A ritmo umano: In cammino per Santiago
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Anteprima del libro
A ritmo umano - Stefano Carbone
PREFAZIONE
Avete mai sentito il bisogno di una svolta radicale, di un viaggio che vi conduca non solo in luoghi lontani, ma anche nelle profondità di voi stessi? In un'epoca in cui il ritmo frenetico della vita sembra soffocarci, la ricerca di un'esistenza più autentica e consapevole è diventata un'esigenza sempre più sentita. Ed è proprio in questo contesto che A Ritmo Umano
, il racconto di Stefano del suo pellegrinaggio sul Cammino di Santiago de Compostela, si presenta come un'ispirazione e una guida.
Questo libro non è un semplice diario di viaggio, né una guida turistica. Attraverso le parole di Stefano vivrete un’esperienza che va ben oltre la descrizione dei luoghi, delle tappe o dei chilometri percorsi. Vi addentrerete in un viaggio interiore in cui temi universali come il dolore, la perdita, la rinascita, la gratitudine, l’amore, la spiritualità, il coraggio, la libertà e la gioia di vivere, si intrecciano e si fondono con la bellezza dei paesaggi della Navarra, de La Rioja, della Castilla y Leon e della Galicia.
Stefano, con un tono sincero e schietto, ci conduce nel suo cammino personale, rendendoci partecipi delle sue riflessioni, delle sue paure e delle sue emozioni. Il suo approccio al Cammino è quello di un attento osservatore che, rallentando il passo, si concede il tempo di vivere ogni esperienza con pienezza e consapevolezza. Come lui stesso afferma: Rallenta, va’ più piano e trova il ritmo che ti permette di guardarti intorno. Prenditi il tempo...
.
Incontrerete personaggi come Marco, il silenzioso scultore, Camilla, con la sua voce potente e Fernanda, l'anima brasiliana con cui Stefano condividerà i momenti più intimi del suo percorso. Ascolterete le loro storie e vivrete con loro le sfide, le gioie e i momenti di profonda condivisione che solo il Cammino può regalare.
A Ritmo Umano
è un libro che vuole trasmettervi un messaggio potente: la vita stessa è un cammino, un percorso in cui la vera meta risiede nel vivere con pienezza ogni passo, ogni momento. Non è necessario andare a Santiago, ma è fondamentale trovare il proprio modo di rallentare
, di connettersi con la propria essenza e con la bellezza che ci circonda.
Questo libro vi emozionerà, vi farà riflettere e, soprattutto, vi ispirerà a dare una nuova forma al vostro cammino. Vi mostrerà come il dolore possa trasformarsi in gratitudine, come la paura possa diventare coraggio e come la semplicità possa celare la gioia di vivere.
Vi invitiamo a intraprendere la lettura di A Ritmo Umano
con la curiosità di chi si appresta a scoprire un nuovo mondo e con il cuore aperto a ricevere i suoi doni. Potreste sorprendervi di quanto la storia di Stefano possa risuonare in voi e di quanto il suo messaggio possa influenzare le vostre scelte, aprendo le porte di un'esistenza più autentica, consapevole e ricca di significato.
Perché, come afferma Stefano, Qui, c’è tutto
.
INTRODUZIONE
Non è facile. Sedersi, bere qualcosa di caldo, respirare aria fresca. Un po’ di musica e magari un po’ di magica casualità.
L’ispirazione sfugge come l’attimo presente. È preziosa, saltella via. Ma quando riusciamo a coglierla, viviamo un’emozione potente, seppur effimera, che cavalca le pagine senza staccare la penna dal foglio.
Scrivere è un flusso che può trascinare in dimensioni nuove dove si comprendono le cose e tutto ha un senso. I piccoli rituali, gesti quali prendere un bel taccuino e una penna di cui piace l’impugnatura, aiutano a trovare il gusto artistico della scrittura e le idee da mettere nero su bianco.
Quasi come se mi stessi preparando di nuovo per un cammino di lunga durata, raccolgo le idee dopo il mio pellegrinaggio sul Cammino di Santiago de Compostela, dalle radici francesi dei Pirenei fino all’Oceano Atlantico che bagna la costa occidentale spagnola.
