoli: releer La tregua hoy 191
6
P. Levi, Se questo è un uomo, p. 137.
192 Eugenio Santangelo
7
Paolo Virno, Saggio sulla negazione. Torino, Bollati Boringhieri, 2013.
8
P. Levi, Se questo è un uomo, p. 166.
9
P. Levi, Se non ora, quando? en Opere complete, vol. II, p. 649.
10
P. Levi, La tregua, en Opere complete, vol. I, p. 310.
11
Ibidem, p. 311.
Un’Europa nuova, un’Europa dei popoli: releer La tregua hoy 193
12
Ibidem, p. 312.
13
Idem.
14
Ibidem, p. 313.
15
Ibidem, p. 311.
16
Se puede escuchar en el siguiente link: <http://www.rainews.it/dl/portaleRadio/media/
ContentItem-d4c1e891-9fc7-43d8-a9fc-81292c0a9373.html>
194 Eugenio Santangelo
26
Ibidem, p. 389.
27
Ibidem, p. 450.
La comunità oscena: stile adolescenziale
e politica del Movimento nel primo Tondelli
ACHILLE CASTALDO
Duke University
L’alterità presente in Altri libertini fin dal titolo può certamente essere letta in
riferimento alla poetica bachtiniana polifonica aleggiante sulla Bologna dell’e-
poca, e che Tondelli dichiara subito come uno dei suoi modelli teorici ringra-
ziando Bachtin in persona nei “Titoli di coda” del libro, nonché menzionando-
lo in riflessioni e interviste successive: “In parte diciamo che il polifonismo è
anche quando ogni personaggio e ogni azione minima all’interno del romanzo
ha una sua autonomia, per cui interagire con gli altri punti del racconto, ma
appunto conservando una sua piena autonomia”.2 Ma è forse possibile consi-
derare quell’alterità in relazione a un altro aspetto del “romanzo a episodi”, im-
mediatamente messo in luce dalla censura che provò a bloccarne la diffusione
all’indomani della pubblicazione, ovvero la sua oscenità.
In un testo apparso nel 2002, Enrico Palandri racconta di aver rinunciato
a leggere un brano di “Postoristoro” (episodio di apertura di Altri libertini)
inizialmente scelto per un suo intervento a una conferenza dedicata a Tondelli3
per il ventennale della morte: “La mia scelta originaria era stata proprio Po-
storistoro, ma era giunto un veto. […] Lo strano divieto a Postoristoro, non so
bene se giunto dalla famiglia di Pier Vittorio o da chi altro tra gli organizzatori,
mi lasciava perplesso”.4 Del resto lo stesso Tondelli poco prima della morte,
com’è noto, aveva praticato alcune correzioni su quel testo per eliminare le
bestemmie (“diceva che non servivano, che non era giusto”),5 dando cosí in un
certo senso ragione a quel Donato Massimo Bartolomei, Procuratore Generale
dell’Aquila, che aveva provato a impedirne l’uscita a difesa “[del]le divinità
del Cristianesimo” (da notare il plurale quasi paganeggiante) e affinché il let-
tore non venisse “violentemente stimolato verso la depravazione sessuale e il
disprezzo della religione cattolica”.6 Nonostante la sentenza assolutoria avesse
1
Da un’intervista apparsa su Lotta Continua il 13 marzo 1980, apud Pier Vittorio V. Tonde-
lli, “Nota ad Altri libertini”, in Opere. Romanzi, teatro, racconti. Milano, Bompiani, 2000, p. 1123.
2
Idem.
3
Si tratta dell’incontro “Ricercare” dell’ottobre 2001.
4
Enrico Palandri, “Lo stile necessario”, La deriva romantica. Ipotesi sulla letteratura e
sulla scrittura. Novara, Interlinea, 2002, pp. 67-68.
5
P. V. Tondelli, “Nota ad Altri libertini”, in op. cit., p. 1135.
6
Ibidem, p. 1114.
197
198 Achille Castaldo
poi sancito l’assenza dello stimolo verso la depravazione sessuale (“le parole
utilizzate [...] non urtano la sensibilità dell’uomo medio, non suscitano in esso
alcun impulso erotico”),7 è però indispensabile notare come il Bartolomei co-
gliesse in un certo senso nel segno parlando della violenza di uno “stimolo”
nei confronti del lettore.
La censura ha del resto spesso il merito di porre in termini chiari i proble-
mi di teoria della ricezione: in un testo del 1984, Tondelli sembra riconoscere
l’importanza della questione tornando sul tentativo censorio e riflettendo sul
concetto di oscenità, di cui individua due possibili accezioni. La prima, positi-
va, riguarderebbe l’oscenità nel suo significato pseudo-etimologico, come ciò
che è tenuto fuori dalla scena:8 si tratterebbe, in questo caso, di quelle realtà
sconvolgenti e non accettabili nell’esperienza ordinaria, che l’arte ci costringe
ad affrontare. Solo in apparenza simile, sarebbe invece l’oscenità triviale e
voyeuristica consistente nella spettacolarizzazione fine a se stessa di qualcosa
che potremmo definire come un’atrocità del privato, come spesso accade con
i mezzi di comunicazione di massa: “esiste anche un lato nero o tenebroso del
concetto di oscenità: è quello del disvelamento fine a se stesso, del commercio
del disvelamento. [...] Voglio dire che ritengo osceno fare di un fatto privato
un’occasione pubblica reificata”.9 Ancora una volta, la problematicità di quel
“fine a se stessa” sembra già essere tutta interna alla prospettiva censoria che
l’autore finirà per abbracciare (in realtà ben prima della finale “conversione”,
viste le molteplici manifestazioni di fastidio da lui espresse nel corso degli anni
nei confronti di quella sua prima prova narrativa), dal momento che il criterio
dell’“utilità ai fini della trama” delle scene incriminate è da sempre uno dei
cavalli di battaglia del discorso censorio. In ogni caso, l’autore chiude la sua
riflessione con una sorta di definizione riassuntiva che sembra implicitamente
smentire la distinzione tra una “buona” e una “cattiva” oscenità:
7
Idem.
8
Nel brano citato di seguito, Tondelli presta fede a una pseudo-etimologia largamente
diffusa.
9
Ibidem, p. 1117.
10
Idem.
La comunità oscena: stile adolescenziale e politica del Movimento 199
11
Jean-Luc Nancy, La Communauté désœuvrée. Paris, Christian Bourgois, 1986, p. 42.
12
Il testo in questione è Lucio Castellano et al., “Do You Remember Revolution?”, in Mi-
chael Hardt e Paolo Virno, ed., Radical Thought in Italy. Trad. Michael Hardt. Minneapolis, Uni-
versity of Minnesota Press, 1996, pp. 224-237.
13
“La questione ‘socialista’ dell’occupazione dello Stato, della ‘presa del potere’ proletario
in realtà non si pone neppure: perché il nuovo potere che emerge non si dà una rappresentazione
200 Achille Castaldo
a loro dire, della costruzione conflittuale di spazi di autonomia nella vita quoti-
diana sottratti al potere dominante:14 “The key to this new outlook was the af-
firmation of the movement itself as an alternative society, with its own richness
of communication, its own free productive capacities, its own forms of life”.15
Certo, la definizione di queste forme di vita è sempre esposta al rischio di
trasformarsi, data la natura estremamente eterogenea che ha caratterizzato le
esperienze legate all’autonomia, nell’esegesi dei testi che hanno provato, nel
corso degli anni, a renderne ragione.
Eppure, se il concetto di “rifiuto del lavoro” emerge come il nocciolo at-
torno a cui crescono queste esperienze, soprattutto in coincidenza con l’accele-
razione impressa dal Movimento del ’77, e con la centralità assunta dalle istan-
ze del femminismo16 e dalle prime organizzazioni degli omosessuali17 —in cui
il privato assume una centralità politica dirompente— il fulcro delle “forme di
vita” da cui si sviluppa il movimento stesso sembra essere proprio una certa
impensata dimensione del vivere in comune, inevitabile nel momento in cui il
movimento stesso cerchi di farsi spazio autonomo di esistenza quotidiana in
contrapposizione alla socialità dominante del capitalismo.18 Questa dimensione
può essere forse caratterizzata con quella alterità “terza” iscritta nello sguardo
osceno, e che Nancy sembra voler implicare negando che l’essere-comunitario
statuale, non è delegabile, non è separabile da quelli che lo esercitano, non è politico ma ‘produt-
tivo’, ‘estingue’ lo Stato”. Lucio Castellano, “Il rifiuto del lavoro”, in Sergio Bianchi e Lanfranco
Caminiti, ed., Gli autonomi, vol. 2. Roma, DeriveApprodi, 2007, p. 17.
14
“Le forze sociali che si mettono in movimento non si battono per abolire una totalità, né
per instaurare una totalità alternativa. Si battono piuttosto per creare spazi di vita indipendente, di
definizione autodeterminata dei modi di produzione, delle forme di vita, degli apparati tecnologici.
Si battono cioè per convivere con le altre configurazioni sociali e culturali, per accoglierle senza
esserne invase”. Franco Berardi (Bifo), “Genesi e significato del termine ‘autonomia’”, S. Bianchi,
L. Caminiti, op. cit., vol. 2, p. 46.
15
L. Castellano et al., op. cit., p. 229.
16
“L’elemento piú dirompente è sicuramente quello del corpo. Ciò che sconvolge la stampa,
ed entra nell’immaginario, è l’irruzione del corpo femminile guardato con occhio di donna […]
è questo l’elemento che scardina gli assetti di conoscenza e di percezione, è questo che diventa
politico. È un corpo che rivendica, alla politica e al pubblico, la storia di oppressone millenaria
delle donne”. Elettra Deiana, “Dissonanze” (tavola rotonda con G. Colotti, E. Deiana, M. Fraire,
P. Masi, M. Pivetta, M. Campanale), in Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, ed. Settantasette.
La rivoluzione che viene. Roma, DeriveApprodi, 2004, p. 221. “Nulla, oltre alla ‘forza operaia’, è
stato socialmente rilevante nel decennio Settanta quanto il sommovimento sociale determinato da-
lla rivolta del femminismo. Da lí origina la ‘rivoluzione del privato’ che si riverbera poi su tutta la
materialità esistenziale legata alla questione della centralità della gestione del corpo nel processo
rivoluzionario. È dibattito teorico, ma anche lotta pratica nel quotidiano”. in Sergio Bianchi, “La
pattumiera della storia”, in S. Bianchi e L. Caminiti, ed., op. cit., vol. 1, pp. 18-19.
17
Si veda Porpora Marcasciano, AntoloGaia: vivere sognando e non sognare di vivere: i
miei anni settanta. Roma, Alegre, 2014.
18
“Il movimento del ’77 fu essenzialmente un processo di critica della politica esistente, per
una politica della vita quotidiana. È sul terreno della vita quotidiana, del lavoro e della comuni-
cazione, che la lotta fra dominio e liberazione si svolge”. F. Berardi (Bifo), “Pour en finir avec le
jugement de dieu”, in S. Bianchi, L. Caminiti, ed., op. cit., p. 178.
La comunità oscena: stile adolescenziale e politica del Movimento 201
possa appartenere all’esperienza del soggetto come un darsi immediato del vi-
vere insieme, o dell’ “essere-con,” per usare l’espressione heideggeriana (Mit-
sein) da lui richiamata: “la comunità ha luogo attraverso gli altri e per gli altri”.
In altri termini, l’esperienza della comunità nega la “presenza” del soggetto,
che non si può, propriamente, condividere; si tratta piuttosto di un qualcosa
cui si può essere presso. È per questo che in un certo senso si può essere solo
“terzi” nei confronti della comunità, che è ciò che è sempre già lí, sempre già
presente nell’immagine di almeno altri due esseri umani (l’unità minima della
comunità meno il terzo che la rende possibile) cui ci si accosta. Quello che
Nancy descrive qui non è altro che l’esperienza piú banale e diffusa della vita
comunitaria, ovvero il fatto che essere parte di un gruppo vuol dire innanzitutto
essere un occhio che osserva gli altri, che assiste, con indispensabile cinismo,
con curiosità inevitabile, a quegli aspetti del privato la cui condivisione non è
“necessaria”, né opportuna, secondo le regole della razionalità o del decoro.
Non ha senso pensare la comunità come ciò “che si fa” in comune: si tratta, in
questo caso, della banale interazione tra soggetti: la dimensione comunitaria
si apre solo quando c’è la posizione del terzo, solo quando l’Occhio estraneo
ma partecipe, non piú soggettivo (perché ridotto fino al chiunque impersonale)
scruta l’oscena emergenza del quotidiano. Non a caso, interpretando Bataille,
Nancy definisce l’esperienza della comunità attraverso due momenti irriduci-
bili a unità, eppure non separabili, ovvero la comunità propriamente detta (nel
senso immediato di un interagire) e l’estasi. Quest’ultima, figura di una “posi-
zione” che nella comunità apre il luogo dell’impersonale, è caratterizzata come
interruzione: “La communauté est faite de l’interruption des singularités, ou du
suspens que sont les êtres singuliers”.19 In altri termini, non è possibile pensare
all’esperienza comunitaria senza la posizione vuota dell’impersonale, quella
che deve essere di volta in volta occupata dalla singolarità esposta all’essere-
insieme, e cui quest’ultimo si offre.
