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Mistero Magazine

Gli ultimi giorni di POMPEI

Sospesa tra sacro e profano, iconoclastia e liturgia, la performance dei Pink Floyd a Pompei consacra alla leggenda la rock band inglese

«An echo of a distant time Comes willowing across the sand And everything is green and submarine And no one called us to the land And no one knows the where’s or why’s Something stirs and something tries Starts to climb toward the light» («Un’eco di un tempo lontano Arriva tremante attraverso la sabbia E ogni cosa è verde e sommersa. E nessuno ci ha chiamati a terra E nessuno conosce i dove e i perché Qualcosa si muove e qualcosa prova A salire verso la luce»

Echoes, Pink Floyd (Meddle, 1971)

Nel 1971 il gruppo musicale Pink Floyd si esibisce in una performance originale e inconsueta, facendo vibrare le note dei loro brani psichedelici tra le rovine dell’anfiteatro romano di Pompei. Nasce così il film-documentario-concerto più suggestivo e iconico della storia della musica: Pink Floyd: Live at Pompeii, concepito dal regista Adrian Maben. Una performance non convenzionale che con la sua energia trasgressiva – sospesa tra sacro e profano, iconoclastia e liturgia – consacra alla leggenda la rock band britannica.

Nessun clamore del pubblico, nessuna luce artificiale, nessuna scenografia artefatta. Solo i quattro musicisti e i loro strumenti, ritratti nella loro essenza (in figure icastiche) e cristallizzati nel tempo (racchiusi in un luogo iconico). Il luogo in cui echeggia () della Fenice: una rinascita dalle proprie ceneri che al tempo stesso immortala nella memoria la musica sublime dei Pink Floyd, perpetrando così quell’eco inesauribile in cui passato e presente, spazio e tempo convivono.

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