Un albergo a mille stelle
Di Ivo Stelluti
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Anteprima del libro
Un albergo a mille stelle - Ivo Stelluti
Note
Ivo Stelluti
Un albergo
a mille stelle
Un albergo a mille stelle
Ivo Stelluti
immagine 1© 2020 Aporema Edizioni
Società cooperativa
www.aporema.com
Al piccolo Angelo,
per ognuno dei tuoi passi
PROVARE A VIVERE
Autostrada A8, direzione Milano. Un pallido lunedì mattina del 2020, ore 7:30. Procedo apatico e sonnacchioso a trenta all'ora, incatenato nel solito ingorgo. A un tratto, dall'autoradio, come per magia, escono le parole: «Oggi, svegliandomi, ho realizzato che tutto il resto è stupido: voglio provare a vivere[1].» Senza pensarci più del dovuto, metto la freccia alla prima uscita, percorro la rampa dello svincolo, imbocco la direzione opposta e dopo venti minuti scarsi sono di nuovo a casa. Ma ora come faccio?
Semplice. Basta un SMS a un collega: «Stamattina non sto per niente bene: dolori lancinanti alle ossa, spossatezza generale e un blocco di granito nella testa. Mi sa che oggi, per la riunione, non sarò in ufficio.»
Spengo il cellulare, infilo qualche vestito comodo, afferro la moleskine, inforco la bici.
C’è un parco in fondo al viale, dove giocavamo da bambini con gli Scout. Dista un paio di chilometri da casa, ma per noi era la Giungla di Kipling. Saranno vent’anni che non ci metto piede.
«La connessione fra cielo e terra è affidata agli alberi», ripeto mentalmente, mentre pedalo in affanno.
Chissà se c’è ancora quella grande betulla nella radura. Sì, eccola, la riconosco! Mi siedo ai suoi piedi, nel prato ancora fresco di rugiada e incomincio finalmente a scrivere il mio nuovo libro.
LA BOÎTE À MERVEILLES2
Si dice che l’uomo trovi sollievo dall’angoscia solo in una di queste tre cose: osservare ciò che non ha mai visto, udire ciò che non ha mai ascoltato, ovvero posare il piede su di un paese mai calpestato
.
da Le Mille e una Notte
, Persia, X sec.
Perché andare? Le parole migliori non si scrivono al ritorno, ma il giorno prima della partenza
continua a suggerirmi la mia vocina interiore, ma io non le credo: voglio l’avventura, voglio salpare davvero, devo capire innanzitutto cosa c’è al di là del Nostro Mare.
Per questo ho intrapreso un viaggio un po’ surreale: sono andato in Marocco con i mezzi pubblici.
Comunque prima o poi ci si arriva.
Attraversando gli angusti vicoli della Medina, la città vecchia, camminando per interminabili minuti cadenzati da passi logori, attraverso un reticolo che non è stato mappato da Google Maps, dove ai bivi assurdi uomini semaforo
forniscono in continuo indicazioni incomprensibili agli smarriti come me.
Una viabilità del tutto impenetrabile per noi occidentali, come la loro cultura millenaria, così lenta e così rapida, così distante dal nostro razionale stilema di habitat artificiale e multimediale.
Un’infinità di bimbi scalzi che giocano con il vento si avvicinano al mio passaggio e mi sommergono di mille informazioni non richieste, sorridono e vogliono i miei occhiali, il mio cappello, il mio orologio, la mia spremuta d’arancia.
Procedo per questi vicoli ingannevoli, attorniato da richiami sussurranti che ripetono infiniti quello che è già il centro del mio pensiero in questo momento: la Gran Place, the Big Square, la Plaza Mayor, der Groβ Platz.
Mi sento addosso un intreccio di voci serpeggianti, che scivolano lisce lungo i muri scalcinati. Ora i bisbigli si fanno più insistenti, le parole si confermano in un fraseggio a ritmo di musica rap. Dietro un’altra bottega di dolci speziati finalmente appare una delle ultime meraviglie che il Mondo Antico ci ha lasciato. Mi trovo in un luogo che corrisponde più di ogni altro alla definizione stessa di piazza
. Quello che ogni architetto urbanista avrebbe voluto progettare, ma solo in questa città può avere un senso compiuto. Indomabile, brulicante, multiforme, il punto d’incontro delle voci, degli umori e del sentire di un intero Paese. Jama‘a el-Fnaa, il Cuore Vibrante di Marrakech.
