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Adriano Sofri

giornalista e scrittore (1942-)

Adriano Sofri (1942 – vivente), giornalista, scrittore e attivista italiano.

Adriano Sofri

Citazioni di Adriano Sofri

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  Citazioni in ordine temporale.

  • Pasolini conosceva – di più, ne era specialista – un segreto che noi intravedemmo solo grazie al femminismo: il segreto dei corpi. Che noi non abbiamo, ma siamo un corpo. Che quando facciamo l'amore, mangiamo, giochiamo a pallone, pensiamo pensieri e scriviamo poesie e articoli di giornale, è il nostro corpo che lo fa. Pasolini riconosceva il proprio corpo, e dunque quelli degli altri. Sapeva che esistono i popoli, le nazioni, le classi, le generazioni, e una quantità di altri vasti ingredienti della vicenda sociale, ma li guardava al dettaglio nel modo di camminare e di pettinarsi, di urtarsi per gioco o di ghignare per minaccia. Si sentiva in dovere di essere marxista, ma il suo era un marxismo delle fisionomie, dei gesti, dei comportamenti e dei dialetti.[1]
  • I decenni volano, sono certi pomeriggi che non passano mai.[2]
  • Negli scorsi giorni un altro politico eminente, Luca Coscioni, presidente del Partito radicale, aveva saputo di non essere stato ammesso a far parte di un Comitato bioetico, mancandogli, se ho ben capito, i requisiti accademici. Coscioni, che era per professione scelta un economista e docente, è diventato poi per necessità un impaziente ammalato di sclerosi amiotrofica laterale, e ne è diventato esperto di quella doppia competenza che viene dall'esperienza sofferta e dallo studio metodico. Si sarebbe detto che nessuno avesse titoli più completi dei suoi per entrare in quell'impegnativo comitato, presieduto del resto da una degna persona come Giovanni Berlinguer, se non sbaglio. Invece ne è restato fuori. Nessuna obiezione, purché non si ripeta che non aveva i titoli: si dica francamente anche per lui che è stato portato fuori dai commessi.[3]
  • Perché in questo caso è così difficile assicurare il tiranno vivo a una cella per il resto dei suoi giorni? In verità, si direbbe che il tiranno, l' arte del tiranno, sia ancora troppo affascinante agli occhi di tanti suoi nemici. Assicurarlo a una prigione normale, senza privilegi e senza torture, una prigione mediocre — questo si addirebbe alla democrazia. La si vuole esaltare, invece, in una cerimonia stupefacente, un carnevale della ferocia detronizzata, un Saddam Hussein appeso prima per il collo poi per i piedi, per così dire, davanti agli stessi occhi che si abbassavano terrorizzati dal suo arbitrio.[4]

Dalla prefazione di Proibito parlare

Anna Politkovskaja (2007), a cura di Erika Casali, Martina Cocchini e Davide Girelli, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2022. ISBN 978-88-04-75671-2.

