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Anteprima del libro
Castelli maledetti - autori vari
INSONNIA
Castelli maledetti
di Autori vari
Prefazione e cura di Angelo Marenzana
Editing e produzione digitale: Daniele Picciuti
Immagine di copertina: Night scene with a fantasy castle behind a bridge over a dark river. 3D render by Unholy Vault Designs (stock.adobe.com)
ISBN: 978-88-85497-54-2
Nero Press Edizioni
http://neropress.it
© Associazione Culturale Nero Cafè
Edizione digitale dicembre 2020
Autori vari
Castelli Maledetti
Indice
Prefazione
Ombre di Polaroid
Il castello di Dracula
Giù nel pozzo
Disturbi alimentari
Il dolore della luce
L’asino spagnolo
Il bambino nell'armadio
Exilles
Ultimo scatto
Il rifugio
Il castello di Bocca di Po
Autori
Prefazione
di Angelo Marenzana
C’è un castello distante una trentina di chilometri da Alessandria, eretto tra l’XI e il XII nel paese di Belveglio, in terra astigiana, in quella che anticamente è stata battezzata come la Terra dei Malamorte. La costruzione sovrastava l’allora villaggio da una collina di tufo ma, a vederla dal basso, chiazzata dalle ombre del fogliame a ridosso delle sponde del fiume Tanaro, ancora oggi sembra pronta a svettare verso il cielo con la prepotente postura di un cavallo imbizzarrito.
Il castello venne abitato dal nobile Carlo Maria Matteo Farnese. Era il duca di Parma e Piacenza, conte di Ronciglione e nipote di papa Paolo III, fuggito da Piacenza dopo la congiura ordita da Ferrante Gonzaga con cui quest’ultimo aveva spodestato suo padre Pier Luigi Farnese trucidato dagli sgherri di Carlo V. Con la fuga da Piacenza e la conseguente consegna della città nelle mani delle truppe spagnole, Matteo Farnese si era arroccato nel castello di Belveglio, costruito ai confini con le sue terre, insieme alla moglie Zeusa Ellenica. A fargli da scorta, un discreto numero di uomini armati. Tra le varie cose, del duca Carlo Maria Matteo Farnese si vociferava anche di legami con il leggendario quanto misterioso mondo dei cavalieri dell’Ordine dei Templari.
Verso la metà del XVI secolo il castello venne posto sotto assedio dagli spagnoli, che però non trovarono vita facile nell’espugnare il maniero. Il palazzo nobiliare era chiuso all’interno della cinta di mura possenti, in più le feritoie a croce per i balestrieri, il muro di cortina con i bastioni e le saracinesche erano state capaci di rendere inespugnabile quel luogo tanto da costringere gli spagnoli a un assedio che durò tre anni. La resistenza da parte degli assediati deve merito anche alla ricca rete di pozzi in grado di garantire l’acqua oltre ai mille camminamenti segreti che consentivano continui rifornimenti di viveri freschi. Ma, alla fine, il duca Matteo Farnese dovette cedere e il 15 marzo 1551 il castello capitolò. E, a questo proposito, le cronache del tempo narravano anche altro. Ovvero, del trasferimento di un tesoro di sette tonnellate d’oro in un luogo segreto ricavato nelle gallerie scavate sotto l’edificio. Ma con il passare del tempo e nonostante il gran numero di ricerche – continuate peraltro fino agli inizi dei nostri anni sessanta con l’ausilio anche di studiosi, medium e rabdomanti tanto da far invidia agli archeologi holliwoodiani da Nicholas Cage con i suoi tesori dei Templari fino alle spedizioni di Indiana Jones e similari di cui il cinema ci ha riportato testimonianze da ogni parte del mondo – nessuno riuscì ad accedere ai preziosi, soprattutto a causa della mancanza di una mappa dettagliata capace di fare luce sulla ragnatela sotterranea del castello fatta di gallerie e locali. In più, all’epoca, i soldati che avevano provveduto all’intera operazione erano i soli a conoscenza del nascondiglio ma, per fedeltà nei confronti del duca Carlo Maria Matteo Farnese, si erano suicidati dopo aver fatto crollare le gallerie d’accesso, così come aveva ordinato il nobile prima di ingerire una dose di veleno insieme alla consorte.
