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Appunti Storia Delle Istituzioni Politiche e Sociali

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Capitolo 1

TRA STORIA E CONOSCENZA STORICA


Per comprendere quando gli uomini diventano consapevoli di tale distinzione,
possiamo individuare un momento che opera da cesura nella concezione storica
dell’uomo, e delle forme di potere permettendoci di evidenziare e indagare un
“prima” e un “dopo”.

La cesura è data dalla diffusione del movimento dell’illuminismo (metà del XVIII
secolo).

“PRIMA” DEL SECOLO DEI LUMI


Si ha una concezione della storia e della politica che:

• Ha una visione “ciclica” della storia dell’uomo e della politica.

• Ha una visione pessimistica della storia.

• Presume la centralità della natura nella evoluzione delle società e delle politiche
(visione secondo cui l’uomo, di fatt, non poteva incidere sulla politica).

LA POLITICA “AL TEMPO” DEI CLASSICI E DELLA STORICA CICLICA

ARISTOTELE (383-322 A.C)

Ci conferma una visione ciclica e pessimista della storia (e/o della politica), nonchè
la marginalità stessa dell’uomo.

“La scienza politica (non fa i governi) ma la politica deve prenderli come li fa la


natura”.

Aristotele, quando nei suoi scritti di politica parla di Poteri e di forme di


organizzazione dei poteri, utilizza per lo più il termine costituzione, ma sia chiaro
che per costituzione non intende ciò che intendiamo noi oggi, ma bensì il modo di
essere della società e dei rapporti tra i suoi diversi componenti, idealizzati negli
organi in cui tali diversi gruppi sociali si riunivano per risolvere questioni politiche.

Per i classici e per Aristotele la costituzione perfetta era detta politeia. Essa
rappresentava quella società all’interno della quale tutti gli elementi che la
compongono si trovano in perfetto equilibrio fra di loro.

Ma Aristotele ci dice che non solo le diverse costituzioni si susseguono secondo


un ordine dato dalla natura, ripetendosi nel tempo senza modifiche, ma anche che
ciò avviene un secondo un ordine peggiorativo.

Il suo sistema osserva la storia usando due principi:

1. Quantitativo: quanti governano?

2. Qualitativo: nell’interesse di chi governano?

I nomi delle costituzioni derivano dall’incrocio dei principi quantitativi e qualitativi


ed evolvono seguendo un ordine peggiorativo.

L’ORDINE DELLA CRISI


• Se governa una sola persona per il bene di tutti troviamo il regno, mentre se
governa per il bene di una sola persona troviamo la tirannide.

• Se governano poche persone per il bene di tutti troviamo l’aristocrazia, mentre


se governano per il bene di tutti troviamo l’oligarchia.

• Se governano molte persone per il bene di tutti si ha la politeia, mentre se


governano solo per il bene della plebe si ha la democrazia.

L’ordine ricostruito da Aristotele è quello unanimemente accettato, che procede


evidentemente dal bene al peggio, e riconosce nella politeia la migliore
costituzione e nella tirannide la peggiore.

Posto che la visone ciclica della storia è per la storiografia moderna ormai da
rigettare, le categorie fissate da Aristotele e Polibio sono invece ancora oggi utili
per descrivere forme ed evoluzioni del potere.

POLIBIO (206-118 a.C)

Storico e uomo politico greco. Fu ipparco e dopo la battaglia di Pidna condotto


come ostaggio a Roma. Qui, entrando a far parte del circolo degli Scipioni, avrà
l’occasione di studiare da vicino la vicenda e l’evoluzione politica e istituzionale
dello Stato romano.

Nelle sue storie troviamo due caratteristiche:

1. Sistematizza di crisi.

2. Integra le riflessioni “costituzionali” di Aristotele a altre coeve, ragionando sul


significato di crisi applicato alla storia della Repubblica Romana.

Il necessario ciclo delle costituzioni appare vero e chiunque consideri l’archè


(l’inizio), la genesi (formazione), la metabolè (mutamento) di ogni forma di
costituzione, che avvengono secondo natura.

Solo chi ha compreso l’origine delle costituzioni potrà comprendere quando, come
e dove avverrà di nuovo la crescita, l’acme, la metabolè e la fine di ogni
costituzione.

Ho ritenuto che il metodo espositivo trascelto sia sopratutto adatto allo studio
della costituzione romana: che la sua prima origine, come poi il suo sviluppo e la
sua crescita, furono dovuti esclusivamente a cause naturali.

IL PASSAGGIO DAL REGNO ALLA TIRANNIDE


La prima concezione del bene e della giustizia e dei loro opposti (quella che si
forma secondo natura degli uomini) è la genesi dell’autentica regalità.

A tal punto suscitarono (i re) invidia per il lusso e ostilità per la superiorità e poi
odio e ira violenta per gli abusi sessuali, finchè dal regno ebbe origine la
tirannide e si iniziò a complottare contro chi era al potere.

DALL’ARISTOCRAZIA ALL’OLIGARCHIA
Ma, per stesse ragioni, pure il popolo unisce le sue forze contro i tiranni dacchè
trova dei capi. Cosi il regno e la monarchia sono abbattuti ed ebbe origine
l’aristocrazia. All’inizio, contenti dell’incarico, i capi nulla ritengono più importante
dell’utile comune e amministrano con cura amorevole ogni cosa (negli affari sia di
tutto il popolo sia dei privati).

Ma poi il potere passa dai padri ai figli (inesperti dei mali, affatto ignari
dell’uguaglianza politica e della parresia; anzi educati fin dall’inizio nella condizione
di comando e di predominio dei padri).

Cosi i figli dei nobili trasformano l’aristocrazia in oligarchia.

DALLA DEMOCRAZIA ALL’OCLOCRAZIA


Uccisi alcuni ed esiliati altri dettagli oligarchici, il popolo non osa più darsi un re
(memore dell’ingiustizia dei passati re) nè affidare il governo a più persone (avendo
presenti gli errori di prima).

Non rimanendo speranza che in sè stesso, il popolo trasforma la costituzione da


oligarchica a democratica, e assume su di sè la cura dei pubblici interessi.

Allora il popolo realizza l’oclocrazia: s’aduna per compiere stragi, esili, divisioni
di terre; finchè (ritornato allo stato ferino), ritrova un deposta e un monarca.

LA FORTUNA DELLA COSTITUZIONE ROMANA COME COSTITUZIONE


MISTA
Polibio, da ultimo, elogia la repubblica romana come formula perfetta in cui si
combinano contemporaneamente e con successo le costituzioni nello loro veste
genuina e non degenerata, per cui:

A. Nella figura dei consoli, istituzione diarchica e collegiale, si ritrova il potere


monarchico.

B. Nell’istituzione dei senato si riconosce il governo dei migliori (gli Aristoi), e


dunque l’aristocrazia.

C. Nell’istituzione del tribunato della plebe e dei comizi si ritrova invece la


democrazia.

Sapere da dove provenga o chi proposto per primo la teoria della Costituzione
mista per noi è di grande rilevanza.

1. Innanzitutto perchè la costituzione mista è un grande progetto di conciliazione


sociale e politica, oltre che un modello per controllare il corretto
funzionamento di una forma di governo.

2. Si tratta di un tentativo di risposta alla prospettiva della crisi che determina


inevitabilmente il declino e la dissoluzione del sistema/comunità politica.

Inoltre si noti che la proposta del governo misto si è ripresa dalla teoria Positivista
e da studiosi del calibro di Norberto Bobbio, Pierpaolo Portinaro con ampie
ricadute sulla contemporaneità.

Il riferimento in questo caso è volto all’applicazione di tali principi al livello di


comunità locale e comunità europea.

Infatti, osservando la prassi costituzione sintetizzata da Polibio deduciamo che il


potere arresta il potere, anche se a questo livello non si parla ancora di
separazione dei poteri, perciò, vediamo descritto in nuce uno dei principi cardine
su cui si basano i sistemi costituzionali moderni, ovvero il controllo reciproco tra gli
organi.

LA FORTUNA DEL MODELLO


Il modello della costituzione mista, infatti, ebbe fortuna e fu ripreso sette secoli
dopo la teorizzazione di Polibio, da autori come Hobbes, Machiavelli, Bodin che, in
chiave adesiva o polemica, vi presero spunto proprio perchè comunque,
nell’immaginario collettivo, rappresenta il modello ideale di conciliazione
sociale e politica.

- Per i classici è il rimedio alla stasis.

- Per i moderni è il rimedio alla crisi.

- Per tutti: è il rimedio alla dissoluzione della comunità politica e sociale.

Ritornando alla distinzione tra storia e conoscenza storica e alla cesura


determinata dall’illuminismo, per paradosso, studiare la storia prima poteva
risultare poco utile, mentre per noi che veniamo dopo, lo studio della storia
assume un valore potenziato.

TRA PRIMA E DOPO L’ILLUMINISMO


• Prima per capire la società si dovevano passare attraverso lo studio di saperi
assertivi che non prevedevano l’analisi del passato: teologia, metafisica,
diritto naturale.

• Dopo, una volta diventato l’uomo il centro della storia, si comincia a leggere in
maniera completamente diversa il rapporto tra società e uomo, e tra uomo e
politica. Si assiste, perciò, a una forte accelerazione circa la considerazione del
ruolo della storia in ambito delle scienze politiche sociali.

Se nel ‘700 l’uomo è posto al centro della storia, nel primo Ottocento, l’uomo
diventa:

A. L’unico motore della storia.

B. Un demiurgo del presente.

C. In una parola: l’uomo è progresso.

Siamo in ambito di cultura positivista che considera la storia dell’uomo, della


società e della politica nel suo progredire secondo una linea ascendente, che
conduce dal bene al meglio. Questa immagine dinamica, porta con sè un eccesso
di fiducia nell’uomo e anche nella storia. L’apice di questa visione si raggiunge poi
con lo storicismo di stampo hegeliano.

È necessario dunque relativizzare tali posizioni: la storia è certamente importante


per lo studio delle scienze politiche e sociali ma non perchè aiuti a (pre)vedere il
futuro.

Per rendersene conto, del resto, basta guardare alle terribili vicende che hanno
funestato il Novecento, che nessuno storico avrebbero potuto prevedere a partire
dallo studio della Storia. Lo studio delle dinamiche politiche passate, piuttosto,
può aiutarci a comprendere e analizzare con spirito critico le categorie del
presente.

LA RIFLESSIONE DEGLI STORICI A PARTIRE DALLA METÀ DEL NOVECENTO


Si orienta in due direzioni:

1. Non si considera più la storia comune monodirezionale: l’uomo è ancora al


centro, ma con tutte le sue relazioni e integrazioni possibili che danno come
esito civiltà diverse che originano saperi, forme politiche e valori
inevitabilmente diversi. Non si può più parlare di progresso unilaterale e
indefinito, come non si può più ipotizzare che lo storico possa possedere la
conoscenza assoluta del passato e del presente, dal momento che ci si trova
in presenza di tanti passati e di tanti presenti. Da qui deriviamo l’approccio alla
storia globale e transnazionale e della storia comparata.

2. La seconda direzione seguita dagli storici della prima metà del Novecento
invece si profila come una risposta agli eccessi dello storicismo.

Questa riposta proviene dalla storiografia francese:

A. Da un filone storiografico legato a “Les Annales”, secondo cui non si considera


“storia” non più e non soltanto la storia politica ma anche la storia delle piccole
cose, per cui tutto diventa oggetto della storia.

B. Da un filone storiografico che propone un rapporto costruttivo tra lo storico e il


suo oggetto di studio. Tale rapporto si basa sulla relazione che intercorre tra
passato e presente. Henry Marrou, Conoscenza storica, 1954: dove per
conoscenza storica si intende il prodotto del rapporto tra il passato che si
studia e il presente dello storico.

Se ne deduce per cui che:

• Molti presenti generano molti dubbi diversi nella riflessione dello storico, la cui
diversità è dovuta alla pluralità di sistemi di valori di cui si diceva.

• Che non può esistere una storia più vera di un’altra.

• Che la conoscenza storica è di necessità una forma di conoscenza relazionale.

H= presente/passato, dove con h si indica la conoscenza storica prodotto dalla


relazione tra il passato oggetto di studio e il presente dello storico.

Concludendo, possiamo assumere che la Storia applicata alle Scienze Politiche e


sociali è funzionante alla comprensione della profondità storica del presente e della
complessità del presente.

Capitolo 2
Per rendere l’analisi fin qui condotta funzionale al nostro corso occorre legarla alla
comprensione delle diverse forme di potere nelle diverse epoche storiche. Ne
discende che seguendo nel tempo l’evoluzione dell’uso di questa parola (potere)
possiamo ricavare informazioni utili a comprendere in maniera diacronica come il
potere politico sia stato pensato e descritto. Anzitutto però può essere utile
riflettere sull’espressione istituzioni politiche.

A tale riguardo, occorre considerare che tale sintagma (istituzione politica) per
gran parte dell’età moderna non esisteva. Per lo più le due parole comparivano
disgiunte nelle diverse fonti, ciascuna assumendo significati totalmente slegati
l’uno dall’altra.

• Istituzione: parola utilizzata per alludere all’atto di istituire.

• Politica: parola utilizzata per descrivere, in accezione classica, la tendenza degli


uomini a vivere in forme collettive.

ISTITUZIONI POLITICHE, BREVE STORIA DI UN CONCETTO


Una definizione di istituzione, malgrado le apparenze, non è di semplice
formulazione: si tratta infatti di una parola polisemica che richiama significati
diversi e rinvia a processi storici, sociali e politici diversi.

Tuttavia sono almeno due i campi semantici che tale lemma richiama:

1. Il campo legato all’azione dell’istituire, l’attività che istituisce qualcosa.

2. Il campo legato al prodotto dell’azione di istituire, cioè all’istituzione come


oggetto creato, come prodotto di un processo storico, politico e sociale.

Tendenzialmente facciamo riferimento al secondo campo semantico (prodotto


dell’attività di istituire), quando in ambito di Storia dell’istituzione politiche, si parla
di “istituzione”. Tendenzialmente ma non sempre poichè il lemma ha una sua
intrinseca pluralità semantica e per questo si trova in uso in tutte le scienze
politiche, sociali, umane, giuridiche.

Ne discende che ogni disciplina abbia la “sua” definizione.

Sintetizzando in ambito di Scienze politiche e sociali il termine istituzione assume


un significato che rinvia, latamente, all’esercizio del potere. Esso è usato per
descrivere situazioni legate al funzionamento e all’organizzazione del potere
all’interno della comunità.

Ma perchè mancava tale sintagma?

Poichè per buona parte dell’età moderna il concetto di potere politico, di autorità
e le sue diverse modalità di organizzazione erano considerate immutabili nel
tempo. Infatti in politica non c’era nulla di istituire dal momento che tutto era già
dato dalla natura. L’uomo, per cui, non poteva modificare l’ordine politico, dato
una volta per tutte.

Vediamo allora dal punto di vista politico quel che abbiamo già visto dal punto di
vista della conoscenza storica: esiste una logica politica immutabile o ciclica, e
ammesso che qualche mutamento avvenga, esso non avviene per volere
dell’uomo. Ne discende una considerazione importante: per buona parte
dell’età moderna il potere politico non aveva una sua intrinseca specificità politica,
e una prima scoperta dell’autonomia delle scienza politica avrà soltanto con
Niccolò Machiavelli (1469-1527).

Prima, infatti, il potere del principe, il potere del padre di famiglia o proprietario
fondiario sui cittadini erano considerati semplicemente come diverse espressioni di
un ordine gerarchico dato dalla natura e dunque immodificabile dall’uomo.

Mancando l’idea di potere politico non si sentiva il bisogno di usare il sintagma


istituzione politica per doverlo descrivere.

LA CESURA
Ancora una volta, è determinata dall’irrompere delle idee illuministe nella scena
politica della metà del settecento. Da quel momento in poi, infatti si osserva un
numero cresce di ricorrenze dell’espressione istituzioni politiche proprio in
relazione al discorso politico intorno all’organizzazione del potere politico.

Dalla metà del Settecento allora le parole istituzioni e politica vengono composte
e congiunte nel sintagma istituzioni politiche. Questa combinazione avviene per
descrivere “oggetti” legati a forme di organizzazione del potere ora pensato come
disponibile all’azione dell’uomo. Tale sintagma, da ora in avanti, si impone come
espressione “cardine” nel lessico che riguarda le trasformazioni che l’uomo può
(e deve) apportare ai modi di organizzazione del potere politico.

ADAM FERGUSON (1723-1816)

Pensatore e filosofo scozzese, dà alle stampe nel 1769 istituzioni di filosofia


morale: “attraverso le istituzioni politiche (i governi), i diritti sono preservati o invasi;
gli uomini vengono posti nella condizione di eguali o di schiavi e padroni e i loro
crimini autorizzati e repressi e i loro costumi migliorati o corrotti”.

Nella citazione appena riportata, il riferimento alla Politica è evidente: qui le


istituzioni politiche sono intese come il motore della comunità. Tale citazione,
che anticipa la Rivoluzione Francese di cerca un ventennio, sono in effetti
contenuti i germi che innescheranno il processo rivoluzionario in Francia.

Con la Rivoluzione Francese infatti le istituzioni politiche erano pienamente nel


lessico di Scienze Politiche e Sociali con un’accezione moderna: capacità di
plasmare il profilo della società e dello Stato, creando, modificando e
innovando le regole di convivenza della comunità.

In senso moderno, infatti, quando si parla di un’istituzione politica si allude a tre


elementi in particolare:

A. Un insieme di regole di convivenza


B. La capacità di vincolo che tali regole esercitano per tutta la comunità

C. Le pratiche sociali e collettive che generano e cementano la comunità.

Tra la fine dell’Ottocento e inizio Novecento si ebbe una stagione di profonda


riflessione anche riguardo alla Scienza Politica e la Storia delle istituzioni:

1. L’inaugurazione degli studi di sociologia ad opera di Emile Durkheim

2. La scuola istituzionalista di Santi Romano e di Maurice Hauriou

EMILE DURKHEIM
Padre fondatore della sociologia (1858-1917). Nella sua opera postuma Le regole
del metodo sociologico (1924) fissa una definizione di istituzione che possiamo
accettare ancora oggi: l’istituzioni è qui intesa come prodotto della società, in
quanto sistema di credenze prodotte dalla collettività.

Egli definisce la sua scienza, la sociologia, una scienza delle istituzioni, dove per
istituzioni si intende dunque ogni credenza e ogni forma di condotta istituita dalla
società.

LA SCUOLA ISTITUZIONALISTA
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vede la luce inoltre la scuola
istituzionalista che vede tra i suoi maggiori animatori:

• Santi Romano (1875-1947) giurista italiano.

• Maurice Hauriou (1856-1929) giurista francese.

Costoro rilanciarono il dibattito europeo sulle forme di organizzazione del potere


politico e sul ruolo e significato di istituzione.

In primo luogo il diritto e le regole di convivenza, sono un prodotto umano,


collettivo e sociale che acquista valore e stabilità attraverso la mediazione di una
istituzione dove le istituzioni politiche sono tutti quei sistemi di credenza, vincoli,
pratiche che servono a dare continuità, durata e stabilità alle regole di convivenza
la comunità.

Ne possiamo dedurre una nostra definizione di istituzione: intesa come sistema di


regole che le collettività si dà e che tutti i suoi componenti percepiscono come
fortemente vincolanti. Le istituzioni dunque sono quell’insieme di “nomi” che la
società si dà: i partiti, i sindacati, gli ordini professionali, la scuola etc. Sono tutte
istituzioni.

Capitolo 3
LO STATO E LA SUA COSTITUZIONE
Che cos’è lo Stato?
Lo Stato, in ultima analisi, è una istituzione, un tipo particolare di Istituzione
politica, cioè un insieme di norme che tutti credono o si impegnano a credere
vincolanti.

Lo Stato è sempre esistito o nasce in un periodo preciso?

Per quanto persuasivo, invadente o onnicomprensivo sia oggi lo Stato, esso non è
sempre esistito. Anzi, si tratta di un’acquisizione relativamente recente.

Lo stato è prodotto dell’uomo nel tempo. Prima si può parlare senz’altro di forme
di organizzazione del potere, anche raffinate, che accoglievano comunità
estremamente numerose, MA non c’era lo Stato.

Ma allora quando arriva lo Stato? E cosa c’era prima dello Stato?

Ci risponde Santi Romano uno dei giuristi più giustificativi dell’età liberale, al
centro del dibattito sulle istituzioni, sullo Stato, sulla crisi dello Stato del primo
Novecento.

Egli tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (1918) partecipa attivamente
al dibattito sulla centralità dello Stato, sottolineando gli elementi di crisi dello Stato
e scagliandosi polemicamente contro chi sosteneva invece un’ontologia dello
Stato.

Santi Romano affermava in Piena Guerra Mondiale che lo Stato come istituzione
sempre presente era si ammirevole, ma artificiosa.

In questa ottica allora, lo Stato come unico dominus dell’uomo, come unico
protagonista della Storia del Potere non era credibile. In l’ordinamento giuridico
(1918) sostiene che questa visione per questo suggestiva marginalizzava il ruolo
dell’uomo nel processo di evoluzione delle modalità di organizzazione delle forme
di potere.

Sostenere che lo Stato sia sempre esistito implica banalizzare la Storia del Potere,
escludendo l’uomo della storia.

Dopo la grande rivoluzione illuminista, Santi Romano fu il primo ad affermare la


centralità del ruolo dell’uomo nella Storia dello Stato e delle istituzioni.

Riposizionando l’uomo al centro della Storia, ricorda che lo Stato e le istituzioni


sono un prodotto dell’attività umana.

Egli affermò inoltre che nella Storia umana (nella storia della società organizzate)
non tutte le forme di organizzazione del potere hanno avuto carattere statale.

Nella Storia sono esistite numerosissime forme di organizzazione del potere


politico e lo Stato è una specie particolare di organizzazione politica.

Ma allora come si chiamano le forme di organizzazione politica prima dello Stato?

ORDINAMENTI GIURIDICI
Tra questi, come si a distinguere lo stato?
Santi Romano dà definizione di Stato ben precisa: “organizzazione (istituzione)
del Potere con al vertice un soggetto (uno, pochi, molti) con sovranità non
derivata”.

“Tutte le forme di organizzazione del potere con al vertice un soggetto con


sovranità relativa non è corretto definirle Stato” ma ordinamenti giuridici.

Quindi che cosa distingue lo stato dagli ordinamenti giuridici?

La sovranità

A. Non derivata -> stato

B. Relativa o derivata -> ordinamenti giuridici

La sovranità è concetto che dal punto teorico viene sistematizzata a partire dalla
metà del Cinquecento da autori come Jean Bodin (1529-1596), Giovane Botero
(1544-1617) e altri.

A. La sovranità non derivata è genericamente da intendersi come sovranità non


negoziata, che arriva dall’alto.

B. La sovranità relativa è genericamente da intendersi come quel potere di


“comandare” che il soggetto di vertice acquisisce dal basso sulla base di
“negoziazioni con i soggetti destinatari” del suo comando.

Perciò in chiave storica dobbiamo assumere che per lungo il tempo il potere si è
organizzato originando costituzioni dal basso verso l’alto. Chi comandava lo
faceva negoziando con i sudditi i margini di soggezione e accettando precisi
limiti al suo potere. Si organizza in questo modo un ordinamento giuridico, non lo
Stato.

A partire dal XII-XIII secolo chi deteneva il potere iniziò a sentirsi in diritto di
“imporre” le negoziazioni ai sudditi, dettando dall’alto il proprio ordine e le
regole di convivenza in virtù di un poter che si presumeva trasferitogli da Dio.

Da questo momento in po si ha lo Stato. Prima non si può, nè si deve parlare di


Stato, ma di ordinamenti politici.

Che cos’è un ordinamento?

Secondo Santi Romano esso è uno “stabile modo di organizzazione della vita
sociale, regolato da norme che la collettività avverte come fortemente
vincolanti” (come le istituzioni).

Se osserviamo bene questa definizione troviamo che un ordinamento giuridico-


politico deve:

• Avere un sistema di norme


• Garantire l’unità di tale sistema, cioè che le norme valgano per tutti

• Garantire una comune natura giuridica, cioè che sia prodotto dalla stessa
comunità.