Vorrei raccontarvi di quello che ho visto, di quello che ho vissuto, sperando che l’intensità della mia esperienza possa trovare una degna rappresentanza tra le parole di questo libro. Spesso quello che viviamo non può essere davvero descritto: si possono descrivere i fatti accaduti con estremo dettaglio, ma non è facile trasmettere le percezioni dei cinque sensi e le emozioni che accompagnano un vissuto. Finché si resta sul piano della razionalità, si è distanti dal percepire la vibrazione di un’esperienza reale. Un’intuizione, seppur possibile, resta nella mente; mentre l’emozione attraversa tutto il corpo causando brividi di freddo dietro la schiena, sudore nelle mani, lacrime, chiusura di stomaco, arrossamento delle guance, battito accelerato o qualsivoglia forma di reazione incontrollata del nostro organismo.
Perciò lo scopo ultimo di questo racconto, e dello sforzo di trasmettere l’esperienza che ho vissuto, è spronare, risvegliare, sollecitare, smuovere qualcosa nell’animo di chi legge, conducendolo alla ricerca della soddisfazione di una vita autentica, pregna e schietta. Come il sorso di un vino vigoroso che non si racconta bugie.
Leggendo queste parole, che si discostano da quelle di una guida o di un diario di viaggio, l’invito è di provare a guardare attraverso di esse come se questo libro fosse un cannocchiale che ricerca l’essenza, che dà la caccia alla consapevolezza più autentica e che con un tocco di manopola, cerca di mettere a fuoco quelle sensazioni e riflessioni a cui solo un cammino spirituale può aprire.
Il Cammino di Santiago de Compostela è decisamente stato un vissuto che ha stravolto la mia vita. Difficile trovare un punto d’inizio quando l’esperienza che mi appresto a raccontare ha travalicato ogni destinazione e ogni partenza, ogni tappa ed ogni chilometro, divenendo un viaggio dell’anima, sensoriale ed emotivo. Si parte da un cammino fisico e mentale con tappe, paesaggi e difficoltà, e si arriva a vivere un viaggio dell’anima che travalica i limiti del tempo e dello spazio attraverso un’esplorazione che chiede alla propria razionalità di farsi per un attimo da parte, affinché la propria anima possa spalancare le porte del sentire.
UNO
LA CHIAMATA
Il Cammino, come molti affermano, inizia nel momento in cui si sceglie di intraprenderlo.
La data del mio inizio, in questo senso, si colloca tra il gennaio e il febbraio del 2017 quando, in seguito ad un periodo piuttosto difficile, ho sentito il bisogno di una svolta. Volevo fare qualcosa per superare alcuni vissuti dolorosi, per affrontare certi irrisolti interiori e celebrare una nuova idea di vita. Fu allora che ricevetti la mia chiamata per il Cammino di Santiago.
Per alcuni, la chiamata giunge da un amico che ne parla, per altri da un articolo sul web o da una frase in un libro, fatto sta che è il Cammino ad arrivare a noi, a bussare alla nostra porta e a mostrarci il sentiero, non il contrario. Si ha la certezza che si deve partire, e da quel momento i segnali aumentano, si inizia ad essere più percettivi verso quelle cosiddette casualità che spingono al Cammino. Un senso di determinazione prende piede ed è allora che si diventa consapevoli che ciò che impegna
la propria vita, dovrà in qualche modo cessare o prendersi una pausa, affinché si possa mettere lo zaino in spalla e partire.
Quando si arriva a questo punto abbiamo ormai bisogno di affrancarci da quella parte della nostra quotidianità che ci fa sentire a disagio o addirittura, talvolta, in gabbia. E chi potrebbe contraddire parole tanto ovvie? È scontato che non abbiamo bisogno della parte della nostra vita che ci mette a disagio, che ci spegne, che ci stressa e ci fa sentire che abbiamo sprecato tempo. Ma che dire del posto di lavoro o della relazione sentimentale a cui non sappiamo facilmente rinunciare? Talvolta, non è così semplice vedersi, saper riconoscere le abitudini rigide, le relazioni tossiche, le scelte non più adatte a noi, le attività che svolgiamo senza crederci davvero.
Anche su questo il Cammino ci aiuta, nel senso che può capitare che l’istinto di voler mettere lo zaino in spalla e mollare tutto sia così forte, da farci capire che forse nella nostra vita stiamo investendo tempo ed energie in qualcosa che non conta davvero per noi. Così iniziamo a distinguere, a capire, e la nostra lucidità pian piano aumenta fino al punto in cui non ci sono più dubbi sul da farsi.