Il soprannome Malamorte deriva probabilmente dai violenti scontri e dalle sanguinose battaglie del passato, magari rafforzato dal fatto che il castello, per un certo periodo, fu trasformato in carcere e luogo di esecuzione di condanne a morte. Ma, come ci racconta Danilo Arona in un interessante articolo uscito su carmillaonline.com qualche anno fa (22 novembre 2017 n.d.a.), è proprio al sedicesimo secolo che risalgono un paio di eventi che regalarono al maniero questo titolo.
Un arciere della guarnigione, bel pivello ma piuttosto spiantato, s’innamorò perdutamente di Eleonora, figlia del ricco e potente proprietario e riuscì, complice il suo indubitabile fascino, a farsi ricambiare appieno dalla giovane nobildonna. Comprendendo ambedue che mai avrebbero potuto coronare la loro storia alla luce del sole, decisero allora di fuggire dal castello e architettarono un piano con l’aiuto di altri commilitoni del ragazzo. I due, in una notte senza luna, si calarono con una fune dalle mura della fortezza. Ma il solito, sordido delatore aveva preavvertito il padre della ragazza che si fece trovare ai piedi del castello, circondato da una schiera di armigeri. Così Eleonora fu allontanata ed esiliata in un’altra regione, mentre i complici della fuga subito impiccati ed esposti ai torrioni. In quanto al focoso arciere, la sua sorte fu orribile perché scaraventato in un profondo sotterraneo e lasciato senz’acqua e cibo sino alla morte. Un altro, significativo episodio in grado di segnare
l’aura del castello di Belveglio fa riferimento alla brutalità di un militare spagnolo, Alonzo Arana che, per un certo periodo, comandò una guarnigione di soldati di ventura, quelli che il Manzoni definiva bravi
e che di solito erano tutt’altro che bravi. Un giorno Alonzo scorse una bella ragazza dei dintorni, sposa recente, e decise di puntimbianco di farla sua. Così, senza tanti complimenti, come si usava allora attraverso l’usanza dello ius primae noctis, fece rapire la bella dai suoi bravi e la fece depositare direttamente in camera da letto, opportunamente impacchettata come un salame. Quando il legittimo marito si presentò alla porta del castello per protestare la restituzione del maltolto, Alonzo intimò ai suoi sgherri di catturarlo e, davanti a lui, si esibì in tutte le prodezze amorose che riuscì a concepire sulla poveretta che giaceva incatenata al letto. Quindi impiccò il poveraccio a una trave. Dopo l’infame violenza, la ragazza venne gettata fuori del castello, ma, ormai del tutto priva di senno, iniziò a vagare inebetita per le campagne sotto l’occhio pietoso dei suoi compaesani. Ciononostante giunse il giorno del redde rationem
. Un pomeriggio, infatti, la povera vittima incontrò casualmente in un bosco il feroce Alonzo e, unicamente sostenuta dalla forza della disperazione, lo aggredì per strangolarlo. Lo spagnolo sguainò un lungo pugnale per difendersi dalla furia della creatura cui aveva carpito la virtù e la ragione. Ma, nella colluttazione susseguente, sia la vittima sia l’aguzzino perirono nello stesso istante. Qualche anno dopo, in seguito a una parziale distruzione, il castello fu utilizzato soltanto come prigione e altri terribili episodi andarono ad arricchire il già notevole repertorio di orrori concreti e presunti quando non soprannaturali.