È una definizione che ricorda quella di Stato, in effetti, ma manca l’accenno ad altri
due elementi:

1. Il territorio (se ne parla dal 1648 in poi)

2. La sovranità non derivata (autorità-coercizione)

Infatti le forme di organizzazione del potere pre-statuali e pre-moderne sono auto-


prodotti dalla società, dalla stessa comunità: c’è, insomma, un idem sentire.

Tra Stato e ordinamenti c’è il rapporto di specie di genere: lo Stato è una specie
particolare di un genere più ampio che è l’ordinamento.

Ricapitolando, abbiamo acquisito:

A. Due concetti fondamentali della Storia politica: lo Stato e l’ordinamento


B. La consapevolezza della natura “umana” dello Stato (prima, lo abbiamo
visto, c’era l’idea che ogni forma di organizzazione gerarchica avesse la stessa
natura specifica “apolitica”, e inoltre che non fosse creato dall’uomo).

C. La consapevolezza di una cronologia importante per la Storia delle istituzioni


(abbiamo cioè fissato un asse del tempo: fino a un periodo molto avanzato
non c’era l’idea della specificità politica del potere pubblico).

D. Che siamo in grado di evitare eventuali anacronismi

A proposito degli anacronismi, non si tratta di un accenno casuale: sono molti


ancora oggi gli studiosi che parlano di Stato medievale, Stato barbarico. Dal
nostro punto di vista non è corretto parlare di Stati, anche se ci sono principi e re:
essi sono ordinamenti giuridici/politici, poichè di Stato, lo ripetiamo, si può
parlare a partire dal XIII-XIV secolo.

La regola base di ogni operazione di conoscenza storica applicata alla politica è


questa: quando si affronta un’epoca storica si devono usare parole e concetti che
appartengono a quella determinata epoca.

L’ORIGINE DELLO STATO E LA SUA COLLOCAZIONE SULL’ASSE DEL TEMPO


Primo punto fermo: lo Stato, come istituzione vera e propria, come “cosa”
concreta fa il suo ingresso solo a partire dal XII-XIII-XIV secolo.

1.1 Prima ci sono gli ordinamenti politici, la cui “costituzione” si forma per
negoziazioni tra parti della società della comunità stessa.

1.2 Quanto è lungo questo prima? Dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente
(476 d.C.)

1.3 Dal 476 d.C. al XIII secolo non c’è lo Stato, ci sono ordinamenti che
assumono denominazioni molto varie, con “costituzioni” altrettanto varie, e in
alcuni casi anche molto articolate, ma negoziate dal basso.

1.4 Il primo ad usare in maniera “quasi” consapevole il termine Stato per definire
una istituzione politica dotata di potere di dominio su più comunità è Niccolò
Machiavelli.

MACHIAVELLI NE IL PRINCIPE (1513)


È il primo che usa la parola “Stato” per indicare l’istituzione complessa costituita
da il Principe dal suo entourage che esercitava il loro potere su uomini di diverse
comunità “gestendo” le regole di convivenza.

Prima di Machiavelli:

• Prima si utilizzavano formule generiche per alludere agli ordinamenti politici


precedenti. La più diffusa era Res publica, spesso declinando l’espressione in
status rei publicae ossia “la condizione della cosa pubblica”.

• Per status rei publicae si intendeva, per dirla con Santi Romano, l’ordinamento
che in un determinato periodo dava origine a determinate forme di
convivenza tra uomini e comunità.

È importanti avere chiaro che fino al XIV secolo:

A. Non c’è idea di Stato.

B. Non c’è la “cosa” Stato nè tantomeno il concetto.

C. Anche la parola stessa “Stato” assume significati sfumati.

È bene inoltre notare che la “fondazione” dello Stato, a partire dal XIII secolo,
avviene in maniera inavvertita. Ne deduciamo allora che per lungo tempo la
sovranità, ovvero il potere di comandare, e la sua “legittimazione” a dettare le
regole di convivenza collettiva, aveva un andamento dal basso verso l’alto.

Solo con lo Stato si presume che arrivi dall’alto, ossia da Dio.

È bene tenere presente, infatti che anche dopo l’arrivo dello Stato, e fino a un
punto molto avanzato della Storia benché legittimati dai crismi del potere divino,
nelle pratiche di comando i sovrani a lungo hanno continuato a esercitare il
potere secondo modalità contigue a quelle del Basso Medioevo. Ciò avveniva
usando pratiche e istituzioni funzionali a “negoziare” con segmenti importanti
dalle collettività. Cosicchè anche quelli Stati che nei manuali troviamo etichettati
come “Stati assoluti”, osserviamo e osserveremo che cosi assoluti non erano.

Ne assumiamo che:

• Fino al XII-XIII secolo possiamo parlare di ordinamenti giuridici


• Dal XIII secolo in avanti si ha lo Stato con sovranità non derivata (almeno
formalmente).

• Tuttavia dal punto di viste delle pratiche avrà a lungo ancora natura pattizia.

Ordinamenti tecnicamente definibili “Stato” arrivano, alcuni, già a fine 1200.


Tuttavia, tranne in rari casi chi stava al centro di questi “Stati”, ossia chi
“comandava” e dettava le regole della convivenza (re, principi), pur immaginandosi
portatore di una sovranità non derivata, infatti il sovrano quando “governava”,
continuava a trovarsi nella necessità di negoziare il suo “potere” con soggetti forti
presenti sul territorio, ossia i ceti. La scuola giuridica definisce gli Stati di
questo periodo (XII-XV secolo) “Stati, o monarchie cetuali” .

A proposito dell’inavvertita fondazione dello “Stato” gli uomini che “comandavano”


non avevano certo quel tornante la percezione di fondare qualcosa di nuovo, in
particolare di fondare lo “Stato”. Bensì, costoro si ritrovarono al culmine di un
processo che, in un dato periodo, che varia da zona a zona (tra il XII e il XV
secolo), li portò a sperimentare nuove forme di organizzazione del potere:
queste furono poi “etichettate” come Stato

Capitolo 4
Il nostro concetto di Stato convenzionalmente si porta dietro due “accessori
concettuali” importanti:

• La sovranità: intesa come natura del potere di chi comanda, in termini di


indivisibilità, inalienabilità e comunque come “attribuito” del sovrano, viene
sistemata dal punto di vista teorico dalla metà del XVI secolo con Jean Bodin e
Giovanni Butero.

• Il territorio: nonostante parrebbe che il nesso Stato-territorio occupasse un


ruolo di minore rilevanza all’interno degli studi teorici sul potere, esso ha una
sua intrinseca importanza.

La stringa concettuale stato-sovrano-sovranità-territorio si afferma in maniera


accettata da tutti a partire dal 1648 con la Pace di Westfalia che pose fine alla
Guerra dei trent’anni tra Spagna e Francia. Preme allora aver presente che solo
a partire da questa data l’immagine dello Stato come un semplice possesso di una
dinastia che governa nei suoi interessi lascia il posto a un’immagine di Stato molto
vicina a quella odierna, ossia di potere pubblico e impersonale con un centro
che governa su tutto il territorio.

Osserviamo però:

1. La parola “stato” in senso consapevole vede la sua comparsa a partire dal XVI
secolo con Machiavelli (1531);

2. La parola/il concetto di sovranità fa la sua comparsa a partire dalla metà del


XVI secolo;

3. Il concetto di Stato come potere pubblico disteso su un territorio fa la sua


comparsa dalla metà del XVII secolo (1648).

Ne discende che una compiuta immagine/percezione dello Stato si abbia solo a


partire dal XVI-XVII secolo.

DAL XII-XIII secolo fino al XVI-XVII:

A. Le parti che saranno quasi inconsapevolmente simili a quelle del Basso


Medioevo.

B. I protagonisti di quella stagione di transizione “statuale” (XIII-XVII sec.) daranno


vita a Stati formalmente pretendendo “legittimazione” in base alla loro pretesa
caratteristica “semi-divina” ma continueranno a governare come in passato.

Cioè negoziando, o meglio, patteggiando i termini del proprio potere con i


“soggetti” presenti sul territorio. Tant’è che definiamo gli Stati sorti tra il XV-XVII
come monarchia cetuali.

Dopo aver fissato un terminus ad quem (XIII secolo in poi per l’emersione del
concetto di Stato) domandiamoci:

- Quando inizia la nostra Storia? O meglio:

- Da quando possiamo provare a “misurare” sul territorio la presenza/assenza


dello Stato?

Assumiamo una data convenzionale: dal 476 d.C. con la caduta dell’Impero
romano d’Occidente. L’impero non è lo Stato ma, dal nostro punto di vista, gli si
avvicina molto:

• Ha un centro politico con sistema di uffici;

• Ha un progetto militare;

• Ha un progetto economico e fiscale;

• Ha un progetto culturale;

• Consente a società diverse la pacifica convivenza grazie a un sistema di


regole condivise.

Inoltre la dissoluzione dell’Impero romano apre un campo d’osservazione


eccezionale che ci consente di studiare le istituzioni politiche in “assenza di Stato”
per verificare se e quando arriva lo Stato.

1. Il concetto di costituzione con distinzione tra konstitution (atto fondativo,


scritto o non scritto) e verfassung (modo di essere di un ordinamento);

2. Il concetto di ceto o meglio la sua distinzione tra casta, classe e ceto.

LA CASTA
Un gruppo sociale a cui si appartiene per nascita e che non è in alcun modo
mutabile. La comunità organizzata per caste, perciò, è rigidissima: le caste più alte
governano sempre sulle caste inferiori, secondo un meccanismo di rapporti di
forza che rimarranno sempre tali. Secondo Max Weber le società orientali sono
organizzate principalmente per caste. La società dove questo fenomeno è più
evidente è l’India: sacerdoti, guerrieri, agricoltori e cosi via.

Nell’Europa medievale alcuni gruppi sociali funzionavano come caste (cioè erano
impermeabili a mutamenti sociali) mentre oggi quando si fa riferimento alla casta si
allude alla chiusura di un gruppo rispetto agli altri gruppi.

LA CLASSE
La classe è quel gruppo sociale a cui si appartiene in base alla funzione
economica che si riveste, caratteristica di società flessibili. Non è la ricchezza, nè
tantomeno il potere ma la funzione economica che si svolge in una comunità che
determina l’appartenenza a una classe.

La stratificazione in classi, allora, è quella che si realizza all’interno delle società


più evolute dove gli individui sono tendenzialmente uguali e all’interno delle
quali le disuguaglianze derivano solo dalla diversa funzione economica. Secondo
Max Weber, la classe riunisce tutti gli individui che si trovano nella situazione di
mercato; vale a dire gli individui hanno le stesse possibilità oggettive di
accedere ai beni scarsi disponibili sul mercato.

IL CETO
Il ceto è una stratificazione sociale propria delle società intermedie tra società
antiche per casta e società più evolute per classi. Secondo Otto Brunner il ceto è
il gruppo si la che riunisce gli individui che condividono e godono la medesima
condizione in termini di diritti e doveri sociali, giuridici e politici.

OTTO BRUNNER
• (1898-1982) è uno storico e giurista austriaco, protagonista della stagione
storiografica del primo Novecento che ha il merito di innovare molto l’approccio
allo studio delle società umane e della politica.

• A lui si devono alcune delle più importanti opere sulla storia costituzione e
sociale dell’Europa tardo-medievale e moderna.

A partire dall’assunto di Brunner allora:

• L’appartenenza ad un ceto comporta la disponibilità di uno status giuridico cui


corrisponde per tutti gli appartenenti al medesimo ceto un uguale pacchetto di
diritti e doveri sociali, giuridici e politici.

• L’appartenenza ad un ceto e la condivisione del conseguente status determina la


dimensione collettiva del ceto, ossia lo spirito di ceto.

La condivisione per ogni ceto dello stesso “pacchetto” di diritti e doveri


comporta, negli individui appartenenti a uno stesso ceto, la produzione di
un’immagine collettiva/collegiale o meglio ancora corporativa che porterà ad
atteggiamenti sociali e politici corporativi, ovvero che abbiano validità per tutto il
ceto.

Infatti le società cetuali si configurano come società in cui il singolo individuo è


irrilevante: queste società in cui prevale l’organizzazione per ceti, non sono
società di individui, ma società di soggetti collettivi, ovvero società di corpi.

N.B: un corpo, in termini tecnici, è un gruppo di individui organizzato sulla base


dello stesso ceto, per cui dire società di corpi o per ceti equivale a dire la stessa
cosa.

La parola chiave che ci permette di comprendere le dinamiche delle società per


ceti è privilegio. Infatti ogni ceto gode di specifici privilegi: più un individuo è in
alto nella gerarchia, maggiori sono i privilegi. Ma laddove ci sono dei privilegi
per alcuni, esistono anche dei soprusi ai danni di coloro che di quei privilegi non
possono godere.

Le società cetuali allora sono società basate su privilegi e soprusi: si tratta


inoltre di società molto articolate e a media “rigidità” poichè il passare da un
ceto all’altro non è semplice, ma non impossibile. Secondo Brunner la dimensione
sociale del politico nelle società cetuali fa sì che si creda che ad ogni status
corrispondano solo e soltanto determinati diritti, doveri e privilegi da cui
discende una collocazione all’interno della gerarchia politica della società.

Capitolo 5
LA COSTITUZIONE PREMODERNA O MEDIEVALE
Con la caduta dell’Impero romano si apre uno spazio-tempo senza Stato (a cui
abbiamo già accennato) lungo quasi 10 anni. Per comprendere come e perchè gli
uomini decidono di organizzarsi per vivere in forma pacifica e associata
occorre assumere tre presupposti:

1. Il motore della Storia del potere e delle Istituzioni politiche è determinato dal
bisogno di vivere in pace, quindi con un bisogno di protezione e determinato
dal bisogno di vivere in forma associata il che implica coinvolgere un numero
sempre più ampio di individui e estendersi su porzioni sempre più ampie di
territorio.

2. Il possesso della terra. Secondo Brunner, alla caduta dell’Impero, si realizza


una combinazione sociale particolare che è da leggersi in base al possesso
della terra. Da questo momento in poi avremo due/tre ceti: nobili (coloro che
posseggono estesi appezzamenti di terreno e possono permettersi di vivere di
rendita); contadini (coloro che posseggono appezzamenti di terreno di
modeste dimensioni che provvedono in linea di massiamo al loro fabbisogno);
servi (coloro che non posseggono nulla fuorché la forza lavoro delle proprie
braccia, che mettono a disposizione dei ceti possidenti per sopravvivere).

3. Le posizioni di vertice. Per lungo tempo, in questo spazio-tempo senza Stato,


le posizioni di comando, o meglio, di vertice, dei diversi ordinamenti derivano
dal possesso della terra. Con ciò si intende che l’ordine gerarchico è dato dal
possesso e che esso è accettato come dato “naturale” da preservare, mentre
le pratiche di governo derivano da negoziazioni con le parti e variano da
periodo a periodo. Infatti, in questo spazio-tempo, non c’è qualcuno più in alto
di tutti che sia in grado di garantire le regole di convivenza per tutti. Ognuno, in
base al proprio “potere”, in base alla propria collocazione nell’ordine dato,
deve fabbricarsi un proprio sistema di sicurezza.

UN’ORGANIZZAZIONE DAL BASSO VERSO L’ALTO


Le pratiche di governo e la percezione del potere in quesi secoli richiedevano che
chi aveva più potere si sentisse “legittimato” a governare in nome di tutti, ma
solo dopo aver negoziato i suoi comandi con tutti.

Inoltre, per molto tempo poi furono gli stessi soggetti appartenenti ai ceti inferiori
a chiedere protezione ai soggetti appartenenti ai ceti superiori.

Il movimento dal baso verso l’alto per cui è duplice:

1. Poichè ogni forma di potere deriva da negoziazione


2. Poichè il bisogno di protezione dei ceti inferiori legittima il ceto superiore a
diventare ceto “governante”

Dalla caduta dell’Impero Romano perciò si apre un periodo di fortissima instabilità


istituzionale che spinge i diversi soggetti sul territorio a sperimentare nuove
forme ordinamentali che tutelino la loro integrità.

Si tenga presente che una parte della storiografia istituzionale e costituzionale


ritiene che il Medioevo sia l’età dell’eclissi della Costituzione, una sorta di
parentesi tra le Costituzioni degli antichi (ordine ideale a cui tendere) e
Costituzione dei moderni (ordine costituito da tutta la comunità con potere
sovrano).

Tuttavia, noi cercheremo di confutare questa credenza studiando la Costituzione


premoderna come:

• Un ordine molto denso dal punto di vista costituzionale.

• Un ordine diverso da antichi e da moderni.

• Un ordine che si basa su pluralità di ordinamenti giuridici.

Ciascuno di questi ordinamenti giuridici inoltre appare:

A. Dotato di proprie specificità (sociali, politiche e costituzionali).

B. Dotato di forti complessità.

All’interno di tali ordinamenti giuridici inoltre:

1. Si ha una generale debolezza dei soggetti al centro.

2. Si innesca una dinamica dialogica tra centro-periferia e/o sovrano-popolo.

LO SPAZIO MEDIEVALE
- È anzitutto uno spazio plurale e complesso che si apre con il V secolo.

- Si tratta di una stagione di “bricolage costituzionale” o di “fai da te


costituzionale” volto alla ricerca di pratiche che rispettino l’ordine dato, dove
cioè chi è più ricco comandi soddisfatto allo stesso tempo il bisogno di pace e
protezione dei diversi soggetti.

Dal V sec. In avanti c’è un alimento da tenere presente: senza lo Stato emerge una
straordinaria frammentarietà di forme ordinamentali, derivata dalla scomparsa
dello Stato, o meglio dell’Impero Romano, che assicurava un ordinamento
giuridico che proteggesse tutti. Tutti allora riprendono ad organizzarsi in proprio,
autonomamente, a partire dalla dimensione più vicina a loro, dallo spazio politico
più ristretto e contenuto della loro esperienza: la famiglia.

LA FAMIGLIA COME ORDINAMENTO GIURIDICO: LA CASA


Quando crolla lo Stato, e gli individui improvvisamente si trovano senza protezione,
la casa, non più comunità degli affetti, ma comunità politica che unisce un certo
numero di contadini e di servi che si rivolgono a un contadino più ricco di loro, ma
loro pariceto, per chiedergli protezione.

Da qui deriviamo che la casa è un ordinamento giuridico al di là dei


consanguinei, che vede un’organizzazione interna articolata in:

• Pater familias: il contadino più ricco che garantisce protezione;

• I subalterni: i contadini meno ricchi, i loro familiari e i servi.

Il pater familias:

1. Ha un suo progetto economico: è amministratore delle finanze familiari.

2. Ha un progetto culturale: ha potere sui soggetti che compongono la famiglia.

3. Ha potere potestativo di dettare le regole di convivenza.

4. Ha potere giurisdizionale: dirime le questioni.

5. Ha il potere di rappresentare al di fuori della casa tutti i suoi componenti.


L’Alto Medioevo è società composta da corpi collettivi, di ordinamenti posti
sotto un soggetto che comanda, e si tenga ben presente che solo lui è visibile,
quelli che rappresenta invece non lo sono.

LA CASA-ORDINAMENTO
Si trova alla base della vita medievale come fondamento costituzionale, culturale e
teorico. È chiaro che tale ordinamento però:

- Non è autosufficiente.

- È limitato a piccole porzioni di territorio.

- Non ha capacità di pacificare molto la convivenza.

- È percezione degli stessi coevi.

- Non è un caso che proprio a partire da quegli anni in avanti prese forma una
vera e propria scienza dedicata all’arte del governo della casa: l’economia
come sistema di regole della casa (oikos-nomos) in alternativa alla politica
come arte del governo della polis.

Tre acquisizioni importanti secondo Brunner:

• Il possesso della terra determina la stratificazione


• Il possesso della terra (potere economico-sociale privato) si trasforma in
potere politico.

A corollario per cui:

• Mentre nell’Impero romano il potere di comando era pubblico perchè era


propriamente dell’Impero (che era distinto dall’Imperatore), nell’Alto Medioevo il
potere di comando “scivola”, privatizzandosi.

• Il potere arretra dal punto di vista dimensionale e si riduce a potere


economico con risvolti costituzionali.

Inoltre:

• All’interno della società senza Stato, il motore della Storia è dato dalla ricerca di
protezione che permea tutti gli strati sociali, tutti i ceti.

LA CASA COME SINALLAGMA


Abbiamo detto, infatti, che la casa è quell’ordinamento giuridico che è composto
dal pater familias e altri componenti, consanguinei e non (i servi, ma anche coloro
che si affidano a lui poter bisogno di protezione).

Il bisogno di protezione però non è soddisfatto a titolo gratuito: si tratta di una


relazione sinallagmatica dove la protezione è offerta in cambio della forza lavoro.
Tuttavia la casa non può risolvere tutti i problemi di convivenza.

Anche i patres familias si trovarono presto nella necessità di richiedere


protezione a qualcuno.

Assumendo che:

1. In quello spazio tutti i contadini e i servi si siano associati tra loro in


tantissimi micro ordinamenti che abbiamo chiamato casa sotto la tutela di un
pater familias.

2. Anche i diversi patres familias abbiano bisogno di protezione

Ci si rivolgeva ai nobili, cioè ai signori fondiari a loro più prossimi. Ed è


esattamente (o quasi) cosi che le società dell’Alto Medioevo iniziano a
sperimentare una nuova forma di organizzazione, un nuovo ordinamento, una
nuova Costituzione che lega i patres familias ai nobili possessori (i signori
fondiari).

LA SIGNORIA FONDIARIA
È il secondo livello costituzionale dello spazio-tempo pre-statuale. Ha una
costituzione molto forte, come del resto l’aveva la casa. La solidità di questa
Costituzione deriva da un aspetto in particolare che garantisce una fortissima
tenuta del sistema

1. Essa lega soggetti appartenenti a ceti diversi: i patres familias e la sua casa
(la plebe) con i nobili.

2. Si tratta di una solidarietà verticale che lega in ordine gerarchico soggetti di


diversi ceti.

Infatti, chi cerca protezione (il pater familias) non ha altra scelta che legarsi al
suo protettore nobile più vicino per non soccombere agli attacchi nemici.

Come avviene il legame sinallagmatico?

Nella signoria fondiaria la solidarietà si attiva sulla base della logica che vede la
corresponsione della protezione in cambio del pagamento di un censo e/o
dall’impiego della forza lavoro nelle terre del nobile fondiario.

Per questa ragione i patres familias sono anche dette contadini censuari, perchè
pagano il censo. La signoria fondiaria per cui crea un filamento di potere
economico e politico ordinato gerarchicamente al cui vertice troviamo il signore
fondiario che detiene doversi poteri, tra cui quello giurisdizionale, quello di banno
(ossia di comandare), quello fiscale e quello militare.

Tuttavia anche la creazione di questo nuovo ordinamento non esaurisce il bisogno


di sicurezza e convivenza pacifica avvertita dai soggetti sul territorio. Anche il
signore fondiario, membro di una ristrettissima elitè di privilegiati al quale i diversi
contadini censuari si sono autoassoggettati, non ha “potere assoluto”; non ha una
posizione di sicurezza garantita di fronte a soggetti omologhi prevaricatori,
ossia appartenenti al suo stesso ceto.

La partita per la ricerca di sicurezza, o meglio, per la sperimentazione di nuove


forme di potere, si gioca tra soggetti “nobili” cioè tra potenti.

La domanda allora è: cosa accade, in termini costituzionali, quando un nobile


avverte il bisogno di protezione? A chi si rivolge?
Si rivolge ad un soggetto più potente (ossia più ricco) ma giuridicamente
appartenenti al suo stesso ceto.

È osservazione non rilevante:

• Perchè a differenza che nei primi due ordinamenti (casa e signoria fondiaria), il
nuovo ordinamento lega soggetti con eguali diritti, la cui unica differenza risiede
nella capacità economica.

• Questo stato di cose determina una costituzione estremamente “debole” poichè


un soggetto appartenenti allo stesso ceto ancorché meno ricco, può sempre
decidere di lasciare l’ordinamento e andare a cercare protezione da un altro
pariceto più potente.

