L'eredità del Grande Eretico
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Anteprima del libro
L'eredità del Grande Eretico - Renzo Paccagnella
Renzo Paccagnella
L’eredità del
Grande Eretico
Romanzo Storico
L’EREDITA’ DEL GRANDE ERETICO
Autore: Renzo Paccagnella
Copyright © 2013 CIESSE Edizioni
Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD)
info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it
ISBN versione eBook
978-88-6660-085-5
I Edizione: mese di aprile 2013
Impostazione grafica e progetto copertina: © 2012 CIESSE Edizioni
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Collana: Green
Editing a cura di: Pia Barletta
C’è chi riesce a guardare oltre quel che si vede,
perché ha conservato la capacità di immaginare
e sa che i sogni possono diventare realtà.
Adriano Prosperi
A Carla, Alessia e Marco
Prologo
Incurante del freddo, Ambrogio da Milano pregava davanti alla statua lignea di S. Giovanni Battista che troneggiava nel suo studio. Lo sguardo severo del santo barbuto, al quale era dedicato il monastero benedettino del Monte Venda, sembrava negargli il conforto dell’anima. La giornata era iniziata sotto pessimi auspici. Il Consiglio degli anziani, da lui presieduto, aveva deciso di condannare a morte frate Nicolò e ne aveva ordinato l’immediata esecuzione. Ambrogio era consapevole di aver svolto il compito affidatogli con perizia e misericordia, ma il dubbio di non aver fatto abbastanza per salvare la vita del giovane converso gli stava trapanando le meningi come un tarlo dei mobili intento a scavare nuove gallerie. I rintocchi della campana del Vespro lo distolsero dal suo raccoglimento e lo riportarono ai doveri di priore. Si rialzò dalla scomoda posizione e aprì il libro sul quale registrava le spese sostenute per il mantenimento del monastero e il denaro o i generi di consumo ricevuti a fronte delle vendite di carbone e di vino prodotti dal lavoro dei monaci. All’occorrenza, quelle stesse pagine accoglievano le scarne notizie relative all’ingresso in monastero di nuovi monaci o alla loro terrena dipartita. Nonostante l’esperienza acquisita in un decennio di priorato, Ambrogio tergiversò a lungo prima di scegliere le parole adatte per registrare la morte del fratello laico, la cui anima - ne era certo - stava salendo in cielo avvolta dalle faville del rogo che ardeva al di là del muro di cinta. E non era quel fumo acre, che pure filtrava nella stanza, la causa delle sue lacrime.
«Oggi, 7 dicembre 1325, abbiamo dato cristiana sepoltura a Pietro Maltraversi da Castelnuovo, appassionato studioso delle arti terrene e delle scienze celesti volte all’eterna glorificazione di nostro Signore. Auspichiamo che il suo corpo possa riposare in pace e che Dio abbia pietà della sua anima nel giorno del giudizio. Amen.»
Lesse l’annotazione più volte, come se volesse mandarla a memoria e, dopo aver raschiato con cura la sottile pergamena, sostituì l’aggettivo cristiana
con il termine più realistico di pietosa
sepoltura. Ripose il registro e immerse la fronte nell’acqua gelida del catino per trovare sollievo alla cefalea che lo accompagnava fin dal mattino. Rinfrancato, si avvicinò alla finestra: il sole era ormai tramontato all’orizzonte e le prime stelle sfavillavano nel cielo terso, facendo risaltare la spessa coltre di neve caduta durante la notte.
«Come si può credere che delle tremule luci possano influenzare il destino e le passioni degli uomini!» commentò ad alta voce. «Per quanto possa sembrare misterioso, l’universo resta la rappresentazione visibile della perfezione divina. Nessun uomo può vantarsi di averne compreso il progetto!» concluse, dirigendosi verso il refettorio.
C’era poco da mangiare quella sera: la cucchiaiata di ricotta si accompagnava mestamente a un cespo di cicoria strappato in tutta fretta dall’orto. Giovanni il cuciniere aveva fatto del suo meglio per preparare un pasto accettabile, tentando di addolcirlo con delle castagne cotte sotto la cenere, che aveva ammonticchiato lungo il tavolo. Sapeva bene che la Regola benedettina impedisce ai monaci di lamentarsi del cibo ricevuto, ma, dalle torve occhiate che i confratelli gli indirizzavano, capì che avrebbero preferito di gran lunga una scodella di zuppa per riscaldarsi e per rilassare la mente violentata dal cupo spettacolo al quale erano stati costretti ad assistere.
Anche il refettorio sembrava meno accogliente del solito, forse perché i bracieri erano stati accesi da poco tempo per riuscire a mitigare i rigori dell’inverno. Le fiamme delle torce appese al muro disegnavano appena dei guizzi di luce sui volti ossuti dei monaci intenti a cenare. Nessuno osava sollevare gli occhi dal piatto, perché il decano aveva iniziato a invocare la protezione divina, affinché li preservasse dalla superbia, che costituiva il tema delle letture scelte per accompagnare il pasto serale. Al termine della cena, il priore si alzò e si rivolse ai confratelli per fugare lo smarrimento che traspariva dalle loro facce livide.
«Fratelli carissimi, non è oggi che abbiamo perduto Nicolò. Da tempo egli si era estraniato dalle attività comuni per dedicarsi alle speculazioni metafisiche e alla ricerca della realtà assoluta che, come ben sapete, umiliano lo spirito cristiano e allontanano dalla grazia di Dio. Al momento del suo arrivo nella nostra Casa, noi abbiamo dato poco peso alle sue intemperanze in materia di obbedienza e di umiltà. Avevamo torto e oggi dobbiamo ammettere di aver sbagliato!» sentenziò Ambrogio, guardandosi attorno, nella speranza che qualcuno lo smentisse. Avvolti nella tonaca chiara i confratelli tacevano, impietriti sulle scomode panche.
