Abissinia/Capitolo I
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CAPITOLO I.
Origine della spedizione. — Partenza. — A bordo. — Alessandria e Cairo. — Ziber pacha. — A Suez. — Nel Mar Rosso. — Suakin. — Sul postale egiziano. — Arrivo a Massaua.
Fu nel settembre del 1878 che per la prima volta vidi farsi concreta la speranza di un viaggio in quell’interessante e misterioso paese che per doppia ragione fu detto Continente Nero.
Era un coraggioso industriale nostro, il comm. Carlo Erba, che aveva ideato di armare una spedizione, che, tenendo la linea di Kartum, Galabat, Gondar, Goggiam e possibilmente lo Scioa, scendesse poi al Mar Rosso, esplorando commercialmente quelle contrade: io l’avrei seguita colla pura veste del dilettante. La cosa doveva farsi se non misteriosamente, almeno tranquillamente, sperando riportare grate sorprese, e non disillusioni per coloro che troppo facilmente si lasciano trasportare dagli entusiasmi che nascono per simili imprese in paesi, nei quali come da noi, non vi si è abituati. Ma la cosa entrò presto nel dominio del pubblico, i giornali ne parlarono, si propose una società per sottoscrizioni. Erba rinunciò generosamente all’interesse proprio nella speranza di un bene avvenire pel suo paese; fu costituito un Comitato, alla presidenza del quale fu chiamato a sedere lo stesso Erba; fu decretata la spedizione che naturalmente assunse ben maggiori proporzioni. Mi seduceva assai più il primo disegno, ma l’occasione parvemi favorevole, l’itinerario seducente, quindi, avanti, dissi a me stesso, forse è giunto il giorno di realizzare uno dei più bei sogni della mia vita.
Dalle cognizioni assunte leggendo libri sull’Africa e studiando un pochino i viaggi che vi furono intrapresi, capisco che il còmpito di esploratore non è pane pei miei denti. O farlo bene o non farlo: essere ufficiale, ma non semplicissimo ed ignoto soldato del piccolo esercito di volontarii che tentano da ogni lato di avanzare per quelle ignote terre. Si esplora in grande colla fede, il tempo, la pazienza di Livingstone o coll’ardire e i mezzi fisici e materiali di Stanley: si esplora in piccolo essendo geografo, naturalista, od avendo in qualsiasi ramo l’arredo di cognizioni necessarie onde si possa portare un obolo qualunque alla scienza: sempre poi dev’essere guida la più profonda abnegazione. Io non ho questi requisiti, e per di più e per buona fortuna ho tali vincoli d’affetto che mi legano alla famiglia, che non mi permettono di fare viaggi dei quali è imprevedibile la durata, nè di avventurarmi in paesi dove ogni comunicazione si richiuderebbe dietro i miei passi. Approfitto dunque dell’occasione di una spedizione puramente commerciale per visitare l’Abissinia che molto mi interessa, e farmi un preciso concetto di questi paesi quasi vergini e selvaggi: del come vi si viaggia, delle peripezie che vi si incontrano, degli usi e costumi degli abitanti, della loro ricca flora e fauna. Chi sa che la fortuna non mi sorrida! che le grandi cacce non mi siano propizie! che per tutta la vita non abbia a portar meco buona memoria e soddisfazione di quanto mi decido a fare!
Procurati i libri e le carte che mi pareva potessero tornarmi utili, mi diedi ai preparativi d’oggetti materiali, che furono tutti racchiusi in cassette tali da potere per peso e dimensioni formare, con una il carico di un portatore, con due quello di un mulo e con quattro quello di un camello. Armi e munizioni come un po’ di pratica mi insegnava, buone flanelle, abiti forti e comuni, scarpe che ricordano l’alpinista, qualche provvigione da bocca, qualche farmaco, e molta fede in Dio che nulla mi faccia mancare, e conservi sempre bene chi col cuore lascio in Italia: famiglia ed amici. E non dimentichiamo uno dei più importanti elementi, cioè disposizione a sofferenze e privazioni di ogni genere, come pure ad incorrere in disinganni su tutta la linea.