Non è incredibile? Stiamo deliberatamente ammettendo che il Cammino ci aiuta anche prima di partire, anche prima di mettere i propri piedi su quel magnifico terreno fatto di libertà, sorrisi e gioia ritrovati.
Quindi il Cammino ci chiama, si presenta nella nostra vita improvvisamente e senza che nessuno l’abbia chiesto, ma dove siamo noi nel frattempo? Noi siamo nel bel mezzo delle nostre vite...
Noi siamo lì, chissà dove, chissà perché, a svolgere compiti, a immaginare, a chiacchierare, a mangiare o a fare chissà cosa, quando il Cammino, l’idea di farlo davvero e la speranza di poterne trovare il tempo, appaiono in noi.
Quando ebbi l’idea di fare il Cammino, mi trovavo in partenza per l’Inghilterra. Stavo trasferendomi nel Regno Unito per una proposta di dottorato di ricerca presso una prestigiosa università. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in Ingegneria Aerospaziale nel 2015 e dopo aver lavorato per un anno in Italia, decisi di guardare altrove. Puntai al massimo, pensai che fare ricerca in ambito spaziale fosse la mia massima aspirazione. Cercai proposte di dottorato all’estero e, dopo alcuni mesi, venni accettato per un progetto. Così partii. Lasciai l’Italia ed effettivamente presi casa nel Wiltshire. Diedi il meglio di me e ottenni anche dei buoni risultati. Però alla fine la mia esperienza durò solo pochi mesi.
Qualcosa aveva stravolto la mia vita prima ancora di cominciare il dottorato e, per quanto cercassi di spronarmi ad andare avanti, non potevo far finta che non fosse successo niente o che andasse tutto bene. In qualche modo la mia vita era cambiata, irreversibilmente... Così lasciai tutto, la casa nel Wiltshire, il dottorato, un’opportunità di carriera, la mia vita in Inghilterra, e assecondai il dirompente istinto di tornare in Italia per preparare il mio viaggio per Santiago.
Si può immaginare un momento più assurdo in cui il Cammino chiama? Sarei curioso di osservare la circostanza in cui si sono trovati altri quando hanno capito di voler partire per Santiago.
Per mesi avevo calpestato quel desiderio dentro di me, senza lasciarlo fiorire, non dandogli opportunità di sbocciare. Avevo tentato di girare la testa e non guardare ciò che stavo sentendo dentro. Ma alla fine ne ottenni solo un senso di alienazione che mi portava a stare ancora peggio. Ricordo le giornate passate a una scrivania a guardare fuori dalla finestra, a chiedermi cosa stavo facendo, e ad ascoltare musica che mi facesse evadere da lì.
Poi, tra quei giorni tutti uguali, accadde un momento in cui mi fermai e dissi a me stesso:
«È giunto il momento».
Iniziai a dar spazio all’idea del Cammino e da allora sembrò come se il mondo mi sorridesse di nuovo, accompagnandomi nei miei primi passi. Ciò che era sepolto fiorì, così tornai in Italia e mi dedicai a pensare a cosa mettere nello zaino.
Di certo partii colmo di dubbi e senza sapere se stessi facendo la cosa giusta. Eppure partii, perché, come spesso accade nella vita, era necessario commettere anche eventuali passi falsi e imboccare strade sbagliate per capire davvero quali erano quelle da seguire.
DUE
IL TEMPO DI ESSERE UMANI
C’è chi programma una data del ritorno, che sia dopo dieci giorni, due settimane o un mese, e c’è chi, come me, non pianifica alcun ritorno. Questa è una questione piuttosto personale, che dipende dalle circostanze della vita di ognuno di noi e da cosa si cerca durante un’esperienza del genere. Eppure non pianificare date, quando è possibile, è certamente una condizione fondamentale per vivere il cammino con profonda libertà, senza previsioni, senza tempi, senza scalette di marcia che potrebbero ridurre il potenziale di un tale pellegrinaggio a una mera esperienza sportiva. È senz’altro questa la chiave per darsi carta bianca
nel vivere questa esperienza, per inoltrarsi in un cammino senza limiti che termina solo quando si è pronti a terminarlo.
