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Alessandro Manzoni: Studio biografico
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Alessandro Manzoni: Studio biografico
E-book342 pagine4 ore

Alessandro Manzoni: Studio biografico

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Info su questo ebook

Dovendo ogni lettura restringersi al breve giro di un’ora, dovetti pure, per non abusare della pazienza de’ miei cortesi uditori, sopprimere parecchie parti del Discorso che io avea preparato per la importante e splendida occasione, e che un’ora non avrebbe bastato a svolgere. Desidero ora dunque ricolmare nella stampa le inevitabili lacune di que’ discorsi, lieto d’offrire, per intiero, ai dotti e gentili Curatori dell’Istituto Oxoniano e a’ miei proprii concittadini il frutto di que’ pochi studii da me fatti sopra lo scrittore italiano, che ho più ammirato nell’età nostra e dal nome del quale tolse pure il proprio il carissimo fanciullo, nel quale io ho riposto le mie migliori speranze.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2022
ISBN9782383834717
Alessandro Manzoni: Studio biografico

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    Anteprima del libro

    Alessandro Manzoni - Angelo De Gubernatis

    Indice

    A Federico Max Müller.

    Proemio del Libro.

    Prologo.

    La nobiltà del Manzoni.

    Il Manzoni a scuola.

    Primi versi.

    Il Manzoni e il Parini.

    Il Trionfo della Libertà.

    Il Manzoni Poeta satirico.

    Il Manzoni e Vincenzo Monti.

    I primi amici.

    Carme autobiografico.

    Il Manzoni a Parigi.

    L'Urania - L'Idillio manzoniano.

    La Conversione.

    Il Manzoni a Brusuglio. - Gl'Inni Sacri e la Morale cattolica.

    Il Manzoni Poeta drammatico.

    Il Manzoni unitario.

    Intermezzo lirico: Le strofe del Marzo 1821 - Il Cinque Maggio.

    I Promessi Sposi.

    Il Manzoni e la critica.

    Indice

    A FEDERICO MAX MÜLLER

    Professore nella Università di Oxford

    e Curatore della Taylorian Institution.

    — —

    Illustre Amico,

    Nessuno meglio di Voi potrebbe dire in qual modo sia nato inaspettatamente questo mio nuovo tenue volume. Chè, se mia fu la scelta del tèma, Vostro fu il merito, posto che il libro non accresca i miei torti verso le lettere, se mi venne fornita l’occasione di scriverlo. E quale occasione! La più solenne che amor proprio di autore potesse ambire. Nè contento di avermi coi vostri insigni colleghi, i Curatori di codesta illustre Tayloriana Istituzione intesa a promuovere fra gli Inglesi lo studio delle lingue e delle letterature moderne, messo in condizione di ragionare per tre volte, innanzi ad un pubblico veramente eletto, intorno al sommo fra i nostri scrittori contemporanei, la vostra bontà e cortesia volle non pure che, tra le agiatezze della vostra casa ospitale, io dimenticassi in Inghilterra la mia condizione di straniero, ma ancora che, nelle vostre domestiche contentezze, se pure visibilmente contristate da un amaro ricordo, io vedessi, in alcune parte, l’immagine di quelle vivissime che mi attendevano al mio ritorno in patria. A Voi, illustre concittadino ed ammiratore di quel Goethe che diede al Manzoni nostro il vero battesimo della gloria, a Voi avvezzo, dal cielo olimpico e luminoso in cui spaziate, a contemplar le cime più ardue di quell’açvattha infinito, ch’è l’albero della scienza, non increscerà, io spero, dopo avere, con la vostra costante benevolenza accresciuto coraggio al vostro amico lettore, se io sono in qualche modo riuscito a presentarvi del Manzoni un ritratto abbastanza fedele, ritrovacelo nuovamente innanzi come figura degna di Voi; questo ritratto, in ogni maniera, nel mio desiderio Vi appartiene, se non altro come ricordo di quegli obblighi di sentita gratitudine, per i quali sono lieto io medesimo di non esservi più intieramente straniero.