  • Potete trovare in rete qualche sequenza del funerale. C'era un migliaio di persone. Nessun rappresentante del governo russo, nessuna pubblica autorità. Putin era andato a Dresda, e lì stava stringendo la mano alla signora Merkel, molto commosso, perché in quella città aveva avuto negli anni Ottanta il suo apprendistato estero di agente del KGB – Putin si commuove sempre al ricordo del KGB. Non un solo rappresentante dei governi europei, nemmeno a titolo personale, si è fatto vedere, tanto meno dell'Unione – tuttavia il Parlamento europeo in seduta plenaria ha tributato l'omaggio di un minuto di silenzio alla memoria di Anna Politkovskaja. Non c'erano picchetti d'onore, né musiche da requiem o cantate al nome di Giovanna d'Arco, non premi Nobel né scrittori internazionali né leader dei movimenti per la pace, né una qualunque segretaria del segretario dell'ONU. (C'era Marco Pannella, e vada detto a suo merito.) Le Madri di Beslan, le Madri cecene, le Madri di soldati russi – forse ce n'era qualcuna: col cuore dovevano esserci in tante. Uscendo dall'incontro con la Merkel, Putin ha poi avvertito che la giornalista assassinata «aveva un'influenza minima sulla vita politica russa», e che «il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla Cecenia che qualunque dei suoi articoli». I telegiornali governativi russi non hanno parlato del funerale; il canale Rossija ha dedicato mezzo minuto a una notizia sullo stato delle indagini.
  • Della Russia di oggi, ci si chiede se una mezza democrazia sia migliore o peggiore di una dittatura intera.
  • Conoscere Anna Politkovskaja voleva dire sapere che gli assassini la braccavano. Non importa da dove: dal Cremlino o dagli stati maggiori, dal despota fantoccio della Cecenia o dalla deriva di gruppi e agenti segreti a metà fra il servizio al capo e i lavori in proprio, o da quale altro covo di brava gente patriottica, razzista e gonfia di odio.
  • Non solo non sappiamo proteggerle, le persone sulla cui porta l'odio e la menzogna hanno tracciato un segnale per gli assassini, ma ridiamo di loro, o esitiamo a resistere a chi ne ridicolizza la voce. [...] quando Anna denunciò d'essere stata avvelenata, si scherzò sulla sua megalomania o sulla sua paranoia. Si dava delle arie. E poi, addirittura, il veleno, come nelle favole e nei romanzetti. Aveva bevuto un tè, aveva avuto un mal di pancia, magari aveva paura di andarci davvero, a Beslan, e si era inventata vittima di un torbido complotto. Oggi si ride a denti più stretti delle storie di avvelenamenti, dopo che il tallio e il cesio e ora, trionfo della chimica politica, il polonio, hanno dispiegato la loro compiaciuta efficienza con un capo di Stato come Yuschchenko o un ex membro della confraternita come Litvinenko. C'era stato in Cecenia, un vero temibile terrorista islamista arabo, Khattab, ucciso dai russi col mezzo fiabesco di una lettera avvelenata. L'antica Tredicesima Sezione del sovietico KGB, riconvertita nel russo FSB, ha sempre vantato un curriculum di efficienza e fantasia negli omicidi a distanza. Casomai, dopo il tè di Rostov, la piccola sporca sparatoria in ascensore aggiungeva una nota di impazienza e di disprezzo al disbrigo della pratica di Anna.
  • Spaventoso è il numero dei giornalisti ammazzati in Russia – tre, e dei più in vista, solo della «Novaja Gazeta», il giornale di Anna. Ma senza niente togliere al loro sacrificio, in Anna è stato colpito qualcosa di più della libertà di stampa. In un'occasione, Anna dichiarò di aver messo a frutto la professione di giornalista per stare dalla parte delle vittime, e, quando fosse possibile, per portare loro aiuto. Lo fece davvero, che si trattasse di tenere per mano i vecchi da evacuare dall'ospizio di Groznyj abbandonato sotto il bombardamento, o di rifocillare con qualche bevanda gli ostaggi del teatro di Mosca prima della mattanza.
  • Ci sarà, forse, un giorno, un tribunale anche per i crimini di guerra in Cecenia. Gli articoli di Anna ne formeranno gli atti, e anche la sua vita e la sua morte.
  • [Sulla condizione della donna in Russia] Nonostante un'emancipazione femminile così spinta nell'URSS, il maschilismo della leadership sovietica prima e russa poi è restato fortissimo. Se Eltsin si illustrò per episodi imbarazzanti di gallismo traballante, Putin ha portato nello stile presidenziale un madornale virilismo da caserma. È significativo che agli occhi del mondo l'intrepida opposizione al virilismo di Putin si sia incarnata in una donna minuta e inerme come Anna, e che a spegnerne la voce sia occorsa la viltà di un sicario.
  • I ceceni sono il più fieramente patriarcale fra i popoli, e il maschilismo islamico si è sovrapposto solo come un recente e superficiale piano rialzato a una tradizione assai più antica e profonda di eroismo guerriero personale e nazionale. L'autorità degli anziani, l'audacia ribelle e irriducibile del brigante – l'abrek – l'onore guerriero, hanno tenuto il primo posto in questo piccolo popolo, sia quando si batteva fieramente contro il russo ubriacone, sia quando si arruolava nella prima fila sotto le bandiere russe, come per l'ultima volta in Afghanistan. I ceceni, mi ha detto in un villaggio uno di quegli anziani al cospetto dei quali i giovani non avrebbero mai osato mettersi a sedere, sono stati creati da Allah per stare come un moscerino nell'occhio dei russi. E la potenza colossale della Russia diventa furiosa con quel moscerino, i suoi capi grondanti di medaglie e galloni ne vengono mortificati e irrisi, la loro vanità di maschi umiliata in un torneo di galli.
  • Questa è la cifra di Anna, testimone e partecipe dei disastri della guerra. [...] Conosce l'ignobiltà, la prepotenza, e comunque l'impotenza e l'infantilismo dei giochi dei guerrieri, li svela, li rivela, li mette a confronto e ne segnala il vicolo cieco, ma è con le persone, con le donne, coi bambini, coi vecchi dagli occhi arrossati, con le madri dell'una e dell'altra parte che sta. Trovate poche generalità nei suoi scritti, così ostinati e incalzanti: trovate invece le persone e le loro storie tenacemente, minuziosamente, prolissamente seguite in ogni dettaglio, con una pazienza deliberata sotto la quale ribolle lo sdegno e la compassione.
  • Anna sta davvero all'altro capo del mondo in cui spadroneggia Putin, e, dopo essersi guadagnata l'onore di associare al proprio nome il nome di un popolo martoriato, sicché non si possa nominare la Cecenia senza pensare a lei, e lei senza pensare alla Cecenia, si è anche guadagnata, impresa assai più ardua e malvista, il titolo di rappresentante dell'altra Russia. Benché in una minoranza che si è fatta in certi momenti così esigua da metterne a repentaglio l'incolumità stessa, alcuni russi hanno continuato a capire che in Cecenia non si trattava solo di soccorrere un popolo schiacciato, ma di riscattare la buona anima della Russia.
  • La peggiore delle tirannidi non è quella che uccide i suoi sudditi: è quella che arriva a impedire loro perfino di uccidersi.[5]
  • Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato".[6]
  • [Siniša Mihajlović] Lui ha usato e abusato del suo ruolo sportivo per esaltare le sue opinioni, e poiché i suoi idoli erano Arkan e le tigri serbiste e le loro imprese criminali, mi sembra difficile che ideali simili non influiscano sul modo di considerare l'agonismo sportivo e la formazione dei campioni a lui affidati.[7]
  • Icaro mi fa tornare in mente il volo di Lauro De Bosis, che dovrebbe esserle carissimo. Era nato nel 1901 e aveva poco più di vent'anni quando fu invitato a New York e avvertì gli americani dell'infamia della dittatura fascista: proprio come fece poi il Gaetano Salvemini cui lei si ispira, e che fu fra gli amici di Lauro. Nel 1926 insegnò a Harvard e nel 1927 scrisse il poema intitolato così: "Icaro". I suoi famigliari e collaboratori furono arrestati mentre lui tornava dall'Italia in America. Si fermò a Parigi, faceva il portiere d'albergo, traduceva, studiava, preparava antologie di poeti, imparava a guidare l'aereo. Nel 1931 una sottoscrizione gli consentì di acquistare un piccolo velivolo e di caricarlo di volantini. Il 3 ottobre decollò da Marsiglia, arrivò sopra Roma, scese a una quota bassissima, versò su piazza Venezia e sul resto del centro 400 mila manifestini. Aveva preparato tre testi diversi. In uno si leggeva fra l'altro: "Chiunque tu sia, tu certo imprechi contro il fascismo e ne senti tutta la servile vergogna. Ma anche tu ne sei responsabile con la tua inerzia.Non cercarti un'illusoria giustificazione col dirti che non c'è nulla da fare. Non è vero. Tutti gli uomini di coraggio e d'onore lavorano in silenzio per preparare un'Italia libera". De Bosis sapeva che il carburante non gli sarebbe bastato per il ritorno. Precipitò in mare vicino all'isola d'Elba, Icaro di se stesso. La notte prima aveva scritto una "Storia della mia morte". Non era invasato di morte, come gli assassini-suicidi delle Torri. Pensava semplicemente che bisognasse. "Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. Bisogna morire. Spero che, dopo me, molti altri seguiranno, e riusciranno infine a scuotere l'opinione". La sua compagna, la famosa attrice Ruth Draper, intitolò a lui una donazione per una cattedra di italianistica a Harvard. Quel Gaetano Salvemini vi tenne le sue famose lezioni sulle origini del fascismo.[8]