«Più volte siamo intervenuti per richiamarlo all’osservanza della nostra santa Regola senza registrare, purtroppo, alcun progresso nel suo comportamento esuberante e poco incline all’obbedienza. I nostri sforzi sono risultati vani, perché non siamo riusciti a distoglierlo dallo stordimento mentale causato dalle dottrine eretiche che hanno diabolica matrice nello Studio di Padova da lui frequentato fino allo scorso anno. In quella babele di atei e di miscredenti si osa sostenere impunemente l’esistenza di verità diverse da quelle rivelate nelle Sacre Scritture, sfidando apertamente i dettami della Chiesa!»
Il priore fece una pausa per osservare le reazioni dei confratelli; poi, non percependo l’abituale cicaleccio a commento delle sue prediche, proseguì con maggior foga.
«Di fronte alla manifesta alterigia di Nicolò siamo stati costretti a escluderlo dal coro e dalla mensa, minacciando di sottoporlo al castigo delle verghe e di espellerlo dal nostro santo Ordine se non avesse modificato il suo caparbio comportamento. Troppo tardi, fratelli! La mente del povero Nicolò era ormai immersa nel liquame satanico prodotto dalle cosiddette teorie astrologiche! Lui stesso persisteva nell’eresia, collegando la nascita dei profeti a fantasiosi allineamenti dei pianeti, che sarebbero mossi da leggi naturali sganciate dalla volontà divina! Badate, fratelli, che tali elucubrazioni, oltre che essere false, costituiscono un grave pericolo per l’autorità della Chiesa, perché puntano a renderla succube del potere civile, come propugnano quei vili teologi che hanno trovato rifugio presso la corte imperiale. Per nostra immeritevole disgrazia, Nicolò ha candidamente ammesso di riconoscersi nelle loro innominabili eresie contro il papato! Oramai neppure la scomunica e il conseguente allontanamento di Nicolò dal monastero sarebbero bastati per estirpare il maligno da queste sacre mura. Così, dopo profonda riflessione, ci siamo convinti che solo un giusto processo poteva liberarci dal contagio.» Scorgendo alcuni monaci annuire, il priore proseguì rincuorato.
«Oggi abbiamo dato esecuzione collettiva al verdetto emesso dal Consiglio degli anziani, del quale ci onoriamo di fare parte assieme ai venerabili Offredino da Mestrino e Lazzaro da Galzignano. Con Nicolò abbiamo usato tutta la misericordia concessaci dalla nostra carica: separandogli la testa dal corpo, prima di affidarlo alle fiamme purificatrici, gli abbiamo risparmiato le atroci sofferenze di una lunga agonia. E non è cosa da poco» disse Ambrogio, facendo una pausa per non lasciarsi sopraffare dall’emozione. «Miei diletti! Sforziamoci di riportare la serenità nelle nostre coscienze, sicuramente scosse da questi tragici avvenimenti; abbiamo agito in difesa della vera fede, dalla quale Nicolò si era irrimediabilmente allontanato, vittima, suo malgrado, di empi maestri. Ora potete ritirarvi nelle vostre celle a meditare sulle trame che il demonio tesse per distruggere la santità della nostra Casa. Vi chiediamo, tuttavia, di dedicare una breve preghiera a Nicolò, affinché la sua anima venga ammessa al cospetto di Dio nel giorno del giudizio. La pace sia con voi.»
I monaci si prostrarono in segno di obbedienza, mentre il priore, commosso, li benediva e li abbracciava fraternamente. Segreti inenarrabili e dubbi pesanti come macigni affollavano la mente di Ambrogio, ma era la sua coscienza a rifiutare la realtà che pure aveva contribuito a creare.
Buon Dio onnipotente, premierai la mia umile obbedienza al vicario del vescovo o mi giudicherai quale mandante di un assassinio, con la sola attenuante di essere vittima dello stato di necessità?, meditava il priore, nascondendo la faccia tra le mani.
L’osservanza della Regola in materia di obbedienza non può entrare in conflitto con i comandamenti divini, nonostante le buone ragioni degli uomini chiamati a farla rispettare. Non uccidere è un imperativo categorico: non ammette le deroghe invocate dai potenti della Terra per perseguire i propri fini, non sempre leciti e troppo spesso avallati dai vicari del potere divino. Da nessuna parte è scritto che ci sia permesso uccidere un uomo, eretico o meno, senza infrangere gravemente la legge divina, anche se lo scopo è quello sacrosanto di combattere l’avvento del regno di Satana o di redimere un’anima dannata! Ho dovuto obbedire all’ordine del vicario, ma sono pentito di aver dato esecuzione alla punizione prevista per le gravi colpe commesse da un mio converso. Non spettava a noi monaci eseguire la sentenza di condanna! Non avrei dovuto coinvolgere i confratelli: ora sono complici di un delitto quanto me! Avrei dovuto chiedere al vescovo di sospendere l’esecuzione della pena fino alla conclusione di questa guerra fratricida, che mi ha impedito di affidare Nicolò al braccio secolare. Ormai è tardi, ma sento il bisogno di manifestare i tormenti dell’anima mia a un superiore.
Se fosse stato libero di seguire la sua coscienza, Ambrogio avrebbe rinunciato fin dall’inizio a caricare sulle sue magre spalle il fardello di un processo per eresia. Ora stentava a comprendere le ragioni della curia vescovile che glielo aveva imposto.