Naturalmente, affinché abbia senso il permanere di questa dualità, è ne-
cessario che le forme della comunità esposta all’estasi, e cui l’estasi si espone,
siano aperte a quelle esperienze “estreme” eppure ordinarie del quotidiano,
che non possono semplicemente essere condivise (e che il vivere sociale tende
ad occultare), come il dolore, la malattia, la sofferenza psichica, e natural-
mente la morte, che diviene per Nancy il fulcro stesso dell’essere in comune.
Si tratta della morte dell’altro (o, per meglio dire, degli altri, dal momento
che l’esperienza che si offre all’estasi deve essere già sempre quella di una
comunità), non in quanto rispecchiamento in cui io possa vivere la mia stessa
morte, ma in quanto esperienza dell’altro non condivisibile, alla cui estremità
posso soggiornare, attardarmi (il Verweilen accanto alla morte di cui parlava
Hegel nella Fenomenologia): “je ne me reconnais pas dans cette mort d’autrui
19
J-L. Nancy, op. cit., p. 79.
202 Achille Castaldo
28
Cito sempre, fra parentesi nel corpo del testo, i numeri di pagina dell’edizione di Altri li-
bertini in P.V. Tondelli, Opere; in questa e in tutte le altre citazioni testuali di Altri libertini i corsivi
sono miei. È possibile forse cogliere qui una traccia dell’avvio della Taverna dei destini incrociati
di Calvino, comparsa in volume insieme a Il Castello nel 1973, dove ritroviamo numerosi elementi
di questo incipit, come l’accostamento tra una prima persona plurale indeterminata e la descrizione
frammentaria di un luogo, l’opposizione tra un fuori buio e spaventoso e un “dentro” in cui ci si
rifugia, la luce che è “fumosa” in Calvino, e in Tondelli “sciatta e livida, neon ammuffiti” — ma
il fumo è comunque presente; e poi i tavoli naturalmente, i bicchieri pieni, perfino il gioco di carte
(che ha ovviamente un ruolo centrale nella Taverna mentre è qui un dettaglio): “Veniamo fuori dal
buio, no, entriamo, fuori c’è buio, qui si vede qualcosa, in mezzo al fumo, la luce è fumosa, forse di
candele, però si vedono i colori, dei gialli, dei blu, sul bianco, sulla tavola, macchie colorate, rosse,
anche verdi, coi contorni neri, disegni su rettangoli bianchi sparpagliati sul tavolo. C’è dei bastoni,
rami fitti, tronchi, foglie, come fuori prima, delle spade che ci dànno addosso colpi taglienti, d’in
mezzo alle foglie, le imboscate nel buio dove c’eravamo perduti, per fortuna alla fine abbiamo vis-
206 Achille Castaldo
30
Si veda, ad esempio, il già citato saggio di Santangelo, soprattutto per l’influsso dei saggi
celatiani raccolti in Finzioni occidentali.
La comunità oscena: stile adolescenziale e politica del Movimento 209
31
Che ritroviamo in tutti i romanzi citati sopra come esempi di narrazioni “generazionali”
(ma degenerate) dell’epoca.
32
“È come dire che la sintesi produttiva e politica che il rapporto di capitale offre appare
povera a fronte della ricchezza crescente del tessuto sociale che si costituisce attorno alle lotte”
(L. Castellano, art. cit., p.16). “Il rifiuto del lavoro in questa analisi è il grimaldello per agire con-
cretamente contro qualsiasi forma di sfruttamento della forza-lavoro e per costruire momenti di
cooperazione sociale e produttiva che alludano a strutture societarie non solo anti ma anche oltre-
capitalistiche. Il rifiuto del lavoro è la pratica con la quale si inibiscono tutte le forme di produzione
alienanti, con cui la vigenza dei rapporti di capitale si interrompe. Il rifiuto del lavoro è la pratica
sociale con la quale il proletariato si nega come merce” (P. Tripodi, art. cit., p. 52).
210 Achille Castaldo
Gli umani sarebbero allora quegli esseri costituitisi in una reciproca me-
diazione nei confronti della natura, prima di ogni “proprietà privata”, che a
questo punto (da qui il significato politico di questa visione, al di là della sua
dimostrabilità antropologica) appare come un costrutto pienamente storico,
accidentale, frutto di una “appropriazione originaria” che sarebbe cominciata
proprio con il dominio sugli altri esseri umani piuttosto che sulle cose: “E ciò
che appare a noi moderni cosí scandaloso —cioè il diritto di proprietà sulle
persone— potrebbe essere anzi la forma originaria della proprietà, la cattura
(l’ex-ceptio) dell’uso dei corpi nel diritto”.34
Alla luce di questa ipotesi, appare evidente come le forme del “rifiuto del
lavoro” emerse nell’Autonomia degli anni Settanta fossero, al di qua di ogni
presa del potere statale o conquista dei mezzi di produzione, un’inversione
del meccanismo antropologico su cui è fondata la società capitalistica. In altre
parole, quelle forme di vita (non a caso il termine “forma-di-vita” diventerà
il fulcro del progetto filosofico di Agamben), proponevano, con il loro rifiuto
del lavoro che era in realtà un’uscita dal lavoro salariato verso un’inaudita
impresa di valorizzazione della cura collettiva, una vera e propria inversione
del meccanismo di appropriazione del lavoro di mediazione tra essere uma-
no e natura definito da Agamben: da qui tutte le forme di cura reciproca, di
cui il “collettivo” è occorrenza allo stesso tempo minima —in quanto esso
quasi sempre aspira ad andare verso una fusione di movimento— e troppo
estesa: l’importanza di gran lunga piú concreta delle condivisioni in piccolis-
simi gruppi, delle “convivenze”, del lavoro a turno, delle varie possibilità del
prendersi cura reciproco sperimentate all’epoca (di cui si trova una traccia, in
ambito letterario, in Gli invisibili di Balestrini, ma anche, in fondo, in Caro
Michele di Natalia Ginzburg).
È questo l’oggetto osceno della comunità, che la fa oscena. È questo l’in-
nominabile intravisto dall’occhio acuto del censore. Il rifiuto del lavoro come
alternativa storica, concreta, sperimentata da milioni di persone in tutta Europa
in quegli anni: un’alternativa, per quanto fallimentare —sommersa com’era
dal suo contesto— alla proprietà privata intesa nella sua figura originaria. Nel-
le narrazioni di Altri libertini vediamo quest’alternativa emergere, in partico-
lare, in un’immagine ben precisa, che ritroviamo, in forme diverse, in tutti i
33
Giorgio Agamben, L’uso dei corpi. Venezia, Neri Pozza, 2015, p. 36.
34
Ibidem, p. 62.
La comunità oscena: stile adolescenziale e politica del Movimento 211
35
A proposito della riflessione di Nancy sulla comunità, Blanchot domanda: “A quoi sert-
elle ? A rien, sinon à rendre présent le service à autrui jusque dans la mort, pour qu’autrui ne se
perde pas solitairement, mais s’y trouve suppléé, en même temps qu’il apporte à un autre cette
suppléance qui lui est procurée”, La Communauté inavouable. Paris, Editions de Minuit, 1983, p.
24.
36
Rabelais lo ritroviamo esplicitamente, in degna compagnia, nel “trojaio di Via Massaren-
ti”, in Viaggio: “E la sera ci leggiamo tutti insieme un po’ di Céline, un po’ di Rabelais e un po’ di
Daniel Defoe” (68).
212 Achille Castaldo
minaccia molto meno seria di quel semplice gesto che invertiva il fondamento
storico della società, la proprietà privata, in quella “cameretta” (“e poi Maria
Giulia, sempre in cameretta mia con il suo contagio”), stabilendo nuove forme
di vita in comune nell’estatico rimanere vicino, osservare le esperienze estre-
me degli altri, agire insieme agli altri, al di fuori di ogni logica di appropriazio-
ne, in una forma di vita che “si nega come merce”.37
C’è una camera separata particolarmente emblematica per la Bologna di
fine anni Settanta, e il cui significato storico è andato crescendo con gli anni,
probabilmente a causa del ricordo della brutalità che l’ha cancellata. È la ca-
mera in via del Pratello da cui Radio Alice ha trasmesso fino al 12 Febbraio
1977 (giorno successivo all’assassinio di Francesco Lorusso). Le registrazioni
di quella notte rimangono a testimoniare del modo in cui la comunità oscena
è stata messa a tacere dall’irruzione degli “adulti”, quasi a ristabilire il para-
digma infranto del romanzo di formazione. Si tratta di una scena che chiunque
può riconoscere: è il momento in cui arrivano i genitori, di notte, a spegnere
la musica.
37
P. Tripodi, art. cit., p. 52.
Il Superuomo ed Energeia, la decima musa:
La influencia de D’Annunzio en la aproximación
ideológica del Dr. Atl al fascismo
ÁNGEL SÁNCHEZ RODRÍGUEZ
Universidad Nacional Autónoma de México
En abril de 1940, cuando los ejércitos del Tercer Reich se preparaban para la
invasión de Francia, el Dr. Atl, oficialmente conocido como Gerardo Murillo
Cornadó, escribió:
1
Dr. Atl. “Quiénes ganarán la guerra” [1940], en Obras, 1. México, El Colegio Nacional,
2006, p. 503.
213
214 Ángel Sánchez Rodríguez
2
Beatriz Espejo, Dr. Atl. El paisaje como pasión. México, Fondo Editorial de la Plástica
Mexicana, 1994, p. 34; Antonio Luna Arroyo, El Dr. Atl. México, Salvat, 1992, pp. 118-119; Ar-
mando Castellanos, “El Dr. Atl en la Quinta Columna”, en Jorge Hernández Campos et al., Dr. Atl.
Conciencia y paisaje. México, unam, inba, 1985, pp. 64-65; Paco Ignacio Taibo II, “Café, espías,
amantes y nazis / ii (México 1941-1942)”, La Jornada, 11 de octubre de 2001.
3
Cuauhtémoc Medina González, Una ciudad ideal: el sueño del Dr. Atl, tesis. México,
unam, 1991, p. 43.
4
Olga Sáenz, El símbolo y la acción. Vida y obra de Gerardo Murillo, Dr. Atl. México, El
Colegio Nacional, 2012, pp. 456-457 y 462-466.
Il Superuomo ed Energeia, la decima musa 215
una constante lucha por superar límites, para ser fiel a la vida había que ser un
uomo d’azione; hacer del peligro l’asse della vita sublime.
Siguiendo un sendero nietzscheano, “el gran sí a la vida” llevó a
D’Annunzio a despojar al mundo de una valoración moral judeocristiana,
abriéndose paso una valoración estético-vitalista. Bueno sería todo lo bello y
potente. El poeta, en su exaltación de la vitalidad, anunciaba la aparición de la
decima musa, Energeia:
no ama las palabras medidas, sino la sangre abundante. Otras son sus medi-
das, otros sus metros. Ella cuenta las fuerzas, las energías, los sacrificios, las
batallas, las heridas, los dolores, los cadáveres; anota los gritos, los gestos,
las palabras de las energías heroicas. Ella enumera la carne abatida, la suma
del alimento ofrecido a la tierra para que, digerido, lo convierta en sustancia
ideal, lo devuelva en espíritu perenne. Ella toma el cuerpo horizontal del
hombre como medida única para medir el más vasto destino.5
13
G. D’Annunzio, “Electra” [1904], en op. cit., tomo iii, p. 1352.
14
Dr. Atl, Gentes profanas en el convento [1950], en Obras, 2, p. 619.
15
Ibidem, p. 621.
16
Dr. Atl, El Padre eterno, Satanás y Juanito García. México, Botas, 1938, p. 54.
17
Dr. Atl, “Paz-neutralidad-guerra” [1939], en Obras, 1, p. 477.
18
Ibidem, p. 482.
19
Ibidem, p. 462.
218 Ángel Sánchez Rodríguez
20
Dr. Atl. El Padre Eterno, Satanás y Juanito García, pp. 255-256.
21
Dr. Atl, Gentes profanas en el convento, pp. 619-620.
22
Dr. Atl, “Las sinfonías del Popocatépetl” [1921], en Obras, 2, p. 12.
Il Superuomo ed Energeia, la decima musa 219
26
Ibidem, p. 488.
27
Dr. Atl, “La derrota de Inglaterra” [1940], en Obras, 1, p. 550.
28
Dr. Atl, “La defensa de Italia en México”, en ibid., p. 370.
Il Superuomo ed Energeia, la decima musa 221
A no ser que viviese como un anacoreta en los Apeninos, el Dr. Atl debió
entrar en contacto con las ideas y obras de D’Annunzio. De hecho, por un
testimonio de José Vasconcelos, se puede inferir que Atl reconocía la fama de
D’Annunzio.32 En segundo lugar, en “Italia, su defensa en México”, el Dr. Atl
cita (incorrectamente) en su lengua original un poema de D’Annunzio que se
encuentra en su obra Elettra (1904), aunque no da la más mínima referencia.
El poema, tal como lo citó Atl, es:
29
Ibidem, p. 415.
30
Olga Sáenz, op. cit., p. 15. Atl regresa a México en diciembre de 1903.
31
Apud Giordano Bruno Guerri, D’Annunzio, l’amante guerriero. Milano, Mondadori,
2015, p. 112.
32
“[Dr. Atl dirigiéndose a Vasconcelos:] ¿Estuvo usted en el estreno de la otra noche, La
Mort parfumée? Sí… el detalle del ramo de rosas que aspira la Rubinstein, yo se lo aconsejé a
D’Annunzio. ¿Quiere usted conocer a D’Annunzio o a Bergson?” José Vasconcelos, “La tormen-
ta”, en Memorias, tomo i. México, Fondo de Cultura Económica, 1982, pp. 504-505.