    Con questi sentimenti, gradite, illustre amico, il libro che Vi invio con la fiducia, non vorrei dire solamente speranza, che ne durasse lungamente in Voi la memoria, se non per alcun merito particolare del biografo, almeno sicuramente per la nobiltà della vita intellettuale che impresi a descrivere, dalla quale, fin che le nuove generazioni deriveranno luce ed esempio, le lettere continueranno sempre a sostenere il loro desiderabile e necessario ufficio d’instauratrici amabili e generose di ogni civile sapienza.

    Il vostro

    Angelo De Gubernatis.

    PROEMIO DEL LIBRO.

    — *—

    Il Discorso che segue, col quale tentai di studiare la vita del primo tra i nostri moderni scrittori, fu letto in tre giorni consecutivi dello scorso maggio in una sala della Taylorian Institution di Oxford, innanzi ad eletto uditorio che mi è venuto intorno, fino all’ultimo, crescendo per numero e benevolenza.

    Dovendo ogni lettura restringersi al breve giro di un’ora, dovetti pure, per non abusare della pazienza de’ miei cortesi uditori, sopprimere parecchie parti del Discorso che io avea preparato per la importante e splendida occasione, e che un’ora non avrebbe bastato a svolgere. Desidero ora dunque ricolmare nella stampa le inevitabili lacune di que’ discorsi, lieto d’offrire, per intiero, ai dotti e gentili Curatori dell’Istituto Oxoniano e a’ miei proprii concittadini il frutto di que’ pochi studii da me fatti sopra lo scrittore italiano, che ho più ammirato nell’età nostra e dal nome del quale tolse pure il proprio il carissimo fanciullo, nel quale io ho riposto le mie migliori speranze. Mi sia ora indulgente la critica, com’io sono sicuro che furono onesti tutti gl’intendimenti che mi hanno mosso a scrivere; e chi ha poi qualche cosa di meglio e di più da dire intorno al Manzoni lo dica, che non troverà, per un tèma così simpatico, alcun lettore più attento di me e più desideroso d’imparare. Io non sono, e lo dichiaro subito, idolatra d’alcun nome; ma è pure tanto in me il sentimento della grandezza dell’uomo che ha chiuso in Italia tutto un secolo di storia letteraria, che spero di non essere accusato per falsa modestia, s’io confesso ingenuamente che il tèma altissimo mi sgomenta, e ch’io lo riconosco, pur troppo, superiore ad ogni mia virtù.

    S’io dovessi qui solamente discorrere degli scritti di Alessandro Manzoni, mi farei animo a ragionarne, reso forte ed illuminato dal consenso ammirativo dell’universo che legge; ma quando un uomo s’inalza alla grandezza del Manzoni, quando, dopo avere contemplato questo mirabile gigante dell’arte nostra, è necessità persuadersi che la sua originalità è specialmente riposta nel suo modo particolare di sentire, e questo modo di sentire non si può bene comprendere e non si ha quindi il diritto di giudicarlo, se non fa germogliare insieme il proponimento virtuoso di conformare la propria vita a que’ sentimenti medesimi, io mi domando con piena sincerità: «Sono io degno di parlare di Alessandro Manzoni?» Io non voglio inalzarmi qui come critico sopra di esso; voglio anch’io guardare in su, e con tanto maggior obbligo di Giuseppe Giusti che pure avrebbe avuto per la qualità dell’ingegno il diritto di guardare il Manzoni in faccia; ma lo parole verrebbero a morirmi sopra le labbra, se io non sapessi ammirare il Manzoni altrimenti che come un altro uomo che sia stato più grande di noi tutti, per sè stesso soltanto, e non ancora per lasciarci alcun memorabile esempio.

    Ora io che ho sempre desiderato richiamare molta gioventù della mia terra a ristudiarlo con me, io che lo propongo sicuramente ad esempio,¹ non lo potrei, non dovrei poterlo fare, se prima non avessi fatto promessa a me medesimo di seguire docilmente i principii di quella filosofia letteraria che ammiro sovra ogni altra. E, pur troppo, per quanto sia grande in me il desiderio, sento povere le forze ed insufficienti all’uopo; e ripeto, pieno di confusione e di sincerità, il domine, non sum dignus.

