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Racconto finalista al Delos Passport Contest 2020.
Maximiliano Kirchner è uno degli ultimi veri gaucho della Patagonia argentina. Una lunga vita in sella, a curare le vacche del Señor Harvey, il padrone dell’estancia e suo datore di lavoro, da sempre. Sullo sfondo il vecchio Espresso Patagonico, la Trochita, che sbuffa al vento nuvole come fossero sogni. L’esistenza di Maximiliano si ripete nelle mansioni, nelle stagioni, nelle azioni. Fino a che non arrivano al ranch due stranieri con un’offerta per il signor Harvey. Un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. E, così, le cose cambiano. Per tutti.
William Bavone classe ’82, salentino di nascita, parmense d’adozione. È laureato in economia e ha collaborato con diverse riviste di geopolitica italiane e argentine. È analista per la rivista Scenari Internazionali e membro del comitato accademico della rivista universitaria interdisciplinare Perspectivas (Rosario – Argentina). È autore di numerosi saggi di geopolitica, ultimo in ordine cronologico Latinoamerica (Bertoni Editore – 2020). Con la saggistica ha vinto il Premio Nabokov 2014, l’Attestato di Merito premio Pegasus 2015, la menzione speciale dal Premio Cerruglio 2018, finalista Premio Carver 2020. È autore dei romanzi Play (Bertoni Editore – 2017), Delirium (Bertoni Editore – 2018), Booyaka (Bertoni Editore – 2020). È curatore, con Jacopo Montrasi, dell’antologia thriller Istinti Distruttivi (Augh! Edizioni – 2021). Si è classificato terzo come miglio racconto in assoluto al Giallo Festival 2020, finalista del Contest Delos Passport 2020, finalista del Contest Ore Contate 2020 e vincitore della menzione Zero del Castel Nero Grasparossa Noir Festival 2020. Tre sue poesie compaiono nelle antologie poetiche Inno all’Amore, Inno alla Morte e Inno all’Infinito (Bertoni Editore – 2021).
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Anteprima del libro
La trochita - William Bavone
9788825415674
1
Fu Maximiliano Kirchner.
Sì, Kirchner: stesso cognome dell’ex presidente Néstor. E, quasi come il deputato Maximo Kirchner, figlio di Néstor e di Cristina Fernández de Kirchner, ex presidentessa pure lei.
Ma Maximiliano non era un politico, ma un vaccaro. Un mandriano di professione. O, meglio, per i più nostalgici, un gaucho.
– Pendejo Albiceleste, guarda – lo chiamò Esteban indicando con la mano aperta un punto preciso in lontananza.
Quel tarchiato, faccia da indio, cileno si rivolgeva a lui sempre in quel modo. Erano sei anni ormai che lavoravano insieme e quel mezzosangue continuava a provocarlo con quel soprannome. Idiota di un meticcio, ti brucia il culo a parlare di calcio, è questa la realtà, pensò come mille altre volte a sentire quel soprannome. Si voltò alla sua destra, nella direzione indicatagli. Due manzi si erano allontanati troppo. Colpì immediatamente con i talloni il ventre caldo di Fierro e strinse tra le mani le redini.
Galoppò sottò lo sguardo di Esteban, che invece rimase immobile al centro della mandria.
Il vento gli scorreva tra le rughe del viso. Erano canyon attraverso i quali ogni intemperia e raggio di sole avevano trovato negli anni una dimora sicura. La sua carnagione rossiccia non aveva memoria. Forse era nato rosso oppure fu semplicemente una conseguenza, un modo come un altro di adattarsi alla vita all’aperto. Cavalcava Maximiliano, il Pendejo Albiceleste, consapevole di compiere il suo dovere, fare ciò che andava fatto sempre e comunque. I due manzi sembrarono indifferenti a quella repentina vicinanza. Brucavano spensierati. Ruminavano sterpaglie e scacciavano insetti dal loro posteriore con un movimento della coda. Vacche rosse come la terra brulla che qua e là si distingueva nel paesaggio rigoglioso. Diede uno strattone per far girare il cavallo intorno alle bestie, di modo da creare loro un’ideale cordone protettivo oltre il quale non poter andare.
