Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

09-La Salvezza Nel Cristianesimo e Nello Zen

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 6

La “Salvezza” nel cristianesimo e nello zen.

Confronto tra le due visioni escatologiche

A. Il cristianesimo

1. Parto dalla parola ‘escatologia’. È una parola tipica del cristianesimo. Eschatos in greco significa
‘ultimo’. È un modo in cui Gesù si definisce nell’Apocalisse (1,17): Io sono il primo e l’ultimo. Dio è,
per i cristiani, sicuramente colui che sta all’inizio, ma anche colui che tutti attira, l’ultimo, il
definitivo. E così escatologia è la riflessione cristiana su Dio che attira tutta la storia a sé. Fino a
cinquanta e più anni fa era abitudine nel catechismo cattolico parlare dei novissimi, e cioè della
morte, del giudizio, dell’inferno e del paradiso. Ma, come ha osservato un grande teologo del
secolo scorso, Congar, noi pensavamo di fare la teologia dei novissimi ed invece facevamo la fisica
dei novissimi. Prendevamo cioè in senso fisico, letterale, alcune delle immagini che il Nuovo
testamento ha usato come allusioni, metafore, simboli e vi aggiungevamo fantasie popolari o
visioni di mistici, quasi alla ricerca di un filmato in più episodi per rispondere alla curiosità su come
sarà alla fine. Tutto quello che nel Nuovo testamento si presentava come allusione al futuro ci
veniva spontaneo attribuirlo al dopo-morte, rendendolo definitivo.
Il Nuovo testamento è davvero in attesa di un Futuro definitivo: il Signore verrà non più nell’umiltà
della carne umana ma nella gloria, a raccogliere i suoi e a consegnare tutto al Padre. La
risurrezione di Gesù era considerata l’inizio di un evento collettivo, perché questa era l’attesa di
molti ebrei: la risurrezione di tutto il popolo e/o di tutti gli esseri umani. Una escatologia finale,
cosmica, collettiva dunque.
Nei secoli successivi ci si è orientati di più alla sorte dei singoli esseri umani alla loro morte. Gesù
aveva detto al ladro crocifisso con lui: Oggi sarai con me in paradiso. Nelle chiese cristiane di
Oriente la parola ‘paradiso’ ha conservato a lungo il significato originario di giardino: un giardino
di attesa prima della risurrezione di tutta l’umanità. Giardino che faceva da pendant agli abissi in
cui il ricco epulone per esempio soffriva. L’Oriente cristiano non li considerava ancora la realtà
definitiva, ma una attesa della risurrezione finale. In Occidente invece il paradiso e l’abisso
infernale sono stati considerati la realtà definitiva che iniziava con la morte di ogni persona, salvo
un processo di purificazione cosizzato nel purgatorio. L’escatologia è diventata personale, alla
morte di ciascuno. Certo, in attesa della risurrezione.
Nell’ultimo secolo però si è riscoperto sempre di più che l’escatologia è già iniziata con la venuta
di Gesù. Con lui il Regno di Dio, la signoria di Dio è già presente nella storia. Con lui avviene già un
giudizio, una scelta; ci si autogiudica già fin d’ora. Già qui nella storia Gesù ha offerto vita eterna,
salvezza, un mondo nuovo.
Incompleto, ovviamente. Da allargare a tutti i popoli, da estendere a tutti i tempi, da realizzare
sempre più in profondità nella vittoria sulla morte e sul peccato.
E allora, per parlare dell’escatologia cristiana partirei proprio da quello che Dio sta operando nella
nostra storia, secondo quelli che credono in Gesù.

2. Dio anzitutto è il definitivo. Senza Dio la vita cristiana non raggiunge il definitivo.
Questa mattina ho pregato con la liturgia della chiesa cattolica. Alle lodi ho trovato spessissimo la
parola ‘Dio’. Anche quando la parola non c’era, era lui il destinatario, l’ascoltatore silenzioso della
preghiera. Quante volte questa parola! E già qui io trovo sana una purificazione, che lo zen mi ha
molto stimolato a curare, perché corro il rischio di strumentalizzare il Nome ‘Dio’ per farmi forte
io, per avere consensi ed approvazioni, per avere sicurezza, per imbrogliare altri, ecc. Già da
tremila anni questo pericolo è stato sottolineato da una delle Dieci parole che la bibbia riconosce
scritte dalla mano di Dio stesso: non nominerai il mio nome! Il cammino che quotidianamente mi
1
vien chiesto è di usare la parola ‘Dio’ (e tutte le altre parole che fanno riferimento al Mistero) non
come concetti precisi che io conosco, ma come allusioni, poesie, canto, preghiera, invocazione,
attesa, slancio, speranza, bisogno…

