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I Reietti Della Città

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Loic Wacquant

I reietti della città


ghetto, periferia, stato

Introduzione
Sono le specificità del nuovo mondo della produzione, sempre più indirizzato ai servizi e alla
conoscenza, che finirebbe per accentuare divisioni già precedentemente esistenti in termini di
accesso all’occupazione e al mercato del lavoro, penalizzando ulteriormente ceti inferiori e
minoranze. Per esempio a New York si è cominciato a parlare di città “duale” quando si è rilevato
che i primi ad essere colpiti della transizione al post-industriale erano gli appartenenti alle
minoranze etno-razziali, in genere dotati di una formazione scolastica e professionale ridotta.
Le città globali fungono quindi da magneti che attirano flussi di migranti, per lo più relegati ai ruoli
subalterni, e confinati ai margini delle grandi concentrazioni urbane, di cui pure costituiscono una
sorta di “motore occulto” dello sviluppo.

Le vecchie marginalità
Le teorie della marginalità urbana nascono negli ani 50 e 60 in America Latina e si inseriscono in un
contesto in cui da un lato era necessario dare conto delle conseguenze di un processo di crescita
urbana rapido e per lo più incontrollato che aveva caratterizzato i decenni precedenti, dall’altro si
cercava di leggere i fenomeni di iperurbanizzazione in una rete di relazioni storiche politiche ed
economiche complesse.
Il concetto di Marginalità non è utilizzato unicamente per descrivere la città latinoamericana sotto
il profilo della sua genesi e delle relazioni intrattenute con le economie dominanti del pianeta, ma
assume anche la valenza di una denuncia dei profondi squilibri interni che la caratterizzano.
La marginalità urbana non viene più ricondotta a una generica povertà terzomondiale ma
rappresenta una forma specifica di relegazione spaziale di minoranze.
I teorici della marginalità tratteggiavano tutta una serie di gerarchie politico-economiche
discendenti: la crescita della marginalità era infatti da ricondursi ad una trasformazione del
capitalismo, che investiva con particolare violenza la periferia (dove marginalità e problemi urbani
giungevano praticamente ad identificarsi).
Gino Germani cercò di comprendere la marginalità non solo in chiave regionale ma anche al di
fuori della vicenda dell’America Latina leggendola in termini di sociologia storica, come problema
ricorrente e insoluto del capitalismo. In questa prospettiva la marginalità è figlia dei processi di
modernizzazione: i marginali sono vittime del progresso, i gruppi inadeguati o incapaci di adattarsi
ai mutamenti dei rapporti di produzione. Germani ha uno sguardo più ampio rivolto alle
conseguenze della marginalità: tra gli effetti intravede l’impossibilitò da parte dei marginali di
fruire di opportunità e di servizi ad altri accessibili.
Ad oggi viene smentita la speranza che la marginalità fosse il prezzo da pagare per la
modernizzazione e che si trattasse di un fenomeno transitorio destinato ad essere superato
dall’affermarsi di società più democratiche.
Si stanno avverando alcune delle conclusioni fatte negli anni settanta.
La crescita della disoccupazione, il declino delle opportunità di lavoro anche nel settore informale,
hanno prodotto una crescita dell’esclusione e nuove dimensioni della marginalizzazione, con una
moltiplicazione della povertà urbana e degli insediamenti formali.

Le marginalità nuove / Struttura della marginalità urbana avanzata


La marginalità urbana attuale va letta all’interno di un processo complesso di rimodellamento della
stratificazione sociale delle metropoli e di rimescolamento delle popolazionid elle città e degli
spazi che esse occupano.
Riprendendo Castel, W. insiste sul fatto che il lavoro ha perduto la sua capacità di integrazione
nella macchia urbana con complessi processi di precarizzazione del lavoro, di desolidarizzazione e
di frammentazione sociale.
Viene rilevata una sempre maggiore disconnessione della marginalità avanzata dai grandi trends
macroeconomici: anche quando l’economia va bene le nuove opportunità lavorative che si creano
non sono per chi vive nelle “zone”. La povertà e la marginalità avanzata tendono a concentrarsi in
determinate zone della città, che vengono sempre più percepite come luoghi di relegazione e
divengono tali anche come conseguenza delle politiche sociali che le etichettano in senso negativo.

Un’altra caratteristica della marginalità avanzata è l’alienazione spaziale, una sorta di perdita e
dissoluzione del senso del luogo, un processo in cui viene smarrito non solo il senso
dell’appartenenza spaziale, ma anche un retroterra sociale. Venute meno le reti di sostegno
collettivo, gli abitanti delle zone stigmatizzate se la dovevano cavare da soli, in un contesto di
feroce individualismo.
Secondo W. la marginalità urbana si sviluppa in un contesto complessivo di decomposizione di
classe: gli individui non sono più legate a strutture tradizionali di mobilitazione ma sono anche
provi di un linguaggio comune.

Nel cuore del ghetto nero


W. ricava queste acquisizioni teoriche su questa nuova dimensione della miseria prima di tutto
dalle ricerche nel ghetto afroamericano di Chicago. Egli definisce il ghetto come una particolare
forma in cui si concretizza la violenza collettiva nello spazio urbano. Il ghetto è una forma
istituzionale in cui collidono due diverse finalità che si vorrebbero invece conciliare: la
massimizzazione dello sfruttamento economico e la minimizzazione dei contatti sociali.
Quando il ghetto collassa implode richiudendosi su coloro che lo abitano, diventando una sorta di
riserva o di discarica di una umanità inutile. Un luogo di potenziale annientamento di gruppi privati
di qualunque dignità, stigmatizzati e allontanati.
Il ghetto nero però non è sempre stato luogo di devianza e violenza. Vi funzionavano in passato
istituzioni parallele, nate all’interno del ghetto che un tempo fu comunitario, istituzioni che
svolgevano un ruolo di difesa e di protezioni degli abitanti e conferivano loro una certa autonomia.

