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Studi e Ricerche 17

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Studi e Ricerche

17

 
 
Collana Studi e Ricerche n. 17
Direttore: Andrea Giorgi
Segreteria di redazione: Lia Coen
© 2018 Università degli Studi di Trento-Dipartimento di Lettere e Filosofia
Via Tommaso Gar 14 - 38122 TRENTO
Tel. 0461-281729 Fax 0461 281751

http:// www.lettere.unitn.it//221/collana-studi-e-ricerche
e-mail: editoria@lett.unitn.it

ISBN 978-88-8443-798-3

Finito di stampare nel mese di giugno 2018

 
 
Cittadinanza.
Inclusi ed esclusi
tra gli antichi e i moderni

a cura di Fulvia de Luise

Università degli Studi di Trento


Dipartimento di Lettere e Filosofia

 
 
COMITATO SCIENTIFICO

Andrea Giorgi (coordinatore)


Giuseppe Albertoni
Fulvia de Luise
Sandra Pietrini

Il presente volume è stato sottoposto a procedimento di peer


review.

 
 
SOMMARIO

FULVIA DE LUISE, Introduzione Cittadinanza. Inclusi


ed esclusi per gli antichi e i moderni 9

Appartenenza

FULVIA DE LUISE, L’invenzione del cittadino e le


aporie della cittadinanza democratica antica 17
SILVIA GASTALDI, L’autoctonia degli Ateniesi: un
mito civico di identità 51

Identità politica

LUCILLA G. MOLITERNO, La figura del demos: un’in-


venzione dei demagoghi? 71
VALENTINA PAZÈ, Cittadinanza e diritti, tra antichi e
moderni 93

Inclusione ed esclusione

LUCIO BERTELLI, Il cittadino in Aristotele: criteri di


inclusione/esclusione 125
ERMANNO VITALE, Inclusi ed esclusi. La cittadinan-
za dei moderni 165
   

 
 
Cittadini oltre la polis

EMIDIO SPINELLI, Norme giuridiche, partecipazione


politica e scelte filosofiche in Epicuro 191
ENRICO PIERGIACOMI, I piaceri del cittadino epicu-
reo. Cittadinanza e virtù in Lucio Manlio Tor-
quato 221
SILVIA FAZZO, Un caso di cittadinanza privilegiata
in epoca romana imperiale: Alessandro di Afro-
disia 261

Gli autori. Note bio-bibliografiche 295

 
 
Alla memoria di Mario Vegetti,
incomparabile maestro di pensiero,
luminoso esempio di passione civile
 

FULVIA DE LUISE

INTRODUZIONE
C ITTADINANZA . INCLUSI E ESCLUSI
PER GLI ANTICHI E I MODERNI

Il volume raccoglie in gran parte i contributi al Seminario di


studio Cittadinanza: chi è incluso e chi no, per gli antichi e i
moderni (Trento, 22-23 febbraio 2017) e ne ripropone gli inten-
ti: realizzare un confronto sul tema della cittadinanza, con un
taglio interdisciplinare e temporalmente trasversale, tra gli anti-
chi e i moderni.
L’interesse per questo tipo di riflessione incrociata ha già da-
to luogo a diverse iniziative nel quadro di una consolidata colla-
borazione tra il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Univer-
sità di Trento e il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Univer-
sità di Torino, generando convegni dedicati a temi come il con-
fronto tra i grandi paradigmi del pensiero politico (Trento
2011), le figure del potere nel mondo antico (Torino 2014), i
criteri della legittimazione politica nella cultura greca (Trento
2015), la fondazione del pensiero costituzionale nel III libro del-
la Politica di Aristotele (Torino 2017).
Venendo all’oggetto di questo volume, la rilevanza del tema
della cittadinanza nell’attualità del dibattito politico e la sua
ampia risonanza sul piano della riflessione etica non hanno bi-
sogno di essere discusse. Lo è piuttosto il vantaggio di prender-
ne le distanze, per rivisitare esperienze politiche molto diverse
dalla nostra, in cui la questione di chi sia il cittadino è emersa
con analoga urgenza ma differente problematicità.
Perché cominciare dagli antichi? Che cosa ci spinge a inda-
gare criteri e implicazioni dell’idea di cittadinanza in dialogo
con i Greci? Che cosa può ancora insegnarci la loro esperienza

 
10 Fulvia de Luise

della democrazia, così distante nel tempo e nei presupposti dai


movimenti rivoluzionari della modernità che ancora ricono-
sciamo come storia nostra, patrimonio politico inestimabile di
cui siamo eredi? Benché non ci sia alcun rapporto evolutivo tra i
Greci e noi, in termini di storia delle istituzioni, e benché sia da
tempo superata l’inclinazione a considerare l’Atene ‘classica’
un modello di perfezione politica, ciò che accadde per opera di
Solone e Clistene, di Efialte e Pericle, e che fu sotto gli occhi di
Socrate, Platone e Aristotele, ha per noi il fascino della novità
assoluta: un esperimento politico che non smette di provocarci,
tanto per la sua audacia quanto per le sue contraddizioni.
La questione della cittadinanza nasce in effetti con le poleis
greche tra IX e VII secolo a.C., nello scenario di un vuoto di so-
vranità, in cui, per la prima volta, la figura del cittadino viene
definita, in un certo senso inventata, senza riferimento ad autori-
tà precostituite, ma secondo le intenzioni ‘costituenti’ di una
comunità politica. Sulla base di questo fenomeno e ancora in
tempo reale, come precoce «nottola di Minerva», Aristotele ren-
de conto nel IV secolo, da scienziato della politica, del potere
che la città detiene sui suoi cittadini, legando in un unico ordine
la sua costituzione (politeia), le prerogative di azione in ambito
pubblico spettanti a ciascuno in quanto cittadino (polites) e
quelle del corpo politico (politeuma) nel suo insieme.
La pluralità dei regimi (espressione assai ampia e variegata
del dinamismo costituzionale che attraversa il mondo greco fino
alla fine del IV secolo a.C.) mostra la varietà delle forme di me-
diazione politica messe in opera dalle poleis in materia di citta-
dinanza, poiché – sottolinea Aristotele – «non tutti si accordano
nel riconoscere le stesse persone come cittadini: infatti chi lo è
in una democrazia spesso non lo è in un’oligarchia» (Pol. III 1).
C’è nel dibattito antico una forte consapevolezza di quanto il
riconoscimento della cittadinanza caratterizzi un ordine politico,
esprimendo la condivisione di un determinato sistema della le-
galità e producendo negli individui un effetto identitario. Esso
sancisce infatti la differenza tra chi è considerato ‘parte’ di una

 
Cittadinanza. Inclusi ed esclusi per gli antichi e i moderni 11

comunità politica, con le implicazioni di tutela e di azione socia-


le che tale status rende accessibili, e chi, in quanto escluso dal-
l’appartenenza, è considerato privo di identità politica.
Tra i Greci, schiavi, donne e stranieri sono figure notoria-
mente escluse dal godimento della cittadinanza piena; e tuttavia
la loro presenza, la loro integrazione nella vita sociale o quanto
meno la necessità del loro contributo al sussistere della comuni-
tà politica, sono in qualche modo oggetto di attenzione e di ri-
flessione. Di contro sussiste, nella città della democrazia, il con-
flitto sulla legittimità del riconoscimento per quei soggetti (ma-
schi, adulti e liberi) cui la cittadinanza spetta, ma di cui si discu-
te l’attitudine a prendere parte attiva alla gestione politica del
bene comune. Proprio l’isonomia (valore cardine del sistema e
garanzia di uguale appartenenza per i soggetti collocati sui piani
bassi della gerarchia sociale) risulta anzi l’oggetto del contende-
re nell’esperienza della democrazia ateniese, che nasce e si svi-
luppa mantenendo aperto il conflitto sulla cittadinanza paritaria.
La modernità, che è stata chiamata da Bobbio «l’età dei dirit-
ti», non scioglie le ambiguità dell’idea di cittadinanza, che si ri-
propongono in termini di conflitto in ognuno dei grandi momen-
ti rivoluzionari, che pure hanno segnato le tappe di un percorso
progressivo verso la più ampia apertura democratica. Ad ogni
conquista realizzata e consolidata all’interno di una forma costi-
tuzionale corrispondono effetti di esclusione per altre categorie
di soggetti, che rientrano in quell’orizzonte politico senza le ga-
ranzie dell’appartenenza. Per molti aspetti la riflessione con-
temporanea spinge a guardare indietro per tentare di sciogliere
quel nodo inestricabile di inclusioni e esclusioni che l’idea di
cittadinanza comporta: un’idea in cui si intrecciano, tra mito e
realtà, questioni di identità politica, istanze di uguaglianza e di
differenza, motivi di consenso e di conflitto.
Il confronto sul tema della cittadinanza tra antichi e moderni,
tra alcune esperienze politiche del passato e noi, si mantiene ad
alti livelli di interesse proprio perché evidenzia questioni irrisol-
te nella discussione ricorrente sui criteri per distinguere chi può

 
12 Fulvia de Luise

essere cittadino e chi no; criteri che attribuiscono ‘facoltà’ o ‘di-


ritti’, attraverso un’indubbia componente ideologica e una al-
trettanto chiara, ma non sempre esplicita, intenzione strategica.
Dal mito dell’autoctonia degli Ateniesi ai dibattiti di Putney
sulla rilevanza della proprietà per identificare il vero cittadino,
dallo jus sanguinis allo jus soli, la questione della cittadinanza
domanda di essere sciolta con un atto di consapevolezza politi-
ca: perché decidere dove passa il confine dell’inclusione non è
solo l’atto costitutivo di una comunità, ma la dichiarazione della
forma di giustizia di cui tale comunità si fa garante. Anche in un
mondo come il nostro, dove molte frontiere sono divenute per-
meabili, ma la questione identitaria può riproporsi nelle forme
più arcaiche e irriflesse dell’appartenenza, senza diventare og-
getto di seria considerazione nel dibattito pubblico.
La realizzazione del seminario e di questo volume ha richie-
sto l’intreccio di diverse competenze disciplinari (storiche, giu-
ridiche, filosofiche, politiche) e anche una forte volontà di supe-
rare le barriere linguistiche e metodologiche che separano le
pratiche di ricerca, per formulare domande che risultassero tra-
sversali a diversi campi e che consentissero di collegare inter-
pretazioni del passato e attualità delle questioni. Naturalmente
ciascuno dei saggi riflette la specificità dell’ambito visuale di
chi scrive e trae dalla concretezza del suo oggetto di analisi ma-
teria per il dialogo sul tema comune. Una rapida ricognizione
sugli oggetti dei diversi contributi potrà renderne l’idea.
Il tema della cittadinanza come segno di appartenenza a una
comunità politica è stato declinato in due prospettive diverse nei
primi due saggi: Fulvia de Luise ne ha tratteggiato la prospettiva
storica in rapporto alla realizzazione di una forma di democrazia
radicale in Atene e all’impatto che questa esperienza ha avuto
sulla riflessione politica di Platone e Aristotele; Silvia Gastaldi
ha presentato uno studio delle fonti sull’uso dell’argomento del-
l’autoctonia nel contesto ateniese, evidenziando la connessione
tra il suo insorgere nel cuore dell’età periclea e l’esigenza di au-
to-rappresentazione che investe la polis al tempo della sua ege-

 
Cittadinanza. Inclusi ed esclusi per gli antichi e i moderni 13

monia, mentre alcune varianti sembrano segnalare un adatta-


mento del mito all’evoluzione delle circostanze storiche.
All’aspetto identitario della cittadinanza rimandano due sag-
gi che in modo diverso aprono la prospettiva del confronto tra
antichi e moderni: Lucilla Moliterno analizza il concetto di de-
mos, come figura di un’identità collettiva, presente con diverse
accezioni nel contesto letterario antico e come referente carico
di ambiguità nel dibattito sul populismo in ambito moderno e
contemporaneo; Valentina Pazè focalizza l’attenzione sul con-
cetto di diritto di cittadinanza in quanto costitutivo dell’identità
del cittadino come soggetto politico, ponendone in questione la
classica attribuzione alla sola modernità e proponendo un con-
fronto a largo raggio con quanto concerne l’attribuzione di fa-
coltà e prerogative al cittadino nel mondo delle poleis antiche.
Il duplice valore di inclusione/esclusione connesso alla citta-
dinanza è stato indagato in due saggi che rimandano rispettiva-
mente alla prospettiva degli antichi e dei moderni: Lucio Bertel-
li analizza il modo in cui questo nodo problematico appare in
Aristotele, che ne delinea il canone e le varianti, in una prospet-
tiva tanto descrittiva quanto normativa; Ermanno Vitale assume
come punti di riferimento, per valutare quanto emerge di speci-
ficamente moderno in materia di cittadinanza, due momenti cru-
ciali di dibattito e di definizione politica all’interno della Rivo-
luzione inglese (i dibattiti di Putney del 1647) e della Rivolu-
zione francese (la Costituzione del 1793).
Un ultimo gruppo di saggi si spinge oltre la dimensione della
polis classica, per indagare da angolature particolari, ma proprio
per questo significative, che cosa ne è dell’idea di cittadinanza
nel contesto ormai profondamente modificato dell’età ellenistica
e poi romana, in cui nuove forme di sovranità stabiliscono e dif-
ferenziano le prerogative di sudditi e cittadini.
Emidio Spinelli presenta, secondo un’inedita lettura della tra-
dizione epicurea in materia di legge e giustizia, la visione che
della cittadinanza ebbe una comunità filosofica proverbialmente
gelosa della propria posizione appartata e marginale rispetto alla

 
14 Fulvia de Luise

città e alle sue istituzioni. Enrico Piergiacomi indaga, in un’ana-


loga prospettiva di revisione di alcuni canoni interpretativi, la
possibilità di includere la virtù del cittadino (più o meno distinta
dalla saggezza) tra le questioni rilevanti per una teoria etica co-
me quella epicurea, facendo particolare riferimento alla rifles-
sione morale del pretore romano Lucio Manlio Torquato. Silvia
Fazzo propone lo studio di un caso di cittadinanza privilegiata
nel contesto dell’età imperiale, quello del filosofo Alessandro di
Afrodisia, che deve alle particolari prerogative riconosciute alla
sua città natale e al suo status di civis romanus le condizioni per
svolgere un ruolo decisivo nella trasmissione del patrimonio ari-
stotelico.
Questi ‘casi’, nella loro singolarità, mostrano la profondità
degli effetti dell’idea di cittadinanza nata con l’esperienza greca
delle poleis, che non solo sopravvive alla fine del loro modello
di partecipazione politica, ma continua ad alimentare il dibattito
sulle prerogative, i doveri e i privilegi di status del cittadino, ri-
stabilendo in ogni caso i confini tra chi possiede un’identità po-
litica (con le potenzialità di azione ad essa connesse) e chi ne è
escluso.
Un ringraziamento sentito va agli studenti che con la loro
presenza partecipe e appassionata hanno reso significativo lo
sforzo di tenere insieme la complessa problematica che è stata
oggetto del seminario.

 
APPARTENENZA
 

FULVIA DE LUISE

L’INVENZIONE DEL CITTADINO


E LE APORIE DELLA CITTADINANZA DEMOCRATICA ANTICA

La democrazia ateniese solo in senso molto limitato può essere dichia-


rata progenitrice della moderna democrazia […] Perché, allora, do-
vremmo interessarci alle origini della democrazia nell’antica Grecia?
Che cosa ha a che fare questo con noi? Ebbene, anche se non c’è alcun
rapporto di evoluzione diretto, ciononostante la democrazia e l’idea
democratica ebbero origine in Grecia.1

1. Invenzione e progettualità

La figura del cittadino è un’invenzione greca. Non esatta-


mente nel senso che greco fu il protos euretes, il «primo scopri-
tore» del concetto, cosa che i Greci amavano indicare quando si
trattava di classificare una tecnica o un oggetto di esperienza.
L’invenzione del cittadino ha radici nella materialità di un fe-
nomeno di vaste proporzioni che interessò il mondo greco in
modo intensivo tra il IX e il VII secolo: la fondazione ex novo di
comunità politiche svincolate da ogni potere costituito, dopo la
fine delle monarchie micenee.2 Il fenomeno della nascita delle
poleis, alimentato da una serie ininterrotta di migrazioni verso
oriente e occidente, deve molto a quel vuoto di sovranità, che
trasformò il mondo greco in una fucina di esperimenti politici,
pieni di audacia e di inventiva, ma anche di tensioni interne, con
pericolose propensioni all’instabilità.
                                                                                                                       
1
Kurt Raaflaub, Introduzione, in Raaflaub, Ober, Wallace 2011, 16.
2
Sul tema della nascita delle poleis e della loro novità istituzionale, og-
getto di profonde indagini e ricorrenti discussioni tra gli storici, cfr. la sintesi
di Ampolo (1996) e la penetrante messa a punto, in rapporto ai fondamenti
del potere politico, di Vegetti 2016 e 2017. Cfr. anche Cantarella 2002.

 
18 Fulvia de Luise

La storia delle poleis greche fino alla fine del IV secolo a.C.
appare di fatto animata da un eccezionale dinamismo costitu-
zionale, abbinato a ricorrenti rischi di stasis o metabole3 delle
forme di governo, costruite a ridosso di situazioni nuove o diffi-
cili. Perciò l’esperienza greca della politica appare a noi come
una pratica di progettazione continua,4 dentro la novità assoluta
del modello della polis, che in tutte le sue varianti si presenta
come una forma di ordine politico condiviso da una comunità di
cittadini.5 L’enfasi sull’aspetto costitutivo e creativo di questo
processo ha permesso a Christian Meier di sostenere che ai Gre-
ci delle poleis spetta «l’invenzione della categoria del politico».6
Luciano Canfora ha evidenziato alcune implicazioni paradossali
dell’idea secondo cui la polis «sono le persone dotate di cittadi-
nanza», soffermandosi sugli effetti che investono il rapporto tra
il tutto e le parti della città, nel caso di conflitti di potere, guerre
civili, cambi di regime.7 A monte delle diverse interpretazioni
del fenomeno, sta il modello teorico costruito da Aristotele nei
primi tre capitoli del libro III della Politica, dove il filosofo ri-
conduce la pluralità di esperienze costituzionali realizzate dalle
poleis greche a uno schema politico unitario: la costituzione
(politeia) come ordine (taxis) condiviso, che incorpora ed
esprime, secondo una specifica declinazione, il nesso che lega la
città (polis) ai suoi cittadini (politai).

                                                                                                                       
3
La sovversione politica, nella forma della guerra civile (stasis) o del ro-
vesciamento costituzionale (metabole politeion) è eventualità sempre temuta
nella cultura letteraria e filosofica del mondo antico. Sulla stasis, cfr. Bertelli
1989 e Gehrke 1996; sulla metabole, cfr. Bertelli 1989a.
4
Per una panoramica completa sul significato della progettazione politica
nella cultura greca e sui suoi imponenti presupposti teorico-pratici, prima e
oltre Platone, cfr. l’importante studio di Bertelli 1996. Cfr. anche Bertelli
1994 per gli inizi del dibattito teorico sulle forme costituzionali, prima di
Erodoto e Platone.
5
Sul costituirsi di questo «spazio politico» come «ambito di omogeneità
del corpo sociale» resta di grande interesse lo studio pionieristico di Lanza e
Vegetti 1977.
6
Meier 1988.
7
Canfora 1991, 134-137.

 
L’invenzione del cittadino 19

Tra tutti gli esperimenti politici, la democrazia (e in partico-


lare quella ateniese, di cui possediamo la più ricca documenta-
zione) fu certo quello più straordinario,8 del tutto inedito nel
mondo antico e senza continuità rispetto alla reinvenzione dei
moderni. Raaflaub (2007), nella stessa pagina citata in epigrafe,
lo definisce «un binario morto» dal punto di vista della storia
delle costituzioni, benché a dare l’illusione della continuità stia
l’immagine fortemente idealizzata dell’esperienza politica di
Atene, come madre di tutti i valori che da democratici profes-
siamo.
La riflessione che si intende proporre mira innanzitutto a ri-
visitare su basi realistiche l’interesse a confrontarsi con quella
esperienza, ben consapevoli della distanza, in termini di riferi-
menti sociali e di categorie di pensiero, che ci divide dal-
l’universo di forme materiali e mentali del mondo greco. Para-
dossalmente, solo allontanando l’idea della perfezione, così a
lungo proiettata sulla prima democrazia della storia, una nuova
stagione di studi ha potuto far emergere motivi di interesse assai
più profondi: per i conflitti di ordine economico-sociale che
l’uguaglianza politica nascondeva;9 per la qualità delle forme
organizzative messe in opera con successo da un sistema radica-
le di democrazia partecipativa;10 per le risorse ideologiche mes-
se in campo dai suoi sostenitori e detrattori;11 per l’influenza de-
terminante che l’esperienza della democrazia ha avuto su pensa-

                                                                                                                       
8
Cfr. Anderson 2003 e Ober 2007, che indagano le condizioni della nasci-
ta della democrazia ad Atene, focalizzando l’attenzione su Clistene e la sua
riforma; cfr. Raaflaub 2007, per la fase centrale di costruzione della democra-
zia ateniese, caratterizzata dalle riforme di Efialte e Pericle; cfr. Robinson
1997 e Giangiulio 2015, per una focalizzazione a più ampio raggio sulle de-
mocrazie greche.
9
La dimensione perennemente conflittuale del contesto politico in cui si
sviluppa la democrazia è al centro dei lavori di Anderson 2003, Raaflaub,
Ober, Wallace 2007, Canfora 2011 e 2015.
10
Cfr. Hansen 1991, Camassa 2007, Cambiano 2016.
11
Cfr. Musti 1995, Canfora 2004 e 2015.

 
20 Fulvia de Luise

tori del calibro di Platone e Aristotele,12 obbligandoli ad andare


ben oltre la formulazione di penetranti critiche al sistema eguali-
tario e a misurarsi con la possibilità di costruire forme nuove di
integrazione politica.
Il caso di Atene è da molti punti di vista un condensato del
tutto anomalo di eccezionali circostanze favorevoli, che spiega-
no la sua lunga durata in un tempo storico irto di conflitti, in cui
altre esperienze costituzionali si consumano rapidamente.13 A
maggior ragione ci interessa l’irriducibile difficoltà che il siste-
ma democratico incontrò nel realizzare compiutamente proprio
quello che era l’obiettivo strategico della sua costituzione: la
piena integrazione dei cittadini in un’istituzione politica che ne
garantiva la parità di fronte alla legge (isonomia) e l’uguale pos-
sibilità di accesso alle decisioni pubbliche (isegoria).
Prima e dopo le due gravi crisi istituzionali del 411 e del 404
a.C., questa difficoltà si manifesta attraverso la dissonanza delle
fonti di cui disponiamo14 sul valore della cittadinanza egualita-
ria, cioè sul principio fondativo della democrazia come modello
costituzionale: l’uguale appartenenza dei cittadini alla comunità
politica, sia in termini di tutela che di esercizio attivo di facoltà.
La cittadinanza è materia del contendere in un dibattito politico
di lunga durata, che pone questioni di legittimità, risalendo alla
rivoluzionaria apertura realizzata con la riforma di Clistene, e
che ripetutamente discute le implicazioni del riconoscimento di
prerogative uguali a cittadini disuguali, sollevando questioni sia
in termini di esercizio del potere politico da parte dei singoli, sia
in termini di equilibrio tra le parti della città. L’interesse a stu-
diare a fondo l’evoluzione interna del caso di Atene, nella sua
anomalia, sta nel fatto che più di ogni altro mostra gli sviluppi
                                                                                                                       
12
Sul complesso rapporto dei filosofi con la democrazia, cfr. Finley 1973,
Vegetti 1989, Canfora 2000 e Cambiano 2016. Sul coinvolgimento di Plato-
ne, cfr. le tesi in parte divergenti di Monoson 2003, Pradeau 2005, Bertelli
2005. Sull’interesse di Aristotele per una forma moderata di democrazia, cfr.
in particolare Bouchard 2011 e Gastaldi 2016.
13
Su questo aspetto si sofferma Giangiulio 2015 e 2016.
14
Per lo studio delle fonti cfr. Robinson 2004.

 
L’invenzione del cittadino 21

difficili e controversi dell’idea di cittadinanza come fattore di


integrazione e di stabilizzazione politica. Alla forza e all’ambi-
guità di questa idea sono dedicate le riflessioni che seguono.

2. Appartenenza e identità comune: aporie e ambiguità della


koinonia

Non c’è dubbio che l’idea di cittadinanza appaia come una


forza laddove si lega al valore dell’unità cittadina: la polis non è
soltanto una forma di aggregazione, ma un fattore identitario,
che si trasferisce come una proprietà a tutti i suoi membri, diffe-
renziando tra loro i Greci di tante città in base alla provenienza.
Ed è in questo senso di appartenenza primaria che il potere di
omologazione della cittadinanza viene evocato sia dai fautori e
ideologi della democrazia, sia dai suoi detrattori, tra cui bisogna
annoverare la maggior parte degli intellettuali che scrivono
sull’argomento tra V e IV secolo.
La forza di questa idea è nello stesso tempo la matrice del
conflitto. Ciò che unisce o divide è l’implicito sottinteso del-
l’idea di cittadinanza, e cioè il richiamo a una comunanza (koi-
nonia) di interessi e intenzioni, che dovrebbe costituire la base
della coesione politica, ma di cui si contesta l’indebita estensio-
ne. La cittadinanza ‘isonomica’, che la democrazia riconosce a
tutti i liberi, senza distinzioni di censo, non cessa di essere og-
getto del contendere; e la comunità politica si divide proprio in
rapporto al valore identitario dell’appartenenza politica, alzando
o abbassando le pretese di omogeneità per coloro che devono
riconoscersi nell’ordine di una stessa politeia. Il valore di con-
divisione attribuito all’essere cittadini assume così significati
diversi, e di parte, a seconda della provenienza sociale e del-
l’orientamento politico di chi parla.
Per cogliere i termini radicali della divergenza, basterà met-
tere a confronto due notissimi testi del V secolo: il discorso di

 
22 Fulvia de Luise

Pericle in Tucidide,15 e il dialogo tra due cittadini filo-oligar-


chici riportato dall’Anonimo dell’Athenaion Politeia.16
Il discorso di Pericle, un Epitafio dedicato ai caduti del primo
anno della guerra del Peloponneso, costituisce in realtà un ritrat-
to e un elogio della città democratica, come possiamo facilmen-
te cogliere in alcuni passaggi:
37. Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in
quanto noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è
retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla
maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per
quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità,
mentre per quanto riguarda l’amministrazione dello stato, ciascuno è
preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non
per la provenienza da una classe sociale, ma più che per quello che va-
le. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono
alla città, non ne è impedito dall’oscurità del suo rango sociale […]
Senza danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e
nella vita pubblica la reverenza soprattutto ci impedisce di violare le
leggi, in obbedienza a coloro che sono nei posti di comando, e alle
istituzioni, in particolare a quelle poste a tutela di chi subisce ingiusti-
zia o che, pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergo-
gna da tutti. […] 39. Ma anche nelle esercitazioni di guerra noi siamo
diversi dai nemici […] noi siamo disposti ad affrontare pericoli più col
prendere le cose facilmente che con un esercizio fondato sulla fatica, e
con un coraggio che non è frutto di leggi, ma di un determinato modo
di vivere […] 40. Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichia-
mo al sapere, ma senza debolezza; adoperiamo la ricchezza più per la
possibilità di agire, che essa offre, che per sciocco vanto di discorsi, e
la povertà non è vergognosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è
assai più il non darsi da fare per liberarsene. Riuniamo in noi la cura
degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci
dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza de-
gli interessi pubblici.17

Più che esaltare, secondo le regole del genere, l’eroismo e


l’appartenenza familiare dei morti in battaglia, l’orazione ri-
                                                                                                                       
15
Thyc. II 35-46.
16
L’autore ignoto della Costituzione degli Ateniesi, spesso citato come
Pseudo-Senofonte, è denominato Anonimo Ateniese nella traduzione di Lu-
ciano Canfora 1982.
17
Thyc. II 37-41, trad. di C. Moreschini, rivista da F. Ferrari.

 
L’invenzione del cittadino 23

manda alle prerogative comuni che ogni cittadino possiede in


virtù della sua appartenenza alla polis di Atene: un sistema ori-
ginale, capace di indurre i cittadini a identificarsi con le istitu-
zioni politiche, al di là delle loro differenze di status economico
e sociale. Stabilendo che esse non saranno di ostacolo al ricono-
scimento delle qualità distintive degli individui, il Pericle tuci-
dideo fornisce una giustificazione bipartisan al criterio dell’iso-
nomia, allo stesso tempo una garanzia per tutti (in termini di
‘pari opportunità’) e una concessione di stampo meritocratico ai
valori competitivi della tradizione aristocratica. Ugualmente
strategica è la difesa indiretta dell’isegoria attraverso l’idea del-
la reverenza per le leggi, che tutti sentono come un patrimonio
comune: un effetto di integrazione indotto dall’esercizio attivo
della cittadinanza democratica. In questo quadro, perfino il co-
raggio (qualità dei ‘pochi’, secondo il modello spartano e filo-
oligarchico) appare virtù diffusa, motivata dalla forte adesione a
un sistema di vita che tutti si sentono chiamati a difendere.
Forma e contenuti del discorso evocano la cittadinanza come
espressione di reale e profonda comunità: in questo senso parla
l’uso costante del «noi» da parte di Pericle, per riferirsi a un
modo di pensare, di sentire e di agire, che coinvolge ogni mem-
bro della città di Atene, e non solo i suoi eroi. Non c’è dubbio
che l’effetto retorico atteso dalla rappresentazione sia appunto
un’esaltazione e un incremento del senso di appartenenza alla
comunità politica.18
Del tutto opposto è il quadro offerto dall’Anonimo del-
l’Athenaion politeia, che riporta, in un dialogo tra due fautori
dell’oligarchia, le peggiori critiche al sistema democratico, con-
siderato un dominio di parte, esercitato dalla massa (il plethos)
sui «migliori»:
4. C’è chi si meraviglia che gli Ateniesi diano, in tutti i campi, più
spazio alla canaglia, ai poveri, alla gente del popolo, anziché alla gen-
te perbene; ma è proprio così che tutelano – come vedremo – la demo-
                                                                                                                       
18
Una lettura del discorso di Pericle come compiuta teoria della democra-
zia si trova in Musti 1995.

 
24 Fulvia de Luise

crazia. Giacché appunto, se stanno bene e si accrescono i poveri, la


gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza la democrazia. Quando
invece il popolo consente che prosperino i ricchi e la gente per bene,
non fa che rafforzare i propri nemici. 5. Dovunque sulla faccia della
terra i migliori sono nemici della democrazia: giacché nei migliori c’è
il minimo di sfrenatezza e di ingiustizia, il massimo di inclinazione al
bene; nel popolo invece c’è il massimo di ignoranza, di disordine, di
cattiveria […] 8. Ma proprio da quello che tu chiami “malgoverno”
(kakonomia) il popolo trae la sua forza e la sua libertà. 9. Certo, se è il
buon governo (eunomia) che cerchi, allora lo scenario è tutt’altro: ve-
drai i più capaci imporre le leggi, e la gente perbene la farà pagare alla
canaglia, e sarà la gente perbene a prendere le decisioni politiche, e
non consentirà che dei pazzi siedano nel Consiglio o prendano la paro-
la in assemblea. Così in poco tempo, con saggi provvedimenti del ge-
nere, il popolo cadrebbe in schiavitù. […] 20. Ma io al popolo la de-
mocrazia gliela perdono! È comprensibile che ciascuno voglia giovare
a se stesso. Chi invece, pur non essendo di origine popolare, ha scelto
di operare in una città governata dal popolo piuttosto che in una oli-
garchica, costui è pronto ad ogni mala azione e sa bene che gli sarà
più facile occultare la propria ribalderia in una città democratica anzi-
ché in una città oligarchica.19

La contrapposizione costante dei «migliori» ai «peggiori»


segnala che nessuna conciliazione, e tanto meno integrazione, è
considerata possibile: se la democrazia è il regime che sancisce
il dominio dei kakoi, l’oligarchia sarà, auspicabilmente, il regi-
me del dominio degli agathoi.20 Entrambe le parti, nella rappre-
                                                                                                                       
19
Anonimo ateniese, La Costituzione degli Ateniesi, trad. di L. Canfora.
20
La logica oppositiva su cui si organizza il discorso è analizzata nei suoi
presupposti di violenza politica e epistemologica in Vegetti 1977, che correda
l’analisi con una Tavola delle opposizioni polari presenti nel testo dell’Ano-
nimo. Di fatto, l’intenzione oligarchica, che si esprime nel rifiuto di ogni me-
diazione col popolo e nella dichiarata volontà di dominarlo, è sostenuta nel
testo da un’impressionante dicotomia di valori: il disordine, l’ignoranza, la
cattiveria del demos, da un lato; la responsabilità, la cognizione, la virtù degli
aristocratici dall’altro. Tutto ciò ha il suo antecedente in un luogo comune del
pensiero sapienziale (condiviso dai Pitagorici, da Eraclito e da Parmenide),
secondo cui solo «i pochi» sono in grado di pensare, mentre la massa oscilla
nel suo vuoto mentale, in preda alle emozioni e ai desideri del momento. In
aree importanti del mondo greco a queste convinzioni si erano associati con-
creti progetti di dominio politico, come quello dei Pitagorici a Crotone, sul
versante ionico della Magna Grecia, nella prima metà del V secolo. Nel testo
dell’Anonimo ateniese leggiamo perciò anche la convinzione di essere parte

 
L’invenzione del cittadino 25

sentazione dell’Anonimo, si muovono secondo un disegno di


esclusione reciproca, che impedisce di immaginare un esercizio
non conflittuale della piena cittadinanza. La posta in gioco è a
quale dei due gruppi spetterà il potere di decisione politica; e in
democrazia esso è inevitabilmente consegnato alla massa, in vir-
tù del principio di maggioranza. La cittadinanza egualitaria,
come espressione di koinonia politica tra parti sociali che resta-
no diverse e contrapposte, non è che pura finzione.
All’interno dello stesso modello costituzionale si manifesta-
no dunque due visioni del tutto opposte della comunità politica,
due modi diversi di declinare il sentimento dell’appartenenza e
della condivisione civile. La cittadinanza democratica realizzata
ad Atene si rivela così una forma di identità controversa, un
progetto ideologico ambizioso, da un lato, una forzatura che di-
vide, dall’altro. E poiché è della politeia il potere di stabilire i
confini della comunità politica, la forma costituzionale resterà il
primo oggetto di contesa, nella battaglia delle idee o nella guer-
ra civile.

3. La politeia come fabbrica di cittadini

Quando, molto più avanti, Aristotele spiega nei primi capitoli


del III libro della Politica, parlando da scienziato e non da citta-
dino, che ogni costituzione produce un determinato modello di
cittadinanza, usa la formula comica proposta un secolo prima
dal sofista Gorgia per dire che ogni politeia si comporta come se
fosse una «fabbrica» di cittadini, ordinati su commissione per
essere adatti al regime cui appartengono:

                                                                                                                                                                                                                                                   
di un conflitto che supera la dimensione cittadina: «il Popolo di Atene», con
la sua aberrante imposizione dell’isonomia, è una minaccia al mondo greco
dei valori aristocratici, all’idea stessa del «buon governo», legata al privilegio
dei «migliori». Ed è con particolare risentimento che il testo allude agli ari-
stocratici di nascita che si erano piegati a stringere uno scellerato patto col
popolo, prestando ai suoi desideri le proprie capacità di direzione politica.

 
26 Fulvia de Luise

Gorgia di Leontini, in parte trattando seriamente la questione, in parte


ironizzando, diceva che, come i mortai sono quegli strumenti fatti dai
fabbricanti di mortai, così cittadini di Larissa sono quelle persone che
sono state fatte tali da artigiani adibiti a quella funzione, perché ci so-
no dei fabbricatori di Larissei.21

Forgiare un modello di cittadinanza corrisponde infatti, se-


condo il filosofo, all’atto istitutivo di una costituzione; un atto
insindacabile, che, identificando i cittadini secondo caratteristi-
che volute e attribuendo loro determinate prerogative di accesso
alla direzione della polis, rivela il carattere d’ordine della poli-
teia, ovvero i valori e le finalità che essa sceglie di perseguire.
«Vediamo che tutta l’attività (pragmateian) dell’uomo politico e
del legislatore riguarda la città, ma la costituzione è un certo or-
dine (taxis tis) di coloro che la abitano»,22 dice Aristotele in
apertura della sua ricerca sui fondamenti delle istituzioni politi-
che. Subito dopo l’indagine si concentra sulla figura del cittadi-
no, che costituisce l’unità di base di ciascun sistema:
Poiché la città è un composto, come una qualsiasi altra totalità costi-
tuita da molte parti, è chiaro che bisogna prima cercare che cos’è il
cittadino: infatti la città è costituita da una moltitudine di cittadini, sic-
ché sorge il problema di determinare a chi spetti questa qualifica e che
cosa essa significhi. E anche nella soluzione di questo problema si è
spesso in dubbio, perché non tutti si accordano nel riconoscere le stes-
se persone come cittadini: infatti chi lo è in una democrazia spesso
non lo è in un’oligarchia.23

Tra politeia e politai si stabilisce così un rapporto originario


di co-implicazione e di reciproco riconoscimento. Fissato questo
punto, la ricerca può da un lato definire in astratto la cittadinan-
za, come condizione propria di chi è considerato parte attiva
della città,24 dall’altro studiare i criteri di attribuzione della cit-
                                                                                                                       
21
Aristotele, Pol. III 2, 1275 b 26-30. Per le citazioni dalla Politica di
Aristotele, si userà la traduzione di Carlo Augusto Viano 2002, con alcune
modifiche.
22
Pol. III 1, 1274 b 36-1275 a 5.
23
Pol. III 1, 1274 b 36-1275 a 5.
24
La definizione del cittadino in quanto tale è centrata sulla facoltà di par-
tecipare attivamente alla direzione politica della città, includendo nel concetto

 
L’invenzione del cittadino 27

tadinanza come dispositivi miranti al fine che la città nel suo in-
sieme si è data. Nel libro IV della Politica, dove il filosofo sem-
bra raccogliere in sintesi i risultati teorici raggiunti nel libro III,
in vista della loro applicazione a casi e situazioni specifiche, il
valore strategico delle forme costituzionali si rende esplicito
nella definizione tecnica della politeia: «La costituzione è un
ordine per le città, riguardante le cariche pubbliche (peri tas ar-
chas), il modo in cui sono distribuite, quale sia il potere supre-
mo (to kyrion) della costituzione e quale sia il fine (telos) di cia-
scuna comunità».25 La scelta dei parametri che identificano i cit-
tadini, consentendo o negando l’accesso alle pratiche di eserci-
zio attivo della cittadinanza, è dunque, agli occhi del filosofo,
un atto politico strategico, mai neutro, e carico delle più rilevan-
ti conseguenze.
Senza citare il passo aristotelico, il costituzionalista Zagre-
belsky, intervenendo recentemente sulle pagine di un quotidiano
nazionale, ne parafrasava evidentemente il linguaggio per dire
che le scelte procedurali con cui si attribuisce e disciplina il po-
tere del cittadino elettore, sono in realtà atti costitutivi dell’elet-
tore in quanto tale:
Gli elettori non esistono in natura. Sono il prodotto delle leggi e dei si-
stemi elettorali. Neanche le parole degli elettori, i loro voti, sono un
dato naturale. Dipendono dagli artifici in cui sono inseriti e conteggia-
ti per produrre un risultato […] Gli elettori sono l’effetto delle leggi
elettorali. Queste, per così dire, “fanno l’elettore”, lo rispettano e lo
usano; sono neutrali o sono faziose; sono sincere o sono mentitorie.
Trasformano l’elettore da una realtà virtuale a una realtà concreta.26

Aristotele, guardando alla grande esperienza delle poleis, è il


primo a spiegarci come funziona davvero la «fabbrica dei citta-
                                                                                                                                                                                                                                                   
di arche sia le cariche individuali a tempo determinato, sia la partecipazione a
collegi deliberanti o giudicanti: cittadino a pieno titolo è in definitiva «colui
che ha la facoltà (exousia) di condividere una carica deliberativa e giudizia-
ria» (III 1, 1275 b 19-21).
25
Pol. IV 1, 1289 a 15-18.
26
G. Zagrebelsky, A chi appartiene la legge elettorale, «Repubblica», 7
febbraio 2017, p. 1.

 
28 Fulvia de Luise

dini»,27 al di là dello scherzo di gorgiana memoria. La sua mes-


sa a fuoco della politeia come modello costituzionale, declinabi-
le in molte varianti, è un invito a leggere le disposizioni che ri-
guardano la cittadinanza e le pratiche partecipative ad essa con-
nesse come atti di strategia politica.

4. Cittadinanza come soluzione di conflitti e strategia di di-


stribuzione

Sulla varietà delle scelte possibili, lo scienziato Aristotele


ostenta un disincanto che non corrisponde certo al clima in cui
si svolse la tormentata e gloriosa vicenda che portò a realizzare
una forma radicale di democrazia ad Atene. Le istituzioni ate-
niesi si forgiarono nel vivo di aspri conflitti sociali, che spinsero
a cercare forme nuove di equilibrio politico e a intervenire a
questo scopo sulle leggi che regolano la cittadinanza e le prero-
gative dei cittadini. Ripercorriamone brevemente i momenti-
chiave.
All’inizio del VI secolo, nel cuore di una grave crisi, che ve-
de schierati i gene proprietari di terre e detentori del potere poli-
tico, contro il demos non possidente e sistematicamente escluso
da ogni decisione, si realizza la prima grande riforma di cui ci è
stata trasmessa memoria: la costituzione di Solone, che istituisce
un ordine gerarchico censitario tra quattro classi di cittadini.
Nella sua opera poetica egli la presenta come un difficile com-
promesso tra le parti, realizzato col porre se stesso in una posi-
zione mediana, come «limite» di giustizia, impedendo la preva-
ricazione di uno schieramento sull’altro. Se indubbia è l’impor-
tanza dei provvedimenti presi da Solone per la risoluzione del
conflitto, la novità sta soprattutto nell’idea di ‘mediazione’, qui
chiaramente enunciata come spazio proprio della politica, in

                                                                                                                       
27
Conoscere e comparare i modelli costituzionali prodotti dalle poleis do-
vette essere lo scopo della raccolta commentata di 158 politeiai, di cui l’unica
rimasta documenta istituzioni e storia della città di Atene.

 
L’invenzione del cittadino 29

quanto luogo di un ordine condiviso.28 «Retta giustizia» (eu-


theia dike) e «buon ordine» (eunomie)29 resteranno i punti-chia-
ve dell’eredità di Solone, espressione dell’imparzialità del pote-
re politico, che promuove l’unità dei cittadini e si fa garante di
una legge riconoscibile da tutti.
Il dibattito sulla giustizia ha certo radici più antiche e pos-
siamo naturalmente rintracciare già nella tradizione omerica e
esiodea30 il concetto di ‘limite’ come opposto e correlativo di
violazione: colpevole di pleonexia (sopraffazione) è per tutti chi
supera il confine della propria moira, che è la parte assegnata in
una ipotetica distribuzione corretta di beni e prerogative; la ‘par-
te del lupo’ è proverbialmente quella di chi pretende di avere di

                                                                                                                       
28
Cfr. in particolare il fr. 30 West, in cui Solone rivendica di aver scritto
leggi ugualmente valide per i ricchi e per i poveri e di avere così recuperato
molti uomini, prima sottoposti a padrone, fuggiti lontano o venduti come
schiavi, restituendoli alla polis come cittadini; per farlo ha dovuto muoversi
«come lupo tra molti cani». L’eliminazione della schiavitù per debiti e i di-
spositivi di difesa legale per i poveri avevano di fatto limitato il potere degli
eupatridi, pur senza sottrarre il monopolio del potere politico e giudiziario alla
parte nobile e ricca. Nel IV secolo, dopo gli sviluppi e le ripetute crisi della
democrazia realizzata, saranno soprattutto i moderati a proporre il ripristino di
quella forma di governo bilanciata, ma non egualitaria, che viene evocata sot-
to il nome di «patrios politeia», «costituzione dei padri». Sul tema cfr. Ga-
staldi 2008.
29
Cfr. in particolare il fr. 3 West, vv. 30-39, sull’opposizione tra dysnomie
e eunomie, e il fr. 4 West.
30
Ben rappresentata in Omero è l’idea di giustizia come forma di ricono-
scimento condiviso, affidata nell’Iliade al giudizio dell’assemblea dei guerrie-
ri, nell’Odissea all’intelligenza morale di personaggi autorevoli come Ulisse.
Il significato di dike (giustizia) è fissato per contrasto rispetto a hybris (ol-
traggio) e a bia (violenza), definendo un limite, oltre il quale l’azione si tra-
sforma in violazione; chi lo viola scivola in una condizione sub-umana, il cui
modello negativo sono i Ciclopi che «non hanno assemblee di consiglio, non
leggi» (Od. IX 112) e sono più forti e più antichi di Zeus. La giustizia ha la
sua prima trattazione organica in Esiodo, che ne fa il canone del limite (Le
opere e i giorni, vv. 202-292), e nella Teogonia delinea la discendenza della
dea Dike da Zeus e dalla più antica Themis. Solone ne riproduceva in parte il
patrimonio simbolico, ma trasformava l’opera di giustizia in un impegno del
tutto umano, e specificamente politico, descrivendo in termini di contenimen-
to e di corretta misura la sua mediazione tra le parti sociali.

 
30 Fulvia de Luise

più in ragione della sua forza. Ma se fare le parti è opera di giu-


stizia, molto dipende da chi e come decide il criterio della di-
stribuzione. Per questo, come Aristotele rileva, il destino costi-
tuzionale di una comunità si decide a partire dalla cittadinanza,
il primo dei beni soggetti a distribuzione politica.
Meno di un secolo dopo Solone, Clistene reinventa il model-
lo dell’appartenenza politica, ridefinendo il corpo civico e isti-
tuendo, per la designazione dei membri degli organi di governo
della polis, un criterio di rappresentanza puramente territoriale,
che rende formalmente irrilevanti l’appartenenza familiare e la
posizione censitaria dei cittadini.31 Anche in questo caso, la ri-
forma interviene nel vivo di un conflitto e di una frattura istitu-
zionale (la caduta della tirannide dei Pisistratidi e i concomitanti
disordini interni). Senza entrare nel dettaglio e nelle difficoltà
della ricostruzione, che si basa su un numero limitato di fonti,
con lacune e parzialità, possiamo assumere per certo che la ri-
forma di Clistene (508 a.C.) segni almeno l’inizio di un modello
politico fondato sull’uguaglianza giuridica dei cittadini e l’ac-
cesso paritario alla parola pubblica.32 Con Clistene, il valore

                                                                                                                       
31
Abolito l’accesso politico differenziato secondo la gerarchia censitaria
di Solone, la popolazione cittadina si articola ora in dieci «tribù», ciascuna
delle quali riunisce al suo interno tre «trittie», che raccolgono a loro volta un
certo numero di «demi» di provenienza territoriale diversa (afferenti cioè a tre
distretti di differente composizione sociale: la costa, la città, le regioni del-
l’interno). I «demi» (in tutto 139) esprimono la loro rappresentanza attraverso
la tribù e ogni tribù invia 50 rappresentanti al Consiglio dei Cinquecento
(Boule), detentore del potere di governo. La tribù funziona dunque come una
circoscrizione elettorale e un organo di governo intermedio (con compiti am-
ministrativi e di reclutamento militare), che realizza già in sé l’integrazione di
cittadini di provenienza sociale diversa. Tutti coloro che sono riconosciuti
come cittadini accedono all’ekklesia, l’assemblea cui spetta il potere di ap-
provare le leggi proposte dal Consiglio dei Cinquecento. Ne sono esclusi i
«meteci» (stranieri residenti) e naturalmente le donne e gli schiavi. Le classi
censitarie hanno ancora un ruolo per la determinazione degli obblighi tributari
e per il servizio militare, ma non condizionano l’accesso all’elettorato attivo e
passivo.
32
Sul ruolo di Clistene come nomothetes e sulla sua almeno parziale
damnatio memoriae, cfr. Vegetti 2015.

 
L’invenzione del cittadino 31

dell’uguaglianza sembra imporsi alla politica come potente fat-


tore di coesione interna in un momento di grave crisi politica,
sancendo l’alleanza tra una parte dell’aristocrazia e il popolo,33
per diventare poi l’elemento centrale della rappresentazione
ideologica della città.
Ciò che accade nella storia e nel corpo politico di Atene dopo
la riforma di Clistene (dalla vittoria nelle guerre persiane al ruo-
lo egemonico conseguito da Atene come potenza marittima, con
una composizione interna delle forze sociali profondamente mu-
tata) spiega la nuova, tumultuosa e contrastata fase di riforme,
realizzate da Efialte e poi da Pericle intorno alla metà del V se-
colo: esse costituiscono nel loro insieme un perfezionamento
delle forme della sovranità popolare, che rende possibile una
straordinaria esperienza collettiva di governo partecipato e dif-
fuso.34
                                                                                                                       
33
Le fonti (Erodoto, Storie V 66, 2 e V 69, 2; Aristotele, Costituzione de-
gli Ateniesi, 20, 1) identificano le ragioni del successo di Clistene nell’ap-
poggio del popolo, ma non sono affatto chiari i termini e il peso di questo ap-
poggio, su cui ferve il dibattito (cfr. Raaflaub, Ober, Wallace 2007). Resta
difficile immaginare che alla fine del VI secolo esistesse già un ‘partito’ del
popolo, ma sono di grande e suggestivo interesse le argomentazioni di Ober
2008 a sostegno della possibilità che un evento a carattere collettivo si sia de-
terminato, in una situazione di grave conflitto interno, in modo autonomo,
trovando poi rapidamente le condizioni per una direzione politica. D’altra
parte, una scelta di campo così netta, come quella che trasforma l’aristo-
cratico Clistene (membro della famiglia degli Alcmeonidi) in paladino del
demos, doveva poter contare sulla forza di un movimento politico popolare
già significativo.
34
Alcune istituzioni, come il sorteggio e la rotazione delle cariche o la
corresponsione di un pagamento (misthos) per la presenza in assemblea o lo
svolgimento di un incarico pubblico, sono innovazioni che caratterizzano la
democrazia periclea; altre, come la deliberazione a maggioranza, appartengo-
no già alla pratica consolidata della democrazia (e come tali vengono signifi-
cativamente criticate dai suoi detrattori), ma in età periclea non riguardano
soltanto il funzionamento dell’assemblea dove il popolo esercita il potere le-
gislativo. Esse trovano applicazione in una miriade di micro-organismi deci-
sionali che nel loro insieme regolano il funzionamento amministrativo, giudi-
ziario e politico del sistema. Il fatto che a tutti i cittadini (maschi, adulti e li-
beri) fosse non solo possibile, ma concretamente richiesto nel corso della vita
di occupare cariche pubbliche per un tempo limitato determinava di fatto il

 
32 Fulvia de Luise

Sembra dunque che la polis abbia trovato nella realizzazione


piena dell’uguale cittadinanza una soluzione strategica, che, ac-
compagnando la crescita della sua egemonia sul mondo greco,
assicurò, per un tempo relativamente lungo, integrazione e pote-
re alla città nel suo insieme, pur senza riuscire a pacificarla. Ma
sarebbe fuorviante pensare a questi momenti, ciascuno dei quali
fa i conti con una diversa fisionomia del conflitto tra le parti
della città, come a tappe di un progresso costituzionale continuo
e inevitabile. Questa idea risponde in realtà a un modo codifica-
to di raccontare la storia della polis che prende forma solo a par-
tire dalla democrazia periclea ormai realizzata.

5. L’ideologia della città

Per l’uso ideologico dello story telling, la democrazia deve


molto a Erodoto, che, oltre a rappresentare efficacemente le ra-
gioni dell’isonomia nel famoso dialogo persiano (il cosiddetto
logos tripolitikos),35 si fa sostenitore autorevole del mito anti-
tirannico con cui Atene esalta la sua identità politica. Nel cuore
dell’età periclea (e forse a sostegno di un’egemonia che comin-
ciava già a incrinarsi), Erodoto scrive: «Atene, che già prima era
grande, allora, liberata dai tiranni, divenne anche più grande»
(Storie V 66). Con questo avvicina direttamente, come causa e
effetto, l’evento della liberazione dalla tirannide (510 a.C.) con
l’inizio delle guerre persiane (490-479 a.C.), in cui l’energia
                                                                                                                                                                                                                                                   
coinvolgimento di un altissimo numero di persone e in un certo senso
l’accumulo nella popolazione di una competenza amministrativa decisamente
superiore a quella di cui dispone oggi un cittadino comune. Su questo aspetto
e in generale sull’efficienza del sistema di rotazione, cfr. Cambiano 2016.
Impedire il consolidamento delle posizioni di responsabilità nella gestione
politica in una burocrazia rispondeva d’altra parte a una precisa strategia di
controllo democratico, che possiamo considerare frutto della diffidenza popo-
lare per la concentrazione del potere. Per questo, la democrazia ateniese non
solo ammette l’aleatorietà nella scelta dei dirigenti, ma ne promuove sistema-
ticamente l’instabilità, disseminando in una vasta gamma di poteri a rotazione
il governo della vita della polis.
35
Erodoto, Storie, III 80-82.

 
L’invenzione del cittadino 33

morale degli Ateniesi avrebbe dimostrato la superiorità dei po-


poli liberi su quelli asserviti dal dispotismo. Lo storico rinvia a
Solone il merito di avere per primo preso posizione a favore del
demos, ma enfatizza l’importanza della libertà riconquistata di-
rettamente dal popolo, facendone la matrice della sua forza in-
terna e del suo destino di grande potenza.
Elaborando il mito anti-tirannico e trasformando in eroi i ti-
rannicidi Armodio e Aristogitone,36 la memoria storica della cit-
tà si riorganizzava intorno ai valori della cittadinanza democra-
tica, mentre nel campo che era stato degli eupatridi, e che rac-
coglieva gli eredi di una tradizione di potere indiscusso, si svi-
luppavano i termini della frattura ideologica aperta dalla riforma
di Clistene. Essa continuerà ad alimentare il risentimento contro
le istituzioni democratiche da parte dei cosiddetti «oligarchici»
(disposti a passare a vie di fatto contro il sistema dell’isonomia)
e anche dei «moderati», che ne mettono in dubbio i fondamenti,
preferendo come riferimento politico Solone e non Clistene.37
Il conflitto tra le parti sociali non corrisponde esattamente
all’opposizione politica che divide i fautori della cittadinanza
democratica dai suoi detrattori, ma è significativo che Platone e
Aristotele riconducano entrambi ogni dissenso capace di intac-
care l’unità cittadina all’ineliminabile differenza di interessi tra i
poveri e i ricchi.38 La disparità sociale contribuisce ovviamente
                                                                                                                       
36
Armodio e Aristogitone, uccisori nel 514-513 del pisistratide Ipparco
(fratello del tiranno Ippia), diventarono oggetto di culto nel V secolo, in quan-
to tirannicidi: la loro figura è parte integrante della costruzione ideologica che
oppone sul piano valoriale democrazia a tirannide. Cfr. Erodoto V 55, VI 109,
3 e VI 123, 2, Thyc. VI 55, 4, Arist. Athen. Pol. 18, 1-19, 2 e 58, 1. Sul tema,
cfr. Monoson 2000, 16-17, 21-50.
37
Sul moderatismo del IV secolo cfr. Gastaldi 2008.
38
Cfr. Pl. Rep. IV 422 e-423 a e Arist. Pol. II 7; IV 4 e 11. Aristotele trac-
cia la linea di demarcazione tra democrazia e oligarchia stabilendo che la
prima è la costituzione in cui governano «i poveri», la seconda quella in cui
governano «i ricchi» (Pol. III 8); ed è tenendo presente la matrice economico-
sociale di ogni conflitto che il filosofo procede all’analisi e alla comparazione
dei regimi, assumendo per certo che ciascuno di essi orienterà la produzione
legislativa all’obiettivo di mantenere stabili le istituzioni e la forma di gover-
no.

 
34 Fulvia de Luise

alla creazione di un confine ideologico, alimentando una diffe-


renza di fondo nei sentimenti civili di appartenenza alle istitu-
zioni.
Se consideriamo rappresentativi i due testi del V secolo pri-
ma citati, i fautori della democrazia (secondo il modello propo-
sto dal Pericle tucidideo) sembrano propensi a riporre fiducia
nel potere di integrazione e pacificazione della cittadinanza iso-
nomica, laddove i suoi critici (secondo il modello dell’Anonimo
Ateniese) sembrano diffidare dell’idea stessa di comunità politi-
ca, che, ai loro occhi, maschera la prevaricazione del demos
(componente peggiore e maggioritaria del popolo ateniese) sui
pochi «migliori». Ovviamente fiducia e sfiducia sono sentimenti
reversibili all’interno del gioco delle parti, ma, mentre la diffi-
denza anti-democratica ha un chiaro indirizzo sovversivo, quella
popolare nei confronti del potere dei pochi si concretizza in un
più forte investimento sulle istituzioni, determinando un impo-
nente sviluppo delle forme collegiali di deliberazione e di con-
trollo politico.39
L’esperienza antica della democrazia sembra aver dato alla
lunga ragione ai fautori dell’unità politica, anche sul piano ideo-
logico: sconfitta e archiviata nei fatti, l’idea democratica della
koinonia non ha potuto più essere cancellata dal vocabolario po-
litico, continuando ad agire come mito operativo e ad essere
usata come criterio di valore anche da chi, come Platone, era
molto lontano dal condividere il modello isonomico della citta-
dinanza.40

                                                                                                                       
39
Sulla rilevanza di questa dinamica per lo sviluppo delle istituzioni de-
mocratiche in Atene e per la riflessione dei filosofi sulle forme di governo,
cfr. Cambiano 2016 e anche de Luise 2017.
40
Monoson (2000) parla in senso molto forte di «Democratic entangle-
ments» di Platone (cfr. in part. 113-153 e 181-205), ipotizzando un suo pro-
fondo coinvolgimento con le forme reali e con elementi del discorso demo-
cratico circolante ad Atene, al di là delle esplicite sue critiche al sistema
dell’isonomia. Nel prosieguo del discorso si accennerà ancora ai possibili ef-

 
L’invenzione del cittadino 35

6. Cittadinanza come linea di confine. Inclusi, esclusi e «au-


toctoni»

La dinamica di integrazione identitaria attivata dalla cittadi-


nanza è tanto più forte quanto maggiori sono i privilegi che essa
comporta. Nel caso di Atene, che resta l’esperienza di maggiore
successo nella storia della democrazia antica, si registra una net-
ta correlazione tra i processi di riduzione della disuguaglianza
interna e l’incremento delle pratiche di dominio esterno, che
permettono di usare a vantaggio della polis anche le risorse de-
gli alleati; mentre, all’inverso, l’esaurimento dell’egemonia ate-
niese incrina il valore della cittadinanza egualitaria, riportando
in primo piano i criteri della distanza sociale e determinando la
crisi della democrazia.
D’altra parte, proprio in quanto assicura l’inclusione in
un’area di garanzia e vantaggi, la cittadinanza funge da disposi-
tivo di esclusione, che diventa più rigido in ragione dell’entità
del privilegio che essa comporta. È di grande interesse notare
l’oscillazione dei criteri che determinano il riconoscimento della
cittadinanza, in un contesto che mantiene fermo il valore di
omologazione sociale dell’isonomia: mentre la svolta ‘territoria-
le’ di Clistene permette un significativo aumento del numero dei
cittadini con l’inclusione di molti residenti, la legge di Pericle
del 451 a.C. limita l’attribuzione della cittadinanza per i nuovi
nati, concedendola ai soli figli di entrambi i genitori ateniesi.
Contro l’affermazione strisciante e certamente controversa di
uno jus soli potenzialmente prevalente, torna in auge uno jus
sanguinis mai così ristretto, che blocca l’espansione dell’area di
privilegio della cittadinanza e ne consolida i confini. Siamo nel
momento più alto di sviluppo della democrazia ateniese, quando
essere cittadini comportava l’accesso a fonti di reddito, oltre che
a prerogative politiche, attraverso le istituzioni.

                                                                                                                                                                                                                                                   
fetti di lungo periodo dell’esperienza della democrazia e del suo fascino ideo-
logico sul filosofo impegnato a costruire la città perfetta.

 
36 Fulvia de Luise

Può essere sorprendente scoprire che è proprio in questo con-


testo che si sviluppa il mito dell’autoctonia degli ateniesi:
un’idea apparentemente arcaica, legata al culto degli antenati,
che in realtà risponde a un’esigenza nuova di rafforzamento
identitario, di valore ideologico e politico. Il mito di Erittonio e
quello di Eretteo, fondatori remoti di una stirpe che da sempre
abita la medesima terra, sono ora evocati per differenziare gli
Ateniesi dagli altri Greci e per rafforzare in loro il sentimento di
una comune ed esclusiva appartenenza.41
Come si può evincere dal saggio di Gastaldi in questo stesso
volume, il riferimento ai miti dell’autoctonia si manifesta nello
stesso contesto democratico-pericleo in cui nasce l’ideologia
della città, che ha il suo perno nell’uguaglianza dei cittadini. Ri-
corrente nelle pitture vascolari a partire dal V secolo, il motivo
mitico dell’autoctonia si presenta come una componente di re-
pertorio obbligata negli epitafi, composizioni retoriche che ce-
lebrano appunto il valore dei cittadini morti in battaglia e quello
della polis nel suo insieme, risalendo alle radici di un’identità
comune.
Pur non essendo i soli a vantare un’origine unitaria alla pro-
pria stirpe42 o un’ininterrotta permanenza sul suolo patrio, gli
Ateniesi hanno forti motivazioni a presentarsi come ‘più autoc-
toni’ degli altri, in un contesto conflittuale che li contrappone
agli Spartani (discendenti dei Dori, quindi non autoctoni) e
sempre più contesta il loro ruolo di difensori dell’Ellade. Essere
                                                                                                                       
41
Sulla struttura interna del complesso di motivi mitici e sulle forme rap-
presentative e rituali della loro presenza nella storia di Atene, sono fondamen-
tali gli studi di Loraux 1981a e 1981b. Sul riproporsi di schemi e motivi sim-
bolici legati al mito dell’autoctonia nella contemporaneità, cfr. Detienne
2004.
42
L’autoctonia, come sinonimo di purezza e nobiltà di lignaggio, può es-
sere rivendicata da singole poleis, ma in generale connota l’unità di stirpe di
tutti gli Elleni, in contrapposizione ai «barbari», considerati privi di identità
civile. Il criterio può diventare più o meno inclusivo, a seconda delle esigenze
politiche, ideologiche o retoriche. Basti pensare che verrà invocato da parte di
Isocrate per giustificare l’investitura di Filippo il Macedone come campione
dei Greci contro i barbari persiani.

 
L’invenzione del cittadino 37

autoctoni significa essere padroni legittimi della propria terra,


alieni dalla colpa di aver violato all’origine diritti altrui e poco
disposti a farlo nell’attualità, motivati ad accogliere come ospiti
gli stranieri più che a invadere come stranieri altre città. Nel
quadro di questa rappresentazione ideologica, il progetto di raf-
forzamento dell’identità politica degli Ateniesi coincide con
un’istanza di chiusura del gruppo titolare di un’appartenenza
originaria alla polis e una correlativa istanza di esclusione dei
non-cittadini come estranei per natura.
La posizione di Platone, critico severo della cittadinanza de-
mocratica, può forse aiutarci a capire meglio le aporie che sor-
gono dall’interno del sistema e anche i motivi che spingono il
filosofo a usare determinati argomenti nella ricerca di soluzioni
alternative. Il filosofo sanziona duramente la pratica politica
democratica che concede a tutti i cittadini uguale accesso al po-
tere, ridicolizzandone gli effetti sulla credibilità delle istituzio-
ni;43 attacca direttamente il valore-cardine dell’isonomia, trac-
ciando un ritratto beffardo dell’uomo democratico che vive la
sua vita pubblica e privata secondo questo criterio.44 E tuttavia

                                                                                                                       
43
La composizione aleatoria degli organismi deputati a prendere decisioni
politiche è motivo sufficiente, agli occhi di Platone, per considerare la demo-
crazia un «mercato di costituzioni» (Rep. VIII 557 d 6), in cui le disposizioni
di legge variano di continuo e restano in gran parte inapplicate, determinando
uno stato di impunità latente per tutti.
44
L’uomo democratico, educato all’isonomia per quanto concerne i poteri
politici, trasferisce il medesimo criterio al rapporto che intrattiene con i piace-
ri. Il risultato è che vive «compiacendo» di volta in volta il desiderio che da
ultimo gli si presenta, senza istituire alcuna gerarchia di priorità tra essi: «ora
beve vino al suono del flauto, poi beve solo acqua e fa una cura dimagrante;
ora si dà agli esercizi fisici, a volte invece si impigrisce e non si cura di nien-
te, poi si atteggia come se dedicasse il suo tempo alla filosofia. Spesso prende
parte alla vita politica, e balza alla tribuna per parlare e agire a casaccio. E se
mai gli capita di provare invidia per certi uomini di guerra, si lascia trascinare
in quella direzione, oppure per gli uomini d’affari si rivolge a quest’altra e
non c’è nella sua vita alcun ordine né obbligo; tuttavia, chiamando questa
forma di vita piacevole, libera e beata, vi si dedica per l’intera esistenza».
«Hai perfettamente descritto» disse lui [Glaucone ndr] «la vita di un uomo
isonomico» (Rep. VIII 561 c 6-e 2).

 
38 Fulvia de Luise

sta ben attento a tenere alto il valore della koinonia, che costi-
tuiva il pilastro dell’ordine democratico, ponendolo a sostegno
ideologico del suo progetto di kallipolis.
Come è noto, all’inizio del libro IV, prima di impegnarsi in
quella che sarà una vera e propria «fondazione» politica, il So-
crate platonico si sofferma sul fatto che la città dovrà essere trat-
tata come un intero45 e mantenersi innanzitutto «una» (mia),46
perché sarebbe impossibile attribuire il nome di polis a aggrega-
zioni di «parti», che sono ciascuna una città. Di conseguenza,
alla base della ricostruzione di una città degna di questo nome,
dovrà porsi il rifiuto di distinguere interessi e aspirazioni proprie
di gruppi o di individui, senza mai accettare l’apparente natura-
lità antropologica del conflitto e della pleonexia, che mette cia-
scuno contro tutti. Obiettivo iperbolico della kallipolis diventerà
anzi quello di sopprimere ogni altro sentimento di appartenenza,
familiare o di gruppo, per lasciare in vita soltanto quello genera-
to dall’identità civile: il senso della koinonia, che dovrebbe in-
durre tutti a considerare i propri concittadini come consangui-
nei, per poter dire così all’unisono «mio» o «non mio», pensan-
do a gioie e dolori di ciascuno di essi.47
È interessante notare che questo esito è preparato con molto
anticipo nel libro III della Repubblica, dove, usando l’idea di
fratellanza come emblema dei sentimenti che tengono insieme
una comunità politica, Platone non disdegna di ricorrere all’ar-
ma antica del mito, facendo risuonare in chi già la possiede la
simbologia profonda dell’autoctonia, sia pure nella forma espli-
citamente falsa di una «nobile menzogna»:
Ma a proposito di quelle menzogne che, come dicevamo or ora, pos-
sono rendersi opportune, quale espediente potremo trovare per raccon-
tarne una nobile e farla credere in primo luogo a quegli stessi gover-
nanti, altrimenti almeno al resto della città? […] Cercherò di convin-
                                                                                                                       
45
Cfr. Rep. IV 419 b 3-c 4.
46
Cfr. Rep. IV 422 e 1-423 b 2 per il tema della mia polis: l’unità cittadi-
na non tollera divisioni in parti sociali tra loro estranee e contrapposte, ma
solo articolazioni funzionali al bene comune.
47
Cfr. Rep. V 462 a 9-463 b 8.

 
L’invenzione del cittadino 39

cere in primo luogo i governanti stessi e i soldati, poi anche il resto


della città, che solo in un sogno essi pensavano che gli fosse capitato
di ricevere da noi tutto quell’allevamento e quell’educazione; ma che
in verità durante quel tempo essi si trovavano giù nelle viscere della
terra, dove venivano plasmati e allevati, loro e le loro armi, ed era
fabbricato ogni altro equipaggiamento. E quando furono perfettamente
approntati, la terra come una madre li mandò fuori, ed ora quindi essi
sono risoluti a proteggere il suolo in cui vivono come se fosse una
madre e una nutrice, nel caso che qualcuno lo invada, e a darsi pensie-
ro degli altri cittadini come di fratelli, anch’essi nati dalla terra.48

Questi «nati dalla terra» sono una reinvenzione ottenuta me-


scolando frammenti di storie di matrice esiodea e versioni più
dure, come quella «fenicia» di Cadmo e degli Sparti come
gegeneis armati, che faceva da supporto al militarismo sparta-
no.49 La versione platonica depura quel mito della sua compo-
nente violenta e lo ripropone alla polis futura come puro simbo-
lo identitario, declinando le sole note affettive del tema dell’au-
toctonia.
Se Platone esibisce piena consapevolezza della falsità del mi-
to, lo fa per usarlo a un fine paradossale: per dire che in una cit-
tà veramente perfetta e giusta sarebbe lecito perfino fare il gioco
sporco che da sempre si fa con i bambini, cioè raccontare storie
false per indurre in loro sentimenti veri e appropriati al loro fu-
turo di cittadini. E sembrerebbe che per Platone i sentimenti
giusti siano quelli che distinguono ‘noi’ dagli ‘altri’, almeno nel
caso in cui la nostra città sia la migliore possibile.
Aristotele appare invece del tutto immune al fascino dell’ap-
partenenza al sacro suolo della patria. Come si è prima somma-
riamente accennato, il filosofo esprime con la massima lucidità
il concetto che la cittadinanza è, in ogni tipo di regime, lo stru-
mento con cui si include in un’area protetta la parte che conta
degli abitanti di un territorio, per escluderne altre parti. È perfet-
tamente ovvio per lui che la scelta del criterio di uguaglian-

                                                                                                                       
48
Pl. Rep. III 414 b 7-e 5, traduzione Vegetti
49
Per l’approfondimento analitico e interpretativo di questi aspetti, si ri-
manda ancora al saggio di Gastaldi contenuto in questo volume.

