Il giudice sbagliava
Di Franco Enna
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Anteprima del libro
Il giudice sbagliava - Franco Enna
Il giudice sbagliava
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1953, 2023 Franco Enna and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728523186
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
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PERSONAGGI PRINCIPALI
1.
PRESENTO BUSTER
Oh, miei cari, se aveste conosciuto Buster Groob ai bei tempi! E’ stato veramente un peccato, perché Buster vi avrebbe entusiasmato, elettrizzato, sconvolto addirittura, con la sua perspicacia, il suo coraggio, il suo modo di agire: alcuni lo chiamavano Lampo, altri Gambetta, altri ancora Fiore di pesco; infine c’erano alcuni che gli avevano appioppato il non simpatico nomignolo di Patacca, che in verità non ho mai potuto capire del tutto. Forse perché Buster era stato nella polizia regolare, prima di mettersi a fare l’investigatore privato? Forse, ma non ne sono sicuro. Comunque non ha certamente molta importanza questo particolare. L’importante è che Buster era, ed è tuttora anche se si è ritirato a vita privata in una bella fattoria del sud, dicevo, un uomo in gamba sotto tutti i punti di vista, di quelli che vengono sù di tanto in tanto e che vivono dieci vite in una. Quando lo ricordo mi vien fatto di chiedermi se per caso non fosse invulnerabile. Santo cielo, mai uno lo pizzicò una volta! Mai lo vidi con un occhio ammaccato, o una costola rotta, e sì che ne diede di botte, a John Pellys, a « Occhio-di-bue », e a molti altri ceffi. Beh, ma non divaghiamo altrimenti non comincio più. Mi sono lasciato trascinare un po’ dall’entusiasmo appunto per prepararvi alle sorprese che descriverò, le quali rispondono tutte alla più onesta realtà. Non meravigliatevi di nessuna cosa, e ricordate soltanto che, dove c’è Buster Groob, anche gli asini possono mettere le ali e svolazzare sui tetti come altrettanti passerotti.
L’avevo conosciuto a Reno, qualche anno prima, quando era nella polizia. Un asso, credetemi! Io mi dicevo che una volta o l’altra Buster si sarebbe svegliato con una dozzina di pallottole nella schiena (perché di fronte nessuno avrebbe avuto il coraggio di farlo fuori: era di statura regolare, robusto in modo regolare, ma muscoloso fino all’incredibile, agile come un pellerossa, furbo come un cinese); invece no, e ne sono contento. Quando uno nasce fortunato però.
Lo ebbi con me nel clamoroso caso della « tratta dei fanciulli », una storia appassionante quanto mai, che spesso rievoco con rinnovata emozione.
Allora Buster aveva il suo ufficietto in un quartiere equivoco di New York, che, come saprete, è la città degli affari, puliti e no. Lavorava da solo, sempre, — mai gli ho visto un aiutante al fianco; quando proprio non poteva farne a meno, si rivolgeva al collega Jackie, il quale metteva a sua disposizione gli uomini che gli occorrevano, ma si trattava di casi sporadici. Aveva una resistenza fisica inaudita: poteva stare senza mangiare dai dieci ai quindici giorni, doveva bere però, e senza moderazione, senza peraltro ubbriacarsi, perché anche in questo campo era un campione.
Io allora avevo uno studio di avvocatura nella Quarantottesima Strada, proprio vicino al ristorante italiano Guido’s. Gli affari non andavano malaccio. Il caso Furter mi aveva dato una certa notorietà e i clienti non mancavano.
Non vedevo Buster da un paio di mesi, quando Georgia, la mia segretaria, me ne diede il destro annunciandomi la visita di una donna. Eravamo nel mese di marzo. Faceva ancora freddo, ma già l’aria cominciava a far capire che la primavera si stava avvicinando.
2.
UNA MADRE RIVUOLE LA FIGLIA
La mia visitatrice era una donna sui trent’anni, non molto graziosa, vestita con una certa ricercatezza di gusto andante. Pensai che dovesse essere un’operaia, o giù di lì. La feci accomodare e le domandai che cosa desiderasse.
Mi osservò a lungo prima di decidersi a rispondere. Frattanto io avevo acceso una sigaretta e avevo già dato alcune boccate.
— Sono disperata — proruppe all’improvviso la donna. — Dovete aiutarmi, signor Carson, dovete…
Scoppiò in singhiozzi, come mi aspettavo. Feci del mio meglio per calmarla. Alla fine, quando vi riuscii, potei sapere di che cosa si trattava.
La donna si chiamava Mary Harten e non era sposata. Nonostante il suo stato di nubile, quattro mesi prima aveva dato alla luce una bambina in un ospedale della città. La famiglia di lei era all’oscuro di tutto, anzi, la ragazza aveva lasciato il paese natio appunto perchè sapeva di essere in stato interessante. Per questo, subito dopo il parto, la Harten aveva pregato una infermiera di trovare dei genitori adottivi alla sua creatura. L’infermiera aveva accondisceso e una settimana dopo Mary Harten poteva firmare « l’atto di cessione » ai coniugi Hewessy, i quali si erano dimostrati tanto felici di poter adottare la bambina che avevano regalato duecento dollari alla madre. In quei quattro mesi Mary Harten aveva cominciato a provare una potente nostalgia per la sua creatura. La conclusione di quello stato d’animo era stata che la donna si era pentita di aver fatto adottare la bambina ai coniugi Hewessy e, dopo avere impetrato e ottenuto il perdono dai familiari, si era affrettata a richiedere la sua creatura. Gli Hewessy avevano opposto un netto rifiuto. Essi nel frattempo avevano provveduto a far convalidare la adozione dal tribunale e ora erano i legittimi genitori della bambina.
