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Enrico Nencioni

poeta, critico letterario e traduttore italiano

Enrico Nencioni (1837 – 1896), poeta, critico letterario e traduttore italiano.

Enrico Nencioni

Citazioni di Enrico Nencioni

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  • [Jean Paul] [...] la personificazione dell'umorismo... Fantasia di una incomparabile ricchezza ed esuberanza, egli scherza con gli astri e coi fiori, piange sui sepolcri delle nazioni e sopra un rosignolo accecato, sogna sogni tremendi in cui Cristo annunzia ai morti che non c'è Dio, e descrive la toilette di una fiorista che si sposa.[1]

Medaglioni

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  • Aveva appena nove anni [Jeanne Antoinette Poisson, meglio nota come Madame de Pompadour] quando le fu predetto che sarebbe stata la favorita del re di Francia. La madre, corrotta e galante, diceva di lei ancor giovinetta, ed in sua presenza: E un boccone da re. (p. 3)
  • [Madame de Pompadour] La natura le aveva dato l'istinto della seduzione, il gusto innato della toelette, il sentimento e l'amore dell'arte, una diabolica vivacità parigina, l'orrore della noia, una grazia ineffabile ed una rara bellezza: fisonomia espressiva, simpatica; occhi di un colore misterioso, indefinibile, cupo-azzurri, dagli sguardi lenti, irresistibili; magnifici capelli castagni; denti ammirabili; un sorriso rallegrante su due labbra voluttuose di un roseo pallido. (pp. 3-4)
  • [Marie-Jeanne Bécu, contessa du Barry] La donna era bellissima. Di persona svelta, flessuosa, di forme perfette, di una carnagione che i contemporanei paragonarono a foglie di rosa bagnate nel latte. Aveva, grazioso contrasto, ciglia nerissime e occhi azzurri, abitualmente socchiusi, dagli sguardi lunghi, voluttuosi, dalle occhiate assassine, come le chiama Musset: i capelli più belli, più morbidi, più lunghi che si potesser vedere, seta e oro, abbondanti, naturalmente ondati; un collo di statua antica, magnifiche spalle, mani da gran signora. (pp. 25-26)
  • Vera birichina di Parigi, [la du Barry] faceva vedere nelle sue matte risate una doppia fila di magnifici denti al triste Borbone [Luigi XV] che la guardava non visto. E questa sincera allegria fu l'incanto che lo tirò nella rete. Quel viso ridente, allegro, spiritoso, malizioso, che rivelava ingenuamente tutti i vizi degli enfants des rues di Parigi, non aveva traccia né di ostentazione, né di menzogna, né di insolenza. Ciò piacque al re, che vedeva ridere tanto poco a casa sua... Fu sorpreso, incantato da quella libertà, da quel riso, da quella gioia: e quella sera medesima la fece venire a palazzo. (pp. 26-27)
  • La Du Barry ruppe tutte le leggi dell'etichetta, e anche del decoro, nei palazzi reali. Vestiva sempre a modo suo (e troppo spesso non vestiva affatto), anche in ore di cerimonie solenni... [...] Essa portò a Versailles i modi e il linguaggio delle pescivendole, e la sua condotta giornaliera fu per sei anni un continuo schiaffo alla monarchia. Essa annunzia addirittura la Rivoluzione! (p. 39-40)
  • Durante il processo, la Du Barry fu calma e nobile. Condannata a morte, tentò prima di salvare una sua amica egualmente condannata, la duchessa di Mortemart. Ma poi, tutto ad un tratto, fu assalita da una paura di bambina, e come se allora per la prima volta avesse sentito parlar di morte e di ghigliottina, cominciò a urlar disperata... Non voleva morire! Messa a forza sulla carretta fatale, essa implorava la folla insultatrice per via: «Mes amis ... sauvez-moi! je n'ai jamais fait de mal à personne... La vie, la vie! qu'on me laisse la vie, et je donne tons mes biens à la nation.... » E un sans-culotte le rispose: «Tes biens! mais tu ne donnes à la nation que ce qui lui appartient déjà...» (pp. 45-46)