 
40 Fulvia de Luise

za/disuguaglianza da adottare sia oggetto di controversie, in


quanto i pareri su tali questioni divergono sempre tra le compo-
nenti che si collocano in alto o in basso nella scala sociale. Per-
ciò ogni costituzione darà vita a una forma diversa di giustizia,
fissando il suo punto di discrimine e negando, in una certa misu-
ra, le istanze di uguaglianza politica di una parte di coloro che
condividono la stessa terra e che sono tuttavia necessari alla
sussistenza della città.
Alcune esclusioni restano ovvie per gli antichi, talmente
condivise da non poter essere prese in seria considerazione nel
discorso politico. Perciò, per rimanere aderenti al contesto pro-
blematico che stiamo esaminando, possiamo limitarci a conside-
rare pre-politica l’esclusione delle donne e degli schiavi,50 ben-

                                                                                                                       
50
Nel caso delle donne, un mito (giunto con Plutarco in versione tarda,
ma probabilmente di antica fonte) data l’esclusione femminile dalla politica
addirittura all’istituzione stessa della città: la polis sceglie Atena come sua
divinità protettrice per effetto di un voto in cui prevale numericamente la
componente femminile, rispetto a quella maschile (che avrebbe preferito l’al-
ternativa di Poseidone). L’esclusione delle donne dagli spazi della politica,
adottata per ritorsione e mai più revocata, risulta dunque così antica che parla-
re di donne in assemblea o al governo, come fanno in modo diverso Aristofa-
ne e Platone, evoca immediatamente il ridicolo. Sull’immagine e la posizione
giuridica della donna nell’antichità, fondamentale resta Cantarella 1985. Per
gli schiavi il problema della cittadinanza non si può porre, essendo la loro
condizione giuridica talmente al di sotto di ogni tutela che esso viene solleva-
to, al contrario, per discutere la legittimità di concessioni di cittadinanza al-
largata, nei rarissimi casi in cui uno stato di penuria di cittadini abbia consen-
tito di includere nella cittadinanza addirittura ex schiavi affrancati. Sia Plato-
ne che Aristotele discutono i criteri della schiavizzazione legittima, ma non la
condizione di schiavitù (di evidente utilità al funzionamento del sistema pro-
duttivo). Mentre Platone pone il limite dell’andrapodizein (per diritto di guer-
ra) distinguendo i Greci, non schiavizzabili, dai barbari, Aristotele teorizza il
caso degli «schiavi per natura» (Pol. I 3-5), immaginando che una tale condi-
zione si dia se, e solo se, parliamo di uomini di per sé incapaci di governarsi e
quindi in ultima istanza avvantaggiati dal sottostare al dominio dispotico di
un padrone. Da notare che, in quanto una tale incapacità produce effetti ana-
loghi alla mancanza di cultura e di educazione, Aristotele non esita a ipotizza-
re che la cittadinanza dovrebbe essere negata anche a tutti i lavoratori manuali
(banausoi), i quali, benché liberi e benché contribuiscano in modo essenziale

 
L’invenzione del cittadino 41

ché sulla sua ovvietà valga forse la pena di riflettere: un’analoga


cecità nel riconoscere le forme nuove della subalternità femmi-
nile e della schiavitù può manifestarsi nello spazio delle moder-
ne democrazie, dove l’uguaglianza dei diritti è data per definiti-
vamente acquisita.
Problematico appare invece già agli antichi il caso dei «me-
teci», stranieri residenti, spesso ben integrati nel tessuto sociale
cittadino, il cui mantenimento in uno stato di emarginazione, e
anche di minore tutela legale, rispetto alla vita politica attiva
appare un semplice effetto delle leggi che chiudono l’accesso
alla cittadinanza e ne tutelano il privilegio. Di questa consape-
volezza troviamo appunto traccia nella riflessione di Aristotele
sui modi in cui le comunità politiche tracciano i loro confini at-
traverso le leggi che definiscono il cittadino.
Aristotele sa bene che allargamento o restrizione dei criteri di
accesso alla cittadinanza variano in relazione alle circostanze
storiche che la comunità si trova a vivere. Sa che nel caso di
Atene essi si erano allargati al tempo della riforma di Clistene,
momento in cui forse il bisogno di aumentare la base del con-
senso aveva consigliato di inserire «nelle tribù molti meteci di
origine straniera o servile»,51 compiendo un atto illegittimo agli
occhi di molti. Il filosofo riferisce dal suo osservatorio sulle po-
leis del tardo IV secolo, che «nell’uso corrente» prevale il crite-
rio di definire «cittadino chi sia figlio di genitori entrambi citta-
dini e non di uno soltanto, ad esempio del solo padre o della so-
la madre; altri poi estendono oltre questo requisito fino ad avi di
due o tre generazioni, o ancora più in alto».52 Ma qui trova
l’occasione per lanciare una stoccata secca al mito dell’auto-
ctonia, osservando di passaggio l’evidente assurdità di risalire
più in alto di qualche generazione, perché «non è neppure pos-

                                                                                                                                                                                                                                                   
alla vita della città, proprio a causa del lavoro sono privati del tempo e della
formazione necessaria a considerarli parti attive della città.
51
Pol. III 2, 1275 a 36-37.
52
Pol. III 2, 1275 b 22-25.

 
42 Fulvia de Luise

sibile che il requisito ‘figlio di cittadino o di cittadina’ si appli-


chi ai primi abitanti o ai fondatori di una città».53
Gli esempi scelti da Aristotele permettono di cogliere con
chiarezza l’aspetto progettuale implicito nel concetto di cittadi-
nanza, con i criteri di inclusione ed esclusione che esso compor-
ta: se Clistene si era permesso di sfidare così audacemente i cri-
teri tradizionali di cittadinanza, le sue ragioni stavano proprio
nell’intenzione di rompere con le forme istituzionali precedenti
e di inventare una forma di cittadinanza nuova, radicata non so-
lo nel condividere uno spazio, ma nel praticare forme determi-
nate di interazione civile; ben diversa è l’intenzione strategica di
chi cerca nella provenienza autoctona degli antenati un criterio
per chiudere l’accesso ai nuovi arrivati, evitando possibili con-
taminazioni.
Uscendo dai canoni descrittivi che informano una parte im-
portante del suo lavoro, Aristotele pone un unico vincolo di va-
lore alla progettazione costituzionale: che ci si ricordi, mentre si
lavora per definire lo status del cittadino secondo una determi-
nata forma di legalità e di appartenenza, che in gioco non c’è il
semplice vivere o l’abitare, ma il vivere bene. Vale la pena di
riportare le sue parole, dense di riferimenti all’esperienza delle
poleis e alle questioni concrete in gioco:
La città non è costituita soltanto da una comunità di luogo e nemmeno
dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti com-
merciali, perché, sebbene queste cose siano necessarie all’esistenza di
una città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una cit-
tà, che è invece la comunità del vivere bene (tou eu zen koinonia) per
le famiglie e per le stirpi (tais oikiais kai tois genesi), in vista di una
vita compiuta (teleias) e autosufficiente (autarkous). Ciò tuttavia non
si realizzerebbe se non si abitasse in un unico e identico luogo e non si
contraessero matrimoni reciproci […] Ma tutto ciò è opera dell’ami-
cizia: è infatti amicizia il proposito (proairesis) di vivere insieme […]

                                                                                                                       
53
Pol. III 2, 1275 b 32-34.

 
L’invenzione del cittadino 43

E questo coincide, come diciamo noi, con il vivere in modo felice e


bello.54

Conclusioni

La cittadinanza può attingere a un racconto delle origini che


guarda al passato (come nel caso del mito dell’autoctonia ate-
niese e in quello platonico dei nati dalla terra), può diventare un
paradigma di appartenenza ideale (come, ancora nel caso plato-
nico, ci si aspetta che funzioni l’adesione alla kallipolis e al suo
potere normativo)55 o presentarsi come un progetto di identità
comune che guarda al futuro.
Considerato che in ogni caso è l’aspetto strategico che conta,
anche nella scelta dei modelli di riferimento, vorrei concludere
richiamando un mito di cittadinanza della tradizione romana,
che tratta in modo decisamente alternativo i richiami simbolici
alla terra e alle radici. Lo riporto con le parole di Maurizio Bet-
tini, che ne parlava in questo senso dalle pagine di un quotidia-
no, quasi potesse rappresentare una via d’uscita dalle maglie
troppo strette dell’identità politica:
Si narrava infatti che Romolo, al momento di fondare la Città, non so-
lo avesse raccolto a questo scopo uomini provenienti da ogni regione,
ma che ciascuno di costoro avesse portato con sé una zolla della terra
da cui proveniva. Scavata dunque la fossa di fondazione, destinata a
costituire il centro della futura città, ciascuno di questi uomini vi gettò
dentro la propria zolla di terra, mischiandola con tutte le altre. Secon-
do il mito romano dunque, la città di Roma era sorta su una terra non
solo “mista”, ma creata dagli stessi futuri abitanti della città.56

                                                                                                                       
54
Arist. Pol. III 9, 1280 b 30-1281 a 2.
55
Cfr. Rep. IX 592 a 5-b 4. Sul tema cfr. Vegetti 2005 e 2009.
56
M. Bettini, Quella lezione dell’antica Roma, «Repubblica», 31 gennaio
2017, p. 29.

 
44 Fulvia de Luise

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SILVIA GASTALDI

L’AUTOCTONIA DEGLI ATENIESI: UN MITO CIVICO DI IDENTITÀ

1. L’identità del cittadino, in Atene, si costituisce, nel V secolo,


anzitutto a livello giuridico. Come scrive Aristotele nel cap. 26,
3 della Costituzione di Atene, «Sotto l’arcontato di Antidoto» e
cioè nel 451-450, «a causa del grande numero dei cittadini (διὰ  
τὸ   πλῆθος   τῶν   πολιτῶν), su proposta di Pericle, decisero
che non potesse partecipare alla città (µμὴ µμετέέχειν   τῆς  
πόόλεως) chi non fosse nato da entrambi i genitori cittadini (έέξ  
ἀµμφοῖν   ἀστοῖν)». Non si tratta della formulazione originale
del provvedimento, che non è conservata, ma della sua versione
più antica giunta fino a noi.1
Aristotele indica la causa che avrebbe determinato la propo-
sta di Pericle, destinata a essere accolta e votata: il gran numero,
il plethos, dei cittadini. Gli storici individuano varie motivazioni
a sostegno di questa asserzione. Viene citata anzitutto la neces-
sità, avvertita alla metà del V secolo, nel pieno sviluppo del-
l’imperialismo marittimo, di porre un limite al numero dei citta-
dini, identificando un gruppo preciso di individui che possano
godere dei vantaggi non solo politici, ma anche economici, de-
rivanti dal µμετέέχειν   τῆς   πόόλεως, cioè dall’appartenere alla
città, intesa come comunità. Secondo altri, si tratterebbe di una
reazione al numero troppo elevato di matrimoni misti, che non

1
Per quanto riguarda gli autori successivi, Eliano nella Varia Historia
(13, 24) ne fornisce una versione pressoché identica, mentre Plutarco, nella
Vita di Pericle (37, 3) modifica la formula che abbiamo visto asserendo che,
secondo la legge di Pericle, avrebbero potuto essere ateniesi solo coloro che
fossero nati da due ateniesi. Secondo Blok 2009a, 142-143 è probabile che la
formulazione più vicina a quella originale sia quella riportata da Plutarco,
mentre quanto scrive Aristotele rappresenterebbe piuttosto una parafrasi.
52 Silvia Gastaldi

riguardano più – come nell’epoca arcaica – l’unione di aristo-


cratici ateniesi con donne straniere di alto rango, al fine di au-
mentare la propria influenza politica, ma che consisterebbero, in
questo periodo, in unioni con meteci e addirittura tra cittadini e
schiave.2
Non è da escludere che soprattutto il primo motivo, e cioè
quello di selezionare il gruppo dei cittadini a pieno titolo facen-
done il destinatario di particolari privilegi, avesse giocato un
ruolo significativo, ma probabilmente alla misura fatta adottare
da Pericle si può attribuire anche un altro e più importante signi-
ficato: rinsaldare la coesione interna della città, fissando netta-
mente i contorni, e i limiti, della comunità. Questo scopo è otte-
nuto tramite una normativa sulle unioni, che devono coinvolge-
re due astoi: questo termine, più arcaico rispetto a quelli di poli-
tai, ma dotato di un analogo significato, è proprio del linguaggio
giuridico e in quanto tale è utilizzato, in pieno V secolo, in un
provvedimento legislativo.3
Se è vero che la legge di Pericle mira a costituire un gruppo
coeso e compatto di cittadini, decretando di fatto l’espulsione
dalla cittadinanza, dal µμετέέχειν   τῆς   πόόλεως, di tutti coloro
che non rispondono al criterio fissato, a rinforzare questa solida-
rietà interna contribuisce un tema che si propaga proprio alla
metà del V secolo, e cioè il tema dell’autoctonia degli Ateniesi.4

2. Quella di autoctonia è una nozione che si modifica nel


corso del tempo. Il primo senso che essa assume, come risulta
chiaramente dai testi, è quello della costante presenza della stir-
pe ateniese nello stesso luogo. Nei primi testi in cui questo mo-
tivo emerge non è presente nemmeno il vocabolo “autoctonia”.
Si veda anzitutto Erodoto: benché il termine autochthones sia
2
Un’ampia discussione degli studi relativi al provvedimento pericleo si
riscontra in Blok 2009a, 146-150.
3
Sui termini che designano il cittadino nell’Atene arcaica e classica cfr.
Blok 2005, 7-40.
4
Come scrive Loraux 1981b, 150, l’autoctonia è un «mythe patriotique et
civique incarnant l’unité de la collectivité athénienne».
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 53

ripetutamente utilizzato nella sua narrazione in riferimento a di-


versi popoli,5 non compare mai in relazione agli Ateniesi, ben-
ché sia chiaramente messo in luce il motivo del loro originario
radicamento alla terra attica. Nel libro VII 161, 3, nell’ambito
della narrazione della seconda guerra persiana, Erodoto mostra
come gli Ateniesi abbiano rivendicato il comando della spedi-
zione greca proprio in nome di questo loro legame con la terra,
fatto valere come un motivo di superiorità rispetto agli altri po-
poli. Lo stesso tema è presente in Tucidide, che nella Archaio-
logia (I 2, 5) rievocando l’antica storia dell’Attica, sottolinea
come questa regione, a causa dell’aridità del suo suolo, sia ri-
masta non solo esente dalle staseis interne (astasiaston) fin dai
tempi più remoti, ma che sia stata anche sempre abitata dagli
stessi uomini. Tucidide contrappone questa situazione privile-
giata a quella degli altri popoli che, avendo affrontato le emi-
grazioni in varie parti della Grecia, non hanno potuto consolida-
re un potere come quello ateniese. D’altra parte l’Attica è stata
luogo di rifugio e di accoglienza per coloro che vi giungevano
da fuori, affrontando un aumento della popolazione tale da ren-
dere necessaria la fondazione di colonie nella Ionia.6
5
Cfr. I 171, 5, a proposito dei Cari, afferma che essi si ritengono autocto-
ni, mentre i Cretesi sostengono che essi prima abitavano nelle isole; a I 172, 1
dichiara di ritenere che i Cauni siano autoctoni, anche se essi stessi affermano
di provenire da Creta; a IV 109, 1, si dice che i Budini, popolo della Scizia,
sono autoctoni; a IV 197, 2 Erodoto, descrivendo le popolazioni della Libia,
distingue tra Libi e Etiopi, che sono autoctoni, da Fenici e Greci, che sono
immigrati (epeludes). L’occorrenza più antica del termine autochthon si ri-
scontra in Eschilo, Agamennone 536: l’araldo, giunto ad Argo per annunciare
la vittoria degli Achei nella guerra di Troia e il prossimo ritorno di Agamen-
none, sottolinea la giusta punizione cui è andato incontro Paride, il quale è
stato la causa della rovina dell’autochthon patroon domon. Commentando
questo passo, Blok 2009, 253 rileva che l’aggettivo autochthon evoca la fon-
dazione di Troia da parte degli dei, una città che, fino all’insensato gesto di
Paride, si è conservata nel suo luogo originario: il vocabolo avrebbe dunque,
fin dall’origine, un preciso riferimento al radicamento a un luogo. Sui termini
greci che posseggono il prefisso auto- e sulla loro formazione si veda Rosi-
vach 1987, 294-306, in particolare 297-301.
6
Questa apertura degli Ateniesi all’ospitalità è valorizzata, a fini chiara-
mente propagandistici, soprattutto nelle tragedie. Si vedano, in particolare, gli
54 Silvia Gastaldi

Questo motivo emerge anche dalll’Epitafio di Pericle in Tu-


cidide. Non facendo nessun accenno né alle più lontane imprese
mitiche, né ad altre vicende del passato ateniese, Pericle afferma
piuttosto che gli antenati, i progonoi, «abitarono sempre la no-
stra terra e, nel succedersi delle generazioni, ce la tramandarono
grazie ai loro meriti libera fino ai nostri giorni» (II 36, 1. Trad.
Longo).
Tutti e tre questi passi possono essere senz’altro classificati,
seguendo Nicole Loraux, come parte di un discorso egemonico,
teso a rivendicare, attraverso il motivo della presenza costante
nella terra attica, la superiorità degli Ateniesi su tutti gli altri
popoli e, nell’epitafio pericleo in particolare, rispetto agli Spar-
tani, discendenti dei Dori immigrati nel Peloponneso. Come sot-
tolinea la stessa studiosa, questo discorso è pronunciato davanti
a un pubblico composto non solo da cittadini, ma anche da me-
teci e da stranieri: la città si autorappresenta e si propone
all’osservazione e all’ammirazione degli altri.7

3. Il legame strutturale ed esclusivo degli Ateniesi con la ter-


ra attica inizia a essere designato come autoctonia, cioè nascita
dalla terra, solo negli ultimi decenni del V secolo, facendo le
sue prime apparizioni in testi poetici, in particolare nella com-
media e nella tragedia. La prima attestazione sembra essere
quella presente nelle Vespe di Aristofane, rappresentate nel 422:
il capo del primo semicoro, composto dagli anziani giudici del-
l’Eliea, sottolinea che, sebbene la forza fisica e il coraggio del
passato siano ormai scomparsi, rimane loro il pungiglione, a
dimostrazione che si tratta dei «soli veri Attici autoctoni, stirpe
coraggiosissima» (v. 1076). Agli Ateniesi si deve il compimento
di grandi imprese, come le guerre persiane, quando difesero e

Eraclidi di Euripide, in cui, per sfuggire alle vessazioni di Euristeo, i figli di


Eracle si rifugiano ad Atene, dove sono accolti dal re Demofonte, e le Suppli-
ci, sempre di Euripide, in cui le madri dei guerrieri caduti nella guerra dei
Sette contro Tebe giungono ad Atene per chiedere l’aiuto del re Teseo per
ottenere la sepoltura dei caduti, negata da Creonte, il nuovo sovrano tebano.
7
Loraux 1981b, 79-80.
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 55

preservarono la città. Il riferimento è chiaramente alla seconda


guerra, poiché Aristofane ne mette in luce la più importante
conseguenza, e cioè la fondazione dell’impero marittimo, grazie
al quale Atene ha incamerato i tributi. In questo caso, dunque, si
delinea uno stretto legame tra l’autoctonia e l’egemonia, un nes-
so presente anche nell’Epitafio di Pericle, sebbene questo nesso
sia espresso, nella commedia, in una forma meno esplicita.
Per quanto riguarda la tragedia, nello Ione di Euripide, la cui
data di rappresentazione non è sicura – ma dovrebbe cadere tra
il 413 e il 410 – il dio Hermes dichiara, nel prologo, di essere
stato inviato dal fratello, Apollo, «a recarsi dal popolo autocto-
no della celebre Atene» (vv. 29-30) per condurre a Delfi, presso
il suo santuario, il figlio nato dall’unione di costui con Creusa,
moglie del re ateniese Xuto. Si tratta appunto di Ione, che la
madre aveva abbandonato nella stessa grotta, alle pendici del-
l’Acropoli, dove aveva subito violenza da parte del dio.
Proprio dalla fine del V secolo e nel corso del IV il termine
autochthones per designare gli Ateniesi diventa di uso comune
anche negli epitafi, dove si modifica anche la nozione di autoc-
tonia. Essa non si riferisce più solo all’insediamento degli Ate-
niesi, fin dalle origini, sulla terra attica: ora è questa terra stessa
a essere designata come madre, meter, e come patris, termini
del linguaggio familiare. Si vede, in controluce, benché non sia
mai nominato, il riferimento al complesso mitico incentrato sul-
la figura di Erittonio, il primo ateniese, la cui autoctonia, intesa
proprio nel senso di nascita dalla terra attica – come si vedrà – è
il modello dell’autoctonia di tutti gli Ateniesi.
Il primo testo da esaminare, in questo contesto, è l’Epitafio
di Lisia, finalizzato a celebrare i caduti ateniesi in uno degli
scontri che avevano caratterizzato la guerra di Corinto, il cui
luogo di svolgimento non è mai menzionato.8 La presenza di

8
Si tratta della guerra che, dal 395 al 387 a.C., oppone Sparta a una coali-
zione formata da Atene, Tebe, Argo e Corinto, con l’appoggio della Persia. I
successi ateniesi allarmano i Persiani, che, passando dalla parte di Sparta,
fanno cessare le ostilità. Così, nel 387 viene sottoscritta la pace di Antalcida.
56 Silvia Gastaldi

cenni molto vaghi agli avvenimenti che si sono svolti avvalora


l’impressione, come sottolinea N. Loraux,9 che questo discorso
intenda deliberatamente cancellare il presente per disegnare
l’immagine perenne e atemporale della città, con uno sguardo
rivolto al passato. Lisia segue lo schema canonico presente negli
epitafi: dalla guerra contro le Amazzoni agli episodi che attesta-
no la propensione all’accoglienza che gli Ateniesi hanno sempre
dimostrato verso chi cercava il loro aiuto, come i parenti dei
morti nella guerra dei Sette contro Tebe e gli Eraclidi. Simili
comportamenti attestano che gli antenati combatterono sempre
in difesa del giusto, perché la loro stessa origine era conforme al
dikaion. È in questo quadro che si colloca il motivo dell’au-
toctonia degli Ateniesi: essi «non abitavano, come la maggior
parte degli uomini, una terra altrui dopo essersi raccolti da mol-
te parti e aver scacciato altre genti», e aggiunge che «erano au-
toctoni ed ebbero la stessa terra come madre e come patria»
(par. 17).10 Appare chiara la polemica antispartana di questa af-
fermazione: gli Spartani hanno occupato il Peloponneso venen-
do da fuori e sottomettendo gli abitanti legittimi di quella terra,
e sono pertanto ingiusti. La loro ingiustizia continua a manife-
starsi nel tempo, fino a ora, dal momento che essi hanno attac-
cato i Corinzi, per la cui difesa sono morti i guerrieri ateniesi
cui l’Epitafio è dedicato.
Lo stesso punto di vista è assunto da Isocrate nel Panegirico
che, pur non essendo ascrivibile al genere dell’epitafio, ne con-
divide molti motivi topici, ed è finalizzato a mostrare per quali
ragioni Atene debba pretendere l’egemonia sulla Grecia. Anche
il discorso isocrateo viene scritto durante la guerra di Corinto,

La fine della guerra porta vantaggi ai Persiani stessi, che si impadronirono


delle colonie greche della costa asiatica.
9
Loraux 1981b, 123-125.
10
Trad. it. Medda 1991. L’autenticità dell’Epitafio è stata spesso messa in
discussione. Per una efficace messa a punto degli argomenti addotti a favore
o contro la paternità lisiana dello scritto cfr. Medda 1991, 104-107.
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 57

sebbene sia pubblicato solo nel 380.11 Tra le ragioni addotte per
sostenere la superiorità di Atene sulle altre città vi è proprio
l’autoctonia e le espressioni utilizzate a questo riguardo sono
quasi identiche a quelle che si leggono in Lisia: «Abitiamo que-
sto paese non avendone scacciato altri né avendolo trovato de-
serto né essendoci riuniti qui come un miscuglio di varie razze,
ma così nobile e pura è la nostra origine che occupiamo senza
interruzione la terra da cui fummo generati, in quanto siamo au-
toctoni e possiamo chiamare la nostra città con gli stessi nomi
che diamo ai più stretti congiunti» (par. 24), aggiungendo, subi-
to dopo, che questi nomi sono quelli di «nutrice, padre e madre»
(par. 25).12
L’autoctonia degli Ateniesi, intesa ancora come un legame di
tipo parentale con la terra, diviene centrale nell’epitafio per i
caduti della battaglia di Cheronea del 338 attribuito a Demoste-
ne.13 La circostanza è drammatica: sconfitti da Filippo di Mace-
donia, gli Ateniesi hanno perduto la loro libertà. Il riferimento a
questo evento è presente proprio all’esordio dell’epitafio, dove
si afferma che i cittadini di cui si sta celebrando il funerale pub-
blico hanno preferito morire nobilmente piuttosto che vivere e
vedere la Grecia atychousa, sconfitta. Benché il loro valore, la
loro arete, non possa essere adeguatamente espresso con le pa-
role, l’oratore dichiara di volerli elogiare, così come hanno fatto
coloro che, nel corso del tempo, la città ha delegato a questo
11
I discorsi di Isocrate, pur presentandosi come demegorie, sono dei veri
e propri pamphlets che circolano in forma scritta, dopo che l’autore li ha ac-
curatamente composti: quest’opera di rifinitura può richiedere molti anni.
12
Trad. it. Marzi 1991.Il motivo dell’autoctonia è presente anche in altri
discorsi di Isocrate: cfr. Sulla pace 49, dove viene usato polemicamente, e
cioè per domandarsi se gli Ateniesi, che sostengono – come titolo di merito e
di superiorità sugli altri – di essere autoctoni e di abitare la loro città da più
tempo di tutti gli altri, non sono in grado di amministrare adeguatamente Ate-
ne; Panatenaico 124-125, in cui gli Ateniesi sono definiti i soli autoctoni tra i
Greci, avendo avuto come nutrice la terra da cui nacquero, e che essi hanno
amato come i migliori tra i figli amano i loro padri e le loro madri. Il linguag-
gio utilizzato in questo discorso è del tutto analogo a quello del Panegirico.
13
Si tratta di un’opera che è generalmente considerata spuria. Sulle diver-
se posizioni interpretative cfr. Lesky, II, trad. it. 19752, 796, n. 19.
58 Silvia Gastaldi

compito. Il punto di partenza dell’elogio dei caduti non è costi-


tuito solo dall’esaltazione del loro coraggio, ma anche dalla va-
lorizzazione della loro nascita nobile, dell’educazione impronta-
ta alla moderazione e all’autocontrollo, al modo di vita finaliz-
zato al perseguimento dell’onore: si tratta di benefici che sono
da ascrivere alla città, Atene, dove sono vissuti. Dunque, il pri-
mo aspetto che viene analizzato è proprio quello dell’origine
della stirpe ateniese, cui i caduti appartengono. Ciò che contrad-
distingue questo genos è la nobiltà, riconosciuta da tutti da tem-
po immemorabile. Essa non dipende dal carattere illustre di un
padre o degli antenati, ma dall’autoctonia: l’eugeneia è legata al
possesso di una patria, patris, comune, da cui gli Ateniesi sono
nati, una terra che è rimasta un possesso perenne, trasmesso di
generazione in generazione, senza soluzione di continuità. Que-
sta prerogativa distingue i cittadini di Atene da tutti gli altri:
quanti sono immigrati nella città devono essere considerati figli
adottivi, non dotati di quella legittimità che compete solo agli
autoctoni (par. 4).14
Il motivo dell’autoctonia fa la sua ultima apparizione nell’ul-
timo degli epitafi del IV secolo che ci sono conservati: l’Epi-
tafio di Iperide, composto e recitato in onore dei caduti del pri-
mo anno della guerra lamiaca, la guerra che gli Ateniesi intra-
prendono contro i Macedoni alla notizia della morte di Alessan-
dro, in un ultimo, disperato tentativo di riacquistare la loro liber-
tà. Benché questo discorso funebre si differenzi dagli altri per lo
spazio assegnato alla figura di Leostene, lo stratego che aveva
guidato le truppe ateniesi e quelle alleate, la successione degli
argomenti è quella tradizionale. L’esordio è costituito, come
nell’epitafio attribuito a Demostene, dall’elogio della città, pa-
ragonata qui al sole per i benefici che ha arrecato a tutta la Gre-
cia, poi Iperide, affermando l’impossibilità di racchiudere in un
discorso tutte le imprese compiute dalla città, dichiara di volersi

14
La differenza che Demostene traccia è quella tra ἐπήήλυδες, cittadini
immigrati, equiparati a figli adottivi (εἰσποιετοῖς   τῶν   παίίδων), e figli le-
gittimi (γνήήσιοι).
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 59

limitare a parlare di Leostene e dei suoi compagni. Anche in


questo caso il primo motivo che viene sviluppato è quello della
loro genealogia: non è il caso di risalire alle origini di ciascuno
dei caduti, perché essi ne condividono una comune, essendo au-
toctoni. Non si tratta di individui provenienti da luoghi diversi,
di cui occorrerebbe rintracciare le ascendenze, ma di uomini
che, proprio per la loro nascita autoctona, possiedono una nobil-
tà, eugeneia, senza confronti (par. 7).

4. C’è un testo, composto sempre nel IV secolo, che, pur es-


sendo un epitafio fittizio, ne costituisce paradossalmente il mo-
dello paradigmatico, sviluppando in maniera ordinata e coerente
tutta la serie dei topoi presenti nelle orazioni funebri: il Menes-
seno di Platone. Non è questa la sede per analizzare i numerosi
problemi che questo dialogo ha suscitato a livello esegetico, sia
dal punto di vista della sua autenticità, sia sotto il profilo del suo
vero significato.15 Si tratta certamente di un testo sui generis,
che vede Socrate recitare un epitafio composto a suo dire da
Aspasia con i brani scartati da Pericle al momento della reda-
zione della sua orazione funebre – forse il riferimento è a quella
riportata da Tucidide – ma che riguarda qui i caduti nella guerra
di Corinto. Siamo dunque di fronte a un palese anacronismo.
Il dialogo prende avvio dall’incontro di Socrate con l’amico
Menesseno,16 che torna dal Bouleuterion, la sede del Consiglio,
dove si è recato per conoscere il nome di colui che reciterà il di-
scorso funebre per i caduti nella guerra. La scelta, per quel gior-
no, è stata rimandata. Si tratta di affidare il compito, come scri-
ve Tucidide descrivendo le modalità della cerimonia dei funerali
pubblici per introdurre l’Epitafio di Pericle, di un uomo che ab-
bia doti di intelletto e goda di una buona reputazione (II 34, 6).

15
Sulle differenti ipotesi interpretative di cui il Menesseno è stato fatto
oggetto cfr. Clavaud 1981. Maggiormente mirati ai contenuti sono Schiassi
1962, 37-57; Kahn 1963, 220-234.
16
Menesseno è menzionato, in Fedone 59 b, tra coloro che erano presenti
nel carcere in cui era stato rinchiuso Socrate e che assistettero alla sua morte.
60 Silvia Gastaldi

Socrate non si trattiene dal criticare con ironia sia la pratica


dell’elogio funebre sia quanti sono incaricati di pronunciarlo. Il
discorso, pur esaltando anche chi non vale nulla, ha la capacità
di ammaliare gli ascoltatori perché unisce nella stessa lode la
città, i caduti, gli antenati e infine tutti i presenti, e Socrate af-
ferma di sentirsi – come del resto tutti coloro che assistono –
ogni volta più grande, più nobile, più virtuoso. Contrariamente a
quanto ritiene Menesseno, egli sostiene che l’epitafio, caratte-
rizzato dalla ripetizione costante di una serie di topoi, non ri-
chiede alcuna fatica compositiva e, sebbene l’incarico sia sem-
pre affidato a uomini di particolare rilevanza politica, chiunque
sarebbe in grado di comporlo. Menesseno chiede allora a Socra-
te se lui stesso ne sarebbe capace e a questo punto Socrate di-
chiara di avere ben presente l’epitafio composto da Aspasia:
vincendo un’iniziale riluttanza, inizia a pronunciare questo di-
scorso che, come già si diceva, passa ordinatamente in rassegna
tutti i luoghi comuni di questo particolare tipo di composizione
epidittica.
Il punto di partenza della lode dei caduti, al fine di seguire un
ordine naturale, non può che essere la celebrazione del loro va-
lore, derivante da quello di chi li ha generati. Essi sono diventati
agathoi grazie alla nobiltà di nascita (eugeneia), all’allevamento
(trophe), e all’educazione (paideia). Il motivo della nobiltà ap-
pare immediatamente collegato, come si è già visto in tutti gli
altri testi, a quello dell’autoctonia. L’origine dei loro antenati
non è straniera e pertanto anche i loro discendenti non proven-
gono da fuori, come fossero meteci: essi sono autoctoni, che
abitano e vivono nella loro patria (ἐν   πατρίίδι), nutriti non da
una matrigna come gli altri uomini, ma da quella «terra madre
dove abitarono, e ora giacciono, da morti, nei luoghi familiari in
cui essa – e cioè appunto la terra madre – li generò, li nutrì e li
accolse» (237 c).
Il tema dell’autoctonia ritorna, dopo la tradizionale lode alla
terra attica, amata dagli dei, produttrice di frutti, tra cui in primo
luogo i cereali, e capace di crescere uomini dotati di intelligen-
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 61

za, quando Socrate esalta l’assetto politico ateniese: il carattere


della politeia, se cioè è buona o cattiva, condiziona la formazio-
ne dei cittadini. La descrizione della democrazia ateniese pos-
siede certamente caratteri peculiari: «C’è chi la chiama demo-
crazia, chi con un altro nome, come gli aggrada, ma in verità si
tratta di un’aristocrazia con l’approvazione della massa»
(238 d). Questo avviene perché, nonostante certamente il potere
appartenga al plethos, le magistrature e il potere (kratos) sono
affidati a coloro che sono ritenuti i migliori; al tempo stesso la
debolezza, la povertà o l’oscurità dei natali non sono per nessu-
no causa di emarginazione, né caratteristiche contrarie motivi di
preferenza.17 Tale assetto si fonda sull’uguaglianza, ed ecco di
nuovo il riferimento all’autoctonia: i cittadini sono tutti fratelli
perché sono nati da una sola madre. Diversamente dalle altre
città che sono abitate da uomini di ogni sorta, così da dare luogo
ad assetti politici come tirannie e oligarchie, i cui cittadini sono
contrapposti tra loro come schiavi e padroni, l’uguaglianza di
origine stabilita dalla natura costringe (anankazei) a cercare
l’isonomia, l’uguaglianza davanti alla legge.
Dall’autoctonia che conferisce nobiltà ha origine quella li-
bertà alla cui difesa sono finalizzate tutte le imprese compiute
nel più lontano passato o in tempi più recenti dalla città: da que-
sto punto ha inizio la tradizionale rievocazione degli episodi mi-
tici e poi delle vicende storiche di cui Atene è stata protagonista,
a partire dalle guerre persiane, fino alla riconquista di Atene da
parte di Trasibulo e dei suoi compagni dopo la tirannide dei
Trenta fino alla guerra di Corinto.

5. Il Menesseno riunisce in sé, volutamente, tutto il repertorio


topico degli epitafi, a iniziare proprio dal tema dell’autoctonia e

17
Si avverte chiaramente, in questo passo, l’eco dell’Epitafio di Pericle in
Tucidide: sull’irrilevanza dei requisiti di ricchezza e di status ai fini della par-
tecipazione alla politica, cfr. Tucidide II, 37, 1-2. Per quanto riguarda questa
particolare definizione della democrazia, lo stesso Tucidide, riferendosi al
ruolo svolto da Pericle, afferma che in Atene vi era una democrazia, ma di
fatto il potere era affidato al primo cittadino (II, 65, 9).
62 Silvia Gastaldi

dell’eugeneia. Il nesso tra le due nozioni appare così comune da


essere presentato da Aristotele, nella Retorica, proprio come un
topos: la eugeneia, la nobiltà, consiste sia per un popolo sia per
una città nel fatto di essere autoctoni (I 5, 1360 b 31-32). La no-
biltà è un tratto caratteristico dell’aristocrazia: tramite il riferi-
mento all’autoctonia, i testi che si sono esaminati trasferiscono
questa prerogativa a tutti i cittadini, utilizzandola per rafforzare
l’uguaglianza e la solidarietà, valori eminentemente democrati-
ci. Del resto la legge di Pericle ha operato una selezione: i citta-
dini, che sono tali per un doppio diritto, lo ius soli e lo ius san-
guinis, rappresentano effettivamente un’aristocrazia, in quanto il
possesso della cittadinanza è un dispositivo di esclusione, tale
da selezionare una élite.
Il ricorso ai termini del linguaggio familiare per indicare da
una parte il legame che unisce gli Ateniesi alla terra – madre,
patria, nutrice –, e dall’altra i non cittadini, definiti, come av-
viene nell’Epitafio attribuito a Demostene, figli adottivi, in con-
trapposizione ai figli legittimi, è il segno sia dell’intento di con-
siderare la città come una grande famiglia sia della rilevanza
che assume, con il passare del tempo, la dimensione familiare: il
motivo dell’occupazione continua dello stesso suolo, caratteri-
stica dei testi di Erodoto, di Tucidide e dell’Epitafio pericleo,18
non viene cancellato, ma non è più, forse, il più importante.
L’accezione originaria della nozione di autoctonia si situa
nell’ambito di discorsi strettamente legati alle pretese ateniesi
all’egemonia: in Erodoto, il contesto è quello della seconda
guerra persiana, che pone le basi dell’impero marittimo, Tucidi-

18
Non possediamo altri epitafi risalenti a questo periodo. Aristotele, in
Retorica I, 7, 1365 a 33-35, fa riferimento a un altro epitafio di Pericle, forse
per i caduti nella guerra contro Samo, che non ci è pervenuto, nemmeno nella
riscrittura o rielaborazione di Tucidide. Riguardo alla scarsità del numero de-
gli epitafi che ci sono pervenuti si può osservare, come ha giustamente fatto
notare Canfora 2010, 69-82, che probabilmente non ne esisteva la versione
scritta, trattandosi di discorsi d’apparato, destinati a svilupparsi secondo uno
schema consolidato, costituito da una sequenza di luoghi comuni. È quanto fa
rilevare Socrate nel Menesseno, come si è visto.
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 63

de scrive la storia della guerra del Peloponneso, che è la guerra


egemonica per eccellenza e che vede in Pericle il suo esponente
primo e di maggior spicco. Su questo sfondo, l’autoctonia è fat-
ta valere come motivo di superiorità e di eccellenza prima di tut-
to rispetto a Sparta, rievocando implicitamente l’antica invasio-
ne dorica: lo dimostra soprattutto l’Epitafio pericleo, tutto gio-
cato sui tratti che distinguono tra loro le città nemiche.
Il cambiamento di prospettiva riguardo al tema dell’au-
toctonia che si riscontra nei discorsi del IV secolo sembra dovu-
to al mutato clima politico, alla consapevolezza che Atene ha
ormai perso di fatto il suo primato, nonostante i ripetuti tentativi
di riconquistare la sua antica grandezza. Gli ultimi epitafi super-
stiti, quello di Demostene e quello di Iperide, si connettono alle
vicende drammatiche della fine della libertà ateniese. In questo
clima, si spiega il ripiegamento della città su se stessa e la valo-
rizzazione del legame di fratellanza tra i cittadini, fondato sul
legame con una terra ora diventata madre comune.

6. Negli epitafi, che sono pronunciati nel cimitero del Cera-


mico, non compare mai alcun accenno al mito fondatore del-
l’autoctonia, che giustifica la prerogativa, tutta ateniese, dell’es-
sere nati dalla terra: il mito di Erittonio. Il luogo in cui queste
vicende sono invece rievocate e costantemente riattualizzate è
l’Acropoli, sede delle Panatenee, la festa per eccellenza della
città.19
Sebbene esistano differenti versioni del mito, quella più ac-
creditata, presente nella Biblioteca di Apollodoro 20 narra del
tentativo di violenza compiuto da Efesto nei confronti di Atena:
dal suo seme, di cui rimane imbevuto il panno di lana con cui la
dea si deterge e che poi getta via, nasce dalla terra, così fecon-

19
 Sulla contrapposizione tra Ceramico e Acropoli e sulle diverse modalità
che, in ciascuna delle due sedi, viene declinato il motivo dell’autoctonia si
vedano le osservazioni di Loraux 1981a, 49ss.  
20
III 14, 6.
64 Silvia Gastaldi

data, un bambino, Erittonio appunto.21 Come mostrano numero-


se raffigurazioni vascolari, la Terra, personificata, si protende
per affidare il nuovo nato ad Atena, che lo accoglie nelle sue
braccia. La dea viene dipinta ora rivestita delle armi, ora – come
in uno stamnos a figure rosse risalente al secondo quarto del V
secolo o in una coppa a figure rosse databile agli anni intorno al
440 – priva dei suoi consueti attributi guerrieri, con il peplo e
una benda che le cinge il capo: il suo atteggiamento è quello
della divinità kourotrophos. La ricorrenza di questa raffigura-
zione nella pittura vascolare del V secolo22 attesta che a quel-
l’epoca il mito ha assunto la sua forma definitiva, ma la presen-
za, nell’iconografia, di altre figure che si affiancano spesso ai
personaggi principali mostra che questa versione del racconto è
l’esito di un processo di elaborazione e di trasformazione di ma-
teriali mitici più antichi. Accanto alla triade Ge-Erittonio-Atena
appaiono infatti Efesto, e anche, non raramente, Cecrope. Si
tratta di un personaggio che appartiene allo stadio arcaico della
religione e del passato mitico ateniesi: è sempre raffigurato con
una coda di serpente, tanto da essere designato come diphyes,
“dalla doppia natura”: questo testimonia che si trattava, in origi-
ne, di una divinità ctonia, indicato poi come il primo re di Ate-
ne, colui che assiste alla contesa tra Atena e Poseidone per il
possesso dell’Attica. Cecrope rappresenterebbe allora lo stadio
primitivo della civiltà e secondo Erodoto (VIII 44, 2) Erittonio-
Eretteo23 gli succede. Ma anche costui possiede in origine un ca-

21
Esistono due versioni riguardo all’etimologia di questo nome. Il termine
viene fatto derivare dall’unione del suffisso -chthon, e cioè terra, con due di-
versi prefissi: o eris, contesa, alludendo con questo alla lotta di Atena contro
Efesto per mantenere la sua verginità, oppure erion, lana, in riferimento al
pezzo di tessuto con cui la dea si sarebbe asciugata la gamba su cui era caduto
lo sperma di Efesto.
22
Un’ampia descrizione della produzione artistica riferita al mito di Erit-
tonio, accompagnata da un apparato iconografico, è condotta da Cruccas
2007, 43-78.
23
La questione relativa a questa doppia denominazione è stata ampiamen-
te studiata, ma lascia una serie di questioni aperte. Sembra che i due nomi
siano intercambiabili, almeno nel IV secolo, e che indichino lo stesso perso-
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 65

rattere divino, come attesta Omero che, nel canto II dell’Iliade,


descrivendo le navi che sono giunte a Troia da Atene, definisce
i suoi abitanti «il popolo del grande Eretteo», generato dalla ter-
ra e cresciuto da Atena nel suo sontuoso santuario sull’Acropoli.
Lì, aggiunge il poeta, i giovani ogni anno gli sacrificano tori e
agnelli.24
Questo significa che il mito della nascita autoctona di Eritto-
nio, al cui centro si colloca la figura di Atena, la dea poliade,
diviene proprio nel V secolo un mito civico e politico, anche se
rimangono visibili i segni di uno strato mitico precedente.25 La
funzione di questo mito è quella di indicare nel bambino Eritto-
nio, nato dalla terra, il garante del radicamento sul suolo attico
di tutti gli Ateniesi, facendone un elemento di nobiltà ‘democra-
tica’ da contrapporre a quella tradizionale degli antichi gene.26

naggio, ma in età diverse: Erittonio lo designerebbe da bambino e giovane,


Eretteo nell’età adulta. A questa distinzione farebbero riferimento anche le
rappresentazioni iconografiche. Sta di fatto, però, che i racconti mitici sem-
brano differenziare le due figure, assegnando a ciascuna imprese differenti.
Cfr. su questo Loraux 1981b, 46-49.
24
 Vi sono tradizioni che associano anche Erittonio al serpente. Igino,
Poet. Astr. II 13, scrive che dallo sperma di Efesto, che Atena, sdegnata, rico-
pre di polvere, nasce Erittonio, che ha forma di serpente. Riporta anche
un’altra tradizione secondo cui Erittonio avrebbe avuto solo la parte terminale
del corpo serpentiforme, e in questo sarebbe in tutto simile a Cecrope. L’as-
sociazione di Erittonio con il serpente è del resto presente nei rituali che si
svolgono sull’Acropoli, in riferimento al mito secondo cui Atena avrebbe na-
scosto il bambino appena nato in una cesta chiusa, affidandola alle figlie di
Cecrope. Due di queste non avrebbero obbedito all’ordine di non aprire il pa-
niere e, prese dal terrore alla vista di Erittonio affiancato da uno o due serpen-
ti, si sarebbero precipitate giù dall’Acropoli. Durante le Panatenee, sono pre-
senti alcune fanciulle – chiamate arrefore – che tessono il peplo per la statua
di Atena, e che rievocano le Cecropidi, le prime, secondo il mito, a praticare
la tessitura. Sul rapporto tra questo complesso mitico e i rituali delle Panate-
nee cfr. Burkert 1966, 1-25.  
25
Secondo Rosivach 1987, 301, Erittonio aveva un’origine ctonia, come
le altre figure regali del più antico passato ateniese, e non aveva alcun rappor-
to con l’autoctonia degli Ateniesi. Questo nesso emerge e si consolida solo
nel V secolo nell’ambito di un’operazione che non ha connotati religiosi, ben-
sì politici.
26
Questo aspetto è messo bene in luce da Blok 2009b, 263-270.
66 Silvia Gastaldi

Sembrano a prima vista evidenti le somiglianze tra il mito


ateniese dell’autoctonia e un altro famoso mito, quello dei me-
talli, che secondo il Socrate della Repubblica (III 414 b ss.), do-
vrà essere narrato ai governanti della kallipolis,27 poi ai guerrieri
e infine a tutti i suoi abitanti, come «nobile menzogna» (gen-
naion pseudos). In realtà, i due miti hanno in comune solo la fi-
nalità: si tratta, in entrambi i casi, di ottenere la coesione dei cit-
tadini, rievocandone l’origine comune. In Platone questa fun-
zione coesiva è particolarmente importante perché la tripartizio-
ne del corpo sociale in ceti tra loro distinti e la subordinazione
di fatto del terzo ceto agli altri due espone al pericolo della ri-
bellione, molto più di quanto possa avvenire nella polis demo-
cratica: in questa, come dimostra la storia, la democrazia ha ret-
to ai tentativi eversivi dell’oligarchia o si è rapidamente ricosti-
tuita dopo essere stata abbattuta.
Dal punto di vista dei contenuti, i due miti sono differenti.
Socrate dichiara che quanto sta per narrare è «qualcosa di feni-
cio», che trova corrispondenze in altre tradizioni mitiche narrate
dai poeti (414 c). È chiaro il riferimento al mito tebano degli
Sparti: Cadmo, figlio del re di Tiro, appunto in Fenicia, inse-
guendo la sorella Europa rapita da Zeus, interrompe la sua ricer-
ca su indicazione dell’oracolo di Delfi e fonda una nuova città,
Tebe, dopo aver ucciso un drago e averne seminato i denti, da
cui nascono gli Sparti, appunto i ‘seminati’. Si tratta di guerrieri
completamente armati e tanto violenti da arrivare a uccidersi a
vicenda. In Platone viene cancellata questa componente aggres-
siva, ma rimane il fatto che, nel racconto della nobile menzogna,
i governanti e i soldati nascono dalla terra già completamente
formati e allevati, dotati del loro rispettivo equipaggiamento.
Pur in questo diverso scenario, un’eco del mito civico ateniese
27
Il mito è introdotto, anzitutto, in rapporto alla distinzione, operata al-
l’interno dei phylakes, tra governanti e guerrieri, per persuadere i membri di
ciascuno dei due gruppi ad accettare pacificamente questa ripartizione di ruoli
(414 d-e). L’estensione del racconto, di origine esiodea, a tutti gli abitanti del-
la kallipolis ha la funzione di segnalare l’origine comune, pur in presenza di
diverse dotazioni e di conseguenza di ruoli differenti.
L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità 67

rimane: nella «nobile menzogna», i cittadini sono fatti uscire


dalla terra che viene chiamata madre e nutrice. Proprio in forza
di questo legame originario, governanti e guerrieri si assume-
ranno il compito di proteggerla e si prenderanno cura di tutti gli
altri cittadini come di fratelli, essendo tutti nati dalla terra
(414 e). Questa caratteristica non viene comunque denominata
autoctonia: i cittadini sono gegeneis, designati pertanto con lo
stesso termine utilizzato per personaggi come gli Sparti tebani.28
L’autoctonia rimane così una prerogativa degli Ateniesi, un
mito che prende forma e si consolida insieme alla democrazia:
mito di coesione, certamente, ma insieme anche potente stru-
mento narrativo finalizzato a distinguere i cittadini da tutti gli
altri, i ‘figli legittimi’ dai ‘figli adottivi’, solidale pertanto con la
legge di Pericle che immobilizza il racconto e l’immaginario ad
esso connesso nella norma giuridica.

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28
 Il termine gegeneis, che significa “nati dalla terra”, indica, da una parte,
chi ha un’origine ctonia ma dall’altra, e più spesso, personaggi mostruosi,
come i Giganti, che tentano la scalata all’Olimpo per detronizzare Zeus (su
cui cfr. il classico volume di Vian 1952), o gli Sparti che, come si è detto,
escono dalla terra armati e che, come i Giganti, sono caratterizzati dalla vio-
lenza.  
68 Silvia Gastaldi

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IDENTITÀ POLITICA
LUCILLA G. MOLITERNO

LA FIGURA DEL DEMOS: UN’INVENZIONE DEI DEMAGOGHI?

Introduzione

Dopo alcune considerazioni sulla pratica della demagogia


come stile politico, per tentare di sciogliere le ambiguità della
nozione di demos si passeranno in rassegna le diverse figure di
‘popolo’ cui il demagogo fa appello. Ne saranno individuate
almeno tre – la cittadinanza, gli autourgoi e il popolo-nazione –
per poi concludere riflettendo sull’hypokrisis, la recitazione, del
demagogo.
Naturalmente, la demagogia è connessa a tutte quelle specie
di regimi in cui il demos assume un qualche ruolo rilevante: og-
getto di questo saggio è, nello specifico, la demagogia come fe-
nomeno che appare spesso connaturato alla democrazia, ovvero
a quell’«insieme di regole che», secondo Bobbio, «debbono
servire a prendere le decisioni [...] che interessano tutta la collet-
tività, col massimo di consenso e col minimo di violenza».1
Nelle opere dei filosofi antichi, le nozioni di democrazia e
demagogia sono spesso così strettamente connesse da sembrare
indistinguibili. Ad esempio per Platone, tra i riferimenti princi-
pali di questo saggio, la demagogia non è semplicemente una
delle possibili patologie del regime democratico: per processo
quasi fisiologico, la democrazia sarebbe destinata a mutarsi in
una forma autocratica, proprio attraverso la demagogia.

1
Bobbio 1999, 380.
72 Lucilla G. Moliterno

1. Il demagogo e il suo gregge

Nella letteratura classica, per un verso, la nozione di dema-


gogia è considerata come un tipo, ancorché sui generis, di regi-
me politico: ossia una determinata forma di rapporto tra gover-
nati e governanti. In questo senso, il termine contraddistingue –
nella Politica di Aristotele, ad esempio – una fase particolar-
mente degenerata della vita del regime democratico, in cui sem-
bra essere il disegno stesso delle istituzioni a favorire quella
che, secondo lo stagirita, potrebbe sembrare una sorta di tirannia
della moltitudine:
Sovrana è la massa (to plethos), non la legge. Questo avviene quando
sono sovrane (kyria) le decisioni dell’assemblea (ta psephismata)2 e
non la legge (nomos): e ciò accade per opera dei demagoghi. In realtà,
negli stati democratici conformi alla legge (kata nomon) non sorge il
demagogo ma i cittadini migliori hanno una posizione preminente. In-
vece dove le leggi non sono sovrane (kyrioi), ivi appaiono i demago-
ghi, perché allora diventa sovrano il popolo la cui unità è composta da
molti, e i molti sono sovrani non come singoli, ma nella loro totalità.3

Per un altro verso, invece, il termine evoca una gamma di fe-


nomeni, ossia le particolari prassi della comunicazione politica,
oppure le tecniche di persuasione delle masse, o ancora gli stili
dell’agire politico. Dai principali dialoghi politici di Platone, in
questo senso la demagogia emerge come quella strategia attra-
verso cui – con discorsi ingannevoli, ma anche allettamenti ma-
teriali – gli oratori persuadono i concittadini a deliberare in loro
favore.4 In questa sede, si considera questo secondo aspetto e, di
conseguenza, per demagogo s’intende il cinico oratore che tenta
adescare il proprio uditorio facendo leva sull’irrazionalità e sul-
l’emotività dello stesso. Il demagogo presuppone che il suo udi-
torio sia ‘addomesticabile’, in quanto sprovvisto dei requisiti
necessari per valutare il proprio interesse. Egli immagina che gli

2
Ovvero i «decreti».
3
Arist. Pol. 1292 a.
4
Moliterno 2016, § 3, 3.1.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 73

individui che lo compongono non riescano a distinguere qual è


il loro utile. Si pensi alla Psicologia delle folle, dove Gustave
Le Bon sosterrà che le masse non si lascino persuadere dalle
dimostrazioni perché, quando l’individuo si trova in un assem-
bramento di persone, la ragione risulta come «sospesa». Questa
«interdizione» priverebbe i componenti di una folla
dell’attitudine a formulare giudizi.5
Nella Repubblica, invece, Platone illustra come chi vive in
democrazia si comporti in modo irrazionale per cause propria-
mente costituzionali, e non contingenti. La parte razionale della
psyche (il logistikon) risulterebbe subordinata alla componente
pulsionale (l’epithymetikon): il fine cui tende l’aner demokrati-
kos6 non è stabilito dalla ragione, bensì dalla parte dell’anima
che genera i desideri legati alle ‘viscere’. Questo tipo d’indi-
viduo non distingue le necessità dai piaceri poiché è ‘imper-
meabile’ ai ragionamenti, e considera ‘equipollenti’ i suoi ete-
rogenei desideri. Attribuisce, quindi, pari valore alle sue voglie,
ponendole tutte allo stesso livello, senza alcun criterio di premi-
nenza:7 un modo di comportarsi che Socrate nel Gorgia defini-
sce come «una vita da vero scellerato».8 L’uomo democratico
concede, dunque, alle proprie pulsioni di ‘governare’ su se stes-
so a turno, in modo casuale, quasi queste fossero sorteggiate, e
soggette a rotazione come le cariche democratiche. Non c’è al-
cuna disposizione ‘ordinale verticale’ né taxis9 tra le diverse
passioni di questo tipo umano, chiamato ironicamente «isono-
mico».10

5
Cfr. Le Bon 1895, livre I, chapitre III, § 2.
6
Pl. Rep. 557 b.
7
Cfr. Pl. Rep. 558 d-561 e.
8
Pl. Grg. 507 e.
9
Pl. Rep. 561 d.
10
Pl. Rep. 561 e.
74 Lucilla G. Moliterno

1.1. Il demos anoetos

Nelle Leggi, inoltre, discorrendo sull’ubriachezza, il filosofo


afferma che «per quanto riguarda le condizioni della sua ani-
ma», l’ubriaco ritorna «allo stato di quand’era bambino» e di
conseguenza «non sarà affatto padrone di se stesso»,11 ovvero la
sua anima non sarà ordinata normativamente. L’infanzia è,
quindi, accostata alla follia: nella stessa opera Platone sostiene
che alcuni crimini possano essere commessi solo se il reo «fosse
pazzo (manikos), o se è afflitto da malattie o da un’eccessiva
vecchiaia, o se si trova in uno stato infantile (paidia), condizio-
ne che non differisce per niente dalle precedenti».12
Il demagogo osserva dunque che, nelle questioni pubbliche, i
suoi concittadini si comportano come se non avessero raggiunto
l’età della ragione: egli considera l’ateniese medio come un
bambino davanti a un tessuto variopinto e fa, dunque, appello al
demos come il pasticcere dell’immaginario processo nel Gorgia
rispetto alla giuria di bambini.13 In quest’opera Platone descrive
il popolo democratico come composto da «uomini che, come
ragazzi, siano senza senno (anoetoi)».14
Anche Joseph Schumpeter affermerà che «entrando nel rag-
gio della politica, il cittadino medio scende a un gradino inferio-
re di rendimento mentale» e «ragiona e analizza in modo che
giudicherebbe infantile nella sfera dei suoi interessi concreti».15
Ne consegue che, in ragione di questa puerile irrazionalità
popolare, il demagogo ritiene di riuscire a orientare il demos
come farebbe un pastore con il suo gregge.

11
Pl. Lg. 645 e.
12
Pl. Lg. 864 d.
13
Cfr. Pl. Grg. 521 e.
14
Il termine significa privi di noesis, in quanto non ancora giunti all’età
adulta. Pl. Grg. 464 e.
15
Schumpeter 1977, 250.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 75

1.2. L’ambiguità del demagogo

A seconda dei fini che intende perseguire, delle circostanze e


dei suoi eventuali bersagli polemici, il demagogo può decidere
di usare differenti registri per governare il suo gregge. Da un la-
to, può mostrarsi come un «uomo qualunque» e chiedere fiducia
alle masse in virtù di questa somiglianza; dall’altro, può decide-
re, invece, di presentarsi come un individuo qualitativamente
superiore e, in ragione di ciò, invitare le folle a fidarsi di lui. Il
demagogo che voglia sedurre la massa popolare si trova davanti
a due possibilità, in questo caso: presentarsi come uno del greg-
ge, oppure mostrarsi come una personalità carismatica.
Dalle principali fonti – Aristofane, Tucidide e Aristotele – si
evince che, ad esempio, Cleone adopera solitamente entrambi i
metodi. Così come Aristofane nelle sue commedie, anche Tuci-
dide descrive Cleone in termini fortemente dispregiativi come
bugiardo, disonesto e aner demagogos (iunctura, forse ironica,
coniata sull’espressione aner strategos):16 un ritratto che Davies
non esita a definire «sinistro».17 Così come risulta la figura di
Cleone è ambigua e potrebbe ricordare quella di Tersite, l’anti-
eroe omerico per eccellenza: un uomo odioso, vile e presuntuo-
so che parla a sproposito, che non sa com’è opportuno espri-
mersi. Si tratta di un personaggio che strepita quando tutti i re
achei siedono in ordine, denigrandoli: Odisseo riconosce che
Tersite è un efficace oratore ma stolto, inoltre è storpio e zoppo:
l’opposto di un kalokagathos.18
Nella Guerra del Peloponneso Cleone è protagonista di di-
versi episodi tra il terzo e il quinto libro.
Nella prima demegoria di Cleone nell’opera, il cosiddetto
«discorso di Mitilene»,19 Tucidide mette in bocca proprio a que-
16
Cfr. Th. IV 27, 4; V 16, 1; IV 21, 3 e 28, 2.
17
Davies 1978, 120.
18
Cfr. Hom. Il. II, vv. 211ss.
19
Cfr. Th. III 37-40. Tra il 428 e il 427, al crescere della pressione impe-
rialistica esercitata da Atene, l’alleata Mitilene si ribellò, domandando aiuto
ai nemici Spartani. Saputo del complotto, gli Ateniesi inizialmente decisero
76 Lucilla G. Moliterno

sto personaggio, che la tradizione ha tramandato come il più


spregevole tra gli adulatori del popolo, un discorso che ricorda
il verso aristofaneo in cui Agoracrito accusa Demo di essere
troppo sensibile alle lusinghe dei demagoghi: «quando uno in
assemblea esordiva così: “O Demo, sono innamorato di te, ti
voglio bene; solo io ho cura di te, penso a te” prendevi il volo,
rizzavi le corna».20 Il tono del discorso di Cleone mostra come,
in Tucidide, il ‘personaggio’ sia una figura ‘a tutto tondo’, non
appiattita sullo stereotipo più banale del demagogo. Nell’orazio-
ne si alternano asserzioni da ‘ateniese qualunque’ e affermazio-
ni ‘dure’, distanti dalle prime.
Nelle orazioni dal tono adulatorio, caratterizzate dall’uso del-
la prima persona plurale, Cleone ricorre a un registro oscillante
tra l’agitatore e l’adulatore, accusa gli altri retori di essere catti-
vi consiglieri che «fanno commettere errori alla città»21 e solle-
tica le pulsioni brutali e vendicative dei concittadini. Nella

d’infliggere ai cittadini di Mitilene una punizione esemplare, l’andrapo-


dismos, ovvero l’eliminazione tutti gli uomini adulti e la vendita di donne e
bambini come schiavi. In seguito, tuttavia, l’assemblea mutò opinione, con-
vincendosi che sarebbe stata una reazione eccessiva castigare l’intera popola-
zione, valutando più opportuno infliggere una pena ai soli responsabili del-
l’insurrezione. In questa impegnativa arringa, rimproverando l’ekklesia per
questa nuova decisione, Cleone tenta di convincere gli Ateniesi che non solo
è utile, ma è anche giusto punire i Mitilenesi con l’andrapodismos. Secondo
lo stratego, da un lato, questo è necessario per evitare ulteriori defezioni allea-
te in futuro; dall’altro lato, l’andrapodismos è anche ciò che la città si merita,
in quanto Atene non avrebbe «soffocato» Mitilene: la città era – dunque – li-
bera e non aveva motivo di cercare alleanze con i Lacedemoni.
20
Ar. Eq. vv. 1340-1343. Simile l’atteggiamento del corifeo negli Acar-
nesi: «[i]l poeta sostiene di avervi reso molti servigi: è stato lui a impedire
che vi lasciaste troppo ingannare (exapatasthai) dai discorsi ricercati che
prendeste piacere dalle adulazioni; che vi comportaste da sciocchi, con le
bocche aperte. Prima gli ambasciatori delle città, quando volevano ingannar-
vi, iniziavano col chiamarvi “coronati di viole”. La frase era appena pronun-
ziata che subito, per via di quelle “corone” vi accomodavate sulla punta dei…
culetti. E se qualcuno, in vena di adulazioni, chiamava Atene “luccicante”,
otteneva tutto, grazie a quel “luccicante”, ungendovi con un complimento
buono per le acciughe. Così il poeta vi ha reso molti servigi». (Ar. Ach. vv.
633-641).
21
Th. III 37, 4.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 77

Guerra del Peloponneso, a questa orazione segue quella di Dio-


doto, che si rivelerà più convincente: egli mostra agli Ateniesi
che Cleone potrebbe persuaderli facilmente giocando sulla loro
ira verso i Mitilenesi, «il suo argomentare […] potrebbe forse,
sfruttando la sua sintonia con il rancore che ora v’accende con-
tro Mitilene, carpire con l’illusione la vostra compiacenza».22
Diodoto illustra come, pur senza ammiccare alle masse, Cleone
faccia demagogicamente leva sui sentimenti prevalenti nella
moltitudine per ‘trascinare’ l’uditorio dalla sua parte.
Fermo restando che la demagogia non coincide esclusiva-
mente con l’adulazione, è significativo osservare che in altri
passi dell’opera, così come il Pericle ricostruito da Tucidide,
anche Cleone si rivolge ai concittadini con la seconda persona
plurale, con un tono educativo e quasi denigratorio, rimprove-
randoli per la facilità con cui si lasciano persuadere e accusan-
doli di assistere ai discorsi dei retori come se fossero rappresen-
tazioni teatrali. Da una parte sta il demagogo e dall’altra vengo-
no posti tutti gli altri: nel brano che segue, Cleone si mette su un
piano di superiorità rispetto al demos e sembra riprendere, addi-
rittura, la nozione periclea di «impero tirannide»:23
ma ne siete voi i responsabili, gli organizzatori maldestri di tali gare;
voi che di natura siete soliti assistere agli interventi degli oratori come
si accorre a uno spettacolo, e farvi uditori delle gesta compiute; voi
che modellate la vostra valutazione delle imprese future sullo splendo-
re oratorio di chi vi fa balenare la possibilità di realizzarle, mentre sui
fatti già accaduti non vi risolvete ad adottare come più indiscutibile e
cosciente metro di riflessione la concreta, tangibile realtà degli eventi,
fidandovi piuttosto di ciò che udite nelle sfolgoranti arringhe di chi ve
ne porge, a parole, un resoconto già criticamente elaborato. Siete
prontissimi all’esca di una eloquenza ammantata da una vernice d’ori-
ginalità [...]. ciascuno di voi smania per la febbre d’esser valente nella
parola […]: non scorgete con sufficiente chiarezza i concreti contorni
del reale. Vi ammalia il musicale incanto della dialettica: vi si direbbe

22
Th. III 44, 4 Traduzione di Savino (Garzanti, 2013).
23
«Non riflettete che la vostra signoria è una tirannide» (corsivo mio, Th.
III 37, 2).
78 Lucilla G. Moliterno

un pubblico intento ai duelli spettacolari dei sofisti, più che un popolo


di cittadini.24

Alla base della struttura di questo discorso vi è la dicotomia


‘io/voi’, una tecnica usata per sottolineare la differenza di valore
tra la sua persona e gli Ateniesi. Questa demegoria si basa su
topoi dell’oratoria di cui si servirà anche Demostene:25 Cleone
rimprovera gli ascoltatori per la loro volubilità e promette sal-
vezza se gli si darà ascolto. Questo tipo di retorica era conosciu-
to, disprezzato e parodiato dalla commedia attica: si veda, ad
esempio, il discorso di Prassagora, la guida delle donne nell’Ec-
clesiazuse.26 Anche in Aristofane ricorre l’immagine che para-
gona gli Ateniesi a spettatori che ‘assistono’ al processo delibe-
rativo, più che parteciparvi. Negli Acarnesi, ad esempio, Diceo-
poli lamenta che «i pritani [...] giungeranno in ritardo» all’as-
semblea e che «faranno a gomitate precipitandosi tutti insieme a
occupare i posti della prima fila».27

2. Quale demos per il demagogo?

Dopo queste premesse, ci si può infine domandare: il demos


è un soggetto reale, oppure è una costruzione metaforica del
demagogo?
L’ambiguità della nozione risiede nel suo carattere sineddo-
tico:28 il termine demos può indicare tanto il ‘tutto’, quanto una
‘parte’ del popolo stesso. Piuttosto che alla ‘popolazione’ –
primo significato di demos, dunque al ‘tutto’ – il demagogo
sembra rivolgersi, a seconda delle circostanze, ad alcune sue
componenti. Se i suoi discorsi mutano a seconda degli scopi, ol-
tre all’auto-rappresentazione dell’oratore stesso, tra gli elementi
che cambiano vi è anche il destinatario: il demagogo costruisce

24
Corsivi miei, Th. III 38, 4-7.
25
Cfr. Cariler 2011, 5-121.
26
Cfr. Ar. Ec. vv. 193-212.
27
Ar. Ach. vv. 23-27.
28
Cfr. Mény, Surel 2001, 171.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 79

di volta in volta diverse identità collettive, connotate da una


qualche omogeneità tra gli elementi costitutivi, per potervi fare
appello. Sono rappresentazioni diverse del ‘popolo’, di cui il
demagogo isola un aspetto piuttosto che un altro. Qui tendo a
sostenere che il demagogo crea nei suoi discorsi diverse catego-
rie di demos, nelle quali – naturalmente – la gran parte dei suoi
concittadini deve riuscire a riconoscersi.
Come sottolineeranno anche Mény e Surel nelle loro rifles-
sioni sul populismo29 – una delle specie moderne di demago-
gia – queste categorie sarebbero almeno tre: una prima propria-
mente politica, una seconda socio-economica, e un’ultima etni-
co-culturale.

2.1. La cittadinanza

Il primo demos che il demagogo costruisce come destinatario


del proprio discorso è il soggetto collettivo propriamente politi-
co: il ‘popolo sovrano’, ovvero l’intero corpo civico, giuridica-
mente costituito. Gli individui che ne fanno parte sono omoge-
nei dal punto di vista politico perché – come mostra Aristotele
nella sua «teoria della cittadinanza» – in ogni forma di governo
il polites è definito come il titolare dei diritti politici. Questi ul-
timi mutano a seconda della politeia: in democrazia «il cittadino
non è meglio definito in senso stretto da nient’altro che dal-
l’aver parte [...] delle cariche (archai) [...] senza limiti tempora-
li, come il giurato e il membro dell’assemblea».30
Inoltre, la retorica è uno degli strumenti della demagogia:
nell’omonima opera di Platone, Gorgia la definisce come il per-
suadere, attraverso i discorsi, proprio gli ecclesiasti, i buleuti e i
giudici. Ovvero i cittadini democratici, secondo la categoria ari-
stotelica.31 Ancorché il dialogo rimandi anche ad «altri assem-

29
Cfr. Mény, Surel 2001, introduzione, capitolo IV.
30
Arist. Pol. 1275 a.
31
Cfr. Pl. Grg. 452 e.
80 Lucilla G. Moliterno

bramenti di folla»32 – è probabile che Platone pensasse a quelli


religiosi, teatrali e sportivi –, nel Gorgia il riferimento agli or-
gani democratici è esplicito. La retorica demagogica fa appello
innanzitutto al popolo politico. In seno alle democrazie, dunque,
una delle più diffuse forme di finzione consiste nel caratterizza-
re il regime stesso mettendo l’accento – in contrapposizione al-
l’oligarchia – sul ‘governo del demos’, piuttosto che sugli aspet-
ti procedurali.

2.1.2. I cittadini apragmones

La cittadinanza ha una sottospecie: nello specifico, infatti, il


demagogo sembra rivolgersi non solo ai cittadini che s’inte-
ressino particolarmente di affari politici, ma anche agli ‘annoia-
ti’, qualificati, nella Repubblica, come apragmones, «coloro che
non si occupano di affari politici».33 Così come l’apatico e di-
sinteressato «cittadino non educato» di Bobbio può diventare
elettore-cliente – quando l’agone politico diviene un «merca-
to»34 –, così anche gli apragmones sono pronti a recarsi in as-
semblea quando i demagoghi fanno creder loro di poterne rica-
vare qualche vantaggio. Questo particolare demos si occupa di
politica solo quando spera di ottenerne un beneficio.35 Infatti,
Platone descrive come i politicanti ridistribuiscano al demos una
quota delle fortune confiscate ai ricchi; trattenendone, tuttavia,
la maggior parte per sé.
Anche Aristofane nelle Vespe sostiene che gli Ateniesi si
comportino «come i raccoglitori di olive» salariati. Bdelicleone
32
Pl. Grg. 454 b, 454 e, 455 e.
33
Pl. Rep. 565 a.
34
Bobbio 1984, passim.
35
Ieri come oggi, l’apragmon viene ‘interessato’ dagli abili comunicatori
politici, si pensi al messaggio televisivo di Silvio Berlusconi per le elezioni
regionali del 1995. Sul tema delle pensioni, si rivolge esplicitamente alle «ca-
re mamme, nonne e zie» cercando di ‘tirarle’ dalla propria parte: le donne co-
stituirebbero una riserva voti lasciata – sino a quel momento – da parte, per-
ché politicamente apatiche e più interessate allo spazio privato dell’oikos che
a quello pubblico della polis.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 81

afferma, ad esempio, che i demagoghi «promettono cinquanta


medimmi di grano a testa. Ma sinora non [...] hanno dato niente,
se si eccettuano i cinque medimmi di orzo [...], una misura alla
volta; e a fatica».36
I demagoghi tentano, dunque, di sottomettere le masse an-
noiate ai loro voleri con promesse ingannevoli e concedendo
una qualche misera contropartita in cambio del consenso. Molti
provvedimenti pubblici dell’Atene classica sono infatti interpre-
tati, dal pregiudizio antidemocratico, come ‘mezzucci’ attraver-
so cui i politici si procurano i favori delle masse. Ciò che è inte-
ressante notare è che, come Aristofane in questo passo, nel
Gorgia Platone menziona unicamente disposizioni finanziate
con risorse pubbliche: le phlyaria37 che gonfierebbero Atene
sono, infatti, porti, mura, palazzi; ovvero edilizia pubblica.