La ritirata dello stato e la scomparsa delle istituzioni di auto protezione del ghetto producono una
condizione di de-civilizzazione, di de-pacificazione del’esistenza: nascono così delle no go areas,
zone maledette della città da cui se ne va chiunque riesca a permetterselo.
Nel ghetto vive una classe oggetto, una classe in cui le condizioni esterne impediscono di
trasformarsi in un agente sociale attivo.
L’equivoco della underclass
Underclass diviene un termine che sta per “gruppi da criminalizzare e da stigmatizzare”.
La lettura proposta dalle teorie della underclass vede il ritorno prepotente del culturalismo: la
caduta in miseria della popolazione afro-americana sarebbe dovuta al sommarsi di una serie di
elementi soggettivi: l’abbandono scolastico, la dissoluzione della morale familiare, la pigra e
passiva attesa dell’aiuto welfariano, la scelta della criminalità come via facile dell’arricchimento.
La politica dello stato finisce per riprodurre la miseria che dovrebbe teoricamente contrastare.
W. propone alcuni punti portanti su cui l’analisi comparata dovrebbe vertere per essere
veramente significante e condurre a risultati validi: in primis un processo di decostruzione del
senso comune urbano, delle maniere ovvie o abituali di concepire la città. Lo sforzo principale di
chi studia oggi la marginalità urbana dovrebbe consistere principalmente nel ricollocare la
condizione e il destino di un quartiere nel susseguirsi delle trasformazioni che lo hanno interessato
e hanno le loro radivi nella storia del quartiere stesso.
è necessario quindi insistere sui condizionamenti che sono implicati nel vivere in una zona di
relegazione socio spaziale, cercando di cogliere il funzionamento di quella determinata area
marginale nel sistema metropolitano nel suo insieme.

La banlieue è un ghetto?
Secondo Lapeyronnie il ghetto ha rappresentato una realtà sostanzialmente estranea alla società
francese fino almeno agli anni 80 poiché il quegli anni le banlieues non potevano essere
considerate ghetti in ragione della loro composizione eterogenea e soprattutto queste aree non
presentavano un’organizzazione propria in contrapposizione all’esterno.
Oggi il rafforzamento della segregazione urbana starebbe favorendo la formazione di
un’organizzazione sociale specifica dei quartieri segregati, impregnati di una superficiale cultura di
strada. Il mondo a parte che si è andato a strutturare nei quartieri popolari segregati svolge una
funzione protettiva rispetto al mondo esterno e ciò sta alla base dell’ipotesi della formulazione di
una logica di ghetto anche in Francia.
Il ghetto è “un luogo in cui questa popolazione sa finito con il fabbricare modi di vita particolari,
visioni del mondo organizzate attorno a valori propri, in breve una forma di organizzazione sociale
che permette di far fronte alle difficoltà sociali e di affrontare le ferite inflitte dalla società. È
costruito esteriormente, è il prodotto di una segregazione razziale, della povertà e della
relegazione sociale. Ma il ghetto è anche costruito dall’interno. È un territorio a sé stante nel quale
la popolazione, o almeno una parte, ha elaborato un modo di vita particolare, un contro mondo
specifico che la protegge collettivamente dalla società esterna”.
Comunque è scarsamente comparabile.

La reputazione della convergenza atlantica / I reietti della città e la violenza dei ricchi /
Conclusione: il margine oltre i margini
W. rifiuta recisamente l’amalgama fra ghetto e banlieues, evidenziando l’opposizione esistente tra
divisione razziale ed esclusione sociale. I quartieri periferici delle città francesi non sono il prodotto
di una chiusura organizzativa di uno specifico gruppo a partire da un rigido confinamento spaziale
come è avvenuto per i neri degli Stati Uniti.
A differenza del ghetto nero le banlieues si caratterizzano per una eterogeneità di provenienze
etniche. Non rappresentano un mondo chiuso nel quale si racchiude completamente la
quotidianità dei loro abitanti, non sono così fortemente plasmate dalla violenza che rappresenta
invece l’orizzonte di vita quotidiano nella dimensione americana, non presentano forme di
duplicazioni istituzionali attraverso le quali i residenti tentano di sopperire all’abbandono da parte
dello stato. In sostanza la prospettiva della fusione e della sovrapposizione è fuorviante e la
sovrapposizione fra questi due universi spaziali risulta essere un controsenso storico e sociologico.
Errata è la diagnosi e errata è la terapia.
DA FINIRE

Ghetto, Banlieue, Favela eccetera


DA FINIRE

Prologo: un vecchio problema in un mondo nuovo?


Il ritorno del rimosso: rivolte, “razza” e dualizzazione in tre società avanzate
Violenza dal basso: rivolte razziali o rivolte del pane?
Le società avanzate sono state afflitte dalla diffusione della nuova povertà e contemporaneamente
dall’insorgere – o risorgere – delle ideologie razziali, spesso accompagnate da violenti conflitti che
hanno coinvolto le giovani generazioni nei quartieri delle classi inferiori.
Tre esempi di disordini urbani in Francia, Inghilterra e negli Stati Uniti illustrano il fenomeno.
La maggior parte di questi fenomeni hanno coinvolto innanzitutto giovani di quartieri urbani
impoveriti, segregati, dilapidati e caduti in una spirali in declino. L’interpretazione dominante nei
media è stata quella di considerare questi episodi delle “rivolte razziali” espressione dell’animosità
contro o fra le “minoranze” etniche e/o immigrate di questi paesi.
In tutti e tre i paesi la violenza e i disordini collettivi sono associati nella percezione pubblica – per
non dire identificati – con divisioni etnorazziali e/o con l’immigrazione. Negli USA questa
associazioni è vecchia mentre in Europa è più recente.
Nei disordini si combinano due logiche: una logica di protesta contro l’ingiustizia etno-razziale
radicata nel trattamento discriminatorio e una logica di classe che spinge una frazione impoverita
della classe operaia a insorgere contro le privazioni economiche e le crescenti disparità sociali
utilizzando l’arma più efficace, se non l’unica, di cui dispone: lo scontro diretto con l’autorità e
l’interruzione forzata della vita civile.
Gli anni Ottanta sono stati il decennio della lenta maturazione di rivolte miste sia nelle dinamiche
che negli obiettivi e nella loro composizione etnica.
Contrariamente alla rappresentazione dei media, sia le banlieues francesi che le inner cities
britanniche non sono popolate esclusivamente o in maggioranza da immigrati e inoltre i
partecipanti alle rivolte sono stati reclutati in un caleidoscopio di categorie etniche.

