Il sole non bagna Napoli
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Anteprima del libro
Il sole non bagna Napoli - Antonella Cilento
L’autrice
Antonella Cilento (Napoli, 1970) insegna scrittura creativa dal 1993, ha fondato e dirige da trent’anni Lalineascritta Laboratori di Scrittura. Dal 2018 coordina e insegna nel primo master di scrittura e editoria del Sud Italia, SEMA. È uscito per Bompiani nel 2021 La caffettiera di carta. Inventare, trasfigurare, narrare: un manuale di lettura e scrittura creativa, intenso racconto del suo lavoro di maieuta.
Dirige da quattordici anni la rassegna di letteratura internazionale STRANE COPPIE. Ha scritto per la radio, il cinema e il teatro, è stata segnalata agli esordi dal premio Calvino e ha vinto il premio Tondelli con la sua tesi di laurea. Con Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori, 2014, tradotto in molti paesi) è stata finalista al premio Strega 2014 e vincitrice del premio Boccaccio 2014. Fra gli ultimi libri: Bestiario napoletano (Laterza, 2015), La madonna dei mandarini (NN editore, 2015), Morfisa o l’acqua che dorme (Mondadori, 2018). Nel 2022 è uscito Solo di uomini il bosco può morire per Aboca edizioni. Attualmente collabora con la Repubblica – Napoli
e con Donne Chiesa Mondo
.
camera con vista – 43
Bottega Errante Edizioni
Via Pradamano 72
33100 Udine
www.bottegaerranteedizioni.it
info@bottegaerranteedizioni.it
Redazione: Laura Zarri
Copyright © 2024 Bottega Errante Edizioni srl
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 979-12-55670-42-1
Pubblicato in accordo con Agnese Incisa Agenzia Letteraria
È vietata la riproduzione totale e parziale del testo
senza l’autorizzazione della casa editrice e degli aventi diritto
Antonella Cilento
Il sole non bagna Napoli
Bottega Errante Edizioni
mappa Napoli
1. Gli occhi sulla città
È curioso che questo libro di visioni e itinerari napoletani sia nato mentre perdevo la vista da un occhio e il sole spariva.
Ero ormai a buon punto nella scrittura quando i fosfeni, che da sempre navigano nel mio fondo oculare, come sirene, melusine e purpetielli nel mare di Napoli, hanno iniziato a depositarsi e compattarsi da un lato, come le alghe del golfo, e a oscurare il mio campo visivo. Così, all’improvviso, avevo perso i miei occhi aperti sulla città, occhi innamorati e critici, occhi abituati a svelare e non a rubare, insomma il contrario delle mani che sulla città misero palazzinari e camorristi ai tempi del film di Francesco Rosi, sfigurandone per sempre il volto antico e fiorente.
Sì, perdere la vista in pieno sole è strano.
Sembra quasi che un demone meridiano ti abbia accecato.
D’estate, i demoni meridiani si mostrano subito più pericolosi dei fantasmi notturni, dei nightmare, delle catene tirate nei corridoi dei castelli. Come molte figure tradizionali delle leggende cittadine, come la Bella ’Mbriana, i demoni meridiani sono illusori, li vedi e non li riconosci, sembrano umani e sono animali, o viceversa.
In un bellissimo racconto di Edith Wharton, intitolato Dopo, a una coppia che va ad abitare in un antico cottage inglese viene annunciato che, sì, un fantasma c’è, come potrebbe non esserci?, ma che lo capiranno solo dopo. Uno sconosciuto viene spesso in visita, infatti, in pieno giorno, e indisturbato se ne va, ma la moglie non lo incontra mai, finché un mattino il fantasma non le porta via il marito. Ma che sia un fantasma, di chi e perché le abbia portato via il marito, lei lo capirà solo dopo.
E così è capitato anche a me: mentre il fondo dell’occhio si chiudeva alla luce, come uno scuro di antica magione, pensavo: si tratterà di un offuscamento, di stanchezza, magari di una precoce cataratta, della mia voglia di non vedere più ciò che ho troppo raccontato, e poi, all’improvviso, non restava che un angolino di immagini, come in uno schermo rotto, e la città del sogno, Napoli, era scomparsa. O meglio, potevo vederla con un occhio solo, peraltro quello che da sempre ci vede peggio. Avevo la vista zoppa.
Occhio di vecchia, Althénopis, così chiamavano Napoli i tedeschi durante l’occupazione, racconta Fabrizia Ramondino nel suo più bel romanzo. E così, mi accingo a scrivere una guida di Napoli con un occhio solo: in fondo, la città si presta da sempre, romanzesca com’è, a essere visitata da diavoli zoppi, a ospitare monacielli che abitano le vasche degli acquedotti e risalgono per rubare, sedurre mogli sole o portare fortuna.
