La mano sinistra
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Info su questo ebook
L'autrice dà vita a eroi moderni che cercano una realizzazione personale che sistematicamente si nega: i bambini si sentono spesso stranieri nelle loro famiglie mentre, tra gli adulti, le donne appaiono sole e ferite e gli uomini inquieti e irrisolti. Tutti desiderano essere riconosciuti grazie all'amore. Molti di loro hanno ragioni che spesso affondano radici in vite familiari lacerate. Talvolta basta un soffio del destino per ritrovarsi tra chi nulla conta, tra chi subisce lo stigma sociale o, ancora, si autoesilia nel tentativo di soffrire meno. Su ogni personaggio lo sguardo dell'autrice si posa leggero ma profondo, a tratti ironico e bonario, a volte più acuto e graffiante.
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Anteprima del libro
La mano sinistra - Marianna Guida
IL PASTORELLO ROTTO
Nel dicembre del ‘72, come tutte le mattine, Antonio Monti percorreva via San Gregorio Armeno per andare a scuola. La cartella sulle spalle magre era di un celeste sbiadito, il pellame rovinato in più punti, ma nessuno nella sua famiglia sembrava preoccuparsene; prima o poi la cucitura avrebbe ceduto e lui non avrebbe saputo dove mettere i quaderni e il sussidiario. La mattina ciabattava dalla camera da letto alla cucina, sempre immersa nella penombra, anche quando fuori il sole scaldava le strade. Antonio era abituato a questo ambiente grigio, dove gli odori dei cibi ristagnavano in qualsiasi ora del giorno.
Un pomeriggio, a casa di Giuseppe, suo compagno di classe, aveva spalancato gli occhi alla vista della carta da parati colorata, e di fronte al pavimento bianco aveva emesso un grido di meraviglia, attenuato, come a volerne mitigare il suono, dalla mano poggiata sulla bocca. La madre gli aveva spettinato la frangia bionda: Entra, su, ti porto in camera sua
aveva detto dandogli subito le spalle. Lui aveva seguito la fragranza che lei sprigionava, un misto di agrumi, simile a quello dei mandarini comprati dalla mamma. Ma l'asprigno era unito a un’essenza dolce dalla natura non chiara. Sua madre, aveva pensato mentre il suo sguardo indugiava su vetrinette ingombre di ninnoli di porcellana, non odorava come la mamma di Giuseppe. Emanava, invece, un profumo molto simile a quello dei cibi che poi mangiavano, e un unico grande sentore impregnava le pareti e i loro vestiti. Antonio lo avvertiva soltanto quando rientrava da scuola, e l’odore lo aggrediva appena sganciata la cartella dalle spalle. Quel pomeriggio i due bambini erano rimasti sul pavimento grigio della stanza dell’amico per tutto il tempo. La mano di Giuseppe faceva girare il mappamondo e il profilo dei continenti si illuminava dall’interno, deformandosi in un caleidoscopio iridescente. Circondati da quaderni e matite, i due ridevano, dimentichi del motivo del loro incontro. Sai che quest’estate io e i miei siamo stati a Parigi?
gli aveva detto Giuseppe gonfiando il petto di orgoglio. Antonio non sapeva molto di questa città, salvo forse per la breve descrizione che ne aveva fatto la maestra. Lei faceva sempre imparare le cose a memoria, tante che poi il bambino si toccava la testa: sarebbe riuscita a contenerle tutte? Una volta aveva imparato con fatica la poesia del pianto antico ma i sogni della notte l’avevano spazzata via. La mattina dopo, saltato giù dal letto, aveva raggiunto la cucina a piedi scalzi. Con il libro aperto davanti a sé e nella luce fioca della stanza aveva avvertito un tremore diffondersi delle sue gambe; il freddo del pavimento aveva percorso con rapide ondate i suoi muscoli. Ripetendo i versi sillabava parole sconosciute come pargoletta
. Ma con le capitali era diverso, gli bastava che la maestra mostrasse il punto preciso sulla cartina e nella sua testa prendevano forma immagini piene di luci e di persone ben vestite. Strade alberate, finestre aperte su case piene di oggetti magici. Così si ritrovava a fantasticare su trenini, giostre, ballerine sulle punte e la sua mente sembrava non stancarsene mai. Spesso le case da lui sognate erano calde, forse proprio grazie alla luce che filtrava da ogni angolo.
Antonio aveva ereditato la passione per i piccoli oggetti cesellati da suo padre e dai suoi zii; nella sua famiglia, infatti, fabbricavano pastori da generazioni. Era un’arte, aggiungeva suo padre. Il volto si animava e le guance scarne scurite da una barba perenne assumevano volume. Sì, ma non ci porta il pane, ‘sto lavoro tuo
, diceva la madre, sedendosi con tutto il suo peso sulla sedia impagliata della cucina. Quando poi i suoi cominciavano a litigare, Antonio era costretto a tapparsi le orecchie perché le voci gli facevano male alla pancia. Correva in bagno e, appoggiato alle mattonelle fredde, tirava a sé le gambe circondandole con le braccia magre, e rimaneva così, fissando le sagome di umido, immaginandole in movimento, ormai trasformate dalla sua mente in animali, gnomi e folletti. Poco dopo le voci dei genitori si affievolivano, risucchiate nel buio del corridoio. Veniva di solito risvegliato dai colpi sulla porta: "Antò, arape stà porta!" gridava suo padre, con un tono addolcito rispetto a prima, forse perché aveva addentato uno dei mandarini della mamma. Gli adulti cambiavano umore rapidamente, la bufera di poco prima si era già mutata in un’aria serena. Erano tante le cose che non capiva, ma lui pregava soltanto che tornasse la pace in casa.
