Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

A partire da $11.99/mese al termine del periodo di prova. Annulla quando vuoi.

Treni in corsa nelle notti di Kyoto
Treni in corsa nelle notti di Kyoto
Treni in corsa nelle notti di Kyoto
E-book251 pagine3 ore

Treni in corsa nelle notti di Kyoto

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dopo dieci anni trascorsi in Giappone, Cina e Vietnam, Patrick Holland ci racconta le storie di un occidentale alle prese con la complessità dell’Oriente.Un viaggio, quello di Holland, che attraversa la regione giapponese del Kansai – da Osaka all’area sacra dell’Oku-no-in – e continua nello Yunnan cinese e nelle città vietnamite di Saigon e La Vang. Come la sinuosa Muraglia cinese, i racconti si snodano uno dopo l’altro, dando voce ai luoghi e alla gente che li abita, disseminati di citazioni di autori classici e moderni – da Calvino a Kawabata a Basho.
Le riflessioni sul concetto di luogo e non-luogo, mortalità e mutamento, delineano un percorso geografico, sociale e antropologico che passa agilmente da un paese all’altro, come i treni presi in corsa nelle notti di Kyoto.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788831461078
Treni in corsa nelle notti di Kyoto

Correlato a Treni in corsa nelle notti di Kyoto

Ebook correlati

Viaggi per interessi speciali per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Treni in corsa nelle notti di Kyoto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Treni in corsa nelle notti di Kyoto - Patrick Holland

    Scritti Traversi

    TRENI IN CORSA NELLE NOTTI DI KYOTO

    di Patrick Holland

    TRENI IN CORSA NELLE NOTTI DI KYOTO

    di Patrick Holland

    © 2015 - Edizioni

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Collana Scritti Traversi

    Edizione originale Riding the Trains in Japan, Transit Lounge

    Traduzione Giacomo Falconi

    ISBN 978-88-31461-07-8

    Impaginazione omgrafica, roma

    TRENI IN CORSA NELLE NOTTI DI KYOTO

    DA KYOTO A TOKYO, A KYOTO, AL NULLA…

    Arrivai a Kyoto nel bel mezzo della festa nazionale chiamata Ō-Bon, il giorno in cui i giapponesi commemorano i defunti. Durante questa ricorrenza, i buddhisti onorano gli antenati e gli anziani, e gli spiriti dei morti possono fare ritorno sulla terra. Avevo viaggiato in lungo e in largo in Oriente e avevo lavorato e studiato in Vietnam e in Cina, ma non avevo mai dovuto prenotare un hotel. Ovunque, dagli avamposti gelidi del deserto del Gobi a Saigon in una tempesta tropicale dopo mezzanotte, mi sono sempre detto «qualcosa salterà fuori» e, di solito, è sempre stato così. Ma non in Giappone. Di certo non a Kyoto, nei giorni di festa.

    Dalla stazione di Kyoto presi un autobus diretto a nordest, al Distretto di Higashiyama, dove avevo letto che era possibile trovare alberghi tradizionali a buon prezzo. Camminavo con uno zaino da venti chili sulle spalle, una borsa a tracolla e una valigetta. Con l’aiuto di un frasario e di un signore giapponese di ritorno a casa dopo una bevuta, riuscii a trovare cinque o sei posti. Tutti al completo. Erano le dieci e mezza di sera. Scesi dalla collina per raggiungere una cabina telefonica, da cui contattai una ventina di strutture, dagli ostelli agli hotel a quattro stelle che non mi potevo permettere. Niente. Né stanotte, né domani e nemmeno il giorno dopo.

    Mangiai un piatto di udon in un ristorantino sulla Horikawa con le mie borse tra le ginocchia sotto il bancone. Poi caricai la mia roba su un bus che tornava alla stazione di Kyoto.

    Il mio piano iniziale era depositare i bagagli in un armadietto e dormire su una panchina. In qualsiasi altro luogo di transito in tutto il mondo avevo sempre trovato ampie panchine e gente che bighellonava o dormiva, in attesa di un autobus, di un treno o dell’alba. Non sarei stato fuori posto mescolandomi a questa tribù di Kyoto. Ma a Kyoto non c’era alcuna tribù di questo tipo. Gli autobus e i treni passavano troppo regolarmente per attardarsi e la gente saliva e scendeva con una tale efficienza, grazie al sistema informatizzato di biglietteria, che se mi fossi fermato a sedere anche solo per un momento avrei subito dato nell’occhio, sempre che avessi trovato una panchina su cui sedermi.