Recensione di Ucraina. La vera storia di Nicolai Lilin, Ilfoglio.it, 19 novembre 2022.

  • Ho [...] l'impressione che l'intero libro sia una frettolosa ricucitura di pezzi indipendenti l'uno dall’altro e risalenti in gran parte al periodo immediatamente successivo al 2014, appena aggiornati da qualche inserto.
  • Lenin è promosso a sincero campione dell'autodeterminazione dei popoli. L'holodomor è ridotto a un capitolo della carestia che ha colpito l'intero territorio sovietico. [...] Il rapporto fra persecuzione e risveglio dello spirito nazionale, e nazionalista, è ignorato, così per l'holodomor e la distruzione dell'intelligenza ucraina alla fine degli anni Venti, come per la guerra di oggi e i suoi effetti ottocenteschi ed europeisti. L'Ucraina indipendente dal 1991 è il regno del nazismo militante e del parassitismo degli oligarchi, che ha eclissato quello di Mosca.
  • C'è un argomento ricorrente nel testo, così come nella generalità delle posizioni di chi sostiene che l'Ucraina non esiste se non come un arto amputato della madre russa, e ne deriva il sacrificio chirurgico di bombardarlo. Che l'Ucraina non abbia altre fondamenta se non le "radici russe", e che pretendendo di fondarsi "sulla differenza dai russi, non fanno che confermare di essere legati saldamente al popolo russo". Argomento grazioso, che riconduce all'impossibilità di essere antifascisti quando vengano a mancare le radici fasciste...

Su Antonio Russo, Ilfoglio.it, 18 ottobre 2023.

  • Era andato, di proprio iniziativa, senza tessera dell’Ordine in tasca, perché non credeva nell’Ordine, nei posti più impervi della terra, si era fatto esperto di guerre. Era diventato dei più apprezzati corrispondenti di Radio Radicale, per la passione che metteva nel lavoro, la generosità e il coraggio, la simpatia per il suo prossimo.
  • Tutti gli elementi raccolti sulla sua morte portavano a una responsabilità dei servizi della Federazione russa.
  • La madre di Antonio è morta nel 2011. Si chiamava Beatrice Russo – come la ragazza del Postino di Neruda. Era una donna colta e libera. Si impegnò con dedizione a difendere la libertà di stampa e a provare la verità su Antonio, sapendo che non sarebbe successo.

Intervista di Federica Manzon, Sellerio.it, 9 novembre 2023.

  • [Sulla guerra in Bosnia ed Erzegovina] Nei Balcani c'era uno Stato, la Serbia, che era imperialista, di un impero che stava andando in pezzi, era animato da una volontà di rivalsa che cedeva al nazionalismo, si appellava a un recupero osceno del passato remoto. Il rapporto tra Serbia e Bosnia non è dissimile, in proporzione, a quello tra Russia e Ucraina, con la complicazione che in Bosnia buona parte della popolazione era musulmana e questo diede alla guerra un carattere etnico.
  • La questione religiosa interviene sempre dopo, è il rifugio dei disperati quando la fiducia nell'ideale si guasta. Per me è stata una sofferenza incredibile vedere alcuni di questi campioni della rivolta [cecena] cambiare se stessi e precipitare nella radicalizzazione religiosa.
  • Beslan non sarebbe esistito senza Putin.
  • [Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022] Per me è sempre stato chiaro che bisogna solidarizzare completamente con la resistenza ucraina, fornire loro armi per difendersi dall'aggressione, ma è altrettanto chiara l'importanza della battaglia culturale: non lasciare che Putin si mangi Puskin.
  • [Sulla guerra Hamas-Israele del 2023] Oggi è doloroso vedere che la questione della responsabilità collettiva viene aperta nei confronti della popolazione di Gaza: l'argomento che i palestinesi hanno votato Hamas, non si ribellano, quindi il bombardamento di massa ha una qualche giustificazione, è intollerabile per qualsiasi popolo in qualsiasi circostanza. Per Gaza è intollerabile ancora di più, perché metà della popolazione è composta da minorenni.