33
Dr. Atl, “La defensa de Italia en México”, p. 342.
222 Ángel Sánchez Rodríguez
Estos versos tienen una relevancia mayor si se toma en cuenta que Atl no cita
en ningún otro lugar de su obra a un poeta de habla no hispana. ¿Y por qué no
dio la referencia? ¿Plagió? En modo alguno. La obsesión por la corrección en
las citas es relativamente reciente. Lo más probable es que el pintor esperase
que un lector medianamente culto reconociera de inmediato un poema de il
vate, y que citase de memoria, de ahí el error.
Por último, el lema de vida del Dr. Atl fue el adagio latino: Navigare
necesse est, vivere non est necesse (navegar es necesario, vivir no lo es).34
Atribuido por Plutarco a Cneo Pompeyo Magno,35 D’Annunzio fue quien lo
renovó como lema de toda vida heroica: “Gloria al Latino que dijo: ‘Navegar
es necesario; vivir no lo es’. ¡Gloria a él en todo el mar!”36 Su éxito fue tal que
el mismo Mussolini, sin duda también influido por la vida y obra de il vate,
escribió en 1919 un artículo al que intituló con la heroica consigna y en el cual
defendía un nihilismo activo defensor de la individualidad.37
Para concluir, cabe señalar que un elemento importante en la aproxima-
ción ideológica del Dr. Atl al fascismo no tiene ascendencia dannunziana: el
antisemitismo conspiracionista que formaba parte de su antijudeocristianismo
y de su furibundo anticomunismo. Sin embargo, su anhelo imperioso de pa-
lingenesia, su defensa a ultranza del genio y su actitud vitalista aristocrática
frente a la vida, mismas que lo acompañarán en su campaña apologética del
fascismo, tienen la marca del poeta del vivere inimitabile.
34
Atl se excusaba de su renuncia a El Colegio Nacional aduciendo su naturaleza nómada
e indómita: “Mi lema ha sido siempre: ‘No llegues nunca a puerto’, lema que podría mejorarse
diciendo elegantemente con el adagio latino: Navigare est necessit [sic], vivere non est necessit
[sic]”. Apud Antonio Luna Arroyo, op. cit., p. 120. Con el mismo adagio latino el Dr. Atl cierra su
novela autobiográfica Gentes profanas en el convento.
35
La frase la enuncia Pompeyo para animar a sus hombres a embarcarse pese a una tempes-
tad marina. Plutarco, Vida de Pompeyo, 50, 2.
36
G. D’Annunzio, “Maya”, en op. cit., p. 1199.
37
Benito Mussolini, “Navigare necesse est, non vivere”, en Armando Cassigoli, comp.,
Antología del fascismo italiano. México, unam, 1976, p. 100.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano:
Grand’Attori in Messico e in America Latina
LUCIANA PASQUINI
Università degli Studi “G. D’Annunzio”, Chieti-Pescara
1
Eugenio Buonaccorsi et al., Tommaso Salvini. Un attore patriota nel teatro italiano
dell’Ottocento. A cura di Eugenio Buonaccorsi. Bari, Edizioni di Pagina, 2011, p. 15. Per una
ricostruzione del profilo del Grand’Attore in Europa, si veda anche Alessandro Tinterri, “Il Grande
Attore e la recitazione italiana dell’Ottocento”, in Acting Archives Essays, Acting Archives Review
Supplement, 18 novembre, 2012, pp. 1-27.
2
Il giro del mondo di Adelaide Ristori (9 maggio 1874-14 gennaio 1876) ebbe origine in
Francia, ove avvenne l’imbarco a Bordeaux e approdò, dopo lo scalo tecnico in Portogallo, a Rio
De Janeiro per proseguire a Buenos Aires, Montevideo, Valparaiso, Santiago, Lima, Panama, Città
del Messico, Puebla, Veracruz, New York, San Francisco, Isole Sandwich (le attuali Hawaii), Ho-
nolulu, Nuova Zelanda, Australia (Sydney, Melbourne, Adelaide), Indie Inglesi (Ceylan, odierno
Sri Lanka), Aden (odierno Yemen), Africa (Suez, Alessandria D’Egitto).
223
224 Luciana Pasquini
3
Il Museo Biblioteca dell’Attore di Genova (MBA) conserva i Fondi intitolati a Tommaso
Salvini e Adelaide Ristori che costituiscono un autentico giacimento documentale in riferimento
al fenomeno del grandattorato italiano.
4
Ernesto Rossi, Studi drammatici e lettere autobiografiche. Firenze, Le Monnier, 1885;
E. Rossi, Quarant’anni di vita artistica. Firenze, Niccolai, 1887; Adelaide Ristori, Ricordi e studi
artistici. Torino-Napoli, Roux, 1887 (a cura di A. Valoroso. Roma, Audino, 2005) e Tommaso
Salvini, Ricordi, aneddoti ed impressioni dell’artista Tommaso Salvini. Milano, Dumolard, 1895.
5
Enrico Montazio, La Ristori in America. Impressioni, aneddoti, narrazioni di un Touriste
(Firenze, La Girandola, 1869), uscito precedentemente a puntate, nel 1868, sul Corriere Italiano;
ora in Luciana Pasquini, Adelaide Ristori in America e a Cuba. Il romanzo di viaggio di Enrico
Montazio. Lanciano, Carabba, 2015, pp. 109-470.
6
Bartolomeo Galletti, Il giro del mondo colla Ristori. Note di viaggio del Generale B.
Galletti. Roma, Tipografia del Popolo Romano, 1876.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 225
Drammatica nel ruolo di Primo Attor Giovane, scrive, tra una recita e l’altra,
lettere indirizzate ai propri cari, cosí da comporre un epistolario organico,
ricompattato a posteriori dai discendenti dell’attore che lo pubblicarono nel
1928, conferendogli la funzione di vero e proprio reportage.7
Da questi due volumi si estrapolano informazioni preziose riferite alla
tappa messicana del ’74-’75, una delle esperienze piú significative vissute dal-
la Compagnia, data la complessità dell’approccio con una popolazione poco
avvezza al teatro di prosa di matrice europea e pertanto inizialmente molto
poco interessata all’avvento degli attori italiani, a differenza di quanto stava
avvenendo nel corso di quella specifica tournée e in quelle degli anni prece-
denti, nelle altre città “americane”.
Il Piazza, quindi, scrive ai propri cari che, dopo essere entrata nelle acque
tranquillissime del Golfo del Messico e aver passato e festeggiato il Natale a
bordo del vapore, finalmente, la mattina del 27 dicembre 1874, la Compagnia
approda a Veracruz per salire sul treno diretto a Città del Messico, ove giunse
la sera del 31:
7
Marco Piazza, Con A. Ristori nel giro del mondo 1874-1875. Lettere di viaggio di M.
Piazza, a cura di Dino Piazza. Milano, Italgeo, 1928.
8
Ibidem, p. 52.
226 Luciana Pasquini
molti ancora sono gli onori, gli applausi ed i trionfi di cui è fatta oggetto dai
pochi ammiratori che concorrono al teatro, ed è ammirabile la protesta del
giornalismo in massa, che si è scatenato contro il pubblico, biasimando con
dure parole la sua astensione dalle rappresentazioni.9
E, passando per le descrizioni del árbol de la noche triste, del tipico paesetto
di Santa Anita e del pregevole Museo di storia naturale, si torna a focalizza-
re, cosa che molto preme all’attore, sull’andamento migliorativo delle rappre-
sentazioni: “La Maria Antonietta ha rialzate le sorti della stagione. È tanta la
9
Ibidem, p. 53.
10
Idem.
11
Ibidem, p. 54-55.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 227
fama di questo lavoro, che si ripete già da tre volte con teatro completamente
pieno”.12
Quindi si cambia città e, rispetto alla capitale, Veracruz fu piú accogliente
e calda: la Compagnia vi si recò il 14 febbraio 1875 e vi agí in Elisabetta Re-
gina d’Inghilterra e in Maria Stuarda, nelle cui recite Marco Piazza si trovò
a dover sostituire il primo attore, Achille Majeroni (che aveva telegrafato di
essere ammalato e di dovere pertanto rimanere a Città del Messico), cosí da
sostenere all’improvviso, ma con discreto esito, le parti principali del Conte di
Essex e del Conte Leicester.
Piazza, al termine della permanenza messicana, si sente però di mettere
in particolare evidenza come l’iniziale freddezza patita dalla Ristori in quella
nazione fosse pian piano mutata in un maggiore ed insperato gradimento:
Prima di lasciare questa Città di Messico, vi dirò che negli ultimi tempi sono
andate sempre aumentando le simpatie e le amicizie, tanto che nella serata
d’onore della Ristori l’entusiasmo raggiunse proporzioni veramente memo-
rabili; ciò che davvero l’inizio della stagione non ci aveva fatto sperare.
Tutto il cammino che conduceva dalla porta di ingresso al camerino della
Ristori era tappezzato di fiori. Molti preziosissimi doni le vennero presentati
da una deputazione di Signori; tra essi una corona su cui stavano appese 40
oncie d’oro, medaglie d’oro e d’argento espressamente coniate, recanti da
un lato la sua effigie e dall’altro l’iscrizione “El entusiasmo al mérito”.
Questa conquista graduale del favore del pubblico, che aveva risposto ai
primi richiami con tanta apatia, è la vera prova della potenza del genio.13
E fioccano di seguito i riferimenti dettagliati alle due leggende legate alle sta-
tue sacre del Niño Cautivo esposto nella Cattedrale e del Cristo del Rebozo
collocato nella attigua Chiesa di Santa Teresa, cosiddetto perché la statua reca
“sulle spalle una specie di fazzolettone nero di lana usato dalle donne messi-
cane”. Galletti narra anche per filo e per segno la bella storia della Madonna
di Guadalupe che raccomanda di andare a visitare come tappa immancabile.
Ma oltre a queste amenità di natura cultuale, il generale fa riferimento
ad altri pregi detenuti dalla capitale, come l’Università, la Biblioteca, l’Osser-
vatorio, un buon numero di collegi, l’Accademia delle Belle Arti, un museo
di copie in gesso di capolavori plastici ed una vasta collezione di quadri della
14
B. Galletti, op. cit., p. 129.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 229
Il Messico si può dire sia segregato dal mondo: — bisogna andarvi apposi-
tamente, e bisogna fare — per uscirne — la stessa strada.
È per questo senza dubbio che la fama della Ristori non essendo penetrata
fin là — i Messicani accolsero sul principio la grande artista con freddezza
— e scarsamente accorsero alle prime rappresentazioni, mentre il teatro ove
agivano i cani ammaestrati era sempre pieno zeppo col biglietto di ingresso
a un pezzo (5 franchi)!
Però quella minoranza di egregie persone di cui ho parlato — e i giornali
di tutti i colori, cominciarono unanimi a gridare allo scandalo, e misero in
opera ogni argomento di persuasione — fino a quello poco parlamentare di
Margherjtas ante porcos — per scuotere la popolazione da una indifferenza
che essi chiamavano artisticamente disonorante.
Sia che tali consigli ed eccitamenti abbiano conseguito il loro effetto — sia
che la potenza artistica della Ristori abbia commossi anche i cuori piú schi-
vi — è un fatto che a poco a poco la freddezza si cambiò in entusiasmo, e
finí con tante dimostrazioni di affetto e di ammirazione, che forse la celebre
artista non ne aveva avute maggiori nei luoghi antecedentemente percorsi.15
15
Ibidem, p.143.
16
Ibidem, p.146.
230 Luciana Pasquini
Le valutazioni finali, poi, non lasciano dubbi sulle difficoltà che un simile ter-
ritorio avrebbe potuto riservare ad altre compagnie teatrali europee:
17
Idem.
18
Ibidem, pp. 146-147.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 231
gli stessi risultati nelle tante escursioni da lei fatte in Olanda, in Russia, in
Germania, in Inghilterra, ecc.
Il vero segreto di tutto ciò vado a dirlo in due parole, e valga tanto pel pas-
sato quanto per l’avvenire.
La Ristori è compresa da tutti i popoli del mondo per una semplice ragione
— perché essa parla la lingua universale, la lingua intesa sotto tutte le latitu-
dini, la lingua del cuore — della passione — del sentimento — della verità.
Per poco che un uditorio sia educato a sensi civili, non può assistere indiffe-
rente a quella intelligenza superiore — a quel gesto — a quella inflessione di
voce — a quel giuoco di fisonomia — a quell’insieme artistico in una parola
che esprime ad evidenza una situazione, e che spiega — se non con la parola
— certo la frase o il senso di essa.
Devesi aggiungere che i soggetti rappresentati dalla Ristori sono sempre
stati scelti nei fatti storici o biblici piú conosciuti.
Chi non conosce per esempio la commovente storia di Maria Antonietta, o
quella di Maria Stuarda e di Giuditta?
Finalmente pei piú ribelli a comprendere, l’amministrazione dell’Arte
Drammatica ha in serbo una grande quantità di casse di libretti col testo
italiano da una parte, e la relativa traduzione in spagnuolo od altre lingue.
Tutte le sere si vendevano dai trecento ai cinquecento libretti al vil prezzo di
2 franchi e 50 — mentre costavano all’amministrazione 30 centesimi!
Dirò in fine la bella cifra rotonda di utile netto avuto dalla Ristori in tutto il
viaggio sulla vendita di questi libretti.
Quanti autori — compreso lo scrivente — si contenterebbero di averne la
decima parte per le loro opere originali!19
19
Ibidem, pp. 147-149.