Al tempo correva voce che i popolani evitassero con cura di passare sotto il colle di Belveglio per timore di udire lamenti, vedere fiamme o di incontrare i fantasmi di tutti coloro che erano stati torturati nelle segrete, oppure impiccati con i loro corpi lasciati a imputridire sugli spalti e sulle vie d’accesso alla fortificazione. Con il ritiro delle truppe spagnole si erano placate le lotte feroci per il controllo del territorio ma il ricordo del sangue versato e le tante leggende sulle sorti dello stesso castello turbavano gli animi dei più. Inoltre restava in piedi il mistero dell’inestimabile tesoro nascosto nei sotterranei infestati dalle anime dannate di chi aveva subito il tormento della carne e una morte lenta e terribile.
Senza voler scomodare Il Castello di Otranto di Horace Walpole (pubblicato nel 1794 e capofila del genere gotico) o le tetre atmosfere del castello di Bran (sul confine tra la Transilvania e la Valacchia) reso alla cultura popolare da Bram Stoker con il suo Dracula nel 1897, trovo che quella di Belveglio sia una storia rappresentativa di mille altre, senza nulla da invidiare alle vicende dei Cavalieri della Tavola Rotonda, agli sconfinamenti predatori dei Vichinghi in terra inglese, o agli assalti di Giovanna d’Arco alle mura fortificate di Parigi dopo assedi snervanti.
Quello di Belveglio si lega perfettamente al ricco patrimonio di castelli costruiti sul nostro territorio anche in zone impervie o inaccessibili. E traccia in sè i mille ingredienti che fanno di ogni maniero un perfetto collage di storia vera e leggenda, immagine emblematica di misteri più o meno occulti che avvolgono la maggior parte di loro. Che dire in proposito? Come esempio fra i tanti, posso citare quello del castello di Roccascalegna in Abruzzo e dell’indelebile impronta di sangue della mano del barone ucciso da un marito ribellatosi allo jus primae noctis, traccia che riappare ogni volta sui muri nonostante i vari interventi di restauro succedutisi negli anni.
La stessa parola castello potrebbe essere utilizzata come sinonimo di guerra, invasione, crudeltà, torture, catene, intrighi di palazzo, vendetta, gelosie, damigelle e cavalieri, arroganza di signorotti e nobili nei confronti dei più umili. E contenitore di vampiri, fantasmi, visioni di creature come aliti di vento che filtrano tra mura che hanno segnato i destini di tutta Europa.
Sono stati abili gli autori che compongono l’antologia a toccare questi argomenti utilizzando punti di vista molto diversi tra loro e relativi sbalzi temporali. E senza andarci troppo cauti nel raccontare le loro storie sempre mantenendosi in punta di penna. Ingordigia, paura e scaramanzia in un’epoca ormai lontana hanno trasformano gli uomini in belve assetate di sangue e del sangue versato si sono nutrite anime dannate che si agitano inquiete tormentate dalla propria sete di vendetta. Spettri capaci di insediarsi per l’eternità nei loro luoghi di appartenenza, in equilibrio sul confine tra vero e fantastico, oltre quel muro che separa la vita apparentemente immobile di un castello dall’universo storico che gli ruota attorno senza sosta. Una pletora di spiriti che non chiedono altro se non di essere raccontati insieme ai fatti che sconvolsero la loro esistenza terrena, spiriti che animano queste pagine ma che, forti della loro discrezione, non osano disturbare chi oggi nei castelli assiste a concerti di musica classica o lì si sposa, magari con la recondita speranza che qualche evento sovrannaturale possa animare la cerimonia fino a rendere indimenticabile il giorno del matrimonio più che la promessa del reciproco amore eterno.
Ombre di Polaroid
di Maico Morellini
9 agosto 2013
La luce sanguigna della camera oscura esitò, distratta dal ronzio del filamento al tungsteno. Un calo di tensione? O forse gli atomi del metallo incandescente stavano per consumarsi fino alla rottura?
Matteo Raici sbottò, lanciò da sopra la spalla un’occhiata di rimprovero alla lampadina, aggiustò il respiratore e poi continuò a rimestare reagenti.