  • Madama Roland, serena, bianco-vestita, coi bei capelli disciolti che scendono in doppia lista sull'eroico suo petto, conforta i suoi compagni di supplizio, e infonde loro il suo virile coraggio, e chiede una penna (che le è negata) per scrivere «gli strani e grandi pensieri che le suggerisce la morte.» Madama Roland credeva ed amava. (p. 47)
  • [Sophie Arnould] Aveva sedici anni: un corpo di fata, una voce di rosignolo. Gracile, ma ben fatta, il volto di un perfetto ovale; due grandi occhi neri chiedenti pietà o provocanti; magnifici capelli biondi; una bocca socchiusa abitualmente a un sorriso di voluttà, fresca come una rosa di maggio, dalla quale uscivano irresistibili le note languenti dell'amore, o le supplichevoli della preghiera, o le flebili del dolore. (p. 53)
  • Garrick[2] dichiarava che la sola attrice francese che gli parlasse agli occhi e al cuore, era una cantante, Sofia Arnould. Essa portò nella sua arte un elemento nuovo e che fu una vera rivoluzione; l'emozione sincera, l'azione drammatica naturale, il cuore nel canto. (pp. 54-55)
  • [Sophie Arnould] La sua voce non era forte, ma dolcissima e simpatica. Era una voce che si prestava mirabilmente alle parti che rappresentava: Psiche, Lavinia, Ifigenia morente trascinata agli altari e implorante gli Dei... Una voce palpitante, una voce-anima, e che i nemici del sentimento, i naturalisti di cento anni fa, tentarono di censurare con questa mordace definizione dell'abate Galiani[3]: «C'est le plus bel asthme que j'ai entendu chanter.» (p. 55)
  • Uomo destinato a errare nella procella e crear del dolore, in lotta aperta col suo secolo, Rousseau portava nel suo fatidico seno tutte le tempeste della imminente Rivoluzione, insieme alle tempeste del suo proprio cuore. La sua influenza è durata fino a oggi, e forse è interrotta, ma non cessata. Tutti, o quasi tutti i grandi scrittori, chi più, chi meno, ne hanno subito il magnetico incanto. (pp. 82-83)
  • Non era bella [Jeanne Julie Éléonore de Lespinasse], ma piacente per lo spirito, la grazia, la squisitezza del gusto, la finezza dei modi; per la soave amabilità del sorriso, l'intelligenza e la profonda espressione degli occhi, che avea neri e bellissimi. Vestita con elegante semplicità, piaceva generalmente, e godeva di accorgersene... (p. 91)
  • Malinconica spesso [la Lespinasse], sentì fin dalla prima giovinezza la vanità e il disgusto della vita; e gracile di persona, ed emottoica fin dai diciotto anni, era di una sensibilità nervosa eccitabilissima; talché può dirsi che essa riuniva in sé, in modo più singolare che raro, tutto ciò che sulla terra procura o fa più intenso il dolore. (pp. 91-92)
  • Ho riletto Valérie: e il libro mi ha tratto a fantasticare un po' sul suo autore, su quell'adorabile madame De Krüdener. La pàle baronne[4] mi distrae da due giorni da ogni occupazione; sono innamorato della sua penna, della sua danza, delle sue preghiere, e del suo famoso scialle di mussolina. Mi vien voglia di mettermi in ginocchioni come Benjamin Constant o come lo Czar Alessandro, per dir con lei le devozioni, aspettando «les inspirations supérieures.» (pp. 113-114)
  • [Madame De Krüdener] Io la vedo in tutti i momenti più notevoli della sua vita. La vedo quando, sotto il Direttorio, essa apparisce la prima volta nei salons di Parigi, bionda, pallida, fine ed eterea, circonfusa da una nuvola di bianchi veli, e gira attorno i suoi grandi occhi calmi, color verde-mare: bellezza scandinava, illuminata da un pallido raggio di sole polare, calma e fredda come la neve delle sue native Dofrine... Ma ecco Bergasse e Saint-Pierre e Garat che la circondano e la invitano a danzare. Essa cede di buona grazia, chiede il suo scialle di mussolina azzurra, si alza, e comincia la danse tableau. La scandinava è diventata a un tratto una parigina! La vita, l'emozione, traboccano dai suoi gesti, dai suoi sguardi, da ogni suo movimento. Essa si trasforma in cento modi: ora è Niobe impietrita dal dolore, ora è Galatea che fugge inseguita... Alla voluttuosa Odalisca che languidamente invita e resiste, succede la vivace ridente napoletana che balla la tarantella, e batte il terreno a passi rapidi e fitti come la grandine... (pp. 114-115)