Violenza dall’alto: de proletarizzazione, relegazione e stigmatizzazione


Si ha la tentazione di considerare la violenza dal basso come sintomo di una crisi morale, di una
patologia delle classi inferiori o come segnale di un imminente crollo del modello sociale di legge e
ordine. Ma vi è una vera e propria violenza dall’alto, la quale ha tre componenti principali:

 La disoccupazione di massa, cronica e persistente, che si traduce in de proletarizzazione e


diffusione della precarietà lavorativa, portando con sé tutta una serie di deprivazioni
materiali, di disagi familiari, di incertezza temporale e di ansia;
 La relegazione in quartieri in declino;
 Una accresciuta stigmatizzazione sia nella vita quotidiana che nel discorso pubblico,
sempre più legata non solo alla classe e alla origine etnica ma anche al fatto di vivere in
quartieri degradati e degradanti.
Queste tre forze si rilevano tanto più nocive nella misura in cui si combinano con ripresa generale
delle disuguaglianze. A differenza dei periodi precedenti, l’irregolare espansione degli anni 80/90
ha fallito nel “sollevare tutte le barche” e ha invece determinato un profondo scisma tra ricchi e
poveri, fra chi è stabilmente impiegato nei settori di punta della nuova economia e chi è rimasto
intrappolato, primi fra tutti i giovani dei quartieri di relegazione, in impieghi precari in settori di
basso profilo dell’industria e dei servizi. Negli USA questo divario è cresciuto così marcatamente
tanto da essere palpabile nelle strade delle grandi città.
Mentre la quota di ricchezza nazionale detenuta dall’1% della popolazione è cresciuta, molta più
gente vive al di sotto della soglia di povertà.
Lo spostamento dell’occupazione del lavoro industriale verso lavori ad alta qualifica formativa da
un lato e verso posizioni dequalificate dall’altro, l’impatto delle tecnologie elettroniche e
l’automazione nelle fabbriche, l’erosione dei sindacati si sono combinate per produrre la
distruzione, la precarietà e la degradazione del lavoro per i residenti dei quartieri diseredati delle
grandi città. Per molti di loro, la ristrutturazione economica non ha significato solo la perdita di un
reddito o di una occupazione irregolare, ma l’impedimento puro e semplice all’accesso ad
un’attività salariata, in sostanza la de proletarizzazione.
La sopravvivenza basata su un mix di lavoro occasionale, di assistenza sociale e di attività illegali ha
la meglio sulla regolare partecipazione al lavoro salariato.
Inoltre, proprio nel momento in ci le loro economie erano colpite dalla deindustrializzazione e
dalla globalizzazione, i paesi avanzati hanno dovuto fronteggiare l’arrivo di una nuova ondata di
immigrazione, proveniente principalmente dalle vecchie colonie, che si ritrova a gravitare nei
centri urbani più poveri. Non è chiaro se l’arrivo di nuovi immigrati abbia accelerato il processo di
de proletarizzazione parziale della nativa classe operaia.
è certo invece che la loro concentrazione in quartieri segregati e degradati ha accentuato la
polarizzazione sociale e spaziale nelle città, perché si è verificata in un momento in cui, grazie al
sostegno da parte dello stato alle abitazioni singole attraverso la pianificazione e la politica fiscale ,
la classe media fuggiva dai quartieri misti trasferendosi in territori protetti nei quali si poteva
beneficiare di un livello superiore di servizi, si aveva la possibilità di soddisfare i bisogni familiari
tramite un mercato privato o godere di un mix di benefici pubblici e privati.
I residenti di questi quartieri derelitti sentono che per i loro figli non vi sono possibilità di
conoscere un futuro diverso da quello di povertà ed esclusione. A questi sentimenti di chiusura
sociale si aggiunge la rabbia. Non solo vi è una deprivazione materiale ma anche un’ostilità etno
razziale e etnonazionale. La stigmatizzazione territoriale incoraggia fra i residenti strategie di fuga
sociale, di evitamento reciproco e di distanziamento aggravando i processi di scissione sociale,
nutrendo la sfiducia interpersonale e minando quel senso di collettività.
Inoltre vi è la maledizione di essere poveri nel mezzo di una società ricca nella quale la
partecipazione ai consumi è divenuta una condizione imprescindibile della dignità sociale (se non
addirittura cittadinanza).

Alienazione politica e dilemmi della penalizzazione


Coda: una sfida alla cittadinanza

Parte I
Dal ghetto comunitario all’iperghetto
Lo stato e il destino del ghetto nero
sul finire del millennio

Dai riots razziali ai riots silenziosi


La visione di saccheggiatori neri e di attivisti del Black Power che rivendicavano con forza il
controllo sul destino della loro comunità ha lasciato posto alla spaventosa immagine di un infima
underclass, un nuovo segmento di povertà nera, presumibilmente caratterizzata da deficit
comportamentali e da devianza culturale di coloro che ne fanno parte.
Uomo-> nero aggressivo e violento, Donna-> welfariana.
Il sorgere del movimento sociale, che aveva mobilitato la comunità nera negli anni 60, è regredito
così come le politiche pubbliche.
Sul chiudersi del secolo lo stato si contenta di sovraintendere al contenimento della prima linea
delle enclaves urbane riservate ai neri delle classi inferiori e di praticare una politica dei
benevolmente trascurati per la seconda linea.
Anche il focus delle scienze sociali è slittato: dall’analizzare il ghetto come meccanismo di dominio
etnorazziale e opressione economica si è passati all’analisi delle patologie che si riteneva
flagellassero la underclass, fino alle misure punitive da mettere in atto per minimizzare gli abusi
ricorsi alle risorse pubbliche.
Il paese si è spostato verso due società separate e diseguali: mentre la middle class nera
sperimentava una crescita, la povertà dei cittadini neri è divenuta più intensa, tenace e
concentrata rispetto agli anni 60.

Addio al ghetto eterno


Il ghetto degli anni 80/90 è diverso rispetto al ghetto di metà secolo.
Il ghetto comunitario dell’immediato dopoguerra, compatto e chiaramente delineato, accogliente
l’intera gamma delle classi sociali nere è stato soppiantato da quel che si può chiamare
IPERGHETTO.
Esistono connessioni causali e funzionali profonde tra la trasformazione del ghetto e i mutamenti
strutturali che hanno ridisegnato l’economia USA, lo spazio sociale e le relazioni di potere in
reazioni agli shock progressisti degli anni 60.
I ghetti non sono costellazioni socio spaziali autonome.
Il ghetto come strumenti di recinzione escludente (Weber) è ancora qui con noi ma è un tipo
diverso di ghetto.