— Non è una cosa tanto facile come può sembrarvi — le feci osservare con dolcezza. — Capisco il vostro stato d’animo, ma mi sembra che abbiate agito con molta leggerezza…
— Oh, avvocato, non abbandonatemi anche voi! So che siete tanto bravo in cose del genere… Non deludetemi! lo sono disposta a restituire i duecento dollari ricevuti, e a dare anche dell’altro per i quattro mesi di cure avute per la bambina…
Si mise di nuovo a piangere. Mi affrettai a calmarla un’altra volta. Non mi ispirava molta simpatia; il suo atteggiamento mi sembrava teatrale, quelle lacrime non mi commuovevano, e dire che anche io avevo dei figli e potevo benissimo immaginare il dolore di una madre costretta a vivere separata dalla propria creatura. Mia moglie, a parte il fatto che per nessuna cosa al mondo si sarebbe separata da Loon o da Ketty, avrebbe sconvolto l’universo in un caso simile.
Con molto tatto le domandai: — Volete dirmi il nome dell’infermiera alla quale vi rivolgeste?
— E che motivo c’è? — replicò Mary Harten stupita. — Quella ragazza non c’entra più ormai… Potrebbe avere delle noie… Sapete bene che la legge vieta alle nurses di prendere iniziative del genere.
Mi parve piuttosto bene informata.
— Appunto — dissi. — Ma non siete obbligata a dirmelo, naturalmente. Volete che mi metta in contatto con i coniugi Hewessy?
— Precisamente, signor Carson. — Mi diede l’indirizzo. — Dite — aggiunse — che darò del filo da torcere se non mi daranno la mia bambina.
Nel tono c’era una minaccia che non riuscii ad afferrare sul momento. Le dissi che le avrei fatto sapere qualche cosa. La donna si alzò, si accomodò sulle spalle la vistosa pelliccia, fece di tutto perché mi occorgessi della bella borsa nuova, poi mi lasciò venti dollari di acconto senza esserne richiesta e se ne andò muovendosi sulle anche.
Georgia affacciò il naso ed emise un sibilo di stupore.
— Quella deve avere svaligiato qual che banca — disse. — O mi sbaglio?
La informai del motivo che aveva spinto la donna nel mio ufficio. La ragazza aggrottò le belle sopracciglia e si mise la matita tra i dentini.
— Uhm, — fece — per tutto l’oro del mondo non vorrei essere figlia di quella lì…
Fu in quel momento che mi tornò in mente Buster, e gli telefonai. Non mi stupii quando udii all’altro capo del filo il tintinnare della bottiglia contro il bicchiere.
— Sei tu? — mi fece.
— Perché non ti sei fatto vivo?
— Ho lavorato come uno schiavo, mi rispose col naso nel bicchiere.
Gli dissi di venire in giornata e riattaccai.
3.
UNA VECCHIA CONOSCENZA
Buster sedette davanti al piccolo bar e cominciò a indicare i nomi delle bottiglie che andava maneggiando: — Half om Half, un bicchierino; Peach Brandy, mezzo bicchierino; Danziger Goldwasser, due bicchierini (questo è dinamite); poi un po’ di Arak Batavia e infine mezzo bicchierino di Akvavit Aalborg e avrai un cocktail colossale.
Lo osservavo preoccupato. Con quel po’ po’ di accidenti sarebbe stato capace di far saltare in aria tutto il palazzo. Invece Buster non batté ciglio, quando cominciò a bere.
— Beh, — mi disse — di che si fiatta?
Gli raccontai di Mary Harten. Mi accorsi con piacere che la cosa cominciava a interessare il mio amico, o era il suo singolarissimo cocktail a fargli suonar bene le mie parole? Fatto sta che Buster venne a sedere sulla scrivania per dirmi: — E che cosa dovrei fare?
— Per il momento poco — risposi. — Voglio sapere come vive e che cosa fa la famiglia Hewessy. Vorrei trovare un punto debole per attaccarla e farle cedere la bambina. Perché fai quella fac cia?
— Perché la Harten non ha voluto dire il nome dell’infermiera?
— Mah, forse per non danneggiarla. Così almeno ha dichiarato lei. In realtà ci interessa fino a un certo punto. Cerca di vedere che aria spira in quella famiglia.
— Mi piace poco quella donna — disse Buster vuotando un altro bicchiere.
— Ma se non l’hai vista nemmeno.
— Non vuol dire. E’ bastato quanto mi hai detto tu. Non è simpatica neppure a Georgia, e questo è già significativo. Georgia ha del fiuto. Un giorno o l’altro te la soffierò per portarla nella mia catapecchia.
— Oh, oh! Decideresti di prenderti una collaboratrice? — esclamai stupito.
— Ma scherzi? Finirò col prendermela per moglie, invece.
Se ne andò ridendo. Sentii un piccolo strillo della mia segretaria mentre Buster usciva: certo aveva allungato le mani.
Per un paio di giorni non lo vidi più. Io dimenticai l’incarico ricevuto dalla Harten, preso com’ero dal caso Petersen. Fu con una certa sorpresa, quindi, che lo vidi riapparire. Aveva una strana faccia, quando mi disse: — Mi hai dato delle gatte da pelare, accidenti!
— Che stai dicendo?
— Alludo a Mary Harten. Posso fare un cocktail?
— Che Harten?… Ma sì, serviti pure.
— Ma guarda, se n’è dimenticato!
Credimi, non ti affiderei nemmeno la tutela di Bob.