Sulla morte di Aleksej Naval'nyj, Ilfoglio.it, 1 marzo 2024.

  • Non penso che Navalny fosse perdutamente dedito al martirio, e non confidasse al contrario in una propria forza. [...] Io credo che Navalny abbia saputo quello che faceva. E che la sua sfida e la sua ironia lo dimostrassero. Stava alzando il proprio prezzo.
  • Che fossero centinaia, o mille, o duemila, o più, i cittadini russi che si sono messi in fila per il suo funerale, tutte, tutti, dal primo all'ultimo, sapevano perfettamente che cosa facevano, a quale rischio. Hanno scandito il suo nome, si sono mostrati alle telecamere, hanno esibito i documenti, si sono fatti intervistare – soprattutto le donne. Una sola si è mostrata magnificamente sicura di una personale immunità. Alla domanda rivolta a tutte, "Ha paura?", ha risposto quasi ridendo: "Io ho un'età in cui non si ha più paura di niente".
  • Navalny sapeva quello che faceva. Le migliaia di fedeli alla sua memoria e a se stessi che oggi – anche grazie alle televisioni internazionali, sia pure bendate, e ai diplomatici di paesi liberi – l'hanno salutato, lo sapevano a loro volta, e l'hanno fatto sapere ai tanti che rimpiangono o rimpiangeranno di non esserci stati.

Signor Presidente, signor giudice a latere, gentili signore e signori giudici popolari,
ho partecipato con ogni diligenza a questo processo, perché ne va della mia vita, per così dire. Non dirò della mia vita futura; ma piuttosto della passata, più cara e vulnerabile. Nelle pagine che seguono vi affido alcune delle informazioni e degli argomenti che mi sono stati suggeriti dallo svolgimento del processo. Sono troppe pagine, e insieme troppo poche, per quello che vorrei dire. Inoltre, poiché cercano di rispondere alle argomentazioni finali delle varie accuse, sono affrettate e disordinate. Di questo mi vorrete scusare.

C'era la guerra in Cecenia

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Incipit

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Nel 1996 all'autore di questo libro successe una duplice avventura romanzesca. C'era la guerra in Cecenia. Quella che sarebbe passata alla storia col nome di Prima guerra cecena, e che si concluse provvisoriamente con la vittoria di quel minuscolo paese del Caucaso sul colossale esercito russo. Era ancora la Russia di Eltsin. Nel 1999 Eltsin nominò a succedergli l'ufficiale del KGB, che si sbrigò a guadagnarsi i galloni di uomo forte e vittorioso. Grozny fu rasa al suolo una seconda volta. Nel 2000 la partita era stata regolata, benché il conto con i resistenti di ogni affiliazione, dai patrioti laici ai fanatici del terrore islamista, non si chiudesse prima di altri nove anni, e passando attraverso orrori e carneficine come il teatro Dubrovka a Mosca e la scuola di Beslan. In capo a quel decennio la gente cecena, meno di un milione e mezzo di persone, aveva perduto una su cinque delle sue vite, ed era sparpagliata nell'esilio in Europa, in Turchia, nel Nord America e altrove. I suoi capi superstiti piegati si adattarono a diventare i pretoriani feroci ed esosi del nuovo zar.