Così armato, il 17 novembre lasciavo il lago di Como con quanto ho di più caro al mondo, per avventurarmi nel nuovo pellegrinaggio.
In un interessante suo libro, disse un amico mio, che il più bel giorno di un viaggio è quello della partenza: a me spiace d’essere in questo di parere diametralmente opposto al suo, trovando che lo è invece quello del ritorno: e la miglior conferma la trovo in questo, che specialmente trattandosi di viaggi lunghi e avventurosi, il giorno della partenza si vedono lagrime sugli occhi di chi se ne va e di chi resta, al giorno del ritorno è spontaneo il sorriso della consolazione sulle labbra di chi torna e di chi aspetta: da questo lato durante l’assenza hanno sofferto tutti: eppure sapendo di soffrire e di far soffrire, si parte; e qui il dovere imporrebbe che chi si rese colpevole se ne giustifichi dando ragione del suo operare, ma a questo non mi resta che domandare che mi si dica cos’è il fascino, ed ancor io allora, lo spero, sarò perdonato. Una naturale inclinazione mi porta a leggere libri di viaggi: fra tutti, le avventure di chi toccò l’Africa sono quelle che maggiormente mi divertono, mi esaltano, mi interessano, mi fanno nascere il desiderio d’esserne non solo giudice, ma attore: sento che è, e sarà un vuoto nella mia esistenza se non tento almeno di diventarlo; l’irrequietudine diventa di me padrona, non sono più io che decido di partire, è una forza misteriosa che mi ci spinge, sono i due poli di forza elettrica che irresistibilmente si attraggono, il fascino dell’Africa, la forza misteriosa che mi domina.
La sera del 21 lasciavo l’incantevole golfo di Napoli a bordo dell’Egitto, vapore di Rubattino, con un temporale indiavolato che dalla coperta del bastimento non ci concesse neppure di dare l’ultimo addio a questo lembo di paradiso disceso nella crosta terrestre. Al mezzogiorno del 22 si gettavano le ancore davanti a Messina che appena si ebbe il tempo di visitare alla sfuggita, perchè alle quattro si ripartì, lasciando a terra due giovani sposi francesi che inebbriati dall’amore o dall’incanto del paesaggio, scordarono l’ora destinata a proseguire per la loro meta, il Cairo. L’elica riprende il suo continuo e monotono girare, e ciascuno dei passeggeri cerca ragione per scambiare qualche parola con chi per parecchi giorni è obbligato a menar vita comune. Per vero dire io non sono molto entusiasta della vita di mare; è bella, ma monotona, e a bordo di un bastimento sono tante le circostanze che devono concorrere a renderla veramente aggradevole, che ben difficilmente si può avere la fortuna di trovarvele tutte riunite. Vi sono però sempre dei bei tipi che vi divertono o vi interessano, e per noi italiani, che siamo sì poco avvezzi al viaggiare, v’ha spesso da stupire o da imparare. Era, per esempio, con noi una gentilissima signora belga, vedova di un inglese, che non avendo visto da due anni suo figlio impiegato in Birmania, vi si recava con due sue ragazze, a fargli una visita, colla stessa indifferenza come se la farebbero da noi due signore nel fissato giorno di ricevimento. Una famiglia di Californesi, padre, madre e figlia, che partiti da S. Francisco, passando per Nuova York, approdarono in Europa, la attraversarono tutta fino in Russia, scesero in Italia, andavano in Egitto, passeranno poi per le Indie, la China il Giappone e torneranno così, a Dio piacendo, a casa loro, fieri di aver fatto il giro del mondo, certamente però più in fretta che bene. Un giovane Marocchino, stabilito per affari a Genova, coll’elegante suo costume: era mussulmano, e ordinando la sua religione che non si può cibarsi di carni d’animali uccisi da mani per loro impure, ci offriva ogni giorno il divertimento di farsi carnefice dei bipedi e quadrupedi che ornati d’intingoli, preparati da mani cristiane, assaporava poi molto abbondantemente quando ve lo chiamava il suono del sospirato campanello. Un giovane Tedesco che si recava a cercar salute in più miti aure, ma, forse più pauroso che ammalato, ci divertiva colle sue continue agitazioni vedendo capovolgersi il bastimento ad ogni colpo di vento, una tempesta in ogni nube e la sera fanali di vapori che venivano ad investirci, in ogni stella. Qualche altro passaggero e il buon capitano Martino, vecchio lupo di mare, senza complimenti, ma tanto franco e cordiale.