Tre caveat preliminari


Il ghetto è una forma istituzionale di meccanismi di chiusura e di controllo etnorazziale.
Può essere caratterizzato come una formazione spaziale circoscritta ed etnicamente uniforme
generata dalla regolazione forzata di una popolazione etichettata negativamente (es. ebrei) in un
territorio riservato, in cui questa popolazione sviluppa una gamma di istituzioni specifiche.
Il fatto che molti ghetti siano luoghi di miseria non vuol dire che il ghetto sia necessariamente
povero o che debba essere uniformemente deprivato.
Non è neppure vero che il ghetto sia completamente desertificato.
Bisogna poi resistere alla tendenza a trattare il ghetto come uno spazio alieno, a esorcizzarlo come
i proponenti del mito della underclass vorrebbero. Gli abitanti dei ghetti sono persone ordinarie
che cercano di costruire la loro vita e di migliorare il proprio destino nel bene come nel male nelle
circostante inusualmente oppressive e deprimenti loro imposte.
Inoltre il ghetto contemporaneo non soffre di disorganizzazione sociale: è organizzato in maniera
differente. L’iperghetto contiene un tipo particolare di ordine sociale e coloro che vivono in esso
non sono parte di un gruppo serparato chiuso in se stesso: essi appartengono alle frazioni non
specializzate e socialmente squalificate della working class nera, in virtù della loro posizione
instabile ai margini della sfera del lavoro salariato, e per i loro legami di parentela, di socialità e di
cultura con gli altri componenti della comunità afro-americana.

Dal ghetto comunitario degli anni 50 all’iperghetto degli anni 90


Il processo di ghettizzazione dei neri è antico e ben documentato. Risale alla prima formazione
della Black Belt come strumento di esclusione etnorazziale nei primi decenni del novecento.
Solo gli afroamericani sono stati costretti a risiedere in zone in cui la segregazione era in pratica
totale, essenzialmente involontaria e anche perpetua. Ciò li costrinse a sviluppare una struttura
sociale parallela pressoché completa, diretta da neri e ad essi rivoltam che non ha l’eguale tra i
bianchi etnici.
Le caratteristiche del ghetto postfordista sono: ghetto decentrato e istituzionalmente differenziato
scisso da una parte in un cuore di sottoproletari e dall’altra una working class satellite e quartieri
borghesi situati lungo la periferia interna della cità e sempre più in suburbs segregati; ampia scala
e intensità del collasso nel centro del ghetto.

Degrado fisico e pericolo nel cuore della città


Esempio di Miracle Mile nel South Side di Chicago che nel tempo si è svuotata delle attività che
prima la rendevano molto popolare.
L’elemento brutale è che nel ghetto di fine secolo vi è la prevalenza del pericolo fisico e l’acuto
senso di insicurezza che pervade le sue strade. Anche le case non sono sicure. E nemmeno le
scuole. L’iperghetto non è un posto dove essere bambini: i ragazzi che crescono in questo
ambiente di violenza pandemica patiscono seri danni emozionali e palesano i medesimi stress post
traumatici tipici dei veterani di guerra.
Se tanta violenza è esercitata da neri su neri non è solo perché i residenti nel cuore declinante
della metropoli soffrono di livelli estremi di disoccupazione e di una profonda alienazione sociale.
È anche perché il nero maschio qualunque è ormai identificato quale simbolo di violenza criminale
e di pericolo urbano.
E dato che sono incapaci di simulare i tratti esteriori della cultura della middle class sono banditi di
fatto dalle aree limitrofe in cui il loro colore della pelle li identifica immediatamente come
potenziali criminali o causa di disordine.
Spopolamento, deproletarizzaione e collasso organizzativo
Mentre in passato la Bronzeville degli anni 50 era sovrappopolata, il ghetto contemporaneo è
afflitto da un costante spopolamento, dato che le famiglie più agiate si sono trasferite in cerca di
un ambiente più congeniale verso i distretti che circondano la Bronzeville storica, lasciati vuoti dai
bianchi fuggiti verso i suburbs. Il grosso della middle class nera e degli stabilmente occupati
risiedeva in quartieri segregati ai margini del ghetto storico.
Questo movimento ha tre facce: la migrazione verso l’esterno di famiglie afro-americane
stabilmente impiegate, resa possibile dalla fuga dei bianchi nei suburbs sponsorizzata dallo stato;
l’addensarsi dell’edilizia popolare in aree nere già segnate da slums; la rapida de proletarizzazione
dei rimanenti residenti del ghetto, ha prodotto come conseguenza una povertà endemica – in una
sezione del South Side, il 64% della popolazione viveva al di sotto della linea di povertà nel 1990.
Non sorprende che l’attività delle gang sia prevalente nel cuore del ghetto. I residenti del ghetto
fine secolo non sono solo più poveri individualmente rispetto ai loro corrispondenti di 30 anni
prima ma sono anche notevolmente più poveri collettivamente -> essi sono diventati
organicamente isolati dalle altre componenti della comunità afroamericana.
Inoltre, il ghetto di fine secolo non può più contare sul nesso denso di istituzioni che aveva
conferito coerenza e coesione al ghetto di una volta.
L’iperghetto ha subito un inaridimento: l’infrastruttura organizzativa si è impoverita ed è appassita
e con essa sono svanite le reti di reciprocità e di cooperazione che usava per connettersi alle città.
Il ghetto tradizionale creava un senso di coesistenza, un senso di attaccamento e orgoglio.
L’iperghetto, al contrario, è uno spazio disprezzato e odiato dal quale tutti cercano di fuggire.