Citazioni

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  • Che cos'è l'anima russa? Figuriamoci. La parola anima ha comunque a che fare con una specie di sesto senso che avverte della fine del mondo. Quanto al corpo, la Russia sopravvivrà cercando di ritagliarsi a Ucraina, Bielorussia e Kazakistan. (p. 21)
  • L'Abkhazia è l'antica Colchide, quella del Vello d'Oro e di Prometeo incatenato e delle Amazzoni – ma in concorrenza con la nemica Georgia. (p. 23)
  • Gli abkhazi chiamano i pesci di mare anime dell'acqua e non li mangiano, perché si cibano di ciò che sta sul fondo e dei morti. Mangiano solo trote e pesci dei corsi alti dell'acqua dolce. (pp. 29-30)
  • L'aeroporto di Domodedovo è come una stazione di corriere del secondo mondo e mezzo trasferita nel volo. Mercato nero, bagarini di biglieti aerei, zingare infelici, mafiosi ceceni travestiti da portieri d'albergo e ragionieri travestiti da banditi ceceni. (pp. 31-32)
  • [Sull'operazione Lentil] Dissero che fu per castigare i ceceni che avevano accolto gli occupanti nazisti: ma era una calunnia vergognosa, i nazisti non videro la Cecenia nemmeno da lontano. (p. 40)
  • È come se si fosse a Sarajevo, che è il mio intimo termine di paragone, con i carri armati e i soldati serbi dentro la città invece che attorno. (p. 43)
  • A Samashki otto soldati russi hanno violentato due sorelle, la madre che sentiva le urla si è uccisa nel cortile della casa, le ragazze le hanno ammazzate e bruciate. Rastrellavano, saccheggiavano, kontraktniki, con la benda sulla testa, tiravano bombe a mano nelle cantine dove la gente si era rifugiata. (pp. 44-45)
  • Loro hanno fatto la deportazione, ora questo genocidio, ma i russi che violentano ora le donne avranno 45 anni quando i bambini di ora ne avranno 25, e li scoveranno e li ammazzeranno. A Mosca ci sono già russi che spariscono nel niente, dopo essersi vantati in qualche bar delle loro imprese in Cecenia. (p. 45)
  • È nei villaggi che la Cecenia conserva le sue radici. I villaggi sono fatti così: c'è uno stradone di terra, largo e fangoso, e ai due lati le case. Sul davanti sono recintate di lamiere alte e tutte uguali, verniciate di verde per lo più. Dentro ci sono cortili, casoni a un solo piano, più casoni, e dietro gli orti e le stalle. Alcune case hanno qualcosa di aggraziato, nelle finestre in particolare o nei colori o in certe decorazioni dei tetti, che sono a piramide. Le case più importanti hanno stanzoni grandi, adatti alle riunioni di qualche decina di persone. Per terra e sulle pareti ci sono grandi tappeti, daghestani mi pare, o turchi, i più ordinari, non dev'esserci produzione di tappeti in Cecenia. (pp. 53-54)
  • Pensando alla ex Jugoslavia ho chiesto dovunque delle violenze compiute contro le donne. Che ci siano state e frequenti tutti lo sanno, ma è difficile andare oltre. Ogni donna che ha accettato di rispondermi mi ha detto che di fronte a quell'onta non c'è che il silenzio e il suicidio. Questo rende la cosa ancora più tragica che nella ex Jugoslavia. (p. 56)
  • I combattenti sono per lo più fra i 25 e i 30 anni, gli altri vengono rinviati, si scelgono i fratelli minori perché non hanno la famiglia di cui prendersi cura. In genere alla famosa (leggendaria?) longevità fa riscontro una scarsa stima della precocità, anche nei matrimoni, mi pare di capire, e nelle paternità e maternità. (p. 57)
  • A Kizlyar-Pervomayskoye (il nome vuol dire Primo maggio) gli ostaggi avevano ascoltato le notizie di Mosca che annunciavano che erano stati fucilati e avevano capito di essere condannati, e alcuni di loro chiesero ai rapitori ceceni le armi per difendersi al loro fianco. (p. 61)
  • Avevano cominciato a tornare dalla deportazione dopo il rapporto di Krusciov, ma alla spicciolata, e ostacolati. Molti fra i russi che avevano preso le loro case e i loro capi li respingevano, si rivoltarono. Ancora a metà degli anni '60 il ritorno durava. Lo stesso Krusciov, dicono, li aveva odiati capricciosamente, al punto di ordinare la macellazione di 50.000 cavalli ceceni. (p. 71)
  • La «mafia cecena» non ha nessuna cupola, e solo l'idea fa ridere. Già ogni tejp è indipendente. In Russia però la propaganda di guerra contro la mafia cecena ha fatto presa. La mafia cecena del resto esiste. Nella cucina del villaggio di alta montagna ho trovato infilata come un santino, tra le foglie di una pianta grassa, una fotografia di Michele Placido, il «commissario Cattania», come dicono, di cui sono entusiasti, scambiandolo per il campione migliore di quella mafia siciliana che però lui dovrebbe combattere a morte. Si sono fatti l'idea che la Sicilia sia ancora un luogo di culto dei vincoli di famiglia, dell'onore virile, del rispetto per le donne e della giustizia praticata in proprio, cioè degli antichi valori caucasici. (p. 72)
  • La cosa più notevole di queste persone, dopo l'ospitalità e in un certo senso a suo complemento, è l'ingenuità. Sono senza sospetto e, per quello che ne intuiscono, lo disprezzano. Si vergognerebbero di non essere franchi per prudenza: quando si pone loro il problema di come raccontare le cose senza comprometterli, quasi si offendono. (p. 74)
  • In Russia i soldati semplici sono trattati come bestie. Gli ufficiali stanno al caldo, i soldati al gelo. Ogni tanto qualcuno scappa con un carrarmato e gli danno la caccia con gli elicotteri. (p. 76)
  • In alcuni dei blocchi i soldati che vengono a controllare sono ubriachi fradici. Lì l'azzardo è totale. Non gli danno da mangiare, dice la madre russa, e li lasciano ubriacarsi. Poi a Grozny, di notte, ubriachi, sparano. (p. 85)
  • Non è un conflitto fra due nazioni, ma fra due mafie moscovite, i ceceni sono il pretesto. (p. 88)