    La mancanza di posti a sedere serviva a scoraggiare il vagabondaggio e in effetti non ce n’erano tracce. Tuttavia non riuscivo a non pensare agli anziani, alle madri di bambini capricciosi, ai mariti di donne a caccia di scarpe (c’era un numero incredibile di negozi di qualsiasi genere nel complesso della stazione) e, naturalmente, ai senzatetto – a cui stavo per unirmi in modo temporaneo, ingiustificato e assolutamente comico. Adesso posso riderci su mentre allora, in quella notte calda sotto il peso delle mie borse in una città straniera, la mia situazione mi appariva tutt’altro che divertente.

    Trovai un armadietto in cui depositare i bagagli. Pagai cinquecento yen e mi sentii un uomo libero, essendomi scrollato di dosso un peso che avevo portato in spalla per oltre dodici ore da Tokyo. Ero quasi felice, quasi elettrizzato come spesso mi sento nei luoghi di transito, dove convergono così tanti itinerari unici e nell’aria gravita la possibilità di deviare lungo uno dei mille percorsi che vi si intersecano.

    Comprai un caffè gelato in lattina e mi sedetti su un muretto in cemento che delimitava un giardino rialzato, a guardare la gente passare: uomini d’affari di ritorno dai bar, giovani che entravano e uscivano dai club e, ora che facevo parte delle loro fila, iniziai a cercare i senzatetto. Dovevano esserci per forza, pensai. In ogni città del mondo si possono trovare dei senzatetto nei luoghi di transito: perfino l’assenza di panchine non poteva impedire a un uomo di appoggiare le borse contro un muro e dormire su un telo da mare o su una scatola di cartone appiattita. Ma qui a Kyoto sembrava che i senzatetto non esistessero o che fossero stati efficientemente rimossi. Ancora non apprezzavo l’arte di essere un vagabondo in Giappone, un’arte sottile e raffinata quasi quanto quella delle geishe. Ben presto dovetti imparare le prime lezioni.

    Mentre me ne stavo seduto a bere il caffè, ero io a guardare i passanti, ma non appena ebbi finito e mi fui steso sul muretto in cemento, ebbi l’impressione che tutti osservassero me. Mi ero appena sdraiato, appoggiandomi sul gomito, quando un uomo di mezza età, dopo avermi oltrepassato, si girò a guardarmi. Una ragazza fece lo stesso. Era come se migliaia di occhi mi stessero fissando. Sospirai, pensando a dove avrei potuto riposarmi con discrezione. L’uomo che mi aveva fissato scese giù verso i binari. Fu allora che capii cosa fare: avrei viaggiato in treno. In Giappone c’erano oltre ventimila chilometri di linee ferroviarie. Per i successivi tre giorni, fino alla fine dell’Ō-Bon, avrei viaggiato passando da un treno all’altro, così nessuno mi avrebbe notato. Mi sarei potuto sedere in un posto morbido e dormire. Avrei potuto mangiare, fare quattro passi alle fermate e, soprattutto, passare inosservato durante il mio vagabondaggio.

    Iniziai così a viaggiare da un treno all’altro per il Giappone.

    * * *

    Acquistai un biglietto dello Shinkansen, il famoso treno proiettile. All’epoca si trattava dell’unico treno che sapessi come prendere. Ne scelsi uno diretto a Tokyo. Si trattava di un viaggio abbastanza lungo da permettermi di dormire, ma non così lungo da causarmi problemi se avessi dovuto tornare a Kyoto. Non sapevo perché considerassi Kyoto la mia base. Non avevo alcun particolare legame con quella città, niente di più rispetto a qualsiasi altra città del paese, nemmeno la speranza di una stanza d’hotel.

    Il biglietto senza prenotazione dello Shinkansen mi costò tredicimila yen, circa cento euro. Il prezzo adesso mi sembra eccessivo, ma gli yen mi davano ancora quella sensazione di soldi giocattolo che si ha con la valuta straniera all’inizio di un viaggio. Mi giustificai pensando che il costo non era molto superiore a quanto avrei speso per un hotel e comunque, evitando di allontanarmi dai binari, avrei potuto spostarmi comodamente tra Kyoto e Tokyo per tutta la notte.