    Ma io prevedo, pur troppo, a questo punto il moto impaziente di alcuni lettori, i quali prima di proseguire avranno già sentenziato presso a poco così: «Abbiamo capito, l’Autore ci promette un panegirico, invece d’uno studio critico; invece d’un Manzoni diminuito e fatto minutamente, come ora si deve, in pezzi, avremo un Manzoni altissimo, iperbolico, messo sugli altari ed idealeggiato, per edificazione de’ buoni.» Chi ha di tali impazienze non legga più oltre. Io voglio sì, io spero provare come il Manzoni fu grande, com’egli è stato, e sarà forse ancora per molto tempo, il massimo de’ nostri scrittori; ma chi teme una tale dimostrazione, chi non la permette, chiuda il libro; chè, in verità, io non lo scrivo con la speranza di convertire alcun profano, ma nel desiderio, il quale può ingannarmi, ma è onesto, di delineare il Manzoni quale mi apparve, dopo averlo ricercato attentamente ne’ suoi scritti e nelle memorie del nostro tempo; e, poichè ne verrà fuori, come io spero, non solo la figura di un grande scrittore, ma ancora quella di un grand’uomo, sì mi tenta anche la speranza che alcuno già ben disposto, innamorandosi più forte della sua figura, si giovi dell’esempio che sotto di essa si cela, come tento io stesso di cavarne come posso alcun profitto non solo per l’arte dello scrivere, ma per quella assai più difficile del vivere. Da queste stesse parole si deve, parmi, capire che io non mi propongo di scrivere la vita d’un Santo; se il Manzoni fosse stato un uomo perfetto in ogni cosa, non ci rimarrebbe altro che adorarlo. Ma poich’egli era mortale come noi e soggetto ad errare ed alcuna volta può avere anch’esso umanamente errato, sarà utile a noi l’apprendere in qual modo egli vincesse le sue battaglie ideali, e quale ostinazione virtuosa egli abbia messo per vincere. «Ma noi non vogliamo più la noia di libri siffatti, che ci diano la biografia d’uno scrittore, con l’intendimento dichiarato di offrirci un modello virtuoso. Dateci l’uomo come l’avete visto. Penseremo noi alla conclusione, se ce ne sarà da farne alcuna, o non ne faremo, che sarà il meglio. Risparmiateci dunque i vostri fervorini.» Sento già correre in aria queste parole più di minaccia che di consiglio; e, mettendomene in pensiero, prometto, fin d’ora, che risparmierò i fervorini, quanto mi sarà possibile, ma non prometto poi nulla di più: perchè, se, nello scrivere, mi accadrà, in qualche momento, che il cuore mi batta un poco più rapido, e mi esca per avventura una parola più calda, io non sacrificherò quel po’ di fuoco che m’accende ancora, ad alcun domma della nuova critica; poichè io non ammetto, e lo dichiaro subito, in alcuna opera d’arte, principii, i quali escludano il principale, anzi il solo creatore d’ogni arte grande, che è il sentimento.

    — *—

    ↑ Che la mia venerazione pel Manzoni sia oramai antica, ne recherò qui un breve documento. Ero studente nella Università di Torino; nella Facoltà di lettere si era disegnata la fondazione di un giornale letterario; io doveva esserne il direttore e proporne il titolo. Posi innanzi il nome di Alessandro Manzoni. Ma, temendo pure che al Manzoni potesse non piacere che da lui s’intitolasse un giornale di studenti, il quale avrebbe potuto riuscir battagliero, gli scrissi, in nome de’ miei compagni, per domandare un permesso che alla nostra fiera, ma pur delicata, baldanza giovanile pareva necessario. Il venerando uomo si turbò all’idea che il suo nome potesse diventar simbolo di una battaglia di giovani, e c’indirizzò la lettera seguente, finqui inedita, l’autografo della quale trovasi ora nelle mani dell’egregio Antonio Ghislanzoni a Lecco:

    «Pregiatissimi Signori, Non ho mai avuto nell’animo un conflitto d’opposti sentimenti, come quello d’una profonda riconoscenza e d’un vivo dispiacere che m’ha fatto nascere la troppo cortese lettera, di cui m’hanno voluto onorare. Ma la benevolenza che attesta in ogni sua parte, mi dà la certezza che di que’ sentimenti non mi rimarrà che il primo. Per codesta così spontanea e per me preziosa benevolenza, Vi prego dunque, Signori, di non dare al giornale, l’annunzio del quale mi rallegra, il titolo che v’eravate proposto. Sarebbe una cagione di vero e continuo turbamento alla mia vecchiezza, che, per quaggiù, non aspira ad altro che alla quiete. L’indulgentissimo vostro giudizio è già una gran ricompensa per de’ lavori che non hanno altro merito, che d’esser fatti in coscienza. Confido, anzi mi tengo sicuro che non me la vorrete cambiare in un castigo, e che potrò goder subito in pace la speranza de’ frutti che mi promette il saggio del vostro ingegno e del vostro cuore. Chiudo in fretta la lettera perchè arrivi a tempo, come desidero ardentemente, e mi rassegno

    » Milano, 7 novembre 1859.

    Ricevuta questa lettera stimammo debito nostro, per rispetto alla volontà del Manzoni, rinunciare tosto al primo titolo desiderato di Alessandro Manzoni, e ne sostituimmo perciò un altro che, nel nostro pensiero, doveva riuscire equivalente. Il nuovo giornale s’intitolò per tanto: La Letteratura civile; ebbe, tuttavia, la vita solita de’ giornali compilati da studenti.

    Note

    I.

    Prologo.

    Se bene a molti rechi oramai gran tedio che si parli ancora nel mondo del Manzoni, e tra i molti i più siano persuasi che sopra un tale argomento, da essi chiamato giustamente eterno, non ci sia più nulla di nuovo da dire, dovendo io tener discorso intorno ad un nostro moderno scrittore, innanzi ad un’eletta d’Inglesi, presso i quali da Giuseppe Baretti ad Ugo Foscolo, da Ugo Foscolo a Gabriele Rossetti, da Gabriele Rossetti a Giuseppe Mazzini, per tacere degli onorati viventi che hanno insegnato od insegnano tuttora la letteratura italiana in Inghilterra, le nostre lettere da un secolo in qua furono sempre coltivate con amore, io non ho saputo trovare alcun tèma non solo più nobile, ma più nuovo del Manzoni. Non sorridete, o Signori. Io so bene che gli stranieri, i quali hanno fatto i loro primi, in verità, non molto divertenti esercizii d’italiano sopra i Promessi Sposi e sopra le Mie Prigioni, riguardano come stranamente idolatrico il nostro culto manzoniano. Lo so, e se credessi che la loro opinione avesse buon fondamento, me ne turberei; poichè, in verità, se il Manzoni fosse per noi un idolo, innanzi ad un idolo io vedrei solamente possibile una di queste due altitudini: adorare tacendo con gli occhi chiusi, che non è il miglior modo per veder bene; o passargli accanto sdegnosi, sprezzanti, correndo via, che non è, di certo, un modo di veder meglio. Io ammiro grandemente il Manzoni, ma non l’adoro, e però, quantunque pieno di riverenza a tanta umana grandezza, oserò accostarmele e studiarla, anco perchè stimo che giovi il vedere come un uomo non solo sia nato, ch’è merito di natura, ma come abbia saputo egli stesso divenire e mantenersi grande. Ogni vanto di priorità in lavori simili al presente mi parrebbe, o Signori, intieramente oziosa e puerile; e però, prima d’accennare ad un fatto singolare che mi riguarda, debbo dichiararvi candidamente che non solo io non me ne faccio merito alcuno, ma che mi vergognerei se alcuno attribuisse a me un merito ch’è stato del caso. Ora sono più di sei anni, quando il Manzoni era pur sempre vivo, avendo io la debolezza di credere che la letteratura abbia alcuna virtù educatrice, tentai, come potei meglio, rinfrescare nella mente de’ giovani il ricordo, e nel cuore di essi la riconoscenza per gli scrittori italiani, i quali avevano, a parer mio, più efficacemente cooperato non solo a mantenere vivo il decoro delle nostre lettere, ma a farle operative di virtù domestica e civile. Io m’era detto e persuaso che la loro modestia avrebbe loro vietato di parlare prima di scendere nel sepolcro; intanto i giovani che vengono su, poichè, ad uno ad uno, i nostri buoni vecchi se ne vanno, poco o nulla ne potranno sapere, onde mancheranno ad essi quei nobili esempi ed eccitamenti che in parte servirono, in parte avrebbero dovuto servire a noi per animarci nel sentimento del nostro dovere e per educarci alla virtù del sacrificio. Era dunque, o almeno parevami, che fosse debito nostro servire d’anello ideale fra la generazione che passa e quella che viene, portare virilmente ai giovani la parola de’ vecchi; e, non credendo di potere far meglio, incominciai da Alessandro Manzoni. Ma quale non fu il mio stupore, quando, messomi intorno a cercare se esistessero biografie italiane del nostro primo scrittore vivente, in un secolo pur così prodigo di biografie, dovetti, con molta confusione, rinunciare alla speranza di trovarne alcuna e provarmi a tentar da me solo con le notizie del Fauriel e del Loménie, con gli sparsi articoli di critica letteraria, con le onorevoli disperse testimonianze degli amici a ammiratori del Manzoni, e con una nuova lettura delle sue opere, la prima biografia del grande Poeta milanese! La cosa parrebbe incredibile, se non fosse vera.