232 Luciana Pasquini
della cultura italiana, date le sue origini europee ed il matrimonio con Teresa
Cristina Maria di Borbone).20
Era specificamente il repertorio grandattorale di Adelaide Ristori ad avere
nelle eroine mitologiche di Medea, Fedra, Camma, Mirra e Cassandra i pro-
pri cavalli di battaglia, vere gemme di spicco in un repertorio complesso ed
articolato (composto anche da riduzioni di drammi shakespeariani, francesi,
alfieriani, commedie goldoniane, dai tanto amati drammi d’argomento stori-
co, medievale e dantesco nonché dalla presenza di dizioni poetiche attinte dal
vasto serbatoio che i versi della tradizione letteraria italiana, dantesca in pri-
mis, offriva) all’interno del quale proprio l’argomento mitologico incontrò le
difficoltà maggiori nell’essere compreso e recepito favorevolmente nel Nuovo
Mondo. Però la perizia scenica degli interpreti di quella straordinaria genera-
zione di attori, demiurghi riconosciuti della scena mondiale, riuscirà a rendere
graditi pure temi lontani, per molti versi, dalla sensibilità di quelle lontane
platee, facendo apprezzare, infine, anche opere piú spiccatamente classiche e
per di piú declamate in italiano e spesso in versi.
Gli italici Grand’Attori ottocenteschi, quindi, spinti a viaggiare fuori
dall’Italia e dall’Europa dal forte bisogno economico, derivante dalle misere
condizioni in cui versava il palcoscenico italiano nell’età post-risorgimentale
dopo oltre mezzo secolo di guerre, ebbero non solo il merito di gettare validi
ponti culturali tra Vecchio e Nuovo Continente, favorendo la conoscenza delle
loro virtuose doti recitative e della letteratura italiana ed europea; detennero
non solo il pregio di concedere il piacere del contatto acustico con il “bell’i-
dioma” di Dante (la lingua prevalente delle rappresentazioni anche all’estero21)
o di propagandare le ragioni politiche della nuova Italia, da poco Nazione, di
cui queste potenti figure di operatori culturali fungevano da veri e propri amba-
sciatori, emblemi viventi del valore dell’arte tragica italiana; ma si assunsero
bensí l’onore e l’onere di diffondere il repertorio di matrice specificamente
classico-mitologica, nel quale risiede la piú profonda identità culturale medi-
terranea.
Ad onor del vero, i soggetti classici furono meglio recepiti in America La-
tina, mentre tra le produzioni della Ristori piú applaudite negli USA ci fu, a
conti fatti, una tragedia come la Maria Antonietta di Paolo Giacometti (1867)
che mette in scena la drammatica vicenda esistenziale, fatta scrivere dall’attrice
appositamente per il pubblico nordamericano, ammaliato dalle cosiddette “regi-
ne tristi” della vecchia Europa, potenti, eleganti e sfortunate, di cui il repertorio
20
Alessandra Vannucci, “Salvini in Brasile”, in E. Buonaccorsi, ed. op. cit., pp. 229-254.
21
La Ristori aveva recitato occasionalmente in Europa anche in francese, e si provò pure in
brevi saggi e atti scelti in spagnolo e in inglese per ingraziarsi le platee dei paesi ispanici e anglo-
sassoni, arrivando anche, al culmine della carriera, a recitare per intero la Lady Macbeth in lingua
originale.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 233
30
La tragedia in cinque atti di Antonio Somma, Cassandra, andò in scena per la prima volta
a Parigi il 12 maggio 1859, l’ultima volta a Firenze il 19 gennaio 1870 e venne rappresentata in
tutto soltanto 16 volte, principalmente in Italia e mai nei paesi di lingua anglosassone o germa-
nica; era ritenuta opera incolore e di poca pregnanza e soltanto la presenza continuativa in scena
dell’interprete principale riusciva a renderla godibile, come del resto avveniva per molte pièce
d’elezione grandattorale. Vid., Teresa Viziano, Il palcoscenico di Adelaide Ristori. Repertorio,
scenario e costumi di una Compagnia Drammatica dell’Ottocento. Roma, Bulzoni, 2000, p. 300.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 235
non c’è alcun bisogno di sapere l’italiano per comprendere la Ristori […];
per mezzo della musicalità della sua voce, dell’eloquenza del suo gesto,
dell’espressione della sua fisionomia ella traduce per le orecchie e per gli
occhi la poesia di Alfieri, in modo da far giungere alla comprensione indi-
pendentemente dal senso esatto delle parole. […] Nell’abilità a rendere sulla
scena il dramma del personaggio e a tradurlo vocalmente con toni e ritmi
appropriati risiede, dunque, il segreto dell’interpretazione della tragedia.31
34
Dante colloca Mirra nella decima Bolgia dell’VIII Cerchio dell’Inferno (XXX, 37-45) tra
i Falsari di persona, e non nel Canto V tra i Lussuriosi, dato il riferimento all’inganno riservato
dalla giovane cipride al padre Cinira, perpetrato falsificando la propria identità. Mirra è presente in
Dante anche nell’Epistola ad Arrigo VII di Lussemburgo, ove essa, sempre definita “scellerata ed
empia”, è paragonata alla corruzione di Firenze.
35
In Messico invece il tris mitologico fu ristretto alle sole Medea e Fedra.
36
L. Pasquini, op. cit., p. 137.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 237
Latina il mito immane della maga greca, furente infanticida per amore di Gia-
sone che l’aveva ripudiata (nonostante la comune prole e le mille avventure
condivise alla conquista del Vello d’oro) per andare a contrarre un matrimonio
piú vantaggioso con la nobile Creusa (o Glauce), fu per la Ristori impresa
agevole. Mentre, affinché Medea diventasse un cult, il suo piú valido cavallo
di battaglia anche negli States, dovette faticare non poco.
La grande tragica, infatti, a partire dall’8 aprile 1856, data della prima
rappresentazione a Parigi, andava sempre in scena con Medea, “per sistema”,
perché (diceva) “Medea ha un fascino completo, ha un potere soprannaturale
sovra gl’intelligenti e sulle masse e dovunque dò Medea, fanatizza e si ripete”.37
Lo spettacolo piacque quindi ovunque tranne che, in prima battuta, negli
Stati Uniti d’America dove tutto quello che sapeva d’antico non era gradito38
per cui, dopo l’esordio deludente del ‘66, si era dovuto calibrarlo bene. Il sog-
getto, quasi piú ancestrale che classico, era afflitto da scenografie troppo rudi-
mentali, per i gusti esigenti degli yankees, nonostante i costumi fossero esatti
e molto suggestivi. Per andare incontro alle pretese del pubblico fu quindi
necessario valorizzarlo con nuovi allestimenti, impressionanti, e cosí furo-
no montate sul palcoscenico le altissime e brulle montagne della Colchide,
dell’altezza di sette piani e persino pericolose per l’interprete; riprodotte valli
spettacolari e dirupi, cieli tersi ed infiniti, che esaltavano l’andamento ramingo
di Medea: tradita, indigente, disperata ed esule.
L’approccio della Ristori con Medea fu questione complessa, se non altro
per il fatto che era stata scritta dal suo autore, il drammaturgo francese Er-
nest Legouvè, appositamente per Elisa Rachel Felix, beniamina assoluta delle
scene parigine; però l’opera fu da questa rifiutata per la vistosa immoralità
del soggetto e cosí transitò, dietro reiterate suppliche dell’autore, nelle de-
miurgiche facoltà della musa italiana, che proprio allora esordiva in Francia,
applauditissima e in piena rivalità con la Rachel. Quindi Adelaide ricevette
l’investitura di Legouvè, accogliendola non senza iniziali remore:39 mai infatti
avrebbe voluto far la figura di strappare la pièce all’eroina nazionale del teatro
37
Questo scriveva al corrispondente Carlo Balboni il 16 novembre 1858 a proposito del
successo della tragedia, cosí come riportato in T. Viziano, op. cit., p. 129.
38
Idem. In realtà l’attrice, che aveva esordito con Medea a New York, nel suo primo
viaggio del 1866, replicandola per una settimana di seguito, non doveva aver compreso bene
nell’immediato che, seppure il gradimento del pubblico era stato buono (infatti venne chiamata
sul proscenio ben quattro volte, cosa del tutto straordinaria), nulla aveva però a che vedere con la
risposta che sarebbe stato in grado di dare di fronte ad opere piú vicine al suo gusto, come avverrà
per Maria Stuarda o per Elisabetta d’Inghilterra, tanto da persuaderla a far scrivere appositamente
da Giacometti per le platee newyorkesi la storia di una nuova regina sfortunata, quella di Maria
Antonietta di Francia.
39
Adelaide non intendeva dare l’impressione di voler approfittare della rinuncia della rivale
francese Rachel per scipparle un testo dalla portata certamente scandalistica (a causa del nucleo
tematico dell’infanticidio) ma discretamente architettato per far presa sul pubblico.
238 Luciana Pasquini
E sempre con quell’antica tragedia greca, dopo reiterate repliche e tre mesi di
permanenza nell’Isola, chiuse il corso di recite nella Regina delle Antille.
In America Latina Medea fu plurirecensita. A Cuba ne scrisse, su La Re-
vista Habanera, il periodista autoctono Enrique Piñeyro41 con parole di ammi-
razione rivolte ad un saggio d’interpretazione potente, efficace, emotivamente
trascinante e anche plastico dell’attrice, poiché fondato su pose teatrali che
pare la accomunassero ad una statua greca, alla Niobe di Prassitele, appunto.
La Medea della Ristori inoltre, stando al Piñeyro, fa riferimento direttamente
alla pienezza tragica dell’eroina euripidea, superiore a quella di Seneca o a
quella di Corneille, e dal cui calco si sarebbe geminata l’incommensurabile
40
L. Pasquini, op. cit., pp.76-77.
41
Enrique Piñeyro, “El repertorio de una actriz. Adelaida Ristori”, in Estudios y confe-
rencias de Historia y Literatura. Nueva York, Imprenta De Thompson y Moreau 1880, pp.
260-288. All’interno dell’ampio articolo sono recensite dieci pièces rappresentate a Cuba dalla
Grand’Attrice nel 1868: Medea, Maria Estuardo, Pia de Tolomei, Sor Teresa, Giuditta, Elisabetta,
Maria Antonietta, Macbeth, Fedra e Norma. L’articolo reca in calce la data: Habana, 1867, evi-
dentemente inesatta poiché la tappa cubana della Compagnia Drammatica Italiana ebbe luogo dal
29 gennaio al 25 aprile del 1868. Il refuso si spiega con un difetto di memoria dell’autore che ha
composto il volume nella sua interezza a posteriori rispetto alla data di scrittura dei singoli testi,
visto che si tratta di una raccolta di articoli pubblicati nell’intero arco della sua carriera sia del
periodo in cui egli visse in patria collaborando a periodici quali La Revista Habanera e La Revista
del Pueblo che di quello in cui si trasferí a New York, fino al 1880, oltre ad alcuni inediti.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 239
Didone virgiliana; per cui la pallida tragedia del Legouvè, definita dal recen-
sore “composizione di un poeta moderno di terz’ordine”, assume senso, affer-
ma questi, esclusivamente in virtú della forma scenica impressagli dalla gloria
italiana.
Ed è ancora una volta una recensione a spiegare i motivi del gradimento
di Medea alle latitudini latine, in Brasile nello specifico, ove lo scarto tempo-
rale che separa le scene antiche dalle moderne, seppur avvertito, non era patito
come negli Stati Uniti. Infatti lo scrittore Joaquim Maria Machado de Assis,
nelle sue cronache teatrali pubblicate dal 1859 al 1879 sui quotidiani di Rio de
Janeiro, intercetta la tournée del 28 giugno-21 agosto 1869 tenuta dalla Ristori
in quella città, redigendone quattro articoli usciti sul quotidiano Diario do Rio
de Janeiro ove trovano posto notazioni su Mirra, Fedra e soprattutto su Me-
dea. Egli puntualizza:
Invece, sulla Medea recitata a Buenos Aires nel giugno 1874 si dispone della
recensione di José María Gutiérrez, apparsa su un non meglio specificato gior-
nale italiano dell’epoca stampato in Argentina (e antologizzata da Dino Piaz-
za in appendice all’edizione delle Lettere di Viaggio di Marco Piazza, attore
della Compagnia Drammatica Italiana nel giro del mondo43) ove il periodista
applaude l’interprete italiana come la “rivelazione della tragedia”. Ella “è la
musa fatidica della tragedia, è la Melpòmene antica col suo manto azzurro e la
sua tunica a larghe pieghe, che calza il tragico coturno ed appoggia la destra,
armata di pugnale, sugli altari di Tracia”. Gutiérrez mostra una conoscenza
profonda delle fondamenta mitologiche del teatro classico, al cui interno in-
castona una figura tanto carismatica, per poi passare, con vera competenza
scenica, a vagliarne la tecnica recitativa: “Le sue attitudini sono lo sforzo su-
blime dell’arte che si involve in se stessa per farsi dimenticare, confondendosi
42
Joaquim Maria Machado de Assis, Adelaide Ristori. Cronache. Trad. e cura di Francesca
Barraco. Aosta, Keltia, 2011, pp. 21-22.