– Ah! – urlò costringendo i pigri animali ad abbandonare il pasto e fare ritorno verso la mandria. Fierro scalciava al suolo il proprio nervosismo, poi si sentì tirare e virò nuovamente per affiancare le bestie nel rientro.
– Gordo, invece di star lì a contare le vacche, ci saresti potuto anche andare tu a recuperarli! – lo ammonì seccato.
– Vecchio, tu hai l’esperienza, la voglia e la cittadinanza. Io sono qui per i pesos e nulla più. E il signor Harvey desidera che io guardi le sue vacche, ma non sua moglie – ironizzò facendo spallucce.
Anche Maximiliano sorrise scuotendo il capo in senso di resa sconsolata: – Muoviti grassone, portiamo questi animali al recinto. Il sole sta calando ed è ora di tornare.
– Andiamo compare. Ah! – si attivò speronando con energia il cavallo che reagì scalpitando nervosamente.
2
Il bollitore a becco sbuffava da quanto scottava. In una zucca secca e rotonda, l’uomo mise la cannuccia di metallo e la riempì fino all’orlo con yerba con palo. Il palmo ruvido della mano sfiorò il liscio rame che correva lungo il bordo di quel contenitore rudimentale. Serrò le dita occludendo all’erba secca ogni possibilità di fuoriuscita. Ruotò il polso. La polvere cadde sul palmo annidandosi tra i lunghi solchi scolpiti dal duro lavoro. Abbandonò la zucca sul tavolo e batté le mani nell’aria. Prese il bollitore e versò l’acqua calda fino a che questa non lambisse il rame. L’infuso era pronto. Attese perdendosi nel fumo impercettibile che saliva lento.
– Pendejo, è pronto il mate? – lo interruppe Esteban.
– Grassone di un indio mezzosangue, taci – lo ammonì Maximiliano – piuttosto quand’è che torni nel tuo paese di conigli? E comunque sono io il cebador e quindi ti toccherà aspettare il tuo turno per bere.
Esteban si guardò intorno indispettito: – Ci torno presto, molto presto Pendejo, il mio permesso di lavoro è in scadenza e devo tornare dalla parte buona del Cono Sud. Aspetto solo che il signor Harvey mi paghi e via. – Poi stette in silenzio, cercando i suoi buoni propositi in un punto indefinito dell’angusta dépendance. Trovò qualcosa, lo bisbigliò quasi stesse rivelando un desiderio che uno stregone Mapuche gli aveva promesso di rendere realtà: – E magari questa è la volta buona che non torno.
Lo diceva ogni volta. A ogni scadenza del permesso di lavoro, si preparava a non tornare per poi, dopo qualche mese riapparire all’orizzonte. Imprecando si avvicinava e masticando amaro si fermava dinanzi alla porta del signor Harvey, cercando le parole migliori per farsi assumere. Così da sei anni.
Maximiliano portò alla bocca la cannuccia e sorseggiò. L’amaro infuso gli corse lungo la gola e spinse fuori tutta la sua indifferenza verso quelle speranze: – Certo, certo.
Fece un altro sorso prima di riempire nuovamente d’acqua la zucca. Porse la bevanda così rigenerata al suo compare che intanto penzolava tra i suoi pensieri steso sulla brandina.
– Ma tu non vuoi mai andartene da qui, Maximiliano? – gli domandò mettendosi seduto e accogliendo tra le mani l’infuso.
L’uomo sapeva che quando l’indio lo chiamava per nome era perché a modo suo voleva dire qualcosa di serio mentre lui, il più delle volte non voleva dire nulla. Il silenzio era ciò che più lo appagava. Solo la sera, tra quelle candele accese si prestava talvolta alla conversazione.
– Io sono nato qui Gordo, come mio padre. Come mio