2.2. Gli autourgoi

Il termine demos ha molteplici dimensioni semantiche: dun-


que può indicare anche soltanto una frazione della popolazione,
generalmente gli strati più umili. Il secondo insieme che il de-
magogo crea nei suoi discorsi per potervi fare appello è, pertan-
to, composto da coloro che, nella Repubblica, sono chiamati au-
tourgoi: ovvero chi «lavora con le proprie mani»38 (e possiede
poco). Si tratta di una categoria socio-economica, costruita per
contrapposizione rispetto all’élite dei più abbienti, e lodata da
Senofonte nell’Economico.39 Una strategia abituale della comu-
nicazione politica consiste nel rappresentare l’agone politico
come dicotomico,40 dunque la popolazione si divide in due ca-

36
Ar. V. vv. 715-718.
37
Cfr. Pl. Grg. 519 a. Viene in mente per lontana analogia il dibattito sul
cosiddetto «bonus Renzi» che, in base al decreto legge 66 dell’aprile 2014,
destina ottanta euro mensili alla busta paga dei lavoratori dipendenti – e cate-
gorie assimilate – con reddito lordo annuo inferiore a una certa cifra.
38
Pl. Rep. 565 a.
39
Cfr. Foucault 2005, 44.
40
Cfr. Ferraro 1986, 93.
82 Lucilla G. Moliterno

tegorie reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive,


ovvero i ricchi e i poveri. Come sottolinea Aristotele, «ovunque
i ricchi sono pochi e i poveri molti»,41 dunque il demagogo deve
necessariamente tentare di garantirsi l’appoggio della frazione
più grande dell’insieme dei titolari del potere politico. Del resto,
gli strati meno ricchi della popolazione sono generalmente an-
che i meno preparati, giacché troppo impegnati nella loro ba-
nausia per curarsi delle questioni pubbliche. Essi rimangono,
quindi, forzatamente ignoranti – per lo meno in prospettiva poli-
tica – dunque facilmente ingannabili dai demagoghi. Questi ul-
timi sanno che la folla è facilmente suggestionabile da un’ora-
zione proprio perché questi strati sociali sono composti da chi è
sprovveduto, pur essendo titolare dei diritti legati alla cittadi-
nanza, cioè non ha gli strumenti per resistere alla demagogia.
Come si è accennato, la Repubblica mostra che – per sedurre la
classe sociale più ampia – i demagoghi siano soliti ridistribuire
una piccola parte dei beni confiscati ai cittadini facoltosi, cui
imputano (strumentalmente) la colpa di ordire trame oligarchi-
che a danno della democrazia.42 Il demagogo si presenta, in
questa situazione, come il prostates – guida e difensore – del
suo gregge.

2.2.2. La classe media

Anche in questo caso, una specificazione è necessaria. A dif-


ferenza del ‘popolo sovrano’ – che è un insieme giuridicamente
costituito, e non solo forgiato nei discorsi dei demagoghi – la
categoria degli autourgoi è caratterizzata da confini molto sfu-
mati. Essa può includere vari strati: dagli individui più disagiati
sino al cosiddetto ‘ceto medio’. In realtà più che ai poveri il
demagogo si rivolge agli uomini ateniesi con modeste sostanze
come ai più ‘moderati’, quindi i migliori, della società.

41
Arist. Pol. 1279 b.
42
Cfr. Pl. Rep. 565 b e seguenti.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 83

Si trova un appello alla ‘classe media’ nelle Supplici di Euri-


pide, tragedia in cui, dietro al regime di Teseo, in realtà è de-
scritta una democrazia: il re afferma che Atene è libera, non è
retta da un tiranno, bensì governata dal demos, e che grazie alle
leggi isonomiche e alla parrhesia in essa vige eguaglianza di di-
ritti tra ricchi e poveri, forti e deboli, potenti e umili.43 Il basi-
leus stesso si rappresenta in un modo ambiguo, da cui traspaio-
no anche aspetti del demagogo, come là dove dichiara di essere
in grado di guidare il popolo senza lasciarsi dominare dalle fol-
le, così come il Pericle tucidideo.44 Da un lato afferma che il po-
tere decisionale non è nelle sue mani ma in quelle della cittadi-
nanza, dall’altro ritiene di essere padrone di argomenti efficaci
per persuadere i concittadini, che sono benevoli nei suoi con-
fronti perché riconoscenti che egli abbia conferito – o meglio,
donato – loro la titolarità del kratos, e questo kratos del demos
consiste, secondo le parole di Teseo, nel diritto di parola, nel-
l’eleutheria e nell’isopsephon, l’eguale diritto di voto.45
Quel che è più interessante ai fini del nostro discorso è la
rappresentazione della città divisa in tre parti sociali: agli estre-
mi vi sono i ricchi – in balia della propria pleonexia – e i poveri,
questi ultimi privi di mezzi di sussistenza e facili vittime della
demagogia dei poneroi prostatai. Fra gli uni e gli altri, poi,
emerge un meros «che sta nel mezzo», cui Teseo si riferisce
come ai «custodi della politeia», che mantengono l’equilibrio e
le sorti della comunità.46 Questa idea è fondamentale nel model-
lo normativo aristotelico di politeia come specie di regime: nel-
la Politica lo stagirita prescrive una mixis di oligarchia e demo-

43
Cfr. E. Suppl. vv. 403-408, 426-462.
44
Cfr. ivi, vv. 350-353, Th. II, 65, 8.
45
Cfr. E. Suppl. vv. 350-353. Il termine isopsephon è composto da ison e
psephos. Quest’ultimo era una piccola pietra adoperata come gettone di voto,
la cui radice si trova anche in psephisma. Lo stesso termine è usato anche da
Tucidide nel «programma di guerra» pericleo in riferimento ai lacedemoni
(cfr. Th. I 141, 6) e da Platone nelle Leggi, in riferimento al «voto» della ge-
rousia, dello «stesso valore […] di quello dei re» spartani (Pl. Lg. 692 a).
46
Cfr. E. Suppl. vv. 236-245.
84 Lucilla G. Moliterno

crazia, della quale manterrebbe ciò che è in grado di far prevale-


re la classe media; perché, secondo Aristotele, se «la misura e la
medietà [sono] l’ottimo», ne consegue che «anche dei beni [...]
il possesso moderato è il migliore di tutti, perché» i cittadini
medi «non bramano le altrui cose, come i poveri, né gli altri le
loro, come fanno appunto i poveri dei beni dei ricchi».47

2.2.3. Il cittadino medio

Degli autourgoi fa parte l’uomo medio, anche in un altro si-


gnificato del termine, ovvero il cittadino comune: stereotipato e
forse non totalmente sprovveduto come vorrebbe il demagogo,
quanto piuttosto anche accorto e smaliziato. I Cavalieri sono la
commedia di Aristofane in cui viene ‘smascherata’ la figura del
demagogo. Qui il poeta fa dichiarare a Demo, personificazione
del popolo, di non essere impreparato, quanto piuttosto di fin-
gersi ingenuo per approfittare dei favori dei demagoghi, verso
cui non prova alcuna riconoscenza: «a bella posta faccio lo
sciocco. Mi piace fare la pappa tutti i giorni; e di proposito mi
allevo un solo ministro che ruba: quando è satollo, lo afferro e
lo sbatto per terra».48 La critica che Aristofane muove alla de-
mocrazia non è quella tradizionale: Demo protesta di non essere
sprovveduto, bensì di comprendere ciò che è nel proprio interes-
se.49 Quest’analisi del commediografo si avvicina agli argomen-
ti dell’«oligarca intelligente» pseudo-senofonteo. L’anonimo
autore ammette che gli Ateniesi – pur dando «in tutti i campi,
più spazio alla canaglia, ai poveri, alla gente del popolo, anziché
alla gente per bene»50 – conservano efficacemente il loro siste-
ma, e riescono a far funzionare la loro politeia evitando che
perda di vigore; benché si occupino di politica solo in vista di
un tornaconto.
47
Arist. Pol. 1295 b.
48
Ar. Eq. vv. 1123-1130.
49
Anche se forse – fuor di metafora – Aristofane sembra voler avvertire i
concittadini di stare all’erta, poiché è sin troppo facile raggirarli.
50
Ps.-X. Ath. I 4.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 85

2.3. L’ethnos

Un ultimo demos che il demagogo crea è l’ethnos, quello che


oggi si potrebbe chiamare – con un anacronismo – il ‘popolo-
nazione’. Questi individui sono omogenei tra loro dal punto di
vista etnico-culturale, dunque sia per la (presunta) comune di-
scendenza, sia per elementi storici, linguistici, religiosi; per co-
stumi e consuetudini.
La comunità autoctona è una categoria pensata in contrappo-
sizione a un qualche insieme di stranieri che ne minacciano la
‘purezza’: cioè l’identità o l’integrità. Mantenere la popolazione
coesa contro un nemico comune – ed eventualmente impegnata
in una guerra esterna – è un tipico mezzo del potere politico per
sfogare la rabbia popolare ed evitare la stasis, o meglio: impedi-
re che la popolazione stessa insorga contro il potere costituito.51
Questo tipo di appello al popolo-nazione sarà tipico in particola-
re della retorica nazionalistica che accompagnerà la genesi degli
stati moderni. Oggi un esempio è costituito dai cosiddetti popu-
lismi di destra affermatisi in Europa dagli anni Novanta del se-
colo scorso.52
Tuttavia, l’appello all’ethnos è già presente anche nella reto-
rica classica: si pensi al logos epitaphios, orazione funebre in
onore dei combattenti caduti. Probabilmente, chi teneva un epi-
taffio non lo conservava in forma scritta: la maggior parte delle

51
Scriverà, ad esempio, Voltaire sul popolo romano: «i grandi e il popolo
erano sempre divisi [...]. Il Senato di Roma, che aveva l’ingiusto ed esecrabile
orgoglio di non voler spartire nulla con i plebei, non conosceva altro mezzo,
per allontanarli dal governo, che quello di tenerli sempre impegnati in guerre
all’estero. Consideravano il popolo come una bestia feroce che andava aizzata
contro i vicini per paura che divorasse i suoi stessi padroni». Voltaire 1987,
36. Si noti come, nella storia del pensiero occidentale, s’incontrino frequen-
temente paragoni tra il soggetto collettivo popolo e un animale forte e impo-
nente. Nel pensiero dell’Ellade classica si trovano numerosi paragoni tra la
figura del popolo e animali selvatici soprattutto nelle opere degli autori anti-
democratici (a titolo d’esempio cfr. Pl. Lg. 666 e; Rep. VI); si tratta, dunque,
d’immagini rilevanti nell’analisi della demagogia.
52
Cfr. Salmorán 2017, 193-200.
86 Lucilla G. Moliterno

orazioni funebri superstiti sembrano creazioni letterarie, piutto-


sto che testi realmente pronunciati, tuttavia è un modello stilisti-
co tradizionale, che segue uno schema intessuto di motivi auto-
celebrativi,53 in uno stile retorico che, nel tempo, sarà usato
spesso in chiave demagogica. Oltre all’encomio delle vittime, in
questi testi trova posto anche un’apologia di Atene, molto idea-
lizzata: se ne ripercorre la storia, reale e leggendaria, al fine di
mostrare la funzione della città in relazione agli altri Elleni. Tra
i vari topoi caratteristici si trovano richiami all’origine autocto-
na, all’antichità della patria e – ovviamente, data la ratio del di-
scorso – al valore militare.
Per quanto riguarda gli argomenti legati al sangue, la patria è
spesso paragonata a una madre, generatrice di una stirpe valoro-
sa kata physin, «per natura».54 Un esempio è il Menesseno pla-
tonico, per quanto controverso possa essere questo epitaffio.55
Gli Ateniesi sarebbero etnicamente superiori, non solo rispetto
ai barbari ma anche in confronto agli altri Greci, proprio in ra-
gione dell’origine – ‘radicata’ nella leggenda – dei loro antenati.
In questo genere di oratoria, gli argomenti mitici si fondono e
confondono con quelli storici, nella rassegna delle imprese del
popolo-ethnos. Nel Panegirico, per alcuni argomenti accostabile
a un epitaffio, Isocrate lega l’elemento etnico con quello storico,

53
Cfr. Canfora 2011, passim.
54
Pl. Men. 237 a.
55
Usualmente il Menesseno è interpretato dai filologi come un testo dalla
intenzione parodica, una satira del genere epitaffio in generale e del testo pe-
ricleo in particolare. Fermo restando che è ovviamente innegabile la vis ironi-
ca (si pensi alla dichiarazione di Aspasia, riportata da Socrate, sulla guerra
civile: «furono le nostre stesse divisioni interne, non gli altri, a vincerci. Sì,
invitti noi siamo ancora oggi nei confronti di questi nemici: siamo noi, inve-
ce, che abbiamo vinto noi stessi, e da noi stessi siamo stati sopraffatti». Pl.
Men. 243 d-e); nel Menesseno, tuttavia, ci sono temi che vanno oltre il discor-
so pericleo, rendendo la composizione originale (ad esempio la nozione di
eguaglianza di nascita, l’isogonia, cfr. Pl. Men. 238 e-239 a). Il dialogo plato-
nico potrebbe anche essere un’exercitatio di ripetizione di argomenti – paral-
lelo ad esempio allo studio dell’argomentazione di Protagora – in cui il filoso-
fo esplora quali potrebbero essere i fondamenti teoretici della posizione pro-
democratica. Cfr. Canfora 2011, 8-20; Bertelli 2005, 344-348.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 87

dunque culturale, asserendo come Atene «ha fatto sì che il nome


di Greci non indichi più la stirpe, ma la cultura, e [che] siano
chiamati Elleni gli uomini che partecipano della [...] forma cul-
turale (paideia) più di quelli che condividono la [...] stessa ori-
gine etnica».56
Dagli elementi culturali seguono quelli politici: il primato di
Atene è innanzitutto nelle tradizioni e nella paideia e, di conse-
guenza, diventa anche superiorità politica. Il supposto primato
culturale e politico della città è atto a legittimare, in ultima
istanza, l’egemonia e l’imperialismo ateniese sull’Ellade. Tra
questi topoi è diffuso l’elogio dell’ordinamento politico: celebre
l’affermazione che Tucidide mette in bocca a Pericle nel suo
epitaffio: per quanto riguarda la democrazia, «la città nostra è,
nel suo complesso, una viva scuola per la Grecia».57
Che il demos sia prima di tutto un’etnia è pacifico, ma non
necessariamente questa categoria trova una proiezione giuridica.
Per passare, dunque, dai discorsi demagogici agli allettamenti
materiali, si potrebbe sostenere che Pericle intenda (demagogi-
camente?) concedere all’ethnos questa identità giuridica. Con il
suo primo provvedimento – in base al quale «non faceva parte
della cittadinanza chi non fosse nato da genitori regolarmente
iscritti tra i cittadini»58 – Pericle rivendica la discendenza come
fattore politico.

3. Il demos-platea

Nelle opere classiche si rileva un comportamento adattivo


del demagogo alle reazioni del demos: a una prima impressione,
il «baricentro» del rapporto di potere sembrerebbe essere nelle
reazioni dell’uditorio, piuttosto che nei discorsi dell’oratore. Lo
osserva Socrate nel Gorgia, sostenendo che il giovane retore
Callicle parli al demos come se ne fosse innamorato:

56
Isocr. Panegirico, 50. Traduzione leggermente modificata.
57
Th. II 41.
58
Arist. Ath. 26.
88 Lucilla G. Moliterno

tu ed io proviamo ora il medesimo affetto, innamorati, come siamo,


ciascuno di due oggetti […], tu del demo ateniese e io di Demo figlio
di Pirilampo. Ebbene, in ogni circostanza ho la sensazione che tu […]
qualunque cosa dica, qualunque cosa sostenga l’oggetto del tuo amo-
re, non sei capace di opporti, ma ti lasci cambiare da cima a fondo.
Nell’assemblea popolare, se, dopo il tuo discorso, il demo ateniese ti
dà torto, tu cambi sùbito parere e dici quello che esso vuole [...]. No,
tu non sai opporti alle voglie, ai punti di vista degli oggetti del tuo
amore, tanto che se qualcuno, ascoltando ciò che tu volta a volta dici
per influenza di questi, si stupisse per le contraddizioni in cui vieni a
cadere tu, se proprio volessi dire la verità, dovresti rispondergli che fi-
no a quando non s’impedirà ai tuoi amori di parlare come parlano, an-
che tu non potrai parlare se non come parli.59

Tuttavia, pensando all’ipocrisia di un demagogo che dichiari,


come nei Cavalieri, «Demo, sono innamorato di te, ti voglio
bene; solo io ho cura di te»,60 sembra piuttosto che l’oratore
saggi l’opinione pubblica, cercando d’individuare il modo di ot-
tenere reazioni positive. Presentarsi come uno del popolo – e
soprattutto come un philopolis – è, infatti, un topos del discorso
politico. Come osserverà Thomas Hobbes, la «reputazione di
amare il proprio paese», la «popolarità», è una forma di potere,
perché attrae a sé coloro «che hanno bisogno di protezione».61
Da questa strategia demagogica consegue il tipico compor-
tamento che porta l’oratore di tutti i tempi a tornare sui propri
passi smentendo addirittura le sue affermazioni, quando ritiene
gli possa essere utile. Il politicante prima ‘sonda’ il sentire della
massa, puntando al gradimento dei molti, poi si adatta quando
conviene, cercando di anticipare l’evolversi delle inclinazioni
popolari.
Come si è già mostrato, a seconda delle esigenze, il demago-
go ‘tocca corde’ differenti dell’uditorio, ovvero asseconda at-

59
Pl. Grg. 481 d-482 a.
60
Ar. Eq. vv. 1341-1342.
61
Hobbes 2013, X, potere. Un esempio dalla storia contemporanea è il di-
scorso del 1994 con cui Berlusconi annuncia di volersi occupare della cosa pub-
blica: «L’Italia è il Paese che amo». Il testo completo è fruibile nella sezione Poli-
tica del sito internet del quotidiano «La Repubblica», pubblicato il 22/01/2004
http://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/politica/festaforza/discesa/discesa.html
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 89

teggiamenti diversi per suscitare sympatheia. ‘Inventa’ più ‘po-


poli’, ai quali si presenta come unico interprete della volontà,
proprio in ragione dell’empatia che riesce a creare. Facendosi
portavoce della cosiddetta volontà generale, il demagogo dà
all’oggetto demos lo status di soggetto decidente. Ma si tratta di
una finzione, giacché il demos non esiste, se non per metafora.
L’uditorio del demagogo non è necessariamente un’unità, dun-
que non può avere una sola volontà: è il demagogo che lo fa
credere ai concittadini allo scopo di ‘trascinarli’.
Se la costruzione dei diversi popoli è un artificio retorico,
qual è l’unico demos riconosciuto dal demagogo? Qual è
l’aspetto della popolazione che ritiene più rilevante ai fini della
sua azione?
Vi sono brani del Gorgia in cui Platone paragona i demago-
ghi ad attori e il demos al pubblico. Socrate sostiene che l’arte
della parola, «è una specie di orazione popolare»: quindi, come i
poeti vogliono «suscitare il gradimento degli spettatori», così
anche il discorso del demagogo sarebbe, nelle parole del filoso-
fo, «una specie di retorica che ha per spettatore tutto un popo-
lo».62 Sono fuor di dubbio la capacità e l’efficacia del teatro nel-
l’influenzare l’opinione pubblica dell’epoca:63 si pensi all’Apo-
logia di Socrate, dove Platone ricorda il rilievo della commedia
Le nuvole nel processo che fu fatale al suo maestro:
«Socrate è colpevole e impiccione in quanto esplora sia le cose sotto-
terra sia quelle nel cielo e rende più forte il ragionamento più debole,
e ad altri insegna queste stesse cose». Che sia questo, all’incirca, il
senso avete potuto vedere voi stessi nella commedia di Aristofane,
dove un tal Socrate si dondolava e diceva di vagare per l’aria e cian-
ciava di tante altre sciocche.64

Portando ad esempio proprio il celebre Gorgia, inoltre, nel


quarto libro della Retorica, all’oratore in cerca di strumenti per
persuadere Aristotele prescrive la cura dell’hypokrisis, la recita-

62
Pl. Grg. 502 c-d.
63
Canfora 2014, passim.
64
Pl. Ap. 19 b-c.
90 Lucilla G. Moliterno

zione.65 Ancora Le Bon rileverà, secoli dopo, che è proprio il


teatro il mezzo comunicativo che riesce a colpire l’immagina-
zione popolare in maniera più incisiva.66
Il discorso demagogico si configurerebbe, pertanto, come
una rappresentazione e di conseguenza il demagogo sembrereb-
be considerare i propri concittadini alla stregua del pubblico che
siede a teatro. Malgrado il fatto che il demagogo muti il destina-
tario cui fa appello a seconda delle sue esigenze – e al di là dei
‘popoli’ cui strumentalmente si riferisce – si può concludere
egli si rivolga all’uditorio, che considera anoetos e addomesti-
cabile, come se lo ritenesse, in ultima analisi, un demos-platea.

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65
Cfr. Arist. Rh. 1413 b-1414 a.
66
Cfr. Le Bon 1895, livre I, chapitre III, § 3.
La figura del demos: un’invenzione dei demagoghi? 91

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VALENTINA PAZÉ

CITTADINANZA E DIRITTI, TRA ANTICHI E MODERNI

1. La parola mancante

Per inquadrare il tema del rapporto tra gli antichi e i diritti,


può essere utile prendere le mosse da una citazione piuttosto
nota, tratta da un volume del filosofo scozzese Alasdair
MacIntyre:
non c’è nessuna espressione nelle lingue antiche e medioevali corret-
tamente traducibile con la nostra espressione “un diritto” (a right) fin
quasi al termine del Medio Evo; non c’è nessun mezzo per esprimere
questo concetto in ebraico, greco, latino o arabo, classici o medioevali,
prima del 1400 circa, per non parlare della lingua anglosassone e del
giapponese dove bisogna aspettare la metà del diciannovesimo seco-
lo.1

MacIntyre viene solitamente annoverato tra gli esponenti del


comunitarismo, un indirizzo di filosofia politica e morale che ha
sviluppato una critica agguerrita nei confronti del paradigma
meccanicistico tipico dell’età moderna, rivalutando elementi
della concezione organicistica classica.2 Una tesi che si incontra
con una certa frequenza negli autori che si rifanno a questa cor-
rente di pensiero è quella dell’origine occidentale dei diritti pro-
clamati come universali dalla Dichiarazione del 1948 e da ana-
loghi documenti internazionali, che sarebbero in effetti estranei
a gran parte delle culture extra-europee e americane. Nel brano
                                                                                                                       
1
MacIntyre 1988, 90. Aveva già attirato l’attenzione su questa ‘sweeping
declaration’ Fred Miller, in Miller 1995, 91. Sulla stessa citazione sono torna-
ti Tierney 2002 e Barberis 2008.
2
Sui grandi paradigmi cui possono essere ricondotte le visioni del mondo
elaborate nella cultura occidentale, cfr. Bovero 2013.
94 Valentina Pazé

citato, la prospettiva privilegiata è però soprattutto quella dia-


cronica. MacIntyre non insiste sull’eccezionalità della cultura
occidentale rispetto a quelle sviluppatesi in altre aree geografi-
che, ma sull’origine prettamente moderna dei diritti. Così speci-
ficata, la tesi del particolarismo dei diritti non è nuova, avendo
avuto sostenitori autorevoli tra gli studiosi di storia della filoso-
fia, come Norberto Bobbio. L’età dei diritti è, per Bobbio, l’età
moderna: l’età in cui viene rovesciata la prospettiva a partire
dalla quale il mondo antico e medievale guardava prevalente-
mente alla società e allo Stato, con il passaggio dal modello ari-
stotelico al modello hobbesiano, dal primato della comunità a
quello dell’individuo, dalla priorità dei doveri a quella dei dirit-
ti3. Una autentica ‘rivoluzione copernicana’ che si è compiuta
per gradi, prima nella storia del pensiero, a partire da Hobbes,
poi in quella politica, con la rivoluzione francese, ma a cui si
può guardare, retrospettivamente, come a un vero e proprio
spartiacque nella storia della cultura occidentale.
Se questa posizione appare oggi largamente condivisa, sono
gli argomenti usati da MacIntyre – e la perentorietà con cui li
brandisce – a suscitare perplessità. La tesi che le lingue antiche
siano totalmente prive di risorse per esprimere il concetto di di-
ritto, se riferita al latino, appare francamente sorprendente. Non
esiste forse in latino la parola ius? Non risale forse al diritto ro-
mano la teorizzazione di un’ampia gamma di ‘diritti’, reali e
personali, che ancora oggi costituiscono l’oggetto del diritto ci-
vile? Spostandosi all’età medievale, che dire della Magna Char-
ta? In questo documento redatto in latino nel 1215 – nella forma
della ‘graziosa concessione’ da parte di re Giovanni – vengono
riconosciuti tutta una serie di iura ac libertates che costituisco-
no ancora oggi il nucleo dell’habeas corpus. Difficile da com-
prendere è anche – come ha osservato Mauro Barberis – il rife-
rimento di MacIntyre alla cultura anglosassone «prima della
metà del diciannovesimo secolo», che sembra ignorare l’intensa

                                                                                                                       
3
Bobbio 1973 e 1990.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 95

attività dei giudici di common law a tutela di un’ampia gamma


di rights fin dall’XI secolo.4
Quando sostiene che le lingue antiche – latino compreso –
non dispongono delle risorse per esprimere «ciò che noi inten-
diamo per diritto», MacIntyre si riferisce comunque alla nozione
di diritto naturale, che spetta all’essere umano in quanto tale.5
Sarebbe questo il concetto assolutamente impossibile da rintrac-
ciare nel pensiero antico. Più radicale è la posizione di chi ha
sostenuto che ai romani fosse estranea la stessa – meno impe-
gnativa – nozione di diritto soggettivo, inteso come facoltà o po-
tere attribuito al soggetto dal diritto, o come interesse giuridi-
camente protetto. È la tesi sostenuta fin dagli anni Cinquanta da
Michel Villey, contro la dottrina fino ad allora dominante, che
dava per pacifica la nascita della nozione di diritto soggettivo
proprio nel diritto romano, confondendo – secondo Villey – il
diritto romano classico con le elaborazioni dottrinali successi-
vamente messe a punto dai romanisti6.
Nel corpus filosofico-giuridico romano – sostiene Villey – la
parola ius viene innanzitutto usata per designare il diritto in sen-
so oggettivo, inteso come complesso di norme, come nelle
espressioni ius naturale, ius civile, ius gentium. Non esistono
definizioni esplicite di ius in senso soggettivo nelle Institutiones
di Gaio o nel corpus giustinianeo, né elaborazioni filosofiche sul
tema. La nozione di diritto soggettivo, «logicamente incompati-
bile col diritto naturale classico» e «sconosciuta alla scienza
giuridica romana», dovrebbe attendere, per affermarsi, la svolta
nominalistica e individualistica che si compie a partire da Oc-
kam.7 Come spiegare allora le occorrenze in cui ius sembra in-
dicare l’analogo di ciò che noi oggi chiamiamo diritto soggetti-
vo, come nelle espressioni ius successionis, ius utendi fruendi,
                                                                                                                       
4
Barberis 2008, 128n e pp. 132-137 sulle origini giurisprudenziali dei di-
ritti inglesi.
5
MacIntyre 1988, 89-90.
6
Cfr. Villey 1962, 1983 e 1985.
7
Villey 1985, 196. Per una critica di questa cronologia, cfr. per lo meno
Tuck 1979 e Tierney 2002.
96 Valentina Pazé

ius obligationis, e simili? Villey risponde sostenendo che in


questi casi il significante ius si riferisce a una «cosa», non al
«potere di un soggetto su una cosa». Lo ius sarebbe la parte che
spetta a ciascuno secondo giustizia (che consiste nell’attribuire a
ciascuno il suo: suum ius cuique tribuere).8 Una parte, tra l’al-
tro, che non necessariamente corrisponde a qualche cosa di fa-
vorevole al soggetto, se è vero che lo ius del parricida consiste-
va nell’essere gettato nel Tevere in un sacco pieno di vipere o
che Gaio prevede uno ius non extollendi, consistente nel ‘dirit-
to’ (che noi qualificheremmo piuttosto come un dovere) di non
sopraelevare il proprio edificio per non pregiudicare la vista al-
trui9.
Gli argomenti di Villey qui sommariamente richiamati sono
stati oggetto di molte discussioni e di molte critiche, fin dalla
loro prima proposizione.10 Lo stesso pensatore francese, cui è
stata obiettata tra l’altro una certa selettività nell’uso delle fonti,
è stato alla fine costretto a riconoscere che nell’uso comune del-
la lingua latina e nei testi letterari, fin dall’età classica, ius si è
ben presto allontanato dall’accezione tecnica dei giuristi, finen-
do col designare una potestas.11 Oggi è largamente accettata
l’idea che all’esperienza giuridica romana non fosse estranea «la
consapevolezza dell’esistenza di posizioni giuridiche soggettive
(ora espresse semplicemente col segno ‘ius’, ora, almeno in par-
te, ricondotte alla nozione di res incorporales)», anche se ciò
                                                                                                                       
8
Villey 1962, 180ss.
9
Villey 1983, 77. L’esempio del parricida è riportato da Tierney 2002, 33.
Ci si può chiedere se questa teoria possa valere per lo ius connubi o per gli
iura suffragi et honorum, che sembrano proprio indicare ‘poteri’ di fare o non
fare qualcosa, conferiti ai soggetti da norme giuridiche. È significativo che di
questi diritti Villey non si occupi, se non per sostenere, genericamente, che le
molte potestates di cui godevano i cittadini romani non erano concepite come
«diritti», ma come «fatti extra-giuridici» e «libertà naturali» (Villey 1985,
200-201). Una tesi poco convincente, che sembra ignorare la stessa distinzio-
ne tra ius e factum.
10
Cfr. ad esempio Pugliese 1954; Tierney 2002; Stolfi 2006a; Marchetto-
ni 2012.
11
Villey 1985, 204.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 97

non sfociò mai nell’elaborazione della categoria unitaria di «di-


ritti soggettivi».12

2. I diritti in Grecia

Che dire tuttavia del mondo greco? A proposito della Grecia,


e specificamente dell’Atene democratica – su cui concentrerò la
mia analisi – le tesi di MacIntyre, Villey e molti altri sembrano
essere più plausibili e sono certamente più condivise. Se in lati-
no esiste ius, ed è difficile negare che sia usato anche in
un’accezione soggettiva, il greco non dispone di una parola cor-
rispondente. Ma non dispone neanche di un vocabolo specifico
per indicare il diritto in senso oggettivo, distinto dalla morale (si
pensi all’ambivalenza della formula to dikaion). Non si è svi-
luppato inoltre ad Atene niente di paragonabile alla scienza giu-
ridica dei romani, per motivi noti, legati alla particolare configu-
razione dei processi, dove il protagonista è sempre il cittadino
comune, sia esso parte di una giuria o parte in causa, non un
tecnico del diritto come a Roma. Insomma, con riguardo al-
l’esperienza giuridica, sembra esservi ben poca continuità tra
Atene e Roma. E ancor più tra Atene e noi.
Ecco allora che Emanuele Stolfi può sostenere senza mezzi
termini che la «libertà (di fatto anche non esigua)» del cittadino
greco «non fu mai configurabile nei termini di un ‘diritto sog-
gettivo’, che fosse possibile contrapporre alla polis».13
Se per noi il ‘diritto soggettivo’ si delinea […] come fascio di ‘poteri
della volontà’ riconosciuti al soggetto nel mondo giuridico, e tutelati
sul piano del ‘diritto oggettivo’, questo è reso possibile (e in certo
modo necessario) dalla contestuale presenza, nell’esperienza moderna,
di una duplice soggettività forte, privata e pubblica: quella dell’in-
dividuo, inteso appunto come ‘soggetto di diritto’, e quella dello Stato
(produttore per eccellenza del ‘diritto oggettivo’).14

                                                                                                                       
12
Stolfi 2015, 394.
13
Stolfi 2006b, 60.
14
Ivi, 60-61.
98 Valentina Pazé

Né l’una né l’altra «soggettività forte», indispensabile perché


emerga la nozione di diritto soggettivo, sussisterebbe nel mondo
greco. Non diversamente Alberto Maffi ha sostenuto: «Parlare
di diritti (soggettivi) per il mondo antico è certamente un ana-
cronismo». Salvo poi stemperare tale affermazione, aggiungen-
do che sono pur sempre rinvenibili, nella cultura classica, greca
e romana, «aspettative cognitive e normative, che possono esse-
re legittimamente considerate un sistema embrionale di ‘dirit-
ti’».15
Altri studiosi hanno espresso posizioni più possibiliste. Jo-
siah Ober ha coniato la formula quasi rights per riferirsi ad al-
cune immunità e libertà riconosciute dalla legge, ad Atene, a cit-
tadini e non cittadini, oltre che ai diritti politici riservati esclusi-
vamente ai cittadini. «Quasi» perché gli Ateniesi «non pensaro-
no mai che i diritti avessero una esistenza universale e metafisi-
ca, che derivassero da Dio o dalla natura».16 Una tesi – si po-
trebbe commentare – che i teorici dei diritti contemporanei di
orientamento giuspositivista potrebbero tranquillamente sotto-
scrivere. Ancora più netto nel negare l’estraneità del mondo
greco al linguaggio dei diritti individuali è Mogens Herman
Hansen. Nella sua classica opera sulla democrazia ateniese del
IV secolo, Hansen invita esplicitamente a evitare di servirsi di
espressioni come ‘sovranità’, ‘uomo politico’, ‘partito politico’
per descrivere la vita delle poleis greche, ma ricorre senza pro-
blemi alla parola ‘diritti’ per designare alcune delle libertà e dei
poteri di cui godevano i cittadini ateniesi e, in alcuni casi, anche
i non cittadini.17
Passando dalla storia delle istituzioni alla storia del pensiero,
non si può infine non ricordare la discussione suscitata dalle tesi
di un fortunato volume di Fred D. Miller. Adducendo argomenti
linguistici e testuali, l’autore ha sostenuto non solo la reperibili-
tà in Aristotele di una famiglia di concetti, tra loro logicamente
                                                                                                                       
15
Maffi 2011, 9.
16
Ober 2005, 96.
17
Hansen 2003, 10; 120.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 99

correlati, che corrisponderebbero alle varie figure dei diritti


soggettivi, ma la possibilità di ricavare dalle sue opere una vera
e propria teoria dei ‘diritti naturali’. Con questa espressione
Miller non intende ovviamente diritti che spettano all’individuo
in una ipotetica condizione pre-politica – come nel modello
hobbesiano – ma facoltà, poteri, immunità riconosciute al mem-
bro della polis (intesa come comunità kata physin) sulla base di
una teoria della giustizia anch’essa ‘naturale’, non convenziona-
le. Tra questi diritti vi sarebbe innanzitutto il «diritto alla felici-
tà» e al «perfezionamento morale», su cui si fonderebbero in ul-
tima analisi i diritti politici e il diritto di proprietà.18

3. Intermezzo metodologico

Prima di provare a entrare nel vivo del problema esaminando


le ragioni degli uni e degli altri, può essere utile dedicare qual-
che riga a un intermezzo metodologico. Breve, limitato a due
sole osservazioni.
Primo: dal confronto con la letteratura sul tema è facile ac-
corgersi che gli stessi studiosi che dialogano tra loro e si inter-
rogano sull’esistenza della nozione di diritti in Grecia, e specifi-
camente ad Atene, non sempre muovono da un significato con-
diviso di tale parola, e non sempre sono guidati dagli stessi in-
terrogativi teorici. Talvolta cercano nei testi antichi indizi che
consentano di ricostruire vere e proprie teorie dei diritti; altre
volte si limitano a inseguire testimonianze dell’occorrenza del
lessico dei diritti nel linguaggio ordinario. Alcuni identificano i
diritti, più o meno consapevolmente, con i diritti umani, che og-
gi le costituzioni e i documenti internazionali riconoscono uni-
versalmente a tutte le persone, altri con i diritti soggettivi, va-
riamente concepiti e definiti. Alcuni danno per scontato che i
diritti poggino su un fondamento assoluto, naturale o religioso,

                                                                                                                       
18
Miller 1995, 221-222 e 2005. Cfr. le critiche di Keyt 1996, Gill 1996 e
la replica di Miller 1996.
100 Valentina Pazé

altri ragionano di diritti in termini di pretese, poteri e libertà ri-


conosciuti dal diritto positivo.
Il problema della stipulazione di definizioni chiare e condivi-
se si pone tutte le volte che ci si interroga su continuità e discon-
tinuità esistenti tra diverse epoche. Gli storici del pensiero poli-
tico hanno a lungo discusso sulla genesi del concetto di ‘Stato’,
chiedendosi se possa essere retrodatata a epoche precedenti alla
nascita del moderno Stato-nazione. La riposta dipende, ovvia-
mente, dalla nozione da cui si prende le mosse. Se frughiamo
negli archivi e nelle biblioteche di antichistica con in mente la
definizione weberiana, che rinvia non solo al monopolio della
forza legittima, ma a un apparato amministrativo centralizzato
che assolve tutta una serie di funzioni, è chiaro che la ricerca ri-
sulterà infruttuosa. Se muoviamo da un’accezione più ampia, o
semplicemente diversa nel suo nucleo di senso, il discorso cam-
bia e ci potrà accadere di rinvenire tracce della ‘cosa’ anche
prima che sia comparso il ‘nome’ per esprimerla. È la conclu-
sione cui giunge Bobbio, quando osserva che «un trattato di po-
litica come quello di Aristotele volto all’analisi della città greca
non ha perduto nulla della sua efficacia descrittiva ed esplicativa
nei riguardi degli ordinamenti politici che si sono susseguiti da
allora sino ad oggi».19
Nel mio caso, le domande alle quali vorrei tentare di rispon-
dere sono: esisteva una qualche nozione di diritto soggettivo ad
Atene? I cittadini ateniesi, e eventualmente anche i residenti
privi di cittadinanza, percepivano se stessi come titolari di qual-
cosa di simile a ciò che noi oggi intendiamo per ‘diritti’? In caso
di riposta affermativa, erano previste garanzie per questi diritti?
Escludo dunque dai confini della mia ricerca l’impegnativa que-
stione della reperibilità in Aristotele o in altri filosofi antichi di
una teoria dei diritti, naturali o positivi. Non sono neanche inte-
ressata a chiedermi se, e in quale misura, si sia sviluppata nel-
l’antichità una nozione universalistica di diritti, fondata sul-

                                                                                                                       
19
Bobbio 1985, 60. Per l’intera discussione su Il nome e la cosa: 55-63.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 101

l’idea dell’eguaglianza fra tutti gli esseri umani.20 La categoria


di diritti soggettivi è evidentemente più ampia di quella di diritti
‘umani’ o – come oggi si preferisce dire – ‘fondamentali’. Tra i
diritti soggettivi rientrano a pieno titolo i diritti patrimoniali
(come il diritto di proprietà su specifici beni e il diritto di credi-
to), che sono per definizione singolari – exludendi alios – di-
sponibili e alienabili. I diritti che gli ordinamenti moderni rico-
noscono in genere come fondamentali (libertà personale, di as-
sociazione, di riunione, diritti politici, diritti sociali) sono invece
per definizione universali, indisponibili, inalienabili.21
Nel tentare di affrontare il problema dell’esistenza di diritti
soggettivi ad Atene, assumerò come prima definizione quella
proposta da Luigi Ferrajoli, che ha il pregio di essere chiara e
sufficientemente ampia per un ragionamento a cavallo tra anti-
chi e moderni. Ferrajoli definisce il diritto soggettivo come
«qualunque aspettativa positiva (a prestazioni) o negativa (a non
lesioni) ascritta a un soggetto da una norma giuridica».22 Si trat-
ta di una definizione teorica e formale, che non ci dice nulla sul
contenuto delle aspettative di volta in volta riconosciute come
diritti, né sul loro fondamento (potendo la norma che riconosce i
diritti appartenere a un sistema di diritto positivo, naturale o
consuetudinario). Ferrajoli specifica che i diritti possono consi-
stere in mere aspettative negative (parliamo in questo caso di
immunità, ad esempio dalla tortura o dalla riduzione in schiavi-
tù), o anche in facoltà di agire (come nel caso delle libertà di
espressione e di associazione), o in poteri implicanti effetti giu-
ridici sulla sfera altrui (i diritti civili e politici), o in pretese
(l’aspettativa di ricevere una prestazione, in cui consistono i di-
ritti sociali e il diritto di credito).23

                                                                                                                       
20
Cfr. in merito Fabre 1998 e Bauman 2000.
21
Mi servo qui della distinzione tra diritti fondamentali e patrimoniali
messa a punto da Luigi Ferrajoli (2001 e 2007).
22
Ferrajoli 2001, 5.
23
Ferrajoli 2007, 639ss.
102 Valentina Pazé

La seconda avvertenza metodologica su cui mi preme sof-


fermarmi brevemente verte sul rapporto tra le ‘parole’ e le ‘co-
se’ da esse designate, i significanti e i significati. Ricostruire la
storia delle parole non è la stessa cosa del ricostruire la storia
dei concetti. È banale osservarlo, ma forse non superfluo di
fronte a chi enfatizza a tal punto il dato linguistico da ritenere
che l’intraducibilità di un termine da una lingua all’altra dimo-
stri l’impossibilità di veicolare il significato corrispondente.
Intendiamoci. Il problema della traducibilità – perfetta, im-
perfetta, impossibile – è un problema filosofico, oltre che filolo-
gico, di prima grandezza. Per limitarci al mondo antico, Mauri-
zio Bettini ha ricordato in uno splendido saggio come la stessa
nozione di traduzione muti a seconda del contesto storico-cul-
turale di riferimento.24 Ma ciò non implica che si debba conclu-
dere per l’intraducibilità radicale, come sembra fare MacIntyre
nel passo da cui siamo partiti. La mancanza di una parola in una
data cultura non significa che sia impossibile esprimere il con-
cetto corrispondente, come sa ogni buon traduttore, che si sforza
di restituire il significato complessivo del testo con cui si con-
fronta, senza pretendere di stabilire una sovrapponibilità perfetta
tra termine e termine. Anche là dove ‘manca la parola’, non
siamo dunque condannati all’incomunicabilità: traduciamo con-
tinuamente da tutte le lingue, addirittura testi poetici, servendoci
di locuzioni e perifrasi che comportano talvolta una qualche de-
viazione dal significato originario, o un qualche spostamento di
accento, ma quasi sempre riusciamo a comprenderci.
Ciò che intendo sostenere è che l’operazione di traduzione è
sempre imperfetta e comporta dei rischi, ma sono rischi che
dobbiamo correre, se vogliamo cercare di accedere al patrimo-
nio di significati custodito da culture lontane da noi (nel tempo
o nello spazio). «L’arte di scrivere la storia – ha sostenuto Han-
sen – sta nello scegliere, tra tutti i concetti che abbiamo a nostra
disposizione, quelli che consentono una significativa descrizio-
ne delle società antiche, e nell’evitare quelli che potrebbero
                                                                                                                       
24
Bettini 2012.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 103

fuorviare». Anche volendo, non potremmo fare altrimenti.


L’unica alternativa alla strada, impervia, della traduzione «sa-
rebbe quella di scrivere sulla storia romana in latino, sulla storia
ateniese in greco e sulla storia babilonese in cuneiforme, il che è
semplicemente impossibile».25
Confortati dalla saggezza di Hansen, andiamo allora a vedere
se in Grecia, o meglio ad Atene, esistessero diritti soggettivi, os-
sia immunità, facoltà, poteri, pretese, attribuite ai soggetti da
una qualche norma giuridica, scritta o non scritta. E chiediamo-
ci, inoltre, se fosse prevista una qualche garanzia in caso della
loro violazione.

4. I diritti dei cittadini nell’Atene democratica

Inizio da una banale constatazione, da cui prendeva le mosse


anche Miller: se è indubbio che non esiste un’unica parola greca
in grado di rendere conto del ventaglio di situazioni giuridiche
comprese nella nozione di diritto soggettivo, è altrettanto indub-
bio che il greco antico disponeva di una molteplicità di termini
per designare le immunità, le facoltà, i poteri, le pretese in cui
consistono i diritti.26 Aristotele definisce il cittadino come «co-
lui che ha la facoltà [exousia] di partecipare all’ufficio di consi-
gliere e di giudice» (Pol. 1275 b) e parla del «potere» [dynamis]
dei cittadini di eleggere i magistrati (Pol. 1274 a). Non mi sem-
bra una forzatura né un travisamento intendere exousia e dyna-
mis, in questi passi, come ‘diritti’, perché ciò di cui qui si parla
sono proprio facoltà e poteri conferiti a tutti i cittadini dalla leg-
ge. Facoltà e poteri che i cittadini ateniesi potevano rivendicare
contro coloro che volessero negarglieli. Così come poteva ricor-
rere al tribunale il figlio di genitori ateniesi che, raggiunta la
                                                                                                                       
25
Hansen 2003, 9.
26
Miller si sofferma in particolare su: akuros/adeia, exousia, kurios, to
dikaion, che fa corrispondere alle quattro categorie di rights individuate da
Hohfeld (solo parzialmente coincidenti con quelle di Ferrajoli): immunity, li-
berty/privilege, authority/power, claim (Miller 1995, 94-108 e 2005).
104 Valentina Pazé

maggiore età, si vedesse negata l’iscrizione come cittadino nel


registro del demo paterno (Aristotele, Ath. Pol. 42).
Ma sarebbe fuorviante ritenere che i cittadini ateniesi godes-
sero dei soli diritti politici – la possibilità di partecipare all’as-
semblea e alle giurie e di ricoprire le innumerevoli cariche pub-
bliche distribuite per sorteggio o per elezione – ciò in cui Ben-
jamin Constant identificava lo specifico della «libertà degli an-
tichi». Nella Costituzione di Atene Aristotele ricorda come in un
certo momento della storia della polis si sia affermato il princi-
pio che «nessun cittadino dovesse morire senza la sentenza di
un tribunale». Ciò avvenne quando
il popolo tolse […] al consiglio il diritto di condannare a morte, di im-
prigionare, di infliggere multe, e stabilì per legge che, se il consiglio
condannava o puniva qualcuno a una multa, la condanna e la multa i
tesmoteti le dovevano portare davanti a un tribunale e che la decisione
votata dai giudici sarebbe stata decisiva.27

In realtà Hansen osserva che il principio «nessuna esecuzio-


ne senza processo» [medena akriton apokteinai], menzionato
anche da Isocrate e da Lisia, non si applicava a ladri e rapinatori
sorpresi in flagranza. Pur entro questi limiti, si trattava – secon-
do Hansen – di un principio «sentito come un diritto di cui go-
devano tutti i cittadini».28 Lo stesso dicasi di un'altra importante
immunità – il diritto a non essere torturati – garantita ai cittadini
ateniesi dal decreto di Scamandrio. In questo caso sembra che il
divieto corrispondente valesse senza eccezioni, rendendo i citta-
dini ateniesi (ma non gli schiavi e i meteci) «del tutto immuni
dal timore di essere torturati».29
Sulla possibilità di servirsi del linguaggio dei diritti per rife-
rirsi alla libertà personale e politica dei cittadini ateniesi con-
corda anche D.M Carter, che, tuttavia, nega che ciò possa valere
anche per la libertà di espressione. Carter ritiene che l’isegoria
                                                                                                                       
27
Aristotele, Ath. Pol. 45.
28
Hansen 2003, 120.
29
Cfr. Pepe 2011, 221-222, che cita in particolare un passo dell’orazione
di Lisia, Contro Agorato (XII 27-28) a sostegno di questa tesi.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 105

– l’eguale possibilità di prendere la parola in pubblico, in parti-


colare nell’assemblea – e la parrhesia – l’inclinazione a espri-
mersi con franchezza anche in contesti non politici – fossero
percepite nel V e IV secolo come «caratteristiche» o «attributi»
propri dei cittadini ateniesi, e non come «diritti».30 La tesi è cu-
riosa perché propone un’alternativa tra termini disomogenei,
che non sembrano escludersi a vicenda (tra gli ‘attributi’ del cit-
tadino ateniese non potrebbe esservi il godimento di particolari
‘diritti’?). Ma qui bisogna capire il senso preciso con cui vengo-
no usate queste due parole. Un diritto è per Carter «some privi-
lege that cannot be taken away from a human with justice».31
Per dimostrare che l’eleutheria – a differenza della parrhesia e
dell’isegoria – è concepibile come un diritto, Carter cita l’ipo-
tesi aristotelica della schiavitù para physin, oltre all’appello alla
giustizia dei Melii, nel dialogo con gli Ateniesi raccontato da
Tucidide.32 L’orizzonte qui è quello del ‘giusto naturale’ e di di-
ritti che spettano agli esseri umani in quanto tali (i Melii, sostie-
ne Carter, «see their freedom to rule themselves as something
approximating to a human right»33). Una prospettiva molto di-
versa da quella proposta in queste pagine, in cui mi occupo, più
modestamente, di diritti soggettivi.
Per ‘attributo’ Carter intende «something that the citizen of
one city was more likely to display than that of another». Qual-
cosa di simile a un habitus o a una disposizione psicologica, più
che ad una aspettativa normativa, fondata sul diritto. E tuttavia,
se può essere plausibile, almeno in parte, intendere la parrhesia
in questa chiave, non altrettanto si può sostenere per l’isegoria,
termine che ha una indubbia valenza giuridica, alludendo
all’eguale ‘diritto’ – come esprimersi altrimenti? – di qualsiasi
cittadino di manifestare le proprie opinioni pubblicamente, in

                                                                                                                       
30
Carter 2004, 198-199, 206.
31
Ivi, 199.
32
Ivi, 203-205.
33
Ivi, 205. Si noti invece che poco prima Carter aveva dichiarato che non
intendeva ragionare in termini di diritti umani universali (p. 203).
106 Valentina Pazé

particolare nell’assemblea, le cui sedute si aprivano con il famo-


so «tis agoreuein bouletai?». Contrapporre – come fa Carter –
«confidence to speak» e «right to speak» è poco convincente. È
chiaro che la consuetudine a esprimersi liberamente sorge e si
rafforza là dove tale comportamento viene considerato lecito. I
cittadini ateniesi erano consapevoli cha la costituzione democra-
tica consentiva loro di criticare liberamente le istituzioni e il
modo di vivere della loro città e di elogiare quello lacedemone,
cosa inconcepibile a Sparta.34 La letteratura greca, in prevalenza
anti-democratica, ci offre infiniti esempi della tolleranza della
città nei confronti dei suoi critici, anche radicali. Certo, tale tol-
leranza ha incontrato alcuni limiti significativi in momenti deli-
cati, in cui si temeva per la tenuta delle stesse istituzioni demo-
cratiche (le legge di Diopite contro l’empietà, i tentativi – peral-
tro falliti – di censurare Aristofane, il bando dal dibattito pub-
blico di proposte miranti al sovvertimento dell’ordine democra-
tico, dopo il 40435). Lo stesso processo a Socrate può essere in-
terpretato come la reazione della parte democratica, a pochi anni
dal rovesciamento dei Trenta, nei confronti di quello che appa-
riva come un «cattivo maestro».36 In ogni caso, se il nostro
obiettivo non è misurare la coerenza degli Ateniesi con i princi-
pi da essi celebrati ufficialmente,37 ma chiedersi se i cittadini
fossero, e si auto-percepissero, titolari di qualcosa di simile a
ciò che noi oggi intendiamo per ‘diritti’ (positivi), non mi sem-
bra particolarmente significativo insistere sui casi in cui la liber-
tà di espressione è stata di fatto violata o limitata per legge. I di-
                                                                                                                       
34
Con le parole di Demostene: «quello che i miei avversari faranno se
useranno queste argomentazioni, lodare cioè le usanze degli Ateniese o di
qualche altra città, non lo si può fare a Sparta, no di certo! È invece obbligato-
rio lodare soltanto ciò che è utile alla loro comunità» (Demostene, Contro
Leptine, 105-108).
35
Sommerstein 2004; Wallace 2004, 229-30.
36
Cfr. Wallace 2004, per il quale l’esecuzione di Socrate fu comunque un
evento unico nella storia ateniese, che «does not reflect Athenian attitudes
toward religious speculation or free speech» (ivi, 231).
37
Sulla celebrazione di parrhesia e isegoria come valori tipicamente de-
mocratici, cfr. Monoson 1994, 174-184.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 107

ritti vengono continuamente violati e soggetti a restrizioni anche


nelle nostre società, che li hanno scolpiti nelle loro costituzioni
proclamandone l’universalità e l’inalienabilità.38
Credo quindi che si possa concludere, con Hansen, che la po-
liteia democratica assicurava ai cittadini ateniesi non solo diritti
politici, ma alcuni significativi diritti-immunità e diritti-facol-
tà.39 Essi godevano inoltre di un meta-diritto particolarmente ri-
levante: il diritto di agire in giudizio, rivolgendosi ai tribunali
arbitrali o all’Eliea per ottenere giustizia. Stolfi ha sostenuto
– come abbiamo visto – che non si può parlare di diritti dei cit-
tadini «contro la polis». E tuttavia, ogni cittadino poteva intenta-
re una causa privata contro i magistrati che riteneva avessero
violato una sua pretesa legittima. «Poiché si riteneva che il ma-
gistrato incarnasse la polis – commenta Hansen – euthynai pri-
vate e altri tipi simili di accusa erano processi fra un cittadino e
la polis, nei quali il cittadino poteva sconfiggere la polis».40
Certo, si potrebbe ancora sostenere – come è stato spesso fat-
to – che i ‘diritti’ dei cittadini ateniesi erano sempre a rischio di
essere conculcati dall’assemblea. «Teoricamente – scrive Fin-
ley – il potere dello stato era illimitato, e non c’erano attività o
sfere del comportamento umano in cui lo stato non potesse in-
tervenire legittimamente, purché la decisione fosse opportuna-
mente presa per una qualunque ragione che l’assemblea avesse
ritenuto valida. Libertà significava dominio della legge e parte-
cipazione al processo decisionale, non possesso di diritti inalie-
nabili».41 E tuttavia, l’arbitrio dell’assemblea era pur sempre li-
                                                                                                                       
38
Si pensi alle leggi contro l’hate speech vigenti negli attuali regimi di
‘democrazia protetta’, la cui ispirazione non è poi così distante da quella di
alcuni provvedimenti restrittivi assunti ad Atene.
39
Hansen aggiunge che nel IV secolo esisteva una certa protezione della
casa del cittadino e del diritto di proprietà (Hansen 2003, 121). Gli studiosi
sono però concordi nel ritenere che il diritto di proprietà non fosse concepito
ad Atene come un diritto erga omnes, come a Roma. Cfr. Martini 2005, 103-
107.
40
Hansen 2003, 122.
41
Finley 2005, 26-27 e 83. Della stessa opinione Dover 1983, 278: «so-
vrana era la comunità e nessun diritto era inalienabile».
108 Valentina Pazé

mitato dal principio del primato del nomos sugli psephismata,


che venne riaffermato all’inizio del IV secolo, epoca in cui co-
nobbe una nuova fortuna l’istituto della graphé paranomon.42
Ciò che si tratta di dimostrare, d’altronde, non è che ad Atene i
diritti fossero efficacemente garantiti contro le decisioni della
maggioranza, come nei moderni sistemi di democrazia costitu-
zionale. Non lo erano, ovviamente, come non lo erano nello Sta-
to liberale ottocentesco, prima dell’affermarsi delle costituzioni
rigide e del sindacato di costituzionalità delle leggi. Ma nessuno
si sognerebbe di post-datare al diciannovesimo secolo (per gli
Stati Uniti) o alla metà del ventesimo (per l’Europa) la nascita
della nozione di diritti soggettivi, o di escludere che nella Gran
Bretagna di oggi, dove ancora vige il principio della sovranità
assoluta del Parlamento e non esiste una costituzione scritta, i
cittadini siano privi di diritti.43

5. I diritti degli “altri”

E tuttavia, ho parlato finora solo dei diritti dei cittadini ate-


niesi. Che dire dei «diritti degli altri»?44 Le donne, gli schiavi, i
meteci?
A ben vedere, alcune libertà e immunità valevano anche per
loro, ma qui è importante procedere con cautela, per non cadere
in imperdonabili anacronismi. Secondo alcuni teorici della tra-
ducibilità universale tra le diverse culture, anche nelle società in
cui il lessico dei diritti individuali non si è sviluppato, l’esisten-
za di norme che prescrivono doveri – come l’obbligo di rispetta-
re la vita, la dignità, i beni altrui – assolverebbe la stessa fun-

                                                                                                                       
42
Hansen, 2001. Il sottotitolo della traduzione italiana del testo di Hansen
– La sovranità del tribunale popolare ad Atene – può apparire paradossale,
ma suona come un invito a ridimensionare la tesi di Finley sulla «sovranità
assoluta» dell’assemblea.
43
Il paragone con la Gran Bretagna è di Hansen 2003, 126.
44
Maffi 2011.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 109

zione.45 In realtà le cose non sono così semplici. Il fatto che una
norma disponga obblighi o divieti a tutela di una certa categoria
di persone non significa che riconosca loro dei diritti. O meglio,
ciò può essere sostenuto sul piano strettamente logico, ma non
se si tiene conto dei significati di cui è venuto a caricarsi la pa-
rola ‘diritto’, che vanno oltre la semplice idea di corrispettivo di
un dovere. Se ad Atene alla donna adultera veniva riservato un
trattamento più mite di quello previsto per il suo compagno (ri-
sparmiata dalla morte lei, abbandonato alla vendetta privata lui),
non era certo perché la si ritenesse degna di particolare rispetto
e si intendesse garantirle il diritto alla vita. Essa veniva rispar-
miata proprio perché fondamentalmente disprezzata e non rico-
nosciuta come un soggetto responsabile delle proprie azioni.46
Un analogo discorso vale per le tutele di cui godevano gli schia-
vi nel mondo antico, predisposte non nel loro interesse, ma in
quello del padrone, per il quale lo schiavo rappresentava un be-
ne da non danneggiare o distruggere a cuor leggero.
Insomma, se è vero che tutti i diritti sono traducibili in corre-
lativi doveri, non è vero l’inverso, ossia che l’esistenza di doveri
implichi sempre quella dei diritti.47 In particolare, sarebbe scor-

                                                                                                                       
45
Secondo Marchettoni, ad esempio, «la formalizzazione del concetto di
diritto in termini di dovere sembra comportare che l’asserita estraneità del
concetto di diritto soggettivo rispetto alle culture non occidentali si fonda su
un equivoco. Dal momento che il concetto di diritto è riconducibile ad altre
nozioni sufficientemente semplici – come quella di dovere – da potere essere
assunte come universali, non ci sono basi per sollevare dubbi, come talvolta è
stato fatto, sulla compatibilità del linguaggio dei diritti con le culture extra-
europee» (Marchettoni 2012, 112).
46
Cantarella 1985, 63: «Perché questo silenzio? Perché, alla città, la sorte
della donna non interessava. Per la città, la donna non era un soggetto attivo,
un essere che ragionava e che voleva». Bobbio ha osservato più in generale
come il divieto di omicidio, presente in tutte le culture antiche, abbia espresso
originariamente l’esigenza di garantire la pace sociale e il bene della comuni-
tà, più che il diritto alla vita individuale (Bobbio 1990, 55.)
47
Sulla non corrispondenza biunivoca tra diritti e doveri, cfr. Kelsen,
1994, 85 e Bobbio 1999, 443: «La legge naturale, nella concezione del giu-
snaturalismo tradizionale, era una regola di condotta che aveva come destina-
tari soprattutto i sovrani cui imponeva l’obbligo di esercitare il potere rispet-
110 Valentina Pazé

retto pensare qualsiasi obbligo a tutela dei più deboli in termini


di diritti. Come ha argomentato Neal MacCormick in un celebre
dibattito con Herbert Hart, esiste una bella differenza tra soste-
nere che «i bambini devono essere nutriti e accuditi» e affermare
che «hanno il diritto a essere nutriti e accuditi». Nel primo caso
il dovere, a carico dei genitori o delle pubbliche istituzioni, po-
trebbe essere esclusivamente giustificato dall’obiettivo di avere
in futuro adulti sani, che contribuiscano alla crescita del PIL e
non rappresentino un peso per il contribuente. Proclamare
– come fanno oggi varie dichiarazioni internazionali – che i
bambini sono persone, dotate di dignità e di diritti, ha evidente-
mente tutt’altro significato.48
La tesi della irriducibilità dei diritti ai doveri si ritrova, decli-
nata in modi diversi, in influenti esponenti della filosofia del di-
ritto novecentesca: da Kelsen a Hart a Feinberg, allo stesso
MacCormick49. Kelsen, da buon giuspositivista, prende le mosse
dalla tesi di Austin (ma già di Bentham) secondo cui non si
danno diritti, nel senso proprio del termine, in assenza dei corri-
spondenti doveri. Ma questa tesi non lo soddisfa: se la nozione
di diritto soggettivo non fosse che il semplice correlativo di un
dovere, una sana parsimonia metodologica imporrebbe di rinun-
ciare a uno dei due concetti. Kelsen propone allora di ridefinire i
diritti soggettivi in termini di possibilità, che l’ordinamento giu-
ridico riconosce a determinati soggetti, di «mettere in moto la
sanzione». Sono titolare di un diritto soggettivo ‘in senso stret-
to’ se, in caso della sua violazione, posso rivolgermi a un tribu-
nale per ottenere giustizia. «Soggetto di diritto è quell’indi-
viduo, la cui manifestazione di volontà diretta alla sanzione,
                                                                                                                                                                                                                                                   
tando alcuni sommi principi morali. Che a questo dovere dei governanti corri-
spondesse un diritto correlativo dei sudditi di pretendere che i loro governanti
rispettassero quel dovere, era dubbio: i sudditi avevano soprattutto il dovere
di obbedire anche ai sovrani cattivi […]».
48
Per una ricostruzione del dibattito tra Hart e MacCormick sui diritti dei
bambini, cfr. Celano 2013, 58ss. e Fanlo Cortes 2008.
49
Cfr. in proposito Baccelli 2009, 86ss., che tuttavia ascrive Kelsen – for-
zatamente, a mio avviso – tra i teorici della correlatività tra diritti e doveri.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 111

cioè la cui azione in giudizio, è condizione della sanzione. Se


chiamiamo attore potenziale l’individuo, a cui l’ordinamento
giuridico conferisce la possibilità di promuovere un’azione, al-
lora è sempre un attore potenziale chi è soggetto di un diritto».50
Con un linguaggio diverso, ma non troppo, Hart e i teorici
della choice theory esprimono la medesima intuizione: essere
titolari di un diritto non significa solo essere beneficiari di un
dovere altrui, ma avere il «controllo» sull’adempimento di tale
dovere (ossia avere la possibilità di scegliere se pretenderlo o
rinunciarvi, e se agire in giudizio o meno).51 Se per Kelsen il ti-
tolare di un diritto è sempre un «attore potenziale», per Hart è
un «sovrano su scala ridotta», dalla cui manifestazione di volon-
tà dipende l’adempimento del dovere altrui.
Simili teorie – se assolutizzate – presentano evidenti punti di
debolezza. Come si rendeva conto lo stesso Hart, se assegnas-
simo una portata generale alla choice theory dovremmo esclude-
re dal novero dei diritti proprio quelli che oggi, per la loro parti-
colare rilevanza, vengono dichiarati ‘indisponibili’, e dunque
irrinunciabili da parte dei loro stessi titolari, come i diritti pro-
tetti dalla legge penale che, in caso di violazione, non richiedo-
no una querela di parte perché si arrivi a una sanzione.52 E tutta-
via, questo modo di concepire i diritti – o alcuni diritti – coglie
pur sempre un aspetto della ‘rivoluzione copernicana’ compiu-
tasi nella modernità: il passaggio da sudditi a cittadini, da desti-
natari di benefici paternalisticamente concessi a soggetti che ri-
vendicano ciò che spetta loro ‘di diritto’. Dietro a queste teorie
si staglia l’immagine di un individuo autonomo, attivo, che pre-
tende di essere rispettato.
Se torniamo a osservare il mondo greco a partire da questo
modo di concepire i diritti, non sono sicura che sia del tutto fon-
data la tesi di Luca Baccelli, secondo cui l’enfasi sul claiming,
l’«alzarsi in piedi», il conflitto, esprimerebbe un atteggiamento
                                                                                                                       
50
Kelsen 1994, 83.
51
Su Hart e la choice (o will) theory, cfr. Celano 2013, 38ss.
52
Celano 2013, 49-51.
112 Valentina Pazé

tipico della modernità occidentale, che non sarebbe dato di tro-


vare in sistemi giuridici «non occidentali e/o tradizionali», in-
centrati piuttosto «sugli elementi della conciliazione, del com-
promesso, della considerazione di ogni conflitto – compresi
quelli giuridici – come patologia sociale».53 Se riflettiamo sulla
proverbiale passione per i processi del cittadino ateniese, sem-
pre pronto a rivolgersi alle corti arbitrali o all’Eliea per preten-
dere ciò che gli spetta, se pensiamo allo spirito agonistico che lo
muove, troviamo ben poco dell’attitudine ‘conciliante’ che con-
traddistinguerebbe alcune culture orientali e tradizionali. E sco-
priamo piuttosto un cittadino assai consapevole delle sue prero-
gative: orgoglioso di essere titolare di immunità, facoltà, poteri
di cui gode in virtù del suo status, e per nulla disposto a rinun-
ciarvi.
Tra l’altro, proprio la natura accusatoria del processo atenie-
se, in cui l’azione legale è sempre promossa dai cittadini, anche
per i reati più gravi, fa sì che lo stesso diritto alla vita possa es-
sere considerato un «diritto in senso stretto», secondo la defini-
zione di Kelsen. Anche l’azione per perseguire un omicidio era
infatti ad Atene un’azione privata (una dike), che poteva essere
intentata dal parente più prossimo della vittima. Oltre al potere
di «mettere in moto la sanzione», spettava inoltre al cittadino-
attore, in molti casi, il potere di proporre il tipo e l’entità della
pena. E la stessa esecuzione del giudizio, nelle azioni private,
era lasciata al vincitore.54 Paradossalmente, applicando le cate-
gorie di Kelsen e dei teorici della choice theory l’Atene demo-
cratica, in cui largo spazio era lasciato all’iniziativa autonoma
dell’ho boulómenos, ci appare più ricca di diritti delle società
contemporanee.
Il discorso cambia se spostiamo l’attenzione sui non cittadini.
Donne, meteci, schiavi non potevano di regola agire in giudizio,
se non attraverso un tutore, un patrono, un padrone.55 Oltre a
                                                                                                                       
53
Baccelli 2009, 121.
54
Martini 2005, 133ss.; Fabbro 2012.
55
A proposito dei meteci, cfr. Aristotele, Pol. 1275 a, 9-10.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 113

non godere delle stesse facoltà, libertà e immunità riservate ai


cittadini (dai diritti politici alla libertà di parola all’immunità
dalla tortura), non avevano il potere di «mettere in moto la san-
zione». Nella discriminazione tra cittadini e non cittadini può
allora essere individuato lo specifico della cultura dei diritti de-
gli antichi. Una discriminazione che riguarda in particolare i di-
ritti ‘attivi’, attraverso i quali si esprime l’autonomia degli indi-
vidui, nella sfera pubblica (diritti politici) e privata (diritti civi-
li). Non che simili discriminazioni non si ripropongano anche
oggi. Ma si tratta di violazioni dei principi del costituzionalismo
moderno, che ha per la prima volta riconosciuto l’essere umano
in quanto tale – non il cittadino – come soggetto di diritti. Ad
Atene, invece, la discriminazione nei diritti tra cittadini e non
cittadini era alla base della politeia democratica; aveva carattere
fondante, strutturale.56
Certo, c’è chi ha invitato a relativizzare questa opposizione
netta, binaria, tra cittadini e non cittadini, e ha ipotizzato che
l’Atene democratica sia stata, di fatto, «considerevolmente più
liberale» di quanto non faccia pensare la sua ideologia ufficiale,
in particolare nel IV secolo.57 Ober cita a sostegno di questa tesi
la legge contro la hybris, di cui conosciamo l’esistenza grazie a
Demostene: una legge che proteggeva espressamente da parole
o atti gravemente oltraggiosi anche le donne, gli schiavi, i mete-
ci.58 E che sembra confermare ciò che scandalizzava l’anonimo
autore della Athenaion politeia: la «sfrontatezza» degli schiavi e
dei meteci, che ad Atene non potevano essere battuti impune-
mente e finivano con atteggiarsi a pari dei cittadini.59. E tuttavia,

                                                                                                                       
56
Si pensi alla tortura, vietata nei confronti dei cittadini, ma non nei con-
fronti di schiavi, meteci, stranieri. Commentando un’affermazione di Licurgo
sul carattere eminentemente ‘democratico’ della tortura, Laura Pepe sostiene
che essa «assurge a manifesto dell’ideologia democratica ateniese, e dell’en-
fasi che essa attribuisce alla distanza tra il polites e chi polites non è» (Pepe
2011, 235).
57
Ober 2005, 107.
58
Ivi, 113ss.
59
Canfora 1982, 18-19.
114 Valentina Pazé

questo esempio non fa che rafforzare la lettura che ho svolto si-


nora. A poter intentare una graphé a favore di donne, schiavi o
meteci vittime di atti di hybris erano infatti solo i cittadini. Si
conferma dunque anche a questo proposito la distinzione tra chi
è titolato a «mettere in moto la sanzione» e chi gode, al più, di
aspettative negative. Parzialmente diverso sarebbe il quadro se
fosse confermata l’ipotesi avanzata da Edward E. Cohen, e ri-
presa da altri studiosi, secondo cui alcune dikai a difesa della
proprietà erano direttamente intentabili da meteci e schiavi. Ci
troveremmo allora di fronte all’attribuzione a non cittadini di
alcuni di quei diritti ‘attivi’ che fanno la differenza.60