    Morto il Manzoni, il 22 maggio dell’anno 1873, in età di ottantotto anni, quel primo saggio biografico ebbe naturalmente la buona fortuna di servire come addentellato ad altri, che lo resero presto insufficiente; seguirono pertanto nuove spigolature e nuove biografie, tra le quali convien ricordare quelle di Vittorio Bersezio, Giulio Carcano, B. Prina, F. Galanti, Antonio Stoppani, A. Buccellati, Carlo Magenta, Carlo Romussi, Giovanni Sforza, Salvatore De Benedetti, Felice Venosta, Nunzio Rocca, Antonio Vismara; Carlo Morbio e Cesare Cantù tutte diversamente pregevoli per la nuova luce che recarono alla biografia manzoniana. Ma è cosa singolare che non sia ancora comparso fin qui alcun discorso critico un po’ largo sopra tanta novità di materia biografica. Non ci si è pensato, pur troppo; onde è ancora veramente un caso, per me felice, ma non lieto per l’Italia, che, dopo oltre sei anni dal mio primo saggio biografico, io abbia ancora, senza alcun merito e senz’alcuna pretesa, ad essere, per ordine cronologico, il primo che tenti una biografia ragionata di Alessandro Manzoni. Chè, se io mi sono, ora volge il sest’anno, messo nell’impegno difficile di lodare il Manzoni vivo, senza tradire la maestà di quel santo vero che fu la sua prima e vorrebb’essere la mia religione, ognuno intenderà facilmente come una parte delle indagini, le quali son divenute possibili, sarebbero state sconvenienti, quando il grand’uomo era vivo e potea provarne pena; ognuno si persuaderà dunque come un nuovo studio biografico intrapreso in così diversa, e, per rispetto alla critica, migliorata condizione, deve necessariamente riuscire alquanto più ricco e più dimostrativo del primo.