  • Il lupo sui monti ci vuole per tenere in forma i cacciatori, e Džochar è diventato questo lupo per i ceceni. (p. 90)
  • [Su Džochar Dudaev] Lui è un personaggio forte, forse perfino eccezionale, ma non è quello che può portare la salvezza al suo popolo. (p. 91)
  • [Su Džochar Dudaev] Nelle elezioni del '91 ci furono brogli documentati. [...] Nel '92 le sue azioni erano a zero. Scontro, e azioni rialzate. '93: caduta di autorità in tutte le regioni, e subito di nuovo lo scontro. Con la pace avrebbe perso il potere: è la guerra che lo spinge su. (pp. 91-92)
  • Il presidente dell'Inguscezia, Ruslan Aushev, è un generale che ha avuto la medaglia al valore più importante dell'URSS in Afghanistan, è un uomo intelligente. Sua madre è di Grozny e sulle mappe dei russi delle case da bruciare o da risparmiare la sua non c'era, ma l'hanno incendiata per sbaglio. L'Inguscezia e la Cecenia erano unite prima che Dudaev proclamasse l'indipendenza. (p. 97)
  • [Sul massacro di Samaški] Prima bombardano a tappeto per un giorno e mezzo. Poi entrano e ripuliscono a destra e a sinistra. Impiccano i bambini alla scuola. Gettano granate nelle cantine dove la gente si è rifugiata. Bruciano col lanciafiamme fino a che l'intero edificio è incendiato. Dei soldati che passano dicono alla gente di scappare se possono. Sono drogati, ubriachi. Per tre giorni restano nella città chiusa a sterminare, vietato entrare ai giornalisti. Il quarto giorno fanno entrare solo le donne per cercare i morti, quello che ne avanza, il deputato russo della Duma Shabad, che è piccolo di statura, si traveste ed entra nascosto fra le donne. I morti sono centinaia, bambini, donne, vecchi – gli uomini sono via a combattere. (pp. 97-98)
  • Ruslan Khasbulatov è il ceceno arrivato più in alto nella gerarchia russa: il secondo, dietro Eltsin. Come mediatore si è sputtanato, ma ha fatto buona figura rifiutando di candidarsi alle elezioni e denunciando l'intenzione di divisioni interne. (p. 99)
  • Si va in Cecenia come a un doppio incontro fatale: quello con un'assurda guerra di sterminio condotta da una grande potenza spaventata contro un piccolo popolo coraggioso, e quello col Caucaso, culla dei miti delle leggende e delle lingue dell'umanità. L'incontro con l'antichità favolosa e con la modernità nel punto della sua barbarie estrema. Nei villaggi dalle alte torri di pietra su cui vola l'aquila reale le persone stanno accovacciate a lume di candela a parlare e ascoltare. Parlano anche di notizie nuove appresse chissà come. Parlano della Russia che mentre bombarda e incendia quei villaggi è stata accolta nel Consiglio d'Europa. Parlano del capo della Banca Mondiale che è andato a Mosca a consegnare di persona enormi crediti alla Russia di Eltsin. Come è possibile, si chiedono quei pastori e contadini di montagna, e il visitatore non saprebbe rispondere. Di notte si sente il rombo dei bombardieri, quando fa giorno portano il visitatore a vedere le case colpite, i luoghi in cui sono cadute bombe destinate a esplodere a tempo quando la temperatura si alzerà fino a 10-15° sopra lo zero, sarà salutata così qui la primavera. (pp. 100-101)
  • Tre, quattro volte per secolo i russi fanno la guerra al Caucaso. Uccidono, bruciano villaggi e boschi, deportano, saccheggiano. Li chiamano banditi, soprattutto i ceceni, i più fieri e irriducibili fra i popoli della montagna. Ero venuto, in febbraio, a vedere e a dire che quei «banditi» erano in realtà un popolo martoriato – le vittime di due anni di guerra, civili i più, sfioravano già il 10 per cento della popolazione – e pieno di prodezza. (p. 114)
  • In Cecenia una tradizione di rapimenti per riscatto c'è, ma il sequestro di stranieri venuti da volontari a soccorrere è una vergogna contro ogni tradizione. Banditi, dicono i ceceni con disprezzo, e vogliono dire che tra quelli e i bojeviki non c'è niente in comune, e si augurano che non siano neanche ceceni ma forestieri, magari i cugini ingusci. Cecenia e Inguscezia sono strettamente affini e anzi sono state fino a poco fa un solo paese, ma ecco che di fronte alla vergogna dei volontari rapiti e dell'ospitalità violata i ceceni riscoprono le massime del cattivo vicinato – «Mai dare le spalle a un inguscio». (p. 114-115)
  • Il Caucaso è in Europa. L'Europa vi nacque. È qui che l'aquila squarcia ogni giorno le carni del Prometeo incatenato. La Russia perde l'anima in Cecenia. L'Europa vende l'anima alla Russia. (p. 124)
  • Le ragazze cecene, anche in città, sono riservate ma con sguardi improvvisi e improvvisi spacchi nelle gonne. Gli uomini ceceni possono avere più mogli e vogliono avere molti figli, esigono che le loro ragazze arrivino vergini al matrimonio. I giovani pensano che si possa scherzare più liberamente con le ragazze russe. Le giovani donne cecene deplorano l'appartatezza e la soggezione domestica in cui sono tenute, parlano di come quella vita le invecchia presto e dicono: ma che fare? Subito dopo sono pronte a ridere anche dei loro uomini padroni. Del resto le donne hanno tenuto con un coraggio straordinario la piazza di Grozny durante l'occupazione russa. (p. 127)
  • [Su Šamil' Salmanovič Basaev] È intelligente, molto sobrio, palesemente ambizioso. [...] Ha un record impressionante per l'età – e anche a prescindere dall'età: il dirottamento aereo in Turchia; la difesa del parlamento a Mosca al tempo del putsch contro Gorbaciov-Eltsin; il sequestro, 14 giugno 1995, dell'intera città di Budjonnovsk e del suo ospedale, 350 km dentro il territorio russo; la difesa del Palazzo della Presidenza a Grozny, da dove fu l'ultimo a uscire; le imprese del Battaglione Abkhazo; e alla fine la riconquista di Grozny, 6 agosto, tre mesi fa. (p. 132)