6. Conclusione

Nel suo stimolante saggio sui quasi rights Ober solleva un


altro tema che meriterebbe di essere approfondito: quello della
contagiosità della logica dei diritti che, una volta affermatasi in
relazione a una categoria di soggetti, tenderebbe a espandersi e a
conquistare nuovi spazi. Il semplice fatto che tra i cittadini, tito-
lari della pienezza dei diritti, vi fossero anche teti e banausi,
percepiti dall’ateniese medio come psicologicamente non dissi-
mili dagli schiavi e dai meteci, provocava probabilmente qual-
che feconda «dissonanza cognitiva» tra gli ateniesi.61 Aprendo
la strada a relazioni sociali, di fatto, molto più libere e paritarie
di quanto comunemente si creda. Di ciò costituirebbero un indi-
zio, di nuovo, le lamentele degli antidemocratici, come lo Pseu-
do-Senofonte o Platone, per l’estrema libertà di cui avrebbero
goduto – e abusato – ad Atene gli schiavi, i meteci, e perfino le

                                                                                                                       
60
Cfr. Cohen 2000; Ober 2005, 117; Martini 2005: 43; 45-46. A proposito
dei meteci, anche Hansen mette in dubbio che Aristotele, in Pol. 1275 a, 9-10,
si riferisca ad Atene e osserva che le orazioni spesso mostrano meteci che si
presentano in tribunale da soli o assistiti da un amico, e non dal loro prostates
(Hansen 2003, 178).
61
Ober 2005, 11-12. Diversa la tesi di Dover 1983, 105-106.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 115

donne.62 Implicazioni analoghe avrebbero le considerazioni di


Aristotele sulle magistrature preposte alla sorveglianza dei fan-
ciulli e delle donne, tipiche delle aristocrazie ma non delle de-
mocrazie, dove le donne escono di casa per contribuire con il
loro lavoro al bilancio familiare.63 Anche in questo caso, sareb-
be stato l’allargamento dei diritti politici ai non abbienti ad aver
prodotto conseguenze inattese, come una maggiore libertà di
movimento per le donne, testimoniata anche dalla commedia.
Gerarchie molto più fluide e costumi considerevolmente più li-
beri di quanto previsto dall’ideologia ufficiale, dunque? La tesi
di Ober (e di Cohen) – che ricorda come anche il divieto per i
meteci di essere proprietari di fatto venisse scavalcato – è sug-
gestiva, ma rimane difficile da provare. Certa è invece la di-
scriminazione sul piano giuridico tra cittadini e non cittadini
(donne comprese), nel godimento dei diritti, che solo nella mo-
dernità verrà messa in discussione.
La discontinuità tra antichi e moderni, dunque, va ribadita.
Ma non riguarda la nozione di diritto soggettivo. E neanche
l’alternativa lumeggiata da Constant tra diritti politici (le «liber-
tà degli antichi») e diritti di libertà (le «libertà dei moderni»).
Riguarda piuttosto, in primo luogo, la titolarità dei diritti, che
nell’antichità – ad Atene come a Roma – spettano innanzitutto
al cittadino, membro a pieno titolo della comunità, mentre nel-
l’età moderna sono in via di principio riconosciuti all’individuo,
immaginato in una condizione pre-politica di assoluta egua-
glianza (anche tra uomini e donne, in Hobbes). Con una formula
efficace, Michelangelo Bovero ha caratterizzato la modernità
come l’epoca dei «diritti senza appartenenze», là dove l’età pre-
                                                                                                                       
62
Si pensi alla descrizione platonica dell’anarchia democratica nell’VIII
libro della Repubblica.
63
Cfr. Pol. 1300 a 4-8: «Il sorvegliante dei ragazzi e il sorvegliante delle
donne e qualsiasi altro magistrato con un incarico del genere è d’altro canto
aristocratico, certo non democratico – come si può infatti impedire alle donne
dei poveri di uscire? – e neppure oligarchico – perché le donne degli oligar-
chici amano il lusso». Il punto è riproposto in 1322 b 37-1323a 6. Cfr. Ober
2005, 118ss.
116 Valentina Pazé

moderna si contraddistingue al contrario per la subordinazione


dei diritti al possesso della cittadinanza o di altri status partico-
lari.64 Sappiamo bene che questi principi sono oggi smentiti da-
gli Stati ricchi che, dopo avere colonizzato e depredato le risorse
del resto del mondo, chiudono le frontiere a chi fugge dalla
guerra e dalla miseria. La cittadinanza è tornata così ad essere
un privilegio di pochi, dal cui possesso dipende il godimento di
tutti gli altri diritti, nonostante le costituzioni e le dichiarazioni
internazionali parlino un linguaggio ben diverso. Si pensi all’ar-
ticolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo,
che stabilisce il diritto di ogni individuo a «lasciare qualsiasi
paese, incluso il proprio», ma anche all’art. 15, che ascrive a
ogni essere umano il diritto «a una cittadinanza» e a «mutare
cittadinanza».
Una seconda differenza tra antichi e moderni riguarda la fun-
zione dei diritti. Nel suo splendido saggio sui principi di legitti-
mazione del potere nel mondo antico, Mario Vegetti non prende
in considerazione – né avrebbe potuto farlo – i diritti.65 Accanto
al plethos, al kratos, all’aretè, all’episteme, compare il nomos
come possibile fondamento e giustificazione del potere. La leg-
ge è, più in generale, il fulcro delle teorie del giusnaturalismo
antico e medioevale, che Bobbio caratterizza come «teorie del
diritto naturale» per distinguerle da quelle del giusnaturalismo
moderno, o «teorie dei diritti naturali». Ma, come abbiamo vi-
sto, il ‘diritto’ (in senso oggettivo) non implica necessariamente
i ‘diritti’ (in senso soggettivo), potendo la legge prescrivere do-
veri cui non corrisponde alcuna pretesa esigibile da parte dei
soggetti. È solo a partire da Hobbes che la prospettiva viene ro-
vesciata e i diritti assurgono a principio di legittimazione del-
l’ordine politico, diventando, in un certo senso, le ‘clausole’ del
patto sociale: le «condizioni alle quali l’individuo si vincola al
collettivo, ovvero assume l’obbligo politico di obbedire alle de-

                                                                                                                       
64
Bovero 2000, 118.
65
Vegetti 2017.
Cittadinanza e diritti, tra antichi e moderni 117

cisioni collettive».66 La violazione dei diritti da parte del sovra-


no legittima così i sudditi a invocare il «diritto di resistenza».
Niente di simile è concepibile nell’ambito della polis, e nel
mondo antico in generale.
Potremmo dunque concludere che agli ateniesi non era estra-
nea la nozione di diritto soggettivo e neanche quella di diritto
fondamentale, se assumiamo la definizione formale di «diritti
fondamentali» messa a punto da Ferrajoli («diritti soggettivi che
spettano universalmente a ‘tutti’ gli esseri umani in quanto dota-
ti dello status di persone, o di cittadini, o di persone capaci di
agire»67). A ‘tutti’ i cittadini erano infatti riconosciuti ad Atene i
diritti politici e alcuni altri diritti-immunità e facoltà, mentre a
‘tutte’ le persone erano riconosciuti per lo meno alcuni diritti-
immunità. Tali diritti non erano tuttavia concepiti come ‘fonda-
mentali’ in un’altra delle possibili accezioni che questa espres-
sione è venuta ad assumere, ossia come diritti posti «a fonda-
mento» e giustificazione dell’ordine politico.68

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66
Bovero 2016 15.
67
Ferrajoli 2001, 6.
68
Cfr. Palombella 2002, per il quale i diritti fondamentali costituiscono i
«criteri di riconoscimento» di un ordinamento giuridico, e Bovero 2016, 15,
per il quale «sono fondamentali quei diritti che non conseguono dall’esistenza
di determinati doveri logicamente antecedenti ad essi, ma al contrario vengo-
no concepiti (e stipulati) come originari, e dunque essi stessi fondanti rispetto
a una certa classe di doveri, che ne conseguono logicamente». Sulle due acce-
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118 Valentina Pazé

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INCLUSIONE ED ESCLUSIONE
LUCIO BERTELLI

IL CITTADINO IN ARISTOTELE:
CRITERI DI INCLUSIONE/ESCLUSIONE

I. Aristotele dedica i primi cinque capitoli di Politica III alla


definizione formale del cittadino (polites), è quindi naturale che
l’attenzione della critica sulla concezione della cittadinanza in
Aristotele si sia concentrata su di essi;1 ma se si considera che il
nucleo della definzione di cittadino sta nella sua partecipazione
al governo (metechein tes politeias),2 ne risulta che la questione
in realtà percorre tutta la trattazione delle forme costituzionali
nella Politica secondo tre diversi orientamenti tra loro coerenti:
1) l’indagine formale sulla definizione (horismos) del cittadino
in Pol. III 1-5; 2) l’analisi sociologica o fattuale dello status del
cittadino nei regimi reali (in particolare nelle forme di oligarchia
e democrazia) nel libro IV; 3) la teoria prescrittiva nella condi-
zione ottimale della ariste politeia del VII libro. Rispetto a que-
sta varietà di prospettive è lecito chiedersi innanzi tutto perché
Aristotele ritiene necessaria una ricerca specifica sul polites e se
la definizione trovata in Pol. III 1-5 è compatibile con gli altri
due orientamenti all’interno dei quali è esaminata la figura del
cittadino.
La necessità di una zetesis sul cittadino è dedotta formalmen-
te da tre premesse: a) una ricerca sulla politeia non può prescin-

1
In particolare sui cc. 1-5 del III libro vd. Kahlenberg 1934, 8-14; Braun
1961, 5-44 (anche Braun 1965, 19-52); Develin 1973; Johnson 1984 (anche
Johnson 1990, 115-125); Morrison 1999; Frede 2005; Collins 2006, 119-131;
Roberts 2009; Gastaldi 2017; su aspetti particolari importanti anche Mossé
1967; Lévy 1980.
2
In generale sul concetto di metechein tes politeias (specialmente in epo-
ca arcaica) vd. Walter 1993.
126 Lucio Bertelli

dere innanzi tutto dall’indagine di che cosa sia la città (1274 b


29-30) (relazione puramente verbale tra le due nozioni);3 b) do-
po l’inciso sull’aporia se sia la città o il regime in carica ad agi-
re politicamente, dà una prima definizione molto generica di po-
liteia che la collega all’entità polis: «la costituzione è un certo
ordinamento di coloro che abitano la città» (1274 b 38);4 qui sia
polis sia politeia sono termini onnicomprensivi rivolti all’intera
compagine degli abitanti della città, e la taxis (ordinamento) di
cui è investita la politeia, «delinea la struttura ordinata della cit-
tà e la collocazione degli uomini all’interno di questa»;5 c) la
successiva definizione della città come ‘composto’ (sunkeime-
non) di molte parti (moria), e l’identificazione di queste parti
con i cittadini («la città è una certa moltitudine di cittadini»:
1274 b 41), restringe il campo concettuale della polis dalla tota-
lità generica degli abitanti alla totalità specifica della compo-
nente civica della città: di qui la necessità di una ricerca sul po-
lites. Passando dalla dimensione puramente demografica – gli
oikountes della città – a quella politica del cittadino Aristotele
sottintende o implica quello che afferma esplicitamente poco
più oltre, cioè che la polis è una comunità (koinonia) di cittadini
che condividono una politeia (1276 b 2-3). Potrebbe sembrare
strano6 che qui Aristotele riproponga l’immagine della città co-
me holon costituito da molte parti da scomporre nei suoi ele-
menti minimi (moria = cittadini) dopo che in Pol. I 1, 1252 a
19-23 si era appellato allo stesso metodo della diairesis per
identificare le ‘parti minime’ del ‘tutto’, individuate nelle asso-
ciazioni subordinate (famiglia, villaggio), e a aveva già definito
la polis come koinonia7 (1252 b 27-30) . In realtà, se il metodo è

3
Vd. Accattino 2013, 147.
4
Tutte traduzioni italiane dei passi del III libro sono prese da Accattino
2013.
5
Accattino 2013, 148.
6
Vd. per esempio Susemihl, Hicks 1894, 355, Schütrumpf 1991, 383, che
suppone in questa parte di Pol. III l’ignoranza della definizione data in Pol. I.
7
In realtà poi Aristotele nell’analisi delle singole koinoniai non applica il
metodo ‘diairetico, ma quello ‘genetico’ (Pol. I 2, 1252 a 1), più utile per di-
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 127

analogo, gli obiettivi dell’analisi sono radicalmente diversi: in


Pol. I ad Aristotele interessava contestare l’idea di Platone (e di
altri8) che le forme di comando (arché) nelle diverse aggrega-
zioni della comunità politica erano identiche per sostanza, anche
se differenti per quantità (vd. Platone, Pol. 258 e- 59 a; Leggi,
III, 680 d-81 a), mentre la verità era che sono specificamente
differenti (Pol. I 1, 1252 a 7-16), e dimostrare che rispetto alla
despoteia (comando padronale) esercitata sugli schiavi e
all’archè oikonomiké esercitata su figli e mogli, l’archè politiké
– il comando proprio della comunità politica – riguardava solo i
‘liberi ed eguali’ (eleutheroi kaì isoi) (Pol. I 7, 1255 b 16-20), e,
a differenza dei ruoli nell’ambito dell’oikos, prevedeva
l’alternanza tra comandare ed essere comandato (I 2, 1259 b 4-
8).
In un ulteriore capitolo della polemica antiplatonica, a pro-
posito del concetto di unità della città della Repubblica, Aristo-
tele dava ragione del e spiegava il meccanismo dell’alternanza
di archein e archesthai richiamandosi alla teoria dell’‘egua-
glianza per reciprocità’ (tò ison tò antipeponthós): Aristotele
dimostra, nella critica all’unità indifferenziata della polis plato-
nica della Repubblica (Pol. II 1, 1261 a 22- b 6), che la koinonia
politiké o la polis sono una pluralità di elementi eidei diaphe-
rontes, differenziati per specie, cioè per funzione, non di ele-
menti omogenei (homoioi); infatti la polis si differenzia da una
symmachia e da un ethnos in cui conta la quantità, non la qualità
dei membri; e per rendere ancora più chiaro il concetto si ri-
chiama un po’ a sorpresa al concetto di antipeponthos o giusti-
zia per contraccambio, illustrato in EN V 8, dove era applicato
solo alla sfera delle relazioni private e in particolare commercia-
li. Premesso che la polis si compone di membri ‘liberi ed eguali’
(isoi) e non è possibile che tutti comandino allo stesso tempo, è
necessario che questa prerogativa sia scandita secondo un ordi-

mostrare l’integrazione delle singole parti rispetto al telos della città; vd. in
proposito Accattino 1978, 177-178.
8
Vd. p.e. Xen. Mem. 3, 4, 12.
128 Lucio Bertelli

ne temporale, come se – e qui Aristotele introduce un paragone


che avrebbe fatto sicuramente drizzare i capelli a Platone – cal-
zolai e carpentieri si scambiassero i rispettivi mestieri; certo sa-
rebbe bello, se fosse possibile, che a governare fossero sempre
gli stessi, ma in una comunità di «eguali (isoi) per natura» (1261
b 1) ciò non è né possibile né giusto, perché «tutti vogliono par-
tecipare al potere» (metechein tou archein) e ciò si può ottenere
solo con la rotazione (katà meros) dei ruoli di archon e archo-
menos. Quindi in pratica Aristotele viene a dire che la funzione
tipica di un membro di una comunità politica è la partecipazione
al potere (metechein tes arches).
Ora, anche se l’indagine sull’identità del cittadino in Pol. III
presenta un orientamento diverso, tuttavia le caratteritiche
dell’arché politiké di Pol. I e il principio dell’alternanza dei ruo-
li di Pol. II non sono dimenticati nell’analisi di chi sia il polites,
anzi – come vedremo – costituiscono due argomenti forti nella
discussione dialettica sul polites di Pol. III.

II. Le argomentazioni per dimostrare chi sia il cittadino e le


sue qualità nei cc. 1-5 del III libro non procedono in modo li-
neare: all’annuncio iniziale di una skepsis perì poleos («indagi-
ne sulla città») non segue una discussione che troviamo infatti al
cap. 3; alla definizione haplos (‘in assoluto’), cioè applicabile a
qualsiasi situazione e regime, 1275 a 19-20), del cittadino segue
la soluzione di due aporie legate a casi particolari di definizione
della cittadinanza; il cap. 3 risolve il problema lasciato in sospe-
so al cap. 1, 1274 b 32-37; il cap. 4 introduce un po’ ex abrupto
la questione della ‘virtù’ del cittadino comparata con quella del
governante. A parte l’itinerario tortuoso va notato anche il forte
carattere dialettico della discussione con tesi e contro-tesi. Inol-
tre Aristotele alterna nell’argomentazione analisi di situazioni
fattuali – il cittadino secondo i diversi regimi, le definizioni cor-
renti di cittadino – con l’analisi del caso teorico in riferimento
alla costituzione migliore.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 129

La ricerca sulla definizione ‘in senso assoluto’ del polites


prende l’avvio dalla constatazione della mancanza di accordo
sulla nozione: chi è cittadino in una democrazia, «spesso non lo
è in una oligarchia», e procede con l’eliminazione dei casi di
impropria attribuzione del titolo, cittadini poietoi (divenuti tali,
cioè, in base a un decreto),9 i semplici residenti come meteci e
schiavi, coloro che godono di giurisdizione in base a trattati, i
ragazzi che per l’età non possono ancora essere considerati cit-
tadini e i vecchi che hanno superato il limite d’età per accedere
alle cariche, gli atimoi e gli esiliati (1275 a 2-21). Le categorie
degli esclusi, come è facile notare, fanno riferimento alla nor-
mativa ateniese, anche se in certi casi Aristotele non è molto
corretto.10
Un po’ bruscamente, senz’altra motivazione che quella di
voler ricercare una definizione ‘assoluta’ (haplos) del cittadino
non bisognosa di correzioni (1275 a 19-20), Aristotele presenta
la prima definizione del polites: «Il cittadino non è meglio defi-
nito in senso stretto da nient’altro che dall’aver parte nelle deci-
sioni (krisis) e nel governo (arché)» (1275 a 22- 23).11 Ma la de-

9
Per l’interpretazione di questa categoria rinvio al commento di Accattino
2013, 148.
10
Per esempio nel caso dei poietoi politai, cioè cittadini per decreto, se
sceglievano la residenza in Atene, venivano iscritti nelle liste dei demi come
gli altri cittadini: si vedano i casi dei Plateesi del 427 a.C. (effettiva a partire
dalla seconda generazione: vd. Dem. 59, 104-106; Isocr. 12, 94) e la cittadi-
nanza concessa ai Samii per decreto nel 405 a.C. (vd. Meiggs, Lewis, 283-
287 n. 94,), rinnovata nel 403 a.C.; su ciò vd. MacDowell 1978, 70-73; ma
vd. anche le osservazioni di Gauthier 1986; quanto all’esclusione dei pa-
rekmakotes (quelli che avevano superato il limite d’età) non si capisce a quale
legge Aristotele si riferisca (vd. Lévy 1980, 236 n. 169): come egli stesso ri-
corda in Ath. Pol. 53, 3 al compimento del 60° anno d’età il cittadino ateniese
era iscritto obbligatoriamente, pena la perdita dei diritti civili, all’elenco degli
‘arbitri’ (diatetai).
11
Accattino 2013, 61, 150, sulla scorta di Schütrumpf 1991, 389-390, ri-
tiene che il termine krivsi~ di 1275 a 23 non sia specificamente rivolto
all’attività giudiziaria, come di solito si intende (vd. Barker 19686, 93;
Simpson 1998, 134), ma «abbia il significato più ampio di decisione»; in ef-
fetti la formula di 1275 a 23 è piuttosto generica e nel prosieguo dell’argo-
130 Lucio Bertelli

finizione risulta ancora piuttosto equivoca perché le archai sono


di solito limitate nel tempo, mentre alle funzioni di giudice e
membro dell’assemblea, che non hanno un nome comune, si po-
trebbe contestare il titolo di archai:12 ma Aristotele risponde alla
possibile obiezione facendo notare che sarebbe «ridicolo» (ge-
loion) non riconoscere l’autorità del comando (arché) a chi ha il
massimo potere (kuriotatous), cioè ai giudici e all’assemblea,13
e pertanto ‘inventa’ la categoria dell’aoristos arché – «carica di
governo senza limiti di tempo» (1275 a 32) per designare insie-
me le funzioni di dikastés e di ekklesiastés.
Tuttavia, dopo aver dichiarato che la definizione appena tro-
vata si «adatta a tutti coloro che son chiamati cittadini», intro-
duce un argomento che la sconfessa, almeno in parte:
Peraltro, non deve sfuggire che le cose che ineriscono a soggetti i qua-
li differiscono per specie, per cui uno di questi è primo, l’altro è se-
condo e un altro ancora viene di seguito, o non hanno come tali nulla
in comune, o hanno molto poco. Ma noi vediamo che le costituzioni
differiscono tra loro per specie e che alcune sono posteriori e altre an-
teriori, perché quelle errate e deviate è necessario che vengano dopo
quelle corrette (in che senso le diciamo deviate, sarà evidente in segui-
to).14

Usando un principio esposto in Metafisica, III 3, 999 a 6-


14,15 Aristotele giustifica l’esistenza di una pluralità di costitu-

mentazione Aristotele distingue tra archai vere e proprie, limitate nel tempo,
e le funzioni di dikastes (giudice) e ekklesiastes (membro dell’assemblea).
12
In effetti a Pol. IV 14, 1297 b 41-98 a 3 Aristotele distingue le tre parti
di ogni costituzione in tò bouleuomenon (funzione deliberativa, cioè boulé ed
ekklesia), archai (magistrati con potere di comando su specifiche aree: 1299 a
25-28), e tò dikazon (tribunali), secondo la ripartizione corrente ad Atene nel
IV sec. a.C. (vd. Rhodes 1981, 32); per la classificazione delle funzioni poli-
tiche in Pol. IV 14-16 vd. il commento di Canevaro in Bertelli, Moggi (eds.),
2014, 279-377.
13
Per un giudizio analogo in riferimento alla costituzione di Solone vd.
Ath. Pol. 9, 1 e Pol. II 12, 1274 a 3-7. Cfr. Schütrumpf 1991, 390.
14
1275 a 34-75 b 3.
15
Cfr. anche Cat. 12, 14 b 3-7 su ‘anteriorità’ = maggior valore. Sull’ap-
plicazione delle categorie di anteriore e posteriore alla classificazione delle
costituzioni in Pol. III si rinvia a Fortenbaugh 1976.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 131

zioni, tra loro differenti per valore (anticipazione di quanto dirà


dal cap. 6 in poi), e ne trae la conseguenza che anche il polites
sarà una variabile dipendente dal regime in cui si trova ad agire,
perciò la definizione appena trovata, che si adatta soprattutto al-
la democrazia, dovrà essere corretta: infatti in altre costituzioni
– e come esempi ricorda Sparta e Cartagine – o non esistono as-
semblee regolarmente convocate o le funzioni giudiziarie sono
distribuite a particolari collegi di magistrati, quindi si presenta
la necessità di una «correzione» (diorthosis: 1275 b 13) della
definizione (diorismos) del cittadino data a 1275 a 22–23:
Da tutto ciò è evidente chi sia il cittadino: colui che ha la facoltà
(exousia) di partecipare a una carica deliberativa o giudiziaria, noi di-
ciamo che è senz’altro cittadino di questa città e, per parlare in senso
stretto, diciamo città quella moltitudine di individui di questo tipo che
soddisfi l’autosufficienza di vita.16

Siamo di fronte a una formula puramente descrittiva del cit-


tadino: la facoltà di partecipare è infatti riferita alla singola real-
tà civica (tautes tes poleos),17 ma si può estendere a ogni tipo di
costituzione in quanto le due funzioni individuate – deliberativa
e giudiziaria – sono presenti in qualsiasi sistema politico.18 Que-
sta seconda – o terza, se si tien conto anche del diorismos sulla
aoristos arché di 1275 a 31-32 – definizione della qualificazio-
ne del cittadino non solo è più estensiva della prima, ma consi-
dera la partecipazione alle funzioni politiche deliberative e giu-
diziarie da un altro punto di vista, quello della potenzialità di
partecipazione, cioè si passa, come ha giustamente osservato

16
1275 b 17-21.
17
Vd. Mulgan 1977, 54, Accattino 1986, 33, Accattino 2013, 151; al con-
trario Morrison 1999, 146, ritiene che Aristotele sia alla ricerca di una defini-
zione normativa del cittadino che vada al di là delle singole realtà politiche.
18
Su questo aspetto della formula vd. in part. Johnson 1984, 77-80 (anche
1990, 117-121), che intende arché di 1275 b 15 e 18 come «sphere of authori-
ty», non come carica effettivamente ricoperta («office») secondo la definizio-
ne di 1275 a 23.
132 Lucio Bertelli

Schofield,19 dalla definizione di che cosa è il cittadino, a ciò che


qualifica il cittadino in un certo regime ad esercitare quelle fun-
zioni. A rigore questa definizione comporterebbe una difficoltà:
se la cittadinanza è legata alla facoltà/possibilità di esercitare le
due funzioni indicate, ne potrebbe conseguire che in una monar-
chia unico cittadino è il re, in un’oligarchia solo il ristretto nu-
mero dei partecipanti al governo, e, se si misura la giustizia/in-
giustizia di una costituzione dal punto di vista dell’interesse
comune contro l’interesse dei governanti, non vi sarebbe più di-
stinzione tra regimi corretti e deviati.20
L’obiezione in realtà non ha ragione di essere: infatti secon-
do la classificazione delle costituzioni di III 6-7 il discrimine tra
politeiai corrette e deviate passa attraverso il rispetto o meno
dell’interesse comune (koinòn symphéron), quindi anche chi
non partecipa al governo della città – al politeuma, come defini-
to in 6, 1278 b 10-11 – fa comunque parte della città e deve par-
tecipare dell’interesse comune (1279 a 31-32);21 in effetti sia la
monarchia sia l’aristocrazia sono definite come regimi che go-
vernano in vista del koinòn symphéron; è evidente che i cittadini
di questi regimi, che formano comunque una «comunità di libe-
ri» (1279 a 21), si troveranno in posizione di archomenoi, ma
comunque ‘cittadini’ in senso lato.22

19
Schofield 1996, 841-842; vd. anche Accattino 2013, 151. Schofield
(ibidem, 842ss.) contesta, a mio giudizio giustamente, che con exousia si
debba intendere un ‘diritto’ a partecipare secondo la nota interpretazione di
Miller 1995, 101-104, 146 (anche Schütrumpf 1991, 393-394 intende exousia
come ‘Recht’): infatti si tratta solo di una «potentiality for actual partecipa-
tion» (Schofield 1996, 842) inerente allo status di cittadino, quindi variabile
secondo le diverse costituzioni e, in uno stesso tipo di costituzione, secondo
le sue diverse attuazioni. Per Nussbaum 1990, 167-168 exousia significhe-
rebbe «the authorization to share in judicial and deliberative funtioning»: ma
‘authorization’ da parte di chi?
20
L’obiezione era già stata sollevata da Newman 1887, 230; in forma più
elaborata vd. anche Cooper 1990, 228, Morrison 1999, 145.
21
Sulla questione testuale e l’interpretazione di queste righe vd. Accattino
2013, 179-180.
22
Per la distinzione tra ‘cittadino in senso stretto’ e ‘cittadino in senso la-
to’, cioè i «free-born native residents» (koinonia ton eleutheron: III 6, 1279 a
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 133

Stabilita la formula di cittadinanza, Aristotele la mette a con-


fronto con due situazioni reali: l’uso corrente (1275 b 22: pros
tên chresin)23 che attribuisce tale prerogativa in base alla di-
scendenza, la questione di chi riceve la cittadinanza in conse-
guenza di un mutamento costituzionale. In realtà la regola della
discendenza, anche se Aristotele ne sminuisce il valore definen-
dola una soluzione «ad uso politico e sommaria» (politikos kai
tacheos), era di largo impiego nelle città greche,24 e in particola-
re ad Atene dopo la legge di Pericle del 451 a.C., riedita nel
403.25 Aristotele ne confuta la validità con un argomento di
buon senso: se si risale ai primi fondatori della città, a loro non
si potrà applicare la regola della discendenza, quindi erano cit-
tadini solo in base al fatto che partecipavano alla politeia secon-
do la definizione data (1275 b 30-34).26
Se la regola della discendenza è confutata in base ad un ar-
gomento di coerenza, il secondo caso, l’accesso alla cittadinan-
za in conseguenza di un mutamento costituzionale (1275 b 35:
metabolês genomenês politeias) – esemplificato con il ricordo
dell’inserimento nelle tribù di «meteci stranieri e schiavi» da
parte di Clistene dopo la «cacciata dei tiranni»27 – introduce un

21) vd. Cooper 1990, 228229; Morrison 1999, 156-161 suppone l’esistenza di
una ‘gradualità’ nell’esercizio della cittadinanza; per la categoria dei cittadini
solo archomenoi vd. Mossé 1967; Lévy 1980, 237-241.
23
Per il senso dell’espressione cfr. Pol. I 11, 1258 b 9-10; vd. Newman
1887, 141.
24
Vd. Newman 1887, 141-142; Schütrumpf 1991, 398.
25
Vd. Ath. Pol. 26, 4 (legge di Pericle); Dem. LVII, 30 (403/402 a.C.);
vd. Rhodes 1981, 331-335, 493-503; per la procedura di iscrizione alla citta-
dinanza vd. Ath. Pol. 42; in generale sulla cittadinanza ad Atene vd. Manville
1997, 3-34.
26
Il richiamo allo ‘scherzo’ di Gorgia (1275 b 26-30) che a Larissa esiste-
vano dei «fabbricanti di Larissesi», cioè i magistrati chiamati demiourgoi,
non fa altro che confermare che la cittadinanza deriva da una decisione politi-
ca. Vd. commento di Accattino 2013, 153-154; inaccettabile l’interpretazione
di Collins 2006, 121-122.
27
Il testo di 1275 b 37 (pollous gar ephuleteuse xenous kai doulous me-
toikous) non è chiaro: in Ath. Pol. 21, 4 si parla solo di neopolitai. Per la que-
stione vd. Rhodes 1981, 254-256.
134 Lucio Bertelli

nuovo – e più importante – criterio di discriminazione tra citta-


dino e non-cittadino, quello della legittimità – o in termini ari-
stotelici –, quello della ‘giustizia’ della concessione. In queste
circostanze il problema non è tanto se chi ha ricevuto la cittadi-
nanza in questo modo sia veramente un cittadino, ma se lo sia
giustamente o no; la risposta è data non dal punto di vista della
legalità, ma da quello fattuale (1276 a 2: epei horomen): nella
realtà alcuni rivestono una carica ingiustamente, ciononostante
la esercitano, perciò, se il cittadino è quello definito in base alla
partecipazione a una carica, allora anche questi debbono essere
considerati cittadini.
La questione della legalità o meno dell’inclusione nella citta-
dinanza a seguito di un mutamento costituzionale fornisce ad
Aristotele il pretesto28 per riprendere la «controversia» (am-
phisbêtêsis) con cui si apriva il cap. 1, se cioè gli atti politici
debbano essere imputati alla città nel suo insieme o al governo
in carica. Liquidato sbrigativamente il problema attribuendo al
regime in carica la responsabilità degli atti della città, sia che si
tratti di oligarchia, tirannide o democrazia, in quanto tutti questi
regimi ricorrono al dominio della forza e non tengono in conto
l’«utile comune» (koinêi symphéron),29 Aristotele può passare
all’argomento che realmente lo interessa: in che cosa consiste
l’identità della città?
Eliminate le soluzioni più comuni, ma superficiali, cioè
l’identità in base al territorio30 o alla continuità della popolazio-
ne, Aristotele riduce il problema alla «forma della composizio-

28
Vd. Schütrumpf 1991, 401; per la separazione artificiale dei cc. 2 e 3
vd. Aubonnet 1971, 9.
29
Nel giudicare i regimi in questione Aristotele adotta una prospettiva tra-
simachea (l’utile di chi ha il potere: vd. Plat. Resp. I 338 d ss. (cfr. Accattino
2013, 156); la nozione di «utile comune» sottintende quella di giustizia, come
verrà detto esplicitamente a Pol. III 6.
30
Diverso è il caso della koinonia del luogo in Pol. II 1, 1260 b 41: infatti
qui si parla dell’elemento minimo materiale della koinonia, non della sua
forma; diversamente Schütrumpf 1991, 403.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 135

ne» (eidos tês syntheseos):31 infatti se la città è una koinonia di


cittadini e i cittadini si definiscono per la loro partecipazione al-
la costituzione (koinonia politôn politeias), qualora la costitu-
zione muti nella forma, anche la città muterà; gli esempi del co-
ro comico e del coro tragico – formati dagli stessi elementi (i
coreuti), ma diversi nella loro funzione – e dei suoni delle diver-
se armonie – identici in quanto suoni, ma diversi per funzione –
sono addotti a conferma che ciò che conta in una composizione
è la sua forma, e, nel caso della città, questa forma è rappresen-
tata dalla politeia. Fino a questo punto Aristotele ha condotto la
ricerca sul piano fattuale per trovare la definizione del cittadino
in riferimento ad una funzione che fosse compatibile con ogni
forma di regime: non è stata ancora posta la questione della qua-
lità, o per dirla in termini aristotelici, della virtù del cittadino e
dei titoli che «devono esibire quelle persone che hanno facoltà
di accedere alle cariche di governo».32 Il tormentatissimo cap.
433 si divide nettamente in due parti: la prima da 1276 b 16 fino
a 1276 b 35 si propone di definire «in una sorta di abbozzo»
(typôi tini)34 la virtù del cittadino in rapporto alla costituzione in
cui si trova ad operare; la seconda, da 1276 b 36 a 1277 b 32, in
rapporto alla costituzione migliore.35 L’articolazione della ricer-
ca assume fin dall’esordio – «dopo quel che si è appena detto,
viene di seguito indagare se bisogna identificare o no la virtù
dell’uomo buono con quella del bravo cittadino» (1276 b 16-18)
– un chiaro carattere dialettico, che si accentua nella seconda
parte.36 Introducendo come metro di misura per la virtù del

31
Giustamente Accattino 2013, 158, richiama il principio della superiorità
della forma (eidos) sulla materia enunciato in Phys. II 1, 193 a 28ss., e Me-
taph. VII 3, 1029 a 1ss.
32
Accattino 1986, 35.
33
Per le difficoltà di questo capitolo vd. Schütrumpf 1991, 412s.; Gastaldi
2017, 128ss.
34
Sul significato dell’espressione vd. Gastaldi 2017, 132.
35
Sulla distinzione delle due parti vd. in particolare Accattino 2013, 159.
36
L’indagine «se bisogna identificare o no la virtù dell’uomo buono con
quella del bravo cittadino» (1276 b 16-18) è posta, come osserva giustamente
136 Lucio Bertelli

«bravo cittadino» (polites spoudaios) la categoria dell’«uomo


buono» (aner agathos),37 come ha osservato Dorothea Frede,
assistiamo a un salto di livello nell’indagine: «Se qualcuno si
aspetta che Aristotele proceda da qui (scil. dalla definizione del-
la funzione del cittadino) direttamente a determinare le funzioni
del cittadino in base ai tipi di carica necessari in ciascun sistema
di governo, resterà deluso. Egli affronta questo argomento attra-
verso una sorprendente escursione nella sfera dell’etica».38 Tut-
tavia, anche se Aristotele ricorre al paradigma etico dell’aner
agathos, connotato dal possesso della «virtù unica, quella per-
fetta» (1276 b 32-3),39 il confronto non si spinge oltre la do-
manda se «il bravo cittadino deve essere necessariamente un
uomo perfetto sotto tutti i punti di vista», e non fino al problema
dei rapporti tra etica individuale ed etica politica.40
A) Il primo segmento dell’argomentazione – l’‘abbozzo’
sulla virtù del cittadino – considera il soggetto della ricerca in
riferimento ad una comunità di cittadini generica e ad una costi-
tuzione in generale.41 Ricorrendo ad una variante della metafora
della nave, metafora di lungo corso nella storia del pensiero gre-
co,42 dimostra che, come i marinai su una nave hanno funzioni e

Accattino 2013, 159, in forma di problema dialettico secondo i criteri dei To-
pici (vd. Top. I 4, 101 b 32-34).
37
Per la differenza tra le due qualificazioni di agathos e spoudaios vd. in
particolare Develin 1973, 73-77; Gastaldi 1987; 1995; 2017, 130-131;
Schütrumpf 1991, 408, osserva tuttavia che le connotazioni di agathos e di
spoudaios nel cap. 4 non sono rigidamente distinte, ma si alternano come at-
tributi sia dell’uomo buono sia del bravo cittadino, e pertanto non possono
essere assunte come criteri per l’interpretazione del capitolo, come vorrebbe
Develin.
38
Frede 2005, 172.
39
Cfr. EN VI 13, 1144 b 30 – 45 a 1.
40
Accattino 1986, 35; vd. anche Mulgan 1977, 57.
41
Vd. Gastaldi 2017, 130.
42
Per i riferimenti vd. Schütrumpf 1991, 418. Tuttavia Aristotele non usa
il paragone della nave per indicare la funzione del comandante rispetto
all’equipaggio, come nell’uso platonico (vd. Resp. VI 488 a-e; Pol. 296 e),
ma per stabilire quale sia la capacità (dynamis) e la virtù specifica di ogni
singolo membro e quale sia quella comune (koinos) a tutto l’equipaggio.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 137

abilità specifiche diverse, ma anche una finalità comune a tutti,


la salvezza della navigazione, così nell’ambito della comunità
politica anche i cittadini, pur nella diversità di funzioni (ano-
moioi),43 hanno una funzione comune, la salvezza della costitu-
zione; pertanto la virtù del bravo cittadino sarà in rapporto alla
costituzione (pros ten politeian), e, data la varietà di costituzio-
ni, non si avrà una sola virtù del bravo cittadino. Al contrario la
virtù dell’uomo buono è unica in quanto perfetta (teleia). Quindi
la prima conclusione dell’argomentazione comporta la non-
identità tra virtù dell’«uomo di valore» (aner spoudaios) e «cit-
tadino di valore» (polites spoudaios).
B) Dal piano fattuale – la virtù del cittadino secondo i vari
regimi – Aristotele passa a considerare la questione sul piano
della politeia ariste, la costituzione migliore, cioè ad un livello
ottimale, sottolineando il carattere aporetico (1276 b 36: diapo-
rountas) dell’indagine. Tuttavia nel chiamare in causa l’ariste
politeia come ambito di riferimento dell’argomentazione, non
ne definisce in alcun modo i caratteri: anzi dalla prima delle
condizioni poste – «se infatti è impossibile che una città sia co-
stituita da uomini che siano tutti di valore (spoudaiôn)» (1276 b
37-38) – sembrerebbe che l’ariste politeia che Aristotele ha in
mente in questo capitolo sia diversa da quella proposta in Pol.
VII 13, 1332 a 32-35, dove tutti i cittadini «partecipanti della
costituzione» sono qualificati come spoudaioi.44 Ammesso che
sia impossibile (adunaton) che una città sia composta tutta di
uomini buoni e che i cittadini siano tutti eguali (homoioi), ma

43
Non viene specificata nel testo la natura di questa anomoiotes: secondo
Accattino 1986, 35, «deve trattarsi della disparità nell’occupazione delle man-
sioni di governo», coerentemente alle diverse funzioni dei marinai; cfr. anche
Schütrumpf 1991, 419.
44
La differenza era fortemente sottolineata da von Arnim 1924, 38-40 e
sulla sua scorta da Braun 1961, 10-11 n. 12; 1965, 38-39; cfr. anche
Schütrumpf 1991, 420s., il quale tuttavia non vede contraddizione tra l’ariste
politeia di III e quella di VII; Accattino 1986, 39, contro le ipotesi di von Ar-
nim e di Braun, si limita a precisare che in III 4 non «vi siamo elementi suffi-
cienti per identificare nei dettagli un preciso assetto costituzionale, per il
semplice fatto che questo problema resta soltanto sullo sfondo».
138 Lucio Bertelli

che ciascuno debba svolgere bene la sua funzione (ergon) – e in


questo consiste la virtù del cittadino spoudaios – perché in que-
sto modo la città sarà ottima, la virtù del cittadino e la virtù
dell’aner agathos non sarà unica, ma sarà differenziata in corri-
spondenza dei diversi ruoli: per provare l’anomoiotes degli ele-
menti della città e la differenza dei ruoli Aristotele introduce le
analogie delle differenze tra anima e corpo e, all’interno del-
l’anima, tra ragione (logos) e appetizione (orexis), e, nell’oikos,
tra uomo e donna, padrone e schiavo, in un coro, tra corifeo e
parastate. I rapporti gerarchici chiamati in causa per attestare la
differenza di funzioni tendono a mettere in evidenza «i due mo-
di di essere del cittadino, rispettivamente di governante e gover-
nato»45 e a sottolineare la non-coincidenza tra virtù unica del-
l’aner agathos e virtù variabile del cittadino.

C) Fino a questo punto Aristotele ha posto a confronto da un


lato la virtù dell’aner agathos considerata unica perché perfetta
(teleia), ma senza ulteriori qualificazioni, dall’altro la virtù del
cittadino variabile in corrispondenza delle diverse funzioni
espletate: i rapporti gerarchici con cui essa è confrontata impli-
cano – ma non è detto ancora esplicitamente – i due ruoli di ar-
chôn e archomenos. Nell’ultima parte della dimostrazione (1277
a 13-77 b 30) Aristotele concentra l’attenzione sul rapporto tra
arché politica e le rispettive virtù dell’aner agathos e del citta-
dino. Il punto di partenza di questo nuovo percorso, introdotto
dalla domanda «ma allora, vi sarà qualcuno che identifichi in sé
la virtù di cittadino di valore (politou spoudaiou) e di uomo di
valore (andros spoudaiou)?» (1277 a 13-14), è dato dall’«opi-
nione comune» (phamen) che «il bravo (spoudaion) governante
è buono (agathon) e saggio (phronimon)» (ibidem, 14-15),46 e
ciò è comprovato dalla diversa educazione che ‘alcuni’ ritengo-

45
Accattino 1986, 37; cfr. anche Simpson 1998, 143.
46
Opinione che Aristotele (vd. EN VI 5, 1140 b 7 [Pericle]; VI 8, 1141 b
23ss.) condivide con Platone e altri; vd. riferimenti in Newman 1902a, 160;
Schütrumpf 1991, 424
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 139

no doversi impartire al governante.47 Ma se virtù del buon go-


vernante e virtù dell’uomo buono coincidono, questo non si dà
nel caso del cittadino archomenos, e quindi si conferma la di-
versità della virtù nel caso del governante e del cittadino. Ma a
questo punto – come osserva giustamente Accattino48 – Aristo-
tele introduce una svolta importante nell’argomentazione: al-
l’opinione dell’identità tra virtù dell’uomo buono e del buon go-
vernante contrappone un’altra opinione altrettanto diffusa, cioè
che la virtù del cittadino consista nella capacità di governare e
di essere governato (tò dunasthai archein kai archesthai),49
mentre la virtù dell’uomo buono si identifica esclusivamente
nell’aretè archiké; e d’altra parte si è ammesso che governante e
governato devono apprendere abilità diverse, mentre dall’ultima
opinione si deduce che il cittadino deve conoscerle e praticarle
entrambe, ne deriva una palese contraddizione.
Per uscire dalla contraddizione è necessario differenziare la
nozione – fino a questo punto generica – di arché. Riprendendo
la distinzione tra archè despotiké e archè politiké già trattata in
Pol. I 5 e 7,50 Aristotele sottolinea la diversità di ruoli nel caso
dell’archè despotiké e in quello dell’ archè politiké: l’ archè de-
spotiké non richiede che chi comanda – il despotes – debba co-
noscere come si produce un oggetto o come si esegue una pre-
stazione di servizio ad altri, ma deve solo saper farne uso; «le
opere di coloro che sono governati a questo modo (scil. col go-
verno padronale) non le deve apprendere chi è buono
(agathon): né il buon politico né il buon cittadino, se non per un
suo eccezionale uso individuale, altrimenti accade che non ci sia
più padrone a una parte e schiavo dall’altra» (1277 b 3-7).

47
Secondo Accattino 2013, 162, probabile allusione all’educazione dei
phylakes nella Repubblica di Platone
48
Accattino 2013, 162.
49
Vd. p.e. Plat. Leg. I 643 e, XII 942 c; per altri confronti vd. Accattino
2013, 162; Schütrumpf 1991, 426s.
50
Per il riferimento ai capitoli di Pol. I vd. Simpson 1998, 144 n. 24; Ac-
cattino 2013, 163; al contrario Schütrumpf 1991, 415, nega alcun riferimento
di III 4 alla discussione di Pol. I.
140 Lucio Bertelli

Questa distinzione permanente di ruoli non si verifica nel-


l’archè politiké che si esercita su «eguali per nascita e liberi»
(homoion tôi genei kai tôn eleutherôn) (1277 b 8): in questo ca-
so il governo si apprende da governato, per cui è corretto affer-
mare che «non può ben governare chi non è sottostato al gover-
no» (1277 b 12-13); naturalmente la virtù di chi governa è di-
versa da quella di chi è governato, ma la virtù del cittadino con-
sisterà nella capacità di essere governato e di governare. Ma an-
che l’aner agathos, in quanto cittadino, deve conoscere «il go-
verno dei liberi da entrambe le posizioni», quindi Aristotele de-
ve smentire la tesi dell’unicità della virtù dell’aner agathos: le
virtù dell’uomo buono – temperanza, giustizia, coraggio –
avranno una specie (eidos) diversa secondo i diversi ruoli rive-
stiti, ora di governante, ora di governato. Ciò che differenzia le
due posizioni è il possesso esclusivo da parte del governante
della saggezza (phronesis), mentre al governato, oltre le virtù
comuni – evidentemente temperanza, giustizia e coraggio –
spetta l’«opinione vera» (doxa alethes). Nonostante questa con-
cessione a Platone,51 la conclusione è decisamente antiplatonica:
«il governato, infatti, è come il costruttore di auli, mentre chi
governa è un auleta, colui che ne fa uso» (1277 b 29-30): ma
Platone non avrebbe mai ammesso che nell’esercizio dell’archè
politiké i due ruoli potessero essere intercambiabili e che i «tec-
nici di produzione» si potessero scambiare il loro ruolo con i
«tecnici d’uso».52
Il significato dell’indagine dialettica di III 4 sta nella defini-
zione dei ruoli di cittadino governato e di cittadino governante
in riferimento alla condizione ottimale dell’ ariste politeia, e,
soprattutto, nella distinzione delle rispettive virtù, da cui scatu-
risce l’attribuzione della phronesis come virtù esclusiva del
buon governante.
È evidente che lo scopo di questo lungo dibattito dialettico è
quello di ancorare ad un concetto di virtù sia il ruolo del cittadi-

51
Per i riferimenti vd. Accattino 2013, 164.
52
Ibidem.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 141

no sia quello del governante e di stabilire una gerarchia tra le


due funzioni, una gerarchia che ben diversamente da Platone
prevede tuttavia l’alternanza dei due ruoli.
Come appendice al cap. 4, Aristotele affronta nel cap. 5
un’ultima aporia che deriva dalla definizione iniziale di cittadi-
no come «colui che ha la facoltà di partecipare al governo (ar-
ché)» (1277 b 34-35) e dall’aver attribuito anche al cittadino
una sua virtù specifica, cioè la posizione dei «lavoratori manua-
li» (banausoi) nella città, un argomento cui si allude di sfuggita
a 1277 b 1-3. La questione è affrontata da due punti di vista di-
stinti, quello della città migliore (beltiste polis: 1278 a 8) e quel-
lo fattuale dei diversi regimi esistenti. Nella prima prospettiva,
stante che la qualifica di cittadino è attribuita solo a coloro che
possiedono la relativa virtù – quella cioè di avere la possibilità
di accedere alle cariche –, si conclude che «la città ottima non
farà cittadino un lavoratore manuale», in quanto la virtù del cit-
tadino ha come condizione la libertà dai lavori necessari alla so-
pravvivenza (1278 a 10-11), non la condizione generica di libe-
ro. Ma nelle situazioni di fatto, considerata la variabilità delle
costituzioni, in alcune i «lavoratori manuali e i salariati» (tò ba-
nauson kaì to thetikon) avranno accesso alla cittadinanza (p.e.
nelle democrazie), ma in altre ne saranno esclusi o in base al cri-
terio della virtù e del merito (aristocrazie), o in base al censo
(oligarchie), salvo nel caso della specie del banausos technites –
cioè dell’artigiano – che può essere ricco. Trattandosi comunque
di cittadini, i banausoi e i thetes, esclusi dai diritti politici, si
troveranno nella posizione di “cittadini subordinati” (politai ar-
chomenoi). Quindi in definitiva è la partecipazione ‘agli onori’,
cioè alle cariche politiche (1278 a 36), quella che definisce so-
prattutto lo status di cittadino.
La conclusione generale di questo lungo dibattito sul cittadi-
no (1278 a 40-b 5) ribadisce quanto affermato nel corso del cap.
4 con un’aggiunta finale interessante: nel caso dell’identità tra
uomo buono e bravo cittadino – cioè nella città ottima – questa
condizione non appartiene a qualsiasi cittadino, ma sarà propria
142 Lucio Bertelli

di «chi ha mansioni politiche (politikos) ed è signore (kurios), o


ha la possibilità di essere signore, o da solo o insieme ad altri,
della cura delle faccende comuni»: si prefigura cioè la possibili-
tà di un regime monocratico o aristocratico di uomini eccellenti
per virtù, che verrà discusso in particolare nei cc. 13-18 del III
libro, anche se qualcuno ha ravvisato nella possibilità di essere
«signore insieme ad altri» un riferimento al regime condiviso di
un demos in possesso di una phronesis collettiva e di aristoi di
III 11.53

III. Nell’analisi dei regimi reali o possibili a date condizioni


di Pol. IV i collegamenti con Pol. III sono rilevanti:54 oltre gli
espliciti rinvii di IV 2, 1289 a 26-28 a proposito della classifica-
zione costituzionale di III 7, e di IV 3, 1290 a 2 sul tema delle
«parti della città» che si richiama a III 12, anche la critica al cri-
terio del numero nella definizione di oligarchia e di democrazia
in IV 4, 1290 a 30-b 20 è una chiara ripresa di un argomento
analogo già discusso in III 8, inoltre la definizione di aristocra-
zia di IV 7, 1293 b 1-7 ha tutta l’apparenza di essere una cita-
zione di III 18, 1288 a 37-39.55 Ciò che marca la differenza tra
l’analisi delle costituzioni di Pol. III e Pol. IV è la scomparsa
del criterio della virtù come discriminante per l’accesso al pote-
re: in III 12, 1283 a 14-22 Aristotele ammetteva come legittima
l’aspirazione al potere da parte dei gruppi che componevano la
città (nobili, liberi, ricchi), ma al di sopra dei titoli che essi
avanzavano, poneva la presenza necessaria della virtù:

53
Vd. Simpson 1998, 148; in realtà il riferimento più pertinente è a III 18,
1288 a 33-41, dove si rinvia ai protoi logoi – cioè a III 4 – sulla identità della
virtù di uomo e cittadino nella città migliore; vd. Schütrumpf 1991, 443; Ac-
cattino 2013, 170.
54
Sui rapporti tra Pol. III e IV vd. Accattino 2013, 22-24; diversamente
Schütrumpf 1980, 272-280, Schütrumpf, Gehrke 1996, 180-184.
55
Altri (Schütrumpf, Gehrke 1996, 328; Simpson 1998, 316 n. 58) pensa-
no a un riferimento a Pol. VII (9, 1328 b 37s.; 13, 1332 a 31ss.; 14, 1333 a
11ss.).
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 143

È necessario che la competizione avvenga tra le componenti dalle


quali la città risulta costituita. Per cui con buona ragione rivendicano
l'onore i nobili, i liberi e i ricchi. Bisogna infatti che vi siano uomini
liberi e che dispongano di un certo censo, perché non potrebbe esserci
una città di soli poveri, come nemmeno una città di schiavi. Ma se c'è
certamente bisogno di queste cose, è chiaro che c'è bisogno anche di
giustizia e della virtù politica, perché neppure senza queste è possibile
che una città si governi. Se non che senza le prime è impossibile che
la città esista, ma senza queste ultime è impossibile che sia ben ammi-
nistrata.

Tuttavia il criterio di classificazione delle politeiai in Pol. IV


che tiene conto solo dell'effettivo potere esercitato dalla parte
prevalente nella città, deriva dal concetto di politeuma56 così
come è definito in III 6, 1278 b 8-13:
La costituzione è l'ordinamento della città, delle varie cariche e in
primo luogo dell'autorità sovrana su ogni cosa (tês kurias pantôn).
Ovunque infatti è sovrano della città il corpo politico (politeuma) e la
costituzione coincide con il corpo politico. Faccio un esempio: nelle
democrazie è sovrano (kurios) il demos, viceversa nelle oligarchie lo
sono i pochi, e noi diciamo che hanno una costituzione diversa.

Nella premessa metodologica di IV 1 Aristotele riprende con


qualche variante gli stessi concetti:
In effetti è costituzione l'ordinamento che nelle città riguarda le cari-
che di governo, in che modo sono distribuite, chi detenga il potere del
governo (tò kurion tês politeias) e quale sia il fine di ogni singola co-
munità. (IV 1, 1289 a 15-17).57

Ora è evidente che sia il politeuma di III 6 sia l'analogo tò


kurion tês politeias di IV 1 si riferiscono ai cittadini di pieno di-
ritto, cioè ai metechontes tês politeias, che possono avere acces-
so alle cariche, secondo la definizione in senso stretto del poli-
tes data in III 1. Ma nella classificazione costituzionale di Pol.
IV protagonista non è più il cittadino come entità singola del
plethos politôn costituente la città (III 1, 1274 b 41), del quale si

56
Sul concetto vd. Ruppel 1927; Lévy 1993; Hansen 2013.
57
Le traduzioni dal libro IV derivano da Bertelli, Moggi 2014 (la tradu-
zione è dovuta a Barbara Guagliumi).
144 Lucio Bertelli

deve ricercare la funzione e la capacità di partecipare alla poli-


teia, ma sono le «parti della città» (mere poleos) in cui sono in-
globati i cittadini secondo il loro status economico e sociale: la
città quindi sarà composta di ricchi, di poveri e dei cittadini di
condizione media (mesoi), e all'interno di queste divisioni si
troveranno ulteriori specie determinate dalle specifiche occupa-
zioni o dal grado di ricchezza (IV 3, 1289 b 27-90 a 3):58 e la
partecipazione al governo (metechein tês politeias ) sarà regola-
ta dal rapporto di forza tra le parti o in base a qualche principio
di eguaglianza comune ad esse. Dalla pluralità delle ‘parti’ deri-
va la pluralità delle costituzioni, perché la partecipazione alla
politeia (in senso stretto, cioè come partecipazione al governo)
sarà una variabile dipendente da ciascun assetto costituzionale:
Del resto la costituzione è l'ordinamento delle cariche, e tutti lo distri-
buiscono o in base alla forza di coloro che partecipano alla costituzio-
ne o in base a una qualche forma di eguaglianza comune a essi: inten-
do, per esempio, o la forza dei poveri o dei ricchi o un'eguaglianza
comune ad entrambi. E' pertanto necessario che le costituzioni siano
tante quanti sono gli ordinamenti in base al prevalere e in base alle
differenze delle parti. (IV 3, 1290 a 7-13; cfr. IV 12)

Ne consegue che il problema della partecipazione alla poli-


teia – intesa come cittadinanza a pieno titolo – si sposta dal-
l’esame delle qualità (o virtù) del polites, come avviene in Pol.
III, alle forme reali o possibili a date condizioni di costituzione.
Ora in Pol. III 7 le costituzioni erano classificate in base a
criteri univoci e assoluti: numero dei governanti (uno, pochi,
molti), criterio del koinòn symphéron, per cui si otteneva un si-
stema a sei costituzioni, tre corrette in quanto rivolte all’inte-
resse comune (uno = monarchia, pochi = aristocrazia, molti =
politeia) e tre deviate in quanto rivolte solo all’interesse di chi
governa (tirannide, oligarchia, democrazia). In questa prima
58
La classificazione delle parti della città di IV 4 , sull’analogia biologica
delle parti/funzioni del corpo, non ha seguito nell’analisi delle costituzioni di
Pol. IV, ma servirà più oltre (cc. 14-16) per identificare i mere tês politeias –
cioè potere deliberativo, potere giudiziario e archai – e le loro combinazioni;
vd. Accattino 1986, 83s.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 145

classificazione, per la serie positiva, il tò kurion è identificato


per la monarchia nel singolo che governa nell’interesse di tutti,
per l’aristocrazia nei pochi aristoi che governano «in vista del
meglio per la città e per coloro che ne fanno parte» (1279 a 34-
37),59 per il governo dei molti o plethos, denominato col titolo
generico di politeia, nella classe militare – o classe oplitica –
dotata della virtù militare.60 Le deviazioni derivano di conse-
guenza: la tirannide è rappresentata dal governo nell’interesse
dell’unico governante, l’oligarchia è il governo dei (pochi) ric-
chi, la democrazia quello nell’interesse dei (molti) poveri. Ma il
criterio numerico – almeno nel caso di oligarchia e democrazia
– ad un’ulteriore riflessione (III 8) si rivela fallace: infatti i due
regimi si distinguono non in base al numero, che è un carattere
accidentale,61 ma in base all’opposizione ricchezza/povertà in
quanto differenze esclusive:
Ciò per cui differiscono tra loro la democrazia e l’oligarchia sono po-
vertà e ricchezza ed è allora necessario che, dove governano in forza
della ricchezza – siano costoro in minoranza o in maggioranza – que-
sta sia una oligarchia e che sia una democrazia dove governano i po-
veri. Ma “accade”,62 come diciamo noi, che gli uni siano pochi e gli
altri molti, perché pochi dispongono di ricchezze, mentre tutti parteci-
pano della libertà... (III 8, 1279 b 39-80 a 5)

La tipologia costituzionale di Pol. IV, pur mantenendo valida


la classificazione di III 7 in tre costituzioni corrette (regno, ari-
stocrazia e politeia) e tre deviate (tirannide, oligarchia e demo-
crazia) e l’identificazione dell’ariste politeia nel regno e
nell’aristocrazia dei cc. 13-18 di III, come esplicitamente segna-
lato in IV 2, 1289 a 26-35, persegue obiettivi diversi rispetto al-
la ricerca concentrata sulla ricerca dell’ariste politeia, come
viene chiaramente dichiarato nel ‘proemio’ del nuovo corso di
indagine (IV 1-2): data come acquisita l’indagine sulla migliore
59
Anticipazione di III 18, dove esistono politai solo archomenoi.
60
Per le differenze di definizione di politeia in III 7 e in IV 8-9 vd. sotto
p. 152 n. 81.
61
Cfr. 8, 1279 b 20ss. con IV 4, 1290 a 30 -b 20.
62
Sul significato di sumbainein vd. Accattino 2013, 185.
146 Lucio Bertelli

costituzione nelle forme di monarchia e aristocrazia del libro III,


l’interesse è ora rivolto alle costituzioni esistenti, come ciascuna
si adatti o non si adatti alle condizioni delle diverse città, quale
sia la costituzione che meglio più conviene al maggior numero
di città e quale sia la migliore dopo l’ottima, e pertanto restringe
il campo di ricerca alle altre costituzioni oltre l’ottima, politeia,
oligarchia, democrazia, tirannide (2, 1289 a 35-38), e le forme
di aristocrazia diverse dall’ariste politeia (1289 b 15-16); e
all’interno di questa selezione, in polemica con l’opinione che
riduceva tutte le costituzioni a due soltanto – oligarchia e demo-
crazia – di cui le altre (politeia, aristocrazia) sarebbero delle sot-
tospecie, distingue più forme di oligarchia e di democrazia in
coerenza con le diverse specie di demos e di notabili (4, 1291 b
14-30). Come osserva giustamente Hansen,63 «la netta distin-
zione nel modello a sei tra una forma corretta e una deviata del-
le tre costituzioni fondamentali è abbandonata [...] e sostituita
da un continuum di costituzioni con graduali transizioni da un
tipo a quello successivo». In effetti affermazioni come quelle
che si leggono a IV 3, 1290 a 24-2864 fanno pensare che Aristo-
tele avesse in mente uno spettro delle costituzioni più articolato
di quello di Pol. III.
Tuttavia l’attenzione di Aristotele è soprattutto concentrata
in Polit.IV sulle diverse forme di oligarchia e di democrazia in
base all’ammissione (1291 b 7-8) che, data l’opposizione irridu-

63
Hansen 1993, 97s.
64
«In generale sono tali opinioni che di solito si esprimono sulle costitu-
zioni, ma è più veritiero e migliore il modo in cui noi le distinguiamo, cioè
che, se due o una sono quelle ben costituite, le altre sono degenerazioni, le
une dell’armonia ben temperata, le altre della costituzione migliore, oligar-
chiche quando il regime si fa più severo e dispotico, democratiche quando si
fa più rilassato e debole.» Un rinvio probabile a questo testo si trova in 8,
1293 b 27, dove a proposito di politeia e di aristocrazia come regime misto,
trattata nel cap. 7, si ammette che queste siano deviazioni rispetto all’ortho-
tate politeia, ma si afferma anche che «le vere deviazioni sono deviazioni di
queste, come abbiamo detto nelle trattazioni iniziali», vale a dire nel passo di
IV 3. Sulle diverse interpretazioni di IV 3, 1290 a 24-28 vd. Schütrumpf,
Gerke 1996, 250s.; Accattino 1986, 100-102 n. 22.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 147

cibile di ricchi e poveri, «sembra che siano soprattutto queste le


parti della città» – con la conclusione – apparentemente con-
traddittoria rispetto a IV 3, 1290 a 13-24 – che «sembra che esi-
stano due forme di costituzione: democrazia e oligarchia» (1291
b 12-13).65 La classificazione delle forme di oligarchia e di de-
mocrazia combina elementi di tipo economico-sociale (status
economico, professioni) con principi normativi (presenza/assen-
za del governo della legge, criteri di accesso alla cittadinanza):
inoltre Aristotele presenta due versioni dell’analisi di questi re-
gimi orientate in senso diverso, la prima, in IV 4-5, tende a clas-
sificare i due regimi in base alla presenza/assenza di una legge
che regoli l’accesso alla politeia, la seconda, in IV 6, scandisce
le diverse forme sul criterio della maggiore/minore ricchezza
rispettivamente della città per le democrazie, degli oligoi per
l’oligarchia. Ed è evidente che la trattazione dei due regimi se-
gue uno schema astratto dalla forma migliore a quella peggiore
in cui si tende a evidenziare più la simmetria teorica dei due tipi
costituzionali che la loro aderenza a regimi di fatto.66
La prima serie di democrazie (IV 4, 1291 b 30 – 92 a 38) si
apre con il tipo fondato sui due principi basilari della democra-
zia – eguaglianza e libertà67 – e di conseguenza sia i ricchi sia i
poveri partecipano tutti sul piede di eguaglianza alla politeia
(1291 b 35-37), ma Aristotele aggiunge un’osservazione che di-
stingue questo tipo di democrazia da possibili confusioni con

65
In realtà Aristotele introduce sia l’argomento delle due parti contrappo-
ste sia la riduzione a due forme costituzionali con espressioni che indicano
l’uso di un endoxon di altri: dokeî a 1291 b 8, dokoûsin a 1291 b 12; senza
dubbio Aristotele era convinto che l’opposizione fondamentale in qualsiasi
città fosse quella tra poveri e ricchi (vd. V 11, 1315 a 31-33; VI 3, 1318 a 30),
e che «la maggior parte delle costituzioni è o democratica o oligarchica» (IV
11, 1296 a 22-23), ma la polarizzazione su democrazia e oligarchia gli serviva
come premessa alla successiva divisione dei due regimi nelle loro forme spe-
cifiche. Vd. commento di Pezzoli in Bertelli, Moggi 2014, 199.
66
Vd. Mulgan 1991, 308, 313. Lo schema adottato è quello degli opposti,
come enunciato chiaramente in VI 6, 1320 b 17-21.
67
Cfr. anche III 9, 1280 a 24-25; V 1, 1301 a 28-31; VI 2, 1317 a 40 - b
11.
148 Lucio Bertelli

regimi misti non deviati (p.e. politeia): «poiché il popolo (de-


mos) è in maggioranza e l’opinione della maggioranza è sovra-
na, ne consegue di necessità che questa sia una democrazia».
(1291 b 37-38) Va osservato tuttavia che questo tipo di demo-
crazia non è più ripreso nella serie parallela di IV 6: esso appare
essere il tipo ideale di questa costituzione,68 che non si adatta
alla simmetria delle forme di democrazia e di oligarchia,69 e
perciò viene abbandonato nelle successive classificazioni.
Nel secondo tipo di democrazia l’accesso alle cariche è vin-
colato al possesso di un censo minimo, ma il fatto che la limita-
zione sia relativa solo alla partecipazione (metechein) alle ar-
chai, potrebbe significare che chi non possiede il censo richiesto
per esse, non è tuttavia escluso dalla politeia.70 Il terzo e quarto
tipo di democrazia regolano la cittadinanza in base alle norme
della discendenza: nella terza è concessa a tutti quelli di nascita
«incontestabile» (anupeuthunoi), cioè nati da entrambi i genitori
cittadini,71 la quarta estende il diritto a tutti quelli riconosciuti
come cittadini secondo la legge.72 La quinta è uguale alla prece-
dente – cioè tutti i cittadini partecipano al governo – con la dif-
ferenza che non è più sovrana la legge, ma il plethos attraverso i
decreti (psephismata) dell’assemblea, le magistrature non hanno
più nessun potere e la democrazia passa sotto il controllo dei
demagoghi e il demos diventa un sovrano assoluto (monarchos).
Il giudizio finale su questa democrazia è che essa perde i carat-
teri di una costituzione per mancanza della legge.
Le forme di oligarchia di IV 5 sono simmetriche e contrarie
alle quattro democrazie di IV 4: le prime tre sono regolate da
68
Vd. Mulgan 1991, 318, Schütrumpf, Gehrke 1996, 287.
69
Infatti nella descrizione dei tipi di oligarchia a IV 5 manca il tipo corri-
spondente.
70
Vd. Bertelli, Moggi 2014, 207; diversamente Schütrumpf, Gehrke 1996,
288s. È da notare che questo tipo di democrazia moderatamente censitaria è
simmetrica al I tipo di oligarchia di IV 5.
71
Sul significato di questo termine – insolito per definire il diritto di citta-
dinanza – vd. Bertelli, Moggi 2014, 208.
72
Aristotele non dice in base a quale qualifica siano dichiarati cittadini: il
caso sembra ricordare quello discusso in III 5 dei banausoi e thetes.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 149

norme di accesso al potere in senso sempre più restrittivo; dalla


qualificazione censitaria per l’accesso alle cariche si passa a
forme di cooptazione sempre più ristretta al gruppo dei ‘pochi’
che detengono il potere, fino alla forma finale identificata con
una vera e propria ‘signoria’ (dunasteia), corrispondente a una
forma monarchica e alla forma estrema di democrazia.
La seconda classificazione dei due regimi in IV 6, anche se
sostanzialmente ripete le caratteristiche di IV 4-5, dà una giusti-
ficazione diversa delle loro differenze legata alle disponibilità
economiche per le forme di democrazia, all’accumulo di ric-
chezza nelle mani dei ‘pochi’ per le oligarchie. In questa secon-
da serie la prima forma di democrazia è fondata sul demos agri-
colo di moderata ricchezza e sulla qualifica censitaria, ma la
partecipazione alla politica è limitata dalla mancanza di ‘tempo
libero’ (scholazein), per cui, in assenza di entrate pubbliche
(prosodoi),73 il demos limita la sua partecipazione politica a po-
che assemblee e affida il governo alla legge.74 Anche nel secon-
do e terzo tipo di democrazia – caratterizzate come in IV 4 sulla
base dello status del cittadino75 – la partecipazione è limitata
dalla mancanza di tempo libero, con conseguente governo della
legge. Nel quarto tipo, connotata in senso cronologico come
«ultima in ordine di tempo» (1293 a 1),76 la partecipazione ge-

73
Parlando di «entrate pubbliche» (prosodoi), Aristotele sottintende che
non c’è possibilità di erogare un misthos per la partecipazione politica in que-
sto regime, come si deduce dal rapporto prosodoi-misthos nel IV tipo di de-
mocrazia. Vd. Bertelli, Moggi 2014, 222.
74
Vagamente questa forma di «Bauerndemokratie» (vd. Gehrke 1985,
312-315) richiama la democrazia dei tempi antichi dell’Areopagitico di Iso-
crate (vd. in part. Areop. 26, 36-35) e secondo Hansen 1989, 96, nasconde
una ripresa del ‘mito storico’ della democrazia soloniana; vd. anche Carter
1986, 76-98. Questo modello di democrazia è richiamato in causa esplicita-
mente a VI 4, 1318 b 6 - 19 a 4, dove è definito come la migliore forma di
democrazia per i caratteri del demos geôrgikos.
75
Si ripete la qualifica di anupeuthunoi per il secondo tipo (1292 b 35-
36), ma per il terzo alla generica definizione di politai, si sostituisce quella di
‘liberi’ (eleutheroi) (1292 b 39).
76
Anche in V 5, 1305 a 29 questa forma di democrazia è indicata come
«la più recente» (neôtate).
150 Lucio Bertelli

neralizzata del demos alla politica («perciò la massa dei poveri


diventa sovrana della costituzione», 1293 a 9-10) è dovuta alla
possibilità di erogare una ‘paga’ (misthos) ai poveri in modo che
possano avere ‘tempo libero’ (scholazein) per dedicarsi alla po-
litica con la conseguenza che non è più la legge a governare, ma
le decisioni della massa. L’effetto che nell’ultima democrazia
della prima serie era ottenuto grazie alla presenza dei demago-
ghi, qui è imputato all’abbondanza di entrate statali e al mi-
sthos.77
Le forme simmetriche di oligarchia vengono anch’esse clas-
sificate sulla base della quantità di ricchezza in possesso di
quelli che hanno diritto di partecipazione al governo: ma a diffe-
renza della prima forma di oligarchia di IV 5, dove la qualifica-
zione censitaria escludeva ipso facto dal governo i poveri (apo-
roi), il modesto patrimonio (1293 a 13) richiesto per la prima
oligarchia di IV 6 permette a un plethos (1293 a 15) più nume-
roso di partecipare all’attività politica, anche se per la mancanza
di scholazein e di possibilità di sovvenzioni statali (trephesthai
apò tês poleôs: 1293 a 19) questa partecipazione sarà necessa-
riamente limitata, ed essi preferiranno «che debba essere la leg-
ge a governare per loro, e non loro stessi» (1293 a 20). Come si
vede, si ripetono le stesse condizioni della prima democrazia di
IV 6. Quanto più la ricchezza aumenta nelle mani di un sempre
più ristretto numero gli eide di oligarchia progressivamente si
trasformano in forme di governo autoritario e meno condiviso,
grazie agli stessi meccanismi di selezione delle cariche già indi-
cati in IV 5 – prima cooptazione, poi successione di padre in fi-
glio – per arrivare alla dunasteia autocratica già segnalata come
esito nella precedente serie. Il che significa che nell’oligarchia
in proporzione alla riduzione del governo a chi è sempre più ric-
co, gli altri, anche se liberi, ricadono nella condizione di politai
archomenoi, senza possibilità di accesso alle cariche.