La mattina del 26 ci schieravamo fra i molti altri bastimenti che bene allineati popolavano il porto di Alessandria. Non eravamo ancora completamente fermi e la coperta era invasa da quella massa di arabi chiassosi che parlando qualche frase di tutte le lingue vi si offrono come facchini, come battellieri, come agenti dei diversi alberghi: sono insistenti, nojosi, impertinenti se volete, ma la bellezza del cielo, la novità dei tipi e dei costumi, la contentezza del riveder terra, vi fa dimenticare tutto quello che potrebbe essere noja; e trovate bello persino il chiasso che vi fanno d’attorno, e la poca civiltà dei modi coi quali cercano di impossessarsi di voi e del vostro bagaglio.
Rivedo questo bel paese, lieta memoria del mio primo viaggio in Oriente, e subito ritrovo qualche buon amico con cui passo un pajo di giornate, e il 28 parto pel Cairo, dove da una settimana si trovano Matteucci e Ferrari, due dei compagni di viaggio: conoscevo già il primo, ora strinsi la mano al secondo: è abbastanza difficile l’intima convivenza di questi lunghi viaggi, ma subito trovai in Ferrari un uomo di carattere tanto leale, e di modi e d’aspetto tanto simpatici, che dal primo vederlo non dubitai saremmo stati buoni amici per sempre, e non mi sono ingannato.
Circa la nostra spedizione, trovai un importante cambiamento nell’itinerario: invece di raggiungere Gondar passando per Kartum e Galabat, vi si andrà per Massaua e Adoa, seguendo, se si potrà, l’altra via nel ritorno.
Da quando vidi Cairo la prima volta, trovo che ha perso moltissimo: i quartieri europei con grandi fabbricati a portici, e l’elemento europeo che si va infiltrando nei quartieri arabi, sono certo a maggior comodo di chi vi abita, ma a grave discapito dell’originalità del paese. Il Kedive crede erigersi un monumento di gloria facendo della sua capitale una seconda Parigi, ma parmi invece che rovini un paese, e oso dire una civiltà cui si poteva togliere quanto v’ha di barbaro, rispettandovi però quanto v’ha di bello e di caratteristico.
Andai cercando un magnifico viale fiancheggiato da sicomori dove ogni giorno mi recavo a godermi degli splendidi tramonti che dietro le lontane piramidi infuocavano l’orizzonte: era uno di quegli spettacoli indescrivibili che ricreano lo spirito e innalzano la mente, ma che non v’ha penna, nè penello, nè fantasia che possano ritrarre, e mi trovai invece rinchiuso in una via fiancheggiata da grandi fabbricati, e allo sfondo sorgeva un prosaico e fumante camino da opificio. Povero Oriente come ti vestono da Arlecchino! Fra poco cercheranno di sostituire le tue eleganti palme con dei tozzi gelsi, i tuoi variopinti costumi con delle tube e dei frak, e spargeranno di belletto le abbronzite guance dei tuoi figli, per renderti una brutta copia della decrepita Europa. Ma come il tuo sole impavido non teme che questo fantasma di civiltà possa far velo all’ardore dei suoi raggi, tu, stattene fermo e non permettere che i vizii che porta seco abbiano a corrompere la più bella delle tue doti, quella che per te è legge sacra, l’ospitalità.