Aveva luci di ricambio, il garage ne era pieno, ma detestava essere interrotto. Detestava che qualcosa gli facesse perdere tempo mentre sviluppava le sue fotografie. Non era un procedimento complesso, non più almeno, non dopo che aveva dilapidato – o meglio investito – metà dei risparmi per quegli antichi testi alchemici. Il primo si era rivelato una vera e propria fregatura ed era quello che aveva pagato di più considerando anche la trasferta in Polonia e l’accesso a quella ridicola asta.
Ma il secondo, il De Invisibilia Lucem, era tutt’altra faccenda. Un testo pescato tra gli scaffali polverosi di un vecchio libraio di Friburgo, un testo malconcio quasi quanto chi glielo aveva venduto. Pagine consumate, appunti e disegni di autori differenti, alcuni dei quali anonimi, più un groviglio di corrispondenze sparse senza nessun ordine apparente. Gli era bastato però incrociare qualche schizzo e le firme nascoste tra le ombre di carboncino per capire che non si trattava di un falso.
Il barone Urbiger, Lambsprink, Basilius Valentinus. E altri studiosi che con l’alchimia avevano avuto a che fare in modo più marginale. L’autore di quel volume, invece, restava anonimo. Probabilmente un collezionista, forse un esoterista alle prime armi, di certo qualcuno piuttosto facoltoso impegnato in quella che avrebbe potuto diventare una biblioteca personale.
Poco importava. L’importante era che il vecchio di Friburgo non si era reso conto del valore del De Invisibilia. Non si era accorto che tra le centinaia di pagine in apparenza scollegate tra loro c’era la via per accedere a un mondo altro.
Matteo invece l’aveva capito eccome.
«Ecco, così dovrebbe bastare» mormorò mentre aggiungeva un soluzione di rame, fosforo e solfuro di carbonio, la voce ovattata dal respiratore. Nonostante la maschera gli proteggesse i polmoni dalle esalazioni di quegli intrugli, l’odore di uovo marcio riuscì comunque a farsi largo attraverso i filtri.
Tossì e represse un conato di vomito, condensa e saliva rimbalzarono sul respiratore. La prima volta che aveva utilizzato le formule trovate sul De Invisibilia era stato troppo spericolato e adesso, a distanza di quasi due anni, continuava a pagare il prezzo di quella distrazione.
Allungò una mano coperta da un guanto nero e spesso verso le bacinelle di plastica, le agitò con un abile movimento del polso e fece partire il cronometro. Ci aveva messo più di un anno a trovare la giusta sequenza di tempi e immersioni per arrivare al risultato perché, se da un lato il De Invisibilia era molto preciso nella trattazione di ingredienti e quantità, dall’altro chi ne aveva scritto alcuni passaggi di certo non conosceva le pellicole fotografiche.
Perciò aveva sperimentato seguendo l’intuizione. Il filo conduttore del tomo, per quanto frammentato dalla variabilità degli autori, era la capacità di vedere oltre la luce, di poter sbirciare contorni e dettagli di un mondo invisibile impossibile da penetrare a occhio nudo. E allora che senso avevano tutte le ricette alchemiche riportate sul De Invisibilia? Come poteva un essere umano utilizzare soluzioni talmente nocive da non poterne nemeno respirare i vapori?
«La fotografia!» esultò a denti stretti mentre la carta fotografica a mollo nella bacinella cominciava a tingersi di macchie scure. Era stata una sua idea. L’ennesima dimostrazione che l’alchimia non era una scienza morta: bastava saperla applicare.
E così aveva fatto. Con pazienza.
«E testardaggine» aggiunse a voce alta seguendo il flusso dei propri pensieri.
Se il De Invisibilia spiegava l’esistenza del mondo altro teorizzato da diversi studiosi e ne definiva i possibili accessi con formule bizzarre, non era molto ultile all’atto pratico.
«Una bella storia, ma senza finale» commentò Matteo sbirciando il profilo della collina che andava formandosi tra le stampe immerse nella soluzione alchemica.
