L’origine di arlecchino e altri saggi
Di Alambicco
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L’origine di arlecchino e altri saggi - Alambicco
2020
Introduzione. L’enorme eredità di Arlecchino
Fra tutte le maschere della Commedia dell’Arte e in generale del Teatro, quella di Arlecchino è senza dubbio, oltre che la più affascinante e misteriosa, anche la più carica di storia.
In Arlecchino si conservano millenni di rituali e di credenze: antico figlio di dèi e folletti, re della caccia selvaggia e infernale, capo dell’esercito dei morti, si trasforma in Artù, in un conte di Boulogne, in figlio non ben riuscito di Bertoldo.
La trasversalità di Arlecchino è testimoniata fin dall’etimologia del suo nome: c’è chi lo fa derivare da una lingua pre-celtica, forse dal ligure, e c’è chi lo associa alle lingue scandinave; c’è chi lo fa derivare dal germanico, dall’anglo o dal sassone, e chi lo mette in relazione al provenzale o al francese; c’è chi scopre nel suo nome una radice dell’indoeuropeo, e c’è chi lo assimila al frisone o al gaelico.
E potrei proseguire.
Il suo berretto si ritrova in miti e leggende lontanissime, e così anche i suoi vestiti multicolori; vestigi del suo bernoccolo si ritrovano in tutti i miti indoeuropei, e la sua mazza o bastone si ritrovano fra i celtici, fra gli scandinavi e in altre tradizioni.
Studiando Arlecchino, si entra nel mondo dei defunti e degli spettri, si scorrazza fra le saghe nordiche e germaniche, si conosce Odinn, Thor e Cuchulainn, si intravede il Varuna indiano e il romano Mercurio; i riti agrari antichissimi ci restituiscono i suoi sonagli, e i miti ce lo presentano come fantino infernale al galoppo su cavalli scheletrici, capre, cervi ed esseri giganteschi e maligni di innumerevoli zampe. Ma Arlecchino è anche patrimonio italico, le cui tracce sono riscontrabili nell’antico teatro della Magna Grecia e di Roma, nei riti latini, nel Medio Evo di mimi e giullari, nei riti e nelle tradizioni a volte tuttora esistenti, in Dante.
Per ritrovare l’Arlecchino bergamasco protagonista delle scene dell’Arte in Italia, in Francia e in tutta Europa, dobbiamo prima perlustrare il suo sottosuolo mitico e rituale, religioso e spettacolare.
Solo dopo questo viaggio lo potremo ritrovare nelle vesti a noi più conosciute; un itinerario che ci porterà in Grecia, a Roma e nell’Italia del Sud, in Scandinavia, Germania, Francia e nel mondo celtico, fino ad arrivare al Nostro Sommo Poeta, punto cruciale che restituisce Arlecchino alle sue radici e lo proietta nel suo futuro di maschera dell’Arte.
Non è possibile studiare Arlecchino solo attraverso l’etimologia del suo nome, o solo attraverso l’antropologia, o la storia.
Arlecchino deve essere studiato da tutti questi punti di vista insieme. Ed è per questo che ho preferito vagare al contempo nella mitologia, nelle tradizioni popolari e religiose, nell’etimologia stessa, nel teatro antico e medievale, nelle fonti letterarie.
Il cammino è forse tortuoso, ma obbligato.
I. Dal rito (e dal mito) al teatro
I riti, come si sa, sono atti necessari
per una società.
Fisso e fedele nel tempo, il ritus è caratterizzato dalla ripetitività, e in esso la società non cerca né il piacere né, molte volte, l’utilità.
Fin da remotissimi tempi, quando davanti all’uomo si presentava un fatto misterioso
, sconosciuto e inspiegabile che minacciasse l’ordine del gruppo intero e le sue regole, ciò che si produceva negli uomini era angoscia.
Nel mysterium prodotto da certi eventi si sviluppano nell’uomo due sentimenti opposti: l’attrazione e la repulsione.
Il mysterium è quindi sia tremendum che fascinans, sia perturbante che attraente in quanto ignoto, inquietante perché sfugge alla regola e affascinante per lo stesso motivo.
Quindi, se cerchiamo il motivo della necessità del rito nelle società, si può dire che l’uomo, nell’angosciosa sensazione di scoprirsi egli stesso un mistero, fu vittima delle due opposte tentazioni di voler, da una parte, rendere immutabile la propria condizione attraverso norme e regole fisse, e dall’altra di voler superare ogni limite e violare le sue stesse regole: di volere, in certo modo, essere più potente di se stesso¹.
Quando si trova di fronte all’insolito, l’uomo non giunge a credere: piuttosto teme, ha paura.
Da sempre, quando si producono disgrazie, tragedie o calamità varie, egli le attribuisce istintivamente a qualche evento insolito o alla violazione di un rito, di una regola².
Nel rito, l’individuo utilizza un simbolo di ciò che, essere o cosa, rappresenta il mysterium.
A quel punto, attuando sul simbolo di un essere o di una cosa, attua su esso stesso³.
Attraverso il simbolo, egli riceve la potenza soprannaturale, attua una metamorfosi, trascende al mondo extra-umano, influisce su esso.
Fra i simboli, oltre ai totem e ai feticci, antichissimo è l’uso della maschera.
La maschera, come molto bene l’ha definita Giovanni Calendoli,
è, fin dalle più remote apparizioni, la raffigurazione di un volto divino, umano o animalesco, eroico, terrificante o comico, che un individuo può imporre al proprio volto, cancellandolo ed assumendone i caratteri. Questa operazione di trasformazione esteriore, ma anche interiore, ha un contenuto magico e perciò si colloca originariamente nell’ambito religioso (...). La maschera, considerata come oggetto in sé, appare dotata di una valenza magica e religiosa, perché è lo strumento che rende possibile la metamorfosi di un individuo, facendolo diverso da sé e conferendogli altri poteri. La maschera racchiude la forza necessaria a produrre la metamorfosi: è, sì, un oggetto, ma un oggetto carico di un’energia segreta ed oscura⁴.
Attraverso la maschera, l’uomo cerca di richiamare, tramite la somiglianza, lo spirito a cui il rito si riferisce.
Fra gli eventi più carichi di mysterium, la morte ha rivestito sempre, per le persone, un posto speciale.
La morte è il fatto più angosciante, in quanto costituisce la più grande