3. Nei salmi che la chiesa ogni giorno prega si parla anche di giustizia di Dio, del suo giudizio, e
della sua pietà. Sono altre parole che indicano il mondo definitivo di Dio. Per il cristiano il volto di
Dio è quello di una relazione di amore, e in particolare di attenzione, compassione per chi subisce
ingiustizia da parte dei potenti o prepotenti ingiusti di questo mondo: così l’amore
compassionevole di Dio viene invocato ed offerto come giudizio e giustizia a favore dei deboli e
degli sfruttati. Anche queste parole però possono, nel mio vissuto quotidiano, suscitare fantasie
ed equivoci. La cosiddetta ‘giustizia’ di Dio in cui credo è continuamente da scoprire, proprio
perché è una forma di compassione, non una rivendicazione di diritti divini sull’uomo o una
rivendicazione di me debole, che mi sento fragile rispetto ad altri che considero ingiusti (mentre
magari sono altrettanto fragili quanto me)…

4. Qui emerge anche la parola ‘peccato’, che sicuramente ha senso solo se credo che c’entri Dio
con il male che faccio: non tanto perché lui è particolarmente sensibile al suo onore e quindi ‘si
offende’ se faccio qualcosa che non gli va bene, quanto perché colui che io offendo lui lo considera
figlio, e quindi offendo lui in quanto Padre, lo colpisco nella sua identità, in quella identità molto
cara a Gesù, quella appunto di padre. Il peccato Gesù mi promette che può essere perdonato.
Anche la remissione dei peccati è uno dei volti escatologici di Dio, annunciato non solo nella vita
di Gesù, ma anche dopo la sua risurrezione. In Gesù Dio ci ha mostrato che il subire il male può
diventare invocazione di amore e non di vendetta. A Pietro Gesù chiede di non difenderlo, di non
allargare il conflitto. Dalla croce invoca perdono su chi l’ha ucciso. Le sue ferite guariscono, dice la
prima lettera di Pietro ricordando il Servo del Signore di cui parla il profeta Isaia. Perdono nel
greco del Nuovo testamento è ‘lasciare’, una parola interessantissima molto cara anche alle
tradizioni dell’estremo Oriente. Il passato va lasciato al passato. Inutile cercare di cancellarlo, di
ripararlo. Si può solo iniziare una nuova vita, di amore e di dedizione come la mostra Gesù, la ‘vita
eterna’, una vita di qualità divina, piena di compassione. Quando Pietro dice a Gesù di allontanarsi
da lui perché è un peccatore, Gesù gli dice: Ti farò pescatore di uomini. Basta concentrarti sul tuo
peccato, gli altri aspettano te come dono. All’ultima cena Gesù prega proprio per Pietro perché,
dopo il rinnegamento, diventi sostegno dei suoi fratelli: a volte davvero noi impariamo ad amare
solo quando abbiamo sbagliato.

5. Questa mattina ho anche ascoltato il vangelo. Vangelo, eu-angelion vuol dire buona notizia,
lieta notizia. È la notizia che siamo amati, e che quindi la vita è buona, amabile, degna. Un dono.
‘Vita eterna’, da Dio. Perciò possiamo vivere con dignità anche quando siamo respinti o in
situazioni negative; possiamo confidare nella gioia anche nei tempi del dolore; possiamo amare e
perdonare anche quando non siamo amati da chi vorremmo ci amasse; possiamo guarire quando
siamo ammalati, oppure morire avendo accanto a noi, in croce, Gesù; siamo chiamati alla
risurrezione, ecc.
Nel cristianesimo è centrale la Parola. Una parola che viene dal Silenzio, ma che tocca la realtà
dando confini, sollecitando responsabilità, provocando passione. Passione come ricevere, certo,
ma anche come firmare, coinvolgersi. Fino a pagare per amore.