Che ordinamento si crea?


Il legame gerarchico tra soggetti pariceto crea un nuovo ordinamento, una nuova
costituzione, che durerà molto a lungo, che attraverserà buona parte della
transizione da Alto e Basso medioevo.

Tale sistema è definito sistema feudale di dominio.

IL SISTEMA FEUDALE DI DOMINIO


In questo terzo tipo di ordinamento la comune appartenenza cetuale esclude una
sottomissione con vincoli concreti tra il soggetto più ricco e quello meno ricco.
C’è sì un ordinamento gerarchico, ma che si manifesta essenzialmente con
forme di tipo “sociale”, cioè legate a pratiche sociali.

Lo scambio, la logica sinallagmatica che caratterizza in modo peculiare questa


costituzione è regolato dalla protezione in cambio della solidarietà politica. In altre
parole, il nobile più potente e ricco offre la sua protezione al nobile meno ricco che
per sdebitarsi mette a disposizione il suo esercito e talvolta anche i suoi contadini
come forza lavoro.

Se ne deduce:

• La scarsa tenuta di questa solidarietà, a sua volta determinata da una gerarchia


che poteva manifestarsi solo dal punto di vista delle pratiche sociali (abiti, colori,
ordine di comparsa nelle cerimonie/sedute pubbliche).

• L’altrettanto grande instabilità e conflittualità sul territorio.

Infatti, la combinazione del constante bisogno di sicurezza avvertito da tutti da una


parte e la forte instabilità manifestata dalle prime forte di legami feudali dell’altra
diede avvio, dal VIII secolo in avanti, alla sperimentazione di accordi feudali con
maggiore stabilità.

LE TRE STAGIONI DELLA COSTITUZIONE MEDIEVALE


Sempre alla ricerca di una stabilità soddisfacente che soggiacesse al rapporto
feudale, gli uomini del tempo, hanno progressivamente “perfezionato” l’accordo di
base tra i diversi soggetti nobili che si ordinavano gerarchicamente. Ossia, nei
corsi dei secoli, il contratto feudale è stato arricchito di “accessori” e clausole
che si sono aggiunte alla logica di base della protezione in cambio della solidarietà
politica. Paradossalmente tali accessori, al fine di aumentare la stabilità delle
costituzioni dell’ordinamento feudale, nei secoli, sono andati tutti a migliorare la
condizione, lo status, dei soggetti meno ricchi.

LA PRIMA STAGIONE: LA COMMENDATIO


• È la stagione di avvio, intorno al VIII secolo.

• La commendatio è l’elemento base del rapporto tra senior e vassallo.

• Essa identifica la promessa di fedeltà (verbale naturalmente) che il vassallo (il


signore inferiore) fa al senior in cambio di protezione.

La cerimonia era molto elaborata solo in apparenza sociale ma intrisa di valenza


giuridica e politica, era volta a marcare nell’immaginario collettivo i ruoli diversi
dei due protagonisti. Occorre però osservare che, in un modo “spietato” come
quello medievale dove ogni sopruso conferma un privilegio (M.Bloch), la sola
promessa di fedeltà non contribuiva a dare stabilità.

LA SECONDA STAGIONE: IL BENEFICIUM


Si tratta di un beneficio, una provvista, un capitale prima mobile e poi immobile
che il senior offre al vassallo affinchè il vassallo ricavi dei guadagni. La logica di
questa cessione era quella di consentire di avere una rendita al vassallo, che
avrebbe provveduto a fornire un esercito asservito al senior.

Inizialmente, tale beneficium doveva essere restituito. In seguito invece si


sedimentò la prassi che lasciava al vassallo il pieno godimento del beneficio,
senza obbligo di restituzione.

LA TERZA STAGIONE: L’IMMUNITAS


Dal IX secolo in avanti

• È l’elemento pubblicistico.

• È l’elemento che deriva da rinuncia del senior a favore di qualcuno.

Si tratta della rinuncia ad esercitare la sovranità su un dato territorio.


Implicitamente sono trasferiti al vassallo sia il potere fiscale sia quello
giurisdizionale. Arriviamo all’anno 1000 che segna convenzionalmente il passaggio
da Alto a Basso Medioevo.

Dal punto di vista sociale e economico

A. Storicamente terminarono o diminuirono di molte scorribande barbariche.

B. Si era immersi in un clima politicamente favorevole anche alla ripresa


economica in ambito agricolo.

C. In queste circostanze riemerge un sistema di scambio gestito da mercanti e il


baratto diventa desueto.

D. Le vie di pellegrinaggio diventano anche vie mercantili.

E. Nascono e si consolidano i “banchi”

F. Gli uomini si rimettono in “viaggio”.

Dal punto di vista costituzionale la censura dell’anno 1000 produce effetti


importanti come

1. L’invenzione di un nuovo ordinamento che si basa su un principio


completamente nuovo.

2. Non si tratta più di soddisfare un bisogno di protezione ricercandola nel


superiore di ceto o nel pariceto più potente.

Ma della creazione di un potere collettivo vale a dire che si scopre il concetto di


solidarietà orizzontale tra pariceto.

Capitolo 6
Ricapitolando per Costituzione Premoderna intendiamo quella pluralità di
ordinamenti giuridici che dal 476 d.C in avanti vengono sperimentati dagli uomini
per dare ordine alle società per un arco temporale di quasi 10 secoli di Storia. Per
noi è molto importante conoscere tali ordinamenti e le rispettive Verfassung
insieme alla loro logica “istitutiva” (sinallagmatica).

Infatti tali ordinamenti li ritroveremo “intatti” dal XII secolo all’interno dello stato
territoriale. Sapere come funzionano questi ordinamenti ci consente di capire
come funziona lo Stato, o meglio, perchè lo Stato assume la sua costituzione
specifica e quali sono le logiche che seguiranno all’esercizio del potere statale.

In secondo luogo, analizzare la Costituzione Premoderna, l’ordine giuridico


medievale, è importante perchè ci consente di vedere confermata l’ipotesi
secondo la quale per molti secondi, il Potere “pubblico” si originava dal basso
verso l’alto attraverso accordi tra le parti al fine di ottenere sicurezza e convivenza
pacifica. Questa affermazione non è per altro scontata perchè una parte della
storiografia racconta del potere censitario come il più forte di quelli in campo e
come sempre esistito.

Da ultimo l’analisi delle diverse Verfassung è importante anche perchè ci consente


di prendere coscienza, acquisire consapevolezza della natura densissima dal
punto di vista giuridico di tali ordinamenti.

GLI ORDINAMENTI DELLA COSTITUZIONE PREMODERNA


Tali ordinamenti, in quanto quasi esclusivamente cetuali e corporativi, si basavano
sul rapporto/scontro/equilibrio tra sistemi di regole secolari: le consuetudini (di qui
la densità di cui si diceva). Scopriamo allora che tutto il funzionamento di tale
Verfassung si basava sul rispetto per ognuno dei propri pacchetti di diritti (ampi
o ristretti che fossero).

In questa maniera si smentisce allora l’immagine “oscura” del Medioevo inteso


come “a-costituzionale”. Di qui la considerazione sul ruolo della figura del vertice
dei diversi ordinamenti intesa non come tiranno, bensì come arbitro o giudice.

Nei rapporti tra i diversi ordinamenti vigeva una logica “spietata” fatta si soprusi,
privilegi e sopraffazione. Per questa ragione nel corso del tempo si assurge a un
processo di invenzione di ordinamenti sempre più complessi.

Tuttavia non vi era consapevolezza di costruire cose nuove, ma prendeva il


sopravvento, piuttosto, il bisogno di organizzarsi in un sistema più stabile e
sicuro. L’analisi della Costituzione Premoderna e del funzionamento del suo
“motore” (il bisogno di protezione) ci ha portato ad osservare tre ordinamenti: la
casa, la signoria fondiaria e il sistema feudale di dominio. Si trattano di tre
ordinamenti differenti, tre Verfassung, tre logiche costituì e e anche uno sviluppo
cronologico nel tempo dal V secolo in poi.

LA VERFASSUNG DEL SISTEMA FEUDALE E LA SUA EVOLUZIONE


Siamo nell’ambito delle solidarietà verticali tra soggetti pariceto, ma nel corso dei
secoli si sono aggiunti “accessori” che avevano obiettivo di rinforzare il legame tra
i soggetti coinvolti.

Possiamo individuare almeno tre epoche in base al diverso accessorio aggiuntivo


alla Costituzione dell’ordine giuridico feudale che crea il patto, il contatto che lega
le parti in causa.

Le tre epoche sono:

1. L’epoca della commendatio


2. L’epoca del beneficium
3. L’epoca dell’immunitas: l’elemento pubblicistico che mette in relazione il
beneficium con le società con le quali si interagisce, che deriva dalla rinuncia
del senior a esercitare diritti di giurisdizione e esazione sul territorio affidato al
vassallo in beneficium.

IL SISTEMA FEUDALE DI DOMINIO


• Si è diffuso su tutto il territorio occidentale.

• Ha visto crescere le posizioni dei vassalli.

• Ha assorbito molti signori fondiari in filamenti di potere tra pariceto.

Tuttavia, si presi attenzione al fatto che gli ordinamenti della casa e della signoria
fondiaria non sono dissolti, ma semplicemente entrati nel sistema feudale di
dominio. Inoltre, questi ordinamenti si attivano per via spontanea senza accordi
scritti in uno spazio privo di soggetti politici della volontà totalizzante. Insomma:
senza stato anche e sopratutto nel sistema feudale dove gli accordi formalizzati
per via di prassi, che produce delle regole, che sono il diritto inteso come
prodotto umano e sociale.

Tuttavia in mancanza di un potere totalizzante, la specializzazione ordinamentale a


cui siamo giunti con il sistema feudale di dominio non risolve il problema della
sicurezza diffusa. Forse nel nostro racconto, può aiutare sapere che siamo giunti
grosso modo all’XI-XII secolo, vale a dire alla grande cesura dell’anno mille.

L’ANNO MILLE
A partire da quel periodo si ha una fase di grande maturità, nella quale paiono
vedersi i frutti delle varie esperienza sociali ed economiche dei primi anni
medievali. In altre parole, è un errore considerare l’anno mille come l’avvio di
un’epoca nuova, perchè dal punto di vista giuridico, le logiche saranno le
medesime del periodo precedente. Si assiste a una sostanziale continuità tra prima
e dopo dal punto di vista delle logiche tra potere e gerarchizzazione alla base del
rapporto tra corpi.

È l’anno a partire dal quale tale maturità produce degli elementi di novità:

• Strutturali

• Culturali

In entrambi i casi assistiamo ad importanti ricadute sul piano “costituzionale” e


con notevoli riflessi sulla sperimentazione delle forme di potere.

Gli elementi strutturali dal punto di vista economico, l’Europa Occidentale, vede
mutare profondamente il paesaggio agrario, per effetto delle sperimentazioni
tecnologiche e dei dissodamenti iniziati un secolo prima. In Normandia, Spagna,
Germania occidentale, Paesi Bassi, Italia settentrionale e Inghilterra.

Da ora in poi dominano ovunque campi coltivati con risultati apparentemente


banali ma rilevanti. Aumentano i prodotti alimentari per tutte le comunità e
aumentano le nascite/crescite della popolazione. Dal punto di vista economico si
ha anche la ripresa dell’economia monetaria in luogo del sistema del baratto in
uso fin ad allora.

Gli elementi culturali l’uomo dell’anno mille, irrobustito dalle esperienza dei secoli
precedenti appare più disposto ad investire sul presente e sul futuro e appare più
disposto ad “inventare” nuove forme di organizzazione. Si riaprono le vie di
comunicazione non solo religiosa ma anche economica: gli uomini si rimettono in
viaggio. Nascono e si consolidano le banche.

Di conseguenza la psicologia collettiva cambia corroborata dai successi delle


conquiste, delle novità economiche e culturali. Gli uomini di quei secoli si vedono
inseriti in un contesto diverso: per costoro, lo spazio murato dei castelli, entro ai
quelli fino ad allora si erano sentiti al sicuro, comincia a diventare angusto. Il
mondo si “allarga” e gli uomini vanno alla ricerca di nuove relazioni.

Le nuove relazioni favoriscono la circolazione delle idee:

A. Nascono le scuole: grandi luoghi di incontro di saggi e studiosi che vi


affluiscono per studiare in comune, per ragionare su temi e problemi comuni.
Cosi si fissano alcuni principi base dei nuovi saperi, come il diritto, la filosofia,
la teologia, etc..

B. Nascono le università a Bologna, a Chartres e a Parigi. Il mondo che fino ad


allora era stato un mondo statico, fissato e ordinato, secondo le variegate e
ferie regole dei numerosi ordinamenti feudali, pare essere sostituto da un
mondo dinamico, caratterizzato da una circolazione intensa che investe
tutti i livelli di vita.

L’ANNO MILLE: PER UN’INTERPRETAZIONE CONTINUISTA


A suggerirci una interpretazione continuista, contro l’interpretazione che vorrebbe
l’anno mille come cesura epocale, osserviamo gli indicatori legati alle forme di
organizzazione del potere:

- Il ruolo e la funzione di chi comanda.

- La concezione dell’origine delle regole di convivenza.

Tali elementi ci dicono che pur muovendoci in secoli - dal XI secolo in avanti -
densi di novità e di innovazioni dal punto di vista delle pratiche di governo quasi
del tutto rimane basato su logiche alto medievali.

L’anno mille non si tratta di una frattura, ma di un momento di accelerazione del


tempo storico. Si hanno degli effetti costituzionali rilevanti:

1. L’invenzione di un novo modo di organizzare il potere, ossia una nuova


tecnologia costituzionale.

2. Alla base di questa nuova tecnologia sta una logica completamente nuova,
diversa dalle precedenti (si ricorda: logica del bisogno di protezione).

La nuova logica è quella della creazione di un “potere collettivo” mediante


l’unione di soggetti equipotenti, ciascuno dei quali porta:

• In “dote” al nuovo ordine il proprio capitale e pacchetti di diritti.

• Ha la stessa quota di “potere dei suoi consimili con cui si lega.

Capitolo 7
LA CITTÀ
Ovunque, a partire dal XI secolo, si assiste ad un significativo fenomeno di
sviluppo, rinascita e nascita di città.

Sia chiaro, la città intesa come luogo di incontro tra individui, luogo di coagulo di
professioni diverse, luogo di accoglienza, non è invenzione degli uomini dell’XI
secolo.

Infatti, le città erano sempre esistite e continuavano a esistere, però dal V secolo in
avanti:

- Si erano progressivamente insterilite e ridotte a piccoli nuclei dalle nulle o quali


nulle funzioni sociali e/o politiche.

- La maggior parte delle città si erano spopolate.

- Avevano perso ogni funzione attiva nella organizzazione della società.

Le città rimaste non avevano più ruolo nella ricerca della pacificazione: il potere era
cercato altrove, cioè nella casa, nelle signorie fondiarie e nel sistema feudale.

LA CITTÀ COME LUOGO DI SPERIMENTAZIONE DI UN NUOVO MODO DI


ORGANIZZARE IL POTERE
La logica di base non è più la solidarietà verticale alla ricerca della protezione del
più forte, bensì solidarietà orizzontale per creare potente collettivo tra soggetti
omologhi cosi da auto-proteggersi da nemici vicini e lontani, e sopratutto per
arricchirsi.

Questa logica riguarda solo il soggetto collettivo che fonda la nuova città o che
comunque acquisisce il “comando” delle città preesistenti, rifondandolo dal punto
di vista giuridico-costituzionale. Insomma: riguarda il corpo che governa. Gli altri
non fanno parte del ceto di governo e devono osservare le solide regole
gerarchiche cetuali.

LA CITTÀ: ASPETTI FONDAMENTALI


La città nasce (o rinasce) grazie a stimoli sociali, economici e culturali maturati
intorno all’anno mille. La città si basa su una logica costituzionale totalmente
diversa da quelle fino ad ora applicate, non verticale, ma orizzontale.

• Produce l’invenzione della “persona giuridica”, ossia la universitas.

• Il fine di chi fonda la città non è fare beneficenza, ma è arricchirsi, cioè


aumentare il proprio capitale.

• La città nasce come soggetto mercantile i cui membri, percependo il mutato


clima “inventano” un nuovo modo di organizzarsi e di proteggere i proprio
mercati.

LA CITTÀ COME ORDINAMENTO


Consideriamo la città come soggetto rilevante dal punto di vista costituzionale nel
panorama sociale di quei secoli. Non si tratta soltanto di mercato, abitazioni e
botteghe. Diviene presto un ordinamento politico di natura pubblicistica.

La città come ordinamento riproduce quasi esattamente la logica gerarchica del


passato che vede i diversi soggetti che entrano in città sottoposti ai
governanti e ordinati in forma gerarchica come corpi da chi governa, dall’alto
verso il basso. Questo è uno dei tanti aspetti di continuità tra IX e XI secolo, cioè
tra Alto e Basso medioevo. L’ordine è dato dalla natura delle cose ed è espresso
dalla gerarchia dei ceti: si tratta di un conglomerato di ceti.

La città allora dal punto di vista politico è un grande, grandissimo conglomerato


di corpi (ceti) ordinati gerarchicamente e ciascuno con il proprio sistema di
regole e propri tribunali per garantire rispetto delle regole di comunità.

I governanti delle città non dettano nuove regole ma garantiscono l’equilibrio tra
tutti quei sistemi di regole. La città è il luogo che esalta al massimo la logica
corporativa cetuale: in città non si entra come singoli cittadini ma come membri
di una corporazione. La città viene vista come un ordinamento politico plurale.

1. Come avviene la fondazione di una nuova città?


2. Che atto c’è alla base della rinascita di una città post XI secolo?
3. Come cambia con l’arrivo del città il panorama pre-statuale che stiamo
cercando di osservare?
4. Qual’è l’impatto costituzionale dell’arrivo delle città nel quando ordinamentale
che abbiamo delineato finora?

L’atto fondativo di una città è ovunque un patto giurato tra soggetti equipotenti
che si promettono reciproca assistenza e che uniscono propri capitali. Tale atto nel
linguaggio giuridico medievale viene definito coniuratio ossia “patto giurato
insieme”.

RICORRIAMO AGLI STUDI IN MATERIA DI MAX WEBER


Nella sua opera postuma Economia e società del 1922 ha costruito un modello che
spiega le dinamiche geopolitiche alla base della nascita delle città e la natura della
costituzione delle città. Per Weber la città è un potere illegittimo.

Perchè Weber definisce un potere illegittimo?


Per tentare di comprendere perchè, ricordiamo uno dei suoi postulati più
importanti sul potere: ogni potere si fonda sulla disposizione all’obbedienza degli
individui e sul comune riconoscimento della validità delle norme alle quali la
comunità obbedisce.

Ma allora perchè la città è un potere illegittimo?


Perchè, lo abbiamo già detto, con la sua logica “orizzontale”, la città all’atto
stesso della sua nascita, rompe con ordine legittimo (verticale) consolidato da
almeno cinque secoli (V-XI secolo). Ovunque essa nasca o sia rifondata impone sul
territorio una logica che va a confliggere con quella feudale (fino ad allora l’unica
considerata legittima).

Quelle della città e del feudo sono due concezioni alternative del mondo della
politica: il feudo, statico e definito dall’intraterritorialità; la città, invece, dinamica e
che contempla scambi tra soggetti posti su territori anche molto distanti fra loro.

La città è anche un “laboratorio” politico. Essa infatti:

• Mette in crisi le forme costituzionali del potere tradizionale (feudale e signorile).

• Apre le porte a nuove forme che saranno proprie dello stato principesco-
burocratico.

• Si tratta di una forma “ibrida” di potere legale-carismatico.

UNA DEMOCRAZIA AUTORITARIA


Weber, dal punto di vista delle pratiche di governo definiva la città come
democrazia autoritaria. Può apparire cosi anche a noi se proviamo a osservare il
funzionamento di una città e vi vedremmo al suo interno una grande quantità di
assemblee e consigli più o meno elettivi che da un lato danno luogo a una
“pseudo-partecipazione” interna ai diversi corpi ma in un quadro fortemente e
rigidamente gerarchico-cetuale, dove ha più potere chi sta più in alto.

Tuttavia proprio l’accenno all’idea pattizia all’origine della città ci deve far capire
che si inserisce ancora all’interno di una logica pre-statuale di ordine che crea il
potere a partire dal basso verso l’alto. A questo punto del nostro “racconto”
dobbiamo ancora citare due paragrafi riguardo alla costituzione delle città:

1. Il primo riguarda la modellistica geopolitica delle città.

2. Il secondo riguarda anche la struttura costituzionale delle città.

LA MODELLISTICA GEOPOLITICA
Ma Weber distingue due modelli di città occidentale:

- La città del nord Europa.

- La città del sud Europa e Italia centro settentrionale.

La città dell’Europa del Nord è fondata da “uomini nuovi” cioè da soggetti che
hanno acquisito una certa visibilità e un pò di potere grazie alle innovazioni sociali
che hanno preso avvio dopo l’anno mille. Non appartengono al ceto della nobiltà
antica ma sono inseriti all’interno di un ceto “medio” legato a professioni del
momento: mercanti, avvocati, artigiani, etc.

Gli uomini nuovi, grazie alla loro ascesa sociale, volevano sganciarsi dell’angusto
spazio del feudo. Da qui, l’idea del potens collettivo, l’idea di auto proteggersi
riunendo il loro capitale ridotto e il loro lavoro. Nasce cosi nell’Europa del Nord la
città da cui deriva pertanto una costituzione a struttura particolare. Anzitutto, dal
punto di vista territoriale ha estensione collettiva perchè i suoi fondatori non
hanno molta terra ma sopratutto capitali e la propria forza lavoro; in secondo
luogo, sono città medio-piccole e laboriose e, infine, sono città che inizialmente
convivono fianco a fianco con i feudi.

LE CITTÀ DEL NORD EUROPA


Spesso per poter fondare una nuova città, gli uomini non avevano bisogno
dell’autorizzazione del nobile vicino che li sciolga dal vincolo feudale. Quesì in
cambio chiede loro di poter aprire in città un suo proprio “palazzotto”.

Anche dal punto di vista morfologico, la città del nord è medio-piccola, ha molte
botteghe, ma non possiede la terra circostante. Al proprio interno, oltre ai luoghi
tipici del potere cittadino - il mercato, le botteghe, le officine, il Palazzo del
Governo, i palazzi dei vari Consigli di corporazioni - accoglie anche il palazzotto
del nobile vicino che ha intuito i vantaggi economici della città-mercato. In
generale queste città sorgono vicino al castello del nobile normalmente posto su
un’altura. Per questa sua caratteristica di promiscuità con il feudo, lo storico
Giorgio Chittolini definisce la città come un isolotto di libertà in un modo di
privilegi e soprusi. La libertà è data da auto considerarsi, da parte dei fondatori,
tutti liveri e uguali, mentre tutto intorno vigeva il sistema feudale basato su una
rigida scala di valori cetuali.

Questa connotazione egualitaria e questo spirito di libertà, però, vale per i soggetti
fondatori e solo per coloro che si mettono a capo di un ordinamento il quale sarà
altrettanto spietatamente gerarchico e brutalmente corporativo quanto gli
ordinamenti precedenti.

LE CITTÀ DELL’EUROPA DEL SUD E L’ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE


La tipicità di questa città sta nella natura dei soggetti fondatori: non comune al
nord “uomini nuovi” (capitalisti, artigiani, bottegai, mercanti), bensì nobili di antica
tradizione, signori fondiari che, stante la nuova logica costitutiva orizzontale,
portavano in dote altre ai molti capitali anche molta terra su cui naturalmente vi
erano contadini censuari e altri piccoli proprietari.

Ciò senz’altro ha un riflesso costituzionale perchè la città mediterranea e italiana è


una città molto estesa e perchè impatta frontalmente con assetti esistenti sul
territorio dato che i suoi fondatori erano componenti essenziali del sistema feudale
di dominio. Qui vediamo qui ben applicata l’immagine di un ordine illegittimo di
weberiana memoria.