Il vicario del vescovo se n’è lavato le mani per non sollevare conflitti con la Signoria di Padova: questa è la verità! Ora comincio a capire il motivo per cui mi hanno raccomandato la massima discrezione! Quel losco individuo avrà pensato che quassù, in mezzo ai boschi, nessuno si sarebbe accorto del rogo. Può darsi che il vescovo sia impegnato in qualche missione per conto del Papa e che il vicario non lo abbia neppure interpellato. Perciò, domani, gli indirizzerò un’apposita memoria assieme agli atti del processo: deciderà lui quali provvedimenti prendere. È ben vero che sono stato ingannato, perché Nicolò non aveva vocazione per la vita monastica, ma non potevo ignorare il debito di riconoscenza che l’Ordine benedettino ha nei confronti della sua famiglia materna. Se i Maltraversi non avessero donato parte delle loro proprietà terriere all’Ordine né l’Abbazia di Praglia né il nostro venerabile monastero sarebbero mai stati edificati. Inoltre, chi poteva immaginare che quel giovane di fiero aspetto fosse il figlio e l’allievo più dotato di un eretico impenitente come Pietro d’Abano? Il Grande Eretico è colpevole di aver usato l’astrologia e le arti divinatorie, apprese nella terra degli infedeli, per convincere i malati a fidarsi degli influssi stellari, che - secondo lui - agevolerebbero le guarigioni! La malattia è il mezzo scelto dal Signore per farci pentire dei peccati, tanto è vero che la guarigione arride solo a coloro che si affidano alla Sua misericordia. Anche ammettendo che il Grande Eretico usasse tali artifici per suggestionare i suoi simili a fin di bene, è evidente che poteva usarli anche per danneggiarli a proprio piacimento. E che dire dei Minoriti che hanno accettato di accogliere il suo corpo nel cimitero della basilica dedicata a Sant’Antonio? Hanno forse dimenticato le appassionate prediche del Santo che puntavano a sradicare l’eresia, l’usura e la prostituzione dilaganti a Padova? Ah, se solo avessi controllato il testo del manoscritto che il giovane recava con sé al momento dell’ingresso in monastero!
Improvvisamente Ambrogio intravide la fine dei suoi tormenti e dei suoi timori: stava mettendo a punto una robusta linea difensiva.
Sottoporrò il manoscritto del Grande Eretico al giudizio del vescovo. Sono convinto che costituirà la prova che gli inquisitori rincorrono da tempo per riaprire il processo contro Pietro d’Abano e per punirlo come merita! concluse il priore, avviandosi verso la sua abitazione.
Il sonno tardava ad arrivare e così Ambrogio si mise a passeggiare su e giù per la stanza. Passando davanti alla finestra, osservò le ultime lingue di fuoco guizzare verso il cielo stellato in un macabro balletto notturno. L’indomani mattina avrebbe incaricato Guglielmo l’Inglese di seppellire i resti di Nicolò lontano dalla buca che ne aveva accolto la testa infestata dal maligno.
Gli restava ancora un problema da risolvere, il più difficile e irto di pericolose conseguenze: cosa avrebbe raccontato ai parenti del giovane senza violare il vincolo della segretezza imposto dal vicario vescovile?
«Dio è testimone della mia volontà di sradicare l’eresia pur avendo tentato tutte le strade per salvarti la vita!» esclamò il priore, rivolgendosi allo spirito del converso che sentiva aleggiare nella stanza. «Era sufficiente che tu distruggessi le pergamene ereditate da tuo padre, zeppe di numeri cabalistici e di rituali demoniaci; te la saresti cavata con l’allontanamento dal monastero. Invece ti sei incaponito nel sostenere che lo scopo della tua vita era legato alla pubblicazione dell’ultima opera di tuo padre. Pensavi forse che ti avremmo concesso la sospensione del processo?» proseguì Ambrogio, tornando a osservare il baluginare del rogo. «Che bel priore saresti diventato, Nicolò! Con il tuo livello culturale, avresti potuto sostituirmi con facilità ancor prima che nostro Signore decidesse la mia dipartita terrena. Ti bastava rivolgere la tua sete di conoscenza verso la teologia: c’è ancora tanto lavoro da fare per salvare i miscredenti! Quanto a me, provo una grande frustrazione per non essere riuscito a raccogliere il tuo pentimento, ma ti sono comunque grato perché, confessando di tua spontanea volontà, mi hai evitato l’impiccio di dover ricorrere alla tortura» disse, abbassando il tono di voce per timore di essere udito dai confratelli insonni. «Ero disposto a perdonare perfino le tue allucinate profezie sulla tragica sorte che incomberebbe sul monastero e lo farei anche adesso, se la tua presenza non mi impedisse di godere del giusto riposo! Credimi, Nicolò, il monastero durerà per altri mille anni: i padri fondatori lo hanno edificato su solidi blocchi di pietra e in una zona lontana dalla malvagità degli uomini. Tu ci hai predetto un futuro di siccità e di pestilenze che, un po’ alla volta, finiranno per decimarci. Io credo che tu abbia voluto vendicarti perché ti abbiamo impedito di realizzare lo strumento che ingrandisce l’immagine dei pianeti. Non ne avevi motivo, giacché non è questo il disegno che Dio ha riservato all’uomo ed è un’eresia sfidare la sua volontà! Noi abbiamo agito quali strumenti della giustizia divina e l’alto senso di umiltà, al quale siamo votati, ci impone di perdonare le male parole che hai pronunciato contro di noi. Se ora tu mi potessi rispondere, sono convinto che ringrazieresti Giovanni per la sapienza con cui ha ottenebrato i tuoi sensi esasperati e ringrazieresti anche Guglielmo per la grande perizia impiegata nel mozzarti la testa in un sol colpo, evitandoti ulteriori sofferenze.»