    Queste dichiarazioni scuseranno pure il tono alquanto dimesso del mio presente Discorso. Non si tratta qui, invero, di giudicare dall’alto, che sarebbe sempre una impertinenza, nè da lontano, che non si potrebbe senza molta imprudenza, un Manzoni già ben cognito, o supposto tale, per farne, con pochi vivaci tratti di penna, un nuovo e splendido ritratto ideale. Il mio ufficio vuol essere, almeno per questa volta, assai più modesto. Si tratta, cioè, semplicemente di ristudiare da capo il nostro Poeta, di seguirne passo passo la vita, i pensieri, i sentimenti, prendendo per guida principalissima i suoi proprii scritti. Questo esercizio minuto richiede naturalmente un po’ di pazienza, tanto in chi lo intraprende, quanto in chi conviene ad osservarlo; ma, s’io non erro, poichè avremo, voi ed io, fatto prova insieme di questa necessaria virtù, ci troveremo finalmente innanzi, quasi senz’accorgercene, vivo ed in piedi, un nuovo Manzoni, che nè voi nè io ci eravamo, prima di ristudiarlo, immaginato fosse per riescire così grande, per quanto lo ingrandisse già la nostra ammirazione, nè così importante, per quanto fosse già molto viva la nostra curiosità di conoscere tutto ciò che lo riguardava.

    II.

    La nobiltà del Manzoni.

    In una delle sue lettere alla propria moglie, Massimo d’Azeglio le narrava una visita fatta al paese originario di casa Manzoni: «Ci hanno detto (egli scrive) che i vecchi della famiglia, ai tempi feudali, avevano un certo cane grosso, che quando andava per il paese i contadini erano obbligati a levargli il cappello, e dirgli: Reverissi, sur can (La riverisco, signor cane).» Un proverbio della Valsássina, ove i Manzoni una volta spadroneggiavano come signori del luogo insieme con la famiglia de’ Cuzzi, suona ancora così:

    Cioè, le famiglie Cuzzi e Manzoni ed il torrente Pioverna, quando straripa, non intendono punto la ragione. Dalla Valsássina la famiglia Manzoni passò ad abitare in quel di Lecco, dove il signor Pietro Manzoni, padre del nostro Poeta, possedeva molte terre ed una bella palazzina detta Il Caleotto, che nell’anno 1818 Alessandro Manzoni fu costretto a vendere, insieme con gli altri beni per la mala amministrazione di chi aveva tenuto, per oltre un decennio, la procura ed il governo di quelle terre, una parte delle quali si trovava nel Comune di Lecco, altre in Castello, altre in Acquate, il villaggio per l’appunto de’ Promessi Sposi. Come Renzo si trova obbligato a lasciare il proprio villaggio ed a vendere la propria vigna per recarsi ad abitare nel Bergamasco; così il nostro Poeta dovette, per salvar la villa di Brusuglio, abbandonar luoghi che gli erano cari, dove aveva passata una parte della sua infanzia, dov’era tornato a villeggiare tra gli anni 1815 e 1818, onde non è meraviglia l’intendere dallo Stoppani che in quegli anni, per l’appunto, Alessandro Manzoni si trovasse pure a capo dell’amministrazione del Comune di Lecco; meno ancora ci meraviglieremo, dopo di ciò, che la scena de’ Promessi Sposi sia stata posta dall’Autore nel villaggio di Acquate, nel territorio di Lecco, nei luoghi, ove lo riportavano le prime e le più care sue reminiscenze e dai quali egli s’era dovuto staccare per sempre con un vivo dolore, tre anni e mezzo soltanto innanzi ch’egli incominciasse a scrivere il proprio romanzo.

    I Manzoni erano dunque nobili, ma nobili decaduti dai loro titoli di nobiltà e dalla loro antica potenza. Avevano dominato una volta con la forza. La fortuna d’Italia volle che col sangue dei Manzoni, che la tradizione ci rappresenta quali uomini violenti, si mescolasse un giorno un sangue più gentile, e che, per gli ufficii dell’economista Pietro Verri e, come vuolsi, del poeta Giuseppe Parini, l’illustre marchese Cesare Beccaria sposasse un giorno la non ricca, ma bella, giovine ed intelligente sua figlia Giulia al proprietario del Caleotto, a Don Pietro Manzoni, uomo intorno alla cinquantina; e che da quelle nozze fra una nobile fanciulla milanese ed un grosso signorotto di provincia, il 7 marzo dell’anno 1785, nella città di Milano, nascesse un figlio.