  • Le armate alleate [dopo la definitiva sconfitta di Napoleone] sono entrate in Parigi. La Santa Alleanza ha anch'essa i suoi poeti, i suoi angioli propiziatori; e la sua Sibilla, la sua Velleda, in Giuliana Krüdener. La casa di lei si trasforma in un tempio; essa vi aduna delle assemblee religiose dove si commentano Swedenborg e Saint-Martin, si prega, si canta, e si profetizza... «Alessandro[5] sarà l'Angelo bianco, il genio dei nuovi tempi!...» E Alessandro non tralascia di far qualche visita al tempio... e alla sacerdotessa. (p. 115)
  • [Teresa Gamba Guiccioli] Statura piuttosto piccola; gracile, ma perfetta di forme: bianchissima di carnagione: sorriso etereo, Correggiesco: occhi veramente italiani, pieni di languori e di tempeste, di sorrisi e di lacrime.
    Aveva diciassett'anni: era di nobile famiglia, i Gamba di Ravenna, ed usciva allora di convento. Il conte Guiccioli era vecchio, era vedovo, ma era anche ricchissimo... e gliela dettero in moglie. (pp. 123-124)
  • Essa [Teresa Gamba] fu amata sinceramente e passionatamente dal più grande poeta del secolo, giovine e bello, nobile e generoso. Essa fu il solo vero amore di Byron, dopo le prime vaghe sue affezioni d'adolescente. Nel cuore di Aroldo[6] essa non ebbe succedanei o rivali; vi regnò unica, e non lo cedé che alla Grecia. Qual trionfo per una donna!
    Ma, in compenso, essa fece a lui un bene anche più grande, infinitamente più grande. Essa brillò come un'iride su l'uragano di quell'anima, e vi portò la calma, la serenità, la giovanile freschezza. Essa ricompose e acquietò quel cuore esulcerato e agitato, quel cervello minacciato dalla pazzia. Essa rese a Byron il rispetto di sé medesimo, e per lungo tempo la pace e l'armonia della vita. Essa, essa sola, seppe farlo pianger d'amore. (p. 128)
  • [...] quando l'innato senso eroico di Byron lo spinse ad andare a combattere e morire per la libertà della Grecia, essa [Teresa Gamba] che vedeva così a un tratto finir tutto per lei, seppe eroicamente sacrificarsi. Non fece né elegie ne scene: ma si immolò in silenzio, e fu grande; come solo le donne veramente amanti sanno esserlo. Felice in questo, che la immatura morte di Byron le lasciò intatta e pura la poesia della passione, né fu costretta, come tante infelici, a edificare sulle ceneri dell'amore il tempio dell'amicizia!... (pp. 138-139)
  • [Elizabeth Barrett Browning] Quando la vidi la prima volta fu nell'agosto del 59, verso sera, nel giardino di villa Orr. Delicatissima, e già malata di petto, essa era in quell'ora vespertina, tutta avvolta in un ampio scialle di lana. Parlava poco, ed a bassa voce. Di tratti non regolari, e non bella; ma un volto esprimente, indimenticabile. Bellissimi, abbondanti i capelli che portava sciolti ed inanellati. Ma sopratutto mi colpì il suo sguardo; quei suoi grandi occhi non mi usciron più dalla mente. Ci vidi la passione e la malinconia, le prostrazioni e gli entusiasmi che spirano dalle pagine di Aurora Leigh. (pp. 146)