43
M. Piazza, op. cit.
240 Luciana Pasquini
con la verità”. Egli spezza cosí una lancia a favore del canone della natura-
lezza espressiva, arduo obiettivo evidentemente raggiunto dalla Ristori, che
si prefiggeva come primum movens dell’interpretazione proprio la recitazione
naturale, “alla francese”, come si diceva allora. Infatti, sulle scene, si aspi-
rava a modalità che i migliori attori italiani di Mediottocento perseguivano
con alterni risultati, fissi nel conato di diffrazione dalla genía dei comici della
generazione precedente, quella dedita alla recitazione enfatica a tutti i costi e
cosiddetta “a precipizio” per la foga impressa al verso, spesso incomprensibi-
le quando cosí violentemente snocciolato, da ottenere il poco felice esito di
appiattire su schemi declamatori ostici o banali qualsiasi performance. Anche
nella recensione di Gutiérrez la Ristori in Medea è descritta come una statua
dalle multiple e ieratiche pose, sia che si disperi, sia che si risollevi, altera,
dall’abbattimento, sia che stenda il braccio, minacciosa, per fulminare Giaso-
ne “con l’acqua del parricidio” o che stringa i suoi figli al petto con profonda
tenerezza: atti perfettamente calibrati, cosí da conferire all’interpretazione una
pregnanza granitica.
Per quanto riguarda la tragedia scritta da Giuseppe Montanelli44 nel 1857
ed intitolata Camma, altro enorme successo ristoriano a tema classico, si è an-
cora una volta di fronte ad un testo dalla portata letteraria tutt’altro che formi-
dabile, ma che ottenne però di essere ampiamente rappresentato ed applaudito
sulla scena dei teatri italiani, europei ed anche transoceanici per venti anni di
seguito.
Il personaggio di Camma, che completa la galleria dei successi di deri-
vazione letteraria antica in Meso e Sudamerica, vanta codificazioni lontanissi-
me: a partire da Plutarco infatti attraversa, sotto mentite spoglie e onomastica
differente, le pagine di Boccaccio, Castiglione ed Ariosto, per poi insinuarsi
nella penna risorgimentale di Montanelli, messa nero su bianco apposta per
Adelaide Ristori.
La gran fortuna che la creatura “riscritta” dall’autore toscano incontrò
sulla scena mondiale ottocentesca è da ravvisare nel fatto che Camma si pre-
stava bene (in virtú della forte valenza eroica, della lacerazione interiore e
della potenza morale espressa) a suscitare le acute emozioni dalle quali le pla-
tee ottocentesche desideravano venir sollecitate ad opera del dramma storico-
44
Camma, Tragedia in tre atti di Giuseppe Montanelli, venne pubblicata a Napoli dalla
Tipografia di Gennaro Fabricatore nel 1857 e rappresentata per la prima volta a Parigi, il 23 aprile
dello stesso anno, al Thèâtre des Italiens. Montanelli era una delle figure di spicco del Risorgi-
mento. Nacque a Fucecchio, Granducato di Toscana, nel 1816 e fu scrittore, politico, docente di
Diritto; auspicava la nascita di una Nazione italiana federale come il Gioberti. Bonapartista, rimase
in esilio dieci anni (con la moglie Lauretta Parra) in Francia, ove nei salotti parigini incontrò Ade-
laide Ristori e il suo consorte, il Marchese Giuliano Capranica del Grillo; insieme a Lauretta si
legò con i Capranica di una lunga e leale amicizia, tanto da proporsi a loro anche come servizievole
traduttore ed autore drammatico.
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano 241
mitologico cosí tanto in voga; e se, per caso, questo vantava anche pallide
implicazioni risorgimentaliste allora la formula riusciva perfetta.
La tragedia in tre atti, in versi, è ambientata in Galazia, al tempo delle
lotte contro i romani oppressori, presso “un tempio druidico sulle rive del San-
gario”, ove Camma, giovane vedova di Sinato, viveva come sacerdotessa della
Diana celtica Corivena. Alla fanciulla, infatti, era stato assassinato il coniuge
per mano di Sinoro, un potente della comunità, valoroso in battaglia al pari di
suo marito, del quale tutto ad un tratto era diventato rivale perché innamoratosi
perdutamente di lei. In seguito, l’omicida chiede la mano di Camma e, veden-
dosi rifiutato, cerca di spiegarle che l’eliminazione di Sinato non era stata da
lui perpetrata per crudeltà bensí per amore, nella determinazione di poterla
avere in sposa. Incalzata dalle numerose e reiterate pressioni dei familiari e dei
concittadini che spingevano la vedova a stringere nuove nozze con un uomo
tanto potente, Camma acconsente al coniugio. Ma ella segretamente finge e,
una volta accolto Sinoro nel tempio come consorte, lo avvelena consumando
la sua vendetta. Davanti all’altare della Dea, infatti, i novelli sposi sancisco-
no il matrimonio bevendo entrambi dalla coppa nuziale un liquido velenoso.
Camma muore, lieta di andare finalmente a ricongiungersi con l’amato Sinato
e, beffarda, invita Sinoro, che si contorce in preda agli spasmi della morte, a
farsi apparecchiare, dagli amici e dei parenti, in cambio del letto coniugale un
“magnifico sepolcro”.
La tragedia di Montanelli schiera bene sul campo tutti gli elementi utili a
rendere gradita l’opera presso il pubblico coevo: Camma, esempio di onestà,
di virtú, di bellezza ma soprattutto di valore e di coraggio, simboleggia bene lo
spirito di libertà dal tiranno alla base delle rivendicazioni autonomiche e risor-
gimentali, che animava i patrioti in lotta. Camma è quindi “figura” dell’Italia
che può emanciparsi valorosamente dallo straniero. E la storia stessa del grup-
po di Celti trapiantati in Asia Minore, minacciati dall’espansionismo di Roma,
a cui essa appartiene, suscitava inoltre sentimenti molto vicini a quelli degli
esuli italiani che si trovavano allora a Parigi, città in cui Montanelli, in esilio
a sua volta, la scrisse, e ove ebbe la sua prima, fortunata rappresentazione al
Thèâtre des Italiens il 23 aprile 1857. Non manca, tra l’altro, nella tragedia,
l’impasto almeno tentato di “belle situazioni” e forti sentimenti: amore, fede,
vendetta; sussistono pure gli spunti adatti a spingere l’ingranaggio dramma-
tico: inganno e capacità di dissimulazione. Cosí, seppure vergata un po’ alla
buona quanto allo stile, venne composta seguendo le direttive dell’attrice e
quindi le basi d’appoggio affinché l’interprete principale potesse eccellere era-
no ben presenti.
È evidente quindi come, data l’epoca, la drammaticissima Camma rap-
presenti un canovaccio quanto mai adatto alla resa grandattorale, nonostante
il testo soffrisse moltissimo dal versante delle altezze poetiche e della valenza
242 Luciana Pasquini
45
Secondo la cardinale definizione di Roberto Alonge in Teatro e spettacolo nel Secondo
Ottocento. Bari, Laterza, 1988, p. 17.
Migrazione transnazionale tra Brez, Trento e
la Sierra Mojada di Coahuila, Messico
SILVIA ZUECK
Universidad Nacional Autónoma de México
Non tutti sanno che, al pari di altri paesi latinoamericani, la Repubblica Mes-
sicana sfruttò la migrazione di massa di tanti europei nel continente americano
promuovendo l’immigrazione ufficiale di abitanti del Nord Italia.
Si dimentica spesso che, durante il periodo presidenziale di Porfirio Díaz
(1876-1879 e 1885-1910) e quello di Manuel González Flores (1880-1884), in
un vero e proprio traffico umano, si formalizzarono contratti con imprenditori
messicani e italiani. In essi, si stabilí che si sarebbero forniti, a nuclei familiari
provenienti da Tirolo (i quali, per motivi culturali, venivano identificati come
italiani), Piemonte, Lombardia e Veneto, i mezzi di trasporto per partire dal
porto di Genova direttamente alla volta di quello di Veracruz, e aiuti economici
affinché tali nuclei potessero stabilirsi in alcune zone degli stati di Veracruz,
San Luis Potosí, Puebla e Stato del Messico.1
È per questo che il presente lavoro si propone di esaminare le circostanze
in cui un gruppo di famiglie di agricoltori originarie di Brez, comune della Val
di Non (Trentino Alto Adige) emigrò nell’epoca in cui appartenevano all’Impero
Austro-Ungarico (1861-1918), nell’enclave mineraria La Esmeralda, nella Sier-
ra Mojada, nello stato messicano di Coahuila, a partire dall’anno 1890. Esso si
conclude nel momento in cui, alla fine della Rivoluzione messicana e della Prima
Guerra Mondiale (1914-1918), quando il Trentino venne reintegrato nel Regno
d’Italia, una seconda ondata di emigranti della cittadina di Brez si diresse verso
altri importanti centri minerari, siti nel limitrofo stato di Chihuahua.
Queste famiglie sicuramente corrispondevano al modello dell’emigrante
ideale proposto dalle autorità messicane: cattolico, proveniente dal nord Italia,
desideroso di imparare la lingua e di conseguenza integrarsi nella cultura mes-
sicana. Date le circostanze, però, e nonostante fossero conosciuti come eccel-
lenti agricoltori, ragione per cui erano richiesti per fondare colonie agricole, a
partire dall’ultimo decennio del diciannovesimo secolo arrivarono, attraverso
un’ondata migratoria,2 a popolare e a lavorare nelle aride enclaves minerarie
1
Carlos Pacheco, Memoria de la Secretaría de Estado y del Despacho de Fomento, Co-
lonización, Industria y Comercio de la República Mexicana. México, Oficina Tipográfica de la
Secretaría de Fomento, 1882, p. 7.
2
John MacDonald, Leatrice MacDonald, “Chain Migration Ethnic Neighborhood Forma-
tion and Social Networks”, in The Milbank Memorial Fund Quarterly, 42, 1 (1964), p. 82.
243
244 Silvia Zueck
della Sierra Mojada e, senza neanche rendersene conto, stabilirono una comu-
nità trasnazionale circolare.3 Inoltre, a causa della loro mobilità è stato difficile
identificarli. Tra le poco numerose ricerche pubblicate al riguardo, possiamo
citare quelle di Bohme,4 Ruffini5 e Zueck.6
Per capire come questa collettività abbia risposto alle proprie necessità,
mi sono avvalsa della prospettiva microstorica italiana di Carlo Ginzburg7 e
Giovanni Levi8 in cui, a partire da un tema particolare —un avvenimento, un
documento, una fotografia o un personaggio— si possono presentare situazioni
che a livello di macrostoria passerebbero inosservate, ma che allo stesso tempo
corrispondono a categorie generali.
A causa della dimensione internazionale del flusso migratorio, le fonti
d’informazione primarie consultate non hanno a che vedere con un solo spazio
geografico: in tal modo si sarebbero infatti ignorati processi che hanno contri-
buito a ricostruire la storia, come le testimonianze orali e le fotografie, oggi
storiche, che erano rimaste custodite durante piú di cento anni in casa di uno
dei discendenti dei principali attori di questa storia, oltre a giornali nazionali e
stranieri dell’epoca.
Considerando che durante la prima guerra mondiale il flusso migratorio si
arrestò, la maggior parte delle persone che emigrarono da Brez andarono a la-
vorare nelle miniere degli Stati Uniti, centotre in quelle dello stato di Coahuila,
tre in Argentina e uno in Brasile.9
I cognomi dei nuclei familiari arrivati nel paesino di La Esmeralda, nella
Sierra Mojada, sono Albertini, Bonini, Canestrini, Corazza, Graziadei, Magna-
na, Menghini, Otzinger, Patil, Prevedell, Ruffini e Zueck. Ci teniamo a preci-
sare che, nonostante i nomi e cognomi fossero a volte gli stessi, non sempre fra
di loro esistevano legami di parentela.
3
Nina Glick Schiller, Lucien Basch, Cristina Blanc-Szanton, “Transnationalism: A New
Analytic Framework for Understanding Migration”, in N. Glick Schiller et. al. ed., Towards A
Transnational Perspective on Migration. New York, New York Academy of Sciences, 1992, pp.
1-2.
4
Frederick G. Bohme, “The Italians in Mexico: A Minority’s Contribution”, in Pacific
Historical Review, vol. 28, no. 1 (1959), pp. 1-18.
5
Bruno Ruffini, L’Onoranda Comunità di Brez. Trento, Cassa Rurale di Brez, 2005 e Brez:
storia di una comunità. Trento, Cassa Rurale di Brez, 1994.
6
Silvia Zueck, “De Brez, Trento al mineral de Sierra Mojada, Coahuila, México. Redes
transnacionales de mineros italianos”. Frontera Norte [on line], vol. 31, art. 8, 2019. <https://fron-
teranorte.colef.mx/index.php/fronteranorte/article/view/2033>. [Consultazione: 20 aprile, 2019.]
7
Carlo Ginzburg, “Prefacio” a El queso y los gusanos. Barcelona, Muchnick, 1981.
8
Giovanni Levi, “Antropologia i microhistòria”. Manuscrits. Revista d’Història Moderna,
11 (1993), pp. 15-28.
9
Il registro degli emigrati in America fu tenuto dal parroco di Brez, Don Silvio Lorenzoni,
fino alla sua morte che avvenne nel 1908. Il cronista di Brez, Bruno Ruffini, lo recuperò e conti-
nuò ad aggiornarlo fino al 1924. In questo articolo abbiamo preso come punto di riferimento le
statistiche conservate da Ruffini, ma risultano utili anche quelle pubblicate in “L’emigrazione in
America”, in L’Onoranda Comunità di Brez, p. 141.
Migrazione transnazionale tra Brez, Trento e la Sierra Mojada 245
10
In questo studio ho rispettato la grafia dei nomi come riportata dai documenti dell’epoca:
perciò si noteranno alcune variazioni: a secondo dell’epoca e del documento, alcuni nomi sono
scritti in italiano, in spagnolo o in tedesco.