Arte di arrangiarsi e sopravvivenza quotidiana nell’economia informale


La disoccupazione di massa e la sotto-occupazione cronica dell’iperghetto costringono i residenti a
rivolgersi all’assistenza pubblica. L’estrema inadeguatezza del supporto del welfare che ricevono
per la pura sussistenza, li costringe perseguire ulteriori attività generatrici di reddito, non
dichiarate e non referibili.
Una delle strategie preferite delle madri a corto di soldi, è quella di chiedere piccoli prestiti alla
rete familiare. Un’altra opzione è quella di procurarsi cibo gratis da associazioni benefiche, in
chiese o in un agenzia della città o tramite i currency exchanges. Il pilastro della sussistenza però è
fornito da lavoretti e mestieri marginali che coinvolge una vasta gamma di attività illegali.
L’attrazione principale esercitata dalle gangs sui giovani sottoproletari dell’iperghetto è proprio
dovuta al fatto che rappresentano piccole imprese commerciali che aumentano le loro possibilità
di garantirsi un reddito in denaro e, quindi, offrono un minimo di sicurezza finanziaria.
In particolare il mercato della droga non solo pesa sui giovani e sulle loro volontà di cercare un
lavoro salariato ma crea un ambiente morboso e costituisce fattore importante di mortalità
precoce. Il traffico di sostanze crea violenza e di conseguenza un ambiente insicuro.
Questa insicurezza accelera la ritirata del mercato del lavoro salariato e allontana ulteriormente i
residenti del ghetto dall’economia e dalla società regolare.
Inoltre, essa mina la coesione del quartiere. L’antropologo Bourgois ha dimostrato che, in questo
commercio ombra, le manifestazioni routinarie di violenza sono un requisito del business: servono
a stabilire la credibilità commerciale e ad evitare di essere soppiantati dai concorrenti.
Radici economiche e politiche della iperghettizzazione
Le cause dell’iperghettizzazione della inner-city coinvolgono una concatenazione complessa e
dinamica di fattori economici e politici che operano per tutto il dopoguerra. Il più ovvio di questi
fattori è la transizione dell’economia americana da un sistema di produzione fordista chiuso,
strettamente integrato, centrato sulla fabbrica, destinato a un mercato di massa uniforme verso
un sistema più aperto, decentrato, ad alta intensità di servizi orientato a modelli di consumo
sempre più differenziali.
Un secondo fattore è la persistenza della segregazione residenziale rigida degli Afro-Americani e
l’addensamento deliberato dell’edilizia residenziale pubblica nelle aree nere più povere delle
grandi città. Il terzo fattore è il ridimensionamento rapido e ampio di un welfare già di per sé
avaro, combinato con le cicliche recessione dell’economia americana che ha contribuito a
garantire un costante aumento della povertà. Un quarto ed importante fattore è l’inversione della
tendenza nelle politiche urbani federali e locali nel corso degli ultimi due decenni, che si è
espresso nel ritiro programmato dei servizi pubblici dai quartieri storicamente neri.

Disinvestimento, sviluppo polarizzato e segmentazione razziale del lavoro dequalificato


A metà degli anni 60, il vecchio sistema economico ancorato alla produzione industriale
standardizzata, al consumo di massa, a forti sindacati e a un corrispondente contratto sociale tra le
imprese e la loro forza lavoro stabile, venne gradualmente sostituito da un nuovo regime basato
sulla predominanza dell’occupazione nei servizi, dalla biforcazione del capitale finanziario e
industriale, dall’erosione delle economie regionali integrate, e da una riorganizzazione radicale dei
mercati del lavoro e della scala dei salari.
Questo cambiamento nella struttura del mercato del lavoro è il risultato delle decisioni prese dalle
grandi imprese statunitensi che hanno favorito strategie di profitto a breve termine che hanno
fatto della massa salariale una variabile di aggiustamento ed esigono una continua riduzione dei
costi di funzionamento (decentramento). Tutto questo ha spianato la strada al lavoro precario e in
subappalto.
Nell’intreccio di forze che hanno ridisegnato il volto dei mercati del lavoro urbano, tre sono
particolarmente rilevanti per il destino del ghetto:

1) lo spostamento territoriale verso l’occupazione nei servizi si è tradotto in tagli massicci alle
categorie di lavoro tradizionale più accessibili ai neri urbani con un livello di competenze basso.
Dato che i neri del ghetto erano sovra rappresentati tra i lavoratori di fabbrica, sono stati colpiti in
modo assolutamente sproporzionato da questo rimpasto settoriale e continuano a pagare i costi
della de industrializzazione di Chicago;
2) la redistribuzione territoriale dei posti di lavoro ha anche ridotto le opzioni dei neri non
qualificati sul mercato del lavoro, a causa dello spostamento fuori dei centri città di molte attività,
alla ricerca di terreni più a buon prezzo, di sgravi fiscali e di lavoro più flessibile;
3) lo slittamento dell’occupazione verso lavori richiedenti una istruzione superiore ha limitato
fortemente le possibilità di impiego dei residenti del ghetto, data l’incapacità delle istruzioni
pubbliche di adattarsi a questo cambiamento;
4) la continua segmentazione razziale dei bassi salari. I neri tendono ad essere incanalati in lavori
meno interessanti e ammassati nelle posizioni iniziali, tagliati fuori dai percorsi di carriera.
Sono inoltre stati respinti più indietro nella fila d’attesa per il lavoro dalla intensificata
competizione delle donne e dalla nuova immigrazione.
Inoltre, poiché il ghetto è diventato associato, nell’opinione pubblica, alla depravazione e
all’illegalità, il solo fatto di abitare in un quartiere della storica Black Belt è diventato un handicap
supplementare nella ricerca di un lavoro.

Segregazione razziale, politica della casa e concentrazione della povertà nera


La segregazione razziale è la variabile intermedia fondamentale che spiega come tanti neri delle
classi inferiori siano stati tagliati fuori dai nuovi posti di lavoro nell’economia dei servizi
decentralizzata e resi incapaci di perseguire la mobilità sociale attraverso la mobilità territoriale.
La persistenza dell’isolamento residenziale degli afro-americani poveri nel ghetto storico è stato
alla base di una distribuzione delle opportunità di lavoro, delle possibilità di successo scolastico,
della ricchezza imponibile e dell’influenza politica che li ha privati dei supporti necessari a
preservare o a migliorare la propria condizione sociale ed economica -> un isolamento spaziale che
opera come un prisma!
A livello residenziale, gli afro americani sono virtualmente separati da altri gruppi come se
vivessero in un regime di apartheid giuridico e sono gli unici a subire una separazione così intensa.
La linea di colore che divide in due la città è il risultato della dualizzazione inflessibile del mercato
immobiliare lungo linee etno-razziali.
I neri tentano di uscire dal perimetro ma trovano imbarazzo, reticenza, se non aperta ostilità e
resistenza violenta.
La seconda causa principale dei perpetuarsi della segregazione razziale è da rinvenirsi sul fronte
delle politiche abitative e di riqualificazione urbana attuate dai governi federali e municipali dopo
la seconda guerra mondiale, che hanno intenzionalmente intrappolato e impacchettato i poveri
afro americani nelle aree nere povere della inner-city (vedi pag. 106).
I suburbs vengono migliorati e assicurati a cittadini bianchi: i progetti federali hanno rafforzato la
divisione!
Il governo federale è doppiamente responsabile: in primo luogo ha sostenuto la segmentazione
razziale rigida del mercato immobiliare a livello della metropoli e poi l’hanno perpetuata
attraverso politiche abitative che hanno bloccato i neri poveri nel perimetro fatiscente della black
belt; in secondo luogo, lo stato ha prodotto una quantità gravemente insufficiente di abitazioni di
qualità scadente destinate ai poveri, deliberatamente impiantate nel nucleo fatiscente della città.

