Specie meno note di sirene
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Anteprima del libro
Specie meno note di sirene - Simonetta Caminiti
Specie meno note di sirene
Simonetta Caminiti
NINFODORA ARROSSISCE
In questo borgo viveva una mamma col suo figliolo; lavorava come inserviente in una casa di signori molto ricchi, e il ragazzo, di soli dieci anni, si occupava di molte faccende in quella casa. Fabbricava con le sue mani il sapone col quale la mamma rimetteva a nuovo tutti gli indumenti nelle fontane del cortile; raccoglieva i frutti dai meli e, insieme col vecchio Guardacaccia, andava per i boschi a cacciare e raccogliere funghi profumatissimi. In verità, questi erano solo le faccende che preferiva, ma molte altre lo impegnavano.
Sembrava un ragazzo davvero sveglio, seppure poco espansivo: solo non aveva un buon udito, probabilmente fin dal giorno della nascita, e una brutta febbre ancora in fasce lo aveva compromesso per sempre. Anche i suoni che gli venivano fuori dalle labbra erano molto strani, per quanto avesse belle labbra di fiore, con una muraglia precisa di dentini candidi a disegnargli il sorriso. Naturalmente, la sua incapacità di parlare il linguaggio delle altre persone gli creava dei problemi ogni tanto: la madre, che pure era tanto buona e paziente, doveva farsi intendere a suon di ceffoni molto spesso, perché aveva paura che la sua infermità fosse un pretesto per la disobbedienza. E poi c’era la figlia dei padroni - una bimba paffuta dagli scuri capelli lunghi - che era ancora più giovane di lui: creatura antipatica, che lo scherniva spietatamente per il suo modo di esprimersi.
Accadde un giorno sventurato che la mamma di questo fanciullo si mise in mezzo a una zuffa, al ritorno dal mercato, e la prese allo stomaco una brutta lama in mano a un uomo; al che, dopo poche ore, nel suo letto, la donna salutava il figliolo per l’ultima volta.
Il bambino sembrò mutare nell’indole come dal giorno alla notte, e non riusciva più ad essere gentile con nessuno (ma anzi era giunto a qualche piccola violenza perfino sul padrone), così fu affidato ad un istituto nella cittadina prossima a quella proprietà. Un brutto posto, pieno di ragazzini che comunicavano, ai suoi occhi, smorfie di infelicità pari alla sua; e certi bambini erano denutriti e ancora più strani di lui, perciò avevano più spesso la compagnia e l’assistenza delle donne dell’istituto.
Non resistette più di due giorni, il piccolo, che riuscì a svignarsela.
Attraversò con la sua mantellina lacera la nebbia, si strinse per il freddo alla scoperta di un posto nel quale, solo, si sarebbe sentito meno solo. Ma, man mano che percorreva la strada e imboccava la campagna, riconobbe per incanto una lunga via di terra color tabacco, fiancheggiata da papaveri. Papaveri. Proprio in quel luogo dove i papaveri mai avevano visto la luce: alti papaveri color della porpora reclinati come a suggerirgli qualcosa che gli sembrava di ricordare. E fu così, che seguendo i papaveri, gli parve di sentire per la prima volta una voce che gli diceva: Finalmente, ragazzo!
Camminò soffrendo poco il freddo, e così raggiunse una piccola casa, nella pancia del bosco, come quella di tutte le storie per ragazzi. Era un bel posto. Un piccolo scrigno di pietra azzurro-scura col comignolo che emanava un fiotto di vapore fuligginoso e soffice. Gli odori del bosco, la nebbia ormai dissolta in una visione trasparente, gli riportarono in bocca il sorriso.
Fu allora che, con le nocche contro la porta corrosa, decise di annunciarsi.
Gli fu data accoglienza dal padrone di casa, che era un vecchio signore. Altro incontro che non gli sembrò affatto nuovo, sebbene non riuscisse a ricordare dove fosse avvenuto. E sebbene, evidentemente, un passato che li legava non ci fosse affatto.
Il vecchio viveva dei frutti del suo orto, che era sempre in fiore anche in inverno, e creava miniature di cose bellissime, soprattutto vascelli e fortezze.
Il ragazzo comprese subito di stare così bene lì, che decise di rimanervi per sempre. Per sempre, lontano da tutti, in un mondo di riproduzioni del mondo.
Prese a lavorare col vecchio: alla semina, alla raccolta, a spaccare la legna, a cucinare e persino rammendare. Si occupava dei polli, vedeva germogliare frutti che, tanto come i papaveri, in quel terreno erano un vero prodigio.
Ma soprattutto, un giorno, il vecchio gli regalò un lungo e affilato pezzo di carboncino nero. Il signore credeva di dovergli insegnare a utilizzarlo, almeno per quel poco che in principio può cavarsi da un tale piccolo apprendista: invece no, il giovanotto aveva un talento illuminato per le illustrazioni. Il maestro non aveva idea che il discepolo non sapesse né leggere né scrivere, ma che tempo addietro avesse ridotto un gessetto, rubato all’insegnante della padroncina antipatica, alle dimensioni di una sua unghia, facendogli comporre disegni meravigliosi sulle pareti delle rocce. L’unico idioma che conosceva, Era accaduto nei dintorni del gregge della bella proprietà. In verità, il ragazzo stesso se n’era dimenticato: era passato tanto e tanto di quel tempo! E poi il fiumiciattolo aveva fatto presto a lavare via coi suoi freddi colpi di petto, sulle sponde, quegli esercizi perfetti.
Si sentiva così felice, a colmare di illustrazioni le pareti della sua nuova stanza, che probabilmente doveva aver capito di avere un dono particolare. Non disegnava semplici oggetti; non riproduceva la fissità delle cose che per una ragione o l’altra lo colpivano: la sua passione vera