I Reietti Della Città
I Reietti Della Città
I Reietti Della Città
Introduzione
Sono le specificità del nuovo mondo della produzione, sempre più indirizzato ai servizi e alla
conoscenza, che finirebbe per accentuare divisioni già precedentemente esistenti in termini di
accesso all’occupazione e al mercato del lavoro, penalizzando ulteriormente ceti inferiori e
minoranze. Per esempio a New York si è cominciato a parlare di città “duale” quando si è rilevato
che i primi ad essere colpiti della transizione al post-industriale erano gli appartenenti alle
minoranze etno-razziali, in genere dotati di una formazione scolastica e professionale ridotta.
Le città globali fungono quindi da magneti che attirano flussi di migranti, per lo più relegati ai ruoli
subalterni, e confinati ai margini delle grandi concentrazioni urbane, di cui pure costituiscono una
sorta di “motore occulto” dello sviluppo.
Le vecchie marginalità
Le teorie della marginalità urbana nascono negli ani 50 e 60 in America Latina e si inseriscono in un
contesto in cui da un lato era necessario dare conto delle conseguenze di un processo di crescita
urbana rapido e per lo più incontrollato che aveva caratterizzato i decenni precedenti, dall’altro si
cercava di leggere i fenomeni di iperurbanizzazione in una rete di relazioni storiche politiche ed
economiche complesse.
Il concetto di Marginalità non è utilizzato unicamente per descrivere la città latinoamericana sotto
il profilo della sua genesi e delle relazioni intrattenute con le economie dominanti del pianeta, ma
assume anche la valenza di una denuncia dei profondi squilibri interni che la caratterizzano.
La marginalità urbana non viene più ricondotta a una generica povertà terzomondiale ma
rappresenta una forma specifica di relegazione spaziale di minoranze.
I teorici della marginalità tratteggiavano tutta una serie di gerarchie politico-economiche
discendenti: la crescita della marginalità era infatti da ricondursi ad una trasformazione del
capitalismo, che investiva con particolare violenza la periferia (dove marginalità e problemi urbani
giungevano praticamente ad identificarsi).
Gino Germani cercò di comprendere la marginalità non solo in chiave regionale ma anche al di
fuori della vicenda dell’America Latina leggendola in termini di sociologia storica, come problema
ricorrente e insoluto del capitalismo. In questa prospettiva la marginalità è figlia dei processi di
modernizzazione: i marginali sono vittime del progresso, i gruppi inadeguati o incapaci di adattarsi
ai mutamenti dei rapporti di produzione. Germani ha uno sguardo più ampio rivolto alle
conseguenze della marginalità: tra gli effetti intravede l’impossibilitò da parte dei marginali di
fruire di opportunità e di servizi ad altri accessibili.
Ad oggi viene smentita la speranza che la marginalità fosse il prezzo da pagare per la
modernizzazione e che si trattasse di un fenomeno transitorio destinato ad essere superato
dall’affermarsi di società più democratiche.
Si stanno avverando alcune delle conclusioni fatte negli anni settanta.
La crescita della disoccupazione, il declino delle opportunità di lavoro anche nel settore informale,
hanno prodotto una crescita dell’esclusione e nuove dimensioni della marginalizzazione, con una
moltiplicazione della povertà urbana e degli insediamenti formali.
Un’altra caratteristica della marginalità avanzata è l’alienazione spaziale, una sorta di perdita e
dissoluzione del senso del luogo, un processo in cui viene smarrito non solo il senso
dell’appartenenza spaziale, ma anche un retroterra sociale. Venute meno le reti di sostegno
collettivo, gli abitanti delle zone stigmatizzate se la dovevano cavare da soli, in un contesto di
feroce individualismo.
Secondo W. la marginalità urbana si sviluppa in un contesto complessivo di decomposizione di
classe: gli individui non sono più legate a strutture tradizionali di mobilitazione ma sono anche
provi di un linguaggio comune.
La ritirata dello stato e la scomparsa delle istituzioni di auto protezione del ghetto producono una
condizione di de-civilizzazione, di de-pacificazione del’esistenza: nascono così delle no go areas,
zone maledette della città da cui se ne va chiunque riesca a permetterselo.
Nel ghetto vive una classe oggetto, una classe in cui le condizioni esterne impediscono di
trasformarsi in un agente sociale attivo.
L’equivoco della underclass
Underclass diviene un termine che sta per “gruppi da criminalizzare e da stigmatizzare”.
La lettura proposta dalle teorie della underclass vede il ritorno prepotente del culturalismo: la
caduta in miseria della popolazione afro-americana sarebbe dovuta al sommarsi di una serie di
elementi soggettivi: l’abbandono scolastico, la dissoluzione della morale familiare, la pigra e
passiva attesa dell’aiuto welfariano, la scelta della criminalità come via facile dell’arricchimento.