  • [Elizabeth Barrett Browning] L'amore fu per lei il più grande avvenimento della vita, e inalzò il suo cuore, e col cuore l'ingegno, alle più elevate regioni poetiche. Il contrasto della volontà paterna, la lotta, il dramma che ne seguì, dettero al suo amore per l'illustre poeta Roberto Browning, tutte le tempeste e l'estasi di una vera passione. Alla fine furono uniti in sacro legame questi due insigni e differentissimi ingegni. L'una passionata, ardente, subiettiva; l'altro calmo, impassibile, obiettivo, profondo e inesorabile scrutatore del cuore umano e della natura. (pp. 149-150)
  • [Thomas Carlyle] [..] ebbe insieme l'amore, la pace, l'indipendenza, la salute e il necessario impulso al suo genio, da una donna [Jane Welsh Carlyle], — da quella che fu sua moglie e suo angelo tutelare, confortatore ed ispiratore per quarant'anni. Donna mirabile per generosa abnegazione, per delicatezze ineffabili, per pazienza costante, per i suoi sorrisi e per le sue lacrime; sanctissima conjux come l'avrebbe chiamata Virgilio. (p. 172)
  • Jane Welsh era bella, giovine, nobile, ricca, corteggiata da molti. Ma il suo cuore aveva bisogno di sacrifizio, di entusiasmo e di fede. Conobbe il povero giovine [Thomas Carlyle] in lotta colla fortuna e col mondo, e nei suoi tristi profondi occhi vide brillare una luce divina. Credé nell'avvenire e nella gloria del genio: credé alla felicità di aiutarlo col suo amore, e lo amò consacrandosi tutta a lui. Lo sottrasse alla miseria, allo sgomento, gli portò il pane materiale e il pane spirituale ad un tempo. (pp. 174-175)
  • L'innocenza della sposa ha una grazia particolare, che naturalmente tocca il cuore dell'uomo: essa ha la vera libertà della parola, dello sguardo, del sorriso, del gesto. Le altre non son libere che nei momenti di ebbrezza: nel resto sempre artificiali e legate. (pp. 181-182)
  • Da questo eccellente libro [la corrispondenza dell'attrice pubblicata a Parigi, a cura di Giorgio d'Heylli] è apparsa ai miei occhi una nuova Rachel; non più nelle solenni attitudini della tragedia, nel costume di Fedra o di Atalia, ma una donna semplice, affettuosa, spiritosa, e soprattutto sincera sempre; nelle gioie, nei dolori, nei trionfi, nelle umiliazioni (ne toccarono anche a lei), nelle malattie, e nella morte. Più che della stessa arte che era la sua passione, essa parla e si preoccupa in tutte le lettere, dei suoi bambini, della madre, delle sorelle, e ha spesso accenti di ineffabile tenerezza. (pp. 191-192)
  • Povera Rachel! Come ti hanno calunniata, anche i critici tuoi ammiratori! «La Rachel, diceva un d'essi, è una specie di Lamia[7], una donna serpente; e riesce grande nella rappresentazione delle passioni perverse e diaboliche. Essa ha un volto e un portamento che paion fatti apposta per esprimere il veleno dei caratteri che rappresenta.» Perché essa conservava una inalterabile nobiltà statuaria di gesto, anche nei momenti di violenta passione; perché non ricorreva a contorsioni epilettiche o a isterici singhiozzi da melodramma, l'accusarono di insensibilità: e uno dei più famosi appendicisti di Francia la chiamò ad dirittura «artista incomparabile, ma senza cuore.» (pp. 192-193)
  • [Elisabeth Rachel Félix] [...] essa era l'antica Melpomene, un anacronismo vivente in pieno secolo decimonono. Tutto in lei era fatto a raffigurare e interpretare l'antichità, la sana e forte e serena antichità di Fidia e di Sofocle, che essa traduceva dagli alessandrini di Racine; i suoi grandi e profondi occhi neri, il suo sguardo da Nemesi, le chiome corvine, l'ovale perfetto del volto, e la fronte d'antica regina, fatta per il cerchio d'oro dei Greci, o per la fascia israelitica. Con un gesto, con una piega del manto, col levare del braccio, con l' inclinar della fronte, essa otteneva effetti più potenti e più sicuri che altre attrici con piangere e scalmanarsi; o col ricorrere a strani mezzi di raffinato artifizio, a delle chatteries di cocottes vestite da Andromaca o da Medea... (pp. 193-194)