77
Per i possibili riferimenti all’Atene contemporanea ad Aristotele e per i
problemi relativi alla reale incidenza del misthos sulla partecipazione politica
rinvio alla discussione in Bertelli, Moggi 2014, 223-228.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 151

Le due serie dei tipi costituzionali democrazia e oligarchia


non solo sono costruite avendo di mira le simmetrie tra i due si-
stemi, con l’esito comune di una forma autocratica, ma nella lo-
ro rappresentazione manca qualsiasi riferimento a situazioni sto-
riche a comprovare la validità della tipologia:78 a parte il ruolo
dei demagoghi e del misthos a giustificare la fisionomia del de-
mos monarchos dell’ultima forma di democrazia, ruolo che po-
trebbe evocare molto genericamente un’atmosfera ateniese,79
pare evidente che Aristotele costruisca la tipologia delle forme
di democrazia e di oligarchia come ‘idealtipi’ sulla base dei
principi specifici (horoi) dei due regimi, la ricchezza per l’oli-
garchia, la libertà per la democrazia (vd. IV 8, 1294 a 11).
La tipologia costituzionale di IV non si limita solo ai tipi, per
così dire, puri di democrazia e oligarchia, ma comprende anche
i tipi misti fondati sulla combinazione (mixis) dei tre titoli di ac-
cesso al potere – libertà, ricchezza, virtù (8, 1294 a 19-22; cfr.
III 12, 1283 a 14-17),80 e un’altra specie in cui la partecipazione
al governo è ripartita tra le tre ‘parti’ della città – poveri, ricchi
e cittadini ‘medi’ (mesoi) – definita come mese politeia.
Differenziata rispetto all’aristocrazia costituita solo da «uo-
mini buoni in assoluto» (7, 1293 b 3-4), di cui ha parlato in Pol.
III, Aristotele colloca tra i tipi misti un genere di aristocrazia
che combina nobiltà, o virtù, ricchezza e libertà, e come esempi

78
Aspetto questo già rilevato da Newman 1902 b, XL-XLI, e sottolineato
da Mulgan 1991, 313s., e da Schütrumpf, Gehrke 1996, 298-305.
79
Cfr. Arist. AP 41, 2-3: ma sull’aspetto ideologico del giudizio sulla de-
mocrazia degli psephismata di AP vd. Bertelli 1993, 53-98, in part. 77-80;
nell’accentuare il predominio degli psephismata sulle leggi Aristotele pare
ignorare che dal 404 a.C. in Atene si era stabilito il principio che nessun pse-
phisma né della boulé né dell’ekklesia poteva prevalere sulla legge (nomos);
vd. Andocid. I (De Mysteriis), 87 (vd. anche Dem. 23 [In Aristocr.], 218, 7;
24 [In Timarch], 30, 2-4), su cui vd. tuttavia i dubbi di autenticità di Caneva-
ro, Harris 2012, 116-119.
80
Un’anticipazione dei tipi di costituzione mista di IV si può considerare
il regime misto di plethos dotato collettivamente di phronesis, con accesso
solo alle funzioni politiche dell’assemblea e dei tribunali, e di aristoi a cui
sono affidate le archai più importanti, esposto in III 11.
152 Lucio Bertelli

adduce quelli di Cartagine e di Sparta. Se l’aristocrazia mista ha


qualche riscontro con regimi reali, l’altra forma – anzi la forma
per eccellenza di costituzione mista –, la politeia, che risulta
dalla «mescolanza (mixis) di oligarchia e democrazia (8, 1293 b
34)»81 ha tutta l’aria di essere «un regime deliberatamente co-
struito selezionando e conciliando le regole nelle quali si espri-
mono le pretese dei ricchi e dei poveri».82 Anche se comune-
mente usata negli oratori del IV sec. come definizione eufemi-
stica della democrazia in opposizione all’oligarchia o ad altri
regimi autocratici,83 Aristotele nutre qualche dubbio sulla sua
reale esistenza («poiché non si realizza spesso, sfugge a coloro
che tentano di enumerare le specie di costituzioni»: 7, 1293 a
40-42): del resto le istruzioni che Aristotele fornisce a IV 9 per
la sua ‘costruzione’ (1294 a 31-32: «come debba essere istitui-
ta») fanno pensare che essa sia piuttosto uno strumento di clas-
sificazione di costituzioni combinanti elementi democratici ed
oligarchici che un tipo costituzionale storico,84 e, dato che la
‘mescolanza’ di ricchi e poveri, ricchezza e libertà, era presente
in molte costituzioni, Aristotele a buon diritto può affermare che
«nella maggior parte delle città la forma di costituzione si chia-
ma politeia» (8, 1294 a 15).85

81
In Pol. III 7, 1279 a 37 - b 4 essa ha una diversa caratterizzazione: non
è un regime misto, ma una politeia dove il plethos governa nell’interesse co-
mune (e pertanto è allineata tra le costituzioni rette), questo plethos è dotato
di virtù militare (aretè polemiké) ed è costituito dai ‘possessori delle armi’
(hoi kektemenoi tà hopla).
82
Accattino 1986, 96.
83
Vd. Harpocr. s.v. politeia e riferimenti in Bordes 1980, 250.
84
In effetti la definizione di politeia è spesso applicata nei casi di trasfor-
mazione costituzionale di oligarchie o democrazie o per regimi che contem-
perano elementi democratici ed oligarchici (vd. p.e. Maliesi, IV 13, 1297 b
14-16, Taranto, V 3, 1303 a 3-6; Turi, V 7, 1307 a 27 - b 19; cfr. Schütrumpf,
Gehrke 1996, 327s.
85
L’affermazione potrebbe sembrare in contraddizione con quanto detto a
1293 a 41, e infatti hanno introdotte congetture per sanare un testo, che tutta-
via appare attestato da tutta la tradizione. Una interpretazione alternativa, ma
convergente, a quella da me proposta è avanzata nelle Note testuali da M.
Curnis in Bertelli, Moggi 2014, 383: nella frase precedente Aristotele osser-
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 153

I meccanismi della combinazione di fattori democratici (IV


9) e di fattori oligarchici è evidentemente rivolta alla massima
partecipazione dei cittadini alla politica: nell’amministrazione
della giustizia, per esempio, si deve adottare la misura oligar-
chica della ‘multa’ (zemia) per i ricchi che non vi partecipano,
ma nello stesso tempo combinarla con la pratica democratica di
dare un misthos ai poveri (9, 1294 a 37-41); per la partecipazio-
ne alle assemblee si dovrà trovare il giusto mezzo tra il nessun
censo o minimo richiesto nelle democrazie e quello elevato del-
le oligarchie (1294 b 3-6); per l’assegnazione delle cariche (ar-
chai) si dovrà mediare tra l’elezione (hairesis) e il censo, tipici
delle oligarchie, e il sorteggio e l’esclusione del censo delle de-
mocrazie, pertanto dovranno essere assegnate non in base al
censo, ma per elezione (1294 b 6-13). La riuscita di una buona
combinazione è data dal fatto che una stessa costituzione può
essere definita sia oligarchica sia democratica. E, come al solito,
Aristotele rinvia all’esempio di Sparta.86 La politeia si trova
quindi a metà strada tra una costituzione mista di fattori oligar-
chici e democratici in base alla sua composizione sociale, e una
costituzione ‘media’ in quanto tra le istituzioni divergenti delle
due costituzioni essa deve scegliere la via intermedia, dove sono
compresenti i due estremi.87
‘Media’ (mese) a tutti gli effetti è invece la costituzione di
cui Aristotele tesse un elogio – sorprendentemente elevato per il

vava che «in tutte le costituzioni prevale ciò che decide la maggioranza (hoi
pleiones); e infatti in oligarchia, in aristocrazia e in democrazia, il parere della
maggioranza di coloro che partecipano al governo è sovrano» (1294 a 11-14),
in conseguenza di ciò – conclude Curnis – «proprio perché l’approvazione di
decisioni a maggioranza è caratteristica comune alle varie forme politiche,
nella maggior parte delle città è definibile almeno un aspetto della politia. E
infatti, prosegue Aristotele, la commistione di agiati e di disagiati, di ricchez-
za e di libertà, accomuna le forme di aristocrazia e di politia».
86
Sul polimorfismo dell’uso del modello spartano nella Politica vd. Ber-
telli 2004, 31ss.
87
Cfr. Accattino 1986, 96-99; per una diversa interpretazione della poli-
teia – coincidente tout-court con la mese politeia – vd. Evrigenis 1999;
Lockwood 2006.
154 Lucio Bertelli

suo stile di solito sobrio e distaccato – in IV 11: introdotta da


una lunga interrogativa retorica (11, 1295 a 25-31) in cui si esal-
ta il suo carattere di miglior costituzione dopo quella «secondo i
voti» – cioè l’ottima costituzione – , accessibile «per il maggior
numero delle città e per il maggior numero di uomini», e dal
rinvio all’Etica (vd. infatti EN II ) per la teoria della virtù come
‘medietà’ (mesotes), Aristotele dà conto della sua eccellenza ri-
prendendo la divisione della città nelle tre parti – molto ricchi,
molto poveri, cittadini di medie sostanze – e sottolineando le
qualità etiche dei mesoi radicalmente diverse sia dai troppi po-
veri, disposti alla violenza e alla malvagità, ma anche sottomes-
si per povertà, sia dai troppo ricchi, insofferenti ad ogni subor-
dinazione e dispotici; da queste due componenti sociali può na-
scere solo una città di «schiavi e padroni» (1295 b 21-22), non
una città di liberi. Una città di eguali e liberi può nascere solo
dalla presenza di cittadini ‘medi’ che per natura sono «eguali
(isoi) e simili (homoioi)». La città ben governata sorgerà a con-
dizione che la parte mediana o sia numerosa e più forte o alme-
no superiore ad una delle due parti opposte, in modo che unen-
dosi con una delle due bilanci lo strapotere dell’altra. La prova
che questa costituzione è la migliore si deduce dal fatto che là
dove la classe media è numerosa, la città è al sicuro dai conflitti
interni (stasis) ed è più stabile, come si vede nelle democrazie
dove i mesoi sono più numerosi, mentre nelle piccole città tutto
si divide tra poveri e ricchi e «nulla resta nel mezzo», cioè man-
ca la mediazione tra le due parti. Purtroppo questo quadro ideale
di città equilibrata si scontra con la realtà della scarsa presenza
della classe media (1296 a 23-24), per cui il potere è diventato
una gara tra ricchi e demos e il risultato è che «la maggior parte
delle costituzioni è o democratica o oligarchica» (1296 a 22-23).
E la conclusione malinconica di Aristotele è che «la costituzione
media o non è mai sorta, o è sorta in rari casi e presso pochi»
(1296 a 36-38), salvo nel solo caso del misterioso personaggio
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 155

«che un tempo detennero l’egemonia» e che «si persuase a con-


cedere questo ordinamento» (1296 a 38-40).88
Purtroppo questo elogio della mese politeia non dichiara mai
esplicitamente quale sia il criterio di distribuzione delle cariche
e del diritto di cittadinanza, anche se si può indurre che i cittadi-
ni medi, garantendo l’eguaglianza tra le due parti opposte, assi-
cureranno i diritti di cittadinanza e l’accesso alle cariche sia ai
ricchi sia ai poveri, e comunque Aristotele si augura che chi si
dedica alla politica possegga «un patrimonio di media entità e
sufficiente» (1295 b 40).

IV. Con il cittadino della ariste politeia di Pol. VII ritorna in


scena la virtù come criterio selettivo della partecipazione alla
cittadinanza. Avendo argomentato nel proemio (VII 1-3) che la
vita migliore per la città che voglia assicurare la felicità ai suoi
cittadini, è una «vita pratica» guidata da «virtù fornita di mezzi»
(met’aretês kechorêgêménês),89 non può che derivarne che solo
chi potrà partecipare della virtù potrà far parte a pieno titolo di
questa città: nei cc. 8-9 di Pol. VII Aristotele mette in atto i cri-
teri per determinare quale debba essere il corpo dei cittadini del-
la città «secondo i voti» (polis kat’euchên). In un primo mo-
mento (8, 1328 a 21-35), ricorrendo al concetto di ‘totalità’ (ho-
lon) e di ‘parti’ (moria) e al rapporto mezzo-fine90, Aristotele
esclude che possano considerarsi parti della koinonia tutti quei

88
Le ipotesi di identità di questo personaggio sono state molte e varie (vd.
Bertelli, Moggi 2014, 261): resta in ogni caso come la più probabile quella
già proposta da Newman 1887, 470, 1902, 220-221, che lo identificava con
Teramene, il promotore della costituzione dei 5000 alla fine del 411 a.C.,
fondata sugli hopla parechomenoi (vd. Thuc. VIII 97; Arist. AP 33), elogiata
da Tucidide (ibidem) come la migliore dei suoi tempi in quanto «equilibrata
(metria) fusione (xynkrasis) di pochi e molti».
89
Sul genere di ‘vita pratica’ (bios praktikos) proposto in VII 1-3 vd. Ga-
staldi 2003, cap. I, 19-65); Bertelli 2004.
90
Un procedimento analogo è impiegato in Protrep. Fr. 42 Düring per
stabilire quali siano le «cose buone in sé», e in EE I 2 quali siano le «condi-
zioni senza di cui”» della felicità che tuttavia non si identificano con essa.
Cfr. Schütrumpf 2005, 356.
156 Lucio Bertelli

fattori strumentali (organa) che permettono l’esistenza della cit-


tà, in quanto essi rientrano nella categoria della proprietà
(ktêsis) della città, ma non sono parti della città: infatti la città è
una «comunità di uomini simili (homoioi), finalizzata alla mi-
glior vita possibile», cioè rivolta alla felicità (eudaimonia) «che
è attuazione e uso compiuto della virtù» (1328 a 35-38); anche
se la città ha bisogno di chi procuri il nutrimento (trophê) – e
quindi di contadini –, e di tecniche (technai) – quindi artigiani
(technitai) –, tutti quelli che svolgono un lavoro manuale o si
dedicano ad attività «contrarie alla virtù» o non lasciano tempo
per «lo sviluppo della virtù» (9, 1328 b 39 – 29 a 2), non po-
tranno far parte della ariste politeia.
Le ‘parti’ propriamente dette della città sono distinte per le
funzioni rivolte non alla semplice sussistenza, ma alla finalità
della città: e comprendono la classe militare (tò machimon),
quelli che possiedono una certa ricchezza (tò euporon), gli ad-
detti al culto (hiereis), ma soprattutto quelli che si dedicano alla
«decisione (krisis) sulle cose utili e sulle cause giudiziarie» (8,
1328 b 7-15; e in forma riassuntiva 1328 b 21-23); con una suc-
cessiva riduzione le funzioni necessarie al ‘corpo politico’ (tò
politikon) vengono indicate nell’hoplitikon – cioè classe milita-
re –, nel bouleutikon – cioè la parte deliberante –, lasciando ai
cittadini non più in grado per l’età di assolvere queste due fun-
zioni la «cura degli dei» (9, 1329 a 30-34).
Ma come si porrà allora la distribuzione del potere tra quelle
che sono le parti della città in modo eminente, cioè tra l’hopli-
tikon (o tò polemikon) e bouleutikon, considerato che i cittadini
della città perfetta sono tra loro eguali? Aristotele, per non cade-
re né nella soluzione rischiosa del sorteggio democratico91 né in
quella oligarchica esclusiva, e ponendosi il problema se le due
funzioni debbano essere affidate a soggetti diversi (soluzione
platonica) o agli stessi senza violare la regola della specificità
delle funzioni, ricorre a un criterio naturale:

91
Vd. Cambiano 2016, 78.
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 157

Anche questo è però evidente: che per un verso vanno assegnate agli
stessi, ma per altro verso uomini diversi. In quanto ciascuna di queste
due funzioni richiede un vigore diverso e l’una ha bisogno di saggezza
e l’altra di forza fisica, vanno assegnate a uomini diversi; in quanto
invece è cosa impossibile che coloro che hanno la forza per costringe-
re e impedire tollerino di rimanere sempre subalterni, per questo van-
no assegnate agli stessi uomini. Coloro infatti che sono signori delle
armi sono anche arbitri della stabilità o del venir meno della costitu-
zione. Resta allora che la costituzione affidi entrambe le funzioni agli
stessi, non però contemporaneamente, ma come è naturale che la forza
fisica sia nei più giovani e la saggezza nei più anziani, così in questo
modo è quindi utile e giusto che esse vengano distribuite ad entrambi;
questa divisione infatti tiene conto del merito.92 (9, 1329 a 6-17)

In questo modo i ruoli di comando e di obbedienza tra citta-


dini simili (homoioi) rispetteranno sia il criterio dell’eguaglian-
za (tò ison) sia della giustizia distributiva secondo il merito.93
La struttura della città ottima è quindi una struttura gerarchi-
ca divisa in due ordini ben distinti: un ordine inferiore che com-
prende gli ‘strumenti’ necessari all’esistenza della città – conta-
dini, artigiani, mercanti etc. –, esclusi dalla cittadinanza, un or-
dine superiore che comprende le funzioni che assicurano la feli-
cità della città – tò hoplitikon, tò bouleutikon, sacerdoti (e ric-
chi); tra i due ordini non c’è nessuna koinonia e la separazione è
permanente, mentre tra le funzioni dell’ordine superiore c’è al-
ternanza di ruoli secondo il criterio dell’età. Con questa separa-
zione il plethos dei cittadini della città perfetta, rivolto all’eser-
cizio della virtù e al conseguimento della felicità, esclude rigo-
rosamente ogni elemento del demos,94 che significativamente
non è mai menzionato in Pol. VII-VIII, se non come riferimento
negativo (9, 1328 b 32).

92
9, 1329 a 6-17.
93
Per l’ariste politeia come modello di giustizia distributiva vd. in part.
Keyt 1985, 33-36.
94
Per quanto riguarda la «folla marinara» (nautikòs ochlos) Aristotele ne
prevede la necessità nella sua città perfetta, ma le ciurme saranno formate da
«perieci e contadini», quindi non-cittadini (Pol. VII 6, 1327 b 7 - 13).
158 Lucio Bertelli

D’altra parte il meccanismo dell’alternanza di comando e


obbedienza secondo l’età riempie il vuoto in cui Aristotele ave-
va lasciato la regola dell’alternanza in Pol. III 4.

Conclusioni

Il cittadino di Aristotele si rivela dunque una figura multi-


forme in relazione alla varietà di possibilità della partecipazione
alla politeia:
a) la caratteristica fondamentale dell’archein kai arche-
sthai in una comunità di simili per nascita (homoioi) ed eguali
per diritto (isoi), secondo i principi propri dell’archè politiké, si
realizza pienamente solo nelle condizioni ottimali dell’ariste
politeia, in quanto richiede la virtù, differenziata secondo i ruoli
in Pol. III 4, unificata nella «città secondo i voti» di Pol. VII
dove i cittadini sono tutti spoudaioi in quanto tutti partecipano
del bios aristos possibile solo a chi esercita la virtù, anche se
anche qui i ruoli sono distinti e solo a chi governa appartiene la
virtù della phronesis;
b) nei regimi reali vale la possibilità (exousia) di partecipa-
re alle funzioni politiche (bouleuesthai kai dikazein), scandita a
diversi livelli secondo i principi di ciascuna costituzione, e
l’unica funzione (ergon) comune al polites è quella di provvede-
re alla salvezza della costituzione: ma, data la differenza di co-
stituzioni che si ispirano a principi diversi, il metechein tês poli-
teias si adegua alla situazione giuridica e sociale di ciascuna co-
stituzione, per cui si va dalla partecipazione limitata o minima
secondo il censo o lo status del cittadino nelle oligarchie e nelle
aristocrazie alla massima della democrazia nella sua forma
estrema.
Tendenzialmente Aristotele escluderebbe dalla politeia tutti
coloro che per il loro status sociale (banausoi, thetikoi) non pos-
sono partecipare della virtù, come del resto propone nella sua
Il cittadino in Aristotele: criteri di inclusione/esclusione 159

politeia ariste,95 ma deve riconoscere che nei regimi reali la par-


tecipazione politica è regolata da criteri diversi, anche se non
sempre raccomandabili.
Dorothea Frede, mettendo a confronto la soluzione platonica
con la teoria aristotelica del cittadino, se per un verso escludeva
che Aristotele condividesse la posizione elitista del maestro (i
filosofi o i possessori della ‘scienza regale’ al potere), d’altra
parte riteneva che «la sua nozione di ciò che deve essere un cit-
tadino, è effettivamente molto remota dai nostri ideali democra-
tici».96 In effetti Aristotele non è elitista nel senso platonico, è
piuttosto moderatamente ‘esclusivista’ in quanto vorrebbe limi-
tare la partecipazione al governo della città a chi possiede la vir-
tù – o almeno una parte di essa –, un possesso tuttavia che non è
riservato solo a pochi, ma può essere esteso anche a molti, come
nel caso dell’aristocrazia perfetta di Pol. III 18, o a tutti i citta-
dini di pieno diritto, come nel caso della polis kat’euchén, o ad
una maggioranza, come nei regimi retti orientati all’interesse
generale (politeia e mese politeia): in ogni caso si tratta di una
virtù non legata a un sapere speciale, proprietà esclusiva di spe-
cialisti della politica, ma della virtù a cui chiunque può aspirare,
data un’adeguata educazione morale e una compatibile condi-
zione sociale.

95
Ma anche a livello di costituzione reale, pur prendendo atto che in certi
regimi (democrazia) i banausoi erano compresi nella cittadinanza, escludeva
che questi fossero in possesso della «virtù del cittadino» – cioè la virtù di
svolgere la sua funzione in vista della salvezza della città partecipando all’at-
tività politica – perché non era sufficiente la qualifica di essere liberi per na-
scita, era necessario anche essere liberi dalle «attività necessarie» (tà anan-
kaia) alla sopravvivenza: vd. III 5, 1278 a 9-11. La riprova è che la partecipa-
zione limitata di un plethos non ignobile al governo in III 11 è condizionata
dal possedere collettivamente la virtù della phronesis.
96
Frede 2005, 168, in polemica con M. Nussbaum (vd. in part. Nussbaum
1990) che invece voleva «reclutare Aristotele nel moderno campo liberale».
160 Lucio Bertelli

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ERMANNO VITALE

INCLUSI ED ESCLUSI. LA CITTADINANZA DEI MODERNI

1. Frontiere problematiche

Il tema del seminario da cui scaturisce questo saggio – “Cit-


tadinanza: chi è incluso e chi no, per gli antichi e i moderni” –
riprende un topos ormai classico, quello della distinzione e del
confronto, al tempo stesso descrittivi e assiologici, fra gli anti-
chi e i moderni, più volte esplorati, mettendo di volta in volta a
fuoco un concetto fondamentale della filosofia pratica, come li-
bertà (Constant) o democrazia (Bobbio). Il fatto che queste ca-
tegorie – gli antichi, i moderni – siano consolidate nell’uso e
rappresentino un vero e proprio tema ricorrente non significa
che intorno ad esse ci sia un largo consenso fra gli studiosi. Al
contrario, pur essendo per un verso una distinzione – una dico-
tomia? – perfino scolastica, per l’altro essa presenta diversi
aspetti problematici. La fonte prima di questa problematicità ri-
siede, suppongo, nella vexata quaestio circa l’origine della mo-
dernità, ovvero dove si collochi la frattura storiografica e soprat-
tutto teorica fra il mondo antico – e medievale? – e quello pro-
priamente ‘moderno’. Se Bobbio afferma che la modernità poli-
tica nasce alla metà del Seicento e si fonda sulla “rivoluzione
copernicana” costituita dall’individualismo hobbesiano, studiosi
come Strauss, Skinner e Pocock ne collocano l’origine a cavallo
tra Quattro e Cinquecento, ritenendo, sia pure con argomenti di-
versi, che il cambiamento di prospettiva sia ascrivibile anzitutto
a Machiavelli.
Dunque, a seconda degli elementi che assumiamo come es-
senziali per distinguere gli antichi dai moderni, ne discenderan-
166 Ermanno Vitale

no considerazioni (inclusioni ed esclusioni) diverse anche in


merito al tema che mi è stato chiesto di affrontare, la cittadinan-
za dei moderni. Sotto il profilo eminentemente storiografico, a
tal proposito non si può non rimandare ai quattro volumi del-
l’opera di Pietro Costa Civitas. Storia della cittadinanza in Eu-
ropa, che parte appunto dalla civiltà comunale per arrivare
all’età dei totalitarismi e della democrazia.1 Neppure negli uti-
lissimi lavori di Costa, che d’altronde privilegia il metodo del
continuum storico, troveremo però una risposta definitiva all’in-
terrogativo che ci siamo posti. Così, per evitare la querelle e con
essa il rischio di porre in maniera arbitraria o ambigua la fron-
tiera tra cittadinanza degli antichi e dei moderni, ho scelto di
soffermarmi esclusivamente su due momenti che possiamo oltre
ogni ragionevole dubbio attribuire, sotto il profilo sia storico sia
teorico, alla modernità politica: la Rivoluzione inglese e quella
francese. E all’interno di questi due eventi capitali anche dal
punto di vista della ridefinizione delle parole della politica, ho
cercato di individuare i due momenti – rispettivamente Putney e
la Costituzione del 1793 – in cui il dibattito mi è parso non solo
più acceso e di maggior spessore ma anche, intenzionalmente o
meno, più rivolto al futuro, e dunque più utile alla nostra rifles-
sione contemporanea sulla vita collettiva e in particolare sulle
condizioni della cittadinanza e del diritto al suffragio. Ci si do-
manderà se una certa misura di proprietà e/o un certo livello di
istruzione vadano considerati come condizioni di per sé suffi-
cienti o al contrario come condizioni di accesso alla cittadinanza
riservate però ai nativi. A entrambe queste prospettive si oppor-
rà la considerazione che la piena cittadinanza sia un diritto inna-
to svincolato da censo e istruzione, a sua volta declinabile in
senso particolaristico o universalistico, per esempio ristretto ai
nativi di genere maschile o aperto a tutti in quanto individui o
persone. E non può non dare un po’ di melanconica vertigine
l’osservare come alcune fra le argomentazioni e le proposte che

1
Costa 1999-2001 e Costa 2005.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 167

passerò rapidamente in rassegna siano senza dubbio ancora og-


gi, a distanza di qualche secolo, ‘rivoluzionarie’.

2. I Leveller a Putney

Il suffragio universale, prima maschile e poi esteso alle don-


ne, dunque solo in quel momento veramente universale, sta alla
base dell’eguaglianza politica fra coloro che fanno parte stabil-
mente di una collettività politica democratica. Uso volutamente
questa formula che può apparire barocca, anziché dire sempli-
cemente che il suffragio universale fonda l’eguaglianza politica
dei cittadini, perché molte società contemporanee sono signifi-
cativamente popolate da nuovi meteci, che condividono gli ob-
blighi dei cittadini senza averne i corrispondenti diritti.2
Lo scopo principale di questo paragrafo e del successivo è
tuttavia, più semplicemente, quello di ricostruire, per sommi ca-
pi, una giornata importante nel lungo e contrastato cammino che
ha portato all’affermazione del suffragio universale. Siccome
disponiamo dei verbali, la possiamo indicare in modo assoluta-
mente preciso: si tratta del venerdì 29 ottobre 1647. Siamo a
Putney, un sobborgo di Londra, dove si svolge una lunga ses-
sione del Consiglio del New Model Army (28 ottobre-11 no-
vembre), l’esercito rivoluzionario guidato da Cromwell che si
batte contro le truppe del re Carlo I Stuart deciso ad allineare la
monarchia inglese all’assolutismo che caratterizzava le altre
monarchie europee. Un esercito di volontari indubbiamente ori-
ginale, il New Model Army, dove tutti, dagli alti comandi ai por-
tavoce dei soldati semplici, hanno diritto di parola in Consiglio
e discutono animatamente di politica e in alcuni momenti, oserei
dire, di teoria politica. In fondo, all’ordine del giorno c’è il futu-
ro assetto politico-istituzionale da dare all’Inghilterra, nel caso
che la vittoria finale arrida appunto all’esercito rivoluzionario.
Siamo in un momento potenzialmente costituente. In questo
2
Il riferimento è, ovviamente, ai migranti. Su questo tema mi permetto di
rinviare a Vitale 2004.
168 Ermanno Vitale

contesto la discussione del 29 ottobre è particolarmente interes-


sante perché, con un anticipo di oltre un secolo sulla Rivoluzio-
ne francese, presenta chiaramente – sia pure in forma embriona-
le e forse rozza – gli argomenti principali che verranno sostan-
zialmente ripetuti, nelle epoche successive, a favore e contro il
suffragio universale.
Prima di iniziare a esporre e commentare tali argomenti, può
valere la pena ricordare, sia pure per rapidissimi cenni, la com-
posizione sociale delle forze in campo, in particolare nel campo
rivoluzionario, utile a comprendere le ragioni storiche che por-
tano alla discussione del 29 ottobre sul suffragio universale. Da
una parte, dalla parte del re, c’è soprattutto ciò che resta della
nobiltà feudale (i cavaliers), mentre dalla parte opposta c’è un
coacervo di interessi di fatto contrastanti, uniti solo dalla deter-
minazione a sbarazzarsi dei residui della società feudale e ad
aprire le porte al nascente capitalismo. Ma al di là di questa
aspirazione, non c’è molto altro in comune tra i grandi mercanti
della City e la media proprietà terriera, la gentry, e ancora fra
quest’ultima e gli artigiani di Londra e i piccoli proprietari (i
coltivatori diretti). Detto in breve, e senza disconoscere l’impor-
tanza che hanno nell’analisi delle varie fasi della Rivoluzione
inglese le diatribe di natura religiosa e le identità territoriali, i
dibattiti di Putney rispecchiano la presenza, all’interno del New
Model Army, di posizioni articolate che però si organizzano e si
scontrano intorno a un’alternativa secca: limitarsi a superare il
feudalesimo, senza andare oltre, consegnando il potere all’ari-
stocrazia del denaro, o provare a realizzare un modello di socie-
tà imperniato sulla centralità economica del lavoro indipenden-
te, piccoli contadini, piccoli commercianti e artigiani, cui corri-
sponde la richiesta di partecipazione alle decisioni pubbliche
mediante un’adeguata forma di rappresentanza.3
Espressione politica dell’alternativa all’aristocrazia del dena-
ro è il movimento dei Levellers che, sotto la guida di John

3
Vastissima è la letteratura sulla Rivoluzione inglese. Tra le opere cano-
niche cfr. Brailsford 1962; Trevelyan 1965; Tawney 1967; Hill 1976.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 169

Lilburne, William Walwyn, Thomas Prince e Richard Overton,


produce, tra i vari libelli e pamphlet che scandiscono l’attività
politica del movimento, la prima versione di quel documento,
dal titolo Agreement of the People for a Firme Peace (Patto del
Popolo per una pace stabile), che costituirà l’oggetto della di-
scussione del Consiglio dell’Esercito del 29 ottobre 1647. A sua
volta, questa prima versione era la rielaborazione di un docu-
mento intitolato The Case of the Armie Truly Stated (Le ragioni
dell’esercito fedelmente esposte) che rispondeva all’idea di dare
una costituzione scritta agli inglesi, di modo che il popolo so-
vrano, con l’aiuto del suo esercito, potesse proclamare e garanti-
re i suoi diritti mediante un patto perennemente valido come
legge immutabile e sovrana.
Che cosa prevedeva dunque il Patto? In sintesi, prevedeva il
principio dell’assoluta eguaglianza davanti alla legge, con l’abo-
lizione di ogni giurisdizione separata o speciale; una completa
tolleranza religiosa; il divieto di reclutare soldati a forza e una
sanatoria generale per gli atti commessi da ambo le parti nel
corso della guerra civile. Ma soprattutto prevedeva, all’art. 1,
che il Parlamento in vigore, prima di sciogliersi, redistribuisse i
seggi proporzionalmente alla popolazione delle diverse contee:
un modo indiretto ma chiaro di affermare il principio del suffra-
gio universale maschile, che d’altronde era affermato diretta-
mente nella stesura di The Case of the Armie Stated. Il Parla-
mento si sarebbe sciolto il 30 settembre 1648, e i Parlamenti
successivi avrebbero dovuto essere eletti in successione regolare
biennale, e rimanere in sessione per sei mesi. Si optava dunque
per cariche brevi e per una forma di elezione che salvaguardasse
quanto più possibile la rappresentatività della Camera dei Co-
muni – Camera il cui potere doveva essere inferiore soltanto a
quello di coloro che la eleggono, estendendosi la sua attività a
tutti i campi della legislazione e del governo (compreso il potere
di dichiarare guerra e trattare la pace), senza il consenso di al-
cuna altra autorità (il re o la camera dei lord).
170 Ermanno Vitale

Si trovano qui riassunti i principi che definiscono idealmente


la democrazia moderna: democrazia rappresentativa, non diret-
ta, con rappresentanti della nazione, ovvero senza vincolo di
mandato, ma al tempo stesso sottoposti alla possibilità di effet-
tivo controllo da parte dei rappresentati, a un’effettiva rendicon-
tazione del loro operato, tramite la durata solo biennale della le-
gislatura; legge elettorale tendenzialmente proporzionale, che
garantisca la rappresentatività del Parlamento e non permetta,
mediante il cavallo di Troia della governabilità, di trasferire di
fatto il potere legislativo a una minoranza sovra-rappresentata;
infine, abolizione o comunque chiara subordinazione (vale a di-
re perdita di reale peso politico) di quelle istituzioni – il re o un
presidente che abbia i poteri di un re, sia pure pro tempore, o
una camera alta che esprima e difenda privilegi nobiliari – che
potrebbero interferire con i poteri del Parlamento, o comunque
condizionarlo nelle sue decisioni.
Ma il cuore di questo documento – lo ribadisco: per certi
versi ancora oggi rivoluzionario – è senza alcun dubbio l’affer-
mazione del suffragio universale maschile. Su questo punto si
concentra la discussione tra gli esponenti dell’esercito vicini ai
livellatori e gli alti ufficiali, favorevoli a prevedere un suffragio
ristretto: il documento viene prima letto per intero al Consiglio,
e subito dopo si procede a rileggere il solo art. 1, quello che sta-
bilisce appunto il suffragio universale maschile. Su questo unico
punto all’ordine del giorno inizia un’ampia discussione che, a
mio avviso, squaderna con estrema lucidità tutti gli argomenti
che nella sostanza si ripeteranno infinite volte nei secoli succes-
sivi, e ancora oggi, pro e contro il suffragio universale.

3. Putney : argomenti pro e contro il suffragio universale

Il primo a parlare è Ireton,4 che chiede se ha ben inteso la


formulazione dell’art. 1: tale formulazione «mi fa pensare che

4
Henry Ireton (1611-1651), generale del New Model Army.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 171

voglia dire che ogni uomo che abiti nel Paese debba essere con-
siderato egualmente, e debba avere un eguale voto nella elezio-
ne di quei rappresentanti, delle persone cioè che compongono la
Rappresentanza generale. Se questo è il significato, allora ho
qualche obiezione da fare».5 Poco dopo, esaurite alcune conte-
stazioni procedurali, la risposta arriva dal colonnello
Rainsborough,6 il quale conferma a Ireton che ha inteso benis-
simo e difende così l’articolo in questione: «Io penso veramente
che l’essere più povero che vi sia in Inghilterra ha una vita da
vivere quanto il più grande e perciò credo sia chiaro che ogni
uomo il quale ha da vivere sotto un governo debba prima con il
suo consenso accettare quel governo. E ritengo che l’uomo più
povero in Inghilterra non sia affatto tenuto a rigore a obbedire a
quel governo che egli non ha avuto alcuna voce nel creare; e so-
no sicuro che, quando avrò ascoltato le ragioni in contrario, a
quelle ragioni vi sarà chi risponda».7 E poco dopo precisa che
deve trattarsi di voto di peso eguale: «Non trovo nessun passo
nella legge di Dio che affermi che un Lord debba scegliere venti
deputati, e un gentiluomo soltanto due, e un povero nessuno».8
Ora che è del tutto chiara la tesi per la quale il potere di un
governo, cui corrisponde l’obbligo di obbedienza di tutti coloro
che risiedono nel suo territorio, non può avere altro fondamento
legittimo che il consenso di eguale peso e periodicamente reite-
rato di tutti gli uomini a tale potere sottoposti, a Ireton non resta
che contrastarla altrettanto apertamente, esponendo con forza le
preannunciate obiezioni:

5
Revelli 1997, 70. La traduzione proposta da Revelli riprende quella di
Gabrieli 1956. Per i testi originali dei dibattiti cfr. innanzitutto il primo volu-
me dei Clarke Papers, pubblicati tra il 1891 e il 1901 dalla Royal Historical
Society e da Longmans di Londra. William Clarke era il segretario di sir
Thomas Fairfax incaricato di verbalizzare le riunioni del Consiglio dell’Eser-
cito.
6
Thomas Rainsborough (1610-1648), colonnello del New Model Army.
7
Revelli 1997, 71.
8
Ivi, 75.
172 Ermanno Vitale

Penso che nessun persona abbia diritto a una partecipazione nell’or-


dinamento degli affari del Paese, a determinare o scegliere coloro che
determineranno da quali leggi dobbiamo essere governati in questo
Paese – nessuna persona ha diritto a ciò, la quale non abbia un interes-
se permanente e fisso in questo Paese. Solo quelle persone, riunite in-
sieme, sono propriamente i rappresentati di questo Paese e, per conse-
guenza, anche coloro che debbono creare i rappresentanti del Paese.
Essi nel loro insieme comprendono tutti gli interessi reali e permanen-
ti del regno. Altrimenti sono sicuro che non saprei dire perché un fore-
stiero che venga tra noi, o tutti coloro che vengono tra noi, mossi dalla
necessità o dal desiderio di stabilirsi qui, perché essi non potrebbero
rivendicare ugualmente lo stesso diritto di qualsiasi altro. Parliamo di
diritto innato, ma in base a esso possiamo reclamare solo queste cose:
gli uomini che sono nati in Inghilterra godono dalla nascita il giusto
diritto di non essere allontanati dall’Inghilterra, di non vedersi negata
l’aria o la residenza, e il libero uso delle strade e altre cose – questo
diritto ha chiunque sia nato qui, sebbene per il fatto di essere nato qui
non gliene derivi alcun altro di quelli spettanti agli interessi perma-
nenti di questo Paese. Questo ritengo spetti a un uomo per diritto di
nascita. […] Coloro che scelgono i rappresentanti per fare le leggi da
cui hanno da esser governati questo stato e questo paese, son le perso-
ne che, nel loro insieme, comprendono gli interessi propri di questo
regno; cioè, le persone nelle cui mani è tutta la terra, e i membri delle
corporazioni, che hanno nelle mani tutto il commercio. Questa è la più
fondamentale costituzione di questo regno, non riconoscendo la quale,
non ne rendete possibile alcuna. […] Io dico questo: coloro che hanno
il più modesto interesse locale – gli uomini che hanno solo un reddito
di quaranta scellini l’anno –, hanno effettivamente altrettanto diritto a
eleggere il deputato per la loro contea, quanto l’uomo che ha un reddi-
to di diecimila sterline, o anche più, per grande che sia; e perciò se ne
tiene conto.9

Ireton conclude il suo intervento, ribadendo il punto nelle


successive repliche, sottolineando che, se si dovesse accettare il
documento dei Leveller, risulterebbe di conseguenza abolita an-
che la proprietà privata:
Se vi mettete su questo terreno, allora credo che dobbiate negare an-
che ogni proprietà e per questa ragione: in base allo stesso diritto natu-
rale (sia quel che sia) da voi invocato e che vi consente di dire che
ogni uomo ha un eguale diritto di scegliersi chi deve governarlo – in
base allo stesso diritto naturale, egli ha lo stesso eguale diritto a qual-

9
Ivi, 72-73.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 173

siasi bene cada sotto i suoi occhi – cibi, bevande, vestiti –, il diritto di
prenderseli e usarne per il proprio sostentamento. Egli è libero di
prendersi la terra, di occuparla, di amministrarla, di coltivarla; ha lo
stesso diritto di avere tutto ciò che un altro uomo considera sua pro-
prietà.10

A questo punto Rainsborough replica che il suo avversario


sta compiendo una forzatura argomentativa, implicitamente at-
tribuendo al Patto del popolo un’inclinazione anarchica e con-
traria al diritto di proprietà:
Affermare che, perché un uomo invoca il diritto naturale di ogni per-
sona al voto, in tal modo si viene a distruggere con lo stesso argomen-
to ogni proprietà – questo è dimenticare la Legge di Dio. Che v’è pro-
prietà, la legge di Dio lo dice: altrimenti perché avrebbe fatto la legge
‘Non rubare’? Siccome sono povero, devo essere oppresso; se non
posseggo proprietà nel paese, devo subire tutte le sue leggi, siano giu-
ste o ingiuste. Che dico? Un signore vive in un Paese e ha tre o quattro
tenute, come ne hanno alcuni (Dio sa come se le sono procurate); e al-
le elezioni del Parlamento egli è automaticamente un deputato. Può
darsi che veda dei poveri che vivono nelle sue vicinanze; egli ha il po-
tere di schiacciarli – so di un’invasione compiuta per espellere i poveri
dalle loro case; vorrei sapere se non è la potenza dei ricchi a far questo
e a tenere i poveri sotto la più grande tirannia che il mondo abbia mai
potuto immaginare.11

Fra l’altro, aggiunge Rainsborough, quello che a Ireton pare


un reddito alla portata di molti – quaranta scellini – è in effetti
una barriera economica che escluderebbe dal voto molti tra co-
loro che hanno combattuto e stanno combattendo nel New Mo-
del Army; in ogni caso si tratta di una questione di principio,
prima che di misura.

10
Ivi, 78.
11
Ivi, 79-80. Vale la pena di osservare che Rainsborough per un verso ri-
conosce la proprietà, ma per l’altro allude all’origine oscura, perlomeno im-
morale se non proprio illegale, di qualsiasi grande patrimonio, così come
all’uso criminale che se ne può fare e all’impunità di fatto che assicura.
174 Ermanno Vitale

4. Retoriche incrociate?

Proviamo ora, prima di proseguire nella ricostruzione degli


snodi essenziali della discussione sul suffragio universale, a
schematizzare gli argomenti fin qui esposti da Rainsborough e
Ireton. La difesa del suffragio universale è affidata, nelle parole
di Rainsborough, a una prospettiva giusnaturalista, che conside-
ra il suffragio come uno dei diritti naturali, nel senso stretto di
diritto innato, da attribuirsi a tutti gli uomini, concepiti come na-
turalmente liberi, eguali e dotati di ragione. Le contingenti con-
dizioni sociali di un individuo non possono togliergli quello che
Dio, o la natura, gli hanno dato. La proprietà privata è ammessa
così come le relative diseguaglianze sociali, anche se è evidente
che i Leveller hanno in mente limiti alla proprietà e dunque un
contenimento di tali diseguaglianze. Si suppone che il suffragio
universale attribuito a individui dotati di ragione produca, gra-
dualmente ma quasi inevitabilmente, il risultato ‘repubblicano’
di una collettività politica i cui cittadini, pur diseguali negli ave-
ri, vivono tutti sobriamente, evitando gli estremi del lusso sfre-
nato e della totale indigenza. Per inciso, è quanto teme Ireton:
Se il padrone e il dipendente avranno eguale diritto di voto, allora evi-
dentemente quelli che non hanno proprietà nel Paese, avranno interes-
se a eleggere coloro che si trovano nelle loro condizioni. Può accadere
che la maggioranza decida per legge, non con la violenza, di abolire la
proprietà privata; potrà essere promulgata una legge che prescriva
l’eguaglianza dei beni e dei possessi.12

Le argomentazioni di Ireton, per quanto forse lontane dalla


nostra sensibilità, o perlomeno dalla nostra esibita sensibilità,
sono senza dubbio una difesa dello status quo, se consideriamo
tale non il vecchio ordine feudale, bensì il nuovo ma già conso-
lidato ordine oligarchico. Se vogliamo trovare un precedente il-
lustre, potremmo dire che Ireton esprime una posizione aristote-
lica: la miglior forma di governo è quella che concede a molti i
diritti politici, escludendo però i nullatenenti, che non avendo
12
Ivi, 86-87.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 175

appunto nulla da perdere dai tumulti, ma al contrario tutto da


guadagnare, sono inclini a esser facinorosi13.
Tuttavia, tali argomentazioni conservatrici non sono affatto
inconsistenti. Al contrario, fanno a meno della retorica cui at-
tinge copiosamente Rainsborough e mettono in difficoltà la po-
sizione dei Leveller. Infatti, richiamare come fondamento del
suffragio universale la legge di natura, o la legge divina, è un
argomento assai debole, contro il quale ha buon gioco Ireton a
chiedere dove si dovrebbe porre il limite tra ciò che è diritto na-
turale e ciò che non lo è. Ciascuno fa parlare la divinità o la na-
tura come meglio gli aggrada.
In particolare, se si intende il presunto diritto naturale a dare
il consenso al governo cui si è sottoposti come un aspetto del
diritto naturale soggettivo, allora la deriva ‘anarchica’ paventata
da Ireton, che alla fine altro non è che lo stato di natura hobbe-
siano, è logicamente inappuntabile. E affermare che il coman-
damento che impone di non rubare è chiaro segno del ricono-
scimento divino della proprietà privata è evidentemente risibile:
il furto si può commettere in relazione agli oggetti personali o,
perché no?, ai danni della proprietà collettiva. Ireton può inoltre
osservare che seguendo la via indicata dai Levellers bisognerà di
conseguenza riconoscere che tutti gli uomini che abitano in In-
ghilterra, non importa se nativi o meno, dovranno avere il diritto
di voto eguale. Questo significherebbe estendere il diritto di vo-
to agli stranieri stabilmente domiciliati in Inghilterra: una pro-
spettiva rigorosamente conseguente ma che andava oltre le in-
tenzioni degli stessi livellatori. Si potrebbe ancora aggiungere,
anche se Ireton non presenta esplicitamente quest’argomento,
che porre un limite di reddito basso – quaranta scellini – per
avere il diritto di voto è in prospettiva compatibile con la società
repubblicana immaginata dai livellatori, una società frugale di
liberi cittadini, né troppo poveri né troppo ricchi, che sopra ogni
altra cosa apprezzano l’impegno civile.

13
Aristotele, Politica, 1296a.
176 Ermanno Vitale

Però anche la posizione di Ireton presenta lati deboli, preoc-


cupata com’è di definire come criterio del diritto al suffragio un
interesse locale e permanente nel Paese. Per Ireton tale interesse
coincide, secondo il più classico degli argomenti del liberalismo
conservatore, con l’essere proprietari o comunque con il posse-
dere un certo reddito minimo derivante dal commercio, dall’ar-
tigianato o dalle professioni liberali (Ireton lascia da parte l’altro
argomento tipico per giustificare l’esclusione, quello fondato
sull’istruzione che il ‘popolaccio’ non ha, forse perché i porta-
voce dei soldati in seno al Consiglio mostrano invidiabili com-
petenze politiche). Ma come si fa a negare che tutti coloro che
vivono in una collettività politica hanno un interesse permanen-
te alle decisioni pubbliche, indipendentemente dal censo? Qui il
ragionamento di Ireton si fa contorto, finendo in un appello alla
tradizione, alla immutabile costituzione non scritta che regola
fin dall’origine il Paese ed è fondata sull’ordine intangibile della
proprietà. È singolare, contro l’ipostatizzazione della legge di-
vina ci si appella all’ipostatizzazione della storia.
A questo punto, si potrebbe chiedere a Ireton cosa ci faceva
lì, nello stato maggiore di un esercito che fronteggiava i difen-
sori dell’ordine tradizionale. Ma c’è nel discorso di Ireton una
contraddizione ancora più lampante: egli stesso, affermando che
i poveri avrebbero potuto, con il voto, cambiare le leggi sulla
proprietà e dunque il volto della società inglese, ammette che
c’è eccome un interesse «locale e permanente» degli indigenti a
partecipare alla vita politica e istituzionale del Paese. Molto
semplicemente, è un interesse locale e permanente che entra
apertamente in conflitto con quello della grande e media pro-
prietà immobiliare e mobiliare.
In realtà, il ricorso di Rainsborough a argomenti tratti dal
giusnaturalismo classico è presumibilmente dovuto al tentativo
di costringere l’interlocutore a convenire sulla sottomissione di
tutti in quanto cristiani alla legge divina, facendogli correre in
caso contrario il rischio di minimizzarne l’importanza di fronte
a un’assemblea profondamente religiosa. Ma che i diritti politi-
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 177

ci, come del resto i diritti di libertà e i diritti sociali, non siano
naturali, anche quando espressamente rivendicati come tali,
bensì il frutto storico di lunghe lotte per la loro definizione pri-
ma e in seguito per il concreto esercizio da parte dei loro titolari,
emerge con maggiore chiarezza proprio dall’intervento del sol-
dato Sexby:
Vedo che sebbene il nostro fine sia stato la libertà, si è deviato da es-
so. Ci siamo impegnati in questo Paese e abbiamo rischiato la vita so-
lo per recuperare i nostri diritti innati e i nostri privilegi di inglesi;
mentre, secondo gli argomenti sostenuti ora, non ne avremmo alcuni.
Siamo molte migliaia di soldati ad aver arrischiato la vita: abbiamo
avuto poca proprietà nel Paese quanto a terre, pure abbiamo avuto un
diritto di nascita. Ma sembra ora che, se un uomo non ha proprietà fis-
sa nel Paese, non ha alcun diritto in esso. Mi meraviglio che ci siamo
tanto ingannati. Se non avevamo alcun diritto, non siamo stati che dei
mercenari. […] Vi dirò in una parola la mia decisione. Son deciso a
non rinunciare di fronte a nessuno al mio diritto innato. Qualunque
ostacolo si frapponga e checché si pensi, non lo cederò a nessuno. Se
questo viene negato ai poveri, che ci hanno tanto contato, sarà il più
grande degli scandali. […] Vi prego di non perdere tanto tempo in
questa discussione. Dobbiamo essere franchi. Quando gli uomini arri-
vano a capire queste cose, non si lasceranno defraudare di ciò per cui
si sono battuti.14

La replica di Ireton è intesa a spiegare, con un tono paternali-


stico, «per che cosa ha combattuto il soldato di questo Paese».
Ha combattuto contro la monarchia assoluta, contro il fatto che
la volontà arbitraria di un uomo fosse legge. Ha combattuto per
far sì che a prendere le decisioni pubbliche fosse una rappresen-
tanza eletta da un’oligarchia:
Alcuni uomini hanno combattuto in questa guerra perché erano imme-
diatamente interessati e impegnati. Altri, che non avevano altro inte-
resse se non quello di beneficiare delle leggi fatte dalla Rappresentan-
za, combatterono tuttavia per beneficiare di questa Rappresentanza.
Ritennero fosse meglio esser governati dal comune consenso di quanti
erano legati stabilmente al Paese, e ne rappresentavano gli interessi

14
Revelli 1997, 95.
178 Ermanno Vitale

permanenti. In questo modo, essi dissero, conosceremo una legge e


avremo una certezza.15

Troppo poco per il soldato Sexby, che replica del tutto in-
soddisfatto: se le cose stavano così, «avreste fatto bene ad av-
vertircene e credo che in tal caso avreste avuto meno uomini ai
vostri ordini».16
Sappiamo come sono andate poi le cose. I leader dei livella-
tori (Lilburne, Overton, Prince e Walwyn) vennero sconfitti, e la
loro proposta di patto costituzionale – la cui versione più com-
pleta e aggiornata è datata primo maggio 1649 e viene scritta
durante la prigionia nella Torre di Londra – venne sostituita da
un Agreement of the People che recepiva sostanzialmente le po-
sizioni di Ireton e dei Grandi dell’Esercito. In uno dei tanti
pamphlet che alimentavano l’azione politica dei Leveller, pub-
blicato nel marzo 1649, Overton scrive:
prima i Comuni non potevano votare alcuna legge senza l’approva-
zione dei Lord: ora non si azzardano a approvare nulla senza il con-
senso del Conclave degli ufficiali. Prima eravamo governati dal re, dai
Lord e dai Comuni; ora lo siamo da un generale, dalla corte marziale e
dai Comuni: qual è , di grazia, la differenza?17

Tuttavia, non tutto andò perduto. Che il suffragio universale


fosse un fine meritevole di essere raggiunto e che il mezzo non
potesse essere che la lotta politica organizzata era diventato un
tema di discussione. E quest’obiettivo – un fine in sé in quanto
realizza l’eguaglianza politica ma anche un mezzo per trasfor-
mare la politica e cambiare pacificamente le cose, come aveva
ammesso lo stesso Ireton – era da considerarsi non come un
evento isolato di partecipazione che consiste nel dare una delega
(quasi) in bianco ai rappresentanti, bensì come uno degli aspetti
di un costante impegno civile. Una partecipazione e un impegno
che vedono in primo piano anche le donne di Londra, che – per
fare solo un paio di esempi – nell’aprile del 1649 si mobilitano
15
Ivi, 99.
16
Ivi, 103.
17
Ivi, 294.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 179

firmando in più di diecimila una petizione che chiede la scarce-


razione dei leader Livellatori e seguendo numerose il corteo fu-
nebre di un soldato vicino a livellatori giustiziato su ordine della
Corte marziale.18

5. La Costituzione del 1793. Universalismo al maschile?

Bisognerà aspettare la Costituzione giacobina del 24 giugno


1793 – peraltro mai entrata in vigore – per vedere giuridicamen-
te affermato il suffragio universale maschile. La precedente Co-
stituzione rivoluzionaria, quella del 3 settembre 1791, prevede-
va un complicato meccanismo a più stadi il cui risultato era
l’esclusione dal diritto di voto della maggioranza dei francesi. In
sintesi, tale documento, pur stabilendo che «la sovranità è una,
indivisibile, inalienabile e imprescrittibile» e che «essa appar-
tiene alla nazione; nessuna sezione del popolo, né alcun indivi-
duo può attribuirsene l’esercizio» (Titolo III, art. 1), fissava in
seguito una netta distinzione fra i cittadini ‘attivi’ e tutti gli altri,
le cui caratteristiche sono così specificate:
Per essere cittadino attivo, occorre: essere nato o diventato francese;
aver compiuto venticinque anni; essere domiciliato nella città o nel
cantone dal tempo determinato dalla legge; pagare, in un qualunque
luogo del regno, un contributo diretto pari al valore di almeno tre
giornate di lavoro, e presentarne la quietanza; non essere in uno stato
di domesticità, ossia di servitore salariato; essere iscritto, nella muni-
cipalità del proprio domicilio, nel ruolo delle guardie nazionali; aver
prestato il giuramento civico (cap. I, sez. 2, art. 2).

Sono invece esclusi dall’esercizio dei diritti di cittadino atti-


vo coloro che sono in stato di accusa e coloro che sono stati di-
chiarati falliti o in stato d’insolvenza.
Questo per quanto riguarda l’elettorato attivo nelle Assem-
blee primarie (assemblee di base territoriali). Per quanto riguar-

18
Si tratta del giovane soldato Robert Lockyer, accusato di ammutina-
mento insieme a altri soldati poi graziati per intercessione di Cromwell per
una protesta legata a paghe arretrate.
180 Ermanno Vitale

da l’elettorato passivo, la possibilità di essere indicato nelle As-


semblee primarie come ‘grande elettore’ alle successive Assem-
blee elettorali dei deputati ed eventualmente divenire deputato
della Nazione, è subordinata a condizioni ancora più esigenti:
Nessuno potrà essere nominato elettore, se alle condizioni necessarie
per essere cittadino attivo non unisce queste altre: nelle città con più
di seimila anime, quella di esser proprietario o usufruttuario di un be-
ne valutato sui ruoli di contribuzione a una rendita pari a duecento
giornate di lavoro, o essere locatario di un’abitazione valutata sui me-
desimi ruoli a una rendita pari al valore di centocinquanta giornate di
lavoro (cap. I, sez. 2, art. 7).

Nelle città più piccole o nelle campagne erano sufficienti


rendite pari al valore di centocinquanta giornate di lavoro, ma
l’affermazione di un diritto di voto passivo ristretto a un’oligar-
chia di possidenti era ampiamente confermata.
La Costituzione del 1793, che pure organizzativamente man-
tiene il sistema delle assemblee primarie e delle assemblee elet-
torali, come d’altronde imponeva la logistica dell’epoca, stabili-
sce finalmente il suffragio universale maschile, riprendendo i
temi che caratterizzano il Patto del Popolo disegnato dai livella-
tori inglesi: si afferma che «il popolo sovrano è l’universalità
dei cittadini francesi» (art. 7) e non si trova traccia né della qua-
lifica di cittadino attivo definito da un reddito minimo pari a tre
giornate di lavoro né del diritto all’elettorato passivo collegato a
un reddito ancora di molto superiore. «Ogni francese – recita
l’art. 28 – che esercita i diritti di cittadino è eleggibile in tutto il
territorio della Repubblica».
Per quanto riguarda lo status di cittadino, l’art. 4 stabilisce
che sia tale
ogni uomo nato e domiciliato in Francia, in età di ventun anni compiu-
ti; ogni straniero in età di ventun anni compiuti che, domiciliato in
Francia da un anno: vi vive del suo lavoro, o acquista una proprietà, o
sposa una francese, o adotta un fanciullo, o mantiene un vecchio; ogni
straniero, infine, che il corpo legislativo giudicherà di aver ben merita-
to dell’umanità.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 181

Una definizione di cittadino che rigetta il principio dello ius


sanguinis e dello stesso ius soli, fondando il diritto di partecipa-
zione alle decisioni della collettività politica di cui si fa parte, e
dunque anche il diritto di voto attivo e passivo, semplicemente
sull’appartenervi in modo sufficientemente stabile (da almeno
un anno).
E di un anno è la durata in carica del corpo legislativo (art.
40), i cui componenti – i deputati – si considerano come «appar-
tenenti alla nazione intera» (art. 29). Come per i livellatori, an-
che per i giacobini si ottiene così, con breve durata della carica
ma senza il vincolo di mandato, il giusto equilibrio tra l’esi-
genza che i rappresentanti non siano i meri portavoce di interes-
si locali o settoriali e quella di assicurare la loro rispondenza al-
la volontà dei rappresentati.
Questi auspici, se li vogliamo considerare tali, erano allora
come oggi ben lungi dall’essere realizzati. Tuttavia, il crogiolo
di idee che fu la rivoluzione francese produsse, a proposito del
suffragio universale, l’esplicita richiesta di inclusione delle
donne in quanto titolari di tale diritto, di modo che il suffragio
fosse veramente universale. Anche nell’avanzatissima Costitu-
zione del 1793, infatti, la cittadinanza era chiaramente una pre-
rogativa maschile, nonostante fossero già stati pubblicati due
testi che rivendicavano per le donne eguali diritti civili e politi-
ci: la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di
Olympe de Gouges e A Vindication of the Rights of Woman di
Mary Wollstonecraft.
Lo scritto della De Gouges, redatto nel 1791, si propone di
riprodurre l’articolato della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino del 1789 sottolineando l’assoluta parità di diritti (e
di doveri) tra uomo e donna. Così, all’art. 1 possiamo leggere
che «la donna nasce libera e mantiene parità di diritti con l’uo-
mo. Le distinzioni sociali possono essere fondate unicamente
sull’utilità comune», e all’art. 2 che «lo scopo di ogni associa-
zione politica è quello di preservare i diritti naturali e impre-
scrittibili della donna e dell’uomo: tali diritti sono la libertà, la
182 Ermanno Vitale

proprietà, la sicurezza, e innanzitutto la resistenza all’oppressio-


ne».
Da queste premesse deriva l’art. 6, dedicato espressamente al
tema dei diritti politici:
La legge dev’essere l’espressione della volontà generale, tutte le citta-
dine e tutti i cittadini devono concorrere, personalmente o attraverso i
loro rappresentanti, alla sua formazione; essa dev’essere uguale per
tutti; tutte le cittadine e tutti i cittadini, essendo uguali di fronte ad es-
sa, devono poter accedere con pari diritto ad ogni carica, posto e im-
piego pubblico, senza altre distinzioni che quelle derivanti dalla loro
virtù e dalle loro capacità.

L’art. 16 mette in guardia sull’esclusione delle donne dalla


partecipazione politica: «Ogni società in cui non sia assicurata
la garanzia dei diritti e non sia determinata la separazione dei
poteri, è priva di una costituzione; la costituzione è nulla se la
maggioranza degli individui che costituiscono la Nazione non
ha collaborato alla sua redazione».19 Affinché la Nazione abbia
solide fondamenta, sarebbe interesse anche degli uomini, in al-
tre parole, che la costituzione fosse davvero il patto di cui tutti,
cittadine e cittadini, si riconoscono contraenti.
È bene osservare come queste rivendicazioni non vadano mai
oltre la richiesta della parità, non cedano cioè alla tentazione di
auspicare un rovesciamento dei ruoli, che alluda a una potenzia-
le maggiore sensibilità della donna verso il bene comune o che
punti all’attribuzione di qualche vantaggio come risarcimento di
secoli di oppressione maschile. Nei rimanenti articoli De Gou-
ges insiste su questo punto, che è anche l’oggetto della rifles-
sione, nient’affatto indulgente con il genere femminile, contenu-
ta nel ‘postambolo’ che correda l’articolato. Le donne debbono
rendersi conto, secondo De Gouges, che con la rivoluzione cui
hanno contribuito la loro situazione è paradossalmente peggio-
rata: non hanno ottenuto la parità di diritti con gli uomini e han-
no perduto il ruolo che riservava alle donne, perlomeno alle

19
de Gouges 2007, 19-23.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 183

donne della buona società, il codice cavalleresco dell’antico re-


gime:
Svegliati, donna! La campana della ragione risuona a martello nell’in-
tero universo; riconosci i tuoi diritti. […] L’uomo schiavo ha moltipli-
cato le forze, ed ha avuto bisogno di ricorrere anche alle tue per spez-
zare le proprie catene. Divenuto libero, si è mostrato ingiusto verso la
sua compagna. O donne, donne! Quando cesserete di essere cieche?
Quali vantaggi avete raccolto dalla Rivoluzione? Un disprezzo più ac-
centuato, un disdegno più esplicito. Nei secoli della corruzione avete
regnato unicamente sulla debolezza degli uomini. Ora che il vostro
impero è distrutto, che cosa vi resta?20

Per raggiungere davvero la parità, una parità non al ribasso


ma che punti all’elevazione morale e civile di tutto il genere
umano, le donne debbono rinunciare al potere ‘invisibile’ fon-
dato sul fascino e sulla seduzione con cui hanno nei secoli in-
fluenzato le azioni degli uomini:
Le donne hanno fatto più male che bene. Costrizione e dissimulazione
sono state il loro retaggio. Ciò che era stato loro tolto dalla forza, se lo
sono ripreso con l’astuzia; hanno fatto ricorso a tutte le risorse del loro
fascino, piegando in tal modo anche il più irreprensibile degli uomini.
Il veleno, il ferro, tutto era soggetto al loro potere: dominavano il de-
litto come la virtù. Il governo della Francia, soprattutto, è dipeso per
secoli dall’amministrazione notturna delle donne; le stanze del potere
non avevano segreti per la loro indiscrezione; ambasciata, quartier ge-
nerale, ministero, presidenza, pontificato, cardinalato, in breve, tutti i
paludamenti della stupidità degli uomini, nelle cose profane come in
quelle sacre, sono stati sottomessi alla cupidigia e all’ambizione di
questo sesso che un tempo era spregevole e rispettato, mentre dalla
Rivoluzione in poi è rispettabile e disprezzato.21

La necessità di ‘riformare se stesse’, e di conseguenza il


mondo, portando a compimento una rivoluzione sociale e politi-
ca incompiuta, riecheggia nell’appassionata rivendicazione dei
diritti delle donne di Mary Wollstonecraft:
La condotta e i costumi delle donne costituiscono l’evidenza che la lo-
ro mente non è in condizioni sane; e come per i fiori piantati in un ter-
20
Ivi, 25.
21
Ivi, 27.
184 Ermanno Vitale

reno troppo ricco, la forza e l’utilità vengono sacrificate alla bellezza,


e le rigogliose foglie, dopo aver soddisfatto l’occhio esigente, appassi-
scono dimenticate sullo stelo, prima che giunga la stagione della ma-
turità. Una causa di tale sterile fioritura è da attribuire, a parer mio, a
un sistema educativo fallace, suggerito da libri sull’argomento scritti
da uomini che, ansiosi di rendere le donne amanti seducenti piuttosto
che mogli fedeli o madri razionali, hanno guardato a loro come fem-
mine e non come esseri umani. L’intelletto del gentil sesso è stato a tal
punto ingannato da questo falso omaggio che le donne civilizzate del
nostro secolo, con poche eccezioni, altro non desiderano se non ispira-
re amore laddove dovrebbero nutrire ambizioni più nobili e guada-
gnarsi rispetto con le loro capacità e virtù.22

5. Conclusioni

La lunga battaglia per il suffragio universale, iniziata a Put-


ney, dovrà attendere il Novecento per risultare grosso modo vit-
toriosa, perlomeno in occidente. Per quanto riguarda l’Italia, il
suffragio maschile, ma sopra i trent’anni, venne ottenuto nel
1912, mentre nel 1919 fu esteso a tutti coloro che avessero
compiuto ventun anni o avessero svolto il servizio militare. Bi-
sognerà invece attendere il 1945 perché il suffragio femminile
diventi legge.
Ma non voglio tediare il lettore con una serie di date e dati
facilmente reperibili sulla rete. Vale invece la pena, a mio giu-
dizio, riflettere un attimo su che cosa dia senso al mettere una
scheda nell’urna per scegliere i propri rappresentanti. Perché la
lotta per la democrazia non finisce avendo ottenuto per tutti il
diritto di voto, attivo e passivo, cioè ad eleggere e a essere eletti.
Il diritto-potere di scegliere i propri rappresentanti può infatti
essere, in molti modi, svuotato di significato. Nei dibatti di
Putney e per tutto il Settecento e l’Ottocento gli autori democra-
tici e poi i socialisti riformisti insistettero sul fatto che il suffra-
gio universale sarebbe stato sicuramente foriero di grandi cam-
biamenti sociali – era il timore di Ireton: la rivoluzione pacifica
che diminuisce le diseguaglianze sociali mediante il diritto di

22
Wollstonecraft 2008, 27-28.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 185

voto attribuito a tutti – e avrebbe avuto al contempo una enorme


funzione pedagogica: l’esercizio del diritto di voto avrebbe co-
stituito il pungolo per diventare cittadini più consapevoli e in-
formati, per occuparsi della cosa pubblica, al fine di difendere
sia il proprio ideale di ‘società giusta’ sia, perché no?, i propri
specifici interessi individuali. Il rischio di un’alterazione o di-
storsione o manipolazione della volontà degli elettori nei diversi
passaggi che implica la formazione del corpo dei rappresentanti
– prima, durante e dopo le elezioni – era probabilmente sottova-
lutato, mentre prevaleva la fiducia nella forza educativa in sé
delle procedure democratiche.
Invece, già a fine Settecento De Gouges e Wollstonecraft
paiono intuire questo rischio nel momento in cui insistono sulla
formazione morale, intellettuale e civile che le donne dovrebbe-
ro conseguire per diventare cittadine capaci di scelte politiche
responsabili, di modo che il voto sia solo un momento, per
quanto importante, della consapevole costante partecipazione
alla vita della propria collettività politica. Forse perché doveva-
no lottare non soltanto contro il pregiudizio del ricco verso il
povero – in un regime proprietario solo il ricco ha un interesse
nella cosa pubblica e ha le competenze per prendere decisioni in
merito – ma anche contro quello ancor più radicato, naturalisti-
camente fondato sul genere, per cui la donna deve vivere la sua
vita nell’ambito domestico e comunque privato, e non possiede
per natura la capacità politica, le donne che si sono battute per
ottenere la parità di diritti sembrano avvertire che i diritti politi-
ci, pur molto importanti, di per sé non sono sufficienti a restitui-
re dignità sociale. Che bisogna acquisire coscienza di sé per non
correre il rischio di essere eterodirette nel momento in cui si de-
posita la scheda nell’urna.
Ma in realtà questo rischio lo corrono tutti, gli uomini non
meno delle donne. Non ci si spiega diversamente per quali ra-
gioni il suffragio universale abbia generato società in cui l’inte-
resse dei più è manifestamente subordinato all’interesse dei po-
chi, a interessi e valori oligarchici. L’ancora ingenua aristocra-
186 Ermanno Vitale

zia del denaro inglese difesa da Ireton temeva il suffragio uni-


versale come potente veicolo di eguaglianza, ma i suoi discen-
denti globalizzati hanno compreso come fare a coniugare demo-
crazia e privilegio. Dal momento in cui hanno perso, almeno in
apparenza, la battaglia sul suffragio universale le élite politiche
ed economiche dell’occidente che si definisce democratico han-
no iniziato a lavorare dentro le istituzioni e le procedure della
democrazia rappresentativa per depotenziarle e addomesticarle,
così da non perdere il loro ruolo e i loro privilegi. Sarebbe que-
sta, come si suole dire, materia per un altro saggio. Mi limito
qui a ricordare due tra i modi per ottenere questo brillante risul-
tato che ricorda il patto ad inganno nella seconda parte del Di-
scorso sulle origini e i fondamenti della diseguaglianza di
Rousseau.
Il primo modo consiste nell’impiegare il potere economico
per vincere la lotta per l’egemonia, vale a dire per godere del
vantaggio di uno straripante potere ideologico, di una diffusa
capacità di persuasione rivolta a cittadini non (politicamente)
educati, come li definiva Bobbio.23 Così facendo, non è poi dif-
ficile dettare l’agenda della discussione pubblica, facendo appa-
rire e scomparire in essa i temi e le preoccupazioni che di volta
in volta si ritengono più convenienti per orientare i cittadini
elettori. Il secondo modo interviene nel momento in cui si tra-
sformano i voti in seggi mediante la legge elettorale. Tutte le
volte che si brandisce la bandiera della ‘governabilità’ per inde-
bolire il principio del voto di peso eguale, per alterare il princi-
pio della rappresentatività delle assemblee legislative, e si co-
struiscono maggioranze parlamentari artificiali, o artificiose, si
svuota di significato l’atto per eccellenza della democrazia rap-
presentativa, quello di scegliere con voto di eguale valore i rap-
presentanti. Chissà che in qualche autunno che verrà non ci si
ritrovi di nuovo accampati in un sobborgo di Londra, o di qual-
siasi altra città del pianeta, per proseguire la battaglia.