6. L’esperienza di salvezza che ci è testimoniata dai primi cristiani è quella di sentirsi figli di Dio; di
potere, nei momenti della persecuzione, del rifiuto, della tribolazione, invocare Dio con la stessa
confidenza con cui Gesù lo ha chiamato nel momento supremo dell’abbandono: Abba, Padre. È
l’esperienza di chi sul letto di morte non ha più alcun aiuto umano e dice: Mamma; o chiama la

2
persona più cara, che è impotente anche lei a far qualcosa, ma può star vicino, capire,
accompagnare: questa confidenza e abbandono in Dio i cristiani l’hanno ricevuta da Gesù. Per
questo hanno ‘creduto’ con tutte le loro forze e il loro cuore che lui, Gesù, intrattiene con Dio un
rapporto di figliolanza unico. Un rapporto di ‘connaturalità’, si direbbe. E un po’ alla volta hanno
imparato a difendere un paradosso: che Lui è connaturale a noi e connaturale a Dio; hanno difeso
la paradossalità che essere umano è essere divino; e addirittura il paradosso che una molteplicità
in Dio non neghi l’unità; che anzi l’unità stia proprio in una molteplicità indivisibile. Le
dogmatizzazioni dei nostri padri nella fede non erano pretese di ‘sapere’ su Dio, ma difesa del
paradossale contro ogni tentativo di ‘capire’, di inquadrare, di chiudere. I dogmi volevano essere
semi selezionati perché di generazione in generazione fosse possibile riandare al mistero,
personalizzare sempre di nuovo e per tutti la salvezza. Non sono parole che incapsulano la verità
ma che la fanno implorare, cercare, conservandola nella sua paradossalità.

7. Del resto Gesù stesso nel vangelo è paradossale. Butta giù il punto di vista più condiviso e guarda
da un altro punto di vista, quasi a suggerire che nessuno possiede nessuno, ma ognuno è prezioso
nella sua unicità davanti al Padre. Gli insegnamenti di Gesù non sono giuridismo, ma libertà.
Gesù vede salvezza, la salvezza stessa di Dio, in non-ebrei che incontra e che gli raccontano
parabole: il centurione la parabola dei soldati e dei servi che obbediscono; la siro-fenicia la parabola
dei cagnolini che mangiano le briciole sotto il tavolo dei figli. Le porte di Dio sono aperte.
E così il banale, lo storico, il contingente, si mostra come rivelazione, allusione, parabola. Perfino
il fatto che Gesù è stato rifiutato diventa rivelazione di Dio.

8. Il cristiano, sperimenta sì la presenza buona di Dio nella storia, quella che Gesù chiama il regno
di Dio, quello definitivo, ma avverte anche che la salvezza non è completa, né nella sua vita né,
tanto meno, in tutta la storia umana, per tutti gli esseri umani (e per il cosmo). E perciò attende
quel compimento che Gesù ha promesso. In questa storia ma anche oltre la storia.
La preghiera eucaristica della riconciliazione prima prega: «Aiutaci a costruire insieme il tuo regno
fino al giorno in cui verremo davanti a te nella tua casa, santi tra i santi, con la beata Vergine
Maria, san Giuseppe suo sposo, gli Apostoli, e i nostri fratelli defunti che raccomandiamo alla tua
misericordia. Allora nella creazione nuova, finalmente liberata dalla corruzione della morte,
canteremo l’inno di ringraziamento che sale a te dal tuo Cristo vivente in eterno».
Il cristiano crede nella risurrezione dei morti: al seguito di Gesù non parla tanto di immortalità
dell’anima quanto di risurrezione, riconoscendo una particolare dignità non solo ad una
cosiddetta parte spirituale dell’essere umano, l’anima, ma a tutto l’uomo, perché non è
indifferente che la creatura umana si esprima, si riveli, si sintetizzi nel corpo. Non sappiamo
certamente ‘con che corpo’ ci rialzeremo da morte, ed è sciocco chiederselo dice Paolo ai Corinzi;
ma i discepoli hanno riconosciuto Gesù dalla voce, dai gesti, dalle ferite: la storia che hanno
vissuto con lui non rientra nel nirvana, non viene superata dalla piena manifestazione di Dio, ma
racconterà molto di Dio. Per me cristiano la storia rivela Dio, è consona a Dio; il caduco è
partecipe dell’assoluto.
Quando la storia di ognuno ci sarà raccontata da Dio come lui l’ha vista, amata, costruita insieme,
il giudizio prepotente dei prepotenti non prevarrà più: ognuno riceverà ‘la sua lode’, dice Paolo
(1Cor 4,5). Il giudizio umano ha bisogno di esser soccorso dal giudizio stesso di Dio, perché tolga il
velo, racconti la verità e dica di sì ai mille tentativi fragili con cui gli esseri umani hanno tentato di
realizzare il bene proprio e degli altri nell’amore che sentono fluire da Dio.
In una libertà che suppongono talmente estrema da richiedersi una grande vigilanza per non fare
del male il proprio inferno.