    Se mi si domandasse ora qual conto il nostro Poeta facesse della sua origine nobilesca, mi troverei alquanto imbarazzato a rispondere. Nel suo discorso, nel suo contegno, tutto pareva in lui signorile; ma, nel tempo stesso, egli si adoprava a riuscir uomo semplice ed alla mano.¹ Forse in gioventù aveano desiderato dargli una educazione più aristocratica che la sua vera condizione di nobile decaduto non comportasse; Don Pietro Manzoni, uomo alquanto materiale, venuto dalla provincia a stabilirsi in Milano,² dovea, fra i nobili milanesi, trovarsi alquanto spostato e l’arguta intelligenza del figlio potè sentire, per tempo, ciò che v’era di falso in quella condizione della propria famiglia fra l’alto patriziato lombardo. Se è vero che, nella educazione del giovane Ludovico, divenuto poi Fra Cristoforo, il Manzoni abbia inteso, in qualche modo, rappresentare la propria gioventù, convien dire ch’egli non avesse della propria nobiltà gentilizia, per la stima che se ne faceva a Milano, una opinione superlativa; ma, come discendente dagli antichi signori di Barzio nella Valsássina, come antico proprietario del Caleotto egli dovea pure ricordare che i suoi padri erano stati una volta il terrore delle terre da loro dominate e persuadersi che, se la sua nobiltà contava poco a Milano, avea contato troppo dalle parti di Lecco. Questa speciale contradizione nella stima ch’egli potea fare della propria nobiltà, lo tirava ora a farsi piccino con Renzo, ora a immaginarsi grande con l’Innominato, ora a collocarsi ragionevolmente fra i due con la figura di Fra Cristoforo. Ma quali fossero i panni, di cui gli piacesse vestirsi, o rivestirsi, egli doveva sentir sempre l’altezza del proprio ingegno sovrano, la quale poi si dimostrava altrui molto più nella modestia che ne’ vanti volgari. Poichè uno de’ privilegi degli uomini grandi (un privilegio che talora può anche divenire una loro debolezza) è quello di trovar compiacenza nel farsi piccini. Crediamo, dice, con molto garbo, il conte Carlo Belgioioso, che una squisita modestia convivesse coi Manzoni con una ben misurata stima di sè. Egli riconobbe di certo i privilegi della propria intelligenza, e ne ringraziò Dio; ma li scordò davanti agli uomini. Della nobiltà del Manzoni altri si occuparono, non lui; quando il signor Samuele Cattaneo di Primaluna³ pensò fargli cosa grata, inviandogli l’antico stemma de’ Manzoni ch’egli avea ritrovato nella casa di Barzio, il Poeta ringraziò tosto del pensiero amorevole, ma non aggiunse altro. Gli pareva sul serio di offender qualcheduno, quando avesse lasciato capire ch’egli sapesse o sentisse, e, peggio ancora, si compiacesse d’appartenere ad una casta privilegiata. Ma tanto fa, egli era un signore; e, quando s’accostava al popolo per fargli del bene, mosso da un sentimento di umanità, di giustizia, di carità cristiana e da una gentilezza squisita, quando, nella vendita del Caleotto e delle sue terre ereditate dal padre in quel di Lecco, egli tirava un frego sopra i debiti de’ suoi contadini e affittaioli e li perdonava tutti, si mostrava generoso ed umile al modo di quell’ottimo suo marchese erede di Don Rodrigo de’ Promessi Sposi: quel marchese, se vi ricordate, volendo far del bene a Renzo ed a Lucia e riparare verso di essi i gravi torti del suo predecessore, compra la vigna di Renzo pagandola il doppio del prezzo richiesto; poi invita i due fidanzati al suo palazzotto, fa loro imbandire un buon desinare ed ordina che venga servito bene, anzi lo serve, in parte, da sè, ma non si mette addirittura a tavola coi villani. A questo punto il Manzoni entra direttamente in iscena, ed osserva: «A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale,

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