Ancora una volta lo sguardo del priore si soffermò a osservare i lunghi bagliori del rogo che tingevano di rosso la neve fresca. «Ai tuoi parenti diremo che sei fuggito, perché ti sentivi minacciato dagli sgherri di Cangrande. In effetti, sapendoti fratello di un importante funzionario carrarese, essi non avrebbero esitato a distruggere il nostro monastero pur di prenderti vivo e di ricattare Marsilio da Carrara. Ora vattene, anima impenitente! Esci dalla stanza e lasciaci riposare in pace. Abbiamo fatto il possibile per aiutarti a uscire dai guai in cui ti eri cacciato. Ah, se solo ti fossi pentito per tempo! Ti avremmo perdonato perfino l’ostinata difesa che hai fatto del Grande Eretico che ti è capitato per padre!»
Finalmente rasserenato, Ambrogio da Milano spense la lampada e si coricò in attesa della nuova giornata di lavoro e di preghiera.
Pochi istanti dopo, Guglielmo l’Inglese lasciava il monastero con l’insostenibile consapevolezza di aver ucciso un giusto.
PARTE PRIMA
Capitolo I
Padova, settembre 1324
Era notte fonda quando una mano, gelida come la carezza della morte, lo scosse rudemente, svegliandolo di soprassalto dal sonno profondo. Spaventato, Pietro fece un salto sul letto e impiegò qualche istante prima di comprendere ciò che l’intruso gli stava dicendo. La tenue luce della lampada, che costui reggeva in mano, illuminava una faccia inespressiva sulla quale brillavano due occhi malevoli, mentre la bocca storta e la fronte schiacciata, coperta in parte da una chioma scomposta e arruffata, gli conferivano un aspetto sinistro.
Si trattava di Giovannone, che tutti chiamavano Bisatto per il suo strano modo di camminare. Da piccolo era stato colpito da una febbre maligna che gli aveva paralizzato la parte destra del corpo. Come se non bastasse, la gamba corrispondente era cresciuta meno dell’altra, costringendolo a camminare curvo e a ondeggiare il bacino. Il poveretto non riusciva ad articolare la mano destra, che formava un tutt’uno con il braccio anchilosato, e parlava con grande difficoltà. Sua madre era stata a lungo la balia di fiducia dei Carraresi e il Signore di Padova aveva voluto premiarla, prendendo a servizio il suo unico figlio.
Pietro provava simpatia per quello sfortunato coetaneo e, senza che nessuno glielo avesse chiesto, si era sforzato di insegnargli ad articolare completamente le parole con il risultato che il bambino racchiuso in un corpo da gigante da qualche tempo riusciva quanto meno a farsi capire. In compenso, il suo carattere astioso non era migliorato affatto, anche perché le sue evidenti menomazioni lo rendevano oggetto di scherno da parte delle servette di casa.
Negli ultimi tempi Pietro si era accorto che l’energumeno lo fissava con cattiveria e sicuramente lo spiava. Non poteva essere un caso, ma, ogni volta che si avviava verso le stanze della primogenita di Giacomo da Carrara, se lo trovava davanti, ostile, come se volesse sbarrargli il passo. Pietro sospettava che Giovannone fosse geloso di lui, dato che era l’unico giovane maschio autorizzato a frequentare la bella Taddea per merito delle sue conoscenze mediche. Ne aveva accennato a Ubertino da Carrara, che aveva fama di essere un esperto donnaiolo, ma non ne aveva ricavato conforto alcuno.
«Bisatto geloso di te? Ma non vedi che preferisce portarsi a letto la brocca del vino, piuttosto che correr dietro alle scaltre donzelle che circolano per casa? Quando ha bevuto, poi, cammina perfino meglio del solito!» gli aveva risposto Ubertino, sbottando in una sguaiatissima risata.
Restava il fatto che Giovannone non aveva voluto anticipargli i motivi di quella improvvisa convocazione notturna da parte del Signore di Padova. Anzi, una volta imboccato lo stretto corridoio che conduceva alla sala di rappresentanza, aveva insistito per precederlo con la scusa di fargli luce, ma stava volutamente rallentando la sua incerta andatura con l’intento di farlo arrivare in ritardo.
Giacomo da Carrara lo aspettava seduto al centro del lungo tavolo che, per l’occasione, era stato imbandito con grandi vassoi di carni arrostite, pane bianco, frutta e alti boccali di vino. Le altre persone presenti ricambiarono il suo saluto con un cenno del capo. Dai volti tesi e dagli occhi arrossati, Pietro intuì che non avevano dormito affatto.
«Vi ho convocati nel cuore della notte perché intendo affidarvi un delicatissimo incarico diplomatico che necessita della massima segretezza. Se qualcuno di voi non intende contribuire alla salvezza della patria lo dica subito, apertamente, senza temere ritorsioni. In ogni caso, nessuno dovrà venire a conoscenza di quello che decideremo stanotte» esordì pensieroso il Signore di Padova, fissandoli negli occhi per leggervi recondite paure.
«Come sapete, la tregua militare strappata a Cangrande scadrà a fine anno e più si avvicina quel giorno e meno tranquillo mi sento per i destini della nostra città. Ho notizia che Cangrande ha disposto il completamento della cerchia muraria di Verona, fingendo di temere le nostre incursioni, ma io so che ci attaccherà per primo alla testa di un potente esercito con l’obiettivo di invaderci o di imporci delle dolorose menomazioni territoriali. La nostra situazione resta critica; le difese sono inadeguate e l’ultimo contingente militare, ottenuto da Enrico di Carinzia, è appena sufficiente per presidiare le mura e le fortificazioni, al punto che, in questo momento, non possiamo spostare le truppe di stanza a Cittadella e a Bassano per riprenderci Monselice, come bisognerebbe fare, agendo di sorpresa. Inoltre, poiché l’obiettivo di Cangrande resta la conquista dell’intera Marca, sono convinto che, una volta posto l’assedio alla nostra città, egli si dedicherà alla conquista della nostra alleata Treviso, la quale, isolata com’è, non riuscirà a resistere a lungo. Conoscendo la sua indole, prevedo che in primavera investirà, una dopo l’altra, le città guelfe dell’Emilia per farle cadere in suo potere, per poi rivolgere il suo esercito contro Firenze.» Giacomo fece una pausa per indicare sulla mappa aperta sul tavolo i probabili bersagli dello Scaligero.