3
B. Lo zen

1. Lo zen si ispira al buddhismo. Come il buddhismo riconosce che la vita è impermanente, e


quindi fondamentalmente dolorosa (è una prima nobile verità intuita dal Buddha). La
maggioranza degli esseri senzienti dà per scontato che ci siano realtà che permangono,
tendenzialmente eterne. Non si accorgono invece che tutto è impermanente, ed aspirano
all’immortalità. L’illusione che esistano realtà permanenti si sposa con un’altra illusione, quella di
essere noi umani un sé, di avere una dignità consistente ed eterna, ben delineata e distinguibile
dal resto della realtà. Ogni essere senziente invece è costituito da cinque aggregati che sono
provvisoriamente insieme, che vivono, nascono e muoiono in continuazione: il corpo e i suoi sensi,
le sensazioni (vedo, ascolto, ecc.), le idee che ci formiamo dalle sensazioni, le volizioni (impulsi,
desideri, tensioni verso delle mete, o fuga, ecc.), la coscienza (mi sento un soggetto che tiene
insieme tutto quanto). Tutti i fenomeni sono tra loro interdipendenti, esistono in quanto sono in
relazione con altri fenomeni, in continua trasformazione: niente esiste in sé con consistenza
propria. Io non sono quel Giuseppe che mi illudo di essere, persona che fa esperienze e crea
contatti a partire da un sé profondo, radicale. Io sono l’insieme dei miei rapporti, delle mie
relazioni, dei miei incontri, degli influssi che mi cambiano. Senza tutto questo io non esisto.
Nagarjuna scrive: «la nascita di un figlio è condizionata al fatto che il padre lo generi; però fino a
che non genera il figlio il padre non esiste; ma se il padre non esiste, non vi può essere,
conseguentemente, la nascita di un figlio: perciò sono irreali tanto il padre quanto il figlio».

2. Chi non fa i conti con l’impermanenza e con la non sostanzialità alimenta in sé


l’insoddisfazione, una sottile sofferenza che pervade la vita. Lottando contro il passare di tutte le
cose l’essere umano si aggrappa a sempre nuove forme di esistenza, che però in realtà sono solo
altre inquietudini, sofferenze, ignoranza. Questo ciclo di nascite e morti vien chiamato samsara.
La sofferenza è quell’insoddisfazione profonda che ci proviene dallo sperimentare l’estraneità tra
noi e la realtà che ci circonda: quello che vorremmo possedere, aver vicino, godere, quello che
vorremmo ci appartenesse è sfuggente, lontano, ‘estraneo’ appunto; e quello che non vorremmo
ma lo stesso ci raggiunge, ci vien vicino, diventa parte di noi fisicamente o interiormente, lo
sentiamo radicalmente ‘estraneo’, disturbante, alternativo a noi, distruttivo.
Causa di questa sofferenza esistenziale, di questa continua inquietudine è perciò la sete,
l’attaccamento alla vita, la sete di vivere o di non vivere (seconda nobile verità). Solo una volta
liberati dal desiderio si è liberi anche dalla sofferenza, dalla vita, dalla nascita e dalla morte (terza
nobile verità): è il nirvana. Il nirvana è possibile, Buddha l’ha sperimentato, e molti altri dopo di lui,
ma definirlo per quelli che non ne fanno esperienza è impossibile, come è impossibile per una rana
spiegare ai girini come si respira o si salta sulla terra. Infine Buddha insegna la via alla liberazione,
il cosiddetto ottuplice sentiero (retta visione, retta decisione, retta parola, retta azione, retto
modo di vivere, retto sforzo, retta attenzione, retta concentrazione): quarta nobile verità.