Nuovi medaglioni

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  • [Teresa Cabarrus] Bella e strana, capricciosa ed elegante, dissoluta e pietosa, essa avea per divisa: - vivere e lasciar vivere, godere e far godere. La sua fiorente bellezza avea del Giunonico; ma la gamba forte e nervosa e il piccolo piede perfetto le davano un'agilità da Tersicore. I suoi grandi occhi neri, inondati di fiamme, raggiavano di bontà e di voluttuosa passione. I magnifici capelli bruni cadenti a ciocche, ondulanti a rivi sul collo e sul florido petto come neri serpenti, le davano l'aria tragica di Medea. Attirava, allettava... e a momenti faceva paura. (p. 52)
  • [Teresa Cabarrus] Il suo sorriso, di invito e di abbandono, di voluttà e d'ironia, maligno e intelligente, pietoso e irresistibile, piegava come giunco le volontà più virili. (p. 52)
  • La Tallien [Teresa Cabarrus] spinse col proprio esempio anche le donne a pubblici esercizi di forza e di destrezza fisica: e le donne divennero Automedonti[8] e Atalante[9]. Emancipata e audace, la virago parigina, vestita di una leggera tunica greca, i capelli cinti da un semplice nastro scarlatto, guida la quadriglia fiammante, e con mano virile impugna la sferza del circo.
    Al Campo di Marte, Madama Tallien, vestita di una nuvola di rosei veli, dalla sua carrozza color sangue di bove, incoraggia e applaudisce, mentre un cerchio di ammiratori assedia l'invidiata vettura. È la dea delle feste pubbliche, è la soprintendente della moda e del gusto. Essa fa portare nei palazzi del Direttorio arpe e pianoforti – rende alla luce e distribuisce con accorta saggezza le collezioni di musica di Maria Antonietta, di Madama Elisabetta, di Bombelles. Col proprio esempio, rimette in moda la mobilia di Pompadour e le porcellane di Sèvres. È l'idolo degli artisti, degli attori, dei cantanti, dei letterati. A volte la sua immensa popolarità le dà stanchezza e disgusto: la vile e adulatrice moltitudine le dà sui nervi. – Ah, veramente, – esclama sbadigliando – "le malheur de l'esprit est de charmer les bêtes.[10]" (pp. 56-57)