«Potendo contare sull’appoggio delle truppe imperiali, prevedo che vincerà facilmente anche lì. A meno che i nostri tradizionali alleati non accettino di inviarci dei poderosi aiuti militari. Solo così fermeremo l’espansionismo di Cangrande e, a Dio piacendo, potremo affrontarlo in campo aperto, scacciandolo oltre i primitivi confini del nostro territorio. Ci siamo già riusciti nell’estate del 1320. Ricordate? E ora ditemi: chi di voi è disposto a partecipare alla missione segreta?»
Come un sol uomo, tutti i presenti si dichiararono onorati di farvi parte pur consapevoli dei rischi ai quali potevano andare incontro.
«Ho scelto voi perché vi considero uomini fidati e coraggiosi. Avrete ruoli diversi: Ubertino e Marsilietto accompagneranno l’eminente giudice Rolando da Piazzola e risponderanno a me della sua personale sicurezza. Quanto a te, Pietro, sei chiamato a vigilare sulla buona salute del nostro benemerito consigliere, poiché la sua arte oratoria è indispensabile per la buona riuscita della missione. Vi ricordo che solamente il giudice Rolando è autorizzato a rappresentarmi e a sottoscrivere accordi con i governi alleati. Tutto è pronto. Per non destare sospetti, partirete all’alba come dei normalissimi commercianti, scortati da due armigeri di provata fedeltà. In questo momento non ve ne posso concedere di più. Perciò siate prudenti e ritornate solo quando avrete ottenuto dei sostanziosi aiuti militari. E ora mangiate e brindate alla mia salute. Che la fortuna vi assista, miei prodi!»
Ciò detto, Giacomo si alzò dalla scranna e si congedò da loro con un virile abbraccio.
«Mio signore!» lo fermò Pietro. «Spero di essere all’altezza della fiducia che mi avete accordato, ma mi sentirei più tranquillo se potessi portare con me alcuni trattati di medicina e la borsa degli strumenti chirurgici.»
«Ne hai piena facoltà, cavaliere. Tu hai vinto l’astenia che attanagliava la mia piccola Taddea e hai saputo mantenere il segreto sulla sua malattia. Fatti dare il cavallo migliore!» concluse Giacomo, abbracciandolo come se fosse un figlio.
Dovendo attraversare un territorio devastato dall’annosa guerra contro gli Scaligeri, essi disponevano dei lasciapassare rilasciati dalla Signoria carrarese da esibire nel caso in cui fossero stati intercettati da pattuglie nemiche o da gruppi di sbandati che imperversavano nella zona. A ogni buon conto, sotto i mantelli indossavano le cotte di maglia di ferro e tenevano le armi a portata di mano; le armi lunghe erano nascoste all’interno del carro coperto, guidato dal soldato più anziano. Il carro trasportava alcune pezze dei pregiati tessuti di lana oggetto del loro commercio fittizio, ma anche le tende e una gran quantità di viveri per potersi accampare lontano dai villaggi.
L’importanza della missione richiedeva grande prudenza, ma, grazie al graduale rientro dall’esilio dei cavalieri padovani, ora si correvano minori rischi a sostare nei boschi che non nelle locande, dove ladruncoli e prostitute facevano a gara per alleggerire la borsa degli incauti viaggiatori in transito. Una volta usciti da Porta Bassanello, Ubertino e Marsilietto si posero alla testa del gruppo, mentre Pietro preferì cavalcare a fianco di Rolando da Piazzola. Quando la conversazione cominciò a languire, il giudice lo invitò ad affiancare i coetanei e a dar loro parola. Pietro sapeva che tra i due non correva buon sangue, ma accettò ugualmente di sottoporsi alle maliziose domande di Ubertino sulla sua presunta inettitudine militare e sull’assenza di avventure amorose di cui vantarsi.
Più tardi, durante la sosta per il pranzo, neanche il vecchio giudice riuscì a sottrarsi a tale sfrontatezza, rivelandosi una persona dotata di grande ironia. Replicando a una provocatoria domanda rivoltagli da Ubertino, Rolando ammise serenamente di dedicare ben poche energie alla conquista di cuori femminili, ma di essere ancora in grado di combattere per la riconquista di Vicenza, sapendo di poter contare sulla spada e sul cuore di Ubertino.
La perdita di Vicenza era stata la causa scatenante della guerra in corso tra Verona e Padova. Era successo il 14 aprile 1311. Dopo mezzo secolo di dominio padovano, gli insorti vicentini avevano attaccato e messo in fuga la guarnigione con l’aiuto determinante delle truppe imperiali, guidate da un giovanissimo Cangrande della Scala.
Pochi mesi prima, Enrico VII di Lussemburgo era sceso in Italia con un grosso esercito per ripristinare l’autorità imperiale nei confronti dei comuni dell’Italia settentrionale e centrale, ai quali aveva imposto di rinunciare all’autonomia di governo, trasferendo i poteri a un vicario di sua fiducia scelto fra quattro cittadini di parte ghibellina proposti dal consiglio comunale. Gli antichi statuti sarebbero rimasti inalterati a condizione che i comuni si impegnassero a versare annualmente un sostanzioso contributo in oro alle magre casse imperiali.