Fummo da un amico invitati a fare la conoscenza di Ziber pacha, che in quel momento più che mai attirava l’attenzione della politica e dei curiosi in Egitto. È questi nativo del Darfur dove sempre visse. Uomo di intelligenza non comune e di spiriti belligeri, seppe col senno e colle armi conquistare tutta quanta quell’estesa provincia, che poi mediante trattati sottomise al Governo egiziano, ritirandosi lui in Cairo ove ebbe cortesie, onori, e titolo di pacha. Ora per ragioni di politica e di amministrazione tutto quanto quel paese si mise in rivolta, e capo dell’insurrezione è Suleiman, il figlio di Ziber pacha. Questi stesso ci raccontò tutta la storia che in pochi termini ci venne tradotta. Non capivo la sua lingua, ma dal modo con cui si esprimeva, accompagnando spesso la narrazione con gesti, traspariva l’interesse che vi prendeva e lo spirito che lo dominava, e i suoi occhi benchè incastrati nell’orbita di un semiselvaggio si gonfiarono di lagrime quando raccontando dell’attuale guerra dei suoi compaesani colle truppe di Gordon pacha, disse che se fosse ucciso suo figlio, lui pure morrebbe di dolore.
Oggi sappiamo che i rivoltosi furono completamente battuti da Gessi, e Suleiman fatto prigioniero e fucilato.
Interessante fu il genere di ricevimento che vi trovammo, essendo nè puramente turco nè arabo, ma un poco anche darfuriano. Entrammo in un primo cortile fiancheggiato dalle scuderie e da questo passammo in un piccolo giardinetto che ricordava quelli dei nostri curati da campagna, se qualche palma o banano non ci avesse fatti accorti della distanza che ci separava. Qui fummo incontrati da parecchi individui di vario colore e diverso costume che si qualificavano per segretari, intendenti, cerimonieri, ecc., che con modi garbatissimi ci introdussero in un primo anticamerone dove comparve il pacha, alto, snello, quasi nero, vestito all’europea col fez. Fu cortesissimo, ci strinse la mano all’araba, cioè baciandola e portandola al fronte prima e dopo di toccare la nostra, poi ci fece salire per una scala mezzo diroccata, e attraversate un pajo di camere deserte di mobili, ma molto popolate di servi, fummo introdotti nel gran salone dei ricevimenti, dove le finestre erano di puro stile arabo e i divani coperti da damasco giallo tutto a filacci. Mentre noi si stava seduti a discorrere, due servi neri stavano impalati presso la porta cogli occhi fissi al padrone, pronti ad indovinare un ordine in qualunque suo cenno. Dopo pochi minuti entrò un servo con un vassoio: tre o quattro altri gli si fecero d’attorno, ognuno prese una piccola tazza col sotto-coppa alla turca in argento, vi versò un liquido da un’anfora e ce lo venne ad offrire con tutto rispetto, inchinandosi, pronunciando una parola gentile e tenendosi la mano sinistra distesa sul petto. Era un decotto di droghe in cui prevaleva canella e pepe: non cattivo al gusto, ma non troppo benigno alla lingua e alla gola. I servi non avevano per anco finito di riavere da noi le tazze vuote, quando entra un nero con una catinella e un anfora di metallo e gira per la sala facendo lavar le mani a tutti, mentre un altro che lo segue consegna ad ognuno un tovagliolo, per vero dire non proprio di bucato. Subito appare un altro servo con un tavolo, o meglio uno sgabello alto, che depone fra noi, ed un secondo vi adagia un gran vassoio coperto da piatti con pasta di semola, latte coagulato, pezzi di diverse torte, formaggio, ulive, specie di caramelle, conserve, dolci, pezzetti di pane e qualche cucchiaio, che però non fecero che da comparsa. Ignorante, io me ne stetti a vedere cosa faceva Sua Eccellenza, poi non feci che seguire il suo esempio, assaporando tutto, prendendo tutto colle mani nelle quali si faceva un vero caos di gusti, ma senza però arrivare al punto suo di dare continui segni d’aggradimento con manifestazioni troppo spontanee... Un servo intanto ne andava offrendo una gran tazza dalla quale in comune si beveva acqua con conserva dolce. Finita questa frugale mensa, ritirarono la tavola, ci fecero ancora lavare le mani, poi collo stesso apparato di prima ci offersero caffè e sigarette.