    Mi sedetti al mio posto e sprofondai in un microcosmo di passeggeri in continuo ricambio, seduti uno accanto all’altro in comune solitudine. Vidi i sobborghi di Kyoto svanire via, seguiti da tratti di campagna aperta, delimitati da luci intermittenti e lontane. Il treno viaggiava troppo rapidamente per riuscire a farmi un’idea di paesaggio coerente, figuriamoci cogliere un senso di progressione. Non c’era neppure traccia di quei tipici indicatori di passaggio, come la graduale comparsa di sobborghi e zone residenziali, in grado di segnalare l’approssimarsi delle stazioni, che si palesavano improvvisamente intorno al treno per poi sparire. Le uniche costanti, gli unici elementi ricorrenti erano le luci distanti e imperscrutabili all’orizzonte – o la linea che sembrava l’orizzonte, ma che avrebbe potuto essere anche vicina. Dopo una striscia di oscurità apparve una stazione. Poi i quartieri residenziali. Quindi le zone industriali dall’espansione incontrollata. Poi di nuovo oscurità. E questo ordine veniva costantemente rimescolato. Pensai a Matsuo Bashō, poeta di haiku del XVII secolo, e al suo classico L’angusto sentiero del nord. Quanto sarebbe improbabile oggi un libro del genere, un’ode alla pazienza e alla capacità di osservazione, un libro che cercasse di catturare la natura del viaggio nel Giappone del XXI secolo così come Bashō aveva ricercato quella della sua epoca.

    Nella narrazione di Bashō, dettagli come una libellula rara posata su una roccia erano sufficienti per indurre il poeta a interrompere il suo cammino e comporre un poema. Si sofferma su dettagli come il fluire dei ruscelli e le sensazioni cangianti prodotte dalla caduta delle foglie. Al posto di entità poetiche tangibili come libellule, rocce e acqua, sullo Shinkansen nebulose terrestri senza fondo si dipanavano fuori dal finestrino: un’astrazione post-topografica. Messaggi registrati annunciavano l’arrivo a Shizuoka o a Yokohama, ma in pratica nulla consentiva di distinguere una città dall’altra. Per lunghi tratti del viaggio, basandomi su ciò che potevo osservare dal finestrino del treno, avrei potuto trovarmi in qualsiasi parte del mondo.

    Gli aspiranti Bashō di oggi devono venire a patti con una scomoda verità: viaggiare nel XXI secolo rende problematica la narrazione tradizionale del viaggio – se va bene si riesce a creare una specie di fantasy nostalgico, se va male si ottiene una menzogna. Ciò accade quando lo scrittore sceglie con attenzione tropi legati ai concetti pittoreschi e familiari di viaggio ed esotico, tralasciando passaggi e portali – hall degli aeroporti, incontri con agenti di viaggio, soste in paesaggi urbani più o meno uguali – in grado di fornirgli quei pochi incontri vendibili che ritiene validi per un libro. Al giorno d’oggi, i racconti di viaggio abbondano, forse proprio perché avvertiamo che viaggiare potrebbe presto diventare impossibile: tutto sarà qui, e qui non sarà alcun luogo in particolare.

    Nella mia prima notte trascorsa a viaggiare in treno per il Giappone avvertii la logica del viaggio dissolversi; stavo viaggiando senza meta, solo per essere in nessun luogo, in un non-luogo a-storico, de-territorializzato e perpetuo (paradossalmente, i non-luoghi tentano di apparire permanenti – autostrade, stazioni di transito e edifici commerciali, come supermercati e fastfood, si rinnovano in continuazione e non mostrano un’età – la loro tendenza a essere sovrailluminati ci nega perfino il confine tra notte e giorno, il passaggio delle ore non ha effetto su di loro e la loro predilezione per il cemento dà l’apparenza di solidità, pur venendo edificati, alterati e distrutti con una rapidità sconosciuta agli edifici tradizionali). Sant’Agostino paragonava il tempo a una freccia. Ma la distruzione di un luogo concreto rende impossibile un viaggio logico (ciò che Marc Augé definiva «le narrazioni interrotte dello spazio») e interrompe la percezione lineare del tempo. Paradossalmente, sfrecciando attraverso panorami ultramoderni su un treno ad alta velocità, non si può fare a meno di avvertire che la freccia è stata rimpiazzata da un mare oscuro e indistinto, dove le impronte storiche non sono state distrutte, ma risultano invece disordinate e latenti, in attesa di essere scoperte per caso, di spuntare all’improvviso – come una finta pagoda all’interno di una cerchia di palazzi a uso ufficio disposti in perfetto stile euclideo; i quali a loro volta lasciano posto a un vero santuario Heian shintoista dietro una ragnatela di linee elettriche e una distesa di case punteggiate di antenne.