La brusca ritirata di un welfare micragnoso


Il progressivo ridimensionamento dello stato sociale dopo la metà degli anni 70 è un’altra
importante causa politica del continuo deterioramento delle opportunità di vita del
sottoproletariato urbano degli USA. L’ultimo quarto del secolo non è stato un periodo di
espansione e di generosità del welfare, ma di ritirata generalizzata dello stato.
La deficienza della politica sociale degli USA nei riguardi dei poveri sono ancora più lampanti
quando la si confronta con programmi attivati in Canada- che pare quasi un leader mondiale.
Coloro che sono stati espulsi dal mercato del lavoro sono stati ulteriormente penalizzati dai
crescenti tagli all’assistenza sociale. Inoltre chi è impegnato, anche solo in modo intermittente,
raramente diventa idoneo per l’indennità di disoccupazione.
Il sistema di welfare peggiora ulteriormente la condizione dei residenti del ghetto e contribuisce
alla diffusione di alloggi insalubri.
Infine, le politiche fiscali dei governi statali e federali hanno accentuato le difficoltà dei residenti
del ghetto. Le ripercussioni negative delle politiche fiscali regressive di Regan sui poveri urbani
sono ampiamente documentate, dal momento che la riduzione delle entrate fiscali del governo è
stata compensata principalmente dalla riduzione delle voci del bilancio pubblico destinate ad
aiutare gli americani più diseredati.

Marginalità politica e “contrazione pianificata” della inner-city


L’abbandono del ghetto orchestrato dalle autorità federali e locali non si limita alle politiche del
welfare, ma si estende alla gamma dei servizi rivolti alle popolazioni svantaggiate.
Così a Chicago, a partire dalla metà degli anni 70, la localizzazione delle strutture pubbliche e delle
infrastrutture, le decisioni di demolire edifici ripulendo i terreni e la riduzione mirata della
tassazione sono sempre serviti per attirare e accrescere il capitale privato e per stimolare lo
sviluppo di una downtown dedicata alla finanza, ai servizi alle imprese etc.
Poche organizzazioni sono in grado di mostrare il degrado dell’iperghetto meglio rispetto a quanto
riescono a fare le scuole pubbliche.
Esse sono state ridotte a un ruolo di custodia (distinto da quello educativo) come parcheggio e
contenitore dei figli dei poveri.
Sono stratificate per etnia e per reddito, con la segregazione razziale intatta e la segregazione di
classe in forte aumento dagli anni 60.
Il politologo Gary Orfield insiste sul fatto che la gioventù del ghetto si misura con “un insieme
separato e diseguale delle opportunità educative che continua per tutta la durata della loro
scolarizzazione. Si potrebbe facilmente dedurre che le loro esperienze educative non sono mirate
e non possono prepararli a funzionale nella stessa società e nella stessa economia”.
Ma ciò avviene perché le scuole del ghetto servono una popolazione che i funzionali federali e
locali considerano priva di valore elettorale, facendole stare in prima linea nei tagli di bilancio
imposti da un Board of Education perennemente a corto di fondi.
Il degrado della scuola pubblica è pari solo a quello delle strutture mediche -> i tassi di mortalità
infantile in alcune parti del ghetto è paragonabile a paesi del terzo mondo.
Il collasso delle istituzioni pubbliche nel nucleo urbano razzializzato e la marginalità crescente della
sua popolazione sono dunque il prodotto di politiche pubbliche che, lavorando sullo sfondo dela
rigida divisione razziale, hanno frammentato la sfera pubblica, indebolito le capacità politiche dei
neri e stimolato la fuoriuscita verso il settore privato di tutti coloro che potevano fuggire, lasciando
le frazioni più espropriate della classe operaia afro-americana a marcire nel purgatorio sociale
dell’iperghetto.

Conclusione: riconfigurazioni politiche del dominio razziale


Alejandro Portes ha osservato che “il grave errore delle teorie sugli slums è stato quello di
trasformare le condizioni sociologiche in tratti psicologici e di imputare alle vittime le
caratteristiche distorte dei loro vittimizza tori”.
Il costo dell’esclusione razziale e sociale
a Bronzeville

Dopo una lunga eclissi, il ghetto ha avuto uno stupefacente ritorno sulla scena politica e nella
coscienza collettiva d’America a metà degli anni 80.
Ma le discussioni della situazione dei neri nel ghetto sono state in genere formulate in termini
individualistici e moralistici: i poveri sono stati rappresentati come un aggregato informe di casi
patologici, ognuno con la propria logica, come creature figlie di una cultura etnica nociva, o ancora
come i beneficiari di uno stato sociale dissoluto, che perpetua la stessa miseria che dovrebbe
combattere, premiando pigrizia e vizio.
Rompendo con questa visione, questo capitolo richiama l’attenzione sulle caratteristiche
specifiche della struttura sociale di prossimità entro la quale i residenti del ghetto si evolvono e si
sforzano di vivere.
Il ghetto ha vissuto una crisi non perché le microstrutture della famiglia e i comportamenti
individuali sono improvvisamente stati soggetti ad un collasso, o perché un ethos del welfare si sia
impossessato dei residenti, ma perché la disoccupazione e l’esclusione economica, cresciute fino a
livelli estremi sullo sfondo di una rigida segregazione razziale e dell’abbandono da parte dello
stato, hanno innescato un processo di iperghettizzazione ( riacutizzazione della logica escludente
del ghetto quale strumento di controllo etno-razziale).