Il 2 dicembre mi trovavo per la sera a Suez in attesa degli altri componenti la spedizione, che vi dovevano arrivare direttamente dall’Italia a bordo del Sumatra, vapore di Rubattino. Con qualche ritardo, il giorno quattro, questo elegante bastimento sortiva infatti dal Canale e a mezzogiorno andava a dar fondo in rada, accanto al Messina, suo compagno destinato alla navigazione speciale nel Mar Rosso. Si ha diritto davvero di sentirsi fieri nel vedere bastimenti di così forte portata e inalberando la nostra bandiera, solcare ormai le onde di tutti i mari, e toccare con mano come possano competere con quelli delle più forti nazioni e vedere come forastieri d’ogni altro paese prescelgano i vapori italiani e ne facciano sempre molti elogi. Così l’Italia si farà grande e ricca, e sia lode ai coraggiosi armatori ai quali è da augurare che la fortuna sorrida.
Il resto della giornata e parte della notte furono impiegati a trasbordare mercanzie sul Messina, a bordo del quale la mattina del cinque tutti partivamo; ma prima di troppo scostarci da questo incantevole paese che è l’Egitto, mi è forza dire due parole di ringraziamento a tutti coloro che mi vollero assolutamente colmato di gentilezze e di utili raccomandazioni e di cordiali augurii pel viaggio che andavo ad intraprendere. Non faccio nomi, che troppo sarebbe lungo, ma ad ognuno mando di cuore la sua parte e nessuno dubiti della mia memoria e della mia riconoscenza.
La posizione di Suez è bellissima, specialmente per chi la vede da bordo. Un ammasso di case bianche e uno di neri bastimenti che stanno schierati come due eserciti nemici prima dell’attacco, laddove null’altro che deserto e mare si contrastano lo spazio. Aggiungete la cupola azzurra di quel cielo o l’orizzonte infuocato da un tramonto che vi fa rossa la sabbia e metallica la superficie dell’acqua, e se avete una fantasia abbastanza fervida, immaginatevi l’incanto di questo quadro in natura. Noi così lo godemmo la sera; una splendida luna venne a cambiarvi le tinte e renderlo più tetro sì, ma non meno bello e forse più imponente; e coll’altro effetto ancora di una splendida aurora, salpammo. In poche ore quante scene diverse, quanto di visto, e quanto di vissuto!...
Dietro noi lasciamo la città, a sinistra oltrepassiamo l’imboccatura del Canale e proseguiamo fra le due coste aride, deserte, infuocate entrambe, d’Asia e d’Africa; qualche cosa di maestoso sorge a tagliare l’infinito orizzonte, è il gruppo del Sinai che ci lascia l’ultima impressione delle coste d’Asia, allargandosi considerevolmente il Mar Rosso e verso sera restando noi fedeli alla costa Africana.
Abbiamo sempre calma perfetta e per sola distrazione, la vista di qualche pesce volante, di qualche scoglio indicato da fanali e l’emozione di qualche altro nascosto e non ancora trovato, nel quale si potrebbe battere il naso; la temperatura va sempre aumentando.
A bordo non abbiamo che un giovane Francese, che prese servizio nelle truppe di Gordon pacha e per questo se ne va a Kartum: vorrei ingannarmi, ma mi parve vittima di una risoluzione non abbastanza meditata; è sempre assai pensieroso e confessa che da lontano tutto sembra roseo, ma più si avvicina alla realtà, più si fanno grandi i punti neri che erano quasi invisibili.