3. In particolare lo zen si inserisce in quella forma di buddhismo che si è diffusa in Cina e in


Giappone, che si chiama Mahayāna, il cui ideale è il bodhisattva (che vuol dire ‘essere di luce’),
cioè un essere che ha raggiunto tutte le virtù trascendenti ed in particolare è pieno di
compassione per gli esseri senzienti. Sa molto bene di essere profondamente intrecciato con
tutta la realtà ed in particolare con tutti gli esseri senzienti, per cui sa bene che non esiste
liberazione individuale, nirvana per se stesso a prescindere dagli altri. Non vuol entrare nel nirvana
da solo, ma resta nel ciclo delle esistenze per soccorrere gli altri: la liberazione è tale solo se
riguarda tutti.

4
4. In tutto questo però lo zen però suggerisce un percorso originale. Se uno dei fattori che
causano il dolore è l’ignoranza, l’illusione, essere liberati dall’illusione è un evento improvviso,
come lo svegliarsi del mattino, come la illuminazione che arriva evidente: ci si risveglia alla natura-
di-Buddha che c’è già in ciascuno di noi. Ogni essere senziente è già natura-di-Buddha ma finché
non si risveglia vive nella sofferenza, nella sete. In genere nelle nostre lingue parliamo di
illuminazione, quando ci riferiamo a questa esperienza fondamentale che cambia (o può
cambiare) la vita di chi si esercita nella pratica dello zen. Però la parola ‘illuminazione’ non è
un’esperienza fisica (come l’illuminazione attribuita a Paolo sulla via di Damasco), né interiore di
luce (come potrebbero averla certi mistici). È una illuminazione esistenziale. Anche i cristiani dei
primi secoli descrivevano il battesimo come ‘illuminazione’, ma non si aspettavano e non
promettevano chissà quale luce. Quando Paolo chiedeva ai cristiani di vivere come ‘figli della luce’
non alludeva a nessun fenomeno mistico da sperimentare, ma ad un capire e vivere da persone
che si sanno amate da Dio, la vera luce che fa vedere il mondo in altro modo. Chi attraverso lo zen
raggiunge il ‘satori’ non vive più nell’ignoranza, non si illude più di essere chissà chi, ma si avverte
parte del tutto. Così descrive la sua esperienza un maestro zen moderno: «Un giorno cancellai
tutte le nozioni dalla mia mente. Rinunciai ad ogni desiderio. Scartai tutte le parole con le quali
pensavo e me ne rimasi in pace. Mi sentivo quasi mancare, come se fossi trasportato entro
qualcosa, o come se stessi toccando un potere a me ignoto ... e sst! Entrai. Persi la linea di confine
del mio corpo fisico. Conservavo la pelle, s’intende, ma sentivo di essere al centro del cosmo.
Parlavo, ma le mie parole avevano perduto il loro significato. Vedevo gente venire verso di me,
ma tutti erano lo stesso uomo. Tutti erano me stesso! Non avevo mai conosciuto questo mondo.
Avevo creduto di essere stato creato, ma ora dovevo cambiare opinione: non ero mai stato
creato; io ero il cosmo; nessun individuo sig. Sasaki esisteva».