    Quella notte feci la spola tre volte tra la capitale antica e quella moderna, trasportato tra due grandi città e parcheggiato sui binari in transito, senza avere mai la sensazione di aver davvero lasciato Kyoto e senza la minima idea del tempo trascorso viaggiando. Non sapevo nemmeno più cosa indicasse il nome Kyoto, pur avendo precedentemente attraversato la città in lungo e in largo tra una stazione di transito e l’altra in quello stesso giorno.

    Mi venne in mente un haiku di Bashō vecchio di trecento anni che da adolescente mi ero annotato su un taccuino e che avevo sempre conservato sulla mia libreria.

    Anche nella capitale

    ne ho nostalgia.

    Ecco il cuculo.[1]

    A un certo punto della notte pensai di orientarmi studiando la mappa posta sopra il deposito bagagli della carrozza. Come quasi ogni altra mappa ferroviaria odierna al mondo, si trattava di un disegno stilizzato basato sul classico schema della metropolitana di Londra, il primo ad aggirare la geografia al fine di placare la mente del viaggiatore con l’immagine mentale più basilare di un viaggio. La natura potrà anche odiare le linee rette, ma non certo l’uomo razionale.

    Le mappe topografiche tradizionali solleticano l’immaginazione semplicemente grazie al rapporto spaziale tra i nomi. Quando la vedo su una mappa, provo nostalgia della città di Kunming, nella Cina meridionale: la vicinanza del nome stampato ai confini tra Tibet e Vietnam mi ricorda l’incontro con varie nazionalità a distanza di mezz’ora, durante un viaggio attraverso il paese in un taxi noleggiato in compagnia di un documentarista di Hong Kong. La distanza da Pechino mi riporta a quell’aria di eterna primavera di Kunming, che diede nuovo slancio al mio amore per la Cina fiaccato da un semestre trascorso a studiare nella capitale.

    Ma un toponimo dislocato e disorientato difficilmente evocherà un significato.

    Le mappe ferroviarie moderne si presentano al viaggiatore come una rete di elementi, senza orientamento geografico e spesso senza alcuna gerarchia, tranne le dimensioni variabili dei cerchi. Il viaggiatore è portato a credere che i punti più grandi indichino luoghi importanti, come centri cittadini. Una rosa dei venti, o un altro segno di orientamento, risulterebbe inappropriato e inutile su tale mappa, così come una legenda, visto che le distanze sono solo suggerimenti relativi. Ecco perché tali indicazioni vengono spesso rimosse del tutto.

    Le mappe ferroviarie descrivono sistemi che richiedono un’immensa quantità di energia e perfino un certo grado di fortuna e pericolo (un treno potrebbe giungere o meno in uno qualsiasi dei punti sulla mappa: l’attentato nella metropolitana di Tokyo del 1995 è solo un esempio). Tuttavia, un viaggio descritto dalle linee stilizzate e dai punti di una mappa ferroviaria moderna produce una strana sensazione di pace nel lettore, in grado di farlo sentire allo stesso tempo al sicuro e totalmente smarrito. Il viaggio è accompagnato da un senso di ineluttabilità e da un’assoluzione dalle responsabilità, quando ogni possibile disturbo, anche le curve nel tracciato, viene rimosso dalla coscienza e il viaggiatore è perfino incoraggiato a ignorare le distanze da percorrere. Il piacere di tali mappe, di tale viaggio, è simile al piacere che proviamo quando osserviamo da un punto molto elevato i volti mutevoli di una città alla sera, la gioia dell’incomprensione, della distanza, dell’infinita possibilità e dell’impotenza…

    Girai le spalle alla mappa sopra alle porte e sprofondai nel sonno mentre il treno abbandonava le zone industriali e le bandiere nere che sventolavano in brandelli di luce superficiale nelle risaie, attraversando e cancellando i sentieri percorsi da monaci poeti come Bashō.