È impegnato per circa due anni, che devono essere ben lunghi nella sua posizione, se invece d’essere animato da speranze, è già depresso dal pentimento. Un Greco e un Tedesco che esercitano una professione abbastanza originale: negozianti cioè di leoni, elefanti, ipopotami, leopardi, buffali, rettili e simili, sì vivi che morti, per musei, giardini zoologici e amatori. Per questo si portano a Kassala, dove sono abbastanza numerosi questi cari animaletti.
I racconti delle loro caccie e prese erano assai interessanti, le loro avventure straordinarie, per quanto si faccia il difalco necessario fra il raccontato e il credibile.
Già che parliamo dei passeggeri del Messina, parmi venuto il momento di presentare anche quelli coi quali dovrò essere compagno di viaggio: Pellegrino Matteucci di Bologna, Callisto Legnani di Menaggio, Enrico Tagliabue di Monza, Gustavo Bianchi di Ferrara, Francesco Filippini: il primo dirige la spedizione, gli altri sono i delegati, che, per incarico del Comitato di Esplorazioni commerciali, la compongono. Il Filippini è destinato a rimanere di stazione nel porto di Massaua. Seguono come dilettanti il capitano Vincenzo Ferrari da Reggio Emilia e quel disgraziato che sta colla penna in mano, ha cominciato ieri a scrivere e si è messo in testa di render conto giorno per giorno del suo operato durante quasi dieci mesi: chiedo un po’ di benevolenza per lui.
Il giorno nove era indicato per l’arrivo a Suakin; fin dal mattino si naviga fra secche, che come si vede dalle carte sono estesissime in questi paraggi; consistono di banchi corallini nascosti a diverse profondità, per cui con grande attenzione si possono appena distinguere dal colore delle acque che sembrano fangose, e le meno profonde dal vedervisi frangere contro le onde producendo linee di schiuma biancastra. Il pilota arabo, guidato da pratica più che da scienza, sta sul pennone dell’albero di prua, e continuamente dà ordini perchè il timone sia girato a destra o a manca.
Ad onta di questo, poco dopo il mezzogiorno un urto, seguito da sfregamento, ci avverte che siamo montati in secco; vidi il bastimento alzarsi di prua, quasi impennandosi, poi quando il peso di prua prevalse, questa si abbassò, alzandosi invece la poppa; giuocavamo d’equilibrio toccando la chiglia sullo scoglio, ma non potendo naturalmente durare in questa posizione acrobatica, tre o quattro ondulazioni piuttosto forti di rullio finirono per lasciarci adagiar sul fianco; subito si ferma la macchina, si ordina indietro, poi ancora avanti, e fra il panico e la confusione, non so a quale di questi due movimenti dovemmo la nostra liberazione, ma so che pochi minuti dopo proseguivamo la nostra rotta con minor velocità e maggiori precauzioni. Pericolo non ve ne era, chè il mare era calmo, la terra non poteva essere lontanissima e le scialuppe pronte; ma c’era il caso di dovercene stare qualche giorno per alleggerire il bastimento, scaricandolo, buttar ancore, e coll’aiuto di queste, toglierci da questo incommodo letto.
Passiamo fra due enormi banchi che da bordo si distinguono benissimo, poi viriamo sulla destra per entrare in un canale segnato da torricelle di muro che poggiano sui depositi corallini, e prima del tramonto gettiamo le ancore a pochi metri da Suakin, dove siamo subito circondati da piroghe montate da bellissimi ragazzotti neri, che quasi rivali d’Adamo in fatto costume, ci si offrono per traghettarci a terra.