Deindustrializzazione e iperghettizzazione
Le condizioni dei ghetti non sono mai state invidiabili ma dagli anni 70 sono sprofondate in nuovi
abissi di privazione e sofferenza.
In particolare, vi sono stati cambiamenti strutturali notevoli come il decentramento degli impianti
industriali e la fuga all’estero di produzioni di posti di lavoro. La generale deconcentrazione delle
economie metropolitane e la svolta verso i settori e le professioni dei servizi, favorito dalla
crescente separazione tra banca e industria; l’ascesa del settore finanziario e l’emergere di forme
di organizzazione produttiva flessibili post tayloriste; e da un ultimo un attacco generalizzato da
parte delle corporations ai sindacati.
Il crollo della base industriale di Chicago è stato accompagnato da tagli sostanziali dell’impiego nel
commercio.
La sia pur moderata crescita dei servizi non ha potuto compensare il collasso del bacino di lavoro
non qualificato. La ricaduta di questi mutamenti strutturali sui residenti nel ghetto ha significato
un passo ulteriore in direzione di una crescita esponenziale della esclusione nel mercato del
lavoro. Quando l’economia metropolitana spense le ciminiere delle sue industrie e le ridi spiegò al
di fuori di Chicago, svuotando la Black Belt di molte delle attività e dei posti di lavoro in situ, il gap
tra ghetto e il resto della città si ampliò (south side, metà delle famiglie negli anni 80 viveva con
5500 dollari l’anno).
Con il venir meno della sua funzione economica di riserva di forza-lavoro industriale il ghetto ha
perso anche la sua capacità organizzativa di abbracciare e proteggere i propri residenti.
Lo storico Allan Spear ha introdotto una utile distinzione tra quello che egli chiama ghetto fisico ,
una mera struttura materiale dell’esclusione generata dalla ostilità bianca e che manteine i neri
separati in uno spazio chiuso a loro riservato, e il ghetto istituzionale , il network di forme
istituzionali e culturali elaborato dagli afro-americani in reazione alla violenta ostracizzazione
subita da parte dei bianche nella città industriale.
Secondo questa interpretazione, l’iperghettizzazione può essere letta come una regressione verso
il ghetto fisico, che ha come risultato una intensificazione della chiusura sociale escludente sullo
sfondo della de proletarizzazione e senza l’azione compensativa esercitata da un tessuto di forti
organizzazioni autoctone.
I cittadini dell’iperghetto sono quasi esclusivamente i segmenti più vulnerabili e marginalizzati
della comunità nera, coloro che sono privi delle risorse per sfuggire all’inferno urbano che è
divenuto il ghetto con il suo collasso.

Il prezzo della vita nell’iperghetto


Viene comparata la struttura sociale dei quartieri che compongono il cuore storico della
Bronzeville di Chicago, consolidatosi durante il periodo 1910-1940, con quella delle zone di
insediamento nero che sono cresciute intorno al suo perimetro dopo le rivolte degli anni 60.
Questa comparazione si sovrappone quasi esattamente con quella tra quartieri neri della povertà
estrema e quartieri a povertà moderata.
Quindi, quando compariamo aree di povertà estrema ad aree a povertà moderata stiamo in realtà
comparando il cuore storico del ghetto, nato in epoca industriale con la sua periferia
postindustriale.

1. Struttura di classe nel cuore e ai margini del ghetto


La prima principale differenza tra il cuore del ghetto e le aree ai suoi margini è legata alla loro
differenza di classe. Una parte considerevole della maggioranza dei residenti nelle zone perifiche
della black belt sono inseriti nell’economia del lavoro salariato in regola.
Proporzione esattamente rovesciate nel centro del ghetto.
Inoltre, le donne risultano essere più vulnerabili di diventare disoccupate due volte più degli
uomini.
Vi è una stretta correlazione tra collocazione di classe e titolo di studio: per i neri di Chicago un
diploma di scuola superiore rappresenta una credenziale importante per accedere al mondo del
lavoro, anche solo a quello dell’impiego stabile generalmente riservato alla middle class.
I residenti nel cuore della black belt sono notevolmente meno istruiti delle loro controparti che
vivono nei quartieri della periferia.
Inoltre i residenti del cuore della black belt mostrano in generale di avere origine nei ceti inferiori,
se si valutano i fattori economici delle famiglie di provenienza e il livello di formazione dei loro
genitori.
Sia nel ghetto di Chicago, così come alla sua periferia è meno frequente che le donne provengano
da una famiglia in possesso di un bene. Questa differenza di origine di classe è anche colta dai tassi
differenziali dell’assistenza ricevuta durante l’infanzia. È di gran lunga più probabile che le donne
all’interno del perimetro di Bronzeville provengono da una famiglia che aveva fatto ricorso
all’assistenza sociale.
2. Classe, genere e traiettoria dell’assistenza
I residenti del centro storico di Bronzeville cresciuti in famiglie che facevano ricorso all’aiuto
sociale hanno alte possibilità di dovervi fare anche essi ricorso.
Al centro del ghetto, al contrario, più della metà dei residenti sono in carico all’assistenza pubblica,
e solo uno su cinque non ha mai ricevuto aiuto in passato.
Insieme alla disoccupazione cronica, allora, il ricorso agli aiuti pubblici è diventato un’esperienza
comune alla maggioranza di due generazioni di residenti dell’iperghetto.
3. Differenze nel capitale economico e finanziario
Il quadro delle zone periferiche del ghetto è triste; dentro Bronzeville la situazione è prossima
all’espropriazione totale.
A causa della miseria e del reddito irregolare, i servizi finanziari e bancari che la maggior parte
degli americani danno per scontati sono, per usare un eufemismo, non di ovvio accesso per i neri
poveri della metropoli.

4. Capitale sociale e concentrazione della povertà


Tra le risorse cui gli individui possono attingere per attuare strategie di riproduzione e di mobilità
sociale vi sono quelle potenzialmente fornite dalle amanti, dai parenti, dagli amici e dai contatti
che si sviluppano all’interno delle organizzazioni formali a cui essi appartengono.
In breve, i residenti fine secolo di Bronzeville possiedono un minor volume di tutte le tre principali
forme del capitale: economico, culturale e sociale.
Vivere nell’iperghetto significa essere socialmente più isolati (pochi partner, pochi amici, nessuna
appartenenza a organizzazioni formali).