23
Bobbio 1984, 18-21.
Inclusi ed esclusi. La cittadinanza dei moderni 187

Bibliografia

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CITTADINI OLTRE LA POLIS
 

EMIDIO SPINELLI

NORME GIURIDICHE, PARTECIPAZIONE POLITICA


E SCELTE FILOSOFICHE IN EPICURO

1. Si può legittimamente sostenere che i membri del Giardino


di Epicuro possono essere, insieme e senza contraddizione alcu-
na, filosofi e cittadini?1
Se volessimo rispondere a questa domanda affidandoci a una
prescrizione secca e decontestualizzata, che si legge in una ricca
sezione apoftegmatica del decimo libro delle Vite dei filosofi di
Diogene Laerzio, quella secondo cui il saggio epicureo οὐδὲ  
πολιτεύύεσθαι;2 o ancora se volessimo cedere senza ulteriore
accurata ricerca al refrain assillante e persistente che molte fonti
antiche associano al motto, direi quasi ossessivamente ripropo-
sto, del λάάθε   βιώώσας;3 o infine se volessimo dar credito uni-
camente, in modo decisamente ingenuo se non volutamente
prevenuto, a testimoni, da cui poter provare a percepire qualcosa
del pensiero politico epicureo, ma sulla cui attendibilità occorre

                                                                                                               
1
Mi limito qui a segnalare solo alcuni lavori ‘classici’ in merito all’atti-
tudine politica di Epicuro e degli Epicurei: Philippson 1910; Müller 1974,
1983, 1988; Goldschmidt 1977 e il preziosissimo résumé in Goldschmidt
1981; Long 1986; Van der Waerdt 1987; Alberti 1995; Armstrong 1997; Mo-
rel 2000, 2007, 2015.
2
Cfr. DL X 119, senza dimenticare che questa secca formula è subito se-
guita da un egualmente forte richiamo allo οὐδὲ  τυραννεύύσειν; cfr. anche il
µμὴ  πολιτεύύεσθαι attestato da Cicerone (ad Att. XIV 20, 5=fr. 8 Us.) nonché
GV 58 (su cui vedi infra, pp. 194-195).
3
Cfr. il fr. 551 Us.; cfr. anche frr. 7-10, 133 e 552-560 Us. Una simile,
angusta prospettiva di lettura è del resto divenuta insostenibile dopo l’ottima
trattazione monografica di Roskam 2007. Sul carattere ‘situazionale’ più che
‘dogmatico’ di tali laconiche massime politiche epicuree cfr. Fish 2011, 98 e
ancora Roskam 2007, 36, 40-41 e 146.

 
192 Emidio Spinelli

sospendere il giudizio se non apertamente dubitare;4 allora do-


vremmo rispondere subito e senza esitazione: no, non è possibi-
le né pensabile che un epicureo possa in qualche modo dirsi e
presentarsi come cittadino o membro consapevolmente coinvol-
to di una comunità sociale storicamente data.
In questo contributo il mio intento sarà diverso e si muoverà
in direzione opposta, nel tentativo di ricostruire in modo coeren-
te e teoricamente stimolante i contorni delle idee di Epicuro
(senza entrare nel merito degli sviluppi successivi all’interno del
Giardino, riscontrabili ad esempio in Ermarco5 o, naturalmente,
nella trattazione poetica di Lucrezio 6 ) in merito a concetti-
chiave della dimensione politica (giusto, giustizia, legge, una
certa idea di cittadinanza). Tutto ciò sarà possibile grazie al-
l’analisi accurata del blocco compatto di quella «sorta di farma-
cia portatile»7 costituito dalle Massime Capitali (=MC) 31-408 o
                                                                                                               
4
Si pensi qui in primo luogo alle pagine, non certo neutrali, di un Cicero-
ne, impegnato costantemente non tanto a ‘capire e dissentire’ (cfr. Maso
2008), quanto piuttosto a dissentire ancor prima di capire, come accade in
modo palese, tanto per citare luoghi ben noti, in alcune pagine del Laelius o
del De legibus; cfr. anche la lunga trattazione in Roskam 2007, 49-69. Né si
può dimenticare la polemica a tutto campo che popola le pagine, anche in
questo caso non certo benevole, dei vari trattati anti-epicurei di quello che è
stato recentemente definito «a public-minded Platonist like Plutarch»
(Roskam 2018, 2).
5
Si pensi soprattutto al fr. 34 Longo Auricchio, su cui cfr. il ricco com-
mento in Longo Auricchio 1988, ad loc., nonché almeno Goldschimdt 1977,
287-297; Van der Waerdt 1988 e Obbink 1988.
6
Si vedano soprattutto alcuni versi significativi del quinto libro del De re-
rum natura (vv. 1013-1127 e 1105-1160), su cui cfr. in prima istanza Müller
1969; Nichols 1976; Furley 1978; Manuwald 1980; Fowler 1989; Roskam
2007, cap. 3; Asmis 2008; sul suo sguardo critico rispetto a determinate ten-
denze della politica romana a lui contemporanea cfr. anche Schiesaro 2007;
Fish 2011 e, su certe possibili inclinazioni ‘monarchiche’ dei Ciues Epicurei,
Benferhat 2005.
7
Cfr. Goldschmidt 1981, 293, sulla scia di quanto si legge in Cic. De fin.
II 7, 22; più in generale, sull’origine epicurea dell’idea per cui occorre avere
le dottrine fondamentali sempre a portata di mano, cfr. già Rabbow 1954,
124-130.
8
Sulla struttura delle Massime Capitali epicuree, intese «als zusam-
menhängender Text mit eigener Argumentationsstruktur», cfr. ora Essler
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 193

delle numerose sentenze dello Gnomologio Vaticano, al fine di


delineare il quadro complessivo di una ‘dottrina politica’ epicu-
rea, che si lascia apprezzare per la nettezza delle sue prese di
posizione e direi addirittura per la modernità di certe sue solu-
zioni, descritte da alcuni studiosi come forme embrionali o di
«contrattualismo politico» o di «contractarianism» o ancora di
«convenzionalismo giuridico»,9 etichette efficaci, ma applicabili
solo con cautela e con le debite qualificazioni alla dottrina epi-
curea del vivere associato.10

2. In prima istanza, va subito rilevato che, con estremo reali-


smo, Epicuro sembra proporre il raggiungimento di una stabile
situazione di sicurezza o ἀσφάάλεια reciproca fra gli uomini
(tutti, indistintamente e indipendentemente dalle loro convin-
zioni filosofiche) come il primo passo e la prima, ineliminabile
condicio sine qua non per la fattibilità stessa del suo messaggio
di salvezza.11 Questo è quanto emerge, a mio avviso, dalla MC
13, che suona così: «a niente era utile procurarsi sicurezza nei
confronti degli uomini finché rimanevano i sospetti e le paure
per le cose del cielo e dell’Ade e di ciò che avviene nell’infinito
mondo».12 La forza risolutiva del vangelo epicureo non viene
qui minimamente negata, anzi se ne ribadisce il valore liberato-
rio rispetto alle angosce che ci impediscono di vivere felici. La

                                                                                                                                                                                                                                   
2016. Si ricordi infine che l’intera collezione di tali Massime fu altamente ap-
prezzata da Luciano, il quale la presentò come τὸ  κάάλλιστον  τῶν  βιβλίίων
(cfr. Alex. 47).
9
Cfr. rispettivamente: Morel 2015; O’Keefe 2010, 139; Verde 2013a,
193.
10
Non si può inoltre sottovalutare il peso e il ruolo di alcune relazioni
personali, nonché palesemente cariche di forza politica, come ad esempio
quelle fra Epicuro e Mitre, su cui ricche informazioni si possono trarre dalle
Pragmateiai di Filodemo (cfr. perciò Militello 1997).
11
Sulla nozione di ἀσφάάλεια in ambito epicureo sempre valide restano
le pagine di Barigazzi 1983; cfr. anche Schofield 1999, 748-756 e Roskam
2007, 37-40.
12
Trad. Arrighetti 19732, 124, leggermente modificata.
194 Emidio Spinelli

presenza di un imperfetto (ἦν), tuttavia, non appare casuale.13


Essa sembra infatti scandire due tappe successive, la prima delle
quali ha a che fare con la costruzione di un sistema di sicurezza
potremmo dire esterna, che può e deve precedere la realizzazio-
ne della definitiva sicurezza interiore.14 Anche la MC 14, del
resto, si muove nella medesima direzione: «dopo aver ottenuto
la sicurezza rispetto agli uomini per la possibilità di avere fino a
un certo grado agiatezza e abbondanza, purissima (εἰλικρινε-­‐‑
στάάτη) diventa la sicurezza che proviene da vita serena e ap-
partata dalla folla».15 Oltre a sottolineare, già con l’uso signifi-
cativo del participio aoristo (γενοµμέένης), la priorità di un con-
trollo politico della vita associata al fine di garantire agio e per-
fino benessere economico, Epicuro sembra quasi voler declinare
πολλαχῶς, ο quanto meno in modo duplice, il concetto basila-
re della ἀσφάάλεια. Di essa si danno due accezioni: la prima
che si muove, inevitabilmente, sul terreno delle garanzie mini-
me necessarie per consentire il quotidiano commercio fra gli
uomini; la seconda che, fatte ormai salve quelle garanzie, può
dispiegarsi verso il pieno compimento del proprio piano indivi-
duale di vita, legato al godimento di una positiva bonaccia intel-
lettuale, di una ἡσυχίία, che può fare a meno dei πολλοίί e fug-
gire non solo la folla, ma anche la partecipazione attiva alla ge-
stione della comunità politica.
Qui nasce e si spiega, a mio avviso, il tanto citato (e vitupe-
rato) precetto epicureo del λάάθε   βιώώσας e l’altrettanto biasi-
mato (tanto nel mondo antico quanto oggigiorno) invito a non
invischiarsi nelle faccende politiche, perché, come lapidaria-
mente si legge in GV 58, grazie anche all’immagine immedia-
                                                                                                               
13
Sulla funzione dell’imperfetto all’interno della prosa epicurea cfr. Bre-
scia 1955, 58-61; per un interessante parallelo cfr. anche l’omelia di Basilio
di Cesarea sul primo verso del vangelo giovanneo (PG XXXI 472-481).
14
Utili osservazioni in proposito in Silvestre 1995.
15
Trad. Arrighetti 19732, 124, leggermente modificata Per la resa del-
l’espressione ἐξ   ἀνθρώώπων («coming from men» piuttosto che «against
men»), spesso utilizzata nelle Massime Capitali, rinvio alla lucida analisi di
Roskam 2007, 37-39.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 195

tamente costrittiva delle sbarre di una prigione, «bisogna libera-


re se stessi dal carcere (ἐκ   τοῦ   …   δεσµμωτηρίίου) delle occu-
pazioni e della politica»).16 Si tratta non di un divieto assoluto,
ma condizionato, qualificato e qualificabile tenendo sempre a
mente che vale per il secondo senso e per il secondo ambito del-
la ἀσφάάλεια da conquistare, mentre non vale più, anzi non de-
ve mai valere per il primo orizzonte di sicurezza, quello giuridi-
co e politico. Quest’ultimo va garantito a tutti gli esseri umani,
ma forse ancora di più e con forza ancora maggiore a quegli
specialissimi uomini che sono e saranno i saggi epicurei, affin-
ché non patiscano danno alcuno dalla conflittualità sociale la-
tente nelle comunità umane, visto che, come si legge in Stobeo
(anth. 43, 139=fr. 530 Us.), «si danno le leggi per i sapienti non
affinché essi non commettano ingiustizia, bensì affinché non la
subiscano».17 Né si dimentichi che un coinvolgimento politico
di tal genere, ben lontano dalla considerazione delle leggi come
un male, attestata invece nel caso degli Stoici (cfr. SVF III 324 e
599), sembra essere confermato, dalla tradizione biografica e al
massimo livello, prima di tutto per lo stesso Epicuro. Benché
infatti egli «per eccesso di equità neppure mise mano alla costi-
tuzione» (ὑπερβολῇ   γὰρ   ἐπιεικείίας   οὐδὲ   πολιτείίας   ἥψα-­‐‑
το), oltre a veder attestata «in generale la sua filantropia, che si
dispiegava verso tutta l'umanità», poi «ha sufficienti testimoni
della sua invincibile probità di sentimenti verso tutti: la patria
che l'onorò con statue di bronzo» (DL X 10 e 9), riconoscimento
difficilmente attribuibile a qualcuno che vivacchia nascosto o si
sottrae al πολιτεύύεσθαι.18
Nonostante tali considerazioni, sembra che i saggi epicurei
sentano forte il rischio e il timore legati a ciò che dall’esterno
                                                                                                               
16
Trad. Arrighetti 19732, 152, leggermente modificata Cfr. anche GV 67;
in alcune sue lettere, ad esempio ad Apelle o a Pitocle, Epicuro invita i suoi
discepoli a liberarsi anche da qualsiasi rischiosa dipendenza dall’erudizione o
dalla cosiddetta cultura enciclopedica: cfr. perciò i frr. 117, 163 e 22 Us.
17
In proposito cfr. anche Armstrong 1997, 326, n. 5 e Mitsis 2015, 134-
135.
18
Su questo punto cfr. le giuste considerazioni di Verde 2009.
196 Emidio Spinelli

può o potrebbe minacciare la loro serenità; ma proprio per que-


sto non restano inattivi, si prodigano anzi per organizzare al
meglio ogni aspetto della loro vita, anche di quella associata e in
comunità, così da poter tenere sotto controllo ciò che è possibile
dominare e da allontanare tutto ciò che arreca inevitabilmente
dolore.19 Non bisogna mai dimenticare, infatti, che «il fatto pri-
mitivo, in questa filosofia, non è affatto il piacere: è il dolore, e
il piacere non consiste in altro che nella cessazione di ogni dolo-
re».20
Si tratta di una strategia esistenziale complessa e articolata,
ben descritta nella MC 39:
chi le sue cose ha disposto nella maniera migliore contro l’inquie-
tudine che può provenire da cause esterne, costui ciò che è possibile se
lo rende affine, ma ciò che non è possibile non lo considera come as-
solutamente estraneo. Nei confronti di tutte quelle cose per le quali
neanche questo è possibile se ne tiene del tutto lontano e si serve di
tutto ciò che è utile per ottenere ciò.21

Un’espressione verbale che compare alla fine di questa mas-


sima (ἐλυσιτέέλει) ci porta in modo inequivocabile verso la
dimensione operativa e normativa che è a disposizione del sag-
gio epicureo per dare forma e ordine alla vita vissuta insieme ai
suoi simili: si tratta del concetto di utile, punto di riferimento
ineliminabile in virtù del quale costruire e mantenere il tessuto
sociale, visto che, per dirla con Orazio (Sat. I 3, 93), è ipsa utili-

                                                                                                               
19
Questo significa che il loro coinvolgimento politico è sempre relativo e
dettato da specifiche circostanze, quelle in cui il loro grado di sicurezza sia
eventualmente minacciato. Ciò non esclude che il saggio epicureo, in cir-
costanze diverse e meno pericolose, possa vivere lontano dai confini della
propria città di appartenenza e possa arrivare ad amare la campagna (il
φιλαγρήήσειν ricordato in DL X 120a=fr. 570 Us.) o perfino, se necessario,
mettersi al servizio di un monarca, naturalmente ἐν   καιρῷ, come si legge
ancora in DL X 121b (=fr. 577 Us.; su questo aspetto cfr. McConnell 2010).
20
Goldschmidt 1981, 294
21
Trad. Arrighetti 19732, 136, leggermente modificata.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 197

tas, iusti prope mater et aequi.22 Va evitata la possibile discor-


dia inter-personale né bisogna cedere a forme di volenza irra-
zionale, che rischierebbero di degenerare in una catena di ven-
dette e violenze dolorose e ben lontane da quel piacere che resta
sempre il faro ultimo degli sforzi comportamentali del saggio
epicureo. Egli si affida anzi alla forza della sua razionalità per
mettere a tacere ogni rischiosa degenerazione interna alla pro-
pria comunità,23 memore che «poca importanza ha la fortuna per
il sapiente, poiché le cose più grandi e importanti le ha già
preordinate il ragionamento, e per tutto l’intero corso della vita
le preordina e le preordinerà».24
La strada verso il piacere non è frutto di spontaneità o rozza
immediatezza; Epicuro predica una dottrina molto più raffinata,
che lascia uno spazio d’azione privilegiato al sobrio calcolo (il
νήήφων  λογισµμόός di Ep Men. 132),25 all’elaborazione raziona-
le della φρόόνησις (cfr. ancora ibidem), alla cauta commisura-
zione (συµμµμέέτρησις: Ep Men. 130), perfino alla coltivazione
condizionatamente controllata di ciò che è bello e dunque vir-
tuoso,26 nonché, infine, alla prassi solida della giustizia. Ecco

                                                                                                               
22
Né si può dimenticare che è già Cicerone a sottolineare con forza il val-
ore del principio della solida utilitas: Cic. De fin. I 21, 71-72 (=fr. 227 Us.),
su cui cfr. Verde 2016.
23
Non posso né voglio qui scendere nei dettagli della questione, sicura-
mente complessa e non facile da dirimere, relativa al carattere egoistico o al-
truistico dell’amicizia epicurea; mi limito dunque a menzionare alcune voci,
reciprocamente dissonanti: Arrighetti 1978; Gemelli 1978; Mitsis 1987;
O’Connor 1989; O’Keefe 2001a; Evans 2004; Brown 2009, 182-191.
24
MC 16, trad. Arrighetti 19732, 126, leggermente modificata. Si noti, ol-
tre alla continuità con alcune considerazioni di Democrito (cfr. DK 68 B
119), l’insistenza dei verbi διῴκηκε  καὶ  …  διοικεῖ  καὶ  διοικήήσει, che de-
clinano in tutte le scansioni temporali – passato, presente, futuro – l’unica
possibile provvidenza riconosciuta da Epicuro: non quella divina, ma quella
della ragione umana sviluppata al meglio dal σοφόός, terrena ed effimera sì,
ma validamente responsabile e produttiva; sul tema cfr. anche Verde 2013b.
25
Cfr. Erler 2010 e ora Verde 2018; si veda anche De Sanctis 2012.
26
Anche se Epicuro sa sputare su τὸ  καλόόν, quando esso non risponde ai
dettami rigorosi delle sue norme filosofiche, ma si nutre di false credenze,
senza alimentare il piacere: cfr. fr. 512 Us.
198 Emidio Spinelli

perché, come leggiamo nella MC 5, «non è possibile vivere feli-


ci se non si vive una vita saggia bella e giusta, né vivere una vi-
ta saggia bella e giusta senza viver felici. A chi manca ciò non è
possibile viver felice».27

3. L’orizzonte della vita felice include dunque esplicitamen-


te, per bocca di Epicuro, anche l’amministrazione di tutto ciò
che ricade sotto l’avverbio δικαίίως, soprattutto perché «il giu-
sto è tranquillissimo, l’ingiusto è pieno della più grande inquie-
tudine».28 Alla luce delle considerazioni precedenti e delle ne-
cessarie premesse interpretative di carattere più generale, è dun-
que giunto il tempo per affrontare da vicino e in dettaglio il mo-
do in cui egli organizza la sua riflessione sui temi del vasto am-
bito riconducibile alla politica, giocato soprattutto sull’intreccio
di ciò che è δίίκαιον, del ruolo da assegnare al νόόµμος, inteso
come una sorta di cristallizzazione operativa del diritto,29 e per-
fino della funzione da riconoscere a determinati assetti del pote-
re di governo, se è vero che, come leggiamo nella MC 6, «per
evitare di provare timore nei confronti degli uomini era30 un be-
ne secondo natura (κατὰ  φύύσιν  …  ἀγαθόόν) anche quello del

                                                                                                               
27
Trad. Arrighetti 19732, 122. Sulla centralità delle MC 5 e 6 cfr. anche
Goldschmidt 1981, 296; per una spiegazione chiara e utile della mutua impli-
cazione delle virtù in Epicuro cfr. inoltre Mitsis 2015, 105-107 e soprattutto
Warren 2014.
28
MC 17, trad. Arrighetti 19732, 126. Su questa massima, le sue radici
storiche e le sue implicazione filosofiche cfr. in primo luogo Clay 1972; cfr.
anche Mitsis 2015, 108. Né si dimentichi il titolo di un’opera perduta registra-
to nel catalogo laerziano degli scritti di Epicuro (DL X 28): Περὶ  
δικαιοσύύνης  καὶ  τῶν  ἄλλων  ἀρετῶν.
29
Sulla funzione paideutica di tutto ciò che viene ricompreso da Epicuro
sotto l’ambito ampio dell’avverbio δικαίως cfr. anche Longo Auricchio 1988,
143.
30
Ancora una volta un imperfetto (ἦν), a segnare insieme tanto una sorta
di priorità cronologica, quanto la continuità del risultato che viene a conden-
sarsi nella formulazione di ciò che è δίίκαιον: cfr. supra, n. 13, nonché GV
67, contro ogni forma di servilismo politico. Sulla MC 6 cfr. inoltre
McConnell 2010 e Verde 2013a, 194-195.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 199

potere e della regalità, sempre che per mezzo di queste cose si


potesse ottenere tanto».31
Sia come sia dell’attendibilità e della genuina provenienza
epicurea di queste tesi, sembra comunque trattarsi di una que-
stione che potrebbe indurre a leggere il pensiero politico epicu-
reo come condizionato dalla necessità di stabilire la fisionomia
di un più o meno ideale stato di natura.32 Benché mi paia diffi-
cile, perfino pericoloso e metodologicamente scorretto, retro-
proiettare in e verso Epicuro un simile schema di analisi degli
originari fenomeni associativi umani e benché di fatto non ci sia
fra i suoi testi alcuna esplicita teorizzazione di un tale stato di
natura, ciò non significa che Epicuro non mostri in più casi e
sotto diverse angolature, senza abbracciare alcuna forma di pri-
mitivismo e senza cavalcare alcun ‘mito del buon selvaggio’,33
un’attenzione speciale nel tratteggiare l’iniziale relazione con
gli altri (meglio: con gli altri non Epicurei) segnata da diffiden-
za e perfino da paura.34 Questi altri, gli altri non filosoficamente

                                                                                                               
31
Trad. Arrighetti 19732, 126, leggermente modificata. E se volessimo
sfruttare anche le conclusioni di Colote, per rafforzare quest’affermazione di
Epicuro senza dover cedere allo spirito polemico del testimone Plutarco, im-
pegnato a bollarle come οὐ  δικαίίως  οὐδὲ  ἀληθῶς alla luce di una superio-
re, platonica e decisiva idea di giustizia in sé (prestata indebitamente a ritroso
perfino a Parmenide, Eraclito e Socrate), potremmo ribadire che nella visione
epicurea della gestione politica «quelli, avendo disposto leggi e usi legali e
avendo stabilito il governo da parte di re e magistrati per le città, indirizzaro-
no la vita verso una grande sicurezza e pace e la allontanarono dai tumulti;
ma se qualcuno eliminerà queste cose, vivremo una vita da bestie e chi si im-
batterà in un altro non farà che danneggiarlo» (Plut. Adv. Col. 1124D, trad.
mia). In proposito cfr. soprattutto Roskam 2013; cfr. anche Goldschmidt
1977, 17-18, n. 4, nonché, per l’imbarazzo di Grozio nel riconoscere la pater-
nità epicurea di una simile posizione, ancora Goldschmidt 1981, 301-302.
32
Occorre tuttavia precisare che si tratta di una nozione e addirittura di un
neologismo, di cui si scuserà, molti secoli più tardi, Hobbes: cfr. il suo Levia-
tano, parte I, Dell’uomo, capp. 13 -16 e De cive, parte I, La libertà, capp. 1-4;
cfr. anche Goldschmidt 1981, 301 e Morel 2015, 579.
33
Cfr. soprattutto Morel 2015, 574 e Long, Sedley 1987, vol. 1, 136.
34
Si tratta di un elemento storicamente cogente per Epicuro, vista la si-
tuazione politica intorno a lui e poi messo in luce soprattutto da Ermarco: cfr.
200 Emidio Spinelli

convertiti al verbo epicureo, rappresentano una fonte di possibi-


le danno, di violenza, di sopraffazione. Anche se non sentiamo
echeggiare il ben noto homo homini lupus di hobbesiana memo-
ria (ma già evocato da Plauto: cfr. Asinaria, v. 495) e anche se
non troviamo la versione antica e primigenia del bellum omnium
contra omnes, si staglia sullo sfondo della rappresentazione del-
le prime comunità fornita da Epicuro un velo di timore, dettato
proprio dalla minaccia incombente di una guerra diffusa e subi-
tanea fra gli altri umani.35
Si tratta di un quadro negativo, che ben percepisce e rappre-
senta nei suoi versi, ad esempio, Orazio, quando scrive (Sat. I 3,
104-105): «[…] e da lì cominciarono a desistere dalla guerra, a
edificare città e stabilire leggi».36 Per por fine a questa situazio-
ne di conflitto si fa avanti la necessità di edificare solide città,
ma soprattutto di ricorrere allo strumento sedativo per eccellen-
za: la legge. Non dando vita a un apparato giuridico in grado di
contenere le pulsioni negative a compiere atti violenti, si espone
la comunità tutta intera al rischio di vedere minacciato o distrut-
to quello status che rappresenta davvero, agli occhi di Epicuro,
l’esigenza naturale di fondo: l’utilità reciproca, che deriva da
una condotta di vita sottratta alla possibilità di commettere o
peggio ancora di subire danno.37
                                                                                                                                                                                                                                   
il già citato fr. 34 Longo Auricchio, nonché più in generale Müller 1974, 38-
40.
35
Cfr. Goldschmidt 1981, 297: «è l’atto ingiusto che è primo, laddove il
diritto è solo una invenzione susseguente, destinata a riparare e, soprattutto, a
prevenire gli stati ingiusti». Per la posizione differente adottata soprattutto da
Lucrezio (VI, vv. 925-1457) rispetto all’origine di ciò che è giusto cfr. alme-
no Campbell 2003 e ora Robitzsch 2017, il quale, contro qualsiasi lettura pre-
hobbesiana della teoria del contratto sociale formulata da Epicuro, ne sottoli-
nea (in verità in modo non convincente) la concezione «dinamica» (ma cfr.
già Mitsis 2015, 128-132); contra si veda soprattutto Perelli 1966-1967.
36
[…] Dehinc absistere bello, oppida coeperunt munire et ponere leges.
Cfr. Goldschmidt 1977, 150-165, nonché Rochette 2001; utili osservazioni
anche in Degl’Innocenti Pierini 1992.
37
Si percepisce un cambio di accento, che segna verosimilmente la di-
stanza di Epicuro dal Socrate del Critone o del Gorgia: cfr. anche Gold-
schmidt 1981, 296.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 201

Da questo punto di vista, dunque, τὸ  δίίκαιον non è il risul-


tato di un accordo arbitrario e convenzionale, quanto meno non
nel suo atto germinale. Esso risponde invece ai dettami della na-
tura e può addirittura essere presentato come elemento che tutti
accomuna, lo stesso per tutti.38 Leggiamo infatti nella prima par-
te della MC 36: «dal punto di vista generale ciò che è giusto è
uguale per tutti: era39 infatti l’utile nella comunanza recipro-
ca». 40 Abbiamo qui una definizione inequivocabile di τὸ  
δίίκαιον, le cui radici affondano nella nozione di utilità, da cui
esso non può essere disgiunto, pena la negazione di ciò che la
φύύσις stessa pone come elemento cardine della gestione delle
vite tanto singole quanto associate. Se questo è il punto di rife-
rimento che dobbiamo adottare nel momento in cui cerchiamo
di erigere un edificio sociale che mantenga insieme gli uomini
senza l’assillo del bellum generalizzato, dobbiamo attenderci
che la sua effettiva strutturazione e il suo efficace impianto al-
l’interno delle varie comunità umane possa e debba passare per
uno sforzo ulteriore. Esso è affidato non più e non solo all’im-
mediatezza della naturalità, ma è piuttosto frutto di un’elabo-
razione raffinata e razionale, di un intervento saggio e dei saggi
(come sarà sottolineato tanto da Ermarco quanto da Lucrezio nei
loro resoconti genealogici sulla formazione delle prime associa-
zioni umane), capace di fornire una veste accettabile al rispetto
dell’esigenza imprescindibile dell’utile comune.
Questo è il senso da attribuire alla MC 31, che fiumi di in-
chiostro ha fatto versare: «Il diritto che dalla natura nostra è ri-

                                                                                                               
38
Su questo punto e in particolare sulla natura della πρόόληψις di τὸ  
δίίκαιον cfr. almeno Goldschmidt 1977, 25-41 e ora Tsouna 2016, 173; im-
portanti osservazioni anche in Morel 2000, 405ss.
39
Abbiamo ancora un imperfetto, ἦν, a collocare nel tempo primigenio la
presenza del criterio di ciò che è συµμφέέρον e a significare insieme la conti-
nuità del giusto, che permane essenzialmente/concettualmente lo stesso nel
tempo, sebbene, come vedremo, nelle sue estrinsecazioni storiche muti a se-
conda dei tempi e dei luoghi: su questo punto cfr. ancora Morel 2000.
40
Trad. Arrighetti 19732, 132, leggermente modificata.
202 Emidio Spinelli

chiesto41 è un simbolo dell’utile in vista del non fare né subire


danno reciprocamente» (trad. mia). Chi detta la norma di fondo
è la natura: essa indica il fine o se si vuole il limite invalicabile,
l’utile appunto, che scaturisce dalla neutralizzazione reciproca
di ogni velleità violenta nei confronti degli altri. Solo una volta
chiarito e compreso tale fine, solo allora sorge l’esigenza di
qualcosa che sia e si possa affermare come δίίκαιον, non a caso
presentato da Epicuro come un simbolo o se si vuole un segno,42
qualcosa che sta in luogo di qualcos’altro e da esso comunque
dipende.
Questo primo sorgere della nozione di giusto non resta inar-
ticolato e inerte, fisso e in se stesso identico una volta per tutte.
Se ciò vale κατὰ   µμὲν   <τὸ>   κοινόόν, diversa e assolutamente
più articolata si fa la modulazione del giusto quando esso si vie-
ne ad adattare ai singoli casi particolari. Come si legge nella se-
conda parte della MC 36, infatti, «dal punto di vista particolare,
invece, a seconda delle regioni e di quante altre cause entrino in
gioco, ne consegue che ciò che è giusto non è lo stesso per tutti»
(trad. mia).
Abbiamo un quadro non banalmente piatto e privo di sfuma-
ture, ma un processo, che sembra conoscere tre stadi, in un in-
treccio che sfugge all’alternativa secca fra νόόµμος e φύύσις di
sofistica memoria. L’approccio di Epicuro, infatti, «original in
its essence» e fondato sull’articolazione «tra natura comune e
natura propria dell’agente, che si tratti dell’individuo o della
comunità»,43 recupera entrambe quelle prospettive, integrandole
in una soluzione che non si potrebbe definire né radicalmente
naturalistica né unicamente convenzionalistica. Di questi tre
                                                                                                               
41
Traduco o meglio interpreto così il genitivo τῆς  φύύσεως, dal momento
che il medesimo valore va dato all’espressione in altri luoghi epicurei, come
ad esempio nel caso di ὁ  τῆς  φύύσεως  πλοῦτος, in MC 15; cfr. anche GV 59
e Cic. De fin. I 13, 45. Più in generale, per alcune utili considerazioni sulla
nozione di φύύσις in Epicuro, cfr. Müller 1969 e 1983, nonché Mitsis 2015,
125, n. 3.
42
Per ulteriori dettagli cfr. Goldschmidt 1977, 27-28.
43
Cfr. rispettivamente Long, Sedley 1987, vol. 1, 135 e Morel 2015, 582.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 203

stadi, il primo si dà naturaliter e fissa per tutti il fine dell’utile


nelle transazioni reciproche; il secondo si produce per interven-
to convenzionale e dà luogo, fissandolo in forma simbolica, alla
nozione generale del giusto;44 il terzo declina πολλαχῶς tale
concetto generale, tenendo conto delle variazioni che si possono
verificare a seconda dei luoghi, dei tempi, dei popoli, più in ge-
nerale della relatività delle condizioni storiche.
Si tratta di una presentazione del giusto che non può né deve
stupire chi abbia presenti altre trattazioni epicuree di nozioni
ugualmente decisive per la definizione dell’evolversi della civil-
tà umana. Come molti studiosi hanno giustamente sottolineato,
infatti, anche quando Epicuro espone la sua idea di linguaggio
offre un resoconto che si articola in tre stadi: il primo di totale
naturalità, con l’attribuzione di nomi alle cose per processi fona-
tori immediati e ‘fisici’, soprattutto per onomatopea; il secondo
che si apre all’intervento convenzionale e alla capacità di preci-
sazione del ragionamento, in grado di fissare in modo comune
etichette linguistiche arbitrarie, per facilitare gli scambi comu-
nicativi; infine, una terza tappa, la più raffinata di tutte, che gra-
zie all’intervento di uomini particolarmente esperti, di σοφοί
dunque, giunge a coniare nomi ed espressioni verbali perfino
per ciò che si sottrae al dominio delle sensazioni e della visibili-
tà, per i concetti astratti diremmo noi.45

4. I dettagli del quadro politico che a poco a poco comincia a


emergere dai testi esaminati, sottratto alle malevole rappresen-
tazioni di testimoni avversi o peggio ostili e restituito agli ipsis-
sima verba di Epicuro, si fanno ancor più chiari e ricchi grazie
ad altri passi, sempre affidati alla raccolta comunicativamente
                                                                                                               
44
Come scrive Morel 2015, 580: «il giusto è ‘comune’, vale a dire proprio
di una comunità; non è dunque universale. E non per questo è meno naturale,
poiché si fonda in ultima istanza sull’utile».
45
Cfr. Ep. Hdt. 75-76, con il commento in Verde 2010, 215-220; cfr. an-
che Morel 2015, 580, nonché più in generale Verlinsky 2005; contra cfr. in-
vece Alberti 1995, 170-171 così come Müller 1969 e Goldschmidt 1977, 166-
169.
204 Emidio Spinelli

efficace delle Massime Capitali. Così il concetto di σύύµμβολον


evocato dalla MC 31 assume contorni più precisi, nel momento
in cui esso viene assimilato a un vero e proprio patto
(συνθήήκη), di cui Epicuro fornisce le caratteristiche cruciali.
Giusto e ingiusto, glossa in proposito la MC 32, non hanno ra-
gion d’essere se non sullo sfondo di una consapevole e convinta
(nonché razionale e razionalmente sviluppata) capacità di ac-
cordo, volta in modo reciproco a non ricevere né recare danno.
A tal proposito mi sembra opportuno riportare per esteso il testo
della MC 32: «Per tutti quegli animali che non potevano stringe-
re patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non
esisteva né il giusto né l’ingiusto, altrettanto per tutti quei popo-
li che non potevano o non volevano porre patti per non ricevere
e non recare danno».46
Tali fondamenti della gestione politica sono immaginabili
solo laddove sussista la volontà di stabilire un patto, dove in-
somma il lavorio del λογισµμόός sappia creare le condizioni di
una mutua intesa e del mutuo riconoscimento di un pari diritto
al godimento dell’utile reciproco. Essi non potranno perciò tro-
vare attuazione né fra gli animali, che di tale razionalità giuridi-
camente costruttiva sono privi,47 né fra quei popoli che non po-
terono (forse per contingenti ragioni storiche?) o non vollero
(per un’abdicazione alla forza costruttiva della ragione? i popoli
barbari dunque?) dar luogo a patti (τὰς  συνθήήκας  ποιεῖσθαι).48
Laddove poi si voglia passare dal riconoscimento dell’esi-
stenza di τὸ  δίίκαιον come frutto di un’esigenza naturale e na-
turalmente radicata nel nostro perseguimento dell’utile recipro-
co, alla nozione più ampia, ma insieme operativamente più forte
sul piano delle dottrine politiche, di giustizia o δικαιοσύύνη (il
                                                                                                               
46
Trad. Arrighetti 19732, 132, leggermente modificata.
47
Cfr. in proposito le precisazioni che più tardi fornirà Ermarco: Porph.
De abst. I 12, 5-6.
48
Non si può escludere che qui influiscano molto gli eventi storici dell’età
ellenistica, dove il νόόµμος ha perso una funzione strettamente normativa con-
sequenziale all’attività della πόόλις, visto che ormai le leggi sono direttive,
imposizioni derivanti da un potere centrale: cfr. su ciò Verde 2018.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 205

cui frutto massimo sarebbe addirittura l’ἀταραξίία: cfr. fr. 519


Us.), la posizione di Epicuro si fa ancor più netta e si colora an-
che di un tono polemicamente anti-platonico.49 Come si legge
nella MC 33, infatti, «la giustizia non esisteva come qualcosa
per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei
luoghi dove si stringe un patto di non recare né di ricevere dan-
no».50 Mi preme far notare per l’ennesima volta l’occorrenza di
un imperfetto, ἦν: esso, piuttosto che indicare «what always
holds good»,51 sancisce, al di là e oltre la naturalità del giusto,
inteso come l’utile reciproco, condensato come vedremo in una
vera e propria prolessi, la non originaria naturalità, il non essere
φύύσει della δικαιοσύύνη, dunque il suo carattere derivato, il
suo essere venuta in luce dopo e grazie a un intervento stipulato,
convenzionale, perfino se si vuole arbitrario.52
Una volta stabilita l’equivalenza del giusto con un patto reci-
procamente sancito, 53 non sembrano tuttavia appianati tutti i
problemi legati ai rischi del vivere associato. Cosa accade infatti
se qualcuno, pur avendolo in linea di principio ammesso e ac-
colto, decide di rompere quell’accordo e di comportarsi non ri-
spettando i vincoli del patto? Basta la semplice enunciazione
delle norme del diritto a garantirci dalla sopraffazione e ad assi-
curaci il godimento dell’utile? O questi fini auspicabili e chia-
ramente indicati dalla φύύσις stessa vanno difesi e conservati,
                                                                                                               
49
Cfr. ad esempio resp. 2, 358b o 4, 443a-c; si potrebbero citare anche
molti altri passi: in generale cfr. Mitsis 2015, 123.
50
Trad. Arrighetti 19732, 132, leggermente modificata.
51
Pace Long, Sedley 1987, vol. 1, 130.
52
Tale particolare nozione di giustizia è stata letta da alcuni interpreti in
piena continuità con quella difesa da Glaucone nella Repubblica di Platone
(2, 358e-360e): cfr. in particolare Denyer 1983; per una lettura diversa cfr.
tuttavia Long, Sedley 1987, vol. 1, 135; Annas 1993, 293-302; O’Keefe 2010,
139; infine, per una più ampia rilettura della posizione di Glaucone, utilissime
restano le pagine di Vegetti 1998, 151-172.
53
O addirittura, come sarà chiaro nel resoconto genealogico di Ermarco,
con una sorta di costruzione saggiamente imposta da una ristretta élite, non
violentemente ma tramite insegnamento, volta dunque a generare un consen-
sus: su questo punto utili osservazioni si leggono in Goldschmidt 1981, 307-
308.
206 Emidio Spinelli

grazie all’instaurazione di un diritto positivo stricto sensu, che


si presenti nella veste anche costrittiva della legge, come nega-
zione del torto?54
Per far funzionare la macchina giuridica occorre affiancare a
essa l’istituto operativo e operante della pena. Come non esiste
una giustizia in sé, riconoscibile, afferrabile, seppur con fatica, e
‘scaricabile’, per così dire, dall’empireo cielo dei paradigmi
eterni e perenni, così non si può pensare che l’ingiustizia sia un
disvalore assoluto, perché anch’essa si lega al contesto concreto
della violazione effettiva di ciò che è stato posto come giusto.55
La MC 34 è chiarissima, in proposito: «l’ingiustizia non è un
male di per sé, ma per il timore che sorge dal sospetto (ἐν   τῷ  
κατὰ  τὴν  ὑποψίίαν  φόόβῳ) di non poter sfuggire a coloro che
sono preposti alla punizione di tali azioni».56
La trasgressione del patto non si presenta come un atto di
malvagità in sé; ciò che la caratterizza negativamente è piuttosto
il fatto che a essa si accompagna sempre e comunque il πάάθος
negativo del sospetto, la condizione di ὑποψίία, terribile per un
epicureo,57 e legata al φόόβος, quella paura che mai può essere
disgiunta dalla consapevolezza che esiste una pena contro la tra-

                                                                                                               
54
Si potrebbe pensare al kantiano Zwang, alla sua coercizione legale o
Obligation esterna? Per opportuni rinvii a passi significativi della Metaphysik
der Sitten di Kant o ancora ad alcune pagine dei Parerga di Schopenhauer
cfr. Goldschmidt 1981, 312-313. Né si dimentichi che Epicuro, ammaestrato
anche da una realistica considerazione delle vicende storiche passate e ancor
più da quelle a lui ben presenti del suo tempo politicamente incerto e spesso
crudelmente instabile (come ben attesta una notazione inserita nella sezione
biografica della Vita di Epicuro in Diogene Laerzio, X 10: καὶ  
χαλεπωτάάτων  δὲ  καιρῶν  κατασχόόντων  τηνικάάδε  τὴν  Ἑλλάάδα), non
sembra avere dubbi, poiché, come ha scritto giustamente Goldschmidt 1981,
313, c’è in lui «un approccio fenomenologico che scopre l’effettualità come
elemento costitutivo del diritto». Per un’accurata panoramica riassuntiva cfr.
anche Morel 2007.
55
Utili osservazioni in proposito in Cosenza 1996.
56
Trad. Arrighetti 19732, ibidem Cfr. anche Cic. De fin. I 50 (sul ruolo
cruciale della suspicio) e 53, nonché Lucr. IV 1018-1019 e 1154-1160.
57
L’enorme forza del sospetto, inteso come devastante passione da estir-
pare, emerge ad esempio in modo chiarissimo nella MC 11.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 207

sgressione stessa e soprattutto qualcuno che è legittimamente


preposto ad applicarla, con una forma di persecuzione del mi-
sfatto, che non ha termine se non nel momento in cui quest’ul-
timo viene scoperto e sanzionato.58 Agli occhi di Epicuro, la
presenza di questo invalicabile muro, quello di un diritto positi-
vo costantemente effettuale ed effettuato, contro chi pretende di
sfuggire al patto e anzi di spezzarlo unilateralmente, rappresenta
il deterrente sommo rispetto a ogni possibile azione ingiusta.
Come leggiamo nella MC 35, infatti, «chi opera nascostamente
ai patti stipulati reciprocamente per non fare né ricevere danno
non può fidare di rimanere nascosto, anche se per il presente in-
finite volte vi riesce. Non è infatti sicuro che riuscirà a occultar-
si fino alla morte».59 Non serve al fondatore del Giardino invo-
care la coscienza del rimorso e la vergogna di fronte a se stessi
(che pure alcune fonti sembrano attribuirgli, quasi in continuità
con quanto avevano fatto prima di lui un Democrito o un Socra-
te); né gli occorre far ricorso alla finzione degli dèi quali garanti
occulti, ma perenni e perennemente attivi, della punizione dei
malvagi (come piaceva inventare all’autore del Sisifo, sia o me-
no costui da identificare con il ben noto zio di Platone, Crizia);
né per lui ha peso o forza alcuna la favola dell’anello di Gige,60
né infine gli occorre agitare lo spettro di un tribunale dell’Ade
pronto a giudicare i peccati delle anime empie (come poteva
‘miticamente’ argomentare Platone, ad esempio nella chiusa del
Gorgia). Restando ben solidamente e realisticamente ancorato a
                                                                                                               
58
Su questo punto, al di là del disaccordo di Seneca (cfr. fr. 531 Us.), si
veda Silvestre 1995; alcune utili considerazioni anche in Seel 1996 e soprat-
tutto in Roskam 2012. Per una differente lettura cfr. invece Philippson 1910,
301-302 e Clay 1972.
59
Trad. Arrighetti 19732, ibidem.
60
E ciò nonostante la malevola ricostruzione proposta da Plutarco (Adv.
Col. 1127D=fr. 18 Us.), dove si legge che Epicuro «domanda a se stesso nei
Casi Dubbi: ‘compirà il saggio qualche azione di quelle che le leggi vietano,
se saprà che la cosa rimarrà nascosta?’ E risponde: ‘non è facile dare una ri-
sposta univoca’, vale a dire: ‘lo farò, ma non voglio ammetterlo’ …»; su que-
sto passo cfr. soprattutto Roskam 2012; O’Keefe 2010, 142-145, nonché De-
nyer 1983, 145-146.
208 Emidio Spinelli

una sorta di lucida ‘psicologia dell’agire quotidiano’,61 Epicuro


si fa forte non solo della fiducia nell’apparato esterno costituito
dalle costrizioni legali, che segnano i confini della legittimità
giuridica, ma anche e soprattutto del peso che gioca su ciascuno
di noi il sospetto, il timore, l’incertezza, la paura di non riuscire
a tener celate per sempre le proprie azioni ingiuste e le conse-
guenze che da esse derivano.62 Così, secondo lui, «è difficile per
chi commette ingiustizia restar nascosto; averne poi fiducia è
impossibile».63
Rendere così forti e operativamente efficaci le leggi e l’appa-
rato sanzionatorio che le amministra,64 però, non significa tra-
sformare τὸ  δίίκαιον in un adamantino e intoccabile sistema di
riferimento per la gestione della vita associata. Come abbiamo
già visto, infatti, la nozione di giusto (e di ingiusto) si mostra
duttile e cede al condizionamento storico legato a tempi e luoghi
diversi. Questo significa in primo luogo che non può esistere un
codice di leggi e norme valido una volta per sempre, sottratto al
mutamento; né si può pensare che un intervento giuridico-le-
gislativo sia esente di per sé dall’errore o dall’inefficacia: pro-
mulgare una legge non significa automaticamente renderla vali-
da tout court e senza restrizioni o controlli. Ammettiamo ad
esempio, come si legge nella MC 37, che quella legge, pure san-
cita secondo tutti i crismi formali ed esteriori del diritto vigente
(secondo quanto lascia supporre la costruzione verbale usata:
τῶν   νοµμισθέέντων   εἶναι   δικαίίων), ad un certo punto «non
risulti conforme all’utile dei rapporti reciproci»: cosa accadrà
                                                                                                               
61
Di «sober realism» rispetto alla posizione filosofica generale di Epicu-
ro, non solo rispetto alla politica, parla anche Roskam 2018, 23.
62
Come precisa Goldschmidt 1981, 314: «il morsus conscientiae è così
sostituito, più efficacemente, dal timore permanente del castigo»; cfr. anche
Long, Sedley 1987, vol. 1, 130.
63
GV 7, trad. Arrighetti 19732, 140. Cfr. perciò Clay 1972 e ulteriori rin-
vii bibliografici in Essler 2016.
64
In aggiunta si dovrebbe sempre ricordare che «law, unlike the contract
against harm, seems always to have been associated with sanctions»
(Armstrong 1997, 328); utili osservazioni in proposito in O’Keefe 2001b; cfr.
anche Konstan 1973, 45.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 209

allora? Poiché essa si muove ora sul piano del mero arbitrio,
scisso da ogni fondamento naturale, essa, continua il testo epi-
cureo, «non ha più la natura del giusto».65
Detto in un altro modo, sempre ricordandosi di εἰς   τὰ  
πράάγµματα   βλέέπειν e facendo ricorso a terminologia di casa
nell’epistemologia epicurea, esplicitamente utilizzata sempre
nella MC 37: fino a quando il contenuto di una legge e l’azione
giusta che essa prescrive trovano conferma (l’espressione verba-
le è inequivocabile: τὸ µὲν ἐπιµαρτυρούµενον) nell’utilità arre-
cata ai rapporti reciproci fra i membri di una comunità politica,
fino a quel punto quella legge deve legittimamente essere inseri-
ta nella sfera di τὸ δίκαιον. Il ripetersi continuo di una prassi
giusta, sancita da quella legge e finché essa tale resta, inoltre,
determina un fenomeno ben noto a chiunque abbia frequentato
la canonica epicurea, poiché produce, grazie alla conservazione
nella memoria di percezioni ripetute di quell’atto, una vera e
propria prenozione o πρόληψις, che si rafforza qualora venga
salvaguardato l’utile nella comunanza dei rapporti reciproci e
che costituisce così un solido criterio di valutazione della validi-
tà della legge stessa.
Questo complesso meccanismo, legato al mutare delle circo-
stanze storiche, viene descritto accuratamente nella MC 38, che
vale la pena leggere per esteso:
Quando, non essendo mutate le circostanze, quelle cose sancite come
giuste dalla legge si rivelano nella pratica non conformi alla prenozio-
ne del giusto, vuol dire che esse non erano giuste. Quando poi, essen-
do mutate le circostanze, quelle medesime prescrizioni che erano giu-
ste non sono più utili, in tal caso erano giuste allora quando erano utili
per la vita in comune dei concittadini, ma più tardi non erano più giu-
ste quando si rivelarono non più utili.66

                                                                                                               
65
Su tale distinzione fra legge e giustizia insiste soprattutto il lavoro di
Alberti 1995, la quale aggiunge anche che «utility is regarded as the criterion,
not for a law’s existence, but for its validty» (ivi, 176).
66
Trad. Arrighetti 19732, 134.
210 Emidio Spinelli

Il banco di prova, come si può notare immediatamente, è


sempre il mantenimento dell’utile, che rappresenta la condizio-
ne basilare per garantire la sicurezza a chiunque entri a far parte
di un aggregato sociale. Solo che, agli occhi di Epicuro, esisto-
no due modi per far sì che la ἀσφάάλεια appena menzionata e
più o meno faticosamente raggiunta dia frutti.
Da una parte67 ci sono alcuni uomini che la considereranno
pensabile e praticabile se e solo se essa si accompagna alla con-
quista della fama e del potere, ingredienti ritenuti indispensabili
per mettersi al riparo da tutti gli altri uomini,68 senza tuttavia
considerare il carattere aleatorio e pieno di turbamento proprio
di ogni posizione politica di potere, esposta a oscillazioni e ca-
dute spesso rovinose.69 Dall’altra ci sono altri uomini, cioè quel-
li che si sono incamminati lungo la strada segnata dalla dottrina
epicurea, che considerano la sicurezza raggiunta grazie al patto
reciproco di non recare né subire danno solo come il primo gra-
dino di un percorso esistenziale più ampio e ricco di altre soddi-
sfazioni.
Costoro sono gli Epicurei in atto, coloro che «hanno avuto la
possibilità di mettersi in stato di non avere, per quanto è possibi-
le, a non temere nulla da parte dei vicini» e che dunque ora «vi-
vono insieme la vita più piacevole, sostenuti dalla fiducia più
salda, e dopo aver goduto gli uni con gli altri la più ampia fami-
liarità, non piangono come degna di commiserazione la dipartita
di colui che li ha preceduti nella morte».70 Essi non rifiutano
dunque in senso assoluto la politica e tutto ciò che essa rappre-

                                                                                                               
67
Riassumo e parafraso, in questo capoverso, quanto si legge nella MC 7:
per un’interpretazione attenta e utile di tale massima, fortemente legata alle
MC 6 e 14, cfr. ora Roskam 2018, 16-18.
68
Spunti interessanti in proposito si leggono in Arrighetti 1970.
69
Si tratta di una prospettiva negativa duramente criticata, in seguito, an-
che da Lucrezio (V 1105-1157), «but without entertaining the theoretical pos-
sibility that such a life could achieve ἀσφάάλεια» (Long, Sedley 1987, vol. 2,
131).
70
MC 40. Mi servo qui dell’efficace traduzione di Diano 1987, 75; cfr.
anche Armstrong 1997, 325.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 211

senta, ma non accettano l’idea di considerarla il fine ultimo del-


l’agire umano, relegandola piuttosto al rango di mezzo utile alla
neutralizzazione di determinati rischi sociali e funzionale alla
migliore realizzazione di un obiettivo altro e più alto: quello
della vita felice, in spirito di φιλίία, all’interno della cerchia ri-
stretta e privilegiata del Giardino.

5. Nel momento in cui entra in gioco l’orizzonte della φιλίία


ci spostiamo su di un piano diverso, che non è neppure possibile
qui sfiorare in tutti i suoi ricchi dettagli, ma la cui peculiarità
può essere almeno sommariamente descritta in questi termini: la
forza valoriale dell’amicizia rispetto alla politica si gioca an-
ch’essa sulla garanzia dell’utilità, ovvero sul fatto che la φιλίία  
sa offrire aiuto, solidarietà, soccorso in qualsiasi istante e in
qualsiasi situazione, sottraendosi dunque alle incertezze e ai ro-
vesci di questo o di quel regime di governo o forma istituzionale
di amministrazione. Mentre però il diritto e il patto che lo tra-
sforma operativamente in norma di condotta esterna costitui-
scono in senso negativo i confini di un agire politico che si
svolge sempre, per così dire, sulla difensiva e a salvaguardia di
una sicurezza concordata a fatica più che condivisa con entusia-
smo, lo slancio che sostiene gli amici epicurei trasforma la co-
munità che lo mette in atto in un baluardo, la cui sicurezza è
quasi una sorta di concausa necessaria per raggiungere la vera
felicità.
Alla luce di questa nuova e incommensurabilmente altra di-
mensione etica aperta dalla condivisione dei vincoli della φιλίία  
possiamo forse concludere quasi proiettandoci verso quello che
Epicuro avrebbe considerato come il migliore dei mondi possi-
bili, cioè verso quella condizione ideale che un suo più tardo e
fervente discepolo, Diogene di Enoanda, immagina e dipinge in
un suo frammento con toni quasi elegiaci:
allora veramente la vita degli dei si trasferirà agli uomini. Ogni cosa
sarà infatti piena di giustizia e reciproca amicizia, e non si genererà
212 Emidio Spinelli

più il bisogno di mura o leggi e di tutte le cose cui noi mettiamo mano
l’uno a vantaggio dell’ altro. […].71

Immaginiamo dunque che lo stesso Epicuro si trovi all’im-


provviso a poter stendere il suo sguardo su tale comunità umana
vagheggiata da Diogene di Enoanda e composta tutta e indistin-
tamente da suoi discepoli, da Epicurei permeati per intero dai
dogmi del suo vangelo laico.72 In una simile condizione ideale
una domanda si impone: ci sarebbe bisogno o perfino stringente
necessità di sancire ciò che è giusto o di fissare ciò che vale per
legge? O, più in generale, ci sarebbe spazio per una qualsivoglia
forma di νόόµμος?73
Credo che la risposta a questo interrogativo non potrebbe che
essere secca e decisa: se si desse quella condizione ideale de-
scritta nel frammento diogeniano, le relazioni interpersonali sa-
rebbero rette da vincoli che affondano le proprie radici in una
totale sintonia ‘ideologica’ e che mettono capo alla comune rea-
lizzazione di una vita piacevole e dunque felice, allietata da quel
bene supremo che, appunto, è la φιλίία.74 Poiché tuttavia un si-
                                                                                                               
71
Diog. Oen. Fr. 56 Smith= NF 21, 1, 4-12, trad. mia. Il testo greco è il
seguente: τόότε   ὡς   ἀληθῶς   ὁ   τῶν   |   θεῶν   βίίος   εἰς   ἀνθρώώπος   |   µμετα-­‐‑
βήήσεται.  δικαιο|σύύνης  γὰρ  ἔσται  µμεστὰ  |  πάάντα  καὶ  φιλαλληλίίας,  
|   καὶ   οὐ   γενήήσεται   τειχῶν   |   ἢ   νόόµμων   χρείία   καὶ   πάάν|των   ὅσα  
δι᾽ἀλλήήλους   σκευωρούύµμεθα. [...]; cfr anche l’analoga posizione di
Ermarco in Porph. de abst. I, 8.4 e, molto prima di Democrito, DK 68 B 245.
La metafora delle mura solide era molto apprezzata da Epicuro: cfr. ad
esempio la sua applicazione a quell’evento cruciale, ma destituito di ogni
angoscia, che è la morte in GV 31.
72
Sulla posizione di Diogene di Enoanda, forse consapevolmente impe-
gnato ad adattare l’epicureismo al proprio Zeitgeist, oltre a consultare in pri-
ma battuta Smith 1993, 140-141 e 504 (con ulteriori rinvii bibliografici), cfr.
soprattutto Morel 2000, 399, n. 38; Morel 2015, 577-578; cfr. anche recente-
mente Morel 2017, 233-237, dove si sottolinea il carattere ipotetico del
frammento diogeniano piuttosto che il suo riferirsi a un tempo futuro e a veni-
re.
73
Può una simile posizione (ovviamente mutatis mutandis) essere acco-
stata a quella difesa da Platone nella Repubblica? Cfr. in tal senso Erler 2017,
59-65; più in generale sulla complicata relazione fra il saggio epicureo e le
leggi cfr. Roskam 2012.
74
Utili osservazioni in merito si leggono in Salem 1989, 133-174.
Norme giuridiche, partecipazione politica e scelte filosofiche 213

mile stato beato, un tale Eden di felicità non si dà (non si dà an-


cora? o forse non si darà mai?), occorre mettere in campo quegli
strumenti politici, lato sensu, che abbiamo precedentemente de-
scritto. Essi si rivelano efficaci per garantire non solo, e non
tanto, la suprema e assoluta tranquillità del singolo, non più
scalfita dai rischi della paura e dell’angoscia interiori, ma anche,
e soprattutto, qui e ora, la sicurezza sufficiente per poter vivere
insieme e far prosperare il singolo insieme e non contro gli al-
tri.75

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75
Una prima versione di questo contributo è stata presentata a Roma, il 4
gennaio 2016, in occasione del XV Colloquio internazionale “nómos-lex”,
organizzato dall’ILIESI-CNR, nei cui Atti essa sarà a breve pubblicata.  
214 Emidio Spinelli

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220 Emidio Spinelli

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ENRICO PIERGIACOMI

I PIACERI DEL CITTADINO EPICUREO.


CITTADINANZA E VIRTÙ IN LUCIO MANLIO TORQUATO

La tesi dell’inseparabilità di virtù e piacere è una delle dot-


trine più complesse della morale epicurea. Epicuro si espresse in
termini molto netti su questo punto nel § 132 dell’Epistola a
Meneceo, 1 sancendo che è impossibile vivere piacevolmente
senza la saggezza e tutte le altre ἀρεταίί che discendono da es-
sa. Filodemo fungerà da eco efficace del maestro, e tuttavia darà
un elenco più esaustivo dei comportamenti morali che vanno as-
sunti per condurre una vita beata. Infatti, se Epicuro si limitò a
dire, nel passo dell’Epistola a Meneceo appena ricordato, che la
felicità si ottiene vivendo secondo saggezza, onestà, giustizia, il
discepolo aggiungerà che bisogna anche praticare il coraggio, la
continenza, la magnanimità, l’amicizia, la filantropia e, in gene-
rale, tutte le altre virtù.2 Tale distinzione non va vista come
un’innovazione di Filodemo. Epicuro riteneva senza dubbio che
coraggio e amicizia sono virtù indispensabili per ottenere il pia-
cere, o per estensione la vita felice.3 Si tratta solo di una diffe-
                                                                                                                       
1
Cfr. pure la RS V, i testi dei frr. 22, 1-4 Arr2. del trattato Sul fine, Cic. De
fin. I 13, 42 e il parallelo parziale del POxy. 5077, fr. 1, col. 1 (ed. Angeli
2013). L’ultimo testo riporta che i precetti di Epicuro fanno vivere virtuosa-
mente, piacevolmente, beatamente (καλῶς,   ἡδέέως,   µμακαρίίως). Sulla dot-
trina, cfr. almeno Heßler 2014, 281-293, Mitsis 2014, 103-108.
2
Cfr. Philod. De elect. col. 14, 1-8, con Indelli, Tsouna 1995, 177-179, e
Armstrong 2011, 124-126.
3
Per la φιλίία, cfr. Epic. GV 23 nella sua versione manoscritta (Πᾶσα  
φιλίία  δι'ʹ  ἑαυτὴν  ἀρετήή), accolta i.a. da Konstan 2007, 119. Usener correg-
geva ἀρετήή  in  αἱρετήή. Long 1986, 303-304, vede poi un implicito riferimen-
to alla virtù dell’amicizia nel καλῶς di Ad Men. 132. Sul coraggio, cfr. inve-
ce Diog. Laert. X 120.

 
222 Enrico Piergiacomi

renza di dettaglio, poiché la dottrina resta esattamente la mede-


sima nel maestro e nel discepolo.
Varrebbe la pena di indagare sistematicamente quante e quali
siano le virtù che discendono dalla saggezza o φρόόνησις. In
questa sede, affronterò però solo il problema che segue. Epicuro
e Filodemo avrebbero potuto includere tra le varie virtù insepa-
rabili dal piacere anche quella di essere un buon cittadino?
Va detto subito che i testi degli Epicurei a noi giunti non
menzionano mai un’ἀρετήή del genere, né un suo legame con la
saggezza. L’unico testo lontanamente avvicinabile consiste nella
col. 17 del PHerc. 1004, contente un libro della Retorica di Fi-
lodemo, che però attestano che quest’ultimo attaccò la tesi di
Diogene di Babilonia, secondo cui solo lo Stoicismo trasforma
gli altri in buoni cittadini, facendo il contro-esempio di Pericle,
che fu buono senza aver appreso la dottrina stoica.4 Il documen-
to è certo interessante. Purtroppo, esso ci dice che un’eventuale
ἀρετήή del πολίίτης   è stata definita male dagli Stoici, non già
che cosa essa sia per un Epicureo.
La tradizione filosofica antecedente a Epicuro aveva tuttavia
affrontato il tema della virtù del cittadino. Parlando molto gene-
ricamente, si nota che già Solone trovava che obbedire fedel-
mente ai governanti fosse la condotta moralmente retta del
πολίίτης.5 Protagora e Gorgia attribuivano al cittadino maschio,
adulto, libero un’ἀρετήή, che si estrinseca nell’educazione dei
giovani e nella gestione degli affari della città.6 Platone aveva
poi argomentato che il πολίίτης virtuoso è colui che accetta di
svolgere i suoi propri compiti nella πόόλις e di obbedire a chi gli
                                                                                                                       
4
Cfr. il testo edito da Cappelluzzo 1976, 70. Per la polemica con Diogene
di Babilonia, cfr. le colonne della Retorica edite da von Arnim 2006 nei frr. di
SVF III [DB] 117-126.
5
Ciò è a quanto si può almeno evincere dai frr. 3 (vv. 30-39), fr. 8 e 35 di
Gentili, Prato 1988. Con qualche cautela in più, poiché si tratta di fonti tarde
o sospette, cfr. anche i testi 179 (= Stob. IV 1, 89) e 643 (= Themist. Or. 34,
3) di Martina 1968.
6
Cfr. Plat. Prot. 319 d 7-e 3 e 342 c 5-d 1 (om. Prot. 80 DK) e Men. 71 d
4-e 5 (= Gorg. 82 A 21 DK). Sul pensiero politico dei sofisti, rimando a Ker-
ferd 1988, 169-208.

 
I piaceri del cittadino epicureo 223

è superiore / alle leggi, tanto nel libro IV della Repubblica,


quanto mutatis mutandis nei libri delle Leggi (cfr. I 643 e 3-6 e
VII 822 a 4-823 a 6). Il primo dei due scritti separa, peraltro, la
virtù di chi comanda basata sulla scienza o la sapienza da quella
di chi è comandato, che è virtuoso non grazie alla σοφίία, bensì
al possesso di «rette opinioni» (cfr. quanto si dice del coraggio
in Resp. IV 429 c 5-d 1). E infine, va osservato che Aristotele
presentò una dettagliata ma problematica analisi della questione
nel cap. 4 del libro III della Politica (1276 b 16-1277 b 32). Egli
distinse la virtù del cittadino (ἀρετὴ   πολίίτου), che consiste
nell’obbedire a chi è superiore e, al contempo, nel praticare la
facoltà decisionale/deliberativa7 comandando su quanti gli sono
inferiori, dalla virtù dell’uomo buono o eccellente (ἀρετὴ  
ἀνδρὸς   ἀγαθοῦ   /   σπουδαίίου), che permette di comandare
senza essere comandato. In maniera simile a Platone, Aristotele
separò poi assiologicamente il governante dai πολῖται governa-
ti. Il filosofo disse, infatti, che solo l’individuo buono o eccel-
lente che comanda senza essere comandato è φρόόνιµμος, ha vir-
tù perfetta e possiede la saggezza, mentre il cittadino virtuoso
che comanda i sottoposti / è comandato dai superiori non si
comporta per forza saggiamente, non ha perfezione morale e di-
spone di vera opinione.8
L’esistenza di questa tradizione filosofica permette di sup-
porre, dunque, che Epicuro e discepoli avrebbero potuto inter-
rogarsi se esiste o no una virtù del cittadino, nonché se essa sia
o meno distinguibile dalla saggezza. Una parziale conferma ri-
siede nel fatto che i loro testi consigliano spesso a quanti vo-
                                                                                                                       
7
Si tratta della qualità realmente distintiva del πολίίτης (III 1275 b 18-
19): ἐξουσίία   κοινωνεῖν   ἀρχῆς   βουλευτικῆς   καὶ   κριτικῆς. Il concetto
torna in III 1283 b 42-1284 a 3. Come sottolinea de Luise 2017, 2, essa è
l’esito di vari tentativi di definizione dell’essenza del cittadino, che Aristotele
tenta in Pol. III 1275 a 19-b 21.
8
Cfr. 1276 b 30-34, 1277 a 12-16, 1277 b 25-32. Sul principio che è me-
glio essere comandati da chi è superiore, cfr. anche Pol. I 1254 b 16-1255 a 2,
VII 1325 b 10-14 e 1332 b 7-1333 a 16. L’argomento è tuttavia molto più
complesso, come si è detto, rispetto a come appare dalla mia sintesi. Si appro-
fondisca almeno con Gastaldi 2017 e de Luise 2017.

 
224 Enrico Piergiacomi

gliono vivere felicemente (i.e., piacevolmente) di obbedire ai


potenti governanti e ottenere la loro protezione,9 ovvero di eser-
citare il comportamento virtuoso che, mutatis mutandis, era ri-
conosciuto da tutti gli autori tradizionali sopra ricordati. Tutta-
via, dato che in generale gli Epicurei sconsigliano al saggio di
prendere parte alla politica, cioè invitano a vivere nascosti e non
ambire a comandare altri esseri umani,10 si può presumere in più
che essi avrebbero probabilmente attaccato l’idea platonico-
aristotelica che la saggezza sia di pertinenza solo di chi sa go-
vernare.
Ragioni di tempo e spazio non consentono di dimostrare nel
dettaglio questa tesi generale con uno studio della concezione
politica di tutti gli Epicurei. Nel suo contributo pubblicato in
questo stesso volume, Emidio Spinelli ha dimostrato un nesso
tra l’obbedienza alle regole della città, la virtù e l’amicizia in
Epicuro. Rimando al suo studio, pertanto, per approfondire la
riflessione originaria della scuola.11 Il mio contributo costituirà
invece un complemento a quello di Spinelli e si concentrerà
sull’Epicureismo romano, in particolare sulla riflessione morale
del pretore Lucio Manlio Torquato. 12 Il personaggio espone,

                                                                                                                       
9
Cfr. Diog. Laert. X 4 e 121 b, fr. 557 Us. (= Lact. Divin. instit. III 17, 6),
il trattato di Colote dedicato a Tolemeo Filadelfo e la sua lode della sicurezza
civile garantita dai re (ap. Plut. Adv. Col. 1107 D 1-E 6 e 1124 D 1-9), Diog.
Oin. fr. 29. Così argomentano anche Philippson 1910, 330-336, Müller 1972
66-81, Gigante, Dorandi 1980; Long 1986, 291-293, Silvestre 1995, Roskam
2007, 54-56. Contra Fowler 1989, 130-150, e Benferhat 2005, 33-36. Media-
na la posizione di McConnell 2010, che basa parte della sua analisi sul GV 67,
che mostra che vi è anche un modo cattivo di servire i sovrani.
10
Così prevede il motto λάάθῃ  βιώώσας, contro cui Plutarco rivolge il De
latenter vivendo. Cfr. sul tema almeno Diog. Laert. X 119, Epic. RS XIV e
GV 38, fr. 9 Us. (= Sen. De ot. 3, 2), fr. 554 Us. (= Plut. Adv. Col. 1125 C 10-
D 1), Metrodor. frr. 5-7 e 31-32, Goldschmidt 1977, 85-123, Martin 2001,
Roskam 2007, 44-66.
11
Un’altra riflessione originale e che va in tale direzione è in Long 1986.
Lo studioso si concentra su Epicuro, ma usa ampiamente i frammenti di Er-
marco e il poema di Lucrezio.
12
Sul personaggio, noto per aver intentato un processo contro Publio Cor-
nelio Silla, come riferisce Cicerone nella sua orazione Pro Sulla, cfr. almeno

 
I piaceri del cittadino epicureo 225

come è noto, la dottrina morale di Epicuro nel libro I del De fi-


nibus di Cicerone, in cui difende esplicitamente e con forza la
dottrina utilitaristica dell’inseparabilità di virtù-piacere.
La scelta di focalizzare l’attenzione su questo personaggio si
basa su due motivi. Il primo è che Torquato è l’Epicureo che più
nel dettaglio si pronuncia sul legame tra la condotta virtuosa, la
piacevole vita associata e i benefici che si ricavano obbedendo
alle regole della città. Il discorso che egli pronuncia nel De fini-
bus ciceroniano ci permette, dunque, più di altri testi epicurei, di
immaginare una possibile definizione epicurea della virtù del
cittadino. La seconda ragione è che, nonostante Torquato avesse
inevitabilmente adattato la dottrina di Epicuro al mutato conte-
sto culturale della società di Roma, al pari di molti altri Epicurei
romani,13 la sua posizione filosofica riflette ancora per molti
punti di vista il pensiero ortodosso della scuola.14 Avrò modo di
sostenere, peraltro, che egli era anzi in parte avverso a un’inno-
vazione di alcuni suoi colleghi Epicurei, che forse argomentaro-
no che si può decidere di obbedire alle regole di una città per ri-
spetto disinteressato, non già per l’utile che se ne può ricavare.
Il punto mi permetterà, per inciso, di rinforzare una tesi su cui

                                                                                                                                                                                                                                                   
Ramsey 1982, 125-129; Castner 1988, 40-42; Broughton 1990; Alexander
1999; Benferhat 2005, 266-270; Binot 2013.
13
Rambaud 1969, 270; Benferhat 2005, 270; Erler 2012, 81-89. Sulla dif-
fusione difficoltosa e in parte dialettica dell’Epicureismo a Roma, cfr. Parato-
re 1960; Gemelli 1983; Canfora 1993; Bernferhat 2005, 58-74, e Vesperini
2012, 249-377.
14
Cfr. Sedley 1996, 316-317 e 337-338, e Tsouna 2007, 17. Secondo Dia-
no 1948, Cicerone avrebbe usato, nel comporre il discorso di Torquato del De
finibus, «uno di quei sommari catechistici che erano in uso nella scuola [epi-
curea]». Per Tsouna 2001, invece, Torquato attingerebbe alle opere di Filo-
demo. La studiosa cambia però parzialmente idea in Tsouna 2007, 14 n. 4 e
25-26, ipotizzando un uso degli scritti di Zenone di Sidone. È indubbio, ad
ogni modo, che, almeno quanto alla terminologia, Cicerone attinga a volte
allo Stoicismo e alla morale romana del mos maiorum (Paratore 1960, 65-67;
Erler 2001, Sedley 1996, 138, Mitsis 2014, 113-114; Calheiros de Lima 2014,
13). Armstrong 2011, 108-110, aggiunge – usando il finale del libro II del De
finibus (35, 119) – che la trattazione etica di Torquato potrebbe essere incom-
pleta.