Lui aveva scritto il finale all’altezza delle aspettative e la luce era stata la chiave. La luce catturata da uno strumento che agli occhi del barone Urbiger sarebbe di certo apparso prodigioso: una macchina fotografica. La pellicola fissava il mondo attraverso reazioni chimiche convenzionali, poi interveniva il De Invisibilia da lui intepretato: e l’altro si lasciava intuire.
«O almeno è quello che spero» aggiunse Matteo faticando a trattenere l’emozione.
Era stato a Balestrino la settimana precedente. Un comune fantasma in provincia di Savona che si sollevava dalla valle del torrente Barescione culminando con un castello in discrete condizioni. Un comune abbandonato dai suoi abitanti negli anni sessanta dopo che una raffica di scosse sismiche lo aveva di fatto reso inabitabile. Uno spettro di mattoni, speranze infrante, calcinacci, case abbandonate, crepe, vegetazione selvaggia. E leggende. Leggende rafforzate dall’assenza dell’uomo. Leggende che avevano spinto Matteo a una lunga gita fuori porta per un bel servizio fotografico, pronto a mettere in pratica i rudimenti appresi dal De Invisibilia Lumen.
Smise di agitare le bacinelle. Mancavano pochi secondi e quelli erano i momenti cruciali dell’intera procedura. Quando il cronometro lampeggiò di verde indicando il fine corsa sfilò con delicatezza le stampe e le appese, il dorso rivolto verso la luce rossa, la parte in via di sviluppo verso il buio. Anche quello faceva parte del procedimento. Poi sfilò i guanti e fece un passo indietro.
«Adesso devo solo aspettare» commentò con una punta di malinconia. E, per non cadere in tentazione – sarebbe stato stupido rovinare tutto proprio ora – uscì dalla camera oscura e si diresse verso il piccolo studio che aveva arrangiato nella casa di famiglia.
A trentotto anni Matteo Raici era ben diverso dai suoi coetanei. Nessun amico, nessun parente. Una vita trasparente condotta negli agi di una buona eredità che gli permetteva di coltivare i suoi interessi non convenzionali
. Non si reputava un alchimista e non era nemmeno sicuro esistessero ancora gli adepti del fuoco nero, ma di certo era uno studioso dell’occulto. Anzi no. Uno storico dell’occulto.
Non gli interessava tramutare piombo in oro. Non aveva l’ambizione di controllare demoni o di evocare altre creature. Solo si sentiva incompleto ed era certo che parte di questa assenza potesse essere riempita dalla consapevolezza che intorno, tutto intorno, c’era altro.
Perciò, quando sfilò la carpetta di pelle dalla libreria, quando ne sciolse i nodi e l’aprì scegliendo una delle stampe antiche che conteneva, non riuscì a trattenere un brivido d'eccitazione. La guardò e si stupì come la prima volta che l’aveva vista.
Era Balestrino, anche se una versione antica del comune aggrappato alla ruvida collina. Un disegno – più uno schizzo elaborato a dire il vero – molto antico fatto da qualcuno che a Balestrino ci aveva vissuto chissà quanti secoli prima. Si riconosceva il profilo della collina e c’erano ombre che sembravano ricalcare il borgo antico, castello compreso. Ma quelle ombre erano strane: si allungavano definendo dettagli incredibili nel cielo sopra il comune e poi si ritorcevano su loro stesse finendo col formare crepe, piccole voragini, fratture. Come se l’intero paese fosse stato squassato da scosse che però provenivano dal cuore stesso del villaggio. Che originavano soprattutto dalla sagoma imponente del castello.
Una previsione? Una divinazione? Forse. Lui sospettava ci fosse molto di più, sospettava – sperava? – che quel disegno fosse in qualche modo collegato al suo esperimento.
Lasciò la stampa sul tavolo, tornò nella camera oscura, raccolse le foto appese e le portò nello studio.
A Matteo tremavano le mani. Quel momento, come pochi altri nella sua vita, rappresentava un crocevia. Si sedette, allungò il disegno verso il centro del