Saggi critici di letteratura inglese

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  • L'opera di Browning fu ingegnosamente paragonata ad un grande edificio gotico con una curiosa e felice mistura di Rinascimento italiano. L'Italia, un'aura, un calore e un colore italiano compenetra e contrassegna i venti volumi di Browning. Alcuni dei suoi principali capolavori sono di origine o di argomento italiano, qua pensati, qua scritti in tutto o in parte. La nostra pittura, la nostra musica, il nostro Risorgimento, rivivono nelle maravigliose pagine del poeta. (pp. 48-49)
  • Vernon Lee, come artista appartiene più alla scuola critica francese che a quella inglese. Essa ha più analogia, più affinità elettive col Taine e col Michelet, che con qualunque insigne critico inglese; benché un accento Ruskiniano vi si faccia talvolta sentire, malgrado l'autrice... Come il Michelet, Vernon Lee ha la immaginazione simpatica, la facoltà di rianimare e rievocare personaggi ed epoche spente, di vivificare le più aride e astratte teorie con la luce della poesia e col calore dell'entusiasmo. Pur nonostante l'Inglese si rivela a ogni tratto, anche quando sostiene delle cause che hanno aria di paradossi, nella logica e serrata concatenazione degli argomenti, nello scrupolo delle investigazioni, nella importanza data a esperienze o impressioni personali, nella solida architettura della composizione, e in una vena di umorismo talora benigno e indulgente, talora caustico ed aggressivo.(p. 78)
  • Byron nato con ingegno piuttosto unico che raro, servo e vittima delle sue indomate passioni, è forse il più subiettivo di tutti i poeti. Come L'Alfieri, non intese e non rese che sé; Byron Aroldo, Byron Lara, Byron Manfredo, Byron Don Giovanni, ecc. Originale sempre e sempre sincero anche nelle monotone pitture delle sue tempeste interiori, misantropo e violento; poi tenero, soave e patetico, la sua poesia è un'azione continua, una vera epopea individuale. (pp. 128-129)
  • Shelley, sublime utopista, visionario entusiasta, vagheggiò e adorò fin dall'infanzia un mondo ideale e edennico; credé al trionfo immancabile e definitivo di una religione d'Amore universale, di fraternità, di eguaglianza. Ma volendo, nella sua commovente semplicità e sincerità, uniformare alle sue idee la sua vita, passò d'errore in errore, di dolore in dolore, ma sempre puro, sempre buono, sempre grande e sempre infelice. L'arte fu la sua unica consolazione, la natura il suo asilo. (pp. 130-131)
  • Il preraffaellismo inglese fu la reazione di giovani e coscienziosi artisti contro la pittura ufficiale d'accademia; un ritorno, non per ispirito di imitazione, ma per simpatia di intenti e di metodo, all'arte fiorentina del Quattrocento. Fu, in sostanza, una applicazione alle arti plastiche di quella rivoluzione letteraria nella scelta degli argomenti, di quel rinnovamento nel linguaggio poetico, già felicemente eseguiti da Cowper, da Burns, da Wordsworth, da Coleridge: e in parte anche da Keats, dallo Scott e da Tennyson. (pp. 139-140)
  • Dante Rossetti è un mistico contemplatore e adoratore della bellezza femminea – un dugentista italiano, nato, per capriccioso anacronismo della sorte, a Londra, in pieno secolo decimonono. Tutta la sua opera poetica deriva, in linea retta, dalla Vita Nuova. Questo divino fiore venato di sangue, questa mistica Rosa imperlata di lacrime ha lasciato un profumo in tutti i versi del Rossetti. (p. 141)