La città si presenta bellina, con un ordine di case bianche di stile puramente arabo, circondate da acqua, collo sfondo di bellissime montagne che fanno un effetto assai curioso sorgendo direttamente dalla pianura, senza contrafforti, senza nessuna linea di alture che si vadano poco a poco elevando. La posizione è assai originale, essendo il villaggio piantato su d’un isolotto di poche migliaia di metri quadrati di superficie, banco corallino, che appena si innalza dal livello del mare, circondato da un canale di un centinaio di metri di larghezza, poi ancora da terra ferma che ha così l’apparenza, se mi è permesso il confronto, di racchiudere l’isolotto, come un granchio tien racchiuso la preda fra le due zanne, A est, il canale pel quale entrammo, e che porta al mare libero, ad ovest una diga che mette in comunicazione diretta colla terra ferma.
All’interno nessuna regolarità: qualche piazza dove si tengono i mercati, qualche via coperta da logore stuoie per difendere dalla sferza del sole, cui si dà il titolo di bazar e dove si vendono gli elementi più che necessarii, indispensabili all’esistenza, alcune case di stile arabo, terminate a terrazze col davanzale frastagliato e ornate di finestre e balconi a lavori di intaglio in legno molto caratteristici; qualche piccola torre e qualche minareto da dove si spande la tremula voce del Muezzin che ad ore fisse chiama i divoti alla preghiera. È questo il quartiere abitato dagli arabi commercianti od impiegati, e dai pochi europei che vi tengono i loro affari; dietro abbiamo subito tugurii di legno e fango, circondati da palizzate di stuoie, abitati dagli indigeni. Oltre la diga continua la città di questi ultimi che vanno man mano ritirandosi per far posto ad abitazioni e abitanti un po’ più civili, e si finisce nella vasta pianura con accampamenti di beduini sparsi qua e là e costituiti da miserabili tende di stuoie. Il commercio è quasi completamente in mano dei Greci. Svariatissimi sono i tipi che si incontrano; l’Arabo colla testa rasa, la sua zimarra bianca, e il fez o la cuffia che trascuratamente pende sulle spalle od elegantemente è avvolta a turbante; l’altro che vuol parere civilizzato e non veste che panni neri tagliati all’europea; l’indigeno che presenta tutte le gradazioni delle tinte che possono dirsi marrone, quasi nudo e solo difeso da una pezzola qualunque alla cintura; cento altre varietà di tipi e di tinte fino al nero ebano, provenienti da tutte le province dell’interno.
Curiosissimo il biscerino o vero beduino del deserto fra Suakin e Berber, che ha la privativa del servizio di guida e camelliere per le carovane che attraversano quelle sabbie, di cui è fiero d’essere assoluto padrone. È alto, snello, ha l’occhio vivissimo, un procedere vispo e dignitoso. Porta una fascia bianca alla cintura, oppure un drappo di tela in cui artisticamente si avvolge, e i capelli educati in modo che un gran ciuffo si innalza a cono rovescio e il resto pende a grandi masse di ricci o trecce, tagliate orizzontalmente poco sopra l’attacco della spalla, per difendere la nuca dai raggi del sole.
L’apparenza è perfettamente di quei tipi stecchiti che si vedono incisi alle pareti dei monumenti egizii. La testa poi ungono con tanto grasso e burro, da parere, alle volte, mascherati con una parrucca gialla, sempre ornata da uno stecchetto leggiermente ricurvo che è il loro pettine, e serve spesso per rimediare ad un molesto e non dubbio prurito. Sulle braccia portano molti anelli di pelle con sacchettini di cuoio in cui è religiosamente conservato qualche verso del corano o qualche amuleto che li preserva da mali e pericoli.
Di donne se ne vedono pochissime, e queste completamente coperte, essendo qui fanatici mussulmani. Il dottore, un gentilissimo arabo, ne diceva che anche a lui è interdetto l’avvicinarsi al bel sesso, che in caso di malattia ricorre piuttosto all’empirismo di una pretesa medichessa.