Anche dal punto di vista morfologico queste città sono diverse da quelle del nord
perchè, oltre ad essere molto grandi, estendono il loro controllo su grandi
territori: si pensi a Firenze che nel 1400 controllava un territorio grande come
quasi 2/3 della Toscana attuale.

Le città mediterranee e dell’Itala del centro-nord annullano o quasi il sistema


feudale. Nel giro di 150/200 anni infatti le società italiane abbracciano con
entusiasmo questo modello delle solidarietà collettive e pattizie. L’Italia centro
settentrionale è patria per eccellenza del libero comune. Le città grandi hanno a
loro volta un territorio di pertinenza con uno status diverso:

• La città: dove vivono i cittadini titolari del massimo dei diritti.

• Il contado: dove vivono i contadini titolari di minori diritti.

Esempio: uno dei collaboratori dell’Imperatore Federico I detto Barbarossa dopo


aver fatto scorribande per tutto il centro Europa, una volta affacciato in Italia,
valicate le Alpi, scrisse all’Imperatore: “Italia est tota inter civitates ferme divisa” ->
“L’Italia è tutta quanta organizzata in città”. Siamo nel 1120.

LA NATURA COSTITUZIONALE DELLE CITTÀ


Posto che abbiamo visto due Verfassung diverse una per il nord e una per il sud
dell’Europa, occorre ora fare una breve riflessione sulla natura della costituzione,
perchè ci aiuta a mettere a fuoco eventuali differenze da ciò che c’era prima e ciò
che avverrà in seguito. Abbiamo detto che:

1. La città si fonda sulla coniuratio, cioè sul patto giurato di un gruppo di sodali
dello stesso ceto.

2. Ovunque si trovi, la città che nasce come mercato diviene a sua volta luogo di
potere e di governo.

Si tratta di un governo di pochi, pochissimi soggetti appartenenti alle famiglie


fondatrici e di un governo che si esercita su molti altri “copri” subordinati
gerarchicamente e brutalmente controllati.

Come negli altri ordinamenti della Costituzione Premoderna, osserviamo che non
ci troviamo immersi in un mondo governato da una logica assistenziale.

Tutto il contrario: vige la regola gerarchica cetuale. Per cui se un soggetto


prendeva il suo status automaticamente scendeva nella scala gerarchica,
rischiando persino di perdere lo status di cittadino e in ambito della città
mediterranea era perciò costretto a vivere fuori città, diventando dunque un
abitante del contado (un contadino). Nonostante nella città potessero convivere
molte persone, soltanto una cerchia ristrettì a era ammessa all’attività di
comando e governo: soltanto coloro che erano appartenenti alle medesime
famiglie legate da relazioni parentali e amicali.

La città esalta la logica corporativa-collegiale dove i fondatori/governatori stessi


sono un corpo collettivo: sono una persona giuridica. La logica corporativa diviene
regola costituzionale base della Verfassung cittadina e ne deriva, quindi, che in
città si entra solo come membri di una corporazione.

Riguardo all’aspetto più propriamente istituzionale e costituzionale si riprende la


definizione di Chittolini della città intesa come “isolotto di libertà” e quella di Weber
dove la città è intesa come “democrazia autoritaria” deduciamo l’idea di libertà e di
democrazia. In effetti l’idea di una persona giuridica al governo è un’idea di
democrazia, per cui tutti sono uguali e liberi in eguale maniera. Ecco l’elemento di
novità. Tuttavia, all’interno della città il potere, lo abbiamo detto, viene distribuito
secondo una logica gerarchica e cetuale e si arrabbia applicando rigidamente le
regole appartenenti alla gerarchia corporativa.

Come e dove vengono definite queste regole?


Esse si trovano in documenti molto importanti contestualmente all’accordo giurato
(coniuratio) riportavano le liste delle famiglie fondatrici della città. Alla base del
governo della città stava un sistema di conoscenze interpersonali che viene subito
trasformato in sistema costituzionale mediante la trascrizione dei nomi dei
fondatori in liste che nel quadro costituzionale di città assumono massima
rilevanza e di fatto costituiscono la città stessa: cioè la città, il potere della città, sin
da subito si identifica con il gruppo dei fondatori i cui nomi sono fissati per
sempre. Tali liste erano talmente importanti che dalla fondazione in avanti saranno
ammessi a governare la città soltanto i nomi presenti su quelle liste. Esse venivano
infatti aggiornate, famiglia per famiglia, con tutte le nascite e le morti sopraggiunte.
Nelle diverse realtà vengono denominate in maniera diversa:

• Libri d’oro
• Cittadinari
• Abiti di cittadinanza
Ma la loro valenza costituzione è la medesima.

Tali documenti sono fondamentali per identificare chi può governare, infatti erano
conservati nelle zone più segrete e sicure del palazzo del governo. Tali documenti,
inoltre, non si esauriscono con il Medioevo, ma lo troviamo applicati, quasi gli
stessi fini almeno fino a metà Ottocento.

Chi definisce le regole di convivenza?


Le regole di convivenza vengono scritte all’atto di fondazione della città, con
successive revisioni, cosi come per i libri d’oro. Tali documenti hanno valenza
fondativa, di più, costitutiva dell’ordinamento cittadino.

Essi possono essere definiti in modo diverso di luogo in luogo, ma quasi ovunque
nel lessico giuridico delle fondi di diritto, sono identificabili con la denominazione
di statuti cittadini. Qui sono raccolte le regole di convivenza, e descritte le pratiche
di convivenza e di potere per il funzionamento della città.

GLI STATUTI
Tali statuti richiamavano poi per campi specifici il contenuto e le regole che ogni
corporazione ammessa in città si dava: tale regole e pratiche corporative si trovano
raccolte in documenti definiti come statuti corporativi.

Per disciplinare una convivenza nei territori sottoposti al potere della città ma fuori
dalla città stessa, le regole vennero raccolte in documenti definiti come statuti
rurali.

Possiamo perciò renderci conto di come fosse complessa la costituzione cittadini


sia dal punto di vista strutturale (divisione in ceti, corpi, etc..) e sia dal punto di
vista di pratiche di governo basate su sistemi di regole serratissimi.

Si tratta di sistemi di regole disposti dal più importante, ossia gli statuti cittadini,
passando per quelli di importanza immediatamente inferiore, gli statuti delle
corporazioni, sino ai meno importanti di tutti, ossia gli statuti rurali.

Possiamo definirli dei sistemi di regole scritte ma secondo delle logiche


particolari.

Le regole:

- Generalmente le regole scritte non erano “inventate” dai fondatori nè dai


governanti successivi.

- Esse erano la trascrizione di regole consuetudinarie la cui origine si perde nei


secoli addietro.

- Questo è un eccezionale esempio di continuità tra prima e dopo l’anno mille: la


percezione della legge come espressione della consuetudine.

Assumendo che lo Stato non c’è sempre stato, ma che è un prodotto umano che
arriva da un certo momento in avanti dove nemmeno la complessità giuridica e
costituzionale, nè la forza e ricchezza delle città (mediterranee) vano confuse con
lo stato. È errato dire città-stato poichè mancano di alcuni elementi, come la
sovranità non derivata e i caratteri impersonali del potere, al contrario, la città è
retta da un potere personale: si sa sin da subito che il governo va a persone note
a cui si deve obbedienza.

Insomma, la città è si portatrice di un progetto nuovo organizzato su una logica


orizzontale, ha allo stesso tempo un progetto dinamico ed espansivo, ma dal
punto di vista delle pratiche di governo è un sistema altrettanto poco “pacifico”
degli altri. Infatti, il governo personale o personalistico crea fortissime rivalità
interne tra famiglie dominanti.

Infatti l’assenza di un potere impersonale che pacifichi, fa sì che le rivalità si


moltiplichino e si incancreniscano dove anche le città, allora, sembra non risolvere
il problema centrale posto anche gli ordinamenti precedenti. La città, infatti, è
molto competitiva internamene ma anche all’esterno, nei rapporti con altre città e
in quelli con altri ordinamenti (feudi, signorie..).

La città perciò non esaurisce la ricerca di un ordinamento risolutivo: che cosa


accade allora? Nel panorama del territorio dell’Europa occidentale tra l’XI-XII
secolo osserviamo uno spazio affollato di ordinamenti anche complessi ma di
limitata estensione territoriale e senza un progetto totalizzante. Insomma, si tratta
di uno spazio plurale senza poteri generali, senza Stati.

Capitolo 8

Finora abbiamo parlato di uno spazio plurale senza stati, ma questa immagina a-
statuale è veritiera? Non esistevano già alcuni poteri universalistici?

Pensandoci bene, infatti può essere utile richiamare i concetti di:

• Res Publica Christiana: in sintesi estrema corrisponde alla comunità che riunisce
tutti i cristiani sotto l’autorità del Papa, rappresentante di Dio sulla terra.

• Sacro Romano Impero: dal Natale dell’800 rappresenta la comunità politica


coestensiva alla Res Publica Christiana e sottoposta all’imperatore che ha
(dovrebbe avere) compito di difendere tutta la cristianità.

Questi due ordinamenti in effetti esistevano:

1. A Roma c’era “qualcuno” che si sentiva investito da Dio a essere capo della
Chiesa, di tutti i cattolici: il Papa.

2. E c’era “qualcun’altro” che, a partire dal IX secolo, si riteneva investito dal


Papa e/o da Dio del potere di comandare un ordinamento politico grande
quanto la Chiesa per proteggere la cristianità: l’imperatore.

Questi due poteri, vocazionalmente universali, a ben vedere avevano una natura
costituzionale molto diversa rispetto agli ordinamenti fin qui studiati. Perchè?

Perchè hanno una diversa natura costituzionale?

A. Perchè a differenza del pater familias, dei signori fondiari dei feudatari e delle
universitates cittadine.

B. Il Papa e l’Imperatore non dovevano negoziare il loro potere ma si dicevano


investiti da Dio.

C. La loro sovranità allora, non era relativa, non promanava dal basso, ma bensì
dall’alto.

LA RES PUBLICA CHRISTIANA


Per stessa ammissione di Tertulliano (scrittore latino del III secondo dopo Cristo) è
un corpus, ossia una comunità di individui autonoma e titolare di un diritto
proprio e originario, cioè che non le è demandato da nessuno. Si tratta di un
ordinamento primario che non trae il suo potere da nessun altro soggetto civile ma
direttamente da Cristo come divino legislatore.

IL SACRO ROMANO IMPERO


Seppur più recente (circa IX secolo) il Sacro Romano Impero ha fondamento analisi
alla Res Publica Christiana: anch’esso è inteso come potere universale e
ordinamento originario. Tuttavia se è vero che questi due ordinamenti non
derivati esistevano e avevano al vertice soggetti che si sentivano (si presumevano)
investiti da Dio. Tali poteri non avevano un potere effettivo su un ampio
territorio.

Infatti al di là di soluzioni più o meno localiste come le corti itineranti in area


tedesca, si tenga presente che:

- Tali ordinamenti oltre a non avere un potere effettivo su un ampio territorio e su


molte comunità.

- Non erano in grado di alterare quel processo di creatività istituzionale e


costituzionale diretta dal basso verso l’alto e a sovranità relativa tipiche degli
ordinamenti che abbiamo descritto finora.

Possiamo dunque assumere che:

• Davvero a partire dal V secolo si è tentato di edificare un ordine lasciato senza


alcuna protezione dopo la caduta dell’Impero Romano a partire dalla casa.

• Si tenga inoltre presente che non esiste una piramide feudale con vertice
unico ma tanti “grappoli” di potere e poteri.

Tuttavia il fatto che qualcuno si sentisse investito dall’alto è osservazione di un


certo momento nonostante avesse pochissima effettività “politica” e giuridica e
solo una maggiore importanza dal punto di vista culturale.

Nella percezione comune, chi erano l’Imperatore e il Papa?

1. Per il contadino e il mercante la percezione di un potere superiore era


minima, essi riconoscevano come autorità il signore locale o la città da cui
dipendeva il contado.

2. Per i nobili e gli intellettuali invece figure “universali” come quella


dell’Imperatore e del Papa erano riconducibili a soggetti che derivano il loro da
Cristo e in virtù di questa derivazione potrebbero comandare.

In questa diversa percezione sta tutto il significato dell’esistenza di due poteri


vocazionalmente universali. Questi due poteri universali per secoli si dimostrano
incapaci di interagire concretamente sulle sperimentazioni ed evoluzioni
costituzionali e tuttavia si dimostrano incapaci di instillare nei ceti dirigenti, nei
signori, nei potenziali soggetti di vertice, l’idea che si potesse governare:

- Su porzioni più ampie di territorio.

- Originando accordi più stabili con soggetti sul territorio.

A partire dal XI-XII secolo alcuni signori che già si trovavano al vertice di
ordinamenti feudali e/o cittadini si presentano sul territorio offrendo una protezione
più ampia in cambio di fedeltà maggiore e privando di autonomia gli assoggettati.
Nasce cosi quello che dagli storici e dai giuristi successivi è definito lo stato
territoriale. Naturalmente quei signori che intesero “imitare” il Papa e/o
l’Imperatore non erano consapevoli di costruire lo Stato.

A partire dal XII-XIII secolo è stato osservato che iniziano a comparire ordinamenti
con una Verfassung completamente diversa, ossia:

• Costituzione più stabile.

• Potere politico e sociale di vertice più forte.

• Sistema di potere più esteso.

Tutto ciò avvenne attorno a soggetti di “comando” che intendevano imitare il Papa
e l’Imperatore. È proprio per questo aspetto culturale l’aspetto caratterizzante il
nuovo tipo di Costituzione.

Chi entrava nello Stato, come conseguenza costituzionale, i soggetti che vi si


assoggettavano perdevano per sempre un pezzo della loro autonomia.
Conseguentemente:

1. La costituzione diveniva più stabile.

2. Il sistema di potere che ne scaturiva diveniva più forte: poteva quindi


estendersi su porzioni di territori più ampie.

LO STATO TERRITORIALE
Questo ordinamento era lo Stato territoriale, ossia un ordinamento che per quanto
“inventato” quasi involontariamente dalle società di quel tempo mosse dal
bisogno di sicurezza. Lo Stato ebbe subito e ovunque un successo dirompente e
nel giro di poco tempo il nostro spazio, prima affollato di città, feudi, signorie, fu
tutto costellato di Stati più o meno estesi.

Lo Stato territoriale è un ordinamento di successo, perchè?

A. Anzitutto è portatore di una logica costituiva nuova: amico/nemico, dentro/


fuori.

B. È un fenomeno altamente contagioso e autopropulsivo.

Vale a dire che lo Stato è una macchina espansiva che va a distendersi su tutto il
territorio disponibile e si arresta solo quando incontra un potere omologo ma
opposto, cioè un altro Stato. È però difficile trovare una risposta al perchè sia
risultato un ordinamento di successo. Di certo:

- Non si tratta di un’evoluzione “anticiclica” della storia del potere dal bene al
meglio.

- Nemmeno di una soluzione scontata e prevista dalla natura.

Tuttavia trovare una risorsa risolutiva all’interrogatorio “perchè si è dimostrato un


ordinamento di successo?” Rimane ardua impresa. In passato sono state avanzate
molte risposte “preconfezionate” in base a visioni e letture ideologiche.

LE LETTURE IDEOLOGICHE DEL PASSATO


• Risposta storiografica marxista: lo Stato è un ordinamento necessario a
mediare il conflitto tra borghesia precapitalistica e aristocrazia terriera. Esso è lo
strumento del potere della borghesia.

• Risposta storiografica liberale: lo Stato è un ordinamento necessario a


pacificare contrasti sociali e religiosi sempre più diffusi sul territorio a partire dal
XIII secolo.

Si tratta di risposte verosimili, ma teologiche date cioè a posteriori da chi sa cosa


accade dopo conscio che lo Stato avrà una durata pressoché infinita.

Una terza lettura è quella storiografica militare: alcuni hanno cercato la risposta
nella sfera militare e hanno descritto lo Stato come il prodotto della guerra tra
ceti e tra ordinamenti, cioè per costoro senza guerra non ci sarebbe lo Stato.
Tuttavia anche questa risposta non parrebbe convincente.

Tuttavia, Charles Tilly ha osservato il contrario: lo Stato produce guerra e non


viceversa. Dall’esame della curva dei morti in guerra; della consistenza degli
eserciti e del prelievo fiscale; ha dedotto che tali dati crescono in maniera
esponenziale solo dopo la nascita dello Stato. Infatti lo Stato innesca una
conflittualità che diviene fortissima rispetto al passato. Il dato militare allora ci
aiuta a capire come lo Stato progredisca ma non come esso sia nato, nè tanto
mano, perchè.

UN’ANALISI STRUTTURALE
Osserviamo allora la proposta del politologo norvegese Stein Rokkan
(1921-1975), sensibile al dato storico e a quello costituzionale. Ogni teleologismo,
infatti, lo abbiamo visto, si è limitato a cercare spiegazione nella dinamica delle
relazioni tra i diversi ordinamenti sul territorio.

Il punto di vista di Rokkan si tratta di una analisi di tipo strutturale poichè


Rokkan, da politologo, prescinde dal contesto storico e si sofferma sul rapporto tra
i diversi tipi di ordinamenti sul territorio. A proposito di territorio - continentale
occidentale - egli lo suddivide in tre aree sulla base di un criterio che deriva dal
diverso assortimento di ordinamenti:

1. L’Europa mediterranea medievale;

2. La prima periferia Europea;

3. L’estrema periferie europea.

Le tre aree di Rokkan sono caratterizzate per un diverso assortimento


ordinamentale: quale?

• Area 1: Europa mediterranea medievale (Italia, Francia del Sud e Europa


Medievale) caratterizzata dall’alta concentrazione di ordinamenti cittadini e più
raramente feudali.

• Area 2: Prima periferia europea (Francia, Inghilterra, Paesi Bassi, Germania e


Spagna) caratterizzata dall’equipe senza tra due tipi di ordinamento.

• Area 3: Estrema periferia Europea (Est Europa, al di là degli Urali) caratterizzata


dall’altissima concentrazione del sistema feudale.

LO STATO TERRITORIALE PER ROKKAN


Rokkan sostiene che lo Stato territoriale si manifesti innanzitutto dove c’è un
preciso “assortimento” di ordinamenti. Egli sostiene inoltre che lo Stato arrivi
prima (cioè si creino prima gli ordinamenti di nuovo tipo: più stabili, più forti e più
estesi) nella prima periferia dell’Europa Medievale perchè è proprio lì che
maggiore è l’attrito tra due diversi tipi di costituzione che hanno intrinsecamente
diversa attitudine sul territorio:

A. La città: attitudine espansiva.

B. Il feudo: attitudine statica.

È proprio in questa area che lo scontro tra due diverse visioni del mondo - quella
statica e quella dinamica - si fa più crudo. In questi territori infatti i diversi
governanti, per primi, avvertono il bisogno di proteggersi da vicini “aggressivi” e
con mire espansive.

IL PRIMO POSTULATO DI ROKKAN


In quest’area a causa di forti aggressioni esterne, prima che altrove, i soggetti di
vertice meno potenti accettano l’idea di sacrificare parte della propria autonomia e
di cederla ad un soggetto più potente che si crede investito da Dio in cambio di
sicurezza maggiore e duratura.

Stiamo parlando di trasformazioni costituzionali che derivavano:

- Dal bisogno primario di sicurezza.

- Da una mutata psicologia collettiva quella che porta le società a:

1. A percepire il mondo più ampio.

2. A ipotizzare un’espansione economica.

3. A percepire un nuovo sistema di relazioni sociali allargate al di là delle mura


delle città o del castello.

IL SECONDO POSTULATO DI ROKKAN


Rokkan osserva che nonostante la diversa attitudine alla statualità dei territori, che
inevitabilmente conduce alla nascita degli Stati in momenti diversi, nel giro di un
secolo e mezzo tutto il territorio dell’Europa occidentale si trova “affollato” di Stati.
Ciò che qui ci preme sottolineare è che tali nuovi stati emersi tra il XII e il XIII
secolo avevano una Verfassung diversa dagli ordinamenti precedenti.

Seguendo il secondo postulato si Rokkan lo Stato è un fenomeno altamente


contagioso una volta impiantandosi nel territorio a lui favorevole si espande molto
rapidamente su tutto l’occidente:

• Per psicologia collettiva nuova.

• Per la soluzione più radicale che offre al bisogno di sicurezza sistematicamente


lasciato insoddisfatto dagli ordinamenti precedenti.

• Per la sua tendenza espansiva sul territorio.

Si tratta di fenomeni molto complessi che noi stiamo brutalmente banalizzando.


Tuttavia Rokkan sottolinea che oltre agli elementi “strutturali” visti fin qui, molto
dipende dalla logica nuova che lo Stato porta con sè: la logica del “o con me o
contro di me”, logica a cui devono soggiacere tutti gli ordinamenti che entrano in
contatto con lo Stato.

Osserviamo però:

1. È comunque un dato di fatto che lo Stato si diffuse rapidamente anche in aree


meno “statuali” come l’estrema periferia europea e in Italia Centro
settentrionale a vocazione cittadina.

2. Le città infatti essenza realtà ricche e molto estese non si sentivano il bisogno
di “trasformarsi” in Stati, eppure anche in questo ambito territoriale presto tutto
si trasforma, lasciano il campo libero allo Stato territoriale.

L’ITALIA E IL PASSAGGIO ALLA COSTITUZIONE STATALE


1. Il caso di Venezia: Ricca città a vocazione mercantile verso l’Oriente che si
appoggiava alle altre città della terraferma per supportare i suoi affari,
sembrava non dover intrattenere altri legami d’alleanza con altre città. Tuttavia,
di fronte alla rapida espansione del Signore di Tirolo a danno delle sue città
satelliti, anche Venezia decise di legarsi ad altre città seguendo la logica
statuale.

2. Il caso di Firenze: Firenze era una ricca e dinamica signoria che pareva perciò
fare a meno di aderire a una logica statuale, eppure, dal 1490 al 1530 - e
massimamente dal 1537 con l’assorbimento di Siena nella sua origina - si
trasformò e confermò nello schema dello Stato territoriale. Di fronte alla
minaccia proveniente dalla famiglia Visconti a capo dello Stato di Milano anche
nell’area di Firenze si avvertì il bisogno di cambiare costituzione, passando da
una costituzione cittadina (più instabile e conflittuale) a una costituzione
statuale.

LA LOGICA COSTITUZIONALE DELLO STATO


Lo Stato ha logica conservativa nei confronti di altri ordinamenti sul territorio,
cioè lo Stato quando si attiva non si propone di annullare tutto ciò che esiste sul
suo territorio imponendo a tutti un unico sistema di regole date dal suo centro dal
suo signore, al contrario, si propone di conservare “quasi” intatti gli ordinamenti
che sono presenti sul suo territorio.

Un altro elemento della fortuna dirompente del modello statuale dunque sta propri
nella convivenza reciproca alla base della fondazione dello Stato.

L’assoggettamento di un ordinamento allo Stato vede la comunità più debole che


che decide di assoggettarsi e volente o nolente capitola, perdendo i propri attributi
e perdendo una parte della propria autonomia. Tuttavia, per la natura
conservativa dello Stato di cui si è detto, vede confermata e garantita:

1. Una parte dei propri diritti di autogoverno amministrativo.

2. Una parte della propria potestà fiscale.

3. La propria potestà statutaria.

Si tratta di un quadro costituzionale inedito, dove naturalmente la comunità che


capitola si troverà allora immersa in un quadro costituzionale totalmente inedito
poichè prima non esisteva, e che prevede ora un soggetto sovraordinato - il
centro, lo Stato - che attraverso i suoi strumenti e nuove istituzioni opera una
qualche forma di coordinamento.

Lo stato territoriale però non si configura come un dominio compatto con potere
e intenzioni assoluti, bensì come potere di coordinamento tra i diritti di tutti gli
ordinamenti assoggettatisi al suo potere. Il sovrano infatti è come un giudice e la
costituzione dello Stato territoriale è detta pattizia proprio perchè si basa su uno o
sui tanti patti (a seconda delle dinamiche storiche e geopolitiche) tra il centro e gli
ordinamenti assoggettati.