 
226 Enrico Piergiacomi

diversi studiosi hanno giustamente insistito: che la scuola epicu-


rea ammetteva al suo interno delle possibili divergenze di opi-
nioni su tematiche specifiche, che però non scadevano nella pu-
ra eterodossia o apostasia, in quanto erano sempre alla fin fine
ricondotte agli insegnamenti del maestro Epicuro.15
La mia analisi esaminerà le ricadute civili delle singole virtù
epicuree lodate da Torquato (sapienza, temperanza, coraggio,
giustizia) e ne chiarirà il portato genuinamente epicureo. Sulla
base dei risultati che verranno raggiunti, sarà possibile ipotizza-
re una potenziale concezione unitaria della virtù del buon citta-
dino.

1.Piacere contro dovere in Torquato

Prima di passare alle virtù specifiche, è tuttavia necessario


approfondire il modo in cui Torquato difende la dottrina utilita-
ristica dell’inseparabilità di virtù e piacere (De fin. I 10, 33-35).
Il passo ci interessa, perché ci dice qualcosa sulla concezione
epicurea del cittadino.
Torquato attacca qui l’interpretazione anti-epicurea che Cice-
rone aveva dato delle gesta eroiche dei suoi avi (cfr. I 7, 23-24),
con particolare riferimento a quelle di Tito Manlio Torquato
Imperiosus. Il suo antenato era divenuto celebre per aver vinto
un Gallo che lo aveva sfidato a duello e per aver fatto uccidere il
figlio, al fine di tenere disciplinato l’esercito durante la guerra
contro i Latini.16 Ora, Cicerone attribuisce la causa delle gesta di
Tito alla pratica disinteressata della virtù, o più precisamente le
considera come due doveri (officia) assecondati per tutelare la
salvezza dello Stato, a costo del proprio benessere personale.
                                                                                                                       
15
E.g. Spinelli 1991; Tepedino Guerra 2000; Verde 2010.
16
I dettagli sulle due gesta sono dati da Livio (VII 9-10, VIII 3-10). Que-
sti ci dice che, dopo aver vinto il Gallo, Tito tolse al cadavere la collana (tor-
ques) che aveva al collo: da questo gesto sarebbe nato il soprannome “Tor-
quato”. Rispetto a Cicerone, Livio aggiunge, inoltre, che il figlio fu ucciso per
aver disobbedito all’ordine del padre di non accettare il duello di un ufficiale
in capo dei Latini. Per approfondire, cfr. Binot 2013, 632-635.

 
I piaceri del cittadino epicureo 227

Questa strategia anti-epicurea sarà ritorta, peraltro, in De fin. II


18, 58 e 19, 62-63, contro Epicuro e Lucio Manlio Torquato
stesso. Cicerone sostiene, infatti, che questi hanno rispettato le
regole della comunità per integrità morale e non per piacere, al-
trimenti le avrebbero senz’altro infrante per godere senza fre-
ni.17
In risposta a tutto ciò, Torquato sottolinea, invece, il portato
strumentale di tale doverismo. È vero che i doveri sono rispettati
da un Epicureo. La vera origine di questa integrità morale risie-
de, tuttavia, esattamente nel calcolo dei piaceri. I doveri imposti
dalla comunità o dalle circostanze vengono descritti, infatti,
come dei dolori che l’Epicureo si sobbarca volentieri sul mo-
mento, al fine di ricavare più avanti maggiore piacere (I 10, 33).
Stabilito questo punto generale, Torquato torna poi al discorso
sul suo avo, dando una contro-interpretazione strumentale (I 10,
34-35). Torquato Imperiosus compì quelle gesta perché puntò a
qualcosa che contribuisce utilmente alla vita felice. Vale la pena
citare per esteso l’estratto I 10, 35:
quae fuerit causa, mox videro; interea hoc tenebo, si ob aliquam
causam ista, quae sine dubio praeclara sunt, fecerint, virtutem iis
per se ipsam causam non fuisse. – Torquem detraxit hosti. – Et
quidem se texit, ne interiret. – At magnum periculum adiit. – In
oculis quidem exercitus. – Quid ex eo est consecutus? – Laudem et
caritatem, quae sunt vitae sine metu degendae praesidia firmis-
sima. – Filium morte multavit. – Si sine causa, nollem me ab eo
ortum, tam inportuno tamque crudeli; sin, ut dolore suo sanciret
militaris imperii disciplinam exercitumque in gravissimo bello
animadversionis metu contineret, saluti prospexit civium, qua
intellegebat contineri suam

Quale sia stato il motivo [della condotta virtuosa dei suoi avi], lo
vedrò subito; per ora fisserò questo punto: se compirono queste
azioni, che sono senza dubbio illustri, per qualche motivo, la virtù
di per se stessa non ne fu il motivo. «Strappò la collana al nemi-
co»: sì, ma si protesse per non morire. «Però affrontò un grave pe-
ricolo»: sì, ma sotto gli occhi dell’esercito. «E che cosa ottenne da

                                                                                                                       
17
Sulla critica ciceroniana alla virtù epicurea, rimando a Maso 2008, 227-
230.

 
228 Enrico Piergiacomi

ciò?»: gloria e stima, che sono saldissimi presidi per trascorrere la


vita senza timore. «Condannò a morte un figlio»: se l’avesse fatto
senza motivo, non vorrei discendere da un antenato così brutale e
crudele; se invece lo fece per confermare con un esempio la disci-
plina del comando militare e tener a freno l’esercito con il timore
di una punizione in una guerra molto seria, mirò al benessere dei
cittadini, da cui capiva che dipendeva anche il suo proprio.18

L’interpretazione di Torquato del duello del suo avo contro il


Gallo ci interessa relativamente in questa sede. Il solo punto che
merita di essere evidenziato è, appunto, l’intento strumentale di
tale impresa.
Torquato isola due aspetti. Da un lato, Tito lottò contro il
nemico difendendosi. Apparentemente banale, tale constatazio-
ne serve forse a mostrare che l’avo mirava a vincere il suo av-
versario evitando al contempo il dolore della ferita e la morte in
battaglia, dunque che non era disposto al sacrificio estremo. Ve-
nendo meno questa eventualità, è compromesso un forte soste-
gno dell’interpretazione del duello quale esempio di virtù fine a
se stessa. Il suo avo volle vincere e vivere, i.e. ricavare un van-
taggio dalla sua azione, non già vincere e morire, facendo sì che
solo l’esercito e la patria traessero giovamento dall’impresa.
Dall’altro, Torquato dice che Tito mirò con tale scontro ad otte-
nere la gloria e la stima dell’esercito, che sono viatici ottimi per
condurre una vita senza timore, qualora non vengano cercati ec-
cessivamente (cfr. qui I 18, 59). Torquato si pone, in questo,
sulla diretta scia di Epicuro, che ammetteva che la fama ricerca-
ta con intelligenza e moderazione, in altri termini non per irra-
zionale vanità che induce a farsi inutilmente un nome a prezzo
di tremende fatiche, è piacevole di per sé e consente di ottenere
appoggio/aiuto dalle persone che ci ammirano.19 In ottica epicu-
                                                                                                                       
18
Trad. Marinone 2010, 101; il corsivo è mio.  
19
Pace Packer 1938, 23-24. Cfr. infatti Diog. Laert. X 120 a, Epic. fr. 46
Arr2. (= Plut. Suav. viv. 1101 A 3-8), Epic. fr. 28 Us. (Cic. In Pis. = 25, 60 e
27, 65), fr. 555 Us. (= Plut. De tranq. an. 465 F 4-466 A 2), Metrodor. frr. 41,
43 e 56, Philod. (De adul. col. 4, ed. Gargiulo 1979, De elect. col. 5, Oec.
coll. 4, 1-6 e 22, 17-28, ed. Tsouna 2012; De mort. liber incertus col. 19, ed.
Giuliano 2009; De ira col. 12; De lib. dic. col. 1 b, ed. Olivieri 1914), Diog.

 
I piaceri del cittadino epicureo 229

rea, le due gesta dell’avo sono perciò improntate alla condotta


virtuosa inseparabile dall’ottenimento dei piaceri catastematici
dell’aponia e dell’atarassia.
Assai interessante ai nostri fini è, di contro, l’analisi del se-
condo e ben più controverso gesto eroico: il sacrificio del figlio.
Tito avrebbe commesso l’atto estremo per avere un esercito di-
sciplinato al punto da poter vincere i Latini e dare così ai concit-
tadini romani la sicurezza in tempo di pace, nella consapevolez-
za che da questa sarebbe derivata anche la propria. Il sacrificio
costituiva a tutti gli effetti l’esito di un calcolo. Privarsi di un
figlio indisciplinato in tempo di guerra ha lo scopo di ottenere
maggiori piaceri a pace conclusa (cfr. infatti De fin. I 10, 36).
L’interpretazione di Torquato del secondo gesto dell’avo ri-
sponde in maniera perfetta ai principi della filosofia epicurea.
Epicuro ammetteva, infatti, l’attività politica e la deroga dal
principio solitamente valido del ‘vivere nascosto’, se risultava
necessaria od opportuna per raggiungere la sicurezza.20 Anche
la decisione di sacrificare il figlio per mantenere l’esercito di-
sciplinato e ottenere in futuro il benessere per sé / per la comu-
nità si adegua a una prassi epicurea. Filodemo insegnava a Piso-
ne, nel De bono rege, che il buon re (più in generale, il buon
governante) deve punire all’occorrenza in tempo di guerra un
membro dell’esercito, affinché la massa dei soldati non cada
nell’indisciplina (col. 26, 14-24).21 Si può aggiungere che l’uc-

                                                                                                                                                                                                                                                   
Oin. frr. 29 e 51, NF 207; Roskam 2007, 46-60; Fish 2011, 87-88; Armstrong
2011, 109-115. Si noti che Lucrezio condanna la ricerca della fama politica,
ma non di quella poetica (1, 921-950; 2, 1-54; 3, 9-11; 5, 1113-1135; 6, 1-
19). Per la congruenza di questa sua aspirazione con il credo della scuola, cfr.
Nichols 1976, 31-33, e Roskam 2007, 99-101.
20
Cfr. Epic. RS VI-VII, e Metrodor. fr. 60 K. (= Stob. IV 4, 26). Del resto,
Filodemo dirà che la politica può giovarsi della filosofia, per conferire benes-
sere a sé e allo Stato (Rhet. III coll. 15 a 16-16 a 9, ed. Hammerstaedt 1992).
Per altri riferimenti e alcune approfondite analisi, cfr. Barigazzi 1983, 89-92;
Roskam 2007; Fish 2011; Roskam 2011.
21
Cfr. qui Dorandi 1982b, 168-169. Filodemo condanna l’insubordina-
zione anche in De ira col. 33, 28-35. Sui fini del De bono rege (ed. Dorandi

 
230 Enrico Piergiacomi

cisione del figlio sarebbe apparso meno crudele a un Epicureo,


che non crede che esista un vincolo di natura tra genitore e pro-
le,22 attenuando così l’interpretazione di Cicerone, che vuole che
il gesto virtuoso di Tito fosse andato contro un legame naturale
(De fin. I 7, 23).
Si potrebbe tuttavia obiettare, in primo luogo, che la colonna
del De bono rege e gli exempla omerici da essa citata23 non
menzionano la necessità del sacrificio di sangue. L’una e gli al-
tri escludono, anzi, una misura così drastica. Poco prima (col.
24, 6-18), del resto, il De bono rege di Filodemo invita Pisone
ad essere il «più possibile» (ἐφ’   ὅσον   πλεῖστον) clemente e
mite, in modo da fare del governante un re equilibrato e non un
temibile tiranno.24 Torquato devia, in tal modo, dalla mitezza
tipica della sua scuola, tanto che si potrebbe dire con Benferhat
che qui egli obbedisce piuttosto a un «motif conforme à la mo-
rale héroïque et civique romaine».25
In secondo luogo, si può constatare che Torquato è uno dei
pochi Epicurei noti che riconoscono che la felicità dipenda dal
rispetto di alcuni doveri, sia pure in ottica strumentale.26 Quan-
                                                                                                                                                                                                                                                   
1982b), cfr. ancora Dorandi 1982b, 42-47; Asmis 1991, 19-25; Roskam 2007,
123-124; Erler 2012, 84.
22
Dem. Lac. PHerc. 1012, col. 68. Cfr. qui almeno Alesse 2011 e
McConnell 2017.
23
Il. 8, 228-236 e 10, 103-110, forse anche 13, 47-58 (cfr. Dorandi 1982b,
p. 169).
24
Su questi carattere del bravo governante insiste Rambaud 1969, 427-
431.
25
Benferhat 2005, 270. In questa direzione vanno anche Rambaud 1969,
417, e Calheiros de Lima 2014, 18.
26
La conferma che vi fossero altri Epicurei con questo convincimento –
purtroppo oggi ignoti – è in Cic. Tusc. disp. III 20, 46 (= fr. 440 Us.), che
menziona l’astensione epicurea dal sesso in conformità ad alcuni officia. Fa-
rebbero eccezione anche Filonide, che forse dichiarò che fosse doveroso mo-
rire per la patria o per un congiunto (cfr. la Vita di Filonide, col. 22, 1-11, ed.
Gallo 2002), e l’autore del PHerc. 1158, che invoca la necessità di rispettare
alcuni doveri in tempi di guerra. Ma il papiro è di controversa paternità epicu-
rea. Il suo più recente editore (= Puglia 1983) ha giustamente sottolineato che
l’autore potrebbe essere uno Stoico, o un Epicureo che espone la morale stoi-
ca per sottoporla forse successivamente a confutazione. Un caso analogo si

 
I piaceri del cittadino epicureo 231

do Filodemo usa la parola καθῆκον, infatti, è perché sta condu-


cendo una polemica anti-stoica e impiega, di conseguenza, il
linguaggio dei nemici.27 Laddove Lucrezio (4, 1124) ricorre ad
officium, invece, lo fa in un contesto non dottrinale. Il poeta lo
impiega nella sua descrizione delle conseguenze rovinose che
l’amore arreca al povero cittadino romano,28 incluso l’abban-
dono di certi doveri. Lucrezio non abbraccia allora, come Tor-
quato, l’idea che il rispetto degli officia sia una via per la felici-
tà. Egli si limita a mostrare come l’amore sia qualcosa di nefa-
sto anche per la morale romana,29 non solo per l’Epicureismo.
Da questo punto di vista, l’accusa che Cicerone muove a
Torquato in De fin. II 18, 58 coglie nel segno. Se l’Epicureo
fosse davvero convinto che la virtù miri esclusivamente al pia-
cere, avrebbe eliminato il concetto stesso di ‘dovere’, poiché es-
so e le parole corrispondenti (καθῆκον, officium) invocano ne-
cessariamente l’idea di integrità morale fine a se stessa. La con-
dotta di Torquato va interpretata, pertanto, come un allontana-
mento dalla concezione ortodossa della scuola.
Le due obiezioni non sono tuttavia insuperabili. La prima è
ridimensionata col notare che Torquato pone l’accento sulla du-
rezza della guerra contro i Latini (cfr. in gravissimo bello). Può
darsi che egli percepisse la circostanza come eccezionale, dove
è impossibile praticare la massima clemenza che lo stesso Filo-
demo dice, del resto, si debba rispettare solo il «più possibile»,
non già incondizionatamente, alludendo forse a necessarie dero-
ghe dalla mitezza. L’avo Tito non poteva mitigare la sua puni-
                                                                                                                                                                                                                                                   
ripresenta nel PHerc. 1384, che secondo il convincente studio di Antoni 2012
è anch’esso da attribuire a uno Stoico.
27
Cito la col. 16, 26-27 e il fr. 12 del De Stoicis filodemeo (PHerc. 155 e
339, ed. Dorandi 1982a). Qui Filodemo menziona i libri V e VII dell’opera
Sui doveri, la cui esistenza è attestata fuori di qui dai testi di SVF III 491, 494,
752. Il De Stoicis manca dalla raccolta di von Arnim 2006.
28
Bailey 1986, 1308.
29
Cfr. qui Brown 1987, 122-127. Può essere utile notare in aggiunta, for-
se, che il v. 4, 1124 è l’unico luogo in cui officium indica il “dovere”. Le altre
tre occorrenze della parola nel poema (1, 336; 2, 605; 4, 857) assumono, in-
fatti, il significato di “funzione”.

 
232 Enrico Piergiacomi

zione, poiché altrimenti i danni per l’esercito sarebbero stati


enormemente maggiori del sacrificio di un solo uomo, con
l’inevitabile perdita di felicità per sé e la comunità.
La seconda obiezione è smussata, invece, dalla testimonianza
della col. 31, 877-896 del De pietate di Filodemo (= fr. 114
Arr2.), che riporta, forse, che Epicuro evocò il concetto di dove-
re, quando invitava i suoi discepoli a frequentare il culto tradi-
zionale (cfr. οὗ   [καθ]ήήκει alle ll. 881-882). E tale invito può
indicare un comportamento virtuoso strumentale alla felicità. Lo
conferma il fatto che Epicuro dichiarasse, in questo stesso testo,
che pregare è καλῶς, ossia usasse l’avverbio che in Ad Men.
132 serve a indicare la condotta conforme a virtù inseparabile
da piacere. La pietà religiosa potrebbe essere un dovere civico,
coltivato per ricavare il godimento dalla conoscenza della natura
degli dèi e dall’assimilazione alla loro beatitudine.30
Oppure, Torquato potrebbe non deviare dall’ortodossia epi-
curea, bensì – come si è accennato all’inizio – adattare la dottri-
na di scuola al contesto romano. Connotare il rispetto degli offi-
cia quale via per il piacere non significa derogare da Epicuro,
bensì solo esprimere in un altro linguaggio la tesi dell’insepa-
rabilità di virtù e piacere. Si può poi argomentare che, quando
Lucrezio parla, nel v. 4, 1224, degli esiti nefasti dell’innamora-
mento, potrebbe dare, al pari di Torquato, un significato dottri-
nale all’episodio. Egli potrebbe dire, infatti, che un cittadino
romano che vien meno ai doveri per amore è infelice, poiché
non esercita la virtù morale che gli garantirebbe una condizione
di quieto piacere.31 L’ipotesi trae in parte conferma dalla consta-
tazione che, tra i comportamenti viziosi che tengono lontani dal-
la felicità, Torquato menziona appunto la malattia d’amore (I
                                                                                                                       
30
Per i testi e gli argomenti, mi permetto di rinviare a Piergiacomi 2017,
266-294.
31
Il v. 4, 1224 è contenuto, peraltro, nel lungo finale del libro IV del De
rerum natura (4, 1037-1287), dove Lucrezio porta a frutto il compimento di
tutta l’analisi fisiologica ed epistemologica che lo precede per condurre il let-
tore/ascoltatore a godere di una sessualità conforme a natura, quindi alla feli-
cità (cfr. Brown 1987, 60-87).

 
I piaceri del cittadino epicureo 233

18, 61). Può darsi allora che i falsi piaceri che inducono a dero-
gare dai doveri (cfr. ancora De fin. I 10, 33) possano annoverare
anche quelli erotici. E se ciò è vero, le prospettive di Torquato e
di Lucrezio sull’officium sarebbero tra loro conciliabili.
Il discorso di De fin. I 10, 33-35 sull’inseparabilità di virtù-
piacere e la sua interpretazione della condotta di Torquato Impe-
riosus non dicono nulla in sé sulla virtù del cittadino. Mostrano
solo come un Epicureo avrebbe giustificato un caso-limite, ossia
un comportamento che a una prima lettura sarebbe stato erro-
neamente ricondotto alla pura integrità morale e non alla ricerca
segreta del piacere. D’altro canto, il passo De fin. I 10, 35 ci di-
ce almeno che il bene che la virtù di un comandante vuole di-
spensare alla città è la sicurezza, che è posseduta davvero se ce
l’hanno sia i governanti, sia i cittadini governati. L’ἀσφάάλεια
è, per così dire, una proprietà ‘olistica’.32 La conclusione tornerà
utile più avanti, per capire perché un cittadino epicureo ha l’in-
teresse ad obbedire alle leggi e a chi governa.

2. La sapienza “politica” di Torquato

L’applicazione della virtù al benessere della città tornerà solo


molto dopo il passo appena analizzato, ossia nella descrizione
della virtù della sapienza (I 13, 43-45). Torquato esordisce da
una descrizione del suo potere più grande: quello di eliminare i
terrori, i desideri, le false opinioni che rendono la vita inquieta e
infelice.33 Anche questa capacità non è dunque apprezzata in sé,

                                                                                                                       
32
Sul punto, che fu già notato da Ermarco (fr. 34, ed. Longo Auricchio
1988 = Porph. Abst. I 10, 2-4; sul testo, essenziale è Vander Waerdt 1988) e
sarà ribadito da Filodemo (De invidia, PHerc. 1678, fr. 18, ed. Tepedino
Guerra 1985), cfr. Goldschmidt 1977, 123, Long 1986, 308-312, e McConnell
2012, 101-105.
33
Per alcuni paralleli, che tuttavia attribuiscono tale potere lenitivo alla fi-
losofia, allo studio della natura, o alla saggezza, cfr. Epic. Ad Her. 37 e 78 /
RS XI-XII, Polistrat. De contemptu, coll. 8, 23-10, 8 e 32, 26-33, 21 (ed. In-
delli 1978, PHerc. 336/1150), Dem. Lac. PHerc. 831 col. 8 (ed. Parisi 2014),
Lucret. 1, 146-148.

 
234 Enrico Piergiacomi

bensì per il suo carattere strumentale e perché si accompagna a


piacere. Essa va coltivata, infatti, per eliminare la tristezza del-
l’anima e per togliere a questa ogni motivo serio di paura. Come
Epicuro, pertanto, Torquato pensa che si cerca di diventare sa-
pienti per liberarsi di tutto ciò che arreca infelicità. Se noi fos-
simo già felici, non coltiveremmo affatto la sapienza (RS XI).
Subito dopo questa lode, Torquato introduce quindi un ap-
profondimento dei desideri. La dimensione politica è qui seria e
lampante (I 13, 43-44):
cupiditates enim sunt insatiabiles, quae non modo singulos homi-
nes, sed universas familias evertunt, totam etiam labefactant saepe
rem publicam. ex cupiditatibus odia, discidia, discordiae, seditio-
nes, bella nascuntur, nec eae se foris solum iactant nec tantum in
alios caeco impetu incurrunt, sed intus etiam in animis inclusae in-
ter se dissident atque discordant, ex quo vitam amarissimam ne-
cesse est effici, ut sapiens solum amputata circumcisaque inanitate
omni et errore naturae finibus contentus sine aegritudine possit et
sine metu vivere

In verità, i desideri sono insaziabili: essi abbattono non solo singo-


le persone ma famiglie intere, spesso anche indeboliscono tutto lo
Stato. Dai desideri nascono odii, divisioni, discordie, rivoluzioni,
guerre, ed esse non si agitano solo all’esterno, non si lanciano con
cieco impeto soltanto contro gli altri, ma anche racchiuse nell'in-
timo dell’anima sono in dissidio e in discordia fra di loro; di con-
seguenza la vita diventa necessariamente piena di amarezza, tanto
che solo il sapiente, recisa e soffocata ogni vanità ed errore, con-
tento dei termini naturali, può vivere senza afflizione e senza timo-
re.34

L’incipit dell’estratto crea una certa confusione. Esso sembra


dire che tutti i desideri hanno carattere insaziabile e che la sa-
pienza epicurea è in grado di calmarli. Ma questa non è una tesi
che pare fosse accolta da Epicuro. Egli considerava come intrin-
secamente nocivi e senza termine solo i desideri né naturali né
necessari (e.g. diventare un tiranno), mentre riteneva che esi-
stesse un limite sia dei desideri naturali e necessari (e.g. man-

                                                                                                                       
34
 Trad. Marinone 2010, 107, modificata; il corsivo è mio.  

 
I piaceri del cittadino epicureo 235

giare quando si ha fame), sia dei desideri naturali e superflui


(e.g. il sesso). Per sfamarsi basta trovare cibo adeguato, mentre
è possibile rinunciare del tutto all’impulso sessuale, o almeno
assecondarlo usando moderazione e obbedendo ad alcune regole
igieniche.35 Propongo di riportare l’affermazione di Torquato
alla norma supponendo che egli sottintenda un riferimento solo
ai desideri nocivi. Se così non si facesse, da un lato, non si capi-
rebbe perché, subito dopo, Torquato invochi proprio la triparti-
zione dei desideri di Epicuro (13, 45), dove egli ammette che
solo quelli della terza categoria (= né naturali, né necessari) so-
no senza limite o termine, mentre quelli delle altre due classi ne
trovano uno con un piccolo dispendio di energie e spese. Dal-
l’altro, si entrerebbe in contraddizione con quei passi in cui Egli
condanna solo i desideri smisurati/vani e loda invece quelli con-
tenuti o limitati (I 18, 59 e 19, 62).
In alternativa, un’interpretazione più aderente alla lettera del
testo potrebbe essere che Torquato denunci l’insaziabilità del
susseguirsi ininterrotto dei desideri (cfr. mutatis mutandis il pa-
rallelo di Lucret. 3, 1082-1084). Secondo tale lettura, anche i
desideri della prima e seconda classe (naturali e necessari / natu-
rali e superflui) possono essere detti senza fine. Un individuo
proverà sempre fame e avrà sempre bisogno del sesso, finché
resterà in vita. Se quanto proposto è vero, la tripartizione basata
sulla sapienza di Epicuro assumerebbe una funzione diversa.
Essa direbbe che le serie dei desideri naturali/necessari e dei de-
sideri naturali/superflui non molestano più, se si impara sapien-
temente che ciascun desiderio isolato potrà trovare sempre facile
soddisfazione. Quanto alle tendenze né naturali né necessarie,
l’unico rimedio serio rimane la pura rinuncia in partenza.
A prescindere da quale sia l’interpretazione più convincente,
il punto importante da evidenziare in questa sede è che Torquato

                                                                                                                       
35
Ad Men. 128, RS XXVI e XXIX-XXX, GV 59. Sulla divisione epicurea
dei desideri, cfr. Annas 1998, 265-273. Sul carattere naturale ma non-
necessario del sesso e sulle regole igieniche necessarie per goderne appieno,
cfr. Brown 1987, 108-111.

 
236 Enrico Piergiacomi

sottolinea che i desideri costituiscono un potenziale pericolo po-


litico. Chi non ha la virtù della sapienza sarà spinto non solo a
danneggiare se stesso, ma persino a odiare, attaccare, scatenare
guerre contro la famiglia e lo Stato. Ciò può valere in linea di
principio per tutte le categorie di desideri. In tempo di carestia,
gli esseri umani insipienti possono essere spinti a rivolgersi con-
tro i capi della città, perché non sanno accontentarsi di cibi scar-
si e molto frugali per soddisfare i loro desideri naturali/necessari
di mangiare.36 Un uomo e una donna sposati potrebbero essere
indotti a frequentare più partner sessuali per placare il loro bi-
sogno di sesso, distruggendo in tal modo la famiglia con l’adul-
terio, in assenza della sapienza che mostrerebbe che la condotta
adulterina dà meno piacere della sessualità coltivata con tempe-
ranza e minore frequenza.37 Infine, il desiderio di diventare ti-
ranno potrebbe spingere a muovere guerra contro lo Stato, rica-
vando alla fin fine un vantaggio nullo. La sapienza potrebbe
mostrare, infatti, che chi vuole tiranneggiare aspira segretamen-
te ad essere libero da dolori e inquietudini, che a sua volta è una
condizione che si ottiene bene e facilmente vivendo appartati,
anzi decidendo sapientemente di obbedire. Questo aspetto è
messo in particolare risalto anche da Lucrezio, che respinge la
guerra e critica l’ideologia dominante di Roma che invita alla
supremazia / all’eccellenza nel comando,38 e da Filodemo, che
sempre nel De bono rege afferma che il bravo governante ama
la vittoria, ma respinge la guerra e la discordia, praticando la
                                                                                                                       
36
Ricordo che Epicuro superò un pericolo del genere, distribuendo fave
contate ai discepoli. Cfr. l’addendum a Usener di Indelli 2002, 101 (= Plut.
Dem. 34, 1-2).
37
Cfr. soprattutto i consigli del medico Zopiro in Plut. Quaest. conv. 6, 1-
4 (= fr. 61 Us.). Il personaggio attinge al Simposio di Epicuro.
38
Lucret. 5, 1127-1128: ut satius multo iam sit parere quietum / quam re-
gere imperio res velle et regna tenere. Sulla polemica di Lucrezio contro la
guerra, cfr. 1, 30-43 con Rambaud 1969, 416-421; Schrijvers 1970, 303-305;
Nichols 1976, 168-170; Conti 1982, 29-41; Gale 1998, 103-109, Benferhat
2005, 87-92 e 223-224. Sulla concezione politica di Lucrezio, cfr. Nichols
1976, 140-142; Monti 1981; Bailey 1986, 1500-1501; Roskam 2007, 86-99;
McConnell 2012, 107-117.

 
I piaceri del cittadino epicureo 237

prima solo se è costretto e comunque in vista della pace (coll.


26-31).
Particolarmente interessante, anche se solo accennata, è poi
l’aggiunta di Torquato che i desideri possono muovere guerra e
determinare odi o conflitti non solo all’esterno, ma anche all’in-
terno dell’individuo. L’anima umana è in tal modo paragonata a
una piccola famiglia o città, che senza la sapienza di Epicuro è
destinata alle lunghe a crollare (13, 44).
L’immagine non trova paralleli in altri testi degli Epicurei,
ma non va necessariamente interpretata come un’innovazione
dottrinale di Torquato. Il parallelismo cittadino-città potrebbe
anche essere un topos tradizionale, che ad esempio troviamo at-
testato in Tucidide e Solone,39 in Platone (Resp. II 368 e 2-369 b
4) e Aristotele. Quest’ultimo sostiene, peraltro, come Torquato,
che i viziosi patiscono nell’anima una sorta di guerra civile inte-
riore tra la parte di sé che gode nel fare il male e un’altra che,
invece, soffre nel commetterlo.40 Metafore analoghe si trovano,
poi, in Diogene di Enoanda41 e, soprattutto, nell’Ut bruta ani-
malia ratione uti di Plutarco (989 C 4-7 = fr. 456 Us.), che
equipara l’assillo dei desideri non naturali né necessari a uomini
stranieri che scacciano i cittadini legittimi dalla città.42 Torquato
potrebbe aver ‘colorato’, infine, con la retorica la metafora di
Epicuro della tempesta dell’anima. Questa è placata, non a caso,
proprio dalla sapiente tripartizione dei desideri (Ad Men. 128).
Una conferma dell’ipotesi risiede nella notizia riportata dal Bru-
                                                                                                                       
39
Sulle occorrenze tucididee, cfr. Morrison 1994. Su Solone, cfr. i testi
delle sue leggi citate nei frr. 38 a-m (con relativo commento) di Leão-Rhodes
2015, 59-66.
40
Eth. Nic. IX 1166 b 19-22: στασιάάζει   γὰρ   αὐτῶν   ἡ   ψυχήή,   καὶ   τὸ  
µμὲν   διὰ   µμοχθηρίίαν   ἀλγεῖ   ἀπεχόόµμενόόν   τινων,   τὸ   δ'ʹ   ἥδεται,   καὶ   τὸ  
µμὲν  δεῦρο  τὸ  δ'ʹ  ἐκεῖσε  ἕλκει  ὥσπερ  διασπῶντα.
41
Mi riferisco al fr. 2, che paragona il corpo a un tribunale che giudica
l’anima (col. 1). Diogene la riprende forse da Democrito (68 B 159 DK =
Plut. De libid. et aegr. 2).
42
Può darsi che la somiglianza tra l’immagine che Cicerone attribuisce a
Torquato e quella di Plutarco dipenda dal ricorso a una fonte epicurea comu-
ne.

 
238 Enrico Piergiacomi

tus ciceroniano (68, 239, 76, 265-266) dell’abilità oratoria di


Torquato, che potrebbe essere stata imitata da Cicerone nel De
finibus.43 Altri esempi dell’abilità retorica dell’Epicureo sono
poi la descrizione che egli fa della vita dello stolto in opposizio-
ne a quella del sapiente44 e la metafora della paura di essere
scoperti per un’ingiustizia commessa a un inquilino che prende
alloggio nella mente.45
Con l’analisi di questo secondo estratto dal discorso dell’Epi-
cureo, ci si è avvicinati stavolta di più a una possibile definizio-
ne della virtù epicurea del buon cittadino. Torquato allude sot-
tilmente, infatti, che un Epicureo è spinto dalla sapienza a non
muovere guerre, odio o rivoluzioni contro la famiglia e lo Stato,
ossia a rispettare le regole della comunità. Qui la sua trattazione
concorda con altri autori epicurei, che asseriscono che i precetti
di Epicuro insegnano a rispettare la patria e la città.46 Il punto è
allora che la sapienza di cui parla Torquato ha tra i suoi effetti il
far capire che rispettare le consuetudini civili procura maggior
piacere, rispetto all’abbandonarsi a desideri che vanno contro la
famiglia / lo Stato. Essa induce, quindi, a rispettare l’una e
l’altro non per il mero rispetto di un’autorità superiore, bensì
perché rivela che l’essere un buon cittadino risulta più utile del
comportarsi in maniera incivile.

                                                                                                                       
43
Pensa a un intervento di Cicerone nella costruzione dell’immagine
dell’anima-città anche McConnell 2012, 105-106. Sull’imitazione del caratte-
re e dello stile di Torquato compiuta da Cicerone, cfr. Calheiros de Lima
2014, 11-21.
44
I 18, 61. Elenchi simili in Philod. De elect. coll. 17-20, De ira col. 28,
6-40.
45
Cfr. consedit in mente in I 16, 50. Anche questa è un’immagine che ri-
torna nel Bruta animalia ratione uti (989 E 9-F 5).
46
Le più frequenti occorrenze si trovano in Filodemo (e.g. De piet. coll.
28, 47, 1338-1344, 53-54; De mus. IV col. 118; De elect. coll. 8, 10, 12).
Queste e altre sono utilizzate da Tsouna 2007 per evidenziare, giustamente, le
convergenze tra la morale di Torquato e quella filodemea. Cfr. pure Lucret. 3,
79-86 e Diog. Oin. fr. 19.

 
I piaceri del cittadino epicureo 239

3. La temperanza e il coraggio in città

I successivi richiami alla connessione tra comportamento ci-


vile e condotta virtuosa figurano subito dopo la lode della sa-
pienza, ossia nello studio della temperanza e del coraggio. Dato
che il discorso di Torquato su queste due ἀρεταίί non aggiunge
molto di più a quanto si è già visto nei §§ 1-2, questa sezione
sarà necessariamente più sintetica.
La temperanza è ancora una volta lodata per il suo carattere
strumentale (I 14, 47-48). Torquato individua il suo massimo
beneficio nella capacità di rinunciare ad alcuni piaceri, o di sop-
portare temporaneamente alcuni dolori, per ricavare maggior
godimento ed evitare maggior sofferenza in futuro. Chi non rie-
sce a restar saldo finisce ora (tum) in gravi malattie, ora (tum) in
danni, ora (tum) nel disonore, anzi spesso (saepe etiam) nelle
punizioni delle leggi e dei tribunali. È interessante notare che il
discorso di Torquato mette in risalto quest’ultima conseguenza
negativa, che può essere interpretata come una rivolta del citta-
dino intemperante contro lo Stato e la società. Il saepe etiam
serve appunto a distinguere l’infrazione delle leggi e della giu-
stizia come un male più frequente delle malattie, dei danni e del
disonore, la cui occorrenza più occasionale è espresso attraverso
il ripetersi dell’avverbio tum. Torquato sottolinea nuovamente,
allora, che una virtù inseparabile dal piacere trasforma in un
onesto cittadino, consapevole che la scelta di non abbandonarsi
oggi a un piacere che va contro lo Stato o la società garantirà
piaceri ben più grandi nell’avvenire.
Minor accento politico è invece riconosciuto al coraggio (I
15, 49), i.e. l’abilità di sopportare la paura della morte e il dolo-
re, ricavando da questa una condizione di quiete piacevole. Tor-
quato menziona, infatti, varie conseguenze negative in cui in-
corrono coloro che non sanno comportarsi coraggiosamente, di-
sposte in ordine di frequenza. Molti (multi) rovinarono per man-
canza di autocontrollo amici e parenti, parecchi (non nulli) la
patria, i più (pleri) se stessi. Secondo Torquato, dunque, l’assen-

 
240 Enrico Piergiacomi

za di coraggio crea maggiori danni al singolo che alla comunità,


diversamente dalla mancanza di temperanza, che determina
maggiori danni alla società. Forse la spiegazione sta nel fatto
che, per liberarsi dalla sofferenza, la maggior parte dei codardi è
indotta a commettere suicidio. Nessuna parte del discorso di
Torquato accenna a questa possibilità, ma dato che sia Epicuro
(ap. Sen. Ep. ad Luc. 24, 22-23 = frr. 496-498 Us.) che Lucrezio
(3, 972-975) argomentavano che un individuo potesse parados-
salmente bramare e darsi la morte per liberarsi dalla paura di
morire, non si può escludere che il punto sia dato per implicito.
Malgrado tale ridimensionamento, tuttavia, anche al coraggio
epicureo è riconosciuto un’importante valenza strumentale e ci-
vile. Esso impedisce a moltissime persone di far del male agli
amici, ai parenti e allo Stato, sulla scia degli allettamenti di al-
cuni piaceri e dolori immediati.47 E dato che Torquato diceva
che è proprio a causa di queste tentazioni che uno viene meno ai
doveri imposti dalla comunità (cfr. di nuovo I 10, 33), ne deriva
che essere coraggiosi è un comportamento virtuoso e civile,
perché tutela gli officia che chi vuole diventare felice ha interes-
se a rispettare.
La principale differenza delle virtù della temperanza e del
coraggio rispetto alla sapienza è il fatto che esse non indicano
perché non bisogna andare contro lo Stato. Esse aiutano a man-
tenersi saldi sui dettami sapienti già appresi. Il loro carattere è
dunque procedurale, o per meglio dire estendono l’applicazione
della sapienza alla vita felice. Si tratta dell’identica dottrina
espressa con altre parole da Epicuro nell’Epistola a Meneceo,
quando scrive che la saggezza da cui derivano tutte le altre virtù
è più ‘eminente’ della filosofia.48 Abbiamo così una riprova in

                                                                                                                       
47
Armstrong 2011, 117. Il valore strumentale del coraggio è poi in Diog.
Laert. X 120, che dice che tale virtù non si genera per natura, bensì per calco-
lo dell’utile (cfr. qui Mitsis 2014, 116-118). Di diverso avviso sarà Dem. Lac.
PHerc. 1012, col. 67, 4-7, che parla della naturalità delle ἀρεταίί.
48
Il punto è messo particolarmente in chiaro da Alberti 2008, 189-191.

 
I piaceri del cittadino epicureo 241

più di come la prospettiva di Torquato non deroghi dallo spirito


originario della scuola epicurea.

4. La strumentalità della giustizia

Resta da parlare della virtù della giustizia, il cui portato poli-


tico è scontato e dichiarato in Torquato.49 L’argomento affronta-
to in questo saggio mi spinge a concentrarmi qui sulle sezioni
che descrivono apertamente il rapporto del giusto e dell’ingiusto
verso la città.
Comincio dal secondo tipo. A detta di Torquato, l’ingiusto
tipico cerca con le sue attività illecite i mezzi per diminuire do-
lori e inquietudini, dunque tende al fine naturale del piacere, ma
finisce stoltamente per aumentare la sofferenza.50 I suoi atti gli
procurano l’angosciante consapevolezza di essere nel torto e la
paura che la sua malefatta venga prima o poi scoperta. Anche se
non è detto esplicitamente, questo ‘ingiusto medio’ può essere
corretto e riportato sulla retta via. Solo in alcuni (in quibusdam),
infatti, il commettere ingiustizia accende l’impulso a commette-
re azioni ancora più ingiuste, sicché essi non possono disimpa-
rare il vizio e devono essere incarcerati, o eliminati.51 Dapprin-
cipio, gli ingiusti sono colpiti dal sospetto e dal pettegolezzo
della comunità (16, 50), che presumibilmente accresce l’inquie-
tudine e la paura di cui si è detto. Col passare del tempo, essi
vengono poi puniti e investiti dall’odio dei cittadini (16, 51; ma
cfr. già I 10, 33). Non è chiaro se questi due effetti siano corre-
lati, ossia se l’astio della comunità nasca dalla punizione inflitta
                                                                                                                       
49
Cfr. I 16, 50-53. I contributi ancora fondamentali sulla giustizia epicu-
rea sono Philippson 1910, Goldschmidt 1977, Mitsis 2014, 122-143, a cui ri-
mando per approfondire. Utili anche Müller 1972, 89-111; Annas 1998, 405-
415; Konstan 2007, 149-153.
50
Cfr. qui Alberti 2008, 196-198.
51
Cfr. il finale di 16, 51: ut coërcendi magis quam dedocendi esse videan-
tur. La frase implica, a mio avviso, che chi non è un ingiusto che gode nel
praticare un’ingiustizia rientra tra coloro che possono essere corretti e non
meritano la reclusione / l’eliminazione.

 
242 Enrico Piergiacomi

pubblicamente alla persona ingiusta (o viceversa, se i concitta-


dini portino il delinquente in tribunale perché lo odiano già),
oppure se siano due esiti diversi. In questo secondo caso, Tor-
quato direbbe che alcuni ingiusti scontano la pena subendo un
processo, altri vivendo in una società dove nessuno vuole loro
bene. Sia che sia vera l’una o l’altra interpretazione,52 quel che
importa è che si sottolinea come l’ingiustizia non ripaghi in nes-
sun modo. Torquato sostiene con forza che tale vizio non procu-
ra quei piaceri che si desidera ottenere tramite pubbliche nefan-
dezze.
Se l’ingiusto subisce i danni della punizione e del pubblico
ludibrio, ne segue per converso che chi è giusto riceve i benefici
contrari (I 16, 52-53). La giustizia spinge a non infrangere le
leggi e offre, così, il senso di pace che manca a chi teme sempre
di essere sorvegliato e punito dalla comunità. Essa poi determi-
na non l’odio, bensì la stima e l’affetto dei concittadini,53 che a
sua volta fanno nascere nell’anima del giusto un senso di gioia
(iucunditas) e di sicurezza – cioè del bene che, come si è visto
nel § 1, è ricercato attivamente dalla virtù. Essere apprezzati e
stimati dispiega, del resto, una vita sicura e il piacere più pieno
in assoluto (tutiorem vitam et voluptatem pleniorem efficit),
probabilmente perché non genera turbamenti psichici e fa spera-
                                                                                                                       
52
Filodemo sembra preferire la prima. Nella col. 5 del libro X della Reto-
rica (ed. Sudhaus 1964, vol. 1, 234), egli riferisce che i tiranni vengono spes-
so puniti dai cittadini che li odiano (ma cfr. già Aristot. Pol. V 1312 b 17-34).
Nel De pietate, invece, sostiene ora che bisogna detestare coloro che trasgre-
discono il culto legale degli dèi (coll. 25, 723-26, 729), ora che Socrate fu
portato in tribunale dagli Ateniesi perché si era inimicato la cittadinanza (coll.
59, 1682-1691). In questo secondo caso, tuttavia, Filodemo non manca di sot-
tolineare che Socrate fu punito ingiustamente, mostrando che l’odio della co-
munità possa scatenarsi anche contro un giusto.
53
Per raggiungere questo legame affettivo, gli Epicurei potrebbero anche
essere stati mossi a beneficare occasionalmente, o indirettamente, la comuni-
tà. Cfr. i riferimenti citati in Roskam 2007, 120-125. Si noti poi che Diogene
Laerzio riferisce che Epicuro ricevette onori dalla patria e asserì che il saggio
deve porsi al di sopra dell’odio col ragionamento (X 9 e 117; sul secondo
punto, cfr. anche Cic. De fin. II 26, 84). Questi loci paralleli confermano il
portato genuinamente epicureo del discorso morale di Torquato.

 
I piaceri del cittadino epicureo 243

re che, in tempi di difficoltà, si potrà contare sul sostegno attivo


della cittadinanza. Torquato sostiene, dunque, sintetizzando al-
l’osso, che la giustizia non si coltiva di per sé, ma la si pratica
per ottenere la perfetta integrazione nella città, che è una condi-
zione massimamente piacevole.
Anche questa concezione concorda con gli insegnamenti di
Epicuro. Il carattere strumentale della giustizia era individuata
da lui, infatti, nella capacità di dare il piacere dell’ἀταραξίία,
inducendo l’individuo a non commettere colpe che arrecano an-
sie terribili (RS XVII e XXXIV, GV 7, il fr. 519 Us. = Clem.
Alex. Strom. VI 2, 24, 10). Epicuro e discepoli riconoscevano,
inoltre, che la sicurezza o ἀσφάάλεια è la ricompensa del giu-
sto. E infine, anche il mettere l’accento sullo sperare nell’aiuto
della comunità è in linea con gli insegnamenti epicurei, visto
che un Epicureo identifica la felicità nel benessere della carne /
dell’anima e anche nella fida speranza di conservarlo in futuro
(Epic. GV 33, fr. 22, 3 Arr2. = Plut. Suav. viv. 1089 D 5-7). For-
se la sola aggiunta vera fatta da Torquato è l’idea che la giusti-
zia produce gioia. Essa è una passione che non è esplicitata dai
testi del maestro Epicuro e di altri Epicurei. Ma dato che forse il
corrispettivo greco di iucunditas è la χαράά, e giacché questa è
forse un piacere cinetico che subentra quando l’anima ha rag-
giunto l’ἀταραξίία,54 i.e. del fine a cui secondo Epicuro si mira
tramite la giustizia, non si può escludere che Torquato non fac-
cia altro che esplicitare un punto dato dal maestro per implicito.
Chi ha raggiunto la quiete nella propria anima non potrà che
provare gioia, cioè una variazione piacevole della consapevo-
lezza di non avere nulla da temere dall’esterno.

5. Ancora sulla metafora anima-città

Possiamo trarre adesso una prima conclusione. Seppure cia-


scuna virtù disponga di capacità e finalità specifiche diverse, es-

                                                                                                                       
54
Sposo l’interpretazione di Liebersohn 2015.

 
244 Enrico Piergiacomi

se hanno il beneficio comune di indurre a essere un buon citta-


dino. L’Epicureo virtuoso ricava sempre piacere dal rispetto del-
le leggi e dal mantenersi fedele allo Stato o alla patria, che non
tradisce né attacca per ricavare piccoli piaceri superflui. La con-
clusione appena tratta può trovare rinforzo nel passo di De fin. I
18, 57-58, di cui è utile citare il seguente estratto:
clamat Epicurus, is quem vos nimis voluptatibus esse deditum di-
citis, non posse iucunde vivi, nisi sapienter, honeste iusteque viva-
tur, nec sapienter, honeste, iuste, nisi iucunde. neque enim civitas
in seditione beata esse potest nec in discordia dominorum domus;
quo minus animus a se ipse dissidens secumque discordans gustare
partem ullam liquidae voluptatis et liberae potest. atqui pugnanti-
bus et contrariis studiis consiliisque semper utens nihil quieti vide-
re, nihil tranquilli potest

Epicuro – questo Epicuro che voi incolpate di occuparsi troppo dei


piaceri – proclama a voce alta che non si può vivere piacevolmente
se non si vive con sapienza, onestà e giustizia, e viceversa non si
può vivere con sapienza, onestà e giustizia se non piacevolmente.
Infatti, né uno Stato può essere felice quando è in atto la rivolu-
zione né una casa quando sono discordi i padroni: tanto meno
un’anima in dissidio e in discordia con se stessa può gustare alcu-
na parte di puro e libero piacere. Del resto, trovandosi sempre in
balìa di tendenze e propositi contrastanti ed opposti, non può veder
attimo di requie né di tranquillità.55

Si ricorderà che la metafora era stata già impiegata in De fin.


I 13, 44, durante la descrizione della sapienza. Questo passo po-
teva far credere che solo questa virtù placa le pulsioni aggressi-
ve dirette contro la città e quelle che distruggono la ‘cittadella’
dell’anima. L’estratto appena citato prova in modo inequivoca-
bile che si tratta, invece, di una capacità dispiegata dal compor-
tamento virtuoso in senso ampio. Non solo dunque la sapienza,
ma anche la temperanza e il coraggio e la giustizia, procurano il
senso di pace nella città grande (= lo Stato) e la città piccola (=
l’anima), che come si è visto nel § 1 si implicano olisticamente
a vicenda. Seppure Torquato non lo dica direttamente, è chiaro

                                                                                                                       
55
Trad. Marinone 2010, 117; il corsivo è mio.  

 
I piaceri del cittadino epicureo 245

che egli sta dicendo che la comunità non sarà felice, finché ogni
singolo membro non sarà beato, e viceversa. L’impegno di un
Epicureo sarà allora, anzitutto, quello trovare la quiete in se
stesso, affinché la pace possa riverberarsi sulla comunità. Un al-
tro insegnamento chiave di Epicuro era, del resto, che solo chi è
utile a sé è utile ai molti,56 o anche che solo chi è diventato se-
reno può infondere la serenità ad altri (GV 79).
Vi è un’altra aggiunta considerevole che possiamo ricavare
dallo studio della metafora di Torquato, ripetuta in De fin. I 18,
57-58. Essa ci mostra che uno Stato e una famiglia felici consi-
stono nello Stato e nella famiglia senza conflitti intestini, dove
non è la competizione folle tra individui a dare valore all’insie-
me, bensì l’armonia dei suoi membri. Da un punto di vista epi-
stemologico, inoltre, la metafora ci mostra che Torquato ricorre
qui a un modulo argomentativo tipico della sua scuola. Si tratta
dell’argomento per analogia, che consiste nell’inferire una pro-
prietà occulta da una o più evidenze empiriche. In questo caso
specifico, si parte dalla premessa evidente che uno Stato / una
famiglia si auto-distrugge a causa delle lotte tra membri, per
concludere che un individuo sta male per un analogo conflitto
intestino. La conseguenza morale di questa argomentazione epi-
stemologica è che Torquato ‘politicizza’, per così dire, lo spazio
dell’anima. Vi è un rapporto di isomorfismo tra la città e la psi-
che, tanto che la seconda rappresenta in piccolo l’identico be-
nessere che nella prima si manifesta in grande.

6. L’amicizia. Torquato contro i cittadini epicurei timidio-


res?

Sembra vi sia però un grande assente nel discorso di Torqua-


to. Esso non dichiara esplicitamente una connessione tra la virtù
dell’amicizia e la scelta di essere un buon cittadino. Nella sua
trattazione sull’argomento (I 20, 65-70), infatti, Torquato si li-

                                                                                                                       
56
De Sanctis 2012.

 
246 Enrico Piergiacomi

mita a mostrare che avere degli amici è sia indispensabile, poi-


ché una vita senza φίίλοι è dura ed esposta a rischi, sia cosa fa-
cile, per poi presentare tre interpretazioni epicuree dell’essenza
della φιλία. Esse provengono da tre gruppi:57
1) il gruppo di Epicurei che sostengono che l’amicizia ha valo-
re strumentale, poiché è coltivata non di per se stessa, bensì
per ricavare utilità e piacere sia a sé, sia ad altri;
2) il gruppo degli Epicurei più timidi (timidiores) che asseri-
scono che l’amicizia nasce sì dalla ricerca dell’utilità, ma
poi si trasforma, grazie all’abitudine, in un legame di affetto
disinteressato;58
3) il gruppo di Epicurei che limitano l’amicizia al patto di reci-
proco sostegno che i sapienti stipulano tra loro.
Tuttavia, tra questi gruppi epicurei, quello dei timidiores
menziona un interessante collegamento con la città, colmando
così il vuoto lasciato aperto da Torquato. Conviene citare
l’estratto che lo contiene (De fin. I 20, 69):
etenim si loca, si fana, si urbes, si gymnasia, si campum, si canes,
si equos, si ludicra exercendi aut venandi consuetudine adamare
solemus, quanto id in hominum consuetudine facilius fieri poterit
et iustius?

Ed invero, se per l’abitudine siamo soliti affezionarci ai luoghi, ai


santuari, alle città, alle palestre, al campo sportivo, ai cani, ai ca-
valli, ai divertimenti della ginnastica o della caccia, quanto non sa-
rà più facile e più giusto che ciò si verifichi nelle relazioni abituali
con gli uomini?59

                                                                                                                       
57
Cfr. per ciascuna posizione Packer 1938, 40-42; Müller 1972, 119-124;
Konstan 1996, 396; Landolfi 1996, 881-892; Essler 2012; Mitsis 2014, 147-
165.
58
È probabile che questa teoria sia derivata da un’interpretazione di Epic.
GV 23. Cfr. Diano 1948, 75; Armstrong 2011, 125-128; Essler 2012, 157-
158; Mitsis 2014, 147-148. Il potere delle abitudini di distaccare dalla ricerca
interessata del piacere è riconosciuto anche in Cic. De fin. V 25, 74 (= fr. 398
Us.). Lucrezio sostiene, di contro, che una pacifica convivenza tra uomo e
donna avviene per lunga consuetudine (4, 1278-1287).
59
 Trad. Marinone 2010, 124-127; corsivo mio.  

 
I piaceri del cittadino epicureo 247

L’aspetto originale dell’argomento elaborato dagli Epicurei


timidiores è che il legame disinteressato che prescinde dalla ri-
cerca di ogni utilità non è limitato solo al rapporto tra esseri
umani. Esso è esteso anche alla città nel suo insieme. Ne deriva
che, come il contatto abituale determina a poco a poco uno sle-
garsi dalla ricerca dell’utile nei rapporti umani, così lo stesso
accade nei rapporti con la patria e lo Stato. Dapprincipio, un
Epicureo ‘timido’ si propone di rispettare l’una e l’altro per ri-
cavare vantaggio. Gradualmente, però, egli si sente legato alle
istituzioni da un puro legame di affetto. Ciò significa, nello spe-
cifico, che a questo stadio un Epicureo ‘timido’ non tradirà né
attaccherà lo Stato e la patria perché vuole loro troppo bene. In
generale, gli studiosi ritengono che questi timidiores includano i
seguaci di Metrodoro e Filodemo.60 Si potrebbe però annoverare
nelle loro fila, mantenendo la debita cautela, anche Tito Pompo-
nio Attico e Fedro.61 Secondo la testimonianza del De finibus di
Cicerone (V 1, 3), infatti, costoro provavano un particolare at-
taccamento alle rovine dei Giardini di Epicuro. Questi sono for-
se un esempio di ‘luoghi’ a cui gli Epicurei timidiores si affe-
zionano per abitudine e che sono disposti a proteggere, senza
mirare a un vantaggio.
Come si rapporta Torquato verso questa lettura politica dei
‘timidi’? Va premesso anzitutto che egli nutre un certo rispetto
verso questo gruppo (I 20, 69). Torquato dice che essi sono
«abbastanza acuti» (satis acutis). Riconosce, inoltre, che la loro
posizione più sfumata dipende, da un lato, dal tentativo di ri-
spondere a coloro che – come Cicerone – attaccavano la dottrina
epicurea dell’amicizia come incoerente o dannosa (cfr. e.g. De
fin. II 24, 79-25, 80), dall’altro da un senso di reverenza o ver-
gogna (cfr. verentur), che li spinge a credere che un rapporto
basato solo sull’utile e sul piacere rende l’amicizia quasi zoppi-
cante (quasi claudicare).
                                                                                                                       
60
Cfr. Essler 2012, 158, e Tsouna 2007, 28-31 e 261.
61
Così anche Hirzel 1882, 689-690. Lo studioso pensa però a Fedro e Ze-
none di Sidone, non a Fedro e Attico.

 
248 Enrico Piergiacomi

Detto ciò, si può supporre che Torquato aderisca all’inter-


pretazione del primo dei tre gruppi sopra menzionati e si distan-
zi dai timidiores.62 Una prima prova si basa sui risultati raggiun-
ti nei paragrafi precedenti. Se egli aveva argomentato che la
condotta virtuosa è inseparabile dalla ricerca di un utile piacevo-
le, è inevitabile che le sue simpatie vadano all’interpretazione
della φιλία che è più vicina a questa prospettiva morale. Va poi
sottolineato che dire che i timidiores sono «abbastanza acuti»
implica che essi non sono acuti sino in fondo, al contrario di
quelli del gruppo 1. Questi se la cavano facilmente, a suo avvi-
so, nel rispondere alle critiche degli avversari della lettura utili-
taristica dell’amicizia. 63 Torquato sottolinea, inoltre, che gli
Epicurei cercano tramite gli amici la speranza dell’assistenza
futura, la gioia di vivere (iucunditas vitae) e l’eliminazione
dell’odio (I 20, 66-67). Questi sono esattamente gli effetti bene-
fici che si ricavano coltivando la virtù della giustizia (lo si è vi-
sto nel § 4). Giova notare, infine, che Torquato suggella
l’esposizione dell’idea di amicizia difesa dagli Epicurei del
gruppo 1 con una citazione in traduzione latina della RS XXVIII
di Epicuro, da cui si evince anche che la φιλίία dipende dalla
scienza della natura.64 Dato che egli si propone di esporre le
idee del maestro (cfr. De fin. I 8, 28), ciò potrebbe significare

                                                                                                                       
62
Qualcosa del genere pensano Hirzel 1882, 688-689, e Mitsis 2014, 149.
63
Cfr. I 20, 66: facile, ut mihi videtur, expediunt. Accenno al fatto che
Torquato poteva benissimo dissentire da altri Epicurei, come è attestato dai
passi De fin. I 9, 31 e 17, 55. Nel primo, egli riferisce (senza abbracciarla) la
tesi dei colleghi che vogliono che l’identità del bene con il piacere è colta per
prenozione (cfr. qui Packer 1938, 19-21; Sedley 1996, 323-327; Tsouna 2007,
17 e 70-73; Verde 2013, 68-70 e 165-166). Il secondo afferma, invece, che
sono nel torto quegli Epicurei che asseriscono che le virtù e i doveri sono de-
siderabili di per sé, dunque slegati dalla ricerca del godimento (la loro posi-
zione è richiamata da Cicerone in De fin. I 7, 25).
64
Cfr. I 20, 28 e Tsouna 2007, 28. Sul legame tra amicizia e scienza della
natura, è ancora fondamentale Arrighetti 1978. L’idea che Torquato potesse
abbracciare questa prospettiva è rinforzata dalla sua conoscenza della fisica
epicurea (I 8, 28; 19, 63-65; 21, 71).

 
I piaceri del cittadino epicureo 249

che ritenga che la prospettiva utilitarista vada abbracciata, per-


ché più prossima alla dottrina originaria del maestro.
C’è certo sempre l’alternativa che Torquato apprezzi di più,
invece, la tesi che l’amicizia si stabilisca col contratto tra saggi,
sposata dagli Epicurei del gruppo 3. Costui non manca di notare
che questa interpretazione è lecita, si traduce spesso (saepe) in
realtà, ma soprattutto che non vi è niente di più adatto per con-
seguire la gioia di vivere (I 20.70). O ancora, è lecito pensare
che Torquato consideri le tre interpretazioni come equipollenti e
tutte capaci di condurre alla vita felice.65 Preferisco dunque so-
spendere il giudizio sulla questione, proponendo però che le ar-
gomentazioni da me fornite provano che egli sarebbe forse me-
no propenso ad abbracciare la tesi dei timidiores, rispetto alle
interpretazioni degli Epicurei dei gruppi 1 e 3.
Se l’ipotesi prospettata è vera, essa ci dice qualcosa della
concezione politica che Torquato ha dell’amicizia. Respingendo
l’affetto disinteressato che i timidiores nutrono verso la città,
egli de facto crede che un Epicureo potrebbe rendersi amici i
cittadini e la patria per interesse, i.e. per il piacere che si ricava.
A parziale conferma, si può notare che è la stessa concezione
strumentale della virtù che spinge Torquato a dire che non van-
no traditi gli amici (I 15, 49). Essere un buon cittadino com-
prende in sé, dunque, un comportamento amichevole verso gli
altri concittadini, mosso meno dagli affetti e più da un rapporto
di sostegno/utile reciproco.

7. La virtù del buon cittadino: un’eccellenza ‘sincretica’

L’indagine svolta ha constatato che l’esercizio delle virtù


epicuree ha una direzione civile e politica. Per ottenere il piace-
re e la speranza di mantenerlo in avvenire, ogni ἀρετήή dispiega
una condotta che porta a integrarsi con la comunità, le regole
previste dalle leggi, i doveri che lo Stato pretende dai suoi citta-

                                                                                                                       
65
Calheiros de Lima 2014, 13-14.

 
250 Enrico Piergiacomi

dini, in cambio della sicurezza dai pericoli. Ciò fa sì che gli


Epicurei guadagnino l’affetto e il sostegno dei loro concittadini,
nonché la gioia di vivere in pace in una comunità priva di con-
flitti.
Questa conclusione finale ci permette di risolvere il proble-
ma da cui eravamo partiti. Esiste una virtù epicurea del buon
cittadino? La risposta è in parte positiva, in parte negativa. Ne-
gativa perché resta il fatto che una simile ἀρετήή non è nemme-
no citata per allusione nel discorso morale di Torquato, ossia
nella trattazione più esauriente a noi giunta della concezione
epicurea della virtù. Ma la risposta è anche in parte positiva, in
quanto la si può ricavare tra le righe. La virtù del buon cittadino
non è una virtù a sé o autonoma, perché è per così dire una for-
ma di eccellenza ‘sincretica’. Essa non è che una summa della
condotta virtuosa dispiegata da tutte le ἀρεταίί singole. Si di-
venta, in altri termini, un buon cittadino solo dopo aver appreso
la sapienza, la temperanza, il coraggio, la giustizia e l’amicizia,
poiché ciascuna virtù offre una motivazione stringente a preferi-
re l’integrazione nella città alla volontà di rovesciarne l’assetto.
Ammesso che questa ricostruzione sia vera, ne deriva anche,
per concludere, che tra la virtù del cittadino e la saggezza non vi
è separazione, secondo l’ottica epicurea. Questa inferenza ag-
giuntiva richiede poca dimostrazione. Poiché il § 132 dell’Epi-
stola a Meneceo dice chiaramente che tutte le ἀρεταίί discen-
dono dalla φρόόνησις, e giacché non è possibile essere un buon
cittadino senza praticare appunto le varie virtù, allora non si può
dare una virtù del πολίίτης separatamente dalla saggezza. La
prospettiva epicurea potrebbe allora prevedere, contro Platone e
Aristotele, che nessuno è in grado seriamente di obbedire a chi
comanda e di ricavare tutti gli oggettivi vantaggi del caso, senza
anche essere saggio.
Ciò ha tra le sue conseguenze immediate la divaricazione tra
i σοφοί intrinsecamente felici e gli stolti condannati senza la vir-
tù all’infelicità. In questo senso, ad esempio, l’obbedienza alle
leggi diventa una misura coercitiva atta a trattenere i malvagi

 
I piaceri del cittadino epicureo 251

dal danneggiare i buoni, più che una creazione in sé positiva.66


Tra il mondo dei Sofisti, di Platone, di Aristotele e quello di
Epicuro / Torquato sono avvenuti dei cambiamenti epocali, che
hanno compromesso la fiducia nell’idea che chi non è eccellente
possa trovare pace, armonia e felicità in questa terra. Il benesse-
re è raggiunto unicamente dai migliori che compiono un estre-
mo sforzo morale e intellettuale. Tutti gli altri si barcameneran-
no in una vita di stenti e di conflitti interiori, che, come Lucre-
zio (2, 1-61), Torquato guarda con distacco e piacere dall’alto
della sua indubbia superiorità etica (De fin. I 19, 63).

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66
E, di conseguenza, che legalità e giustizia non debbono necessariamente
coincidere. Su questo aspetto, cfr. anche Epic. fr. 530 Us., Philod. De elect.
coll. 11-12, Diog. Oin. fr. 56 Smith, Alberti 2008, pp. 97-103.
*
La lista comprende solo le opere epicuree citate spesso nel testo princi-
pale o nelle note. Quelle richiamate un’unica volta sono accompagnate subito
dal riferimento bibliografico all’edizione critica.

 
252 Enrico Piergiacomi

SVF Stoicorum Veterum Fragmenta (ed. von Arnim


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SILVIA FAZZO

UN CASO DI CITTADINANZA PRIVILEGIATA


IN EPOCA ROMANA IMPERIALE: ALESSANDRO DI AFRODISIA

1. Premessa

In questa esposizione, comincerò dai rudimenti, certo in par-


te fin troppo noti agli specialisti di storia romana, e di storia del
diritto.1 Qui, infatti, non si tratta di proporre qualche originale
contributo allo studio della cittadinanza romana, o di qualche
suo aspetto; si tratta invece, innanzitutto, di inquadrare nel suo
contesto problematico un caso di studio emerso all’inizio del
nuovo millennio (Chaniotis 2004): la cittadinanza romana di
Alessandro di Afrodisia. In questa occasione, vorrei anche sot-
toporre alla discussione ed esplicitare una mia precisa proposta
di lettura delle relazioni con Roma del filosofo aristotelico Ales-
sandro di Afrodisia: tali relazioni infatti, pur già note da un in-
dizio interno all’opera dell’autore (cfr. Alex. De fato, 164, 3-
165, 13 Bruns, cfr. qui infra) emergono comprovate e rinforzate
dai dati archeologici, ma sono sfuggite finora alle ricostruzioni
di insieme.
                                                                                                               
1
Queste ricerche, come apparirà, hanno natura interdisciplinare. Devono
moltissimo alla consulenza e all’incoraggiamento di Valerio Marotta e di Joy-
ce Reynolds, di entrambi i quali riporterò alcune osservazioni. Sono grata a
Elvira Migliario e Anselmo Baroni per i loro suggerimenti, molto provvidi e
generosi nei confronti di chi, pur non specialista, si addentra in una materia
importante e molto tecnica. Un grazie sentito a Maurizio Giangiulio per l’in-
coraggiamento; a Paolo Canali, ofm, per la conversazione sul caso di Paolo di
Tarso, a Vera Fazzo e a Vittorio Bonzi per le loro osservazioni di lettura; e
principalmente a Fulvia de Luise, non solo per l’invito a contribuire, ma an-
che per la discussione delle diverse fasi di elaborazione di questo scritto, dei
cui difetti resto indubbiamente la sola responsabile.
262 Silvia Fazzo

D’altronde, nelle ricerche sulla storia dell’aristotelismo greco


in età romana, i dati fattuali sono davvero rari; le datazioni sono
spesso congetturali, riducendosi a un incrocio fra possibili ter-
mini post quem e ante quem.
La cittadinanza romana di Alessandro di Afrodisia, massimo
esponente della scuola in esame, è uno dei pochissimi dati fat-
tuali di cui disponiamo nell’intero ambito di studi. In virtù del
sistema dei tria nomina, che la cittadinanza conferiva, e che
l’epigrafe di Karakasu restituisce (Chaniotis 2004, cfr. qui in-
fra), si è in condizione di datare l’acquisizione della cittadinan-
za stessa nella genealogia familiare, risalendo di un paio di ge-
nerazioni nella ascendenza patrilineare.

2. Esclusività e identità nello statuto di civis romanus fra i


sudditi delle province

La cittadinanza romana non era questione di ius soli. Anche


nelle province, come a Roma, cittadini romani o si nasceva, o si
diventava, e chi nasceva cittadino poteva esser figlio di un pere-
grinus poi diventato cittadino per qualche determinato motivo.
Anche molti greci poterono diventare cittadini romani, sce-
gliendo di abbandonare la propria cittadinanza originaria.2
Lo confermano i reperti archeologici di età romana imperiale
da cui emergono numerosi casi di sudditi di lingua greca che fu-
rono elevati a una tale dignità. Alla cittadinanza romana, in ef-
fetti, i sudditi greci avevano spesso un accesso privilegiato.3

                                                                                                               
2
In linea di massima, divenendo cittadini, i singoli sudditi lasciavano la
loro originaria iscrizione ai diversi municipia, nei quali si strutturava l’am-
ministrazione romana soprattutto nei territori occidentali. Analoga rinuncia
poteva avvenire nei territori orientali, ove anche in età romana le poleis resta-
vano indipendenti dal punto di vista amministrativo, e in ciascuna di esse i
cittadini avevano diritti maggiori e diversi da quelli dei non cittadini.
3
Lo si vede dalla normativa vigente in Egitto, che pur precludendo l’e-
stensione della cittadinanza ai sudditi di quella provincia imperiale, faceva
eccezione per i greci residenti in Egitto.
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 263

Nondimeno, fino alla Constitutio Antoniniana (editto di Ca-


racalla), che nel 212 dichiarò cittadini tutti i sudditi liberi
dell’impero, la cittadinanza rimase un privilegio di pochi.
Su questo la storiografia del secolo passato non sempre ha
insistito; una classica monografia di riferimento (A.N. Sherwin-
White, The Roman Citizen 19732) paragona la cittadinanza ro-
mana a una sorta di marea, che avanza progressivamente fino
all’epoca della Constitutio Antoniniana.
Ma questa immagine ha dei limiti, come Valerio Marotta sot-
tolinea, anche perché paragona l’estensione della cittadinanza a
un fenomeno naturale e quasi ineluttabile. L’immagine della
flood tide inoltre può far pensare che alla vigilia di questo editto
già buona parte dei sudditi dell’impero fossero cittadini, o in
condizione di poterlo divenire, e che l’editto del 212 giungesse a
perfezionare un processo già largamente in atto. Questa appare
in effetti una convinzione, talora irriflessa, ma nondimeno rela-
tivamente diffusa nella storiografia.
L’esame dei singoli casi, che è alla base della monografia di
Marotta, mostra che fino al 212, quando divenne universale ope
legis (seppur sempre confinata ai sudditi liberi dell’impero) la
cittadinanza romana costituì un privilegio distintivo. Lo dimo-
strano anche gli esempi che menzionerò, traendone alcuni fra i
moltissimi che si potrebbero addurre, significativi per la storia
culturale dei primi due secoli dell’impero. Non è nemmeno pos-
sibile sostenere che vi fu un cambiamento di tendenza, una svol-
ta per esempio, fra il primo e il secondo secolo. Anzi, ancora sul
volgere del terzo secolo, negli anni in cui Caracalla era coreg-
gente del padre Settimio Severo, la cittadinanza rende insigni
alcuni rispetto ad altri fra i sudditi dell’impero. Il caso di studio
che porrò al centro sarà appunto di quell’epoca. Avremo modo a
più riprese di insistere sul carattere distintivo dello statuto dei
cives.
Il convegno organizzato da Fulvia de Luise ne dà occasione.
Centrato, per dirlo in una parola, sull’esclusività della cittadi-
nanza nel mondo antico, il tema del convegno porta a guardare

 
 
264 Silvia Fazzo

al rovescio della medaglia: la cittadinanza, conferendo determi-


nati privilegi e, come si dice in diritto romano, ‘guarentigie’,
ancora in età imperiale di fatto discrimina chi ne è escluso.
L’esclusione stessa poi in negativo contribuisce a configurare il
profilo positivo della comunità dei cittadini,4 e delle singole in-
dividualità che la compongono, cui conferisce identità pubblica,
quasi ponendo in secondo ordine gli altri tratti distintivi indivi-
duali. In effetti, quanto maggiore è l’esclusione, tanto più mar-
cata è la differenza di condizione fra sudditi e cittadini, e tanto
più forte è la componente identitaria del senso di appartenenza
di questi ultimi alla civitas romana come corpo civico unitario
seppur distribuito sull’intera oikoumene romanizzata. Questo
senso di identità non è meno forte, anzi risulta accentuato nei
sudditi che sono divenuti cittadini, in quelli che vivono fra
esclusi, e ne erano essi stessi esclusi, ma sono poi stati inclusi
nella cittadinanza romana.
Proprio per il carattere esclusivo della cittadinanza nelle pro-
vince romane, la sua estensione a tutti i sudditi liberi
dell’impero, che pure non svuota di significato la cittadinanza in
sé, indebolisce in un certo senso il suo valore identitario per
l’individuo. Ma almeno fino al 212, civis romanus sum è il pri-
mo modo per declinare le proprie generalità, e per chiedere il
rispetto di quelli che noi considereremmo i diritti fondamentali
della persona, in secoli nei quali tali diritti costituiscono un pri-
vilegio.
Al riguardo, lavorare per casi di studio è una necessità inevi-
tabile, e prassi consolidata degli studi di tutto l’ampio settore di
studi relativi alla storia materiale e istituzionale delle province
romane in età imperiale. Già dettava questo precetto il quinto
volume della Römische Geschichte di Theodor Mommsen
(1885), dedicato appunto alle province, che faceva il punto su
base strettamente documentaria in un settore fino ad allora pre-
                                                                                                               
4
Come scrive Fulvia de Luise nell’Introduzione a questo volume (cfr. su-
pra) «la condivisione di un determinato sistema della legalità … produce ne-
gli individui un effetto identitario».
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 265

valentemente trascurato. Invero, buona parte della difficoltà de-


riva dalla natura dei documenti disponibili, che non costituisco-
no di per sé un tutto organico.5 Ciò vale anche e a maggior ra-
gione per la cittadinanza romana fra i sudditi delle province: per
apprezzarne e soppesarne il rilievo sarebbe utile conoscere me-
glio lo status di coloro che cittadini non erano. Ma questo tipo
di informazione nei documenti superstiti emerge di rado, in mo-
do accidentale e contingente, senza costituire una prospettiva
privilegiata dal punto di vista delle fonti antiche. Esse, si può
dire, sono quasi tutte di parte: sono prevalentemente voci di se-
gno contrario, di cittadini romani contrari a vedere estesi i pro-
pri privilegi.
Vorrei mostrare tuttavia che talvolta, e per esempio in un ca-
so come il nostro, i documenti della storia materiale – pur così
indiretti, parziali, frammentari –, nondimeno parlano quando si
seleziona una chiave di lettura, si pongono domande, si accosta-
no ad altri documenti e possono davvero diventare eloquenti in
ragione di quelle domande.
Di qui la scelta di mettere al centro il nostro caso di studio: la
cittadinanza del filosofo e commentatore di Aristotele Alessan-
dro di Afrodisia. In vista di questo, si tratterà di mobilitare dati
archeologici relativamente recenti combinandoli con documenti
in parte già alquanto noti, e più generali. Lo statuto di civis ro-
manus di Alessandro è in effetti scoperta relativamente recente:
si deve agli scavi di una équipe anglo-americana nell’antica Ca-
ria, ai confini della Frigia, sul corso del fiume Meandro.6

3. Un reperto archeologico come caso di studio: l’epigrafe


di Karakasu

Mi riferisco ai ritrovamenti di resti della città di Afrodisia,


avviati circa alla metà del secolo scorso, e alle connesse ricerche
                                                                                                               
5
Salmieri 2015. Devo questa utile segnalazione a Elvira Migliario.
6
I rapporti sono stati regolarmente pubblicati sull’«American Journal of
Archaeology», cfr. n. seg.