246 Silvia Zueck
terizzato dalle Dolomiti e dalle Alpi meridionali. La sua economia era basata
principalmente sulla semina del mais, della vite e delle mele, la cui produzione
subí un declino che si accentuò ancora di piú quando la struttura agricola tradi-
zionale fu incapace di rispondere alle necessità di consumo che l’aumento de-
mografico della regione comportava, nonché al veto alle importazioni di vino
imposto da Germania e Svizzera.
Per contenere le difficoltà, e sfruttando i nuovi e moderni mezzi di traspor-
to come i transatlantici e il sistema ferroviario, la strategia consisté nell’emi-
grare in paesi lontani per un po’ di tempo e risparmiare in modo tale da tornare
con un capitale importante con cui ripartire da zero. In mezzo alla diaspora che
separò tante famiglie sorse un altro movimento popolare pacifico, affine alle
attività politiche già citate, consistente nell’organizzare cooperative ispirate ai
valori della solidarietà e dell’autogoverno, promosse a partire dalle parrocchie,
principalmente da padre Lorenzo Guetti (Vigo Lomaso, 1847-1898) e dal par-
roco del paesino di Brez, Don Silvio Lorenzoni:11 persone strettamente legate
alla vita degli emigranti di Brez, in un periodo in cui le autorità non potevano
offrire alcuna sicurezza per il loro viaggio.
Ai preti premeva particolarmente proteggerli dai padroni, che offrivano a
coloro che partivano il biglietto della nave per l’America, l’alloggio e il lavoro
a patto che in seguito restituissero il prestito con denaro o lavoro, cosa che in
molte occasioni era impossibile fare; o peggio ancora, li abbandonavano in
altri porti, come successo con quei trentini che furono reclutati per lavorare in
Francia e una volta arrivati in mezzo all’oceano vennero informati che sareb-
bero stati portati a Motzorongo, Veracruz.12
Senza esserselo proposto, verso l’inizio del ventesimo secolo queste orga-
nizzazioni sociali gestite dai parroci si trasformarono in cooperative di consu-
mo e di credito agricolo, casse rurali, una Banca Cattolica, Sindacati e finanche
una Cantina Sociale Vinicola.
Un’altra delle strategie ideate da Lorenzoni fu quella di creare un detta-
gliato dossier di ogni migrante, esercitando al contempo un costante controllo
11
Silvio Lorenzoni fu chiamato a dirigere il giornale La Voce Cattolica nel 1885, da dove
espresse le sue controverse idee su religione, politica ed economia, e lo abbandonò nel 1888 quan-
do divenne il parroco di Brez. A partire dal 17 marzo 1906, l’intellettuale Alcide De Gasperi decise
di ribattezzarlo Il Trentino, con l’obiettivo di “ricostituire l’unità morale del Trentino, sulla triplice
base della religione, dello spirito e della democrazia positivamente nazionali”. Questa scelta fu
duramente criticata, valendogli l’accusa di essere legato al movimento indipendentista italiano
dell’Impero Austro-Ungarico, conosciuto come irredentista. Il 22 maggio 1915, a causa della gue-
rra, il giornale interruppe le pubblicazioni per riprenderle nel novembre del 1918. De Gasperi lo
lasciò nel 1926 per evitare che le sue posizioni politiche contrarie al fascismo lo danneggiassero,
tuttavia nel novembre dello stesso anno il nuovo direttore si vide obbligato ad interromperne di
nuovo la pubblicazione. Vid. <www.degasperitn.it/it/progetti/Giornali-degasperiani/.>
12
José Zilli, Braceros italianos para México: la historia olvidada de la huelga de 1900.
Xalapa, Universidad Veracruzana, 1986, pp. 85-97.
Migrazione transnazionale tra Brez, Trento e la Sierra Mojada 247
sull’osservanza degli usi e costumi cattolici e/o trentini, che tutti dovevano
rispettare all’estero.
Per fortuna tutta questa mole di informazioni venne raccolta dal Profes-
sor Bruno Ruffini, il quale fu anche il cronista del paese di Brez e che poi,
basandosi su fonti primarie, scrisse due libri che furono pubblicati dalla Cassa
Rurale di Brez e in cui si analizza la migrazione verso le miniere.
13
Juan Sariego, “Minería y territorio en México: tres modelos históricos de implantación
socio-espacial”, Estudios Demográficos y Urbanos, 9, 2 (1994), pp. 197-209.
14
George Walther Prothero, “Trentino & Alto Adige”, Handbooks, 33 (1920), p. 15.
248 Silvia Zueck
15
Alessandro Zuech, Comunicazione personale, 2 maggio 2018.
16
Archivo Estatal de Coahuila, Coahuila, México. Registro Civil, Nacimientos, 1861-1930,
Rollo 701, pp. 78-79. L’ufficiale di Stato Civile Marcelino Moncibaiz iscrisse la figlia di Juan
Ruffini nel 1899 alla presenza di Pedro Ruffini ed Eustaquio Zueck. Fidel Zueck, quando registrò
i suoi figli nati nella Fundición Esmeralda, invitò come testimoni lo stesso Eustaquio, Agustín
Ancelmi, Don Nicolás Fabela di Torino e Agustín Prevedel.
Migrazione transnazionale tra Brez, Trento e la Sierra Mojada 249
Piccoli imprenditori
Abbiamo scoperto che, già nel 1906, non solo avevano imparato il lavoro nelle
miniere, ma avevano anche cominciato a distinguersi come piccoli impren-
ditori minerari nonché nella sezione di riscossione degli affitti del Periódico
Oficial di Coahuila, dove Victor Ruffini compare con i suoi compaesani come
socio della Compagnia Mineraria La Tirolense.
Altri esempi sono quelli di Fidel Zueck Stottner, che appare come respon-
sabile della miniera di Tiro San Antonio, e Augusto Prevedell, responsabile
della San Francisco.17
Addirittura Fidel, in qualche occasione, reclamò rispettosamente al go-
vernatore di Coahuila che non era giusto che fosse obbligato a pagare le tasse
sui residui di fusione che commercializzava perché, quando questi erano stati
estratti dalla miniera, le tasse erano già state pagate dalla Compagnia La Con-
stancia, in proporzione al loro contenuto d’argento, piombo e rame. È chiaro
che la situazione economica permise loro di recarsi in Europa nel 1911 e, forse
per tagliare i ponti con il passato o forse solo per mettere da parte un po’ di sol-
di, Fidel Zueck vendette la sua casa alla Famiglia Cooperativa di Brez, fondata
da Lorenzoni, e di ritorno in Messico portò con sé il cugino Marcello.18
Da un altro punto di vista, un esempio dello scambio economico e cul-
turale che i viaggi interoceanici propiziavano, fu il fatto che coloro che giun-
gevano a Brez cominciarono a costruire le proprie case con un nuovo stile
architettonico che battezzarono “messicano”, poiché introdussero lunghe travi
di ferro e corridoi centrali da cui si accedeva alle stanze, utilizzando le prime
piastrelle di ceramica e di calcestruzzo al posto delle tegole artigianali.19
17
La Redacción, “Edicto de Minas”, en Periódico Oficial de Coahuila, xvii, 22 de septiem-
bre 1909, p. 3.
18
B. Ruffini, L’Onoranda Comunità di Brez, p. 225.
19
B. Ruffini, Brez: storia di una comunità, p. 127.
250 Silvia Zueck
organizzarono una riunione di commiato in casa del capo dei chirurghi del
Mineral, nonché diplomatico, il Dottor William Marsch. Furono invitati il capo
politico José Carranza, l’amministratore del servizio tributario, gli ammini-
stratori e sovrintendenti delle altre compagnie metallurgiche e delle ferrovie
del consorzio ASARCO, che potevano essere inglesi o statunitensi, nonché i
caporali Eustaquio Zueck e Victor Ruffini, Menghini, gli Zueck e il padrone
dell’attività commerciale della zona, anche lui italiano.20 Come ricordo gli re-
galarono un orologio d’oro.
Ormai molti stranieri avevano già abbandonato la zona, come alcuni di-
scendenti della famiglia Prevedel, che attraversarono la frontiera di El Paso per
andare a lavorare nelle miniere di carbone di Frontenac, Kansas, dove si era
formata un’altra comunità di italiani.
Nel 1913 la situazione era diventata sempre piú difficile, e la gente co-
minciò ad abbandonare il luogo, circondato dai militari di Villa, di Huerta,
di Orozco e poi di Carranza, oltre che dai banditi. L’incaricato d’affari degli
Stati Uniti nella Sierra Mojada chiese allora protezione per gli impiegati della
ASARCO e richiese un salvacondotto per poter arrivare negli Stati Uniti21 co-
sicché finalmente, nell’ottobre dello stesso anno, gli amici Prevedel e Zueck
attraversarono il Rio Bravo e si diressero in Kansas, e a dimostrazione del fatto
che erano in stretto contatto con la comunità di Trento, il giornale cattolico Il
Trentino, comunicò ai suoi lettori che: “Fidel Zuech, sua moglie e i quattro
figli, insieme a Basilio Zuech, sua moglie Maria Menghini e i fratelli Augusto
e Ruggero Prevedel hanno lasciato la Sierra con un gruppo di bambini, poiché
la rivoluzione ha messo in pericolo le loro vite —e hanno dovuto corrompere
qualcuno per poterlo fare— ma, appena la rivoluzione sarà finita, torneranno
in Messico, dove avevano grandi possedimenti”.
Giunto il momento, i capifamiglia dovettero decidere se rimanere a Fron-
tenac in Kansas, a lavorare nelle miniere di carbone, o continuare il viaggio
fino a Trento, per approfittare dei benefici del nuovo sistema di cooperative e
avvalersi dei prestiti a basso interesse che esse offrivano loro per ricominciare
la loro vita come agricoltori a Brez.
Questa volta, il ritorno di coloro che erano già passati per un sistema
economico diverso lasciò il segno nella Cassa Rurale, ma in un altro modo.
Secondo Ruffini, queste persone che erano emigrate in Messico, erano tornate
con mezzi economici notevoli ed erano conosciute come “messicani”, cercaro-
no di impadronirsi della Cassa Rurale —a garanzia illimitata—, la quale con-
20
La Redacción, “Presented with a Watch”, in The Mexican Herald, xxii, 22 aprile 1906, p.
15.
21
agn. Ex.288.C11, Exp. 21, 8 F. 21 Agosto 1913. Il Ministero degli Affari Esteri trascrive
una comunicazione relativa a The American Smelting and Refining Company, in cui il rappresen-
tante di tale compagnia chiede che vengano autorizzati dei salvacondotti, ovvero che si permetta
l’uscita agli impiegati della stessa nella Sierra Mojada.
Migrazione transnazionale tra Brez, Trento e la Sierra Mojada 251
ri, mentre altri arrivarono perché le compagnie che appartenevano allo stesso
gruppo minerario li assunsero in altre località come Santa Eulalia, Santa Bár-
bara, San Francisco el Oro e Hidalgo del Parral nello Stato di Chihuahua, e non
tornarono mai piú a Trento.
Dimenticando precedenti conflitti, Francisco Villa, cosí come i trentini,
continuò anche lui a nutrire l’idea di fare affari nelle miniere, e nel 1921 inviò
una lettera a Fidel Zueck in cui, per mezzo del generale Trillo, concordò un
appuntamento di affari nella città di Chihuahua, di cui si ignora se sia servito
o meno a qualcosa25.
Intanto Augusto Prevedel, che sopravvisse al conflitto armato, nel 1920
ritornò in Messico insieme a sua moglie Paolina Menghini e decise di stabilirsi
nella zona di Santa Bárbara, sita a 240 chilometri dalla città di Chihuahua,
dove morí in un insediamento minerario nel 1934.26 Il suo amico Fidel lavorò
in varie enclaves, finché nel 1942 non andò a lavorare in una miniera nella
zona di Los Chontales in Nicaragua, luogo in cui morí in seguito a una malattia
polmonare uscendo dalla miniera El Jabalí. I suoi resti giacciono nel cimite-
ro La Bola, nell’area riservata ai minatori stranieri.27 Victor Zueck Covi, che
arrivò a Parral nel 1927 e inviava caffè a Brez, morí di silicosi ancora molto
giovane.28
Conclusioni
A conclusione di questa ricostruzione, possiamo dire che i flussi migratori del-
la popolazione di Brez passarono per un proceso di adattamento continuo, do-
vuto prima a una crisi economica che spinse molti suoi abitanti ad abbandonare
il loro paese d’origine alla volta della zona mineraria del nord della Repubblica
Messicana, e poi al fatto che si videro coinvolti in conflitti bellici regionali e
internazionali che li obbligarono a spostarsi e/o a rimanere in spazi geografici
imprevisti.
Ci teniamo a ribadire che quella che si stabilí tra Europa e America non
fu solo una circolazione di persone e denaro, ma anche di informazioni e idee,
e in entrambe le direzioni.
Un tratto distintivo di questo flusso migratorio è che esso veniva identi-
ficato sempre come “in transito”, sia che si stesse dirigendo alla dogana mi-
gratoria di Ellis Island o alla volta della frontiera tra El Paso, Texas, e Ciudad
Juárez, Chihuahua. Ci teniamo a sottolineare come, nonostante fossero “in
25
Archivio Privato della famiglia Zueck. Lettera di Miguel Trillo dalla Hacienda de Canu-
tillo a Fidel Zueck in Calle Coronado, città di Chihuahua.