I PATTI DI CAPITOLAZIONE
I patti di capitolazione sono dunque gli atti in cui sono contenuti gli accordi che
segnano l’assoggettamento di un ordinamento allo Stato. La retorica dei patti si
soggezione è molto particolare e spesso è costruirà per simulare adesione
“spontanea” allo Stato. Si tratta di una simulazione però quasi fine a se stessa dal
momento che era quasi impossibile sottrarsi alla logica espansiva dello Stato
vicino, per cui, o si fondava uno Stato o si entrava a far parte di quello
territorialmente contiguo.

Rispetto al Medioevo quando i diversi ordinamenti erano o potevano dirsi


pienamente autonomi a partire dal torno del XIII-XV secolo in avanti, cioè dalla
prima età moderna, nessun ordinamento può dirsi totalmente autonomo rispetto
alla sua “dominante”, rispetto cioè a un centro “statale” grande o piccolo che sia.
In effetti a partire dai secoli XIV e XV si ha la stagione delle cosiddette monarchie
“nazionali”.

Lo stato, quindi, è contenitore di tanti ordinamenti storicamente a lui preesistenti e


lo stato territoriale trasporta nella “modernità” elementi dell’antico, ma li armonizza
- o cerca di farlo - per suo interesse di espansione e sopravvivenza.

Sia però chiaro che:

A. Lo Stato territoriale non ha vocazione totalizzante.

B. Lo Stato territoriale ha vocazione conservativa.

C. All’interno di ciascun Stato, ogni provincia ha il suo sistema di regole: lo Stato


è a sua volta un sistema di regole.

D. Il sovrano dello Stato territoriale è una sorta di ministro dell’aequitas.

E. Il sovrano è un giudice che “comanda amministrando la giustizia”, ossia,


giudicando.

Capitolo 9
LA COSTITUZIONE PREMODERNA
Abbiamo detto che i Poteri universali preesistenti allo Stato - Chiesa e Impero - si
distinguono per sovranità non derivata, per un potere originario tratto da Cristo
come divino legislatore. Questi poteri, però, sul piano fattuale, non furono in grado
nei circa sei secoli (per la Chiesa) e quattro secoli (per l’Impero) precedenti di
modificare la regola con cui, dopo il crollo dell’Impero romano, si erano costruiti gli
accordi di convivenza su cui si erano costituiti i diversi ordinamenti. Dal punto di
vista fattuale erano, dunque, poteri effimeri.

Però abbiamo anche detto che ai fini della nostra analisi è molto utile prendere in
considerazione anche un alto aspetto riguardante la presenza di questi poteri
universali l’aspetto culturale: ossi la percezione che i coevi ebbero di tali
ordinamenti. Per moltissimi soggetti, quegli ordinamenti erano sconosciuti.

Però per pochi soggetti, ma allo stesso tempo i più potenti, cioè i soggetti già al
vertice degli ordinamenti civili, tali ordinamenti originari, universali erano noti cosi
come nota era anche la legittimazione divina dei soggetti che si trovano al vertice
di quegli ordinamenti universali. È proprio per questo aspetto culturale che
Chiesa e Impero vanno considerate presenze importanti ai fini della Storia dello
Stato e delle istituzioni.

Infatti, “i signori più potenti”, con l’intento di imitare il Papa e l’Imperatore, a


partire da un certo momento si presentano sulla scena offrendo una protezione
maggiore, ma esigendo un sacrificio proporzionale: la perdita di un “pezzetto” di
autonomia. Offrono, però, anche la garanzia di conservare la specificità
ordinamentale delle comunità assorbite e/o sottomesse, rispettandone i loro
privilegi e le loro consuetudini.

Da questo punto di vista i paradigmatici risultano i patti di capitolazione che


trovate tra le Voci del tempo tra i quali il documento relativo all’unione della
Bretagna al Regno di Francia. Ciò che è riscontrato essere contrastante alle
regole generali di convivenza viene annullato, mentre tutto il resto viene
mantenuto e difeso da terzi “senza nulla cambiare nè innovare”.

Per questo possiamo sostenere che, in fin dei conti, la convivenza è reciproca.

Proprio per questa convivenza reciproca oltre che per il primo e secondo postulato
di Rokkan che, fuori d’ogni visione teologica, analizza lo Stato nei suoi momenti
cruciali con l’approccio modellistico elaborando dei modelli:

Il primo postulato -> la nascita (materiale e culturale) in base all’assorbimento tra


ordinamenti.

Il secondo postulato -> la diffusione, ossia il “contagio” della nuova logica


nemico/amico che si espande finchè non incontra un potere uguale o superiore. Si
fa strada una nuova psicologia collettiva.

IL SUCCESSO DELLA FORMA “STATO”


Lo Stato ebbe un successo strepitoso, diventando nel giro di due secoli l’unico
ordinamento, o comunque il più diffuso. Dal punto di vista del Potere, lo Stato
porta in scena un potere mai visto prima, per dimensioni, economia e forza. Dal
punto di vista costituzione, lo Stato si dimostra stabile come nessun altro
ordinamento era stato prima.

Ragionando sull’origine degli Stati teniamo presente, in primo luogo, che solo
dopo il XII-XIII secolo possiamo parlare di Stato. In secondo luogo, giova tenere in
conto l’analisi di Rokkan che muovendo da una “casistica” storia identifica due
modelli di costituzione territoriale.

A. Lo Stato monocellulare.

B. Lo Stato mosaico.

Posto che all’origine di ogni Stato c’è sempre un patto di capitolazione, vediamo i
due modelli nel dettaglio.

A. LO STATO MONOCELLULARE
È lo Stato che sorge per effetto di un unico atto di assoggettamento nei diversi
ordinamenti sul territorio ad un unico signore.

Un esempio di Stato monocellulare è l’Inghilterra che sorge come “stato


territoriale” nel 1066 a seguito della Battaglia di Hastings quando il re normanno
Guglielmo sconfigge i sassoni di Aroldo II.

A seguito di questa sconfitta tutti i signori feudali dell’isola si sottomisero a


Guglielmo II di Normandia detto il Conquistatore. Stilizzando al massimo il
concetto, possiamo ridurlo a questa proporzione:

1 unico assoggettamento = 1 Stato monocellulare su tutto il territorio

B. LO STATO MOSAICO
È lo Stato che si forme per effetto di diversi e successivi patti di capitolazione nei
diversi ordinamenti sul territorio ad un unico signore territoriale e ad un unico
centro: lo Stato.

Un tipico esempio di Stato mosaico è la Toscana che per effetto di moltissime


capitolazioni, tra l’inizio e la metà del XVI secolo, riesce ad estendere la sua
“sovranità” su un territorio pari, o quasi, a quello dell’attuale Toscana.

Un altro esempio di Stato mosaico allo stesso identico modo, per gli stessi motivi
storici, politici e giuridici, attraverso la stessa dinamica costituzionale di tipo
“mosaico”, ma su scala maggiore, europea, un altro esempio tipico di Stato
territoriale è la Francia dal 1302 in avanti.

LA FRANCIA
Lo Stato territoriale in Francia si addensa attorno al signore de i’lle de France,
Filippo II il Bello, per successive annessioni, o meglio, assoggettamenti.

Dal punto di vista costituzione gli assoggettamenti che sono alla base del Regno di
Francia non sono diversi quelli visti per la Toscana. Paradigmatico, lo abbiamo già
visto, il cosiddetto Trattato d’unione del 1532 (più o meno coevo a quello di Pisa
per la Toscana) con il quale la Bretagna fino ad allora Ducato autonomo entra a far
parte del Regno di Francia.

Seppure in maniera schematica, il richiamo a due esperienze statali cosi diverse


dal punto di vista territoriale cosi distanti dal punto di vista geografico, ma
accumunate dalla stessa logica costituzionale ci conferma:

- Il valore e l’attendibilità della nostra modellizzazione.

- La natura pattizia dello Stato territoriale.

- la natura plurale della Costituzione degli Stati premoderni.

- La natura tutoria e non assoluta del sovrano al centro di questi Stati.

Tali accordi avranno durata lunghissima e scompariranno del tutto:

- Per la Francia solo nel 1789 con l’invenzione del dipartimento.

- Per la Toscana più o meno sotto diversi aspetti solo a partire dal 1848.

Questa osservazione è funzionale per renderci conto della profondità storia di certe
istituzioni, della Verfassung degli Stati dell’età moderna.

Di più: da questo punto di vista ha poca rilevanza il fatto che nel corso di questa
storia tali accordi non siano stati sempre osservati nella lettera, perchè ciò che
veramente importa è che nessuno si assunto la responsabilità di eliminarli.
Infatti per tutti c’era, in maniera differente, la profonda consapevolezza della
valenza costituiva di tali patti; costituiva per la Costituzione dello Stato.

Per questa ragione abbiamo molto insistito nella ricognizione delle diverse
costituzioni, dei diversi ordinamenti che si sono creati spontaneamente dal V
secolo in avanti, perchè tali ordinamenti li ritroviamo come “tasselli” costitutivi
del mosaico statale. In sostanza sono quei poteri locali che da allora in avanti
troviamo fino ad oggi sul territorio e perchè il sovrano, non solo non cancella tali
ordinamenti, ma si impegna a tutelarli di fronte a terzi.

Parlando della diffusione dello Stato abbiamo introdotto un’altra sua caratteristica:
lo Stato non annulla, ma agisce invece secondo una logica conservatrice e ciò
ha importantissime ricadute dal punto di vista costituzionale.

La Verfassung dello Stato è fortemente influenzata da questa logica che potrebbe


apparire in contrasto con l’immagine tradizione dello Stato invadente e assoluto o
più semplicemente con l’idea “nuova” dello Stato come ordinamento più potente.

L’ANALISI DI RICHARD VAN CAENEGEM


Giurista olandese che si è occupato prevalentemente di questi aspetti mette in
luce che gli Stati di questa ragione si muovono lungo un doppio binario:

1. Da una parte i nuovi reges si sentono e si presentano come “investiti” dall’alto.

2. Dall’altra continuavano ad agire secondo logiche pattizie.

Il che equivale a dire che il potere è nuovo ma il suo esercizio riprende per
molti aspetti logiche tradizionali. L’aspetto conservativo appunto questo ci
conferma: che lo Stato non domina, ma tutela le autonomie.

Il risultato è una Verfassung plurale:

A. Plurale: composta da tanti pezzi, quanti sono gli ordinamenti che “contiene”.

B. Plurale poi, sopratutto perchè ogni provincia che entra a far parte dello Stato
vede mantenuta la propria specificità giuridica.

C. Plurale perchè lo stato funziona sulla base di tanti sistemi di regole validi
ognuno per ogni corpo.

Si tratta, quindi, di una Verfassung plurale, dunque, perchè lo Stato è Stato di corpi
collettivi, ciascuno dei quali ha proprie regole.

Le nuove provincie, i copri che entrano nello Stato mantengono proprio


autogoverno, proprio potere fiscale, propria potestà statuaria. Non c’è un
unico sistema di regole valide per tutti (arriva solo dopo le Rivoluzioni atlantiche).

Queste premesse devono introdurci a cambiare idea rispetto a immagini di Stato e


di sovrano assoluto che decide del presente e futuro dei propri sudditi. Il sovrano
infatti non domina su uno spazio compatito, bensì tutela i diritti diversi sui diversi
ordinamenti amministrando la giustizia. Il sovrano è giudice.

MICHAEL OAKESHOTT: L’ANALISI DEL POTERE POLITICO COME


ESPRESSIONE DI UNA COMUNITÀ
Per quanto riguarda la natura del potere del sovrano territoriale, che abbiamo detto
essere sopratutto giurisdizionale e di sovrano-giudice, appiano molto pertinenti gli
studi di Michael Oakeshott (1901-1990), filosofo politico inglese i cui studi
riguardano sopratutto il rapporto tra uomo e potere.

Tale analisi offre la possibilità di osservare il rapporto potere-comunità da due


diversi punti di vista:

• Statico.

• Dinamico.

Dal punto di vista statico, possiamo trovare:

1. Stato-Societas: è quella forma (Verfassung) in cui chi governa aspira “solo” a


mantenere in equilibrio e tutelare “solo” i diritti dei copri sul territorio. Nello
Stato-Societas la funzione prevalente è la funzione giudiziaria che trova nel
sovrano il giudice.

2. Stato-Universitas: è quella forma in cui chi governa aspira a “sintetizzare” con i


propri atti la volontà comune, cioè omologare ed estrarre dal tutto una sintesi
condivisa. Il sovrano allora tutela i diritti dei singolo. Nello Stato-Universitas la
funzione prevalente è la funzione legislativa che trova nel Parlamento l’organo
centrale dal quale estrarre legittimazione.

In termini di ideal-tipo, possiamo dire che lo Stato territoriale è lo Stato-Societas,


mentre lo Stato contemporaneo è lo Stato-Universitas.

Dal punto di vista dinamico-storico il paradigma di Oakeshott ci racconta la storia


del “divenire dello Stato” nella irrisolta tensione tra particolarismi (Societas) e
unità (Universitas). Ci racconta la vicenda dello Stato da Premoderno a
Parlamentare.

L’evoluzione da Stato-Societas a Stato-Universitas non è cosi scontata. Per


accorgersene basterebbe volgere lo sguardo verso altri quadranti del mondo,
infatti l’evoluzione dello Stato non procede in maniera unilineare e progressiva,
ma a scatti e con battute d’arresto.

IL PARADIGMA DI OAKESHOTT
Al di là dell’aspetto dinamico strictu sensu, su cui ritorneremo, ci aiuta a capire una
cosa importante sul funzionamento dello Stato: per lungo tempo a nessuno era
venuto in mente di dire che per molti secoli la “nostra storia” l’esercizio del potere
di comando sul territorio non fosse la legislazione, cioè la scrittura/imposizione di
nuove leggi da parte di un sovrano.

Bensì la giurisdizione, cioè l’amministrazione della giustizia, è più particolare nella


iurisdictio. Può sembrare osservazione banale, ma a lungo molti hanno pensato
che per governare - da sempre - gli uomini avessero imposto proprie leggi sul
territorio: non è cosi, e Oakeshott ci aiuta a comprendere tale osservazione.

IL POTERE COME IURISDICTIO


Solo ad un punto molto avanzato della nostra storia, dalla metà Settecento
troviamo sovrani che consapevolmente vorranno rido riordinare il proprio stato
scrivendo ex novo proprio leggi. Fino ad allora nessun sovrano pensò di creare
un nuovo sistema di regole nuove. L’obiettivo fu, a lungo, centrato sulla tutela
dei dritti dei corpi già esistenti.

Si tenga inoltre presente che la natura del potere del sovrano comporta importanti
“ricadute”:

A. Di tipo concettuale.

B. Di tipo costituzionale.

GLI ASPETTI CONCETTUALI E CULTURALI


Abbiamo detto che il sovrano governa giudicando, cioè valutando caso per caso
quale diritto di quale corpo applicare. Da questa concezione deriva la concezione
coeva del potere sovrano come iurisdictio (letteralmente “dire il diritto”). Il sovrano
giudice, per i giuristi bassomedievali e moderni ha un potere che viene denominato
iurisdictio: una funzione giuridica che applicava al sovrano poteri che nell’impero
erano dei giudici, legando il potere di comando (imperium) al potere di giudicare.

Si confrontino a proposito le parole di Bartolo da Sassoferrato (1314-1364) che


sosteneva che “Iurisdictio et potestas idem sunt”. Letteralmente: la facoltà di
“dire il diritto” e il potere di comandare sono la medesima cosa, originando un
potere da risvolti ora politici, giurisdizionali e costituzionali.

Se questa idea del potere come Iurisdictio, dl potere di dire il dirotto, come
massima del potere nello Stato e come potere del sovrano, si “attiva” nel Basso
Medioevo. Essa è ancora centrale nella visione costituzione dei coevi nel pieno
dell’età moderna: Jean Domat, uno dei più noti giuristi di Luigi XIV, nel regno del
Re Sole affermava che: “tra i diritti del sovrano, il primo e più importante, il
fondamento dell’ordine pubblico è il diritto di amministrare la giustizia”.

Insomma dobbiamo assumere che il sovrano non è assoluto non ha poteri di


prevaricare gli altri ordinamenti: il sovrano è giudice. Di più, giudici e sovrani
secondo la cultura del periodo, esercitavano lo stesso potere.

Tommaso d’Aquino, a metà del Cinquecento, affermava che:

- Il giudice emette una sentenza per le parti;

- Il sovrano emette una sentenza per la comunità.

La Iurisdictio però è il potere del sovrano di dire il diritto, NON il potere di fare
le leggi. È il potere dichiarativo di applicare le regole del diritto preesistente, dal
momento che il sovrano non innova il sistema ma semplicemente lo mantiene in
equilibrio.

LA CONCEZIONE DEL POTERE COME IURISDICTIO


È molto un’importante da molti punti di vista:

A. Anzitutto, dal punto di vista delle pratiche del governo crea l’idea (moderna)
che chi governa non sia investito di un potere assoluto ma di un potere che è
legale perchè finalizzato ad applicare un diritto che lui giudica più giusto.
Inoltre, e cosi possiamo alle ricadute “costituzionali”.

B. Tale concezione innesca pratiche legate all’esercito del potere che produrranno
la nascita di nuove istituzioni politiche fondamentali per l’evoluzione del potere
statuale.

Alla base di queste pratiche “propulsive” che sospingono l’evoluzione della forma-
Stato sta la logica secondo la quale:

1. Se il potere del sovrano si sostanzia, come quello del giudice, nell’applicare il


diritto (o come i diritti) preesistente.

2. Allora l’esercizio del potere del sovrano deve prevedere pratiche che - come
avviene per i giudici - rendano “partecipi” del giudizio le parti in causa.

DUE RUOLI NON IN CONFLITTO


Come il giudice in un tribunale mette a confronto le parti per comunicare loro la
sentenza e prima ancora le ascolta per acquisire le prove, cosi il sovrano della
prima età moderna, nell’esercizio dei suoi poteri politici deve in qualche modo
coinvolgere i destinatari dei suoi comandi, in una logica di condivisione del potere.

Il altri termini, il potere come Iurisdictio porta con sè l’idea che quel potere sia
“condiviso” con i destinatari del comando. Preme però sottolineare che questo
non è soltanto un aspetto culturale o teorico, ma anche profondamente pratico.

Realmente, e per tutti, in quei secoli gli atti dei sovrani per essere legali dovevano
essere legittimati dalla presenza dei destinatari di tali atti: in caso contrario, l’atto
non era legale.

Ne deduciamo che il potere del sovrano è potere di dire il diritto. Tale potere deve
essere legittimato con la partecipazione dei destinatari del comando; solo cosi tale
comando era accettato da tutti i soggetti sul territori, cioè ogni atto politico del
sovrano doveva essere “processualizzato” come avveniva, secondo un iter simile
alla sentenza del giudice in tribunale.

Insomma, la logica di fondo è contenuta nel celebre brocardo del tempo: “Quod
omnes tangit ab omnibus aprobari debet” (letteralmente: ciò che tocca tutti, da
tutti deve essere approvato).

Questa logica vale a dire il bisogno del principe di chiamare a sè le parti per
validare i suoi atti, per legittimare gli atti politici. Cosi facendo, produce un
meccanismo costituzionale:

A. Che genere un nuovo criterio di partecipazione politica.

B. Che introduce la logica della rappresentanza.

C. Che porta alla nascita di istituzioni politiche “nuove”, funzionali all’esercizio di


tali pratiche.

Insomma, generò l’idea (moderna) che il potere dello Stato non corrisponde al
diritto di supremazia di un uomo su altri uomini.

Il potere del sovrano allora è il potere di applicare un diritto già esistente, il che
implica che l’esercizio di tale potere richieda la “partecipazione” degli altri soggetti,
dei destinatari degli atti del principe.

Questa logica produce anche nuove istituzioni politiche atte ad accogliere “gli altri”
al cospetto del principe. Tali istituzioni sono l’evoluzione delle antiche
assemblee feudali che anche nel Medioevo senza-Stato erano sempre esistite
per far funzionare i diversi ordinamenti che abbiamo visto. Erano a quell’epoca
poco più assemblee dove si riunivano il signore e i suoi consanguinei per prendere
decisioni più importanti.

CON LO STATO TERRITORIALE


La pratica di condivisione/partecipazione al potere diventa ineludibile. Le
assemblee dei consanguinei si aprono a nuovi soggetti che sono gli interlocutori
del signore: i ceti e i corpi territoriali più forti. Queste assemblee saranno
istituzionalizzate e, pur con diverso peso specifico, diverranno istituzioni costituiva
della nuova Verfassung statale.

Queste assemblee:

• Cosi irrobustite dal punto di vista costituzionale.

• Cosi allargate dal punto di vista della partecipazione.

• Cosi importanti dal punto di vista “politico”

In termini generali noi le chiamiamo protoparlamenti.

Capitolo 10
Sarà oggetto di questo capitolo lo studio della natura delle fonti del diritto
prima delle codificazioni modernamente intese, tenendo presente che prima
degli inizi dell’Ottocento tutti gli ordinamenti giuridici generali si caratterizzano per
l’esistenza di una pluralità di fonti giuridiche aventi diversa origine e ampiezza
applicativa.

Questa analisi servirà per conoscere, approfondire e padroneggiare quali e quante


fossero le regole che chi si trovava al “vertice” di comando doveva fare applicare.
Tenendo ben presente, lo abbiamo detto, che nessuna innovazione nelle pratiche
di governo pareva contemplata, restando ben saldo il puntello della consuetudine
e della conservazione.

Le fonti del diritto che indagheremo sono:

1. La consuetudine.

2. Gli statuti locali che suddivisa o in tre tipologie -> cittadini, corporativi e rurali.

3. La legge del Principe.

4. Il Diritto romano.

5. La Giurisprudenza giudiziaria.

Ricordiamo che l’ordine esposto è un ordine gerarchico di importanza ed esso


rispecchia anche un sedimentarsi storico delle diverse tipologie di fonti del corso
dei secoli. Questo ordine rappresenta un ordine inverso rispetto allo stato
contemporaneo:

A. Oggi in un ordinamento statale le fonti più in alto è la costituzione, cioè la legge


costitutiva della comunità statale.

B. Subito sotto la legge dello stato (prodotta dal parlamento).

C. All’ultimo posto, in maniera residuale, la consuetudine, oggi detto uso civico.

Infatti oggi, a partire dal 1804 in avanti, la regola generale è prima di tuto il diritto
positivo cioè posto da qualcuno, ossia lo Stato. Fino al 1804 la regola generale era
prima di tutto e per tutti il diritto “trovato” sul territorio, lo ius inventum, ossia il
diritto non posto da qualcuno, bensì le regole prodotte dalle cose, dal tempo e nel
tempo.

In particolare la logica applicativa delle fonti era che le regole prodotte da qualche
signore o dai reges o da qualche città, acquisiva vigenza perchè qualcuno (signore,
reges o città) esiste e ha “posto” quel sistema di regole.

I coevi dicevano: “se quel soggetto non fosse esistito, quelle regole non ci
sarebbero state”.

Allo stesso modo, i coevi sostenevano che le regole consuetudinarie prodotte dalle
cose, legate al territorio e poste non si sa da chi in particolare ma sono dotate del
carattere vincolante dalla convinzione comune sedimentatasi nel tempo
avevano valore superiore a tutto in quanto prodotto in ultima analisi della natura.

La consuetudine per giuristi e politici del tempo era lo ius inventum per
eccellenza, il diritto trovato, il diritto più bello e straordinario di applicare.

LA CONSUETUDINE
È la fonte tipologicamente più antica. Gioca un ruolo di primissimo piano per lungo
tutta l’età moderna. Si ricordi che molte delle norme scritte prodotte partire dal
Basso Medioevo altro non sono che la formalizzazione di regole consuetudinarie
già in vigore. Parafrasando l’efficacia metafora di Paolo Grossi: la consuetudine
non è altro che un sentire in un bosco, un’infinità di passi costantemente ripetuti
nel tempo.