E sì che le ho percorse proprio tutte: Place de la Concorde a Parigi, Trafalgar Square a Londra, Piazza del Campo a Siena, Piazza di Spagna a Roma, Praça do Comércio a Lisbona, Times Square a New York City. E ancora Piazza San Marco, Piazza Grande, Piazza Maggiore, Plaza Mayor, Plaza Real; ma nemmeno la pulsante e camaleontica Potsdamer Platz di Berlino riesce a raggiungere il capolavoro che ho davanti.
Passeggiare in uno spazio immenso ed eterno è quello che significa abbracciare la realtà palpitante, che si muove, comunica, confabula, baratta, ride, suona, soffre, sopravvive, fa festa. Tangibile come un sogno, già vera come un ricordo. Mi perdo nei discorsi melodici dei cantastorie, che sembrano provenire dai luoghi immaginari delle fiabe. Le loro parole paiono restare sospese nell’aria più a lungo di quelle degli altri uomini. Anche qui, come in ogni parte migliore del mondo, la musica è il grande ponte comunicativo: rompe le barriere, aggrega le diversità, scioglie i pregiudizi e compone nuovi linguaggi inesplorati.
Gli appartenenti a questo popolo si fanno chiamare Amazigh, uomini liberi. Per noi la parola spesso è un limite, per loro un’arte. Qui le frasi si fanno rincorrere, non riesco ad afferrarle, sbatto contro policromie contrastanti, dense di sfumature, di stoffe cangianti e profumi inebrianti. Non ho più dubbi: Marrakech è il mio luogo del qui e ora, il mio stato d’animo attuale.
Il negozio di tecnologia è un cumulo di macchine fotografiche e telefonini rotti ammucchiati su di un tappeto, venduti o scambiati da un turbante bianco-avorio dalla mano molto veloce. La lavanderia è un ammasso di panni, taniche d’acqua, ceste, saponi, colori, e di notte diventa una discoteca, perché il giovane proprietario estrae orgoglioso un radiolone gracchiante anni ’80 che spara a tutto volume musica algerina ben ritmata. Il dentista è un vecchietto sdentato, che aggiusta protesi appoggiate su un tavolino da pic-nic in mezzo alla strada. Il tassista è un guercio che non parla e gesticola, mollando la presa del volante mentre guida contromano. Il fruttivendolo ha le mani più sporche di un minatore, ma un sorriso che vale ben più delle sue migliori arance. Il vasaio dalle unghie corrose mi spiega che viene dalle montagne dell’Atlante e là non c’è lavoro, qua in città invece, come posso vedere, sì che si sta bene!
«Guarda, ho anche la televisione!»
E mi mostra una scultura di assi di legno e ferro con sei bottoni tutti diversi. Stava seguendo una partita di calcio, in diretta sulla RAI.
Le donne confabulano tra loro, portando le ceste di legno della spesa, mentre i carretti con gli asini si fanno largo tra la folla e mille ragazzetti dall’occhio lungo ti vengono incontro ovunque ti giri.
Non c’è niente che funzioni veramente.
L’acqua corrente, come la benzina, è piuttosto rara e il sapone è una poltiglia giallastra d’ulivo che si vende in sacchetti. Le auto hanno le portiere tutte rattoppate con pezzi di tinte differenti; i pullman che collegano le città sono saltuari: alcuni passanti mi fanno capire che quello di ieri è ancora fermo nel deserto a duecento chilometri da qui.
Entro esterrefatto in un internet-point, strapieno di ragazzi, che però si lamentano perché spesso ci sono cali di tensione e saltano i collegamenti. Sono state segnalate connessioni web provenienti da villaggi in cui non arriva l’elettricità. L’unica spiegazione possibile è che in quei luoghi i computer funzionino con i generatori a gasolio.