A detta di parenti e amici suo padre Michele aveva un gran talento. E lui ci credeva perché i suoi pastori sembravano esseri umani in carne e ossa e nessuno tra gli artigiani di San Gregorio riusciva a farne di più belli e autentici.
Durante il periodo di Natale metteva i presepi sui ripiani della bottega, e aveva un’arte anche a disporli. Le persone ben vestite che guardavano distratte, quando arrivavano alla bottega Da Michele trovi il Paradiso, entravano senza alcuna esitazione. Lì il loro sguardo si accendeva. Si avvicinavano ai presepi con passi cauti, ma dentro di loro c’era un filo invisibile a guidarli, attratti com’erano dal mistero dei piccoli pastori. La bottega era avvolta nella penombra e solo dopo qualche istante avvertivano lo sguardo di Don Michè. Lui, vestito con i soliti panni grigi e sformati, si alzava dal punto più buio del negozio e raggiungeva i signori ben vestiti. Questi arretravano di un passo, intimoriti da quel signore dalla barba incolta. Don Michele in effetti faceva un po’ paura, soprattutto quando si avvicinava alle persone e non smetteva di fissarle, mentre la mano raspava sulla barba che ombreggiava il suo viso. L’artigiano vedeva nella sua testa i pastori mentre erano a tavola oppure al lavoro o anche durante una discussione, e solo dopo cominciava a lavorare la terracotta quando ormai le sue mani erano in grado di ripercorrere quelle stesse intuizioni di poco prima. Sapete, io con questi pastorelli ci ho parlato quando erano solo delle ombre nella mia testa
diceva con gli occhi di chi non aspettava altro che quei signori andassero via. Ecco perché l'angolo buio della bottega sembrava il suo vero e unico mondo. Allora signori cari, cosa desiderate?
aggiungeva. Ma lo diceva con una fretta nella voce tale che ai signori arrivava come una folata di aria fredda. Volevano sapere come mai i piccoli pastori sembrava si fossero mossi, ma lo sguardo dell’artigiano gli aveva messo addosso solo la voglia di andarsene. Michele, allora, continuava dicendo: "Forse voi volete sapere perché tutti gli altri pastori sono come le bambole finte delle vostre figlie, e questi, invece, sono veri? Embè, io questo segreto non ve lo posso dire. Ma perché, voi sapete la ricetta d’a sfugliatella? No, ch’à nun ‘a sapite. I miei pastori sono vivi, vivi!". Dopo qualche istante i signori erano di nuovo per strada, turbati dall’apparizione di Don Michele, ma incapaci di spiegarsi la loro stessa inquietudine. Avrebbero speso anche una fortuna per comprare almeno qualcuno di quei pastori, ma la paura che l’ansia scorbutica di Don Michele si fosse trasmessa pure alle sue creature li frenava. Così Don Michele se ne tornava nell'angolo buio a parlottare coi suoi pastori.
La sera la moglie Maria gli si sarebbe scagliata contro. "Ancora stì quatte lire me puorte ‘a casa? Ma lo vuoi capire che teniamo tre criature?" Lei lo sapeva bene quello che faceva il marito. Vendeva pochissimo perché non riusciva a separarsi da quei pastori di cui neanche lei afferrava il mistero. Quelle rare volte in cui andava alla bottega osservava le statuine e avrebbe voluto toccarle, anche solo per verificare la consistenza di quei tessuti che apparivano così reali. Poi si bloccava, consapevole della gelosia che Michele nutriva per le sue creazioni. Le braccia le pendevano inerti, le parole rimanevano intrappolate nella bocca e solo un vago accenno di meraviglia si affacciava sulle sue labbra. Sapeva inoltre che il marito ci parlava, e già questo era un fatto spaventoso. Ma che poi non riuscisse a separarsene questo era per lei ancora più inspiegabile. Lei si sarebbe fatta uccidere per i suoi figli, anche se quasi mai li baciava. Invece sembrava che Michele amasse di più i suoi pastori, e questo lei non poteva sopportarlo. I fratelli di Michele creavano pastori uguali a quelli delle altre botteghe. Erano ben fatti, doveva riconoscere Maria mentre camminava con quel poco che era riuscita a farsi dare nei negozi di alimentari del quartiere. Avevano un’arte nella famiglia Monti, ma a Michele andava riconosciuta una capacità che i suoi fratelli non avrebbero mai avuto: rendeva evidente il movimento anche se i pastorelli erano fermi, faceva pensare alla vita anche se la terracotta era una materia inerte. Lei stessa non se ne dava ragione. Michele era una persona semplice; eppure, intuiva in lui una seconda anima sotto l’aspetto di poveraccio. Di questa seconda anima lei era gelosa come di una femmina più giovane, e per questo le riservava cattiverie. Ma una seconda anima dove vive? Forse nei sogni lievi della mattina, sconosciuti anche al sognatore? Anche per questo litigava con Michele, lo aggrediva dicendogli che un vero uomo si occupa della famiglia e non aspetta i soldi della moglie che lava le scale dei palazzi. Lei sapeva che il suo figlio più piccolo aveva paura di loro e si andava a rifugiare in bagno ogni volta che alzavano la voce. Gli altri due figli più grandi erano indifferenti alle loro litigate. Anche nel fisico quell’ultimo figlio la stupiva. La sua pelle sembrava essere fatta di un’altra pasta rispetto alla loro, ricordava la consistenza della porcellana. E quei capelli biondi da dove erano usciti?