5. Questa buddhità, questa essenza stessa delle cose, è ‘vuoto’, e cioè può solo essere
sperimentata nell’illuminazione, ma non espressa con parole, pensieri, attribuzioni, giudizi. È
vuoto, non è niente di quello che noi possiamo pensare, dire, sperimentare nell’esistenza caduca.
Non un lungo itinerario fa arrivare al nirvana, all’estinzione del dolore, ma questa illuminazione
possibile nella vita presente. Per la scuola rinzai essa arriva ad un certo momento della vita,
all’improvviso, mentre ci si sofferma a lungo su un koan assegnato dal maestro (un koan che
lentamente purifica le attese e rende disponibili), o addirittura per un evento traumatico
provocato dal maestro. Per la scuola soto invece l’illuminazione viene semplicemente vissuta nel
momento stesso in cui ci si siede in silenzio.
E così il nirvana è il samsara stesso. Il nirvana non lo si ‘raggiunge’, quasi fuggendo dal samsara.
Non è insistendo sul rifiuto del samsara che si raggiunge il nirvana. Il nirvana ci si lascia
sperimentarlo proprio nel bel mezzo del samsara. Per un vero buddhista le quattro nobili verità
sono evidenti, lui ne percepisce la profonda verità. Eppure anche il buddhista può, come in tutte le
religioni, diventare schiavo, dipendente delle sue verità, quando se le ‘sovrappone’, quando cioè
prova ad autoconvincersi delle quattro nobili verità. In questo caso il samsara non si scioglie nel
nirvana proprio perché il discepolo, ciecamente ‘obbediente’ si ripete di essere ancora nel
samsara, di non aver raggiunto la liberazione. Non si accorge di essere già libero, perché in realtà
non c’è nessuno che lo tenga prigioniero, se non lui stesso con le sue convinzioni ideologiche.
Faccio un confronto con me cristiano. C’è una parola del salmo 51 che dice: il mio peccato mi sta
sempre dinanzi. Davide parla della sua ossessione per la cosa terribile che ha fatto e chiede a Dio
di liberarlo perché lui non ce la fa. Ci sono stati monaci cristiani però che hanno preso le parole di
Davide come un dovere da osservare: devo tener sempre presente il mio peccato. E così, tenendo
il peccato sempre davanti agli occhi, lo lascio agire ancora, gli permetto di diventare tumore. Lo
stesso può avvenire dei dogmi o delle leggi, se li considero cose di cui non posso liberarmi anziché
indicazioni e invocazioni rivolte alla mia coscienza per una vita nuova. Anche l’esperienza, così

5
tipica del cristiano, di essere una cosa sola col Figlio di Dio, può diventare un compito, un obbligo,
un impegno a sentire, anziché la semplice intuizione di appartenere a lui anche quando non lo
sento.
Allo stesso modo il buddhismo può diventare costruzione mentale, abitudine, schiavitù. E la
meditazione, che è tipica di tutti i buddhisti, può ribadire la loro ‘distanza’, può irrigidirli rispetto
alla meta, rendendoli incapaci di coglierla quando lei si fa avvertire. Per lo zen invece la
meditazione è già la meta (sōtō) o la vigilia immediata alla meta (rinzai).

6. In questa stessa linea nello zen è ridimensionato il valore dei testi scritti. Un antico racconto
dice che al Picco dell’Avvoltoio Buddha avrebbe trasmesso in modo silenzioso a Mahakasyapa il
suo insegnamento non fatto di scritture, da cuore-mente a cuore-mente, dal maestro al
discepolo, di generazione in generazione. Per questo nello zen non avviene illuminazione senza la
trasmissione orale o non-verbale. Gli scritti non possono avere valore ermeneutico, non sono in
grado di spiegarsi; l’ermeneutica, la spiegazione, l’applicazione alla situazione viene dal maestro.

7. Stupenda poi è l’intuizione che quello che noi occidentali chiamiamo l’assoluto in realtà è il
niente. Il niente di quello che possiamo dire, pensare, intuire, desiderare, ecc. Il niente è l’origine
da cui tutto deriva. Quando noi cristiani pensiamo a Dio ci viene istintivo pensare al creatore, al
tutto, all’infinito, al grande, al superiore: ci fa allargare all’infinito la trascendenza. Il niente invece
ci muove in senso contrario, ci fa restringere in modo infinito la immanenza, ci riporta al prima
della parola, del gesto, di tutto quello che esiste. Al silenzio. Alla potenzialità assoluta. Al non-
essere che precede l’essere, che lo genera, da cui scaturisce l’essere. Il vuoto è come la pagina
ancora bianca su cui si può scrivere, la pausa musicale che permette il sorgere delle note, la non-
forma che dà origine e consistenza alla forma.

8. Una volta raggiunta l’illuminazione il monaco zen vive la sua vita nel modo più naturale
possibile. Seguendo le regole della comunità non cerca niente, non intende raggiungere niente.
Semplicemente vive quel presente che è già la sua vera natura di Buddha. La sua vita diventa
un’opera d’arte, non solo quando si dedica al teatro, alla pittura, al giardino, ecc., ma anche
quando prepara da mangiare, cammina, si veste, dorme, ecc.
Chi è davvero risvegliato vive la compassione, e quindi il servizio e l’amore degli altri. Ma anche
qui, alcuni maestri zen temono che ci si accontenti del risveglio, dell’illuminazione raggiunta e
riconosciuta dal maestro. Ma chi si chiude in questo non vive più il presente.

Prof. Giuseppe Toffanello

Potrebbero piacerti anche