La politica dello stato finisce per riprodurre la miseria che dovrebbe teoricamente contrastare.
W. propone alcuni punti portanti su cui l’analisi comparata dovrebbe vertere per essere
veramente significante e condurre a risultati validi: in primis un processo di decostruzione del
senso comune urbano, delle maniere ovvie o abituali di concepire la città. Lo sforzo principale di
chi studia oggi la marginalità urbana dovrebbe consistere principalmente nel ricollocare la
condizione e il destino di un quartiere nel susseguirsi delle trasformazioni che lo hanno interessato
e hanno le loro radivi nella storia del quartiere stesso.
è necessario quindi insistere sui condizionamenti che sono implicati nel vivere in una zona di
relegazione socio spaziale, cercando di cogliere il funzionamento di quella determinata area
marginale nel sistema metropolitano nel suo insieme.
La banlieue è un ghetto?
Secondo Lapeyronnie il ghetto ha rappresentato una realtà sostanzialmente estranea alla società
francese fino almeno agli anni 80 poiché il quegli anni le banlieues non potevano essere
considerate ghetti in ragione della loro composizione eterogenea e soprattutto queste aree non
presentavano un’organizzazione propria in contrapposizione all’esterno.
Oggi il rafforzamento della segregazione urbana starebbe favorendo la formazione di
un’organizzazione sociale specifica dei quartieri segregati, impregnati di una superficiale cultura di
strada. Il mondo a parte che si è andato a strutturare nei quartieri popolari segregati svolge una
funzione protettiva rispetto al mondo esterno e ciò sta alla base dell’ipotesi della formulazione di
una logica di ghetto anche in Francia.
Il ghetto è “un luogo in cui questa popolazione sa finito con il fabbricare modi di vita particolari,
visioni del mondo organizzate attorno a valori propri, in breve una forma di organizzazione sociale
che permette di far fronte alle difficoltà sociali e di affrontare le ferite inflitte dalla società. È
costruito esteriormente, è il prodotto di una segregazione razziale, della povertà e della
relegazione sociale. Ma il ghetto è anche costruito dall’interno. È un territorio a sé stante nel quale
la popolazione, o almeno una parte, ha elaborato un modo di vita particolare, un contro mondo
specifico che la protegge collettivamente dalla società esterna”.
Comunque è scarsamente comparabile.
La reputazione della convergenza atlantica / I reietti della città e la violenza dei ricchi /
Conclusione: il margine oltre i margini
W. rifiuta recisamente l’amalgama fra ghetto e banlieues, evidenziando l’opposizione esistente tra
divisione razziale ed esclusione sociale. I quartieri periferici delle città francesi non sono il prodotto
di una chiusura organizzativa di uno specifico gruppo a partire da un rigido confinamento spaziale
come è avvenuto per i neri degli Stati Uniti.
A differenza del ghetto nero le banlieues si caratterizzano per una eterogeneità di provenienze
etniche. Non rappresentano un mondo chiuso nel quale si racchiude completamente la
quotidianità dei loro abitanti, non sono così fortemente plasmate dalla violenza che rappresenta
invece l’orizzonte di vita quotidiano nella dimensione americana, non presentano forme di
duplicazioni istituzionali attraverso le quali i residenti tentano di sopperire all’abbandono da parte
dello stato. In sostanza la prospettiva della fusione e della sovrapposizione è fuorviante e la
sovrapposizione fra questi due universi spaziali risulta essere un controsenso storico e sociologico.
Errata è la diagnosi e errata è la terapia.
DA FINIRE
Parte I
Dal ghetto comunitario all’iperghetto
Lo stato e il destino del ghetto nero
sul finire del millennio
1) lo spostamento territoriale verso l’occupazione nei servizi si è tradotto in tagli massicci alle
categorie di lavoro tradizionale più accessibili ai neri urbani con un livello di competenze basso.
Dato che i neri del ghetto erano sovra rappresentati tra i lavoratori di fabbrica, sono stati colpiti in
modo assolutamente sproporzionato da questo rimpasto settoriale e continuano a pagare i costi
della de industrializzazione di Chicago;
2) la redistribuzione territoriale dei posti di lavoro ha anche ridotto le opzioni dei neri non
qualificati sul mercato del lavoro, a causa dello spostamento fuori dei centri città di molte attività,
alla ricerca di terreni più a buon prezzo, di sgravi fiscali e di lavoro più flessibile;
3) lo slittamento dell’occupazione verso lavori richiedenti una istruzione superiore ha limitato
fortemente le possibilità di impiego dei residenti del ghetto, data l’incapacità delle istruzioni
pubbliche di adattarsi a questo cambiamento;
4) la continua segmentazione razziale dei bassi salari. I neri tendono ad essere incanalati in lavori
meno interessanti e ammassati nelle posizioni iniziali, tagliati fuori dai percorsi di carriera.