Una città dove passeggiano numerose donne con occhi di vetro, come racconta stupito Sartre in un suo ricordo, che Fabrizia Ramondino antologizza in Dadapolis: Napoli abbonda di uomini e donne con occhi finti; del resto la più antica ottica d’Italia, l’Ottica Sacco, è specializzata nel dipingere a mano occhi fittizi.
E poi, questa è una capitale piena di nane, come scrive Malaparte ne La pelle, ma è anche il luogo capovolto che magiche lenti ingrandiscono, rendendo vicino il distante, come si legge ne Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortese.
Non può stupire che Alexandre Dumas racconti ne Il corricolo, il suo fantasmagorico diario degli anni trascorsi a Napoli, di un fantomatico libro, mai trovato, forse mai scritto, dove si conservano le istruzioni per percorrere l’intera città camminando solo all’ombra.
Insomma, i demoni meridiani che abitano Napoli, pigri, fluttuanti, cannaruti, cioè golosi e affamati, oltre che assetati, lussuriosi e antichi, hanno chiesto un tributo.
Questa storia ti costerà un occhio.
Sicché, mancando sempre qualcosa, questa città che procede per metafore e avanza in una sineddoche variabile, una parola per il tutto, ben si presta a essere selezionata.
Con il retino, anzi con la rètina slacciata dell’occhio, selezioniamo le parole che ci servono.
Finisco in sala operatoria a velocità luce e, mentre mi ricuciono la rètina con ago e filo (il distacco è vasto, niente laser stile Star Wars o Star Trek, ma buona vecchia chirurgia da campo), in sottofondo va della musica jazz e inalo un gas che si unisce a quel troppo di valium, e non so che altro, sparato in vena. Mentre fluttuo nel mio spazio immaginario, eccoli i demoni meridiani.
Sono le luci multicolori che appaiono mentre l’ago cuce l’uovo sodo che è il mio occhio, mentre si cerchia, si taglia, si rivolta e non so cos’altro, il mio povero bulbo oculare.
Sembra proprio Fantasia di Walt Disney: è la prima volta che trovo interessante stare in camera operatoria. Guardo il miracolo della luce impazzita, percepisco la fragilità del corpo ma sono anche rapita da questo cinema di fantasmi: ecco il mio datore di lavoro, il meccanismo che, da tutta la vita, forma le immagini che io muto in storie, posso conoscerlo di persona solo adesso che la rete cattura-icone si è staccata e tutte le mie storie sfavillano frantumate, cascano e rinascono.
E intanto sono del tutto coperta da una cerata azzurra: fa caldo, fa freddo, mi usano come tavolo operatorio, mi poggiano attrezzi in faccia e sul petto, ho i tubicini nel naso, il misuratore di pressione pompa e ripompa ogni tot secondi.
Sta comoda, signora? Come no! Se mi dovessi lamentare aumenterebbero le porcherie con cui mi tengono anestetizzata, quindi occorre partecipare, e allegramente: comodissima!
Ma, in verità, l’inciampo accade loro malgrado, accade a dispetto dei bisturi, dei fili per suture che bisogna fissare con la fiamma: chi ha un accendino?, domanda il chirurgo alla folla di studenti e aiutanti che ci circonda. Nessuno fuma più, nemmeno il Vesuvio.
E mentre i medici si affannano, eccola: la città riappare.
Sono in uno dei suoi ospedali.
Questo è nuovo ma, come molti ospedali del Sud, se ne cade già a pezzi. Da bambina, mi hanno tolto le adenoidi senza anestesia in uno dei più antichi, il San Gennaro dei Poveri, sorto nel cuore del quartiere Sanità come lazzaretto nel 1656.
Scendo le scale da sola in questo edificio che intimidisce, affrescato, arredato di saloni e archi, barocco e muffito. Ho cinque anni, mia madre è rimasta ad attendermi in corsia. Entro in una stanza buia. Il primario, che conosco ma detesto, mi dice: apri bene la bocca. Mi spruzza qualcosa in gola, entra con gli attrezzi. Rumore di metallo. Un fiotto di sangue scende da me in un contenitore simile nella forma ai fagioli che mangia zio Paperone.
Questo è il giorno in cui mi appare per la prima volta la Napoli buia, mortuaria e secentesca. La Sanità è il luogo della morte e delle ossa. Qui sono conservati i teschi del cimitero delle Fontanelle, gli scheletri scolati sotto la chiesa del Monacone, i resti delle sepolture paleocristiane nelle catacombe di San Gennaro e delle sepolture ellenistiche nei sontuosi ipogei scavati sotto Palazzo Di Donato, in via dei Cristallini.
Dunque, ecco le prime due parole: occhi e ossa.
E poi, di nuovo, volo nell’azzurro: vista dall’alto o dal basso, curva, Napoli è una sfera ottica, il cristallo che guardano le streghe, inclusa Amelia la strega che ammalia; somiglia davvero all’orizzonte convesso che dipinge dal mare Bruegel il Vecchio in una sua rara opera italiana.