  • Nella guerra di due anni che ha decimato le famiglie e ridotto le case in macerie, i ragazzi di 15 anni hanno combattuto fieramente e hanno dimenticato la vita normale, e ora devono impararla senza vestiti civili, senza una scuola restata in piedi, senza l'abitudine ai pensieri sul futuro. Ragazzi pasoliniani, scandalizzati d'esser ripresi in mutande. Siccome nelle case di Grozny l'acqua non arriva ed è inverno, vanno a fare la doccia a cielo aperto sotto i tubi sforacchiati dell'acqua calda che corrono accanto alle tubature del petrolio, e si fanno gli scherzi come nello spogliatoio di una palestra cittadina. (p. 139)
  • [Su Džochar Dudaev] Era, anche fisicamente, una specie di moschettiere temerario e ribaldo – una certa somiglianza con Salvador Dalí, anche. (p. 143)
  • Fin dal funerale di Dudaev si è ripetuta l'antica leggenda miracolosa della scomparsa e della resurrezione: nessuno ha visto la salma, dicono: «Džochar tornerà». (p. 143)
  • [Su Ibn al-Khattab] Arabo, non vuole dire di dov'è, ha perso tre dita della destra maneggiando un ordigno, ha a che fare col Pakistan, forse è del Kuwait [è saudita], lo dicono figlio di un ricchissimo, ha imparato il farsi persiano in Afghanistan, il russo in Tagikistan e in Cecenia, l'inglese lo sapeva. Ha un viso notevole, gran capigliatura e barba. (p. 145)
  • In verità i più derelitti nell'orrore di Grozny sono stati proprio i cittadini russi, quelli fra loro che non hanno avuto i mezzi per rifugiarsi altrove: abbandonati e malvisti dai russi della madrepatria, privi di ogni pensione. Gli anziani di Grozny non hanno avuto neanche, a differenza dei ceceni, la risorsa decisiva del legame coi vilaggi e con la loro economia naturale. (p. 149)
  • Maschadov, l'unico militare di professione fra i leader ceceni (oltre al suo ex assistente, l'elegante e leale Ilyas Akhmadov), è anche il più politico, il più duttile e responsabile. [...] Ha una faccia intelligente, un accurato abito civile, un eloquio senza enfasi e una timidezza, non ci ha fatto l'abitudine. (pp. 149-150)
  • Maschadov, che è forse il più laico fra i leader ceceni, pensa a una piena libertà di rapporti internazionali del suo paese, senza vincoli speciali né con i paesi islamici né con la Russia. (pp. 150-151)
  • Parole italiane più note in Cecenia: mafia, carabinieri. Frase più nota: Finita la commedia. Personaggio più noto: Celentano. (p. 153)
  • Il giovane [ceceno] che è vissuto per anni negli Stati Uniti e si occupa di computer mi spiega che cosa succede se un ragazzo viene su omosessuale (che possa succedere a una ragazza, non lo immagina nemmeno): che la famiglia lo ammazza, subito. (p. 153)
  • Barzelletta sulle orecchie di Maschadov: un Cyrano delle orecchie. Dudaev gli dice: se vogliamo svignarcela dai russi, io mi taglio i baffetti. Tu che fai, con le orecchie? (p. 157)
  • Barzelletta sui russi e i ceceni. C'è una guerra di frontiera fra russi e cinesi. Al Cremlino c'è il panico. Finché uno dei generali ha un'idea: chiediamo aiuto ai ceceni. Vanno, e spiegano la cosa agli anziani dei ceceni. Gli anziani stanno a sentire in silenzio, e alla fine dicono: «Aspettate, dobbiamo consultarci». Si ritirano per un po', poi rientrano: «Abbiamo una domanda». «Prego». «Quanti sono questi cinesi?». «Più di un miliardo». «E dove cazzo li seppelliamo?» (p. 157)
  • Sarajevo era crivellata, Grozny schiacciata. Viavai di carri armati russi, enormi, con su soldati in mimetica grigionera, benda nera o rossa attorno alla fronte, sdraiati o seduti gli uni addosso agli altri, kalashnikov e lanciarazzi, fino a dieci, dodici, con la faccia feroce e drogata. Rovine e gente accoccolata che vende pane. Rovine di tubature e tralicci. Rovine di case e di alberi. Morti seppelliti alla rinfusa, nelle aiuole spartitraffico, nei cortili – poi riesumati, e riseppelliti. «I nostri seppelliscono i morti, loro li lasciano senza sepoltura». (p. 169)
  • Nel pieno del raduno in una caserma approfitto della confidenza ormai stabilita per fare pubblicamente a Shamil delle obiezioni alla sua candidatura alla Presidenza, e ne nasce una lunga discussione in cui lui dapprima ha un'aria interdetta, e tutti gli astanti stanno sospesi come aspettandosi una sventura: poi Shamil si mette a ridere e «accetta la provocazione», dice, anzi ringrazia per la franchezza. Prima di tutto, dico, c'è la sua immagine internazionale, di terrorista nel peggiore dei casi, di capo solo militare nel migliore: questo non accrescerà la diffidenza e l'isolamento della Cecenia? Poi il fatto che la gara elettorale fara di lui il capo di un partito fra gli altri, mentre il suo prestigio fa di lui ora un leader adorato e quasi fuori dalle parti, l'unico candidato a far rivivere l'antico sogno della Federazione dei popoli Montanari del Caucaso, oltre le frontiere cecene. Infine la sua età così giovane dovrebbe suggerire di far tesoro del tempo piuttosto che bruciarlo. (p. 202)
  • [Su Šamil' Salmanovič Basaev] È amico di Maschadov ma diffida di chi gli sta attorno. Abbiamo conquistato l'indipendenza, dice, ora dobbiamo conquistare la libertà. (p. 202)
  • Chiedo anche a lui: come mai in ceceno non c'è nessuna parola per dire prego, per favore? Sono parole ipocrite, dice, parole che pronuncia il debole col forte, il servo col padrone, e per i ceceni non c'è servo né padrone. E un ceceno non prega nessuno. Ma allora perché dire grazie?, obietto, ma siamo d'accordo tutti che grazie è la più bella parola in tutte le lingue straniere. (p. 203)
  • Shamil è spiritoso, e nei suoi comizi le risate sono forti e allegre. Però vuole anche lui convincermi che due mogli è la misura giusta, perché una sola è fastidiosa, due si zittiscono a vicenda. (p. 204)