Sono inoltre stati respinti più indietro nella fila d’attesa per il lavoro dalla intensificata
competizione delle donne e dalla nuova immigrazione.
Inoltre, poiché il ghetto è diventato associato, nell’opinione pubblica, alla depravazione e
all’illegalità, il solo fatto di abitare in un quartiere della storica Black Belt è diventato un handicap
supplementare nella ricerca di un lavoro.
Dopo una lunga eclissi, il ghetto ha avuto uno stupefacente ritorno sulla scena politica e nella
coscienza collettiva d’America a metà degli anni 80.
Ma le discussioni della situazione dei neri nel ghetto sono state in genere formulate in termini
individualistici e moralistici: i poveri sono stati rappresentati come un aggregato informe di casi
patologici, ognuno con la propria logica, come creature figlie di una cultura etnica nociva, o ancora
come i beneficiari di uno stato sociale dissoluto, che perpetua la stessa miseria che dovrebbe
combattere, premiando pigrizia e vizio.
Rompendo con questa visione, questo capitolo richiama l’attenzione sulle caratteristiche
specifiche della struttura sociale di prossimità entro la quale i residenti del ghetto si evolvono e si
sforzano di vivere.
Il ghetto ha vissuto una crisi non perché le microstrutture della famiglia e i comportamenti
individuali sono improvvisamente stati soggetti ad un collasso, o perché un ethos del welfare si sia
impossessato dei residenti, ma perché la disoccupazione e l’esclusione economica, cresciute fino a
livelli estremi sullo sfondo di una rigida segregazione razziale e dell’abbandono da parte dello
stato, hanno innescato un processo di iperghettizzazione ( riacutizzazione della logica escludente
del ghetto quale strumento di controllo etno-razziale).
Deindustrializzazione e iperghettizzazione
Le condizioni dei ghetti non sono mai state invidiabili ma dagli anni 70 sono sprofondate in nuovi
abissi di privazione e sofferenza.
In particolare, vi sono stati cambiamenti strutturali notevoli come il decentramento degli impianti
industriali e la fuga all’estero di produzioni di posti di lavoro. La generale deconcentrazione delle
economie metropolitane e la svolta verso i settori e le professioni dei servizi, favorito dalla
crescente separazione tra banca e industria; l’ascesa del settore finanziario e l’emergere di forme
di organizzazione produttiva flessibili post tayloriste; e da un ultimo un attacco generalizzato da
parte delle corporations ai sindacati.
Il crollo della base industriale di Chicago è stato accompagnato da tagli sostanziali dell’impiego nel
commercio.
La sia pur moderata crescita dei servizi non ha potuto compensare il collasso del bacino di lavoro
non qualificato. La ricaduta di questi mutamenti strutturali sui residenti nel ghetto ha significato
un passo ulteriore in direzione di una crescita esponenziale della esclusione nel mercato del
lavoro. Quando l’economia metropolitana spense le ciminiere delle sue industrie e le ridi spiegò al
di fuori di Chicago, svuotando la Black Belt di molte delle attività e dei posti di lavoro in situ, il gap
tra ghetto e il resto della città si ampliò (south side, metà delle famiglie negli anni 80 viveva con
5500 dollari l’anno).
Con il venir meno della sua funzione economica di riserva di forza-lavoro industriale il ghetto ha
perso anche la sua capacità organizzativa di abbracciare e proteggere i propri residenti.
Lo storico Allan Spear ha introdotto una utile distinzione tra quello che egli chiama ghetto fisico ,
una mera struttura materiale dell’esclusione generata dalla ostilità bianca e che manteine i neri
separati in uno spazio chiuso a loro riservato, e il ghetto istituzionale , il network di forme
istituzionali e culturali elaborato dagli afro-americani in reazione alla violenta ostracizzazione
subita da parte dei bianche nella città industriale.
Secondo questa interpretazione, l’iperghettizzazione può essere letta come una regressione verso
il ghetto fisico, che ha come risultato una intensificazione della chiusura sociale escludente sullo
sfondo della de proletarizzazione e senza l’azione compensativa esercitata da un tessuto di forti
organizzazioni autoctone.
I cittadini dell’iperghetto sono quasi esclusivamente i segmenti più vulnerabili e marginalizzati
della comunità nera, coloro che sono privi delle risorse per sfuggire all’inferno urbano che è
divenuto il ghetto con il suo collasso.