Conclusione: strutturazione sociale della povertà nell’iperghetto


I livelli straordinari di degrado materiale, deprivazione economica e di disagio sociale che
affliggevano la storica black belt di Chicago a metà degli anni 70 non sono diminuiti nel decennio
successivo.
Al contrario, Bronzeville, non è stata nemmeno sfiorata dalla ripresa economica degli anni 80 e le
condizioni del quartiere hanno continuato a deteriorarsi.
Questo sottolinea l’urgenza di studiare le politiche pubbliche e le strutture sociale che riflettono il
loro rapporto e favoriscono l’isolamento continuo del nucleo urbano razzializzato e dei suoi
residenti.

West Side Story:


un’area ad alta insicurezza a Chicago
Gli USA possono essere considerati la prima società ad avanzata insicurezza della storia.
Non solo perché tollera livelli di criminalità micidiale ma nel senso che essa ha eretto l’insicurezza
a principio organizzativo della vita collettiva e a modalità chiave di regolazione delle condotte
individuali e degli scambi socioeconomici.
Il vero privilegio oggi negli USA è quello di godere di una posizione situata al di fuori di questo
vasto sistema di insicurezza sociale, che in continuazione genere ansia.
Ma è tra le rovine del ghetto che l’insicurezza che permea e avviluppa la società americana
raggiunge livelli parossistici e che le forme sociale e gli effetti da essa prodotta si mostrano in
maniera concentrata e si espongono come attraverso una lente di ingrandimento.
Povertà di stato e capitalismo di strada
La maggioranza dei negozi locali sono gestiti da migranti che provengono da paesi del medio
oriente. Essi distribuiscono merci di seconda scelta a prezzi considerevolmente maggiorati del
solito.
Il motivo per cui le vendite in buona fortuna e alcolici rappresentano il settore più affidabile
dell’economia locale è che North Lawndale conteine soltanto le frazioni più marginalizzate del
proletariato nero. Tutti quelli che erano in grado di farlo sono già fuggiti ma a dispetto di questo i
livelli di emarginazione sono rimasti pressoché identici.
Il brusco ritirarsi de mercato del lavoro ha accelerato l’erosione della famiglia patriarcale e ha
obbligato una buona parte degli abitanti del NL a fare ricorso all’aiuto pubblico.
I destinatari – cui è proibito il lavoro se non vogliono vedere ritirato questo aiuto miserevole –
sono condannati ad una povertà di stato a lungo termine. Con la stessa moneta essi sono destinati
che lo vogliano o meno a rivolgersi all’economia informale, legale o illegale, che ha conosciuto un
noto sviluppo (mercato della droga, che è ovunque; con la droga arriva anche la silente
processione delle infezioni mortali e delle malattie).

La macabra lotteria degli omicidi


Così come la marginalità sociale ghettizzata, anche la violenza tende a concentrarsi nei quartieri
storici afro-americani della metropoli USA. I quartieri neri registrano 24 volte in più crimini violenti
di quanto non avvenga nei quartieri bianchi, anche se c’è il doppio della polizia che negli
equivalenti bianchi.
Il tasso degli omicidi a NL è 5 volte la media nazionale. La frequenza delle violenze sessuale è 6
volte più alta all’incidenza delle aggressioni più di 10 volte. La morte violenza è un fatto ordinario.
La presenza della polizia è di scarso aiuto. Ancor peggio: i poliziotti hanno paura perché
costituiscono un ulteriore veicolo di violenza e insicurezza (polizia che vende droga).

Sei piedi sottoterra oppure in galera


Le relazioni sociale sono alterate, le zone di socialità scompaiono e le istituzioni che rappresentano
la cittadinanza si trasformano in altrettanti contenitori vuoti e privi di significato, o ancor peggio in
ulteriori fattori di marginalizzazione.
Gli abitanti anziani non si avventurano più fuori dalle case nella piena luce del giorno, soprattutto
nelle date in cui devono riscuotere gli assegni pensionistici.
I servizi sanitari vacillano sull’orlo della catastrofe.
I poliziotti giocano un ruolo attivo nel commercio della droga e il sistema giudiziario non è il grado
di proteggere i testimoni che hanno il coraggio di deporre contro i trafficanti.
Parte II
Cintura nera, cintura rossa
Dalla fusione al confronto
Come banlieues e ghetto convergono e contrastano
Dal confronto emerge, al di là delle somiglianze superficiali nelle esperienze vissute dai residenti e
di alcune recenti tendenze delle loro strutture economiche e demografiche, la realtà di un
isolamento urbano e di una marginalità che appartiene a due processi e scale profondamente
diverse sulle due sponde dell’Atlantico.
In breve, la banlieue non à un ghetto nel senso acquisito da questo concetto nel contesto
statunitense in riferimento agli Afro-Americani. L’abisso che separa queste due costellazioni socio-
spaziali non è solo di ordine quantitativo, ma appartiene sostanzialmente ai registri storico-sociali
e istituzionali.

Il panico morale delle cités-ghetto


Alla doglia degli anni 90, la Francia rispetto alla questione delle banlieues ha visto la rapida ascesa
e la cristallizzazione di ciò che il sociologo Stanley Cohen chiama panico morale (una condizione,
un episodio, un gruppo di persone viene definito come una minaccia per i valori e gli interessi della
società, i mass media ne presentano la natura in maniera stilizzata e stereotipata, barricate morali
vengono erte da commentatori, autorità, politici o altri benpensanti; Tre caratteristiche indicano
un panico morale: la repentinità e sproporzione della reazione del pubblico al fenomeno; la
designazione di un “nemico pubblico”, vale a dire una categoria di malvagio assunta come
responsabile del male collettivo in questione, l’aumento di ostilità verso questa categoria
colpevole).
Questa improvvisa ascesa delle banlieue è stata accompagnata dall’avanzamento del tema del
ghetto e con esso la fioritura di un immaginario di ipotizzata origine americana, suggerendo in
maniera più o meno articolata che la condizione dei residenti nei complessi abitativi di periferia
francesi stessero diventando come quelle dei ghetti americani.

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