Anche questo è Morocco-Style
.
Non sappiamo quasi nulla della loro civiltà, dei loro modi di vivere, così antichi eppure così incredibilmente attuali, e nemmeno il Viaggiator Curioso
, che si è persino documentato, riesce a districarsi in una confusione così straordinariamente strutturata.
Sembra naturale per questa gente decidere quale strada seguire e quale abbandonare, ma io continuo a smarrirmi ogni cinque minuti.
Nel mercato delle spezie si vendono, da più di tremila anni, erbe miracolose, superstizioni, consigli, magie, serenità, caldi raggi di segreti inaccessibili, denti di ricambio, stampelle e marijuana di ottima qualità. Forse loro sono già arrivati alla Verità. Qualche secolo prima di noi.
È esistita da sempre e sopravvive tutt’ora, una sapienza parallela a quella occidentale, distante, certo, ma non per questo antitetica o tanto meno inesatta. D’altra parte il bambino che non è mai uscito dalla propria casa crede che soltanto sua madre sa far bene il sugo
. Colui che non ha mai viaggiato, considera la propria realtà come l'unica esistente e pensa che quella debba essere il solo punto di riferimento, anche per la vita degli altri.
Ma non è così.
Persino Dio ha forse voluto esprimersi in modi differenti, solo per avvicinarsi alla civiltà propria di ogni popolo?
Al tramonto la città diventa rosso-melograno, per poi virare verso un viola, che mano a mano diventa sempre più scuro, fino a ridipingersi della luce dei fuochi per la notte. Le sfumature di questa terra sono penetranti, assolute, lancinanti: gradazioni così travolgenti, da lasciare qualsiasi pittore sconcertato e abbagliato.
Dopo aver cenato su una splendida terrazza, accompagnato dai suoni percussivi del Darbuka e dei Bendir[3], continuo a girovagare per le strade di questa scatola delle meraviglie. In ogni angolo si formano capannelli di uomini, intenti a osservare ogni genere di stravaganza offerta dai viandanti: improbabili rimedi naturali contro le malattie, giochi di prestigio, musica, racconti di favole, esibizioni di fachiri, scimmie acrobate, serpenti, camaleonti...
Mi avvicino a tutte le bancarelle, incuriosito e dubbioso, poiché ho una visione che tende al razionale e al cartesiano, più che al mistico e all’esoterico.
Dopo interminabili minuti di osservazione e meditazione eccelsa, giungo infine a questa conclusione: non è possibile. I rettili non sanno saltare.
Sì, è proprio un asino quella creatura che vedo arrivare ciondolante, stracolma di oggetti legati alla bell’e meglio sulla schiena. Porta in groppa un vecchio affaticato, una donna col velo e un bambino, che in silenzio guarda il mondo con occhi curiosi ma già saggi. Come un film sul Vangelo, qui il tempo si è interrotto in un’istantanea scolorita e un po’ romantica d’inizio secolo, mentre il nostro mondo a colori saturi continua inesorabile a produrre beni di largo consumo e rifiuti tossico-nocivi.
Nel Riad dove alloggio, scopro con un po' di stupore che i bagni non hanno nemmeno le porte.
È un luogo di continue sorprese ed è così che lo avevo immaginato. Tutto è avvolto da un segreto per me ancora inespugnabile, come le mura della Medina "ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo[4]". Solo ora riesco a lasciarmi trasportare, senza dovermi preoccupare che il tempo possa scadere.
Non voglio tornare a casa. Non posso.
Sono afflitto da nomadismo postmoderno. Sul taxi sgarrupato che spero prima o poi mi porti in stazione, cerco di fotografarmi le lacrime sulla guancia. Migliaia di pixel digitali messi in fila mi dovrebbero aiutare a trasformare l’esperienza reale in ricordo. Ma le immagini migliori non sono riuscito a catturarle, le conservo soltanto nella mia anima. Tutto questo non può essere che l’inizio di un nuovo viaggio, almeno metafisico: vagabondare, evitando qualsiasi chiusura mentale, intellettuale e formale.
Amare le differenze.