Dall’alto, per chi arriva in aereo, Napoli è un tripudio di azzurri e violetti, di rosa e di verde. I piloti profittano del bel tempo e passano a volo radente per mostrare l’infinita modulazione del golfo più bello del mondo.
Peccato che l’edilizia postbellica l’abbia corrosa: se si potesse sorvolare una Napoli di centoventi anni fa, la si vedrebbe tutta verde, ubertosa, il giardino d’Europa, colline con boschi, promontori di pinete, orti, coltivi. Ora, bisogna contentarsi dello skyline: sotto di noi c’è l’affare dei palazzinari mafiosi del boom, edificato coi soldi del Piano Marshall. E tuttavia, l’incanto resta immutato: è magia.
La bellezza, anche molto oltraggiata, è davvero dura a distruggersi. Napoli è un affaccio: c’è sempre un balcone da cui guardare la città.
Ed ecco la terza parola: balconi.
Poi, iniziano i contrasti: dall’azzurro perfetto del cielo, terso anche in dicembre e in gennaio, si affonda nelle strette strade del centro antico: vicoli, cupe, rampe, calate, lave, larghi, trivi, salite, scale.
Di colpo gli edifici sono alti e neri, il fondo calpestabile non è mai raggiunto dalla luce. Chi cammina, intrappolato in code turistiche, stupefatte e stordite da odori e sapori, quasi mai alza gli occhi alla città dei tetti, dei balconi, delle facciate, che è tutta spettacolare. Pendono sulle nostre teste cornicioni dell’anno Mille o del Cinquecento, del Secolo dei Lumi o della Belle Époque, fioriti di animali mitologici, cifrati di epigrafi intraducibili, sostenuti da sirene e ninfe, coltivati con fiori stilizzati e rampicanti di gesso e pietra.
Ma non è finita: la città continua sotto terra.
Napoli sotterranea, ovvero la terza città, ha il cielo di pietra: un labirinto di vasche, camminamenti, acquedotti, ipogei, mercati romani e rifugi bellici.
Sì, c’è una parola che ha spesso a che fare con Napoli: guerra.
La varietà è pressocché illimitata , tocca inventare nuove parole per dirla, Napoli. Ma possiamo, davvero, dire Napoli a parole?
Napoli a parole: se fosse un museo, di questi tempi, diventerebbe il Nap, che, capovolto, diventa Pan, il dio ispiratore del caos e dell’eros, dei boschi e del vino, l’ubriaco panzuto satiro che alza una conchiglia d’argento e madreperla colma di vino nel magnifico quadro di Ribera, Il sileno ebbro, conservato a Capodimonte. Peraltro, nella dissennata passione per gli acronimi venuta in voga presso le amministrazioni italiane in recenti decenni, anche Palazzo Carafa di Roccella in via dei Mille a Napoli è stato battezzato PAN, Palazzo delle Arti di Napoli.
Ma queste so’ chiacchiere, direbbe qualunque napoletano.
A parole simmo bravi tutte quante.
Nun me fa’ dicere parole: questo indica che non si vorrebbe insultare qualcuno o straparlare, dove le parole stanno per male parole, parolacce, in italiano. E, naturalmente, le chiacchiere stanno a zero o meglio valgono, come in un celebre detto napoletano, molto poco: Chiacchiere e tabacchere ’e lignamm ’o Banco ’e Napule nunn’ ’mpegna
, cioè il Banco di Napoli, storica istituzione ormai scomparsa, non impegna né le vuote chiacchiere né le tabacchiere di legno. E si potrebbe continuare, lamentandoci come l’innamorato abbandonato nella celebre canzone Catarì delle parole amare che la città potrebbe rivolgerci (Catarì, Catarì, pecché me dice sti parole amare?
).
Insomma, se c’è un luogo su cui si sono esercitati poeti, viaggiatori, scrittori, filosofi, scienziati e giuristi, quello è Napoli.
Una città di citazioni, che si compone ai nostri occhi di parole di pietra, seppellite, disseppellite, esposte, evocate.
Lontano dalle facili cartoline che troverete al cinema, in un serial o dentro romanzetti commerciali, Napoli è un lento viaggio di profondità e di vette.
Intanto, mi hanno fatto uscire dalla sala operatoria: il primario, che è simpatico, mi dice: signora, scriva, scriva!
Esco dall’ospedale bendata e una macchia di sangue si affaccia sulla garza. Devo tornare indietro?, chiedo preoccupata mentre sono già in auto.
Tutt’a posto, tutt’a posto, signò! Vada sicura!
Così, mi trovo nel terrificante traffico del Vomero, intrappolata. Da Fantasia sono finita nel solito film di Bellavista dove si prepara un inseguimento all’americana:
«Taxista, segua quella macchina!»
E il taxi si ferma, bloccato nell’ingorgo uncinato.
È come se la città fosse quasi esclusivamente composta di parole: c’è una città di pietra, fatta