GLI STATUTI LOCALI


Si tratta di documenti che rivestono estremo interesse in Italia e nelle altre zone
dell’Europa occidentale interessate dallo sviluppo della civiltà urbana. Come
abbiamo già avuto modo di vedere, possiamo elencarne almeno tre tipologie
principali:

A. Gli Statuti cittadini.

B. Gli Statuti corporativi.

C. Gli Statuti rurali.

A. GLI STATUTI CITTADINI


Si tratta di documenti prodotti dagli organi di governo cittadino. Si applicano ai
membri della comunità cittadina e (almeno in parte) a tutti coloro che abitano nel
Contado o Distretto della città stessa. Possono tuttavia essere molto articolati,
regolando la struttura costituzionale e le materie relative alla vita sociale, ossia
i commerci, le successioni, le doti, i contratti, la “polizia” interna alla città, alcuni
settori del diritto penale.

Oltre e accanto agli Stati Generali del comune, troviamo anche una serie di testi
statuari generali: generalmente corrispondo alle varie magistrature addette
all’amministrazione della comunità cittadina (annona, lavori pubblici, tesoro e
contabilità, igiene, finanze e tributi).

Gli statuti cittadini, in termini di storicità, sono percepiti come fonti del diritto a
partire da quando le città e ordinamenti consimili assumono un ruolo nuovo e
importante nel panorama politico e costituzionale di quei secoli.

B. GLI STATUTI CORPORATIVI

Si tratta di statuti prodotti dalle singole corporazioni artigiane. Le norme ivi indicate
sono vincolanti per i membri rispettivi di ciascuna corporazione. Riguardano in
particolare i rapporti di produzione e di lavoro propria di ciascuna corporazione.

Questi statuti facevano riferimento a questo insieme di regole che vanno da


corporazione a corporazione quando nel capitolo sulla città abbiamo parlato di
conglomerato di corpi e ai molti, moltissimi statuti corporativi che vigevano
all’interno della città.

Dunque anche lì, in città, come nello Stato il soggetto di vertice, chi governava la
città (persona giuridica) doveva (si sentiva obbligato a) applicare a ciascuna
corporazione le regole dettate dal proprio statuo.

La spietata gerarchia cittadina, ossia la soggezione delle singole corporazioni ai


governanti, stava nel fatto che le regole erano dello statuto corporativo a il giudice
che applicava quelle regole era un uomo scelto dai governanti.

C. GLI STATUTI RURALI


Si tratta di documenti prodotti delle comunità rurali autorizzate. Essi regolano
prima di tutto le materie relative all’economia campestre (utilizzazione delle risorse
collettive, rotazione delle colture, etc). In età moderna, nell’Italia centro-
settentrionale, molte comunità rurali di medie dimensioni tendono ad avere statuti
tipologicamente simili a quelli delle comunità urbane. Ovviamente le loro norme si
applicano ai soli membri della comunità rurale.

D. LA LEGGE DEL PRINCIPE


Pur acquistando sempre maggiore forza a partire dal Quattro-Cinquecento fino al
Settecento manterrà un aspetto farraginoso e frammentario. Solo in Francia vi è
nozione, prima dell’Illuminismo, di qualche tentativo di creare dei corpus
normativi unitari di diritto regio per materie.

A partire dal Settecento la legge del Principe comincerà ad assumere un ruolo


sostitutivo rispetto a tutte le altri fonti dell’ordinamento. La legislazione del re
riguarda sopratutto materie di caratura politica:

• Organizzazione degli uffici e delle magistrature.

• Repressione penale.

• Rapporti fiscali e finanziari.

• “Polizia” generale del Regno.

• Procedura civile e penale.

E. IL DIRITTO ROMANO RISCOPE


Se durante l’Alto Medioevo il diritto romano aveva continuato a sopravvivere come
fonti del diritto, ma con inevitabili “volgarizzazioni” e semplificazioni fattuali.
Nell’Italia Settentrionale del XII secolo esso viene “riscoperto”, diffondendosi poi
gradualmente in tutto l’Occidente (con alcune significative eccezioni: Francia,
Inghilterra, città di Venezia).

LA RISCOPERTA DEL DIRITTO ROMANO


Paolo Grossi in “Sul carattere delle scienza giuridica tardomedievale” sottolinea
che la prima volta che compare una citazione del Digesto risale al 1076 in una
carte giudiziaria proveniente dall’area della Toscana. Quello che fin qui abbiamo
chiamato troppo vagamente “diritto romano” è il diritto romano cosi come viene
consolidato dall’Imperatore Giustiniano, nella prima metà del VI secolo d.C.

Si tratta di un maestoso monumento: il Corpus Iuris Civilis.

IL CORPUS IURIUS CIVILIS


Anche detto Compilazione di Giustiniano è una grande raccolta di norme di varia
natura fatta redigere da Giustiniano, Imperatore d’Oriente tra il 529 e il 534 d.C al
fine di evitare che la monumentale tradizione giuridica classica andasse perduta.

Esso si articola in tre parti:

1. Il Digesto che corrisponde alla antica “giurisprudenza” romana.

2. Il Codice che raccoglie una parte della legislazione promulgata dagli


Imperatori.
3. Le istituzioni che sono una manuale elementare per l’insegnamento del diritto
nelle scuole.

La riscoperta del Corpus Iuris Civilis tra l’XI e il XII secolo, per i giuristi dell’epoca,
non rappresenta soltanto la possibilità di attingere ad uno “scrigno inesauribile”
per arricchire il proprio lessico giuridico: questa monumentale compilazione
rappresentava un modello finalmente autorevole e quindi universalmente
condivisibile. Infatti, proprio la sua caratteristica di modello autorevole garantiva
altresì l’osservanza generale.

I luoghi deputati allo studio del Corpus furono innazitutto le università. Infatti, esse
divennero a partire dal XII secolo in poi centri di elaborazione di una nuova
“tecnologia della giustizia”. Questa nuova generazione di giuristi che si
formavano nelle università erano per lo più interpreti del diritto antico.

Con il termine interpretatio qui, intendiamo con Grossi, più che il significato di
interpretazione, quello di intermediazione tra legge antica e fatti nuovi a cui essa di
volta in volta era applicata.

Infatti la civiltà urbana bassomedievale era fondata sui rapporti socio.economici


molto più complessi di quelli dell’età feudale. Necessitava di strumenti legali
molto più evoluti di quelli offerti dal diritto consuetudinario proprio nei secoli
precedenti. Di qui, il ricorso al diritto romano, che in forza di modello generale e
universale, offriva uno armamentario giuridico più completo rispetto a quello dei
singoli ordinamenti. Tendenzialmente capace di coprire tutte le evenienze della
vita.

Tuttavia la società dell’epoca non disponeva di un “legislatore” centrale


politicamente e culturalmente capace di produce un diritto generale. Allora la
nuova civiltà affidò questo compito a delle altrettanto nuove figure: gli intellettuali
formatisi nelle aule delle università.

A costoro infatti presero l’abitudine di rivolgersi i giudici, gli avvocati, i notai che
fronte ad ogni controversi o caso pratico non risolvibile in base alle norme reperibili
nei singoli ordinamenti, necessitavano di ricorrere a un diritto più completo e
uniformabile, comune.

LA SECONDA VITA DEL DIRITTO ROMANO


In questo modo allora l’antico diritto romano tornò poco a poco ad essere a tutti
gli effetti diritto vigente. Grazie all’intermediazione dei giuristi medievali che
vennero adattando i vecchi contenuti alle esigenze della nuova prassi.

È molto importante notare però che il diritto romano si diffuse su gran parte
dell’Europa Occidentale, non in virtù di una qualche autorità politica interessata ad
importante l’osservazione. Bensì grazie a un’esigenza spontanea della società, che
trovò in esso il modo più pratico per appagare i propri nuovi bisogni.

IL DIRITTO ROMANO COME ESIGENZA SPONTANEA


Propria questa richiesta spontanea, dal basso, da parte della società coeve, e la
natura giurisprudenziale del diritto romano come raccolto e organizzato da
Giustiniano nel VI secolo fu alla base di uno straordinario successo del Corpus
Iuris Civilis nel bassomedievo e per tutta la prima età moderna.

I vari reges medievali e della prima età moderna, infatti, ravvedevano in quel
sistema di regole proveniente dall’età classica (anche se organizzate da
Giustiniano nell’alto Medioevo) una forma di ius inventum: cioè di “diritto trovato”
e non posto da alcuno (tanto meno da qualche sovrano omologo).

Il diritto romano allora potè diffondersi nella indifferenza dei sovrani di quei secoli
che non intesero come diritto posto da qualche altro sovrano con cui mettersi in
competizione ma, giustamente, come diritto consuetudinario messo per iscritto e
sistematizzato dai giuristi e dai giudici.

LA DOTTRINA GIURIDICA E LE SUE FORME


Dato che lo abbiamo visto, ad essere recepito come diritto vigente non fu
realmente il diritto romano, quanto piuttosto l’interpretazione che ne diedero i
giuristi al punto che sarebbe più corretto parlare di un diritto dottrinale fondato
sul diritto romano piuttosto che di diritto romano tout court.

1. Il periodo dei glossatori (XII-XIII secolo): la forma tipica della produzione


giuridico-letteraria è la glossa marginale al Corpus Iuris Civilis.

2. Il periodo dei commentatori (XIV-XV secolo): la forma tipica della produzione


giuridico-letteraria è il commento al Corpus Iuris Civilis.

3. Il periodo della giurisprudenza consulente (XV-XVIII secolo): la forma


prevalente della produzione giuridico-letterarie è il parere legale fondato sul
Corpus Iuris Civilis.

Se ne deduca allora che ciò che viene utilizzato e citato nella comune vita forense
non è mai l’originale norma romana, che sopratutto a partire dal Cinquecento
ormai pochi conoscevamo davvero. Bensì, l’interpretazione di essa era data da
autorevoli giuristi.

Ma qual’è allora la posizione del diritto romani rispetto alle altre fonti del diritto?
Anzitutto si tenga presente che il diritto romano è sempre una fonte integrativa e
sussidiaria rispetto a tutte le altre e ad esso si ricorre, solitamente, quando vi siano
altre norme entro i singoli ordinamenti capaci di regolare il caso controverso.

Infatti, la sua ragion d’essere sta nel riempire gli spazi lasciati vuoti dagli
ordinamenti giuridici minori.

F. LA GIURISPRUDENZA GIUDIZIARIA
A questo proposito si tenga presente che fino al Cinquecento questa fonte del
diritto non ha un peso rilevante nell’Europa continentale e a “far diritto” era il
parere del giurista universitario, non quello del giudice, che molto spesso non
possiede una specifica cultura legale (è “indotto”).

La svolta avviene con il consolidati dei primi apparati giudiziari propriamente


statali, al cui vertice sta sempre un grande tribunale:

- La Rota Romana

- La Rota Fiorentina

- I Parlements francesi

- Il Senato milanese o quello piemontese

- Il Reichskammergericht tedesco

L’interpretazione del diritto (consuetudinario, romano o regio che sia) è offerta da


questi organismi, acquista rapidamente grande peso sia perchè si tratta di istanze
di ultimo appello nell’ambito di ogni ordinamento statale e sia perchè i loro
componenti erano caratterizzati da una grande autorevolezza.

Prima di chiudere questo capitolo occorre fare una riflessione circa la graduazione
delle fonti negli ordinamenti premoderni: infatti essa si ispira prevalentemente ad
un criterio del tutto diverso rispetto a quello che governò il rapporto tra le fonti del
diritto nell’ambito degli ordinamenti (interamente statalizzati) di oggi.

Mentre attualmente la gerarchia delle fonti si fonda sulla prevalenza della norma
di grado superiore rispetto alla norma di grado inferiore. Vale a dire: la prevalenza
della Costituzione sulla legge, la legge del regolamento, il regolamento sulla
circolare. Negli ordinamenti premoderni il principio base è quello della prevalenza
della norma speciale sulla norma generale.

Si comprenderà allora che in età premoderna si considera:

1. Speciale la norma con raggio di applicazione più ristretta.

2. Generale la norma con raggio di applicazione più ampia.

Data questa premessa, il giudice cerca sempre parer prima la norma a lui più
“vicina” (la consuetudine o lo statuto locale) e solo sussidiariamente ricorre al
diritto romano.

Inoltre per la legge del principe o lo statuto della città si applica solitamente lo
stesso criterio: esse cedono nel concorso con norme gerarchicamente inferiori ma
di applicazione più specifica, salvo che (cosa che avviene molto spesso) essa non
rechi clausole espresse che dichiarano la sua prevalenza su ogni altra norme di
contenuto contrastale.

Concludendo questo, dunque, il panorama delle regole, norme e leggi che il


sovrano giudice si trovava a dover esplorare quando per governare/comandare
doveva dire il diritto ossia amministrare i diritti dei corpi.

Il sovrano giudice non attiva un sistema democratico.

Sia chiaro che il sovrano giudice non è il sovrano contemporaneo che crea un
sistema democratico:

1. La sua natura tutoria è tale che egli cerca di intervenire il meno possibile
lasciando che i conflitti si sì rollano tra gli ordinamenti coinvolti.

2. Quando interviene non altera le gerarchie degli ordinamenti sul territorio e i


privilegi che su questo esistono.

Anche se la pratica di condivisione/partecipazione al potere diventa ineludibile.

Capitolo 11
Lo Stato, il “nostro” Stato, non è assoluto ma tutore dei soggetti che assorbe e
fagocita. Abbiamo allora allontanato l’idea di uno Stato assoluto retto da un
sovrano unico detentore del potere. Al contrario, fin dal momento della nascita
dello Stato, il sovrano si presenta ai suoi sottoposti come tutore - come giudice -
che fa rispettare i diritti diversi di tutti i diversi ordinamenti che assoggetta.

Si ricordino a tal proposito gli esempi della Toscana e della Bretagna, duce casi
estremamente diversi se si tengono in considerazione le rispettive dimensioni e la
distanza geografica, ma per questo ancora più provanti quanto stiamo dicendo:

A. Lo Stato ha una costituzione plurale anche dal punto di vista giuridico.

B. Il sovrano è un giudice-tutore.

A conferma della natura tutoria del sovrano si rimanda all’analisi offerta da


Oakeshott che rappresenta un modello statico di due ideal-tipi di Stato costruiti in
base alla natura del potere più importante all’interno dello Stato stesso:

1. Lo Stato-Societas
2. Lo Stato-Universitas
I due ideal-tipi di Stato:

• Lo stato-Societas: chi governa ha aspirazione a mantenere in equilibrio i diritti


degli altri ordinamenti. Qui il potere prevalente è quello giudiziario del sovrano-
giudice. La conferma è offerta dai patti di capitolazione.

• Lo Stato-Universitas: chi governa aspira a sintetizzare con i propri atti gli


interessi di tutti (dove per tutti si intende una comunità di singoli): intende
dunque rispettare la volontà comune. Qui il potere prevalente è quello legislativo,
il cui organo è il parlamento.

Questa riflessione di Oakeshott è molto importante per noi: perchè?


Perchè dati questi due ideal-tipi, possiamo vedere confermata la nostra ipotesi di
stato plurale e del sovrano-giudice. Secondo Oakeshott:

A. Lo stato territoriale è Stato-Societas

B. Lo stato contemporaneo è Stato-Universitas.

Il nostro stato è intrinsecamente plurale: è costituzionalmente plurale.

Per quanto attiene la natura intrinseca del sovrano, il paradigma di Oakeshott ci


conferma un aspetto fondamentale e cioè che per buona parte della storia
moderna comandare significa giudicare. L’esercizio del potere di comandare non
solo non era quello di legiferare (scrivere nuove leggi) bensì di giudicare, ossia il
potere era identificato totalmente con la giurisdizione.

Il sovrano-giudice allora funzionava come istanza di equilibrio tra tutti gli


ordinamenti “contenuti” nello Stato e agiva come un giudice e come un tutore di
tali sistemi di diritti particolari.

Tuttavia due precisazioni sono necessarie:

1. Quello che abbiamo offerto dello Stato, è un’immagine stilizzata, che


ricondotta sul piano della realtà effettuale non deve darci trascurare stagioni in
cui nei diversi quadranti geografici occidentali non affacciati alla storia Stati e/o
sovrani dalla vocazione assoluta.

2. Lo Ius dicere come potere di dire il diritto preesistente dove il “nostro” Sovrano
non poteva (nè voleva) scrivere nuove regole ma applicare quelle preesistenti
attingendo ai diversi ordinamenti e anche quando scriveva regole lui stesso, si
trattava per lo più di una messa per iscritto di consuetudini secolari o
comunque necessarie a coordinare i diversi sistemi di regole sul territorio.

Una tale configurazione del potere era densa di ricadute sul piano istituzionale
dall’equiparazione del potere sovrano al potere del giudice. Infatti discendeva la
conseguenza che gli atti costituzionale del sovrano fossero sottoposti a “vincoli”: a
procedure di natura processuale. Prima tra tutte quella del contraddittorio
necessario.

Si noti che tali atti del sovrano-giudice dovevano soddisfare la regola - che acquisì
presto valenza politica - che ciò che riguarda tutti deve essere da tutti
ascoltato e approvato.

La densità istituzionale invece stava nel fatto che la necessità di soddisfare tale
principio imponeva al sovrano di convocare al proprio cospetto tutti i potenziali
interessati prima di assumere decisioni di carattere generale che potesse in
qualche modo incidere sui loro diritti.

Tale pratica serviva a validare gli atti politici del sovrano, cioè a verificare la
conformità di tali atti ai diritti dei corpi presenti nello Stato.

La densità istituzionale a cui si faceva riferimento:

A. Produsse anche nuove istituzioni.

B. Diede nuovo significato e dimensione a quelle talvolta già esistenti.

Infatti dalla necessità del sovrano di “condividere” alcune scelte con i corpi si
produssero quelle istituzioni rappresentative a base cetuale che vediamo operare a
fianco dei sovrani dall’età tardo-medievale in avanti.

Infatti è generalmente ammesso che lo sviluppo del sistema rappresentativo sia


uno dei fenomeni più caratteristici del Medioevo. Inoltre è largamente riconosciuto
che nello schema generale dell’evoluzione degli stati europei, fra l’età feudale e
quella monarchica assoluta e intercorre un periodo di quasi costituzionalismo di
sperimentazione, per la prima volta nella storia, con istituzioni rappresentative.

Queste assemblee erano sorte, quando nel mezzo del declino del feudalesimo, il
principe era impegnato (più o meno consapevolmente) nella costruzione di uno
Stato territoriale più unificato e efficacemente organizzato, ma non era ancora
abbastanza forte da procedere in maniera autocritica. Egli allora appoggia il
bisogno di assicurarsi l’appoggio e la collaborazione delle classi politicamente
attive della popolazione.

Quanto ai nobili quando non furono più in grado di governare indipendentemente


nei loro domini locali. Poterono ancora sperare di gestire un ampio potere nei
confronti del ceto inferiore attraverso un’organizzazione corporata ed un’azione
collettiva. Inoltre dovevano avere a che fare con l’emersione prepotente della
nuova classe sociale cittadina che aveva importanti interessi economici da
difendere e sempre più spesso si ha un’ambizione ad avere voce nei pubblici affari.

Si deduce allora che tra il sovrano da un lato, e i ceti egemoni dall’altro,


sembrava allora che fosse stato raggiunto un certo equilibrio. Si rendevano allora
necessarie collaborazione e mutue concessioni.

Si consolida allora la pratica della consultazione attraverso i “parlamenti”. Tali


consultazioni nella maggior parte dei paesi appaiono come una sorte di sviluppo
della curia regis.

Capitolo 12
Le istituzioni che noi abbiamo definito protoparlamenti sono istituzioni collegiali
evoluzione di piccole assemblee feudali che col tempo accolgono un discreto
numero di soggetti. Col tempo questo ampliamento a cui si accennava avvenne
mediante la convocazione “al centro” al cospetto del principe, non a titolo
personale, bensì in quanto appartenenti ad un ceto, o meglio in quanto
rappresentanti di un ceto.

Questi rappresentanti non erano scelti a caso ma “oculatamente” ceto per ceto, e
naturalmente, corpo per copro perchè in generale non c’erano solo ceti ma anche
“rappresentanti” di altri “poteri forti” sul territorio, cioè le città.

LA COMPOSIZIONE DEI PROTOPARLAMENTI


Da gruppi indistinti di soggetti “collaboratori” del principe in poco tempo
assumono una configurazione più definitiva:

A. Gruppi di altissimi signori convocati dal principe a titolo personale in eredità e


ossequio per le loro origini feudali.

B. Gruppo di “rappresentanti” del clero.

C. Gruppo di “rappresentanti” della piccola-media nobiltà: uno o due


rappresentanti per città privilegiata e uno o due rappresentanti per “copri”
morali privilegiati.

D. Gruppo rappresentanti dei “borghesi delle buone città”.

Perchè queste sessioni della curia Regis “allargata” potessero evolversi in


protoparlamenti era necessario:

• Che la consultazione di tutti i ceti egemoni, specialmente dei cittadini, acquisisse


una qualche forma di regolarità.

• Che la consultazione di tutti i ceti si consolidasse nell’immaginario collettivo


come passaggio vincolante per conferire legalità agli atti pubblici del sovrano.

Inoltre era necessario:

• Che le modalità di rappresentanza relative alla consultazione dei ceti


assumessero via via delle forme più fisse.

• Che queste assemblee, anzichè essere chiamate semplicemente ad acclamare le


decisioni già prese del principe, fossero ammesse ad un’effettiva collaborazione.

Dunque queste assemblee assumono presto configurazione che riproduce la


composizione cetuale dello Stato attraverso la presenza di tanti gruppi quanti sono
i principali poteri forti dentro lo Stato. Naturalmente secondo logica cetuale e
secondo gerarchia cetuale.

Per questo lo Stato della prima età moderna viene definito stato per ceti perchè
funziona grazie alla combinazione del potere sovrano (giudice) con quello dei ceti
(aventi parte) riuniti nel Protoparlamento.

PROTOPARLAMENTO
Lo abbiamo detto, è una nostra etichetta, che intende riunire un amplissimo
concetto che copre tutto l’occidente con diverse denominazioni:

- Stati generali;

- Stamenti;

- Cortes;

- Diete;

- Duma;

- Parlamento.

IL MECCANISMO DELLA RAPPRESENTANZA


Per osservare tale meccanismo, osserviamo in particolare che nel divenire dello
Stato protomoderno o moderno, queste istituzioni, i Protoparlamenti, assumono
una marcata valenza rappresentativa. Generalmente in tutti gli stati del periodo i
certi erano rappresentati:

A. Clero

B. Nobiltà

C. Uomini delle città e del contado.

Inoltre, quasi ovunque i partecipanti a quelle assemblee erano eletti dal loro ceto di
appartenenza.

A. IL CLERO
Era rappresentanti nella maggior parte dei casi: da alti prelati che sedevano nelle
assemblee iure suo (per un diritto loro proprio). Come detto, deputati eletti in
rappresentanza dell’intero copro ecclesiastico si ritrovano in pochi esempi, gli Stati
Generali francesi e le Diete di Norvegia e Svezia.

B. LA NOBILTÀ
Generalmente ciascun membro di questo ceto aveva diritto a partecipare alle
assemblee. I difetti di tale sistema erano numerosi, il più evidente era che i
parlamenti finivano invasi da sciami di signori di campagna, parzialmente in rovina,
pronti spesso a vendere il proprio voto al maggior offerente. Tuttavia il pregiudizio
che tutti i nobili dovessero partecipare era talmente forte che raramente il
contrapposto sistema della rappresentanza della nobiltà attraverso deputati eletti
potè prevalere.

C. UOMINI DELLE CITTÀ E DEL CONTADO


I delegati delle città furono gli ultimi ad essere selezioni mediante modalità elettive,
essendo prima l’elezione surrogata da tali modalità:

• Dall’invio ex officio di alcuni dignitari locali.

• Dalla scelta dei rappresentati da parte del consiglio municipale.

• Dalla designazione dei rappresentanti mediante sorteggio.

• Dalla nomina - più o meno mascherata - da parte del Sovrano.

• Anche nelle città nel pieno dell’età protomoderna i rappresentanti delle città
erano prodotto di una selezione di forma elettorale.

In generale, storicamente, è stato osservato che da un’assemblea feudale


indistinta si passò a un unica assemblea - Protoparlamento - con
composizione definita come visto sopra. E da questo presto si giunse a una
divisione in più camere.