  • Roma è la città unica, urbs et orbis che simboleggia e comprende le cose più disparate. Vi sono in Roma cinque o sei Rome, che hanno il loro carattere particolare e i loro speciali ammiratori e visitatori. Winckelmann e Overbeck, Goethe e Châteaubriand, Shelley e Lamartine, Byron e Veuillot, l'hanno adorata con eguale entusiasmo. Dall'Apollo di Belvedere, ai graffiti e ai mosaici Bizantini; dal semplice altare scavato nel tufo delle Catacombe, alle magnificenze liturgiche di San Pietro; dal palazzo dei Cesari, dal Colosseo e dalle Terme, alle Chiese dei Gesuiti e ai palazzi e alle fontane del Bernini; dalla desolata e pittoresca solitudine della Campagna, ai parterres ricamati e agli alberi pettinati delle Ville principesche; esistono in Roma i più spiccati contrasti. È la città dialettica per eccellenza. Essa concilia tutte le espressioni della storia e della vita, nella solenne unità della sua grandezza e nella infinita malinconia delle sue memorie. (p. 187)
  • Vi è in Roma focolare e alimento per tutte le gradazioni e i caratteri della devozione cristiana: dalla primitiva e severa fede degli apostoli e dei martiri, dall'ascetismo ardente e visionario del medio-evo, alle regolate e disciplinate devozioni degli Exercitia, e alle tenerezze mistiche della Filotea. La fede di Châteaubriand e quella del ciociaro vi sono egualmente appagate: a breve distanza, possono qui inginocchiarsi il puritano e il gesuita: chiunque s'inchina alla Croce, ha in Roma una patria. Aggiungete, che il rituale cattolico qui dispiegato in tutta la sua immensa varietà e in tutta la sua pittoresca magnificenza, tocca il cuore del credente, e colpisce l'occhio dell'artista. Dalla messa cantata nella Sistina, alla tragica tumulazione di un cappuccino, che galleria di quadri viventi offre la Roma cattolica! (p. 196)
  • Una vivente espressione della Roma divota io l'ebbi, venti anni fa, in una visita che feci allo studio del pittore Overbeck. Disegnava quel giorno un cartone di soggetto evangelico – la vocazione di San Matteo. Non scorderò mai quella figura tedesca, severa ed ascetica; in perfetta armonia con le linee un po' dure, ma caste e spirituali dei suoi disegni. Mi parve un Santo di Alberto Durero[11], o della vecchia scuola senese. Egli ci illustrò il suo cartone in tono quasi compunto, ma nobile nell'accento e nel gesto. Aveva un lungo soprabito nero, i capelli lunghi raccolti dietro le orecchie sotto una papalina di velluto. I suoi occhi verdi-grigi mi rammentaron quelli di San Luca di Velasquez. Fu gentile con tutti i numerosi visitatori: ma in special modo con un povero cappuccino che pareva proprio mortificato di tanto onore.... e che non sapendo come corrispondervi in miglior modo, offrì al pio artista una presa di tabacco. Overbeck accettò, e gli sorrise con un sorriso fine di prete e d'artista – degno di esser notato da Sterne. (pp. 197-198)
  • Il poeta della gran Guerra Americana, è Walt Whitman.
    Se il genio non fosse, com'è, una straordinaria e meravigliosa conciliazione di ragione e di immaginazione, di fantasia e di euritmia, in uno stesso intelletto; se bastasse il divus afflatus la visione infinita, l'entusiasmo umanitario, Walt Whitman potrebbe collocarsi accanto ai pochi poeti sovrani. E nonostante i suoi difetti, non so chi potrebbe contrastargli in America il primato della poesia. (pp. 208-209)