Inizialmente il Comune di Padova aveva riconosciuto la propria sudditanza nei confronti dell’imperatore, ma la confisca delle proprietà che i magnati padovani detenevano nel Vicentino e la successiva deviazione del corso del Bacchiglione a Longare, studiata per privare la città di Padova di un’importante riserva d’acqua, avevano esasperato gli animi al punto che il Maggior Consiglio aveva rigettato le pesanti condizioni poste da Enrico VII, preparandosi alla guerra contro Cangrande, che, nel frattempo, era stato nominato vicario imperiale di Verona e di Vicenza.
«Dopo aver inutilmente incontrato la delegazione imperiale a Genova, sapevamo cosa ci aspettava. Le nostre proposte erano state ignorate, perché l’imperatore era impegnato a conquistare con le armi le città guelfe che si erano ribellate alle sue condizioni, come Bologna e Firenze avevano fatto prima di noi» esordì il vegliardo.
«Io non ero un giovanotto, ma saltai a cavallo e battagliai a più non posso contro le truppe scaligere. Per un anno alternammo clamorosi successi a incredibili sconfitte sul campo senza riuscire a riconquistare una briciola di territorio vicentino. Il tradimento di Nicolò da Lozzo, che aveva abbandonato il castello di famiglia nelle mani di Cangrande nella speranza di aumentare i suoi possedimenti, recò un duro colpo al nostro ottimismo. Fu allora che decidemmo di dare una svolta al conflitto, invadendo il territorio veronese. Avevamo la possibilità di battere il nemico in casa propria, approfittando dell’incauto invio di un contingente di truppe veronesi a sostegno della guerra dichiarata dall’imperatore contro la città di Modena.»
«Orsù, giudice, raccontateci cosa successe in seguito» lo stimolò Marsilietto.
«Accadde l’impossibile! Dovete sapere che Cangrande raggruppa in sé le capacità del grande condottiero e la lungimiranza dello stratega. Quando si accorse che lo stavamo chiudendo in un angolo, si alleò con il Conte di Gorizia, il quale attaccò i nostri confini settentrionali e ci costrinse a una precipitosa ritirata! In città la tensione era salita alle stelle e il rancore, mai sopito, tra partiti rivali scatenava violenze inaudite: si giunse così all’approvazione della Costituzione di parte guelfa che concentrò il potere nelle mani dei papisti senza tenere conto della forte presenza ghibellina esistente in città.»
A quel punto il giudice tacque per non dover ricordare un episodio di guerra cittadina del quale c’era ben poco da vantarsi.
«Io so cosa successe a seguito di quell’atto sconsiderato» si inserì Ubertino, fattosi serio in volto. «Ero piccolo, ma ricordo bene quello che si diceva in casa a proposito delle infamanti accuse mosseci dai guelfi: ci accusavano di essere in combutta con il nemico solo perché la nostra famiglia stava cercando un’onorevole via d’uscita rispetto alla guerra. I guelfi gridavano al tradimento, tentando di far mettere al bando alcuni dei miei parenti. Per reazione, si verificarono degli scontri armati che provocarono la morte di alcuni estremisti guelfi e dei loro familiari. Fu una cosa orribile a vedersi, ma inevitabile, come sentii raccontare da coloro che ne presero parte.»
«Non devi vergognartene, Ubertino» intervenne Rolando. «La tua famiglia ha fatto il possibile per risolvere un conflitto odioso che, comunque, Cangrande stava vincendo. La violenta rivolta popolare, che infiammò Padova nella primavera del 1314, servì a far riflettere i guelfi più responsabili. Alla fine la Costituzione di parte guelfa fu abolita, sia per calmare gli animi, che per convincere tutti a dedicarsi alla difesa delle libertà cittadine minacciate dallo Scaligero. Pensate che, pur di fiaccarci il morale, le sue truppe attaccarono e distrussero parte del borgo di Abano. La reazione del nostro esercito fu immediata e riuscimmo a metterli in fuga.»
«Dicono che magister Pietro d’Abano abbia rischiato d’essere trucidato dalla soldataglia scaligera intenta a incendiare il borgo e ad abbattere il campanile del duomo. Attaccando Abano, Cangrande ha voluto dare un assaggio di quello che sarebbe successo a Padova se non si fosse arresa alle sue mire di conquista» disse Pietro che fino a quel momento si era limitato ad ascoltare.
«Il coraggio dimostrato da tuo padre in quell’occasione è ancora ben vivo nei nostri cuori, soprattutto adesso che non c’è più. Giacomo da Carrara avrebbe voluto fare di più per aiutarlo a difendersi dagli inquisitori, ma la maledetta guerra, che ancora dura, ci annebbiò il cervello e lo abbandonammo a se stesso» confermò Rolando per fargli capire di essere ben informato sulla sua situazione familiare.
L’inattesa rivelazione dell’identità paterna lo fece arrossire violentemente: il suo segreto era stato rivelato! In cuor suo rabbrividì all’idea delle pesanti conseguenze che ne sarebbero derivate, ma l’onesta ammissione di colpa da parte del consigliere più influente della Signoria lo commosse e la stima manifestata da Ubertino e da Marsilietto nei confronti del padre lo tranquillizzarono definitivamente.
«La cavalleria scaligera si abbatté sul villaggio di Abano con la forza di un fiume in piena, travolgendo in un battibaleno le difese opposte dalla guarnigione. Poi sopraggiunse la fanteria che prese a incendiare sistematicamente le casupole abbarbicate nei dintorni del duomo, davanti al quale poi basarono il campo. In Consiglio fummo tutti d’accordo di respingere al mittente la provocazione, disponendo l’invio immediato di un robusto contingente militare per riconquistare un paese a noi caro» disse Rolando, riandando con la memoria a quei tragici avvenimenti.