Un’assemblea perciò è divisa in diverse camere ciascuna delle quali era destinata
ad accogliere un unico ceto o comunque un unico corpo che condividesse diritti
giuridici e interessi politici (ceto o corpo).

Nella realtà storica si sono avuti:

A. Protoparlamenti bi-camerali
B. Protoparlamenti tri-camerali
C. Protoparlamenti quadri-camerali

Il caso più diffuso è quello tri-camerale: nobiltà, clero e terzo stato.

È il più diffuso, ma non l’unico possibile. Il motivo per cui da zona a zona si ebbero
configurazioni diverse, però, non è sempre chiaro.

Storicamente occorre anche ricordare che generalmente:

1. Le assemblee tri-curiali tendono a esaurirsi a favore di uno stato centrale ove


il potere sovrano è preponderante.

2. Le assemblee bi-curiali tendono ad accrescere il proprio peso politico e


conseguentemente dei ceti che le compongono e ad affermarsi come
istituzioni centrali di contropotere del sovrano.

Le divisioni in “tre” o “quattro” camere complicava l’esercizio del potere da parte


di queste assemblee e la loro collaborazione con il sovrano. Ciò dipendeva da:

1. Gli interessi di ceto discordanti.

2. Difficoltà a raggiungere l’unanimità tra i ceti partecipanti sulle questioni poste


dal sovrano.

1. Discordanza di interessi tra i ceti partecipanti: ciascuno ceto decideva sulla


base degli interessi dei propri componenti. Gli interessi di Clero e nobiltà
(entrambi privilegiati e quasi sempre esenti da imposte) spesso coincidevano,
mentre gli interessi del terzo stato su cui gravavano la maggior parte delle
imposizioni fiscali politiche e civili divergevano.

2. Le difficoltà di accordarsi su come prendere decisioni valide: a lungo ci si


domandò se fosse necessarie l’unanimità di tutti gli stati per approvare una
questione posta dal sovrano, che in mancanza di unanimità si trovava il ruolo di
decisore ultimo.

IL MANDATO OPERATIVO
Un altro elemento che connota in maniera peculiare queste assemblee e che ne
complicava ulteriormente il funzionamento è il mandato imperativo, ossia quel
rapporto vincolante che lega il rappresentante/delegato al corpo/ceto di
appartenenza che lo ha scelto/eletto. In estrema sintesi il rappresentante presso il
Protoparlamento doveva rigorosamente rappresentare/tutelare esclusivamente
l’interesse del ceto di appartenenza.

In particolare doveva tutelare l’interesse del collegio che lo aveva scelto all’interno
di quel ceto. In caso contrario il collegio (coloro che l’avevano eletto) aveva il
potere di revocargli il mandato. Inoltre, questo nesso strettissimo, tra
rappresentante/deputato/mandatario e il proprio territorio di appartenenza fare a si
che le questioni nazionali fossero messe in discussione sulla base degli angusti
interessi locali.

Infatti bisogna osservare che poichè lo Stato per ceti è espressione istituzionale
dell’ordine cetuale e territoriale, queste istituzioni cetuali centrali possono
spesso avevano derivazioni sul territorio come gli Stati provinciali in Francia
oppure i Landtagen nell’Impero tedesco.

Tornando ai Protoparlamenti centrali, occorre ricordare che qualunque sia la loro


configurazione e ovunque si trovino in Europa, sono mossi da:

A. Stessa logica giuridica.

B. Stessa logica costituzionale.

C. Stessa logica politica.

A. La logica giuridica risiede nel bisogno del principe - percepito come vincolante
- di applicare il principio del “Quod omnes tangit”.
B. La logica costituzionale risiede nel bisogno del principe - percepito come
vincolante - di condividere il potere con i ceti e nel bisogno del principe - percepito
come vincolante - di validare i propri atti nel Protoparlamento.

C. La logica parlamentare risiede nella necessità del principe - percepito come


vincolante - di avere il consenso dei ceti che riunisce nel Protoparlamento.

Questo bisogno condusse ad una evoluzione significativa di entrambi le parti.


Infatti il principe aveva bisogno di integrarsi con soggetti di un potere tale da
impegnare con le proprie decisioni tutto il loto corpo di provenienza. Insomma, ben
presto, i delegati dei diversi ceti assunsero “aspetto” e “ruolo” di rappresentanti
del corpo di provenienza. Solo cosi le loro scelte al cospetto del principe
sarebbero poi state accettate da tutti.

Solo cosi i rappresentanti/deputati/mandatari potevano far accettare a tutti gli


altri componenti del ceto/corpo le loro scelte al centro, nel Protoparlamento, al
cospetto del principe. Solo cosi le scelte del centro potevano irradiarsi senza
opposizione su tutto il territorio.

Sul versante cetuale la pratica della convocazione nel Protoparlamento portò allo
sviluppo di procedure di selezione atte ad i denti ficcare il deputato. Da parte del
principe si ebbe una progressiva accettazione, sopratutto si diffuse la pratica di
convocare questi Protoparlamenti.

Sul piano generale è attraverso questa pratica che entro fine XV secolo nasce una
sporta di rappresentanza pre-politica. In questo senso non è azzardato dire che: lo
Stato territoriale della prima età moderna ha inventato la rappresentanza.
Però, bisogna resistere alla tentazione di assimilare i Protoparlamenti ai Parlamenti
“moderni” e “contemporanei”. Molte sono le differenze tra i Protoparlamenti e i
Parlamenti contemporanei, tra le tante ricordiamo le più importanti:

- Non esprimevano interessi generali per giungere alla volontà comune, bensì
interessi corporativi.

- Non si riunivano in un unico consenso per discutere bensì si riunivano in “sale”


separate, spesso anche in città diverse, e lì decidevano, in autonomia dagli altri
ceti.

Di conseguenza, ogni ceto si pronunciava con un solo voto, espressione volontà


collettiva del ceto, e i ceti non avevano diritto di auto-convocarsi, cioè si
convocavano solo su ordine del principe politiche.

Tecnicamente:

- Ogni convocazione aveva storia a sé;

- Avveniva talvolta in città diverse;

- Solo in alcune zone si ebbe istituzionalizzazione: in molte parti i Protoparlamenti


esistevano come occasioni singole reiterate nel tempo.

Inoltre, vi era un fortissimo legame tra il delegato e il territorio dove vigeva il


mandato imperativo: per cui il corpo locale dava al delegato delle precise istruzioni
da rispettare alla lettera, in caso contrario, veniva rimosso. Quindi, lo ripetiamo di
nuovo: non vi era l’idea di una volontà comune da ‘costruire’ con la mediazione,
ma solo “egoismo di ceto”. Ogni ceto decideva ad esclusiva difesa del propri
interessi. La rappresentanza dei Protoparlamenti era di fatto una rappresentanza
non politica (come nello Stato-Universitas) bensì era una rappresentanza
procuratoria, cioè di tipo privatistico (dello Stato-Societas).

È vero, però, che con i Protoparlamenti e lo Stato per ceti si innesta nel processo
di organizzazione del potere un meccanismo che sarà alla base di tutti o quasi tutti
i sistemi fino a oggi, ovvero la rappresentanza. Esso rappresenta il principio
tecnico per il quale oggi – nello Stato-Universitas, nello Stato di diritto
contemporaneo – le leggi non le fa un unico soggetto ma una istituzione collegiale
i cui membri sono elettivi.

IL PRINCIPIO DELLA RAPPRESENTANZA

Il principio della rappresentanza è lo stesso (o quasi) di quello che condusse alla


nascita dei Protoparlamenti bi-tri-quadricamerali. Si sottolinea com’è il tipo di
rappresentanza ad essere diverso (rappresentanza di tipo politica diversa dalla
rappresentanza di tipo procuratoria e privatistica-corporativa), ma allo stesso
tempo, però, di fondo, c’è un principio valido allora come oggi: il potere del
comando è limitato e non assoluto.

I Protoparlamenti erano istituzioni il cui fine non era produrre e sintetizzare con
leggi nuove e innovative la volontà comune, bensì il fine era quello di tutelare le
antiche ‘libertà’ dei singoli corpi, i diritti dei singoli corpi senza nulla innovare nel
quadro di uno Stato che continuava – e continuò a lungo – a configurarsi come
stato plurale e giurisdizionale.

Si tratta comunque di istituzioni che:

1. Di cui tutti, a tutti i livelli della gerarchia cetuale, erano a conoscenza.

2. Tutti, a tutti i livelli della gerarchia cetuale, percepivano come necessarie e


vincolanti.

3. Che influenzarono molto l’evoluzione dello Stato in Occidente.

Al punto che non è azzardato affermare che la storia del potere, dello Stato, in
Occidente passa proprio attraverso l’evoluzione del rapporto tra Sovrano e ceti, tra
Sovrano e Protoparlamenti, dove naturalmente si hanno delle configurazione e dei
risultati diversi da zona a zona.

In effetti preme sottolineare che progressivamente i Protoparlamenti tentarono di


arrogarsi un vasto arco di funzioni. Questo tentativo si manifestava soprattutto
in periodi di profonda crisi e confusione politica.

Tra le materie che gli ceti reclamavano:

1. Le relazioni internazionali: volevano essere consultati circa la pace, la guerra


e le alleanze

2. La scelta dei consiglieri del principe

3. La nomina del reggente in caso di morte del re

4. La prescrizione di come andassero spese le tasse di cui accordavano la


riscossione.

Data l’enorme diffusione che ebbero queste istituzioni, si ebbe anche un forte
impegno della cultura coeva, della giuspolitica coeva per trovare giustificazione
costituzionale della presenza dei Protoparlamenti a fianco del Sovrano. Tale
giustificazione si trovò attorno a un’idea che pur presente da tempo nella cultura
politica, era poco invalsa perché non si poneva poca attenzione sul problema della
gestione del potere.Tale idea forte fu ‘isolata’ come regola costituzionale per
eccellenza e dall’età premoderna in avanti fu ripresa per ‘leggere’ e giustificare
queste istituzioni (i Protoparlamenti) e l’assetto costituzionale derivato. Si parla,
quindi, della formula del governo misto.

Capitolo 13
Parlando di Protoparlamenti e della loro diffusione su ampia scala nel quadrante
europeo del Tre-Quattrocento, siamo andati alla ricerca della giustificazione
costituzionale della presenza di tali assemblee a fianco del sovrano. L’abbiamo
allora ritrovata attorno a un’idea forte, una teoria molto solida e credibile che fu
elaborata lungo tutto questo blocco di secoli che abbiamo preso in esame, almeno
fino a metà del XVII secolo, che è quella basata sul modello: del governo misto.

Del governo misto avevamo già parlato: si tratta di un modello che per le sue
origini rimonta al pensiero dei classici: Polibio e Cicerone, recuperando l’azione
anticiclica e anticrisi del governo misto che Polibio aveva ben sintetizzato
analizzando la Res Publica romana.

Insomma, si può immaginare che agli occhi di chi si trovava ‘immerso’ nella
società cetuale e stratificata, nello Stato per ceti paresse facile e quasi fisiologico
vedere riprodotto il salvifico schema misto dell’uno, dei pochi e dei molti di matrice
polibiana.

Nelle Costituzioni dell’età premoderna e moderna si ritrova il Sovrano (l’uno)


affiancato da un’assemblea che accoglieva i nobili, il clero (i pochi) e i tutti gli altri
(i molti). La conseguenza costituzionale di quella visione mista delle costituzioni
coeve fu che davvero, prima di tutto, nessuna decisione generale potesse essere
presa senza il ricorso all’azione congiunta del Sovrano e del ‘suo’Protoparlamento:
cioè del re più i tre ceti. Quella di Governo misto era un’idea che nella percezione
dei coevi creava un ordine forte e solo così lo Stato, o meglio, gli Stati del tempo,
potevano produrre e prendere decisioni anche dolorose che avrebbero vincolato
tutto il territorio.

Lo Stato per ceti, però, è una forma tipica dello Stato d’età premoderna e moderna
e sarebbe profondamente errato pensare all’Europa di Antico Regime come uno
spazio caratterizzato da omogeneità costituzionale.

Al contrario, la realtà storica è molto variegata. Un primo e più importante


indicatore è proprio il diverso ruolo nei vari Stati ricoperto dal Protoparlamento.
Si hanno:

1. Stati in cui il Protoparlamento svolge un ruolo importante e vede costante


aumento del proprio peso politico

2. Stati in cui il Protoparlamento avrà un’esistenza stentata fino ad esaurirsi e a


rimanere soltanto un’istituzione più teorica che pratica

3. Stati in cui il sistema cetuale e proto-parlamentare non decollò mai. 

Gli stati dove il sistema cetuale e protoparlamentare non decollò mai sono quei
stati la cui fortissima connotazione cittadina bloccò – quasi all’origine – lo sviluppo
di pratiche protoparlamentari e cetuali e dove, pertanto il rapporto tra Centro e
Periferia rimase perlopiù ancorato a negoziazioni bilaterali sintetizzate già dai patti
di capitolazione via via aggiornati.

Più o meno ovunque, allora lo Stato, in generale, si configura come Stato per ceti,
tenendo conto della forte presenza di corpi territoriali (città) ossia proiezioni
territoriali del ceto. Lo Stato può essere definito uno Stato di corpi. In ultima analisi
lo Stato per ceti o di corpi esprime l’immagine di un sistema di potere plurale che
si estende su un territorio, su uno spazio polimorfo affollato di tanti poteri territoriali
e morali. Insomma, lo Stato è da intendersi come una sorta di ‘federazione’ di
poteri diversi.

Questo è lo Stato premoderno e della prima età moderna: uno Stato che promette
di dare “a ciascuno il suo”. Uno Stato basato sulla pratica politica che prevede la
consultazione dei corpi interessati.

Nel frattempo siamo arrivati a un punto cruciale della nostra storia dal punto di
vista cronologico, grossomodo, le diverse trasformazioni di cui abbiamo parlato si
snodano dal Trecento in avanti: siamo giunti al Cinque-Seicento. Snodo cruciale
dal punto di vista delle forme di organizzazione del potere: è una stagione di
ulteriore accelerazione e evoluzione nelle forme di governo dei diversi Stati
occidentali. Un altro snodo cruciale è che fino ad ora abbiamo raccontato una
storia soprattutto di istituzioni, di modelli, di costituzioni che hanno consentito di
avere in mente tutte – o quasi – le tessere per comprendere e studiare:

A. Diverse forme di organizzazione del potere.

B. Diverse forme di Stato.

C. Diverse forme di governo.

Nel tornante Cinque-Seicentesco, dal momento che la ‘Storia del potere’ tra età
pre-moderna, moderna e contemporanea, in larga parte, passa attraverso i
rapporti tra istituzioni che abbiamo fin qui descritto, cioè i rapporti che
intercorrono tra Sovrano e ceti e tra Sovrano e corpi; tra ceti e ceti, tra corpi e
corpi. È ovvio allora che il diverso assortimento e andamento di tali rapporti
determinerà soluzioni diverse e forme diverse.

Il tornante Cinque-seicentesco è quello quali tali assortimenti e le forme di


organizzazione iniziano a essere più visibili. Inoltre occorre avere presente che se
nella prima età moderna il modello più diffuso è quello del potere condiviso, con il
passare del tempo in molti Stati l’equilibrio tra Sovrani e ceti tende a modificarsi.

I Protoparlamenti, allora, in molti Stati del continente occidentale, vedranno


trasformato il proprio ruolo e, in alcuni contesti statuali, verranno marginalizzati ma
mai eliminati dall’immaginario costituzionale. Tali Protoparlamenti finiranno per
riconoscere una volta per tutte al Sovrano il diritto di imporre una tassa militare
permanente. Si privavano così del principale strumento di negoziazione con il
Sovrano, e cioè, di autorizzare o no il prelievo fiscale sempre più determinante per
la vita dello Stato.

Soprattutto nelle aree in cui si decise, da parte dei ceti, di autorizzare il Sovrano a
prelevare annualmente una tassa fissa per l’esercito senza previa loro
autorizzazione.

Si ebbero importanti ricadute:

1. Il Sovrano dispone di forza crescente per uso esterno (a scopo di espansione-


difesa); uso interno (per controllare, per invadere le autonomie dei corpi
territoriali).

2. In tali aree, il Sovrano progressivamente si imporrà a discapito dei ceti/corpi.


Soprattutto a discapito dei Protoparlamenti come centro tendenzialmente
autonomo di comando. 

3. Dal punto di vista dei Protoparlamenti: saranno progressivamente accantonati,


ma non abrograti: questa azione infatti sarebbe stata inammissibile per la
cultura sociale, politica e giuridica del tempo.

Il passaggio storico che si aprì con il Cinque-Seicento è un passaggio assai


importante: si fa strada un nuovo modo di immaginare la natura del potere
sovrano. Alcuni teorici ad esempio sostengono che appartenga al sovrano un
potere in via esclusiva.

JEAN BODIN (1530-1596)

Filosofo e giurista francese, è colui che più di ogni altro meglio registra il passaggio
a questa nuova percezione. In un famoso passo afferma che: “il Sovrano non deve
in alcun modo sottoporsi al comando altrui e deve potere dare legge ai sui sudditi,
cancellare o annullare le parole inutili". 

Tuttavia, non dobbiamo leggere questa nuova concezione del potere come una
sorta di anticipazione né della sovranità assoluta, né della sovranità moderna
ottocentesca. Infatti questa nuova concezione del potere sovrano come potere
esclusivo (o quasi) del re continua ad appoggiarsi su una visione plurale dello
Stato.

Il sovrano NON è affatto affrancato dalle leggi di Dio e dalle leggi di natura, contro
le quali nulla può e nulla – egli stesso – intendeva fare, ma anzi la nuova
concezione del potere sovrano fa del re il principale interprete delle leggi di
natura e di Dio. Mantiene ai Protoparlamenti il ruolo di:

A. Garanti del rispetto delle leggi.

B. B. Il ruolo di trasmissione al sovrano dei bisogni delle periferie.

Vi sono zone dove i Protoparlamenti vedono però declinare i loro ruoli e in cui il
Sovrano farà da solo, come in Germania, in Francia, in Danimarca etc, però vi sono
zone in cui, come in Inghilterra, Aragona, Ungheria, Polonia, Svezia e Sicilia, invece
tali assemblee cetuali ebbero molta vitalità almeno fino a tutto il XVIII secolo. Ad
ogni modo, è innegabile che la tendenza generale fosse quella di marginalizzare
tali Protoparlamenti.

Questo è il punto, ossia che non ci fu un definitivo passaggio a forme totalmente


nuove:

• Si ha sì un’evoluzione.

• Si ha sì l’arrivo di una nuova concezione del Potere sovrano.

• Si ha sì un minore appeal del governo misto Ma senza mai abbandonare.

• La logica plurale.

• L’idea di vigenza delle leggi naturali.

• L’idea di vigenza delle leggi divine.

• L’idea di vigenza delle leggi consuetudinarie fondamentali del regno. 

Di qui deduciamo il ruolo dei Protoparlamenti, quali garanti di tali leggi e


conseguentemente immagine di uno Stato composito in cui il Sovrano si trova in
effetti al vertice ma mai da solo. La vera discontinuità non è costituzionale e va
cercata dunque nella nuova percezione che si avrà, dalla metà del Settecento in
poi, nei confronti della società cetuale. Quella società, lo abbiamo detto, le cui
regole spietate e la cui gerarchia avevano continuato fino ad allora ad essere
percepite come ‘naturali’ e pertanto immutabili dall’uomo perché espressione di un
ordine che assegna per sempre e ad ognuno il suo posto.

Ad esempio, la visione naturalistica si incrina. Tale visione naturalistica già


incrinatasi per effetto della “Rivoluzione scientifica” del Seicento cambia dal punto
di vista politico, perchè fu messa in discussione da Thomas Hobbes, filosofo e
matematico brittanico, che comincia a pensare che molti aspetti della politica e
della vita sociale non siano ‘dati per sempre dalla natura’ Ma Da fattori artificiali, e
in buona parte legati a scelte umane, degli individui. 

Si tratta di una lenta evoluzione della psicologia collettiva che si manifesta tra fine
XVII e inizio XVIII secolo, che senza annullare totalmente la società di corpi ne
inizia a minare alla base i fondamenti teorici centrati sulla natura. Poco per volta,
tra Sei e Settecento, fasce sempre più ampie di ceti acculturati rifiutano l’idea
dell’ordine naturale e si convincono che è l’uomo il motore della storia. Inoltre, è
proprio a partire da tali convincimenti che dalla metà del XVIII secolo si affermano i
principi del movimento dell’Illuminismo: l’uomo è al centro delle storia e diviene
padrone anche delle Istituzioni. L’uomo – e NON la natura – fa la politica.

IL CONCETTO DI ANTICO REGIME

Paradigmatica di questo nuovo ‘sentire’ contro l’ordine sociale e politico dato per
sempre, e che invece si concentrava sul nuovo ruolo dell’uomo nella Storia e nella
società è la definizione del concetto di Antico Regime che dal 1790 i rivoluzionari
costruirono proprio sul rovescio della società moderna. Rovescio di cui,
spregiativamente, veniva proprio sottolineato il rispetto di un ordine violento e fatto
di abusi in cui l’uomo non godeva di alcuna tutela.

L’antico regime dunque è quel lunghissimo blocco di secoli che abbiamo


raccontato fin qui in cui il fulcro di ogni sistema politico erano i ceti e il potere
come frutto di ordine cetuale. In Europa l’Antico Regime si estinse – almeno
formalmente – con la Rivoluzione Francese. Ecco la discontinuità costituzionale, su
scala globale la Rivoluzione americana aveva già portato in scena un modello di
Costituzione per volontà degli uomini. 

Capitolo 14
Passiamo ora alla sezione successiva, quella in cui, date le ‘tessere’ istituzionali
viste fino ad ora, proveremo a vedere come si sono composte nei diversi quadranti
occidentali, o almeno in quelli più significativi per il nostro discorso. Proveremo
cioè ad entrare in alcuni dei più significativi casi ‘nazionali’ per vedere il
funzionamento di quelle istituzioni di cui abbiamo a lungo parlato. Questo nostro
percorso si snoda a partire dal tornante cinque-seicentesco, cruciale per le forme
di governo.

SCENARIO EUROPEO
Lo scenario europeo di partenza è molto vario e composito per presenza di Stati
dalla Verfassung molto diversa. Possiamo identificare almeno 4 tipi di
Costituzione:

1. Stati o monarchie elettive: dove i poteri intermedi cetuali e/o territoriali sono
molto forti e i sovrani eletti dai corpi.

2. Stati dinastico-territoriali discontinui: Aragona, Impero Asburgico.

3. Repubbliche aristocratiche: Venezia, Genova, Città anseatiche, Svizzera.

4. Principati o signorie territoriali: come Firenze, Milano, Savoia.

  

Si tratta di un panorama ad alta conflittualità:

A. Inter-statale: ossia tra Stati diversi.

B. Intra-statale: ossia all’interno di uno stesso Stato, tra corpi.

Tuttavia Sia nell’uno che nell’altro caso, si tratta di una conflittualità ‘benefica’
che spinse alla ricerca di nuovi e più stabili equilibri costituzionali. Insomma, a
metà Quattrocento quando nel 1453 termina, di fatto, la Guerra dei Cent’anni tra
Francia e Inghilterra, le ‘grandi’ monarchie apparivano più solide per diversi fattori:

1. Un sistema di regole più definito ( Sovrano-giudice e Giudici del re sparsi sul


territorio ad esercitare la giustizia) .

2. Un esercito più efficiente

3. Sistema fiscale più definito

4. Sistema di uffici sul territorio

5. Chiese ‘nazionali’ allineate ai sovrani.

Tali componenti, del resto, sono quelle tipiche degli Stati che da Stati
Protomoderni divengono Monarchie nazionali. Tra queste spiccano senz’altro la
monarchia francese e quella inglese. Queste tendenze sono evidenti oltre che in
Francia e in Inghilterra, anche nella Penisola Iberica (dove si distinguevano
almeno sei stati territoriali) e nella Penisola italiana (dove si trovavano gli Stati
regionali, o ‘Stati senza re’).