La pulizia delle strade e altri servizii in città, sono fatti dai prigionieri che vivono nel locale della dogana, trattati come da noi nessuno oserebbe trattare un suo cane; sono logori, indecenti, macilenti, portano grosse catene ai piedi, che, dal peso e dallo sfregamento, ne sono continuamente piagati; domandano la carità a chiunque incontrino e sono custoditi da soldati che lasciano però ben poco ad invidiare a quei miserabili. Spesso qualcuno tenta fuggire, ma sempre inutilmente, che l’unica via di scampo è quella del deserto, dove sono inseguiti dai beduini che vi danno una vera caccia, sapendo d’avere un compenso di cinque talleri; a quel disgraziato, cui la disperazione suggerì la fuga, sono applicate parecchie centinaia di legnate, e qualche volta persino mille.
Ad ogni passo v’era qualcosa di nuovo per noi da osservare, si fece qualche passeggiata col fucile nei dintorni, ebbimo lo spettacolo di qualche carovana che partiva od arrivava dall’interno, e così giunse presto la sera dell’11, e dovemmo recarci a bordo per ripartire l’indomani mattina.
Siamo affidati ad una vecchia carcassa, il Zaga-zig, vapore egiziano che conta parecchi lustri di esistenza, senza aver mai visto un chiodo od una penellata di vernice che venissero a supplire quello che il tempo ha corroso; le cabine sono così sucide e puzzolenti che non è a pensare a starci, per cui portati i nostri effetti sopra coperta, vi stendemmo i nostri pleads e vi stabilimmo il nostro primo accampamento. La mattina del 12 usciamo felicemente dalle secche, poi pieghiamo a sud, sempre a poca distanza dalla costa africana che appare continuamente arida e montagnosa. Tutti a bordo sono arabi, tranne i macchinisti; gli ufficiali sono logori, cenciosi e scalzi; lascio pensare come sia la ciurma; abbiamo poi a bordo una dozzina di soldati turchi che per punizione sono mandati alle guarnigioni del Mar Rosso; venendo da Costantinopoli fecero una sommossa a bordo e tentarono ammazzare il comandante; tre rimasero uccisi e gli altri, facce da forca, furono disarmati, e perfettamente liberi sono ora nostri compagni di viaggio; quando videro salire a bordo le pesanti cassette coi nostri talleri, le loro fisonomie tradirono le loro speranze e forse i loro intendimenti, e prevennero noi di dormire vegliando. A bordo di questi vapori non si pensa neppure alla mensa dei passeggeri, per cui portammo le nostre provvigioni e cominciammo così a mettere alla prova le nostre abilità culinarie, o meglio la forza di resistenza dei rispettivi stomachi.
Il secondo giorno incontriamo parecchi scogli a superficie piatta e di poco sporgenti dal livello delle acque. Una dozzina almeno di ufficiali sono sul ponte a discutere, guardare con cannocchiali, studiare, senza capirne un’acca, una gran carta sparsa di gocce di sego più che di rilievi, e sulla quale misurano le distanze col compasso che fornì madre natura, le loro sudicissime dita; a prua si scandaglia, sui pennoni stanno i piloti, il nostromo dà ordini e contrordini che pare una scuola di fischio.
L’apparato era grande, ci aspettavamo qualcosa che vi corrispondesse, forse si scoprissero nuove terre, ma invece la macchina ferma, e verso le cinque si dà fondo in quindici braccia. Cosa succede! ci domandiamo: nulla di male, ma prudenza suggerisce che prima delle tenebre si faccia alt, perchè la scienza coi suoi calcoli e i suoi strumenti non ha ancora rischiarate le vie a questi navigatori. Vi sarà ancora chi disputa per la patria di Cristoforo Colombo, ma si può garantire che di sangue egiziano non ne scorreva nelle sue vene.
La mattina del 14 si levano le àncore, operazione che col progresso egiziano si fa ancora a forza di braccia, e richiede quindi altrettanto tempo che fatica: dopo un paio d’ore appare la costa, si vedono le montagne allo sfondo, si distingue la linea bianca di Massaua, spiccano gli alberi di due bastimenti che vi stanno ancorati; alle undici siamo accanto a loro.