«Mio padre si trovava ad Abano per far visita a dei conoscenti, ma quando vide i guastatori tedeschi passare delle grosse funi attorno al campanile con l’evidente intenzione di atterrarlo, tentò di farli ragionare: un ufficiale sguainò la spada e l’avrebbe colpito a morte se non fosse stato fermato proprio da Nicolò da Lozzo, che l’aveva riconosciuto.»
Non appena Pietro ebbe nominato il nome dell’ex podestà di Vicenza, reo di aver abbandonato l’esercito padovano per allearsi con l’invasore scaligero, Ubertino e Marsilietto si misero a vociare così forte che Rolando dovette intervenire per zittirli.
«Sono felice che tuo padre sia stato salvato dal nobile gesto di un bieco traditore come Nicolò da Lozzo» disse il giudice «ma i ragazzi hanno ragione di lamentarsi, poiché la sua defezione causò la devastazione dei borghi fedeli a Padova posti sul fianco occidentale dei Colli Euganei. Per ironia della sorte le truppe di Cangrande non risparmiarono né il suo castello né le fertili proprietà dei Maltraversi da Castelnuovo.»
«Come puoi sopportare di essere imparentato con un verme simile, eh Pietro?» intervenne Ubertino con tono sprezzante.
«Calmatevi tutti!» gridò Rolando. «Non se li è mica scelti lui i parenti! A onor del vero, debbo ricordarvi che, a seguito del pessimo andamento della guerra, avevamo perso l’appoggio militare di alleati del calibro di Guecello da Camino e di Francesco d’Este ben prima del tradimento di Nicolò. La sua avidità di ricchezza lo ha reso imperdonabile: pensate che un suo rampollo ha sposato la figlia del principale consigliere del nostro acerrimo nemico!»
«Io so che Nicolò da Lozzo restò bandito dal territorio padovano fino alla pace del 1318 e che l’anno dopo fu esiliato nuovamente, perché la sua presenza in città costituiva motivo di sanguinose vendette. Neppure la mediazione del nostro Signore riuscì a placare gli animi» aggiunse Marsilietto, al quale fecero seguito le precisazioni fornite da Rolando.
«Negli anni scorsi abbiamo dovuto prendere delle decisioni difficili, ma sempre a beneficio della patria, senza mai favorire la nostra parte politica. Nel 1312 sono stato io a esortare il Maggior Consiglio a rifiutare le inique proposte dell’imperatore. Non potevamo accettare di sottostare al novello Ezzelino di nome Cangrande! Altri, come il poeta Albertino Mussato, hanno accettato di fare atto di sottomissione all’arroganza imperiale, finendo per indebolire l’autorità del Consiglio stesso. Ne siamo usciti sconfitti e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti! Ancora oggi siamo impegnati a difendere la nostra libertà dalla rapacità del signorotto veronese! Ah, se avessi vent’anni di meno!» esclamò Rolando, dandosi un pugno sul palmo della mano.
«Sareste pur sempre un nonnetto coraggioso e terribilmente simpatico!» gli fece eco Ubertino, trascinando tutti in una fragorosa risata.
«Vi dirò che, dopo l’attacco contro Abano, non potevamo permetterci di lasciare l’iniziativa allo Scaligero. All’inizio di settembre di quel 1314 il nostro esercito mosse in direzione di Vicenza sotto la guida del podestà Ponzino de’ Ponzoni. Questa volta potevamo contare su un gran numero di mercenari esperti, ma fu la nostra determinazione a dare i migliori frutti. Infatti, riuscimmo a sfondare le difese nemiche in più punti e a impadronirci di Borgo S. Pietro, che si trova appena fuori le mura vicentine, dove montammo il campo in attesa delle macchine da assedio che dovevano arrivare da Padova. Passarono alcuni giorni senza che succedesse nulla, a parte le intemperanze dei mercenari tedeschi, che approfittarono della pausa nei combattimenti per saccheggiare case isolate e per oltraggiare donne giovani e vecchie, secondo le loro turpi abitudini. Pagammo caro l’errore di non punirli a dovere! All’alba del 17 settembre vedemmo aprirsi il portone di Porta S. Pietro: sul momento pensammo che i guelfi vicentini fossero riusciti a sopraffare la guarnigione per agevolare il nostro ingresso in città. Le cose andarono ben diversamente. Il ponte levatoio non era ancora stato completamente calato quando il nostro accampamento fu investito da centinaia di cavalieri urlanti, guidati da Cangrande in persona» disse il vegliardo, interrompendo il racconto per asciugarsi gli occhi.
«Colti di sorpresa e travolti dal panico, non riuscimmo a contrapporre alcuna difesa a quella torma di diavoli a cavallo. Parecchi dei nostri restarono uccisi negli scontri durissimi che seguirono l’attacco. Altri si salvarono, dandosi alla fuga prima di essere accerchiati. Ben settecento soldati e una trentina di cavalieri padovani furono catturati con le armi in mano: Albertino Mussato, Giacomo e Marsilio da Carrara e io stesso subimmo l’onta delle carceri veronesi!» raccontò il vecchio giudice, abbassando lo sguardo per la vergogna, mentre i giovani compagni di viaggio gli si stringevano attorno. «Non vi nascondo che avrei preferito morire in battaglia, piuttosto che esser fatto prigioniero» proseguì Rolando dopo essersi ripreso dalla commozione che l’aveva investito. «Ho una certa età e la morte mi avrebbe risparmiato l’onta di assistere impotente alle continue minacce rivolte contro la nostra patria da parte di quel diabolico condottiero!»
«A quanto pare vi hanno trattato bene» osservò Pietro.