Citazioni su Adriano Sofri

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  • Da noi esiste un signore, Adriano Sofri, che è stato condannato a 22 anni di reclusione per l'assassinio sotto casa di un commissario di polizia, dopo nove processi, di cui uno, caso rarissimo in Italia, di revisione, avendo quindi goduto del massimo di garanzie che uno Stato può offrire a un suo cittadino. Eppure Sofri ha scontato solo sette anni di carcere e, senza aver potuto usufruire dei normali benefici di legge, che non scattano dopo solo sette anni su ventidue, è libero da tempo, e scrive sul più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica, e sul più venduto settimanale della destra, Panorama, e da quelle colonne lui ci fa quotidianamente la morale ed è onorato e omaggiato dall'intera intellighentia che, ad onta di tutte le sentenze, lo ritiene, a priori e per diritto divino, innocente. (Massimo Fini)
  • Di quel gruppo di talenti e di figure in cui s'è specchiato il meglio di una generazione, resta comunque eccezionale il personaggio Sofri. Ho detto prima di [Claudio] Rinaldi e di [Renato] Mieli, e del loro accorto equilibrio tra la fedeltà alla loro generazione e l'esercizio implacabile del principio di prestazione e di efficacia. Se c'è uno invece che giudica il principio di prestazione men che zero è Sofri, uno che pure è capace di splendide prestazioni intellettuali. A lui la riuscita, la carriera, il collocamento gerarchico nella zona nobile di un'istituzione riconosciuta, a lui tutto questo significa men che zero. Lui mira molto più in alto. Gli interessa esercitare l'imperio sulle anime, che gli siano devoti quelli che stanno dalla parte del Bene. Lui sì che era e resta «sessantottino», con quel di eroico che il termine comporta, ma senza quel che di limitato e di intellettualmente miserevole c'è in tanti altri reduci del Sessantotto. (Giampiero Mughini)
  • In quegli anni la vita l'abbiamo vissuta spontaneamente, nessuno sapeva quel che sarebbe accaduto dopo. Quando Lotta continua si è sciolta, quando abbiamo capito che erano pie illusioni, ognuno è tornato nel proprio ruolo: lui è tornato a fare il professore, io l'operaio. Era naturale. (Leonardo Marino)
  • Nei suoi articoli per «La Repubblica» Adriano Sofri è talvolta verboso, prolisso, disordinato, ma lo leggo ogni volta con attenzione, coinvolgimento e spesso con ammirazione anche perché sa esprimersi con fulminea concisione. (Morando Morandini)
  • Secondo me la sua forza è stare in prigione. [...] Se esce ha meno tempo di scrivere. [...] Non vuole chiedere la grazia. In prigione fa quello che vuole, è trattato con guanti bianchi, scrive quanto vuole quello che vuole, guadagna un sacco di soldi e vive gratis. Mi pare una situazione accettabile. (Giovanni Sartori)
  • Sono orgogliosa di avere come nonno dei miei figli un uomo che ha ingiustamente subito una condanna a 22 anni di carcere per qualcosa che non ha commesso, e che è sempre rimasto la persona straordinaria che è. (Daria Bignardi)
  1. Da Pasolini, scandalo senza eredi, la Repubblica, 3 novembre 2000.
  2. Citato in Che pomeriggi azzurri e vuoti, la Repubblica, 29 gennaio 2003, p. 32.
  3. Citato in Luca Coscioni, Il maratoneta, a cura di Matteo Marchesini e Diego Galli, Stampa Alternativa, 2005, p. 155.
  4. Da Il tiranno e il suo boia, la Repubblica, 7 novembre 2006, p. 1.
  5. Da Tristi e consolati, la Repubblica, 14 novembre 2008.
  6. Citato in Dissi 'Calabresi sarai suicidato', Corriere della Sera, 8 gennaio 2009.
  7. Da Piccola posta, Il Foglio, 28 maggio 2010.
  8. Da Una mia vecchia lettera non spedita a Oriana Fallaci, Il Foglio, 29 marzo 2016.

Bibliografia

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  • Adriano Sofri, Memoria, Sellerio, 1990.
  • Adriano Sofri, C'era la guerra in Cecenia, Sellerio, 2023, ISBN 88-389-4594-2.

Voci correlate

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