Nella pratica, non avere dei tempi prestabiliti si traduce nella possibilità di potersi fermare per la notte ovunque, senza l’esigenza di raggiungere un chilometraggio minimo giornaliero, o nella possibilità di restare più notti in un luogo che ci colpisce particolarmente, perché magari abbiamo avuto a che fare con la gente del posto che si è dimostrata molto accogliente. Non avere tempi specifici ci restituisce il dono di vivere un cammino a ritmo umano, in piena connessione con il vissuto presente. Ci aiuta ad accettare le difficoltà, a riconoscere dolori e stanchezza e a dar loro il tempo che meritano. Ci permette di scoprirci a casa in un luogo nuovo, che ci si è dati l’occasione di vivere.
La libertà di dimenticare il tempo ci consente di sprofondare fino al nocciolo dell’esperienza, regolando il nostro passo non secondo un obiettivo di distanza da percorrere, ma a seconda delle capacità fisiche e soprattutto a seconda di un ritmo percettivo. Questo, non essendo né troppo lento né troppo veloce, ci consente di percepire tutto ciò che ci circonda esternamente o che sta avvenendo dentro di noi nell’istante presente. Vivere e viversi, ritornando a quella dimensione in cui il tempo non esiste davvero.
Spesso siamo così immersi in un ritmo di vita che neanche ci facciamo più caso. Anche in un giorno libero, tra i servizi, prepararsi da mangiare, sentire qualche amico o familiare, il tempo scorre veloce, mentre il sole passa dall’alba al tramonto senza che abbiamo il tempo di goderne. Una volta un mio datore di lavoro mi disse: Un giorno dovrebbe durare trentasei ore, così dopo aver dormito e lavorato ci sarebbe anche il tempo per svagarsi, esplorare e divertirsi
. Beh, e se invece ventiquattro ore fossero sufficienti, ma piuttosto siamo noi ad aver creato un modus vivendi che non è sano?
Ecco un paradosso: come si fa a organizzare un’esperienza senza tempo? Organizzare è di per sé un’azione intimamente connessa allo scorrere del tempo. È possibile però limitarsi a organizzare l’equipaggiamento e la partenza, lasciando la parola fine
libera di avvenire quando deve, quando arriva naturalmente il suo momento. Sempre che una fine
debba esserci.
Fa sorridere pensare che, in effetti, a differenza di altri viaggi a cui siamo abituati, per il cammino si organizza uno zaino che è indipendente dalla durata del viaggio. Si prepara uno zaino a cui non interessa se stiamo fuori una settimana, un mese o due. Lo zaino conterrà solo l’indispensabile, sia che si viaggi per una decina di giorni, che per un’intera stagione.
Qual è il peso ideale dello zaino? Cosa mi servirà? Quale abbigliamento scegliere? Si potrebbe dedicare un manuale alla preparazione dello zaino, però la verità è che si tratta di una questione personale.
Io mi presi un bel po’ di tempo per organizzare la mia partenza. Una volta procurato lo zaino iniziai a mettere e togliere cose da dentro per giorni, rivalutando più volte cosa potesse essere davvero essenziale.
Di solito occorrono tre ricambi adatti a frequenti lavaggi. Poi il resto del vestiario era composto da pantaloni modulabili, che permettevano di avere un bermuda di giorno e un pantalone lungo di sera, una felpa e un collo, utilizzabile anche da cappello. Come calzature optai per un paio di sandali di buona qualità, che avrei usato sia la sera che nei giorni di cammino più caldi, e per un buon paio di scarpe da trekking, scelte dopo giorni di ricerca, che abituai al piede facendo vari percorsi di trekking tra cui uno fino alla cima dell’Epomeo, il monte più alto dell’isola di Ischia.
Aggiunsi poi una saponetta, la guida del cammino, il sacco a pelo, la fodera di un cuscino, un impermeabile, un asciugamano, una borraccia, delle spille da balia, da usare come mollette, e poi le due cose più importanti di tutte: un taccuino e una penna.
Ero piuttosto organizzato, anche più dei miei stessi standard, ma c’erano moltissime persone che si erano arrangiate in breve tempo con quello che avevano. E nel caso in cui si commetteva l’errore di portare troppo, c’era sempre la possibilità di rimediare e alleggerire lo zaino lasciando qualcosa agli ostelli, per metterlo a disposizione di altri pellegrini di passaggio.