26
B. Ruffini, Brez: storia di una comunità, p. 113.
27
Oscar Zueck, Comunicazione personale, 23 maggio 2010.
28
Concepción Zueck, Comunicazione personale, 17 agosto 2017.
Migrazione transnazionale tra Brez, Trento e la Sierra Mojada 253
255
256 Eduardo Yescas Mendoza
1
Superstudio fue formado por Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo, Piero Frassinelli, Ro-
berto Magris y Alessandro Magris, comprendiendo una actividad entre 1968 y 1986, aunque su
producción artística paró en 1973. Por su parte, Archizoom Associati fue formado por Andrea
Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello, Massimo Morozzi, Dario Bartolini y Luca Bartolini,
teniendo una producción activa entre 1966 y 1974.
2
Archizoom Associati y Superstudio, “Manifesto della mostra Superarchitettura”. El pan-
fleto se reproduce en Fabrio Fabrizzi, Opere e progetti di Scuola Fiorentina 1968-2008. Firenze,
Alnea, 2008, p. 66.
Las ciudades invisibles en el arte: las utopías de Archizoom y Superstudio 257
Las estrategias empleadas para trasladar esa idea al lenguaje visual fue-
ron variadas. Algunas de ellas, como la producción del Monumento continuo,
presentado en 1969 por Superstudio,4 trataban de hacer evidente la relación
entre arquitectura y capitalismo mediante estrategias propias al diseño y las
proyecciones empleadas desde la Ilustración hasta las visiones totalizadoras
del Movimiento moderno. Concretamente, el Monumento, que empleaba estra-
tegias como el fotomontaje, el diseño renderizado y los storyboards, pretendía
ser un diseño utópico de un acueducto de dimensiones colosales a través del
cual todas las ciudades del mundo estarían conectadas, en una concreción final
del sueño modernista de la posguerra. Por ello, es posible apreciar representa-
ciones imaginarias en las que se conectan paisajes de urbes como Nueva York,
Florencia y Roma, entre otras:
El proyecto, desde luego, no era tal. Es decir, dadas las dimensiones co-
losales, como la ambiciosa estrategia por crear un acueducto propio para el
orbe y, sobre todo, su falta de atención en la habitabilidad, las proyecciones
difícilmente podrían ser consideradas como intenciones factuales por gene-
rar propuestas arquitectónicas construibles. Por tanto, no había una pretensión
constructiva u habitable de la proyección sino, por el contrario, de un rechazo
—paradójico— a ella. Pese a ello, la idea es paradigmática para entender el
contexto hermenéutico y operativo de los colectivos.
En primer lugar, el Monumento continuo, que es probablemente la obra
más difundida de los florentinos, trataba de realizar una operación de evidencia
de la dominación a través de las herramientas propias a ella. Como lo evi-
dencia el uso de tácticas concretas del diseño de arquitectos, el Monumento
tenía como propósito el de desmitificar la propia tradición y sus instrumentos,
entre ellos, el de la monumentalidad y la proyección como artefactos de la
3
Idem.
4
Las imágenes del Proyecto para el Monumento continuo se encuentran disponibles en
<https://www.moma.org/collection/works/938>. [Consulta: 24 de junio, 2019.]
5
Superstudio, “The Continuous Movement: An Architectural Model for Total Urbanisa-
tion”, 1971. El texto se encuentra traducido al inglés en Peter Lang y William Menking, eds.,
Superstudio: Life Without Objects. Milano, Skira, 2003, p. 102.
258 Eduardo Yescas Mendoza
projects assume concrete meaning when read in the light of what they want to
be: not so much dreams that can never be realized, but experimental models of
a new method of design”.9 Se trataba de hacer ver al proyecto Ilustrado y a la
tradición moderna como una conglomeración de dispositivos al servicio de una
clase dominante, lo que tiene como consecuencia una negación al dinamismo
propio de las espacialidades de las clases sociales subalternas.
En tal forma, el Monumento pretendía expresar, por medio de herramien-
tas propias de las artes visuales y del diseño arquitectónico, contradicciones
intrínsecas al ejercicio y la tradición arquitectónica. Por ello, es evidente que
el principio de un mundo uniformado por la tecnología se traduzca en una
analogía visual hacia un orbe hiperglobalizado, situación que se verá también
ejemplificada en el proyecto para una “urbanización total” de 1969 de Archi-
zoom, titulado Non-Stop City que se verá más adelante.
Ahora bien, pese a la evidente cercanía de los principios de personajes
importantes para la crítica ideológica como Tafuri, existen algunas diferencias
considerables que nos permiten adentrarnos de manera más precisa a las pro-
pias contradicciones de los florentinos.
Mientras que teóricos como Tafuri creían en una resolución de la contra-
dicción inherente a la arquitectura a través de una solución orgánica, es decir,
mediante el desarrollo —natural— de las espacialidades propias de las distin-
tas clases sociales, los florentinos nunca se posicionaron a favor o en contra
de una propuesta.10 Me refiero a que fuera de algunas directrices esbozadas en
lecturas y panfletos, pareciera que la preocupación de Superstudio era precisa-
mente evitar toda responsabilidad para insertarse, más bien, en un umbral de
indeterminación.
Prueba de ello son los distintos escritos que durante el tiempo activo pro-
dujeron. Uno de ellos, publicado en la revista IN en 1971, nos hace entender su
posicionamiento a través de esa indeterminación entre, justamente, la utopía
y la antiutopia. En esta publicación, por ejemplo, se pronunciaban a favor de
una producción que tuviera como principal actividad la cristalización de la
negativa ante la instrumentalización de las sociedades, con el fin de criticar la
conciliación estética y creativa de su disciplina hacia el capital:
buio non possano piú nasconderli, perché ognuno anche il piú miope li possa
vedere, enormi scarafaggi kafkiani, in tutti i loro mostruosi dettagli.11
Así, pues, la intención fundamental era, más que la de unirse a los contra-
dictorios proyectos de Estado imperantes para el contexto, realizar una crítica
desde adentro, una suerte de visibilización de lo que podría ser conceptualiza-
do como una arquitectura sin arquitectos. De tal modo, se puede sugerir que,
para los arquitectos radicales, haya resultado evidente pensar que tanto arqui-
tecturas como urbanismos podrían ser interpretados también como medios de
reproducción ideológica y fáctica del capital, así como instrumentos a través
de los cuales se completa la extrapolación social y se perpetua la dinámica de
estratificación.
Desde esta posición podemos explicar, por una parte, la necesidad por
posicionarse en un umbral de indeterminación, donde es solamente la crítica
que adquiere, en este momento, la cualidad de potencia. Si se trataba de pensar
en nuevos métodos y marcos conceptuales para resistir a la totalización de
la experiencia moderna y a la alienación de los individuos, bastaría entonces
con generar nuevas propuestas desde la teoría urbana contemporánea para pro-
poner una mejora factible en la vida social. Así la “anti-utopía” se entiende
también como un posicionamiento en contra de la utopía reformista. Empero,
precisamente la negativa hacia la contribución a la utopía moderna y la crítica
hacia la reforma como ilusión burguesa serán el eje rector desde el principio
de la evasión:
Es decir, parecía que para evitar esas contradicciones no bastaba con gene-
rar nuevos modelos, sino, en una propuesta cercana al nihilismo propio de la
posguerra, había que dejar de producir arquitectura. Si como concluía Tafuri en
el paradigmático ensayo antes mencionado: “The crisis of modern architecture
does not issue from “weariness” or “dissipation” sino que “it is a crisis of the
ideological function of Architecture”,13 había que alejarse completamente de
11
Superstudio, “Utopia, Topia, Antiutopia”, en IN, núm. 7 (1972), p. 43.
12
Superstudio, “Design d’invenzione e design d’evasione”, en Domus, núm. 465, junio,
1969, p. 28. El texto se encuentra en inglés en Peter Lang y William Menking, eds., op. cit., pp.
438-441. Para una revisión más extensa sobre la evasión, sugiero consultar el trabajo de Ross
K. Elfline en “Superstudio and the Refusal to Work”, en Design and Culture: The Journal of the
Design Studies Forum, vol. 8, núm. 1 (2016), pp. 55-77.
13
M. Tafuri, op. cit., p. 32.
Las ciudades invisibles en el arte: las utopías de Archizoom y Superstudio 261
14
Es importante señalar que al tiempo que la Italia de la década de los sesenta se somete a
la modernización en la posguerra —que, entre otras cosas, tiene como consecuencia una acelerada
modernización y un crecimiento exponencial de las urbes—, las universidades reconfiguran sus
planes de estudios. Como señala Fernando Quezada, en este contexto: “Object design, building
and town planning were progressively abandoned in study programmes, and replaced with ‘Inte-
grated Town Planning’, ‘Visual Design’, ‘Town Planning Theory’, or ‘Spaces of Implication’”.
Véase “Superstudio 1966-73: From the World Without Objects to the Universal grid”, en Foot-
print: Defying the Avant-Garde Logic: Architecture, Populism, and Mass Culture [en línea], núm.
8 (2011), p. 23. <https://journals.open.tudelft.nl/index.php/footprint/article/view/728>. [Consulta:
27 de agosto, 2019.]
15
Fragmento de la lectura realizada por Adolfo Natalini para la AA School of Architecture
de Londres el 3 de marzo de 1971. La lectura fue realizada originalmente en inglés y se cita íntegra
en P. Lang y W. Menking, op. cit., pp. 164-167. El énfasis es mío.
262 Eduardo Yescas Mendoza
16
P. V. Aureli, The Project of Autonomy. Politics and Architecture Within and Against Capi-
talism. New York, Forum Project Publications, 2008, p. 71.
Las ciudades invisibles en el arte: las utopías de Archizoom y Superstudio 263
17
Archizoom Associati, “No-Stop City. Residential Parking: Climatic Universal System”,
en Domus, 496 (1971), p. 46. El texto se encuentra traducido al inglés en Andrea Branzi y Laurent
Pinon, eds., Archizoom Associati. Paris, hyx, 2006, pp. 176-179.
18
Archizoom Associati, “Città, catena di montaggio del sociale: ideologia y teoria della
metropoli”, en Casabella, 350-351, julio-agosto, 1970, p. 44.
19
P. V. Aureli, The Project of Autonomy…, p. 71.
20
Ibid., p. 72.
264 Eduardo Yescas Mendoza
21
Andrea Branzi, “La arquitectura soy yo”, en Arquitectura radical. Sevilla, Centro Anda-
luz de Arte Contemporáneo, 2003, p. 16.
22
Idem.
Las ciudades invisibles en el arte: las utopías de Archizoom y Superstudio 265
25
Iván Moure Pazos defiende la tesis de que el surgimiento de la narrativa de Calvino, parti-
cularmente para la obra de 1972, Le città invisibili, no hubiera sido posible sin el fructífero debate
iniciado por los colectivos de los radicales florentinos. Cf. Iván Moure Pazos, “Le città invisibili
de Italo Calvino en el contexto de la arquitectura visionaria italiana de los 60/70: Archizoom y
Superstudio”, en De Arte, 13 (2014), pp. 287-294.
26
Andrea Branzi, op. cit., p. 18.
Tra i panni stesi: la terrazza come spazio
cinematografico
RAFFAELLA DE ANTONELLIS
Universidad Nacional Autónoma de México
Universidade Federal Fluminense
Lo scrittore francese George Perec nel suo libro Espèces d’espaces, del 1974,
esponeva la sua impressione che lo spazio fosse piú addomesticato e inoffen-
sivo del tempo e, a dimostrazione di ciò, constatava che si incontrano dapper-
tutto persone che portano degli orologi (forse oggi soppiantati dai cellulari) e
molto raramente delle persone provviste di bussole.1
Forse nella nostra quotidianità diamo per scontato lo spazio e ci preoc-
cupiamo di controllare di piú il tempo. Questo fenomeno sembra verificarsi
anche nella teoria e nella critica cinematografica. Le riflessioni sul ruolo che la
dimensione spaziale svolge nella costruzione del linguaggio cinematografico
non sono mai state molte, forse per il fatto che i teorici di questo campo consi-
derano il cinema come arte del tempo. Ma se lo stesso termine cinematografia
inscrive il concetto di ‘cinesi’, di movimento che si sviluppa nel tempo, non
dovrebbe neanche ignorare che questo movimento si svolge in uno spazio. Se
analizziamo la bibliografia sulla settima arte è difficile trovare studi totalmen-
te dedicati a questo tema. Tra gli scarsi titoli di questo tipo risalta una triade
di produzione francese. Il primo studio risale al 1978: si tratta di L’espace
cinématographique (Paris, J. P. Delarge, 1978), di Henri Agel, professore delle
Università di Montpellier e di Friburgo e critico cinematografico. Sono stati
necessari quindici anni perché lo scrittore e professore dell’Università di Lione
André Gardies si interessasse al tema e scrivesse L’espace au cinéma (Paris,
Méridiens Klincksieck, 1993). Infine, nel 1999, lo scrittore e critico di cine-
ma Louis Seguin pubblicò L’Espace du cinéma. Hors-champ, hors-d’oeuvre,
hors-jeu (Toulouse, Editions Ombres, 1999).
Il mio percorso di ricerca si rivolge a questo ambito identificando l’esi-
stenza di spazi cinematografici privilegiati, con una forte valenza simbolica e
particolari caratteristiche estetiche: il bagno pubblico (analizzato durante il mio
dottorato2), le scale condominiali (progetto di post-dottorato3), le finestre (di cui
1
George Perec, Especies de espacios. Trad. de Jesús Camarero. Barcelona, Montesinos,
1999, p. 127.