«Condividevo la cella con Giacomo e Marsilio, che all’epoca aveva pressappoco la vostra età. I carcerieri avevano l’ordine di non farci mancare il cibo e l’acqua: capimmo in seguito che servivamo più da vivi che da morti, perché Cangrande aveva apprezzato il coraggio e il senso del dovere che avevamo dimostrato in battaglia. Per semplificare, direi che stavamo sicuramente meglio noi che non i prigionieri veronesi detenuti nelle nostre carceri, fatta eccezione per quei poveracci finiti alle Zilie. Oggigiorno il popolino è convinto che le nostre carceri più dure si chiamino così in ricordo dei gigli, i fiori simbolo dell’innocenza amati da Sant’Antonio, ma i carcerieri sanno che quel lugubre nome deriva da Zilio, il capomastro che le ha costruite nel secolo scorso. Gli oppositori di Ezzelino sapevano che finire alle Zilie corrispondeva a una condanna a morte: o si usciva con le proprie gambe entro un paio di settimane oppure si usciva su un carro funebre con i piedi allineati davanti e un frate obeso occupato a recitare oscure litanie. Ezzelino non aveva pietà per nessuno, neppure per i parenti acquisiti come Bontraverso, del quale il nostro Pietro è un diretto discendente.»
«Questo ragazzo è una fonte di segreti sorprendenti!» esclamò Ubertino, interrompendo il racconto del giudice.
«Lasciate che vi spieghi!» ribatté Pietro, irritato. «L’unica colpa imputabile a Bontraverso Maltraversi è di aver dato in moglie a Ezzelino la sua primogenita Beatrice. Ciò nonostante il poveretto fu incarcerato e morì alle Zilie pochi mesi prima che Padova fosse liberata da quel demonio.»
«In verità i Maltraversi sono stati di tutto fuorché dei poveri» aggiunse Ubertino, dimenticando di essere a sua volta imparentato alla lontana con quella nobile casata. Nel 1263 un suo antenato, Giacomino da Carrara, il primo ad essere soprannominato Papafava, aveva sposato l’altra figlia di Bontraverso, Adelmota, futura nonna di Marsilietto.
«Cosa avresti da dire contro i Maltraversi, tu che vivi di nobiltà riflessa!» intervenne quest’ultimo che non aveva gradito l’irritante riferimento alla casata di provenienza della nonna.
«Calmati piccoletto, io non volevo offendere nessuno! Ricordo che in passato i Maltraversi hanno cambiato le insegne a seconda del potente di turno. Pur essendo guelfi da sempre, ci hanno messo un attimo ad allearsi con Ezzelino. Poi sono ridiventati guelfi e, infine, sono passati al servizio di Cangrande in cambio di facili vantaggi personali!» replicò Ubertino con provocatoria franchezza.
«Taci serpe! Quella brutta storia riguarda solamente i Da Lozzo!» urlò Pietro, strattonandolo per il bavero del mantello.
«Smettetela subito, voi due!» intervenne Rolando, temendo che il battibecco degenerasse. «Dovete portarvi maggiore rispetto proprio per i legami di parentela che avete in comune. Ora rimettiamoci in marcia. Prima di sera vorrei poter riposare su un buon letto.»
«A scanso di equivoci e con il permesso del giudice, vorrei prima precisare che i Maltraversi sono stati costretti ad accettare l’imbarazzante parentela con Ezzelino III» aggiunse Pietro, accostando il cavallo al resto della compagnia.
«La cosa si fa sempre più interessante. Dai, Pietro, raccontaci un altro segreto di famiglia!» lo stimolò Ubertino, sorridendo.
«Zia Adelmota mi ha raccontato che nel 1249, suppergiù di questa stagione, Ezzelino diede una festa per inaugurare il palazzo di Ponte Molino, che si era fatto costruire con i materiali prelevati dalle case abbattute di proprietà dei nobili padovani a lui ostili.»
«I miei avi non hanno potuto ricambiare la cortesia!» disse Ubertino sprezzante, ignorando l’invito del giudice a non interrompere il racconto di Pietro.
«Ezzelino intendeva riconciliarsi con la città, perciò invitò alla festa i magistrati, i nobili e i cavalieri più famosi, senza dimenticare i ricchi commercianti e i potenti artigiani, molti dei quali accettarono l’invito portando con sé moglie e figli. Più di duecento invitati presero posto su rozze panche di legno, ma non vi fecero caso, perché l’abbondanza di cibi e di vini disposti sui tavoli e la presenza di musici e saltimbanchi fecero dimenticare presto la tensione iniziale. Ezzelino sedeva al centro del salone e si divertiva a osservare gli ospiti gozzovigliare allegramente. A un certo punto le forme ben sviluppate di una soave ragazza bruna attirarono la sua attenzione, anche perché un gruppetto di giovani cavalieri la stava importunando con battute salaci, che la facevano avvampare in viso. Quando Ezzelino seppe che era la figlia di Bontraverso…»
«Stai parlando della banderuola del tuo bisnonno, vero?» lo interruppe nuovamente Ubertino, sghignazzandogli in faccia.
«Smettila di insultare i morti! Tu ignori le vicissitudini di Bontraverso. Agli occhi di Ezzelino, il nobiluomo aveva la colpa di essere imparentato con Azzo d’Este, suo acerrimo nemico; chiedendogli la figlia in sposa, voleva mettere alla prova la sua fedeltà. Ezzelino aveva cinquantacinque anni e pretendeva di sposarla all’istante, approfittando dei notai presenti alla festa. Bontraverso si sentì in trappola: si dichiarò onorato della proposta fattagli dal tiranno, la cui faccia accigliata comunicava che non avrebbe tollerato un eventuale rifiuto, e mandò a chiamare la figlia Beatrice, augurandosi che la ragazza non fuggisse spaventata di fronte a quel maturo pretendente. Quando Bontraverso comunicò a Beatrice che la volontà divina le aveva fatto la grazia di essere scelta in sposa dal Signore della Marca, la ragazza arrossì per la sorpresa e, non potendo disobbedire al volere divino