 
 
266 Silvia Fazzo

storiche che possono interrogare quei reperti; e a uno di essi in


particolare. È relativo ad Alessandro di Afrodisia, filosofo ari-
stotelico e commentatore di Aristotele. Questi, a nome del sena-
to e del popolo (presumibilmente, della sua città) dedica
un’epigrafe al padre, Titus Aurelius Alexander, filosofo. Egli
stesso si firma come Titus Aurelius Alexander, filosofo e ‘dia-
doco in Atene’ .
L’epigrafe, edita nel 2004 da Angelo Chaniotis, responsabile
della pubblicazione degli esiti degli scavi presso l’«American
Journal of Archeology», recita:
Ψηφισαµμέένης   τῆς   βουλῆς   καὶ   τοῦ   δήήµμου   Τίίτος   Αὐρήήλιος  
Ἀλέέξανδρος  φιλόόσοφος  τῶν  ΆΆθήήνεσιν  διαδόόχων  Τ.  Αὐρήήλιον  
Ἀλέέξανδρον  φιλόόσοφον  τὸν  πατέέρα.7

Per deliberazione del senato e del popolo, Tito Aurelio Alessandro, filoso-
fo, uno dei diadochi in Atene [ha commemorato con questa statua] il pa-
dre Tito Aurelio Alessandro, filosofo.8

Con virtuale sicurezza, identifichiamo l’Alessandro diado-


chos con il filosofo aristotelico Alessandro di Afrodisia, capo-
scuola peripatetico insignito della cattedra imperiale aristotelica
in Atene, istituita, a quanto si ritiene, da Marco Aurelio nel 176
d.C. Ciò infatti collima con quanto Alessandro scrive di sé nel
passo del De fato già sopra citato, sul quale è utile ritornare,
perché è l’unico suo testo autobiografico di Alessandro. Ivi, e
più precisamente nella corso della dedica del trattato a Settimio
Severo e al figlio di lui Caracalla – Alessandro dice:

                                                                                                               
7
Cfr. Chaniotes 2004, Text n. 4, che commenta ivi, p. 80: «The name Ti-
tus Aurelius, held both by the father and the son (l. 4 and l. 8), implies that the
family was awarded Roman citizenship by the late emperor Antoninus Pius
(Titus Aurelius Fulvus Antoninus), probably when he was holding the office
of the governor in Asia (135-136).
8
L’epigrafe ha già sollevato dibattito dal 2004, quando Chaniotis la pub-
blicò, cfr. Sharples 2005 e Fazzo 2005, soprattutto nell’Appendice Alessan-
dro di Afrodisia nell’epigrafe di Karakasu e nella dedica del De fato, pp.
283-297.
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 267

Io sono a capo della scuola filosofica di Aristotele, essendo stato pro-


clamato professore per vostra attestazione.9

Il dato più pertinente che il ritrovamento archeologico abbia


mostrato, e che prima non si era mai sospettato, è che Alessan-
dro di Afrodisia, massimo commentatore e forse in parte anche
artefice dell’ordinamento attuale del corpus e della Metafisica di
Aristotele, fu cittadino romano; inoltre anche suo padre prima di
lui era stato cittadino romano.
Notevole è questo: Alessandro, filosofo e διδάάσκαλος in
Atene, chiama se stesso Tito Aurelio Alessandro, mostrando co-
sì interamente compenetrata la sua identità personale e sociale
con il suo statuto di cittadino. Questo – peraltro – si accorda be-
nissimo con l’immagine della cittadinanza romana elogiata da
Elio Aristide (A Roma, §§ 59-61).
Il dato è importante, e merita attenzione. Non mi pare che sia
stato del tutto messo a fuoco il contributo della romanizzazione,
e in specie dell’attribuzione della cittadinanza ad Alessandro e
ai membri della sua famiglia. Ci si chiede quanto possa pesare
la cittadinanza (civilitas) come causa concomitante e fattore
concorrente del fenomeno alquanto unico e irripetibile che
l’opera di questo cittadino romano Alessandro costituisce nella
storia culturale dell’Occidente.10
Ciò che in primo luogo serve è capire meglio il contesto:
qualunque considerazione, proposta o congettura a questo ri-
guardo richiede un riferimento alla condizione e situazione ge-
nerale dei cittadini romani nelle province, più precisamente nel-
le province orientali dell’impero. Chi era cittadino, e perché? La
risposta non è semplice.

                                                                                                               
9
De fato, 164, 13-15. Notevole mi pare qui l’uso del termine astratto (τῆς  
φιλοσοφίίας  προίίσταµμαι) e non di altri termini che indichino più pragmati-
camente la scuola come istituzione. Quanto invece all’epigrafe, la scuola ari-
stotelica di appartenenza non è affatto menzionata, come spesso non lo è in
altre attestazioni epigrafiche, specie se di diadochoi aristotelici o platonici.
10
Fazzo 2017.

 
 
268 Silvia Fazzo

4. Diventare civis romanus

Nei resti archeologici, i cittadini romani su tutto il territorio


dell’impero si riconoscono perché sono caratterizzati dai tria
nomina – praenomen, nomen, cognomen – che si tramandavano
ordinariamente di padre in figlio.11 Questo vale sia per coloro
che nascevano cittadini, sia per coloro che lo diventavano nel
corso della vita.
Si nasceva cittadini da ‘giuste nozze’ ovvero da connubio le-
gittimo fra padre cittadino romano e madre cittadina romana, o
perlomeno latina, o di libera civitas: schiavi e sudditi peregrini
non avevano invece diritto di connubium. La trasmissione era
patrilineare. E addirittura, se il padre perdeva la cittadinanza
prima della nascita del figlio, la trasmissione del diritto restava
valida, benché le iustae nuptiae si dissolvessero: a rendere citta-
dino il figlio faceva fede il momento del suo concepimento. In
assenza invece di ‘giuste nozze’ (iustae nuptiae), il figlio assu-
meva lo status della madre al momento della nascita: romano, o
latino, servile o peregrino.
Si diventava cittadini in diversi modi. Nuovi cittadini si
creavano per ufficiale e solenne manumissione di schiavi da
parte dei padroni che li avevano in patria potestas. Lo schiavo
liberato diveniva con ciò stesso cittadino, assumendo dal patro-
no che lo liberava praenomen e nomen – ma come cognomen
manteneva il nome che gli era proprio prima della manumissio-
ne.
Anche i peregrini potevano diventare cittadini a determinate
– ma alquanto selettive – condizioni, quali il poter devolvere a
spese pubbliche gran parte di un ingente patrimonio, o aver pre-
                                                                                                               
11
In linea di massima, eredita tutti i tria nomina il primogenito; solo no-
men e cognomen, i figli successivi, i cui diversi praenomina derivano da varie
ragioni, esempio dall’ordine di nascita, quali ad esempio Quintus, Sextus, o
dal momento della giornata, quale per esempio Lucius per indicare la nascita
con la luce del giorno. I tria nomina sono trasmessi per lo più anche nei casi
della paternità per adozione, casi nei quali l’antico nome del figlio adottivo
può restare in forma aggettivale come quarto nome.
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 269

stato anni di servizio in uffici duri, ardui pericolosi, come quello


dei vigili del fuoco. Nelle province occidentali le élites dirigenti
erano insignite della cittadinanza romana, che poi trasmettevano
alle generazioni successive, sempre limitatamente alla succes-
sione patrilineare.
In tutto l’impero, comunque, il fenomeno più consistente e
importante, oltre alla manumissione, era la concessione che de-
rivava dal reclutamento nell’esercito. Infatti in determinate unità
ausiliarie, nella flotta e nella cavalleria scelta, potevano prestare
servizio anche sudditi delle province (cui il ruolo di legionari
era ordinariamente precluso). Essi poi dopo non meno di venti-
cinque anni di leva, acquisivano la cittadinanza. In altri casi, a
determinate condizioni, il reclutamento avveniva prima dell’im-
missione nei ranghi dell’esercito. Ciò poteva avvenire in diversi
modi e forme, ma in ogni caso non aveva nulla di automatico:
l’eleggibilità dei singoli era passata al vaglio dalle autorità com-
petenti (specie ove vigessero restrizioni, come in Egitto, dove
solo i greci, non gli egizi, potevano essere reclutati e divenire
cittadini, in virtù di un apposito editto imperiale che esplicita-
mente lo vietava). A partire dal 144 d.C. i militari divenuti cit-
tadini non poterono più trasmettere la cittadinanza ai figli, che
in tal modo dovevano prestare servizio come i padri per poter
godere degli stessi privilegi.
È utile considerare con attenzione il subentro di una misura
più restrittiva in una normativa come quella relativa al recluta-
mento dell’esercito, donde probabilmente derivava il maggior
numero di nuovi cittadini; ne risulta infatti che non sempre nel
II secolo ci fu una progressiva estensione della cittadinanza:
l’immagine della marea dilagante, per quanto suggestiva, non
sembra tener conto degli ostacoli che a questa diffusione si
frapponevano ancora alla vigilia dell’editto di Caracalla; a;
l’editto non fu solo l’approdo di un movimento progressivo,
bensì impose una discontinuità, che fu al tempo stesso anche
una semplificazione rispetto alla complessità delle procedure fi-

 
 
270 Silvia Fazzo

no ad allora vigenti e continuamente rivedute e precisate secon-


do i diversi contesti.
Quanto al nostro caso di studio, il provvedimento del 144 ri-
sulta interessante per contrasto: Alessandro era cittadino figlio
di cittadino, la cittadinanza romana si trasmetteva in famiglia di
padre in figlio, dalla prima metà del II secolo d.C.
Siffatte concessioni, dette anche dette viritiane, erano ad
personam, ed erano elargite dal princeps, o direttamente, o tra-
mite alti funzionari che sollecitavano, o il princeps, o il consi-
lium principis. Dal princeps stesso derivavano al nuovo cittadi-
no – e ai suoi discendenti per via diretta patrilineare – praeno-
men e nomen.
Concessioni di questo tipo, la cui documentazione è sovente
accidentale, emergono come casi isolati. Comportavano indub-
biamente privilegi speciali, che erano conferiti in ragione di
qualche forma di collaborazione con l’autorità romana.
In molti contesti, i sudditi dell’impero percepivano l’autorità
romana come dispotica. Caso estremo è quello del vescovo Ip-
polito, che all’inizio del III secolo identifica l’impero romano
con la ‘bestia’ dell’Apocalisse. Ma già in Tacito, le considera-
zioni di Ippolito si trovano in parte anticipate.12 Più rassegnato,
Plutarco ebbe un ruolo non indifferente: la fortuna di pubblico
delle sue Vite parallele diffuse la convinzione che la cultura la-
tina e quella greca fossero animate da una fondamentale conti-
nuità di valori.
Per contro, l’elogio più entusiasta è probabilmente quello di
Elio Aristide, che si focalizza precisamente sulla diffusione del-
la cittadinanza nei confini dell’impero:
Né il mare, né le enormi distanze di terre impediscono di essere citta-
dini romani, né, a questo riguardo, c’è più differenza fra l’Asia e
l’Europa, ma tutte le opportunità sono a disposizione di tutti: nessuno
che sia degno di posti di comando o di fiducia è infatti considerato
uno straniero, ma si è costituita un’unica democrazia universale, sotto

                                                                                                               
12
Cfr. Ippolito, L’Anticristo, 49, 2 e Tacito, Agricola, 32, 1 con Marotta
2009, 68.
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 271

un unico uomo, il miglior capo e ordinatore, e tutti si riuniscono come


in un foro comune, ciascuno per ricevere ciò che a lui si conviene.13

In generale, le fonti concordi dimostrano che l’ottenimento


della cittadinanza era della massima importanza, ma che non era
facile, per i sudditi dell’Impero, conseguirla. Questo valeva an-
che per chi risiedeva a Roma.

Nel I sec. a. C. un caso fra i più noti è quello del poeta greco
Archia, la cui causa fu patrocinata da Cicerone: dopo anni di re-
sidenza, Archia fu accusato di avere usurpato la cittadinanza
romana, in quanto il suo nome non compariva nei registri del
municipium dal quale proveniva.

Più tardi, la difficoltà di aver conferita e riconosciuta la citta-


dinanza non venne meno, come talora sembra ritenersi: essa ri-
sulta ben presente anche alla fine del principato adottivo. I do-
cumenti del 168-169 e del 177 editi in parte, e tradotti da Elvira
Migliario, mostrano chiaramente quale complessità burocratica
e collegialità di decisione comportasse la concessione della cit-
tadinanza ad personam.14

                                                                                                               
13
Elio Aristide, A Roma, trad. it. in Fontanella 2007. Cfr. Marotta 2009,
57, 187 n. 342, che compara i contenuti di questo testo con Filone d’Ales-
sandria Ambasceria a Gaio § 143; scrive infatti Marotta: «Roma si è costan-
temente impegnata a diffondere nell’Occidente ancora ‘barbaro’ le conse-
guenze civilizzatrici del suo incontro con la Grecia. Filone d’Alessandria
aveva percepito le dimensioni e la tensione di questa forza, scrivendo una fra-
se che, alla luce di quanto finora s’è detto, mi sembra descriva puntualmente
le vere attitudini del dominio imperiale dei Romani: «Augusto ha ellenizzato
gran parte dei barbari d’Occidente» (Filone d’Alessandria, Ambasceria a
Gaio 147)».
14
Cfr. Migliario 1999. Si tratta di Giuliano, un singolo primate della tribù
berbera degli Zegrenses e dei membri della sua famiglia, figli e figlie elencati
in ordine di età, dagli otto ai due anni.

 
 
272 Silvia Fazzo

5. Cultura greca e civilitas romana sotto il principato

L’intensificarsi delle relazioni fra le autorità imperiali e le


popolazioni greche orientali fa del II secolo d.C. un’epoca unica
e irripetibile, che vede eccellere gli esiti della ricerca e della rie-
laborazione della tradizione scientifica greca. Siamo all’epoca
del principato adottivo, che assume al tempo di Antonino Pio e
Marco Aurelio tratti marcatamente filo-ellenizzanti,.
Non sarebbe infondato affermare che il conseguimento di
chiara fama e di esiti culturalmente significativi era consentito
soprattutto a chi avesse la cittadinanza (civilitas) romana o co-
munque ottenesse dalle autorità imperiali condizioni privilegia-
te, quale l’immunitas dai doveri sociali e fiscali, consentita spe-
cialmente a intellettuali di ‘straordinaria dottrina’ secondo il re-
scritto di Antonino Pio del 140 d.C.15
Trovano infatti il massimo compimento di elaborazione e di
esegesi dei testi precedenti almeno due grandi ambiti della
scienza ellenistica: la medicina, con Galeno, commentatore di
Ippocrate (e di Platone) e l’astronomia, con Tolomeo (sul fon-
damento dei precedenti sistemi astronomici, in specie di quello
di Ipparco). Di Galeno conosciamo gli strettissimi rapporti con
la corte imperiale: non c’è alcun dubbio che le relazioni perso-
nali e il credito di cui godeva a Roma ebbero una notevole im-
portanza nella divulgazione e nello sviluppo della sua attività
scientifica. Per questo Vegetti ritiene probabile che godesse al-
meno dell’immunitas, e che, se pure non godeva della cittadi-
nanza romana, come per lo più si ritiene,16 vi avesse però rinun-

                                                                                                               
15
A costoro l’immunitas poteva essere conferita anche al di sopra del nu-
mero massimo previsto per i diversi municipia, cinque, o sette, o dieci, mentre
per la città di Roma non era previsto un tetto massimo. Sul rescritto di Anto-
nino Pio del 140 cfr. Nutton 1988, cap. IV.
16
Schlange-Schöningen 2003, 45-60: «Galen ein Römischer Bürger?»;
Boudon-Millot 2012, 24-25. Il parere tendenzialmente negativo degli studiosi
si basa e silentio sul fatto che di Galeno non siano noti con sufficiente autore-
volezza i tria nomina. Eppure Raggi (2013, 477), indica come Publio Aelius
Nicone il padre di Galeno, il che fa ritenere che abbia ricevuto la cittadinanza
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 273

ciato liberamente, per non perdere la propria cittadinanza origi-


naria.17 D’altra parte fonti manoscritte indicate da Boudon-
Millot ripropongono l’ipotesi di una sua cittadinanza romana, a,
giacché il nome Claudius/Claudios sarebbe attestato, prima e
meglio che nei frontespizi di certe edizioni a stampa rinascimen-
tali, in alcuni codici greci.18
Quanto a Tolomeo, ci è giunta una tradizione che lo chiama
Claudius, attribuendogli così nomen romano: questo è traccia
possibile, se non anzianzi probabile, di una cittadinanza romana
(acquisita sotto Claudio dalla famiglia di Tolomeo): si trattereb-
be di una condizione specialmente rara e favorevole fra gli abi-
tanti dell’Egitto.19
Per citare a ulteriore riprova qualche caso notissimo e salien-
te, ove l’acquisizione della cittadinanza ebbe un ruolo determi-
nante in una biografia intellettuale, si può risalire al tempo della
dinastia dei Flavi: Epitteto, il famoso schiavo filosofo, era stato
liberato, e con ciò reso cittadino romano, da un liberto di Clau-
dio, Epafrodito, che era egli stesso cittadino romano e portava
anzi praenomen e nomen dell’imperatore, Tiberius Claudius.
Solo dopo l’ottenimento della cittadinanza, Epitteto aprì la sua
scuola di filosofia, e ciò appare una conferma indiretta dell’im-
portanza di tale acquisizione..
                                                                                                                                                                                                                                   
da Adriano; ciò farebbe supporre come probabile che il figlio sia cittadino con
gli stessi praenomen e nomen. Cfr. tuttavia la nota 16 qui oltre.
17
Vegetti, Manuli 1989, 396.
18
Boudon, Millot 2012, 289 n 47 con riferimento ai codici greci Philipps
1524 e Vlatadon 14, entrambi del XV secolo.
19
L’interesse della tabula studiata da Migliario 1999 è specialmente ac-
cresciuto dalla collocazione geografica. Sui documenti che indicano come nel
I e nel II secolo alla quasi totalità degli abitanti della provincia d’Egitto fosse
interdetta ogni via di accesso alla civitas Romana, cfr. Marotta 2009, 73, 61
(«In Egitto […] l’accesso alla civitas Romana della popolazione autoctona di
questa provincia fu ostacolato anche sul piano normativo»). Ciò conferma che
i greci (originari o ellenizzati) di Egitto, quale l’astronomo Tolomeo dovette
essere, costituiscono una élite privilegiata non solo in tutta l’epoca ellenistica,
ma anche in età romana (cfr. n. 3 qui supra) sfuggendo al generale e specia-
lissimo divieto di inclusione in cittadinanza che vigeva specificamente per i
sudditi di questa provincia.

 
 
274 Silvia Fazzo

Questi tre esempi portano peraltro alla ribalta il nomen del-


l’imperatore Claudio. Non solo infatti nel caso del liberto di
Claudio, ma anche quanto alla famiglia dell’astronomo Tolo-
meo, l’ipotesi più probabile è che tale cittadinanza fosse stata
attribuita nel corso del I secolo proprio da Claudio. Ciò varrebbe
anche per Galeno, qualora fosse stato cittadino romano come
Claudius.
La prodigalità di Claudio in materia di cittadinanza si accor-
da in effetti con la satira di Seneca nell’Apokolokynthosis, cap.
3: la Parca, cui Mercurio ingiunge di far finalmente morire il
principe Claudio, prova a protestare: la Parca vorrebbe infatti
lasciare Claudio in vita ancora un pochetto, finché non avesse regalato la
cittadinanza a quei pochi che non l’hanno ancora: aveva infatti deciso di
vedere tutti togati: Greci, Galli, Ispani, Britanni…20

Come si vede, la concessione della cittadinanza non riguar-


dava solo i greci. È noto il caso di Paolo di Tarso, ebreo osser-
vante ma civis romanus di famiglia. In quanto tale egli poté
fondare la prima comunità cristiana in Occidente. I Giudei infat-
ti non poterono processarlo in Gerusalemme. Fu condotto a
Roma con le cautele e le guarentigie che gli spettavano: non po-
teva infatti essere né crocifisso, né condannato a pene infamanti,
quali per esempio la pubblica fustigazione o la damnatio ad be-
stias. A Roma restò due anni in libertà vigilata, praticando un
intenso proselitismo.21
Casi come questi si devono studiare uno per uno perché non
ne esiste una documentazione complessiva e sistematica. Con-
corrono, ciascuno in modo diverso, a inquadrare storicamente il
nostro caso di studio, cioè la vicenda familiare di Alessandro.

                                                                                                               
20
Sed Clotho «ego mehercules» inquit «pusillum temporis adicere illi vo-
lebam, dum hos pauculos, qui supersunt, civitate donaret (constituerat enim
omnes Graecos, Gallos, Hispanos, Britannos togatos videre»). Ringrazio El-
vira Migliario e Anselmo Baroni per avermi ricordato il passo di Seneca.
21
Sul caso di Saul, ovvero Paulo, cfr. infatti infra, l’Appendice a questo
contributo (§ 11.1).
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 275

6. Alessandro, civis romanus, filosofo e figlio di filosofo: i


dati dell’epigrafe

Nel reperto della zona di Afrodisia, padre e figlio, entrambi


Titus Aurelius Alexander, portano praenomen e nomen dell’im-
peratore Antonino Pio, a suo tempo impegnato nelle campagne
militari. Questi era stato proconsole in Asia fra il 133 e il 136,
quando portava il nome di Titus Aurelius Fulvus,22 prima cioè
della sua adozione imperiale. Poiché il floruit di Alessandro va
collocato intorno al 200 d.C., cioè 65 anni dopo, è verosimile
che l’avesse acquisito non il padre di Alessandro, come altri
hanno scritto, ma il nonno. Già dunque il padre di Alessandro
lavorò come filosofo in condizione privilegiata, così come suo
figlio. L’epigrafe ci ha anche indicato il mestiere del padre, filo-
sofo – dunque Alessandro, si può dire, fu figlio d’arte.
Data la rilevanza del caso, si pone dunque la questione, di
come si possano mettere in relazione siffatti elementi caratteriz-
zanti della sua biografia con la sua attività di filosofo e di com-
mentatore di Aristotele; e di come da questo reperto si possa
trarre una più precisa informazione sulla storia della tradizione
aristotelica, la cui componente di età romana, brillantemente di-
scussa da Barnes, presenta a tutt’oggi, si può dire, meno luci che
ombre – specie se per ‘luce’ intendiamo gli elementi fattuali,
ancorati nella tradizione filosofica e nella storia sociale e politi-
ca del tempo.
In questa prospettiva, è utile tornare sul passo biografico uni-
co che ci è trasmesso giunto dalla trasmissione greca di Ales-
sandro.

                                                                                                               
22
Il futuro imperatore si chiamava, per esteso, Titus Aurelius Fulvus
Boionius Arrius Antoninus (portando così i tria nomina del nonno Titus Aure-
lius Fulvus, console nell’89 d.C., mentre gli altri tre nomi gli erano propri da
parte di madre, donde pure poteva vantare un’ascendenza illustre, avendo
avuto un nonno, Arrio Antonino, due volte console, nel 69 e nel 97 – mentre
‘Boionius’ veniva dall’altro nonno materno.

 
 
276 Silvia Fazzo

7. L’investitura istituzionale di Alessandro nella dedica del


De fato (p. 164.3-6 Bruns)

Sarebbe stato nei miei voti, o grandissimi imperatori Severo e Antoni-


no, vedervi per rivolgervi la parola e manifestarvi di persona la mia ri-
conoscenza per tutte le molte volte che ho ricevuto benefici da voi:
sempre infatti mi avete dato quanto vi chiedevo, insieme all’atte-
stazione del mio diritto ad essere esaudito in quel genere di richie-
ste.23

Con queste parole di dedica si apre un testo di Alessandro


che è uno dei più importanti nell’ambito della filosofia pratica
di età romana, il trattato De fato, ovvero, traducendo il titolo per
esteso, Sul destino e su ciò che è in nostro potere, dedicato agli
Imperatori di Alessandro di Afrodisia (περὶ   εἱµμαρµμέένης   καὶ  
τοῦ   ἐφ’   ἡµμῖν   πρὸς   τοὺς   αὐτοκράάτορας24), spesso indicato
con il titolo latino, De fato.
Il De fato è importante. La filosofia pratica aristotelica in-
contra la nozione romana di responsabilità giuridica, cui nella
dedica stessa Alessandro potrebbe riferirsi in senso lato,25 non

                                                                                                               
23
Cito dall’esordio del De fato, ove Alessandro dedica il trattato agli Im-
peratori Settimio Severo e Antonino, detto Caracalla, suo figlio e coreggente.
La dicitura qui in corsivo µμετὰ   µμαρτυρίίας   …   δίίκαιος   εἶναι   τυγχάάνειν  
τοιαῦτα  αἰτούύµμενος, è afflitta da una corruzione testuale, come segnala la
crux philologorum nell’edizione di Bruns 1892, 164, 3-6. La corruzione è for-
se modica: dopo µμαρτυρίίας, nel ms. Ven. gr. 258 (668), f. 221v2, si legge  
ἧς, espunto da Bruns, che Thillet 1984 emenda in   <τοιαύύτ>ης   seguendo
Moerbeke tali, senza che il senso probabile sia compromesso.
24
Fra le traduzioni moderne, si segnalano quelle italiane di Natali 1996,
2009, e di Magris 1995, quella inglese di Sharples 1983, che aprì la strada
all’intera serie di traduzioni inglesi dai commentatori aristotelici, quella fran-
cese di Thillet 1984 e quella spagnola di Salles, Molina Ayala 2009, le quali
tutte, corredate da ampio commento, mostrano la rilevanza del tema per la
storiografia filosofia attuale. Molte più indicazioni bibliografiche si troveran-
no fra breve in Fazzo, Gili (in corso di pubblicazione).
25
Ivi infatti Alessandro afferma che l’estensione dell’ambito di interesse
di questo tema è enorme e non secondo a nessuno per estensione ed impor-
tanza, cfr. 164, 15ss. Significativamente, Alessandro invita gli imperatores a
scrivergli liberamente qualora desiderino ulteriori approfondimenti su un te-
ma così controverso, importante e difficile, cfr. 165, 9-12. Se si potesse rite-
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 277

mancò di produrre un esito inedito. Questo trattato affronta, per


la prima volta in questi termini, quello che più tardi sarà chia-
mato il problema del libero arbitrio. Nella dedica agli imperato-
ri, Alessandro ne enfatizza la rilevanza politica, oltre che etica:
essa infatti pertiene alle radici stesse del diritto, e del diritto ro-
mano in particolare, nella misura in cui esso presuppone il con-
cetto di personale responsabilità, dunque di scelta in qualche
modo libera.
Il De fato è d’altronde, l’unico trattato di Alessandro che
comporti una simile dedica. Questo ne fa un documento di valo-
re storico unico. La frase ora in esame è riconosciuta come im-
portantissima, con speciale riferimento all’allocuzione, che essa
contiene, diretta a Settimio Severo e ad Antonino, il figlio di
Settimio e futuro imperatore, più noto come Caracalla. Dice:
«… o grandissimi imperatori Severo e Antonino…».
Ivi infatti Alessandro di Afrodisia, filosofo aristotelico si ri-
volge agli imperatori Settimio Severo e Antonino, suo figlio e
coreggente. Così, questa allocuzione costituisce il cardine e anzi
l’elemento quasi unico della datazione di un pensatore, Ales-
sandro, altrove pressoché muto quanto alle proprie personali vi-
cende (almeno nelle opere di più sicura attribuzione).
Se non ci fosse questa frase del De fato, non avremmo alcun
appiglio cronologico per datare con sicurezza, né questo trattato,
né l’attività di Alessandro, e della scuola di Afrodisia della qua-
le Alessandro è l’espressione più rappresentativa. Così, con un
riferimento cronologico solido e assoluto all’impero di Settimio
Severo (198-211), questa dedica àncora infatti alla linea del

                                                                                                                                                                                                                                   
nere che Alessandro abbia approfondito il tema etico della responsabilità mo-
rale confrontandosi con aspetti della cultura giuridica romana, si potrebbe for-
se annoverare anche questo fra i casi di ‘acculturazione inversa’ – dalla cultu-
ra romana su quella greca, detta così perché si va a rovesciare la formula ora-
ziana (già retoricamente strutturata come capovolgimento e come una sorta di
ossimoro) Graecia capta ferum victorem cepit. Mi riferisco qui, sia nei con-
cetti sia nella terminologia, agli atti del convegno a cura di Franchi, Proietti
2012, con introduzione di E. Migliario.

 
 
278 Silvia Fazzo

tempo l’attività dell’esegeta di Afrodisia, il cui floruit si va con-


seguentemente a collocare intorno al 200 d.C.26
Per questo, la dedica del De fato ad imperatores è ben nota.

8. Interrogativi aperti sul senso della dedica del De fato

Eppure, alcune sue implicazioni sono ancora da esplorare,


specie in relazione al tema di questo volume. Mi riferisco alle
parole messe in corsivo, che non sono prive di qualcosa didi
sorprendente:
mi avete sempre dato tutto quanto vi chiedevo, insieme all’attesta-
zione del mio diritto ad essere esaudito in quel genere di richieste.

Come si vede, Alessandro attesta di aver ricevuto dagli impe-


ratori molti e ripetuti benefici, ogni qualvolta abbia avanzato
una richiesta, ogni volta accompagnati, si direbbe – l’espres-
sione è un poco opaca, e il testo dei codici danneggiato – da una
µμαρτυρίία, un’attestazione di eleggibilità, per così dire, a gode-
re di un determinato beneficio, del genere di quello che egli ri-
chiedeva.
Il testo, in questa forma, è allusivo. È da interpretare.27 Quali
specifiche condizioni di possibilità consentono ad Alessandro di
Afrodisia di essere il primo esegeta i cui commenti continui sia-
no trasmessi fino a noi? Essi sono usati ancora oggi, direttamen-
te, per meglio accedere e capire il senso delle opere dello Stagi-
rita, sia nei dettagli, sia nell’insieme.
Sembra che la congiuntura storica abbia un peso specifico. A
quanto Alessandro scrive nella dedica del De fato, rapporti così
particolari e individuali della sua famiglia con il principato ro-
                                                                                                               
26
Non manca nemmeno la materia per discutere sui dettagli, se sia possi-
bile o no che la dedica sia stata composta dopo il 209, quando Settimio asso-
ciò all’impero anche l’altro figlio Geta, poi eliminato prontamente dal fratello
Caracalla al momento della successione.
27
Peraltro, la frase in esame, la subordinata in specie, µμετὰ  µμαρτυρίίας  
…  δίίκαιος  εἶναι  τυγχάάνειν  τοιαῦτα  αἰτούύµμενος pone anche un proble-
ma testuale, cfr. supra n. 17.
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 279

mano non mancarono di favorire la sua attività di maestro ari-


stotelico. Alla luce degli studi più recenti, d’altra parte, sembra
che, proprio grazie dopo questa attività esegetica di Alessandro
e della scuola di Afrodisia si manifesti compiuta l’evoluzione
sistematica del corpus aristotelico. Alessandro non fu certamen-
te l’unico a lavorare, ma ne è protagonista indiscusso, almeno
secondo le fonti superstiti.
Siamo di fronte a un movimento epocale. L’opera di Ales-
sandro, in altre parole, è fase centrale della controversa storia
della costituzione, e per così dire dell’emergenza (Entstehungs-
geschichte come un secolo fa la si sarebbe chiamata) del corpus
aristotelico in età romana imperiale. Nel II secolo d.C., vediamo
finalmente costituito il corpus aristotelico che noi conosciamo.
La prima vera enciclopedia dei saperi trova a quest’epoca la sua
organizzazione definitiva.28
Vediamo in effetti che Alessandro di Afrodisia è il primo
esegeta sistematico i cui commenti continui siano giunti diret-
tamente a noi: sono usati ancora oggi per meglio accedere e ca-
pire il senso delle opere dello Stagirita, sia nei dettagli, sia nel-
l’insieme. Con Alessandro giunge al massimo compimento una
tradizione esegetica durata secoli, che consegna per la prima
volta alla posterità un corpus aristotelico compiuto e strutturato,
contestualmente a corrispettivi commenti continui che resteran-
no il riferimento interpretativo fondamentale per la tradizione a
venire. Grazie a questo movimento di riorganizzazione interna
                                                                                                               
28
In particolare, gli studi recenti, che altrove ho presentato, comportano
proposte nuove e in parte inedite, per quanto riguarda la Metafisica: questa,
sia detto in generale, è il caso forse più studiato, sia per il suo interesse intrin-
seco, sia perché sussiste al riguardo una qualche documentazione delle fasi
intermedie, che sono a loro volta oggetto di studio. Si è potuto precisare, ri-
spetto a una vulgata parzialmente congetturale, che in realtà, prima dell’epoca
di Alessandro non è adeguatamente attestata l’esistenza della Metafisica come
ancora oggi la intendiamo, in quattordici libri indicati dalle prime tredici lette-
re dell’alfabeto greco (con due libri Alpha, il maior, o Alpha detto simpliciter,
e il minor). Essa invece è compiutamente attestata in Alessandro di Afrodisia,
secondo quanto argomentiamo in Fazzo, Zonta 2016, Fazzo 2018, Fazzo
2012.

 
 
280 Silvia Fazzo

del corpus, Aristotele poté diventare il ‘filosofo’ per eccellenza,


per la tradizione scolastica, prima orientale,29 poi occidentale,
fino ad ancora un millennio più tardi. Di qui l’interesse di ap-
profondire questi interrogativi.
Sarebbe dunque sorprendente che disponibilità materiale ed
economica non avesse alcun ruolo nell’opera degli aristotelici
del II secolo d.C., che Alessandro riassume e porta a compimen-
to. Ciò vale a maggior ragione per la vicinanza almeno istitu-
zionale con i principi.
Come mai Alessandro poteva rivolgersi, e dire di essersi già
in passato rivolto direttamente agli imperatori? Come cittadino
romano, indubbiamente, e come cittadino in condizione speciale
e privilegiata.
Quale fu il beneficio, o i benefici che Alessandro chiese, e
ottenne? Quale richiesta di Alessandro fu esaudita, o anzi quali
richieste? Potrebbe esser più d’una, visto che l’espressione che
egli usa si riferisce a una pluralità di benefici richiesti e ottenuti.
E d’altra parte, donde ebbe, la scuola di Alessandro, una tale di-
sponibilità di testi aristotelici, da poter reindirizzare l’intera sto-
ria della recezione in modo finalmente compiuto e sistematico?
Forse i benefici dei quali Alessandro si ricorda riguardano pro-
prio le condizioni di lavoro? In parte sicuramente sì: come dice
più oltre nella dedica del De fato: «Io sono a capo della scuola
filosofica di Aristotele, essendo stato proclamato professore per
vostra attestazione».30
Si riferisce indubbiamente alle cattedre imperiali di filosofia.
Ma perché tutto questo riguarda un filosofo di Asia minore? Ha
un qualche ruolo la sua città, Afrodisia?
La sua città stessa deve aver avuto un ruolo, in effetti. come
vedremo.

                                                                                                               
29
Sul ruolo di Alessandro nella tradizione araba, cfr. Fazzo 2018.
30
De fato, 164, 13-15, cfr. supra n. 9.
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 281

9. Singolarità di Afrodisia, città amica e quasi ‘sorella’ del


popolo romano: due interviste

La stessa equipe angloamericana che ha trovato l’epigrafe di


Karakasu ha lavorato per svariati decenni sul sito archeologico
di Afrodisia, che è uno dei meglio conservati dell’oriente greco.
Grazie agli scavi, sappiamo su questa città molto altro, e tutto
ciò che sappiamo concorre a confortare l’ipotesi che l’attività
della scuola aristotelica abbia trovato condizioni eccezionalmen-
te favorevoli in Afrodisia, già nei decenni precedenti. Ivi infatti
si segnala già Adrasto di Afrodisia nella prima metà del II seco-
lo. Anche il padre di Alessandro essendo filosofo in Afrodisia fu
con ogni probabilità filosofo aristotelico. Come attesta Galeno,
il magistero filosofico si tramandava sovente di padre in figlio.
I reperti archeologici sono materia assai tecnica. Per ampliare
il quadro, sarò felice di potermi valere della consulenza di Joyce
Reynolds, archeologa e autorità somma per la sua cinquantena-
ria esperienza negli scavi di Afrodisia, e di Valerio Marotta, la
cui monografia rinnova il panorama degli studi di riferimento
sulla cittadinanza romana.

9.1. Conversazione con Joyce Reynolds

Il 4 e 5 maggio 2016, ho intervistato Joyce Reynolds, archeo-


loga nata nel 198, attiva sui resti di Afrodisia dal 1951, autrice
di Aphrodisias and Rome (Cambridge 1982), incontrandola
presso l’University Library di Cambridge dietro suggerimento
di David Sedley.– è
La conversazione con Joyce Reynolds, che qui riporterò det-
tagliatamente, consente di inquadrare in modo quasi inedito
l’attività di Alessandro, cittadino romano in Afrodisia nel II se-
colo d.C., considerando a quel tempo e in quel contesto la privi-
legiata condizione politica e sociale degli abitanti di Afrodisia.
Questi adottarono un atteggiamento estremamente collaborativo
nei confronti delle autorità imperiali romane, come emerge dagli
studi archeologici.

 
 
282 Silvia Fazzo

Dice infatti a questo riguardo Joyce Reynolds:


Gli abitanti del mondo mediorientale, e in specie di Afrodisia, rispet-
tavano il ruolo e il prestigio di Roma, e nella maggior parte dei casi lo
consideravano come una forma di protezione da altri conquistatori.
Roma d’altronde cercava di espandere il proprio potere in Asia minore
senza necessariamente sobbarcarsi l’onere della pubblica amministra-
zione, specie là dove poteva confidare una collaborazione volontaria.
Non si può dire con sicurezza quando la città di Afrodisia abbia co-
minciato a chiamarsi così: non da sempre, a quanto pare; ma gli ar-
cheologi discordano sulla data e il modo in cui la città si è sviluppata.
Sappiamo però che nel 39 a.C. la relazione con Roma, che pure esi-
steva già prima, diventa formale. Il culto di Venere/Afrodite diventa
un punto di incontro. La famiglia di Giulio Cesare si proclamava di-
scendente di Venere, come gens romana – la gens Julia, di origini al-
bane, secondo la tradizione proveniva da Troia, in quanto aveva per
eroe eponimo Iulo: Iulo è il secondo nome di Ascanio, figlio di Enea,
figlio a sua volta di Venere. Ottaviano Augusto, che, in seguito
all’adozione da parte di Giulio Cesare, aveva preso da Cesare i tria
nomina, fu così integrato nella gens Julia; egli poté dunque servirsi di
questo strumento di propaganda per rinforzare il suo credito in Orien-
te. Ma già per primo Marco Antonio, durante le campagne in oriente,
aveva rinforzato la relazione fra Roma e Afrodisia, concedendo alla
città determinati privilegi (in specie, pare, con il diritto di asylum, for-
se inizialmente concesso al solo tempio di Afrodite).
In concomitanza, Roma usava una Roman connection con Venere per
rinforzare la sua autorità nell’impero. Poco più tardi, con l’Eneide di
Virgilio questa connessione viene consacrata come versione ufficiale
del mito: Virgilio fa discendere la stirpe latina da Afrodite, tramite
Enea. Per questo non è strano ciò che si legge nelle lettere inviate dal
senato romano ai cittadini di Afrodisia, che sono conservate in forma
di epigrafe sul cosiddetto ‘Muro dell’Archivio’ (Archive Wall) in
Afrodisia: Romani ed Afrodisiensi sono affratellati dalla comune pro-
genitrice Venere /Afrodite.
Una questione che si pone è quella della disponibilità libraria ad Afro-
disia. Potevano venire libri ad Afrodisia da Rodi? Non ci sono docu-
menti specifici. Sappiamo che Rodi fu distrutta; ma ciò non necessa-
riamente significa che fosse distrutta ogni parte di ogni edificio, e
dunque potevano esserci ancora libri. Il fatto è che comunque l’area di
Rodi e di Afrodisia era controllata da Roma, che vi estendeva la sua
influenza già in precedenza. La relazione privilegiata che si sviluppò
fra Roma e Afrodisia riduceva di fatto l’influenza e l’autorità di Rodi
nell’area.
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 283

L’ultima parte di questa intervista riguarda, come si vede, il


patrimonio librario. Joyce Reynolds risponde così a mie specifi-
che domande, volte a capire come sia stato possibile ad Afrodi-
sia progredire nello studio del corpus di Aristotele: ciò infatti
presuppone la disponibilità di libri, e in specie di testi aristoteli-
ci. Ora, la testimonianza antica di una tale disponibilità in quel-
l’area riguarda piuttosto la vicina città di Rodi, in particolare nel
I sec. a.C., entro il tempo di Andronico. Forse, in mancanza di
testimonianze dirette, si può liberamente ipotizzare che i Roma-
ni, pur volendo punire Rodi, avessero distrutto e incendiato solo
parti della città, ma non tutte; che pertanto a Rodi si fossero sal-
vati dei libri; e che alcuni di quei libri fossero stati disponibili
agli aristotelici di Afrodisia, grazie anche a un rapporto privile-
giato fra Afrodisia e Roma. L’ipotesi, che non ha supporto di-
retto, si può configurare come una possibile interpretazione del
passo del De fato di Alessandro di Afrodisia qui sopra esamina-
to (164.3-6), che allude a non meglio precisati benefici elargiti
dai principi, oltre alla nomina ufficiale di Alessandro sulla cat-
tedra ateniese di filosofia aristotelica.  
In ogni caso, si deve presupporre in Afrodisia una significa-
tiva disponibilità di testi dei classici, quale condizione necessa-
ria dell’operato di Alessandro di Afrodisia e di altri intellettuali
attivi in questa città nel II secolo. Di datazione più incerta, vale
tuttavia come caso parallelo la considerevole cultura classica
dimostrata da Caritone di Afrodisia, autore del romanzo Cherea
e Calliroe. Nel nostro ambito, nel corso del II secolo, pensiamo
invece al precedente peripatetico Adrasto, che scrisse Sull’or-
dine dei trattati aristotelici. Egli mostra di conoscerne uno stato
di organizzazione notevolmente arretrato rispetto a quello che
divenne poi canonico.31 Lo stato più arretrato, e dunque inter-
medio, potrebbe esser associato all’eredità di Andronico di Ro-
di. Tutto questo è terreno di ipotesi aperte, che dovranno ancora
essere esplorate negli studi a venire, tenendo conto anche delle
relazioni privilegiate con i principi di Alessandro di Afrodisia,
esegeta aristotelico e cittadino romano.
                                                                                                               
31
Cfr. Simpl. In Phys., CAG 10, p. 4.11-16.

 
 
284 Silvia Fazzo

9.2. Conversazione con Valerio Marotta

La conversazione con Valerio Marotta (per litteras) eviden-


zia ulteriormente come Afrodisia avesse con Roma relazioni
specialissime e privilegiate: ἐλευθερίία ed esenzione dall’im-
perium – il che avvicina gli abitanti della città allo statuto e alle
guarentigie proprie dei cittadini romani.
Afrodisia era una citta estranea al τύύπος   τῆς   ἐπαρχείίας (forma
provinciae): pertanto formalmente sottratta, al pari di Atene, di Sparta
o di Rodi (provinciae di Achaia e d’Asia), all’imperium populi Roma-
ni. Ciò significa, per esempio, che un governatore (il proconsul Asiae)
non avrebbe potuto entrare nei loro territori in assenza di una specifica
richiesta delle πόόλεις e l’autorizzazione imperiale. Lo stesso Adria-
no, quando soggiornava ad Atene, non assumeva, nella sua titolatura
ufficiale, il titolo di proconsul (così fece, per esempio, alla luce di al-
cuni diplomata militari, nel 129 d.C.). La condizione di queste città li-
bere era, dunque, estremamente privilegiata, dal momento che esse
godevano anche di una piena autonomia. Ciò non significa, ovviamen-
te, che il rispetto formale della loro ἐλευθερίία non le subordinasse di
fatto al potere imperiale. Anche Rodi è stata una polis privilegiata, ma
nel corso del I secolo d.C. (in particolar modo al tempo di Claudio) fu
punita, per qualche tempo, assoggettandola al governo del proconsole
d’Asia. La famiglia di Alessandro ha ottenuto la cittadinanza [135-
136 AD] appena dopo una generazione di quella di Elio Aristide, che
tesse della cittadinanza romana il famoso elogio (in Elogio di Roma,
59-61), quando gran parte degli abitanti dell’Asia (il 90% secondo
Holtheide) era ancora di condizione peregrina. Ciò significa, verosi-
milmente, che essa era compiutamente integrata nell’aristocrazia di
Afrodisia. Nonostante l’accrescersi del numero complessivo dei cives
Romani, questa condizione era, ancora nel II secolo, un ambito rico-
noscimento. (È sufficiente ricordare la supplica dei coloni del saltus
Burunitanus, ovvero Africa proconsularis, per rendersene conto: que-
sti coloni, che definivano se stessi homines rustici tenues, in quanto
cives Romani rivendicarono i loro diritti di cittadini contro gli abusi
compiuti dal procurator di questo latifondo imperiale.) Afrodisia go-
deva insomma di una condizione particolarmente privilegiata; i contat-
ti con Roma erano estremamente frequenti, come emerge, del resto,
dalle iscrizioni restituiteci dal cosiddetto muro dell’Archivio. Le con-
dizioni di lavoro (disponibilità di ricche biblioteche) erano probabil-
mente migliori, sul piano generale, a Pergamo, ad Alessandria o ad
Atene, per non parlare di Roma. Ma, in concreto (per come la vedo
io), quel che contava era la disponibilità economica di ciascuno. È
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 285

possibile che la famiglia di Alessandro intrattenesse amicizie o rap-


porti di parentela con personaggi asiani di rango equestre o, addirittu-
ra, senatorio (i senatori di origine asiana erano già estremamente nu-
merosi nel II secolo d.C.: vd. Helmut Halfmann, Die Senatoren aus
dem östlichen Teil des Imperium Romanum bis zum Ende des 2.
Jahrhunderts n. Chr.). Ritornando alla cittadinanza, è opportuno tener
presente che, da quel che emerge da Plin. min. ep. 10.96 e 10.97 e da
Eus. H.E. V.1ss., la condizione di civis garantiva una condizione privi-
legiata rispetto agli altri. Afrodisia godeva di piena autonomia: la con-
dizione di Alessandro e della sua famiglia era doppiamente privilegia-
ta, dal momento che, come ho già segnalato in precedenza, entro certi
ambiti i suoi politai godevano d’ampie guarentigie giurisdizionali.

10. Conclusione

Si è qui presentato il caso di studio di un filosofo che è citta-


dino romano, e figlio di un altro filosofo, egli stesso cittadino
romano nativo, probabilmente, ad Afrodisia in Caria, città non
seconda a nessuno nei privilegi ovvero guarentigie di cui gode-
va da parte dell’amministrazione romana. Lo status di Alessan-
dro risulta dunque doppiamente privilegiato, sia come civis ro-
manus sia come abitante di Afrodisia. Ciò conferma l’impatto
della cittadinanza romana sulla storia culturale in oriente, e an-
che specificamente sulla tradizione filosofica.
Un nesso forte infatti emerge fra la storia del testo e la tradi-
zione esegetica, in specie risulta che la prima fonte antica a de-
scrivere una Metafisica e un corpus complessivamente costruito
quali noi li conosciamo è Alessandro, il suo principale commen-
tatore greco.
Il processo fu avviato indubbiamente dalla riscoperta del ma-
teriale librario a seguito della conquista romana di Atene (presa
di Silla, 86 a.C.). L’edizione del corpus aristotelico si perfezio-
nò poi gradualmente, grazie anche a nuovi incentivi materiali e
istituzionali, un epicentro dei quali fu probabilmente Afrodisia.
Di qui l’interesse dell’interazione con l’archeologia. Il ruolo
culturale di Afrodisia è stato infatti raramente valorizzato nei
secoli scorsi, mentre ora attira l’attenzione crescente degli ar-
cheologi e degli storici del pensiero, proprio perché le sue strette

 
 
286 Silvia Fazzo

relazioni con Roma ne fecero un centro significativo dal punto


di vista monumentale e culturale.
Certo, il processo di edizione del corpus non si compie dal
nulla, né direttamente a partire dal lascito aristotelico: Alessan-
dro porta probabilmente a compimento un lungo processo di
riordino già avviato ad Afrodisia in epoca precedente, e comin-
ciato almeno nel I sec. a.C., come attestano le testimonianze re-
lative ad Andronico di Rodi.
Possiamo fare caso alla collocazione geografica di Androni-
co e, anche in questo caso, al rapporto con l’amministrazione
imperiale romana. Infatti Rodi ebbe prima di Afrodisia le stesse
guarentigie che stiamo osservando e che ci interessano per
Afrodisia, guarentigie che poi temporaneamente perse in età
imperiale quando fu deciso di sminuirne l’influenza. La ragione
per la punizione di Rodi nel 44 d.C. Claudio fu l’affronto fatto
dagli abitanti ad alcuni cives romani, dei quali i Rodiesi non
avevano rispettato lo statuto privilegiato.32 A più riprese, proba-
bilmente, i provvedimenti presi contro Rodi tornarono favorevo-
li proprio alla libera città di Afrodisia, come la conversazione
con Joyce Reynolds ci ha ricordato.

11. Appendice: rinvio a due casi di studio

11.1. Il caso di Paolo di Tarso

Un caso parallelo in parte, di singolare interesse, fu nel I se-


colo quello dell’apostolo Paolo (I d.C.), raccontato nelle sue
stesse Lettere e negli Atti degli apostoli. Si tratta di un caso
complesso, già considerevolmente studiato, che vorrei però rie-
vocare sommariamente, quale termine di paragone per il nostro
caso di studio.
Come giudeo praticante, Paolo non esibì mai i tria nomina;
chiamò tuttavia se stesso Paolo (così nelle Lettere e negli Atti
                                                                                                               
32
«I Rodiesi vennero privati della loro eleuthería perché avevano impala-
to alcuni Romani» (Dione Storie 60, 24, 4, cfr. Marotta 2009, 38s.)
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 287

degli Apostoli, che ne raccontano i viaggi e le vicende), quando


il nome ebraico era Saul
Fu condotto da Gerusalemme a Roma per esser processato
con le guarentigie che competevano a un cittadino. Restò in at-
tesa due anni in regime di custodia militaris, ma libero di predi-
care:
Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e
accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di
Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con tutta
franchezza e senza impedimento (At. 28, 30-31).

Un trattamento così rispettoso era l’espressione delle guaren-


tigie di cui Paolo godeva come cittadino romano. Tale per nasci-
ta egli in effetti si dice, facendone cenno più volte nei suoi scrit-
ti, e sue vicende raccontate negli Atti e nelle Lettere lo compro-
vano come pressoché certo. Da questo si deduce che, come già
osservato sopra, Paolo non avrebbe dovuto esser mai flagellato
o sottoposto ad altri supplizi in modo infamante e pubblico
(δηµμοσίίᾳ). C’era, a vietarlo, l’antica Lex Porcia de tergo ci-
vium33, ripresa più tardi dalla Lex Iulia de vi publica et privata
(17 a.C.). Questo divieto non veniva sempre osservato, a quanto
risulta anche da ciò che Paolo stesso dice.34 Nondimeno è chiaro
che, anche come protocristiano, si trovò in condizione diversa
da quella di un non cittadino.35 Subì infine il martirio, ma non in
pubblico: Clemente I, vescovo di Roma fra il 92 e il 97, dice che

                                                                                                               
33
Livio, Ab urbe condita 10.9.4. Tale Lex Porcia viene talora attribuita a
M. Porcio Catone il Censore, 195 a.C. ca.; è ricordata da Montesquieu, De
l’esprit des Lois, l. VI cap. XI.
34
Atti 16; 37, 2.Corinzi 11.23-25, a proposito di una sua flagellazione in
pubblico (δηµμοσίίᾳ).
35
Per un’informazione sulle fonti antiche relative a Paolo di Tarso si può
ancora vedere Balboni 1968, D. Balboni, v. Paolo, apostolo, santo, martire,
in Bibliotheca Sanctorum, vol. X, Citta Nuova Editrice, Roma 1968, col. 164-
212, in part. 165s., 182s. Per una sintesi dello stato dell’arte in epoca recente,
Marotta 2009, 58s.

 
 
288 Silvia Fazzo

Paolo subì il martirio davanti ai Governatori. Questo può moti-


vare l’incertezza sulla circostanza della sua morte.36
Ciò che qui per noi è specialmente interessante è l’impatto
storico della predicazione di Paolo a Roma, dove egli si trovava
in regime di rispettosa custodia. Così, la cittadinanza ebbe un
ruolo decisivo nella storia del cristianesimo delle origini, in
quanto consentì la formazione della prima comunità in Occiden-
te.
Poiché Paolo non usa mai i suoi tria nomina, non sappiamo
quali furono né pertanto come e da chi la sua famiglia ottenne il
privilegio della cittadinanza. Significativamente, però, nelle Let-
tere, ove parla in prima persona, egli chiama se stesso Paolo,
nome romano, e non Saul.
Non si dirà che la cittadinanza fu la causa ma favorì le con-
dizione di possibilità del propagarsi del messaggio apostolico in
tutto l’impero, ovvero quella che si considerava l’οἰκουµμέένη.
Nella prospettiva dell’evangelista Luca, che redige la biografia
di Paolo di Tarso negli Atti degli Apostoli, appare provvidenzia-
le la cittadinanza romana di Paolo, condizione di possibilità e
anzi fattore determinante della fondazione della prima comunità
cristiana a Roma. Paolo infatti, convertito al cristianesimo, atti-
vo nel proselitismo e nell’apostolato, quando si trovò sotto ac-
cusa presso il sinedrio di Gerusalemme chiese e ottenne di esse-
re processato non a Gerusalemme ma a Roma; ivi trasportato
con quel riguardo che tale suo statuto comportava, poté a Roma
prendere un’abitazione in affitto; lì custodito, non poteva allon-
tanarsi ma poté ricevere discepoli e per loro tramite organizzare
la prima chiesa locale (At. 27-28). In questo caso dunque la cit-
tadinanza romana di un singolo individuo poté avere una straor-
dinaria ricaduta storico culturale.

                                                                                                               
36
Solo dal tempo di Eusebio di Cesarea (III-IV sec.) troviamo la tradizio-
ne che vuole che fosse decapitato – il che peraltro può accordarsi con le fonti
che abbiamo citato,
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 289

11.2. Il caso trentino: la Tabula Clesiana37

Il caso sopra rievocato del poeta Archia, e della orazione ci-


ceroniana Pro Archia, ci ricorda che la cittadinanza romana non
era un bene facilmente elargito. Chi avesse cercato di usurparla,
veniva legalmente perseguito.
Spicca, quale eccezione che conferma la regola, il caso di
studio portato in evidenza dal ritrovamento della Tabula Clesia-
na. Si tratta di una tavola bronzea, detta clesiana perché fu sco-
perta nel 1869 a Cles in Val di Non (CIL 5. 5050 = ILS 206).
La Tabula attesta il condono elargito nel 46 d.C. dall’im-
peratore Claudio agli abitanti delle valli vicine al municipium
Trento (Tridentum); si riferisce in particolare agli abitanti della
valle di Non (Anauni), della valle di Sole (Tulliasses) e della
valle di Pejo (Sinduni). Questi infatti non erano titolari della cit-
tadinanza romana, che invece era stata concessa già nel secolo
precedente agli abitanti di Trento (Tridentum). Molti di essi non
godevano a rigore nemmeno della adtributio. L’adtributio era
uno statuto pro tempore per gli abitanti di regioni di nuova con-
quista, considerati allora peregrini in vista di una loro successi-
va integrazione, inizialmente nel diritto latino (Ius Latii), e solo
successivamente nella cittadinanza romana: essi, non avendo
magistrati e tribunali propri, venivano allora adtributi a un mu-
nicipium, quale era da circa ottant’anni Tridentum. Con i muni-
cipes, gli adtributi avevano ius commercii, ma non ius conubii.
Ora gli abitanti delle valli di Non, di Sole e di Pejo, senza esse-
re, per lo più, nemmeno adtributi, e senza nemmeno avere alcu-
na origo sicura (ed era attraverso l’origo che era possibile fare
valere il diritto di cittadinanza), avevano di fatto usurpato il di-
ritto di cittadinanza, unendosi sovente in matrimonio con i mu-
nicipes.
Può giovare il riferimento al testo della Tabula:38

                                                                                                               
37
Dedico questo paragrafo a mia madre Vera Grazia Dea, i cui antenati
riposano in Val di Non .
38
Studio e traduzione in Tozzi 2002.

 
 
290 Silvia Fazzo

Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, pontefice massimo, con


la sesta tribunizia potestà, acclamato imperator per l’undicesima volta,
padre della patria, console designato per la quarta volta, dice: «…per
quanto riguarda la condizione politica degli Anauni, dei Tulliassi e dei
Sinduni, dei quali si dice il delatore abbia provato che parte era adtri-
buta ai Tridentini, parte neppure adtributa, per quanto io sia consape-
vole che questa stirpe di uomini non ha un’origine abbastanza sicura
della cittadinanza romana, tuttavia, poiché si dice che ne sia stata in
possesso per lunga usurpazione e sia così profondamente unita coi
Tridentini, che non si potrebbe separare da loro senza grave danno allo
splendido municipio, permetto che per mio beneficio essi rimangano
in quel diritto nel quale credettero di essere tanto più volentieri in
quanto si dice che parecchi di quella stirpe militano perfino nel mio
pretorio, alcuni hanno avuto il grado di ufficiale, taluni, ascritti alle
decurie, esercitano a Roma la funzione di giudice. Questo beneficio
accordo loro in maniera tale che quanto trattarono o fecero come (se
fossero) cittadini romani o fra di loro o coi Tridentini o con altri ordi-
no sia riconosciuto come legale e permetto loro di conservare quei
nomi che ebbero prima come cittadini romani».39

Ci si potrebbe chiedere il perché di un tale provvedimento,


che appare eccezionale. Esso invero denota discernimento e at-
tenzione da parte dell’amministrazione imperiale delle province.
Claudio infatti, nel rinunciare a un atteggiamento punitivo,
sembra aver tenuto in considerazione diverse ragioni: la prece-
dente negligenza dell’amministrazione centrale, che in quel caso
aveva omesso di vigilare in precedenza sui matrimoni misti fra
                                                                                                               
39
«…Tiberius Claudius Caesar Augustus Germanicus pontifex maximis
tribunicia potestate VI imperator XI pater patriae consul designatus IIII dicit
“… quod ad condicionem Anaunorum et Tulliassium et Sindunorum pertinet
quorum partem delator adtributam Tridentinis partem ne adtributam quidem
arguisse dicitur tam et si animadverto non nimium firmam id genus hominum
habere civitatis Romanae originem tamen cum longa usurpatione in posses-
sionem eius fuisse dicatur et ita permixtum cum Tridentinis ut diduci ab iis
sine gravi splendidi municipii iniuria non possit patior eos in eo iure in quo
esse se existimaverunt permanere benificio meo eo quidem libentius quod
plerisque ex eo genere hominum etiam militare in praetorio meo dicuntur
quidam vero ordines quoque duxisse non nulli collecti in decurias Romae res
iudicare quod benificium iis ita tribuo ut quaecumque tanquam cives Romani
gesserunt egeruntque aut inter se aut cum Tridentinis alisve ratam esse iu-
beam nominaque ea quae habuerunt antea tanquam cives Romani ita habere
iis permittam”».
Un caso di cittadinanza privilegiata in epoca romana 291

non cittadini e cittadini romani; l’opportunità di mantenere in


servizio i valenti valligiani (molti di essi erano entrati nelle
coorti pretorie, alcuni erano divenuti centurioni; altri, giunti a
Roma, erano iscritti nei registri dai quali si traevano i giurati per
i processi40); il giusto desiderio del principe di non infliggere a
Trento, ‘città splendida’ (splendidum municipium) danni troppo
gravi di ordine economico e politico.

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40
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pp. 402-429.

 
 
NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE DEGLI AUTORI

FULVIA DE LUISE è stata fino al 2017 professore associato di


Storia della Filosofia antica presso l’università di Trento ed è
attualmente membro del Collegio dei docenti del Dottorato
‘Culture d’Europa’. I suoi interessi di ricerca si rivolgono prin-
cipalmente all’ermeneutica dei testi platonici e agli sviluppi del
pensiero etico e politico a partire dagli antichi. Tra le sue pub-
blicazioni: Storia della felicità. Gli antichi e i moderni (Einaudi,
Torino 2001); Why is Diotima Socrates’ first teacher? (Franco
Angeli, Milano 2014); Legittimazione del potere, autorità della
legge. Un dibattito antico (Editrice Università degli Studi di
Trento, Trento 2015). Lavora attualmente a una storia della vir-
tù.

SILVIA GASTALDI è professore ordinario di Storia della Filosofia


antica presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Univer-
sità di Pavia. È presidente della Società italiana di Storia della
Filosofia antica (SISFA). Le sue ricerche riguardano soprattutto
la riflessione etico-politica greca del IV secolo a.C. Tra le sue
principali pubblicazioni si collocano i volumi: Aristotele e la
politica delle passioni (Tirrenia Stampatori, Torino 1990); Sto-
ria del pensiero politico antico (Laterza, Roma-Bari 1998); Ge-
neri di vita e felicità in Aristotele (Bibliopolis, Napoli 2003);
Aristotele. Retorica, Introduzione, traduzione e commento (Ca-
rocci, Roma 2014).

LUCILLA G. MOLITERNO, dottore di ricerca in Studi politici pres-


so l’Università degli studi di Torino, ha discusso una disserta-
zione dottorale su Platone dal titolo: Alle origini della demago-
296 Note bio-bibliografiche degli autori

gia. La costruzione di una categoria politica. Attualmente è as-


segnista di ricerca presso l’Istituto italiano di studi filosofici di
Napoli e membro del direttivo della rivista scientifica «Teoria
politica». Principali interessi di ricerca: regimi della forza (ti-
rannide), regimi della frode (demagogia) e contro-poteri (satira
politica). Tra le sue pubblicazioni: Del buon uso della satira,
Un conversare vivace e scherzoso. Indagine su Socrate, Quale
demagogia? Riflessioni a partire da Platone.

VALENTINA PAZÉ è professore associato di Filosofia politica


presso l’Università di Torino. Tra i suoi interessi di ricerca ci
sono il comunitarismo, il multiculturalismo, le teorie antiche e
moderne della democrazia e dei diritti. Tra le sue pubblicazioni:
Comunitarismo (Laterza, Roma-Bari 2004), In nome del popolo.
Il problema democratico (Laterza, Roma-Bari 2011), Cittadini
senza politica. Politica senza cittadini (EGA, Torino 2016).

LUCIO BERTELLI (1941), ha insegnato Storia del Pensiero Politi-


co Antico fino al 2000, dal 2001 è stato ordinario di Filologia
Classica fino al pensionamento nel 2008. Principali interessi:
Omero, Utopisti greci, Aristotele (Politica), Platone (Repubbli-
ca), Commedia attica arcaica, storiografia greca; dirige con
Mauro Moggi (Siena) l’edizione con traduzione e commento
della Politica di Aristotele presso “L’Erma di Bretschneider”
(Roma). Alla sua cura è affidato il commento di Politica VII.

ERMANNO VITALE insegna Filosofia politica presso l’Università


della Valle d’Aosta. Le sue ricerche più recenti riguardano le
relazioni tra beni privati, pubblici e comuni (Contro i beni co-
muni. Una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari 2013).

EMIDIO SPINELLI è professore ordinario di Storia della filosofia


antica (“Sapienza”-Università di Roma) e Presidente della “So-
cietà Filosofica Italiana”. Numerosi sono i suoi contributi su
importanti autori e ambiti del pensiero antico (in particolare sul-
Note bio-bibliografiche degli autori 297

la tradizione epicurea e scettica), oltre a diverse pubblicazioni


relative a scritti (editi e inediti) di Hans Jonas.

ENRICO PIERGIACOMI ha conseguito nell’aprile del 2016 il titolo


di dottore di ricerca in Filosofia presso la Scuola di Dottorato in
Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trento, dove è
attualmente cultore della materia di storia della filosofia antica e
coordinatore delle attività del Laboratorio Teatrale diretto dalla
professorssa Sandra Pietrini (http://r.unitn.it/it/lett/laboratorio-
teatrale). È autore di una Storia delle antiche teologie atomiste
(Sapienza Università Editrice, Roma 2017).

SILVIA FAZZO indaga la tradizione del pensiero filosofico e


scientifico antico nei diversi contesti intellettuali, linguistici e
istituzionali. Dottore in Ricerca dell’Università di Trento (Scuo-
la FST, 2009) ha poi avuto contratti a Parigi (Sorbona) e a Lon-
dra (King’s College), a Cosenza (UNICAL). Ha al suo attivo 80
pubblicazioni scientifiche e 278 citazioni. Dalla tesi di dottorato
UNITN ha tratto Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele
(edizione critica, Bibliopolis, Napoli 2012) e Commento del li-
bro Lambda della Metafisica di Aristotele (ibidem, 2014).
COLLANA «STUDI E RICERCHE»

1 Renato Dionisi, L’opera attraverso lo studio critico


delle fonti, a cura di Salvatore de Salvo Fattor e Mari-
na Rossi, 2011.
2 Francesco Milizia e il teatro del suo tempo. Architet-
tura, musica, scena, acustica, a cura di Marco Russo,
2011.
3 Sergio Fabio Berardini, Ethos Presenza Storia. La ri-
cerca filosofica di Ernesto De Martino, 2013.
4 Alessandro Salvador, La guerra in tempo di pace. Gli
ex combattenti e la politica nella Repubblica di Wei-
mar, 2013.
5 Michele Pancheri, Pensare ‘ai margini’. Escatologia,
ecclesiologia e politica nell’itinerario di Erik Peter-
son, 2013.
6 Enrica Ballarè, Casa Rosmini e Rovereto. Note dal
passato pensando a un museo futuro, 2014.
7 Rosmini e l’economia, a cura di Francesco Ghia e
Paolo Marangon, 2015.
8 Büchner artista politico, a cura di Enrico Piergiacomi
e Sandra Pietrini, 2015.
9 Alberto Baggio, Incivilimento e storia filosofica nel
pensiero di Antonio Rosmini, 2016.
10 Legittimazione del potere, autorità della legge: un di-
battito antico, a cura di Fulvia de Luise, 2016.
11 Il teatro platonico della virtù, a cura di Fulvia de Lui-
se, 2017.
12 Da Rosmini a De Gasperi. Spiritualità e storia nel
Trentino asburgico. Figure a confronto, a cura di
Paolo Marangon e Marco Odorizzi, 2017.
13 Martino Bozza, La categoria cristologica nello svi-
luppo del pensiero di Teodorico Moretti-Costanzi,
2017.
14 La scuola trentina tra guerra e primo dopoguerra
(1914-1924), a cura di Paolo Marangon, 2017.
15 Emil L. Fackenheim: un filosofo tra Auschwitz e la
nuova Gerusalemme, a cura di Massimo Giuliani,
2018.
16 Luca Siracusano, L’epistolario di Cristoforo Madruz-
zo come fonte per la storia dell’arte, 2018.

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