Quanta terra ancora mi rimane da calpestare, quanti posti da sfogliare, città da spogliare, pensieri da imparare... E oggi compio trent’anni.
Mi sono perso un’altra volta.
Il bambino vicino a me chiede in mille lingue con tono canzonatorio: «Cherchez vous la sortie? La-sor-tie, l’ussitta, exit? Est sur la gauche... linke, left![5]»
Alla fine cedo al suo invito e mi faccio accompagnare attraverso il magico labirinto, verso l’introvabile sbocco del Souk. In cambio della libertà acquisita gli ho dovuto regalare la mia BIC, ma non la userà: non sa ancora scrivere.
E io ora non posso più continuare il mio racconto.
Quanta bellezza è rimasta nel Mondo!
Come suggerisce una poesia berbera l’armonia è come l’acqua di rose: dove si trova, spande il suo profumo.
Cafè des Epìces, 75, Rahba Lakdima,
Medina di Marrakech, sabato 10 giugno 2006
RUPÌE
Nuova Delhi, sotto un ponte enorme, lungo una strada soffocante di polvere e traffico: non proprio il posto ideale per un albergo, ma era l’unico ad avere una camera libera per la nostra ultima notte indiana.
Lasciati i bagagli in stanza, la mia compagna di viaggi e io ci precipitiamo alla ricerca di cibo: dopo dodici giorni di saporite specialità locali, una pizza non ci starebbe male.
La nostra attenzione viene però attratta da alcuni risciò, parcheggiati sotto l’arcata sinistra del ponte e scontornati dalla luce fioca e giallognola dei lampioni.
Già da vari metri di distanza, i conducenti ci circondano con i loro sguardi sgualciti ma pieni di dignità, cercando di convincerci a gesti che il loro è il mezzo di trasporto migliore di tutta la città.
In realtà non siamo molto dell’idea di provare questi coloratissimi tricicli arrugginiti, perché ci pare un’ingiustizia che i guidatori debbano sopportare il peso dei turisti e trascinarli a fatica per le strade piene di buche. Ci lasciamo però convincere dai fieri sorrisi di questi uomini e dal fatto che sicuramente con loro faremo le ultime stupende foto del viaggio.
Scegliamo il risciò meglio decorato, ingaggiamo il pilota senza neppure concordare il prezzo e partiamo traballanti per il tour fotografico. Dopo un brevissimo giro, rubati gli ultimi scatti, chiediamo all’autista di farci scendere.
Viene il momento di pagare: abbiamo parecchie rupìe avanzate, è una moneta che sappiamo valere ben poco per noi, tra qualche ora saremo in aeroporto e così, senza contarle, le consegniamo tutte nelle mani dell'uomo che ci ha accompagnato.
Ringraziamo e ci incamminiamo verso l’albergo.
Udiamo però un vociare e ci voltiamo all’istante.
L’uomo ci sta richiamando indietro, ci guarda incredulo, esamina i soldi, li fa passare più volte tra le mani, ciondola la testa, e da ultimo rivolge gli occhi al carretto e ai suoi compagni, rimasti seduti a contemplare la scena all’angolo della strada.
Erano solo pochi spiccioli, ma per lui forse rappresentavano il guadagno di un mese.
Lo scorgiamo avvicinarsi ai suoi colleghi e senza esitazione distribuire loro, con solennità, un po’ per ciascuno, tutte quelle banconote stropicciate.
L’unica regola del viaggio è non tornare mai come sei partito
. Anne Carson.
New Delhi, India, 26 agosto 2011
SENZA PAROLE
La viaggiatrice ormai sente il peso di tutti i suoi passi. Quel pomeriggio aveva percorso quasi per intero il sentiero che attraversa la vallata del Wadi-Musa e porta lassù, ad Al-Deir, il monastero, un luogo usato fin dal II secolo a.C. per le cerimonie sacre. Per arrivarci, sotto il sole del Medio Oriente, si devono salire più di 800 scalini sconnessi, scavati dal popolo dei Nabatei, a Petra, un paio di millenni fa.
Alla ragazza manca il respiro. Si siede su una grossa pietra levigata per riposare, prima di raggiungere la