Di solito è consigliabile partire con uno zaino che pesa circa il dieci per cento del proprio peso. Tuttavia questa non è una cosa semplice da realizzare. Bastano un paio di sandali, una felpa, il sacco a pelo e la borraccia per raggiungere subito gran parte del peso ideale. Lo zaino stesso, a seconda del modello, può pesare all’incirca due chili o poco meno.
Perciò preparare la mochila¹ significa un po’ fare una caccia all’indispensabile selezionando tra le cose che si vogliono portare quelle strettamente necessarie. Ed è così che si arriva a rinunciare allo shampoo, o addirittura a tagliare il gambo dello spazzolino, per scartare 10 grammi qua e 100 grammi là che alla fine possono cumulativamente fare la differenza. Certo non è necessario essere così drastici, ma è per questo che si tratta di una questione personale: che ognuno scelga a cosa è capace di rinunciare.
A volte questa selezione può risultare difficile, ma certo è che anche in questo caso il tempo ci aiuterà e l’esperienza stessa sarà il miglior consigliere a cui riferirsi.
Poche cose
Tanto tempo
Ecco la formula magica
Forse il momento della preparazione dello zaino fu quello che sancì una partenza, non del corpo ma della mente. Con i pensieri ero già lì, in Cammino, a chiedermi se quello che stavo decidendo di portare fosse abbastanza o se mi occorresse altro. A chiedermi quali fossero le difficoltà che avrei potuto vivere e come prepararmi al meglio. E così mi immaginavo già con le scarpe ai piedi e lo zaino in spalla, nel tentativo di sentirmi almeno per un momento un po’ pellegrino.
Un paio di documentari che avevo visto sul Cammino e un libro che avevo letto, mi aiutavano a dare contesto a quella visualizzazione di me sul sentiero. Ma solo quando strinsi intorno alla vita la cinghia dello zaino, ormai pronto con tutto il peso che avrebbe avuto, quello che stavo immaginando acquistò una parvenza di realtà. E mi sentii bene, carico di determinazione, eccitato per la partenza imminente.
Ero ormai pronto. Ripensai agli ultimi mesi, a tutti i momenti difficili, alienanti, in cui mi ero aggrappato alla speranza di quella partenza. Poi la speranza era diventata certezza quando capii che in un modo o nell’altro io avevo bisogno di ricominciare da capo.
C’era un’ultima cosa che avevo messo nello zaino. Non riguardava qualcosa che mi serviva in senso letterale, ma sapevo che si trattava di qualcosa che avrei voluto avere con me: avevo aggiunto al bagaglio una pietra raccolta nel giardino di casa...
TRE
39 DI RUE DE LA CITADELLE
Ritornare con i ricordi sul Cammino è emozionante. Ricordo di quante volte mi guardavo i piedi nelle scarpe da trekking che calpestavano terreni sempre diversi. È come nelle foto in cui il soggetto centrale è sempre lo stesso, mentre gli sfondi cambiano come fossero stagioni. Si passa da strati di brune foglie umide che ricoprono il sottobosco delle montagne della Navarra, alla brulla terra rossa che costeggia i moltissimi vigneti de La Rioja. Dal terreno arido e pietroso delle mesetas della Castilla y Leon, alle verdi colline della Galicia estese fino all’Oceano Atlantico, che bagna le sue sponde con onde di esperienza.
Con altrettanta emozione ricordo il giorno della partenza. Un’adrenalina che metteva in tensione tutto il mio corpo, come se fossi una corda di contrabbasso o di violino in palpitante attesa del gesto d’avvio del direttore d’orchestra. Teso, un po’ insicuro, ma avvolto dall’ardore, pronto a suonare la musica di un viaggio alla scoperta di me.