2
Raffaella de Antonellis, No purgatório do cinema. O banheiro público como espaço
fílmico. Niterói, Universidade Federal Fluminense, 2016.
3
R. de Antonellis, Espaços em desnível. A escada como cenário cinematográfico, progetto
di ricerca di posdottorato presso la Universidade Federal Fluminense de Niterói, Rio de Janeiro,
2018-2020.
267
268 Raffaella De Antonellis
messicane come specie di patios all’aperto, meno visibili dai vicini e di piú
difficile accesso per i visitanti, e nel contempo spazi dove le questioni private
si fanno pubbliche: luoghi eterotopici utilizzati da artisti e intellettuali bor-
ghesi, scrittori, pittori e fotografi, soprattutto negli anni Venti del xx secolo,
per svolgere attività trasgressive e sviluppare le loro produzioni creative. In
Italia le terrazze, tipiche dell’architettura mediterranea, sono state usate come
location cinematografica con alcune caratteristiche simili. Si tratta di aree di
uso condominiale poco frequentate, ideali per svolgere attività illecite e fare
dichiarazioni compromettenti, nascondendosi tra i panni stesi ad asciugare in
uno spazio elevato dove non si è visti ma dal quale si può osservare.
Questo articolo vuole analizzare la funzione e le caratteristiche di questo
spazio cinematografico attraverso tre film italiani di epoche diverse: I soliti
ignoti, di Mario Monicelli (1958), primo esempio di ‘commedia all’italiana’,9
Una giornata particolare, di Ettore Scola (1977) e Into Paradiso, di Paola
Randi (2010).
Nel film di Monicelli la terrazza è lo spazio della pianificazione di un ‘col-
po’ dove i cinque componenti di una banda criminale, tra i quali riconosciamo
Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni, stanno prendendo lezioni da Dante
Cruciani, esperto in apertura cassaforti agli arresti domiciliari, interpretato da
un magnifico Totò. L’inquadratura iniziale ci restituisce una visione ampia del-
la terrazza dove alcuni pilastri e una trave inquadrano i quattro alunni di spalle
attenti al discorso del ‘professionista’ che si trova in fondo, dando le spalle al
paesaggio ferroviario, suggerito anche dai rumori di fondo. La lezione è risolta
con un palleggio di campi e controcampi tra le inquadrature del maestro e
quelle degli alunni. Quando tocca agli alunni una finestra apre una breccia su di
un muro periferico offrendoci uno scorcio della periferia urbana. La sessione
didattica viene interrotta dalle urla di ragazzi che dalla piazza avvisano Dante
che sta arrivando il controllo del brigadiere. Si tratta di uno scherzo che ci dà
occasione di collocare la terrazza nell’alto di un edificio a gran distanza da
quello che succede per strada. La seconda parte della lezione vede il professore
integrato al gruppo dei suoi studenti. La terza fase è quella delle esercitazioni
nella quale intervengono due elementi scenografici: la cassaforte, oggetto di
studio, e delle lenzuola con funzione di sipario. Dietro i panni è nascosto infatti
il pesante mobile metallico. Si riprende l’alternanza di campi e controcampi
che ritraggono il docente e i suoi discenti. Un altro avviso di ispezione arriva
da una voce dalla strada ma stavolta non si tratta di una presa in giro e, mentre
il brigatiere sale a ispezionare, la banda fa in tempo a improvvisare il suo tea-
trino, cantando, fingendo di stendere i panni e soprattutto occultando un’altra
guardian.com/cities/2015/nov/06/intrusos-cuartos-azotea-vanguardia-cultural-ciudad-de-mexi-
co>. [Consultazione: 29 marzo, 2019.]
9
Genere cinematografico sviluppatosi in Italia tra il 1958 e la fine degli anni ’70 per met-
tere a nudo i vizi e le virtú degli italiani di quegli anni.
270 Raffaella De Antonellis
10
Noël Burch, Praxis del cine. Madrid, Fundamentos, 1985.
11
R. de Antonellis, op. cit., cap. 2.3.
Tra i panni stesi: la terrazza come spazio cinematografico 271
Presentación
Nuestro trabajo como educadores enseñando una lengua y una cultura cambia
en el espacio y en el tiempo; ante la era de la informatización, de la globa-
lización y de la tecnologización, las cosas parecieran tomar un camino más
complicado. Es una cuestión de actitud ver no sólo los retos, sino también
las oportunidades: esta era también tiene aspectos muy explotables en el aula
y nos permite tratar de construir un escenario más completo, más rico, más
estimulante para que nuestros alumnos se adentren en él en su intento por com-
pletar su formación aprendiendo una lengua y su cultura.
Dentro de los “riesgos” que los maestros de lenguas debemos sortear es
vencer la tentación de convertirnos en consumidores de libros de texto para
realizar nuestra labor. No es que tales materiales sean dañinos, pero no existen
libros que reflejen con simetría exacta las necesidades y los objetivos reales
de nuestros alumnos, por lo que, si se actúa así, se corre el riesgo de hacerlos
comprar un libro que, por su naturaleza, es caro y sólo se usará parcialmente; o
bien establecer ritmos de trabajo inadecuados y entonces el proceso se acelera
o se ralentiza de manera innecesaria.
Ante esto, una de las competencias más importantes de un buen docente
(mejor si lo hace con intenciones de realizar investigación) es su capacidad
para diseñar materiales y para plantear unidades de aprendizaje que proponer a
los estudiantes. Esta interesante y fascinante tarea puede verse muy favorecida
por la gran cantidad de materiales bibliográficos e impresos —en bibliotecas
reales y virtuales— y por todas las posibilidades que ofrece la red de Internet.
Nuestros alumnos son nativos digitales y el acceso a tales materiales es, para
ellos, una cuestión cotidiana; sobre todo a videos y audio. Uno de los materia-
les más buscados es las películas y casi todos nuestros alumnos aman el cine;
esto, sin embargo, no los hace expertos en el tema, como se verá más adelante.
Por definición una película es un documento resultado de un trabajo en
equipo en donde se ha registrado imágenes en movimiento acompañadas de
sonido. En una película se cuenta una historia y puede ser clasificada siguiendo
sus características de estilo o tono (drama, comedia, romance, acción, ciencia
ficción, fantasía, terror, etc.), por su ambientación o tema (histórico, bélico,
273
274 Jaime Magos Guerrero
relevancia en los tiempos que estamos viviendo. Ahora más que nunca, con
los avances de la tecnología y las posibilidades que nuestros alumnos vayan al
mundo para habitarlo y compartirlo, se convierte en un imperativo formarlos
para que, culturalmente, no tengan problemas de integración y condivisión. Es
claro que en nuestras aulas la enseñanza de la cultura es la co-protagonista de
nuestro trabajo.
p. 102.
3
Stefano Miloto, Teatru e sucetá: Pirandello e il cinema. Un’estetica (impossibile) del film
[en línea]. <http://www.interromania.com/corsu-cismuntincu/literatura/cumenti-e-pare/teatru-e-
suceta-pirandello-e-il-cinema-1133.html >
4
Idem.
276 Jaime Magos Guerrero
5
En esta obra logra proyectar la construcción de un teatro muy suyo: el telón abierto, los
actores entre el público, y un final abierto. Su idea es implicar al público, permitirle pensar e in-
miscuirse en la historia, dejarle la sensación de que la vida es teatro o el teatro es vida.
Pirandello en el cine y en el aula de italiano 277
un joven campesino (Bata) que en las noches de luna sufre ataques violentos
e incontenibles. Sidora se hace acompañar de su joven primo (Saro) a quien
pretende convertir en su amante. En la historia se da fe de la vida de los campe-
sinos sicilianos de hace un siglo y se escucha la hermosa canción con el mismo
nombre de esta historia. La giara presenta a un terrateniente que hace reparar
una tinaja por un hábil artesano que se queda atrapado dentro de la tinaja hasta
que su propietario la rompe. Presenta aspectos de la explotación campesina en
manos de los poderosos; presenta también un momento de belleza con un canto
y un baile de campesinos. Requiem muestra la lucha desigual entre un grupo
de campesinos y el grupo en el poder; ellos desean que se les autorice su pro-
pio cementerio en donde sepultar a su viejo patriarca. Colloquio con la madre
muestra el presunto encuentro del mismo Pirandello con su madre en un reen-
cuentro del escritor con su Sicilia amada y consigo mismo; Pirandello hubiera
querido escribir esta historia, pero afirma que no tuvo palabras para hacerlo.
Al segmentar cada una de las partes, se pueden presentar en una sesión
de trabajo de una hora. Kaos refleja una realidad cultural muy rica que puede
ser explotada en el aula desde diferentes perspectivas, y las actividades para
enseñar lengua también pueden ser muy variadas y fructuosas. En síntesis una
película pareciera ser el material didáctico ideal, pero la primera experiencia
fue caótica: Qué historia tan aburrida, dijeron algunos alumnos; ¿Todo el cine
italiano es tan lento como éste?, preguntaron otros; Qué escena asquerosa ver
esa mosca volar alrededor de la cabeza de la protagonista, concluyó una alum-
na; No se entiende nada de lo que dicen, objetó un alumno; ¿Y si mejor volve-
mos a ver Cinema Paradiso que es tan tierna?, propuso alguien más. Nada fue
como el firmante había previsto.
Al entrevistar a los alumnos implicados se pudo constatar que su expe-
riencia como espectadores del cine se basaba en películas americanas de ac-
ción, que apreciaban mucho los efectos especiales y las escenas fantasiosas,
que no tenían un conocimiento previo sobre la situación de Italia reflejada en
la película vista, que no estaban acostumbrados a “leer imágenes”, que ignora-
ban la existencia de la lengua siciliana y que no reconocían los paisajes como
los que la película mostraba. Es claro que no es posible, si se quiere tener una
experiencia académico-lingüístico-cultural formativa, presentar una película a
los estudiantes esperando que, casi mágicamente, éstos sean capaces de apre-
ciarla y explotarla. Es necesario, entonces, didactizarla y presentarla como una
Unidad didáctica, pero es necesario preparar y calcular el material didáctico
auténtico para su explotación en el aula. Dice Cristina Maddoli:
Il cinema, pur nella sua simulazione, è una finestra aperta sulla realtà cul-
turale di ieri e di oggi, e sull’autenticità comunicativa degli italiani […]. Il
cinema, come campo espressivo pansensoriale (cioè dotato di molteplicità di
linguaggi: iconico, vocale, musicale, mimico, gestuale, ecc.) espone il pub-
Pirandello en el cine y en el aula de italiano 279
del diálogo que se establezca): ¿Qué tipo de películas te gustan? ¿Por qué te
gusta ese tipo de películas? ¿Qué elementos de una película te llaman más
la atención? ¿Cómo es una película que no te gusta? ¿Es importante el cine
cuando aprendemos una lengua y una cultura, por qué? ¿Cuál es la función
social del cine? ¿Cuáles son las características que hacen que una película
sea importante? ¿Es importante el cine cuando aprendemos una lengua y una
cultura, por qué? ¿Qué diferencias existen entre una película americana, una
mexicana y una europea? ¿Cuáles películas, directores, actores, bandas sonoras
europeas conoces? ¿Cuáles son los elementos textuales de una película (inicio,
desarrollo, final)? ¿Éstos se presentan siempre en ese orden? ¿Qué películas
italianas conoces? y otras más. El objetivo de estas preguntas es hacer pensar
a los alumnos en lo que ya conocen y en lo que no conocen del cine, en cuáles
podrían ser sus expectativas respecto a una película, en lo que les podría faci-
litar o dificultar el proceso de ver una película italiana, etc. Este diálogo, por
supuesto, es susceptible de ser realizado grupalmente y de manera previa a la
visión de la película seleccionada.
Continuando el diálogo: con preguntas como ¿Te gustan las películas con
contenido histórico; cuáles has visto? ¿Has visto películas que se basen en
un texto literario, cuáles? ¿Te gusta ese tipo de películas? ¿Conoces a Luigi
Pirandello? ¿Qué te sugiere el título Kaos? ¿Y el título “El otro hijo”? ¿Quién
puede ser “otro hijo”?, etc.
8
J. Magos Guerrero, “Lesson plan vs. Secuenciación de actividades”, en Coincidencias,
Revista de la División de Ciencias Políticas y Humanidades. Universidad de Quintana Roo, núm.
9, enero-junio, 2014, pp. 27-39.
282 Jaime Magos Guerrero
III. Evaluación: aunque en realidad las dos fases que se mencionan a conti-
nuación son propias de la Unidad didáctica en sí, en esta organización propues-
ta forman parte de una fase posterior.
Conclusiones
Trabajar una película en el aula con el objetivo de enriquecer a nuestros alum-
nos desde los aspectos lingüísticos, comunicativos y culturales, requiere una
formación que probablemente rebase el conocimiento adquirido en el aula
donde el profesor se formó como educador. Cualquier maestro de lenguas de-
bería ser capaz de analizar, apreciar, criticar, etc., una película como un texto,
pero tal vez se requiera alguna otra actividad formativa que tenga que ver con
la crítica cinematográfica para enriquecer sus posibilidades de realizar su tra-
bajo educativo y formativo.
Pirandello en el cine y en el aula de italiano 283
Presentación 5
Culturas en contacto
Testi, modi e luoghi del teatro italiano di prosa Oltreoceano: Grand’At- 223
tori in Messico e in America Latina
Luciana Pasquini
Artes