Saggi critici di letteratura italiana

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  • Subito dopo le prime opere del Bernini, e lui ancor vivente, il barocco trionfò, divenuto un contagioso delirio, nelle lettere, nelle arti e nella vita: nei poemi, nei drammi, negli edifizi, nelle statue, nei quadri, nel lusso, negli spettacoli, nelle mode, nelle questioni d'onore, nel cerimoniale, a Corte, in chiesa, nei conventi, in casa, dappertutto. Chiese e palazzi a piante poligone, come il San Francesco di Paola in Milano, che rappresenta un violoncello; colonne festonate e bistorte, un perpetuo aborrire dalle linee rette, ondulazioni che danno il capogiro, come se i marmi patissero di convulsioni; frontespizi rotti, e sul loro pendio santi e angeli coricati; figure sedenti sui cornicioni a gambe spenzolate, che è una passione a vederle... (pp. 120-121)
  • [...] se volete avere un'idea complessiva di quell'epoca [la fine del Seicento] odiosamente barocca, guardate di quali immagini, di quali simboli, di quali forme, circondavano il luogo dell'ultimo riposo; di quale immenso catafalco di pesanti vanità e di dorate menzogne volevan coperti i loro nobili scheletri! Non vi è grande chiesa di Roma, di Napoli, di Venezia, di Milano e di Firenze, che non sia profanata (è la vera parola) da uno di questi monumenti pomposi della vanità impotente, e della ridicola adulazione. Sono ammassi di marmo e di stucco dorato, cariatidi di Mori orribili in marmo nero, draghi impossibili che sorreggono un barocco sarcofago, e sopra, in alto, l'eroe guerriero o magistrato o erudito, in armi o in toga, ma sempre in parrucca, stendente il braccio con un gesto di attore applaudito, sotto un gran tendone di marmo giallo o sanguigno. Ai suoi lati, figure allegoriche vestite alla Romana, la Virtù, il Valore, la Vittoria, la Giustizia con le solite bilance da droghiere, la Fama con la solita tromba di saltimbanco, gesticolano e si contorcono come prese da un attacco di epilessia. La iscrizione in pomposo latino, incisa a lettere cubitali, è anche più barocca del monumento. (pp. 128-129)
  • L'umorismo è una naturale disposizione del cuore e della mente a osservare con simpatica indulgenza le contradizioni e le assurdità della vita. Ogni nostro riso ha per origine una apparente o latente contradizione. I terrori di Sancho, le allucinazioni di Don Chisciotte, i vanti di Falstaff, le paure di Don Abbondio, i piani di battaglia dello Zio Tobia, ci divertono per la loro sproporzione con la realtà delle cose. Il sentimento e la meditazione del disaccordo fra la vita reale e l'ideale umano, fra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze e miserie, è il fondo d'ogni vero umorismo; il quale nasce più dal cuore che dalla mente, e sotto il sorriso nasconde quasi sempre una lacrima. Un eroe in veste da camera, osservato a tutte l'ore tra le pareti domestiche da un arguto e affezionato servitore – tale è l'uomo sotto la lente dell'osservatore umorista. (p. 176)
  • Carlo Hillebrand e Vernon Lee hanno fatto una identica e giustissima osservazione sul carattere dei vari romanzi e novelle di Hoffmann: cioè che egli, autore di racconti fantastici è il solo novelliere tedesco che abbia vivo e preciso il senso della realtà. Infatti, certi suoi personaggi, come l'archivista Lindhorst, lo studente Anselmo, Krespel, son veri ed umani quanto un personaggio di Balzac. Dirò di più: l'influenza di Hoffmann è evidentissima in molte pagine della Comédie humaine. E forse appunto a motivo del suo realismo, Hoffmann è una simpatia e una ammirazione per i Francesi, ed è poco pregiato in Germania. (p. 243)
  • Hoffmann [...] è una natura puramente artistica: è un poeta, un musicista, un caricaturista, un attento osservatore della natura e dell'umanità nelle loro espressioni più curiose, più originali e più strane. (p. 243)
  • Hoffmann cercò nell'Arte non solo la fonte e l'espressione della Bellezza, ma anche la sorgente di ogni gioia e di ogni conforto; sentì forse con più intensità di tutti la poesia dell'arte: e visse solo di quella e per quella. Come per Balzac, i personaggi immaginari eran per Hoffmann le più intime conoscenze e le vere realtà della vita. (p. 244)
  1. Da L'umorismo e gli umoristi, [1884], ristampato in Saggi critici di letteratura italiana, Firenze, 19112; citato in Vittorio Santoli, La letteratura tedesca moderna, con un'analisi della letteratura contemporanea di Marianello Marianelli, Sansoni/Accademia, Firenze/Milano, 1971, p. 218.
  2. David Garrick.
  3. Ferdinando Galiani detto l'abate Galiani.
  4. La baronessa pallida.
  5. Alessandro I imperatore di Russia.
  6. Personaggio letterario, protagonista del poema Childe Harold's pilgrimage di Byron.
  7. Le lamie, nella mitologia greca, erano figure femminili in parte umane e in parte animali, rapitrici di bambini o che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne.
  8. Automedonte, personaggio della mitologia greca, auriga di Achille.
  9. Atlante.
  10. La sventura della mente è incantare le bestie.
  11. Albrecht Dürer.

Bibliografia

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