Era il 29 agosto 2017 quando con la barba rasata e i capelli corti partii da Napoli e raggiunsi con aereo, pullman e treno, Saint Jean Pied de Port. Ricordo che il proprietario del B&B venne addirittura a prendermi in auto alla stazione dei treni. Che controsenso! Io mi stavo apprestando a fare un percorso di oltre 800 chilometri a piedi e al mio arrivo venni scortato in auto dalla stazione del paesino fino al B&B. Rido ancora al pensiero. In mia difesa posso dire che non l’avevo richiesto, ma ahimè il gestore del mio alloggio conosceva approssimativamente l’orario del mio arrivo e, considerando che correvano solo tre treni al giorno, non gli dovrà essere stato difficile capire con quale treno ero in arrivo. Da quel passaggio in auto, che per la cronaca incluse anche un giro esplorativo del paese, io smisi per un bel po’ di ricorrere a mezzi di trasporto che non fossero i miei stessi piedi e le mie stesse gambe.
Quel giorno non ero solo. Potrà sorprendere forse, ma Kinira, mia sorella, partì con me. Contagiata un po’ dal mio sogno, ma soprattutto chiamata anche lei dal Cammino, decise di intraprendere anche lei questa avventura.
Tuttavia noi non facemmo il cammino insieme, in quanto, seppur con difficoltà, le chiesi un accordo chiaro: ci saremmo separati e l’avremmo vissuto ognuno per conto suo. Non c’è nulla di male a fare un cammino in compagnia, ma entrambi avevamo l’esigenza di compiere quell’esperienza da soli, soprattutto non insieme ad un fratello o una sorella.
Fu un viaggio stancante. Volo fino a Tolosa in Francia, poi cinque ore di pullman fino a Bayonne e infine trenino delle diciotto e dispari, l’ultimo della giornata, che conduceva i pellegrini alla tappa numero zero: Saint Jean Pied de Port!
Quante volte ho pronunciato il nome di questa graziosa cittadina francese! Tra pellegrini una delle domande per rompere il ghiaccio è da dove si è partiti, domanda che mi hanno anche rivolto in ogni albergue in cui soggiornavo, dai Pirenei fino a Santiago. È una prassi. Più avanti si va e più si diventa fieri di dirlo: Sono partito da Saint Jean Pied de Port!
.
Certo la storia di questa cittadina è molto interessante: secondo la tradizione è, innanzitutto, la tappa di partenza del Cammino Francese, il quale conduce a Santiago de Compostela partendo dalla Francia a circa otto chilometri dal confine spagnolo. Questo perché anticamente lì confluivano diverse vie europee per i pellegrini della più disparata provenienza, i quali si fermavano in paese per la notte, prima di affrontare la difficile e pericolosa traversata dei Pirenei. Si dice, inoltre, che fosse la capitale dell’antica regione basca della Bassa Navarra e meta, dunque, anche di molti artigiani e commercianti. La parte antica, circondata da una cinta muraria, permette di immergersi subito nel fascino storico del luogo. Anche solo immaginare quanti pellegrini sono passati di lì, facendo il loro ingresso in città attraverso la Porte de Saint Jacques per poi uscirne dalla Porte d’Espagne dopo essere passati sul Vieux Pont, può essere sufficiente a sentirsi attraversare da un brivido dalle mille personalità, come se per un tempo indefinito si diventasse uno di quei sampietrini calpestati per millenni.
Ma c’è di più! Il vero motivo per cui mi soffermo un attimo su questo luogo è raccontare il significato che ha per le persone che vi giungono. Molti magari non se ne rendono neanche conto, ma Saint Jean Pied de Port è il luogo dove il pellegrino, che si accinge a iniziare il cammino, inizia a conquistare la sua libertà. È il luogo in cui il pellegrino inizia ad essere pellegrino. È il luogo che sancisce l’inizio di un’esperienza nuova, rigenerante, di scoperta. Lì il pellegrino inizia a togliersi di dosso i panni del suo ruolo nella società. Lì l’ingegnere, l’avvocato, il disoccupato, il commesso, il parrucchiere, il designer e lo scultore diventano esploratori, navigatori d’animo e scopritori di destino.
È il luogo dove è inevitabile percepire un’aria magica, come il respiro di chi si mette in gioco, illuminato dal sorriso di chi apre le porte della conoscenza di sé. Non c’è aria più pura di quella. Non c’è aria più pura di chi osserva le montagne da scalare e ambisce a superare la sua sfida personale. Il coraggio si mescola così a mille altre sfumature del proprio carattere, che, dinanzi all’imminente prova, rivive tutte le sue tonalità.
Non c’è da sindacare sul tipo di sfida, né sulle motivazioni che la