    DA KYOTO A UJI

    La mattina dopo attraversai l’antico quartiere di Gion a Kyoto per poi sedermi sui prati del tempio jinja, in cima alla Shoji. Quel giorno il caldo era soffocante e non mi sentivo bene. Ero seduto con in mano del tofu e un gelato al tè verde e guardavo dei bambini pescare pesci di plastica da uno stagno con una paletta di carta, cercando di prenderne il più possibile prima che si rompesse. Ma il mio vero obiettivo erano le geishe. Le giovani donne con il viso truccato e il kimono che notavo erano quasi tutte turiste giapponesi agghindate. Posavano per le fotografie come fanno tutti i giovani giapponesi, appoggiandosi alle spalle degli amici e facendo il segno della pace all’altezza delle guance.

    Tuttavia, mi accorsi della presenza di una ragazza, insolitamente alta per una giapponese, che camminava più elegantemente delle altre con i geta, e di un giovane al suo fianco che indossava abiti tradizionali dal taglio semplice. Portava una borsa con gli affetti personali della ragazza e riparava entrambi con un parasole. Nel tempio la folla si faceva più calma man mano che la donna si avvicinava e io pensai che doveva senz’altro trattarsi di una geisha, anche se era raro vederle di giorno, specialmente in una giornata così calda come quella nel Kansai. Le geishe, dicono i giapponesi, appartengono alla notte.

    Si avvicinò al punto in cui sedevo, così potei notare il suo trucco impeccabile. Lo stesso fondotinta coprente che avevo visto quella mattina su altre ragazze era lievemente imperlato di sudore. Ritenni la perfezione del trucco della donna dovuta ai ritocchi continui del suo assistente, tuttavia in seguito un signore che mi accolse nella sua casa di Hirakata mi spiegò che le geishe apprendono vari stratagemmi mentali per prevenire la sudorazione, proprio come gli induisti imparano a generare calore stando seduti sulla neve senza nulla indosso.

    Estraniarsi dal calore era un’arte che non padroneggiavo, arrivata l’ora di pranzo avevo davvero bisogno di una tregua. Presi il mio primo treno locale dalla stazione della metropolitana in cima alla Shoji-dori. Osservai la gente intenta a usare le biglietterie automatiche nella stazione di Chushojima e capii come acquistare pass da mille yen per l’intera Prefettura del Kansai sulla linea locale Keihan.

    La stazione collegava Gion a Uji, l’antica città alla periferia di Kyoto di cui avevo letto fino a tardi la notte prima nella traduzione di Edward Seidensticker de La storia di Genji di Murasaki Shikibu. Così iniziai a fare la spola tra Kyoto e la città in cui erano ambientati gli ultimi dieci capitoli del classico del periodo Heian (dal IX al XII secolo).

    Vi arrivai in treno, tornai indietro e vi tornai ancora prima di scendere, godendomi la carrozza semivuota con aria condizionata. Il viaggio fu molto più comodo rispetto al treno proiettile, spesso sovraffollato di giorno, tanto da dover restare in piedi. Quando mi sentii riposato, scesi dalla stazione e spuntai un paio di centinaia di yen dal mio pass ferroviario. Camminavo immerso in un tipico paesaggio urbano giapponese. Gli edifici in cemento si agglomeravano in ogni direzione tranne che a sud. La rampa di ingresso dello svincolo di Keiji rombava alle mie spalle. Osservando la città, pensai che Uji non doveva aver conservato molto della sua essenza durante il periodo Heian, di cui avevo letto sul treno. Ciononostante, mentre camminavo verso il fiume Uji che scorreva rapido, l’ambiente cominciò a cambiare.

    Raggiunsi la cima del ponte Uji. Costruito nel 646 d.C., è uno dei ponti più antichi del Giappone ed è stato distrutto per ben cinque volte da guerre, inondazioni e terremoti. Una targa all’inizio del ponte informa i visitatori che l’imperatore Ojin stabilì per primo un palazzo a Uji nel IV secolo e che da allora sono state combattute infinite battaglie sulle acque e sulle rive del fiume, tra cui quelle del 1180, del 1184 e del 1221.

    Sparsi per la città erano visibili monumenti in pietra commemorativi di scene tratte da La storia di Genji. Uno dei più singolari si trovava all’inizio del ponte Asagiri: una statua di Ukifune (il cui nome significa piccola imbarcazione che galleggia sull’acqua), l’eroina tragica degli ultimi capitoli dell’opera. Il monumento celebra

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1