LA PENISOLA IBERICA
Qui si distinguono, l’abbiamo detto, almeno sei Stati territoriali: Portogallo,
Castiglia, Aragona, Catalogna, Granada e Navarra.

In questo contesto vediamo sviluppata la tendenza accentratrice da parte dei


sovrani di Castiglia che dalla metà del Quattrocento. Avviano la riconquista ai
danni degli altri Stati del territorio seguendo tre intenti principali:

1. L’ampliamento del potere territoriale

2. La diffusione della religione cattolica come unica

3. Sviluppo di un assetto quasi feudale su tutto il territorio.

LA PENISOLA ITALIANA
Si distingue per la diffusione degli Stati regionali, o degli Stati senza re, ossia Stati
che vedono al centro dei poteri cittadini autosufficienti di raggio regionale. In più,
l’elemento caratterizzante tra XV e XVI secolo sono le città. C’erano tre città sopra
i 100.000 abitanti: Milano, Napoli e Venezia. Quattro città sopra i 50.000 abitanti:
Firenze, Genova, Bologna e Palermo e più di quindici città medie inoltre erano
concentrate nell’Italia centro-settentrionale.

Questa situazione si protrae fino a inizio XVII secolo quando si apre una stagione di
forte accelerazione del tempo storico che dal punto di vista costituzionale segna
l’avvio della stagione di quello che parte della storiografia definisce
dell’assolutismo, su cui ci soffermeremo parlando più specificamente del caso
francese.

In alcuni parti d’Europa si fa strada un nuovo modo di pensare il potere nello Stato:
non più condiviso tra il sovrano e i Protoparlamenti (espressione dei ceti) ma di
esclusiva pertinenza del sovrano che si inizia a pensare come unico detentore del
potere di comando. Tuttavia tale potere non si traduce in effettivo potere assoluto:
perché ancora il sovrano si sente vincolato a leggi divine, a leggi di natura e leggi
cetuali.

Infatti, per quanto i Protoparlamenti potessero essere depotenziati, rimanevano


importanti istituzioni di ‘verifica’ costituzionale degli atti del sovrano La vera cesura
si avrà tra metà Cinquecento e metà Seicento è la cesura che matura nella visione
della società cetuale e naturale che si incrina sulla base dei successi della scienza
pura. Sono di questo periodo la teoria eliocentrica, della legge di gravitazione
universale, e tutta una serie di scoperte eclatanti e scardinanti per la scienza e la
vita dell’uomo. 

Anche la società può cambiare per effetto delle azioni e del pensiero dell’uomo: tra
i primi a sostenerlo c’è Thomas Hobbes per il quale: lo Stato è composto da
individui che consapevolmente lasciano lo Stato di natura e fondano lo Stato civile
retto da un Sovrano che rappresenti tutti. Paradigmatica di questo sentire sarà la
Rivoluzione di fine secolo che sdogana un nuovo concetto di Stato che ha come
suo rappresentante un uomo.

Ci avviamo allora allo studio di casi concreti, cioè l’analisi di come in alcuni
quadranti geopolitici tutte quelle ‘tessere’ che abbiamo finora studiato, si
compongono dando origine, a seconda dell’assortimento, alla propria specifica
forma di governo. Ciò, necessariamente, ci costringe a spostare la nostra
narrazione da un livello teorico-modellistico a un livello fattuale.

Capitolo 15
L’ESPERIENZA INGLESE
Da dove iniziare? Si tratta di una storia particolare, di cui a noi interessa indagare il
versante costituzionale e istituzionale. Iniziamo da un punto certo e da una data
certa:

A. Il punto: partiamo dal presupposto geografico (e senz’altro banale) che


l’Inghilterra è un’isola separata dal continente, aspetto noto, questo, ma che
avrà forti ricadute sul piano storico e giuridico.

B. La data: il 1066, data della battaglia di Hastings in cui l’ultimo sovrano


sassone viene sconfitto dal duca di Normandia Guglielmo II, il Conquistatore.

LA BATTAGLIA DI HASTINGS (1066)

È quell’evento storico che segna la ‘nascita’ di un nuovo ‘regno’ d’Inghilterra, e


che segna chiaramente il passaggio da una costituzione territoriale: fortemente
frastagliata, instabile e fortemente indebolita da frequenti invasioni danesi;
segnata da un regime esclusivamente basato su consuetudini locali ed
estremamente varie.

A una costituzione più solida, ‘accentrata’ attorno alla corte normanna che crea
una struttura più omogenea e ‘compatta’. Naturalmente, stiamo parlando dell’XI
secolo, per questo suggeriamo cautela nel definire la costituzione ‘accentrata’ e
‘compatta’. Tuttavia, il passaggio è avvertibile.

Preme sottolineare però che tale compattezza, stabilità e omogeneità non si limita
alla sfera politica ma anche e soprattutto alla sfera giuridica, cioè da subito: si
creano alcune corti regie con sede a Londra. Tali corti si (auto)incaricano di
applicare su tutto il regno il diritto comune a tutti gli uomini liberi del regno.

Il diritto comune in area inglese, non è ciò che per diritto comune si intende, più o
meno nello stesso periodo, sul continente europeo, patria dello ius commune, il
diritto romano. In Inghilterra questo diritto comune è il prodotto di una amalgama
di regole dato dalla progressiva ‘integrazione’ del vecchissimo sistema di regole
consuetudinarie sorte secoli prima. Con ‘incursioni’ disciplinanti, con ‘comandi’
che queste corti centrali – per il re – inviavano alle numerosissime corti locali, e
interpreti di tali consuetudini. ciò avveniva tramite il sistema dei writ.

IL WRIT 

L’incursione, l’invasione, l’integrazione dei comandi del sovrano con i sistemi


consuetudinari avveniva con il ricorso ai writ. Si tratta di documenti scritti talvolta
in latino, con cui il re come sovrano-giudice imponeva alle corti locali certe
disposizioni anche deroganti le consuetudini locali.

IL SISTEMA DI COMMON LAW


Il risultato dell’uso invalso per circa due secoli dei Writ, regolarmente inviati dalle
corti centrali a quelle locali, fu la formulazione di un ‘nuovo’ sistema di regole
consuetudinarie ma reinterpretate e/o integrate dal re e dalle sue corti di Londra.
Questo nuovo sistema di regole da allora in avanti costituisce la cosiddetta
Common Law.

1. I writ cessano per richiesta dei Lords nella Magna Charta del 1215: da allora in
poi il sistema si stabilizza

2. 2. Al sistema del Common Law che poteva essere lacunoso sotto certi aspetti
dalla metà del XIV secolo si aggiunse il sistema dell’equity Ossia Degli atti di
giustizia erogati dal cancelliere del re sulla base del diritto canonico.

Infatti, a partire dal 1215 il diritto è gestito dai soli giudici ‘privati’ in virtù della rule
of law, ossia dell’autonomia del diritto e del primato del diritto sulla politica. Per
politica inoltre si intende la dialettica (a fasi alterne) tra Sovrano e Parlamento.

Il diritto, d’altra parte sarà plasmato in quasi totale autonomia sia dal re e sia dai
princìpi teorici continentali (diritto romano, etc..).

Sulla base del principio della Rule of Law affermatosi a partire dal XIV secolo ossia,
come abbiamo detto, sull’affermazione dell’autonomia del diritto e del primato del
diritto sulla politica.

Dal punto di vista della politica, il quadro iniziale è quello che abbiamo già avuto
modo di delineare, quello di:

- Un Sovrano giudice che rispetta i diritti del territorio.

- Un Protoparlamento monocamerale.

- L’assetto rigidamente cetuale Però Quasi da subito, per effetto della genesi
costituzionale di tipo ‘monocellulare’, si registra una più marcata tendenza
all’accentramento.

Si trattò di un accentramento non territoriale non legislativo non politico, ma


accentramento giurisdizionale, dove cioè Il sovrano cercherà di distribuire sul
territorio dal XIII secolo in avanti propri giudici per offrire un sistema
giurisprudenziale uniforme (certo, non con l’intento di scrivere nuove leggi).

Si trattò comunque di una inversione di tendenza, dall’autorità sparsa al sovrano al


centro, inversione che non passò inosservata soprattutto a quei soggetti che
avevano il proprio centro di interesse negli affari locali e nella gestione della
giustizia su base totalmente locale e giurisprudenziale. Soggetti, per di più, tutti
rappresentati nel Protoparlamento.

Proprio per questa ragione, a partire dal XIII sec. si attiva un rapporto
crescentemente ‘conflittuale’ tra i diversi sovrani che si susseguono al potere e i
diversi Protoparlamenti che vennero periodicamente convocati per le diverse
ragioni già illustrate. Cioè Enrico I, Enrico II e massimamente Enrico III (1216-1272)
si trovarono sempre più costretti a negoziare con i corpi le proprie azioni
‘centralizzatrici.

LA MAGNA CHARTA LIBERTATUM


È proprio in questo periodo che cesserà l’uso del ricorso ai writ regi per controllare
l’attività giudiziaria. Essa si svincolerà dal potere regio e diverrà totale dominio di
un corpo di giudici pratici Ed è proprio a questa stagione che risale anche la
Magna Charta del 1215. LA CARTA DEL 1215 si tratta, a ben vedere, nonostante
una letteratura agiografica e magnificatoria, di un documento che racconta il
‘cedimento’ del potere sovrano di fronte ai Lords e alla nobiltà medio-alta che
rivendicheranno il rispetto delle consuetudini da sempre loro riconosciuto.

1. Convocazione per nuove tasse

2. Giudici naturali

3. Rispetto della proprietà

4. Uguaglianza di fronte alla legge.

A ben vedere, allora, la Carta del 1215 non va assolutamente intesa come una
anticipazione ‘costituzionale’ e nemmeno come fondamento della costituzione
inglese moderna. Quella Carta, nella percezione dei coevi, valeva solo per quel
Protoparlamento e per quel Sovrano. Per il futuro ebbe perlopiù valore di
‘precedente’ giurisprudenziale.

Per il nostro discorso, la Magna Charta allora è importante perché ci racconta la


precocissima dialettica Sovrano-Protoparlamento che altrettanto rapidamente
evolverà in un rapporto nuovo tra Sovrano e Parlamento, e tra i ceti. Non è certo
un caso, a conferma di quanto detto, ovvero di questo rapporto dialettico tra
Sovrano e Parlamento e della ‘non eccezionalità’ della Magna Charta che già nel
1258 una commissione di ventiquattro Lords (12 regi e 12 baronali) propose ad un
Parlamento appositamente convocato ad Oxford un progetto di riforma
costituzionale noto come Provisioni di Oxford.

LE PROVISIONI DI OXFORD
Tali provisioni hanno contenuti significativi sia dal punto di vista costituzionale, sia
istituzionale.

1. Dal punto di vista costituzionale si ha un rilancio del ruolo del Parlamento a


fianco del sovrano e si hanno tre convocazioni in un anno.

2. Dal punto di vista istituzionale si proponeva un complesso sistema di


cooptazione per aggiunta ai soli grandi Lords di altre componenti della società:
città e ‘buoni uomini’. Si prendeva atto della laconicità della Common Law e si
sanciva la figura del cancelliere del re come ministro/giudice dell’equità per
‘integrare’ i vuoti giurisprudenziali lasciati dai writ, dalle consuetudini e dalla
Common Law stessa.

La fine del Basso Medioevo però segna una stagione fondamentale per
l’evoluzione della costituzione inglese Una rapidissima rassegna cronologica che
affronteremo nel prossimo capitolo darà conto di questa evoluzione.

Capitolo 16
Osserviamo allora l’evoluzione della Verfassung inglese. Partendo da una
rapidissima rassegna cronologica dei maggiori avvenimenti costituzionalmente
rilevanti della storia evenemenziale inglese.

THE GREAT MODEL PARLIAMENT


Nel 1295 viene convocato da Edoardo I (figlio di Enrico III) un Protoparlamento
secondo le regole e con ‘assortimento’ che da quel momento in avanti verrà
sempre confermato: 

• 49 Lords.

• 2 cavalieri per ogni Contea.

• 2 borghesi per ogni borgo privilegiato.

• 2 cittadini per ogni città privilegiata.

Proprio perché da tale convocazione in avanti tutti i parlamenti successivi saranno


convocati con il medesimo ‘assortimento’: Tale parlamento è detto “Parlamento
modello” ossia The Great Model Parliament.

In seguito, a partire dalla metà del Trecento, esattamente t ra il 1341 e il 1344 si dà


avvio alla pratica delle riunioni separate in due camere.

Perché avviene tale scissione del Protoparlamento monocamerale?


Perché i Lords e l’alto clero si riuniscono insieme nella House of Lords. La piccola
nobiltà, la borghesia e le città si riuniranno insieme, tutti condividendo l’idea di
privilegio borghese, nella House of Commons.

Nel 1376 si ha il primo caso di messa in stato d’accusa di un Ministro del Re da


parte dei Lords e dei Commons. Nasce così l’istituto dell’impeachment.

A metà del Trecento inoltre, si ha l’istituzionalizzazione di una figura molto


importante per la Camera dei Comuni: Il CLERK, o Segretario, che assiste e fa da
consulente per i membri della Camera Questo è senz’altro il segnale di una vitalità
istituzionale piuttosto precoce che trova il suo centro nella raccolta delle petizioni
del territorio al sovrano. Questa vicenda e tale attività dei Comuni attorno alle
petizioni si istituzionalizzerà fino a divenire attività prevalente

Perché?

1. Inizialmente i comuni si occupavano solo della raccolta e della trasmissione


delle ‘lamentele’ della popolazione ai Lords e al re

2. 2. Successivamente inizieranno a ‘leggere’ tali petizioni e a ‘processualizzarle’


alla luce della giurisprudenza al fine di presentare ai Lords e al re oltre che la
petizione anche le carte giurisprudenziali relative.

   A cui aggiungeranno

3. Il loro lavoro di riflessione e di collazione tra giurisprudenza e petizioni. Questo


loro lavoro diventa sempre più raffinato e circostanziato, così come gli atti
conseguenti che vengono trasmessi ai Lords e al re.

4. Le petizioni non sono più solo raccolte dalla Camera ma stimolate, sostenute e
‘prodotte’ dagli stessi deputati in base alle loro indagini sul territorio. Il risultato
sarà la specializzazione dei Comuni nell’elaborazione di atti che tendono a dare
una risposta ai bisogni sul territorio.

Si tenga presente che

1. Siamo ai margini della proto-storia della funzione legislativa

2. 2. Siamo alla vigilia della sanzione della priorità dei Comuni in materia fiscale.

E ciò avvenne piuttosto presto, a metà del Quattrocento, anche se – naturalmente


– non in maniera definitiva, poiché secondo la logica inglese, tutto si configura
ancora come un privilegio del re concesso ai corpi, ai sudditi.

Man mano che ci si addentra nell’età moderna con il complicarsi della vicenda tra
Stato e Società. Diviene sempre più strategico il ruolo del Sovrano e il suo
atteggiamento nei confronti:

1. Della Costituzione tradizionale

2. 2. Dei Parlamenti

3. 3. Della logica del Potere condiviso – che secondo il linguaggio coevo inglese
si definiva del King in Parliament.

Insomma, dalla metà del Cinquecento assistiamo a un nuovo modo di pensare il


Potere nello Stato, cioè quasi ovunque l’attenzione si rivolge massimamente al
Sovrano. Tuttavia non è cambiato il modo di pensare lo Stato nella sua dimensione
complessiva: plurale e stratificata. Quasi ovunque a basa cetuale, lo Stato allora si
pensava come un sistema di regole piuttosto stabile nel tempo che il Sovrano non
poteva innovare.

La novità di questo periodo fu nel ripensare l’ordine sociale: non più dato dalla
Natura ma dall’Uomo. A partire dalla metà del Seicento si insinua nella mentalità
collettiva questa idea che darà i propri frutti diversi decenni dopo con Thomas
Hobbes, John Locke E che avrà vasta eco anche sulle scelte costituzionali e
istituzionali successive.

In effetti, a partire dalla metà del Cinquecento, mentre nella maggior parte del
continente, per motivi diversi, i Protoparlamenti vengono marginalizzati In
Inghilterra avviene il contrario. Se da una parte abbiamo visto il consolidarsi
all’interno dell’isola del sistema giuridico a base consuetudinaria e casistica, il
cosiddetto Common Law con l’applicazione del principio dell’equity. Abbiamo
visto anche una progressiva evoluzione del Protoparlamento, dalla medievale curia
regis al suo ispessimento costituzionale e la sua istituzionalizzazione.

Fino a divenire, il Protoparlamento a monocamerale a bicamerale. Importante e


ineludibile organo di produzione degli Act ossia delle leggi del regno attraverso
petizioni.

Abbiamo visto sin da subito: che il Parlamento acquisisce, o meglio si impossessa,


di un ruolo di co-protagonista del potere ‘politico’ nello Stato. Dalla Magna
Charta, passando per le Provisioni Oxford e il Great Model Parliament di Edoardo I,
arrivando tra la metà e la fine del XV secolo all’insediamento della dinastia Tudor
al trono.

L’ANTEFATTO
Tutto comincia con la fine della Guerra delle due Rose, combattuta tra la casa
dei Lancaster e la casa degli York. I Tudor la vincono quali pretendenti Lancaster.
Vedremo allora come, durante tutto il Cinquecento, la politica adottata dai Tudor
muoverà nella direzione di una progressiva espansione della tradizionale autorità
del sovrano, ossia della cosiddetta ‘prerogativa’, trovando però il suo ‘limite’ nel
Parlamento con il quale porterà avanti ogni atto regio.

Per prerogativa intendiamo l’imperium regale, decisamente limitato, che consisteva


nell’autorità di emettere ordinanze in casi di emergenza e di agire da giudice
supremo, di ultima istanza. Di ben altro momento il potere di iurisdictio che il
Sovrano esercitava di concerto con il Parlamento dei Lords temporali e spirituali
(Nobiltà e clero) e dei Commons.

LA DINASTIA DEI TUDOR


Tale dinastia assume sin da subito un atteggiamento autoreferenziale e
accentratore, sia dal punto di vista politico amministrativo, sia dal punto di vista
costituzionale. Con i Tudor, inoltre, si segna il punto di massimo splendore delle
istituzioni fino ad allora consolidatesi al vertice dello Stato.

IL REGNO DEI TUDOR


Una tappa importante in questa storia si ha a fine XV secolo con l’accessione al
trono di Enrico VII Tudor nel 1485. Preme segnalare almeno tre elementi importanti,
tenendo conto che in questa sede non ci concentreremo sulla storia
evenemenziale ma sulle trasformazioni della forma di governo.

Tre elementi importanti che segnano il Regno dei Tudor:

1. La successione al trono dei Tudor è essa stessa frutto di un solenne


riconoscimento della centralità del Parlamento che dal 1471 molto si era
impegnato a favorire i Tudor

2. Il Regno dei Tudor (1485-1603) è molto controverso e difficilmente


riconducibile ad un unicum. Di certo però, è il questo periodo che il Regno
consolida la sua potenza e il suo assetto ‘costituzionale’

3. La difficile leggibilità del governo di Enrico VIII.

In generale possiamo dire che con i Tudor e soprattutto con Enrico VII, l’Inghilterra
si afferma come Stato ‘nazionale’; si affranca dal potere religioso del Papa; si
consolida come Stato giurisdizionale; esalta la centralità del Sovrano MA anche; la
sua stretta collaborazione con il Parlamento secondo il modello del King in
Parliament.

Sotto i Tudor in clima non favorevole, come durante il regno di Enrico VIII,
fortemente autoreferenziale gli atti più importanti e che ebbero conseguenze
politiche gravissime non furono mai presi dal solo Sovrano bensì dal Sovrano con
l’appoggio del ‘suo’ Parlamento. In sostanza in questi secoli si ha la conferma
della validità della formula del governo misto, come l’abbiamo visto teorizzare
da numerosi coevi.

Enrico VIII afferma nel 1548 che il momento in cui il suo potere è più forte, il
momento in cui egli può compiere gli atti più complessi, è proprio quando egli si è
trovato assiso al centro del ‘suo’ Parlamento, con i suoi pochi e con i suoi molti
“riuniti in un unico corpo politico”.

Enrico VIII al Parlamento 1548, Preambolo all’Act on Restraint of Appeals “Dai


nostri giudici siamo informati che mai nella nostra regale condizione siamo posti
così in alto come durante i lavori del Parlamento, ove noi come capo e voi come
membra siamo congiunti ed uniti in un unico corpo politico”.

Significativa è inoltre la testimonianza di Thomas Smith tratta dal De republica


Anglorum che descrive il coevo governo inglese dei vari sovrani Tudor nei termini
di una costituzione mista. Formula che egli ritiene la più virtuosa e la più
‘produttiva’ per una comunità politica.

THOMAS SMITH
“Il supremo ed assoluto potere del reame d’Inghilterra risiede nel Parlamento. Il
Parlamento quindi abroga le leggi, fa le nuove, modifica i diritti e le proprietà dei
privati, legittima i bastardi, stabilisce forme di religione, detta le norme di
successione della corona, stabilisce i sussidi per la medesima, le tasse pro capite e
ogni genere d’imposta, concede amnistie ed indulti. Tutto ciò il Parlamento
d’Inghilterra lo può fare giacché si reputa che ogni inglese sia in esso presente, sia
di persona, sia per procura o mandato, di qualsivoglia stato, grado o dignità o
qualità che egli sia, dal monarca alla più infima persona d’Inghilterra”.

IL MODELLO DEL KING IN PARLIAMENT COME ORGANO COMPLESSO

Non del Re da solo ma del Re e del suo Parlamento come un corpo unico Che fa
cose per il tempo considerate quasi impossibili poiché contrastanti con l’ordine di
natura:

A. Detta la forma religiosa (da cui i contrasti con il Papa).

B. Fa le leggi (in ordine di natura l’uomo non fa le leggi ma si attiene a quelle


imposte dall’ordine dato).

C. Determina la successione della Corona.

D. Legittima i bastardi Eppure il Re con il ‘suo’ Parlamento può fare tutto ciò.

Non pare allora un caso che nel 1534 proprio Enrico VIII emani due atti
fondamentali per la Storia costituzionale e politica inglese:

1. L’atto di successione
2. L’atto di supremazia.

Si noti che tali atti di enorme gravità e densissimi di conseguenze furono fatti sì dal
re Enrico VIII ma con il ‘suo’ Parlamento.

1. L’ATTO DI SUCCESSIONE
Si tratta di un atto con il quale il Sovrano e il suo Parlamento:

A. Annulla il matrimonio con Caterina d’Aragona, sua moglie.

B. Legittima il suo legame con Anna Boleyn.

C. Dichiara legittimi i figli avuti con Anna.

D. Legittima i figli avuti da Anna come potenziali successori al trono Si tratta di atti
questi che molto hanno a che vedere con questioni religiose (annullamento del
matrimonio) e regole di natura (riconoscimento dei bastardi).

Si noti però che questo atto è sempre impostato con la retorica del Re con il suo
‘suo’ Parlamento.

2. L’ATTO DI SUPREMAZIA

Come secondo atto – non meno importante – Enrico VIII seduto in Parlamento
emana il cosiddetto Atto di Supremazia, con il quale:

A. Rompe con la Chiesa di Roma.

B. Si fa capo della Chiesa Anglicana.

C. Orienta il culto verso la religione luterana.

D. Annulla il celibato del clero.

A questo atto seguono negli anni successivi ulteriori precisazioni:

• Con un atto del 1536 si dichiara l’estinzione della autorità del Vescovo di
Roma.
• Con un atto del 1547 invece si orienta la Chiesa Anglicana verso la religione
calvinista.

Gli anni successivi sono segnati dai regni fortemente accentratori di Maria
Stuarda e di Elisabetta I. Tuttavia confermarono il modello di governo del King in
Parliament; il modello del potere condiviso e il modello del governo misto.

Governo misto che in quei decenni conobbe, anche grazie ai successi di immagine
dell’Inghilterra, una stagione di grandissimo successo.

Per vincere le resistenze interne e le minacce internazionali, Enrico VIII prima e


Elisabetta I dopo espandono la ‘prerogativa’ regia, cercando però di tributare un
omaggio formale alla tradizione medievale. Salvano le forme, svuotandole di
sostanza, mediante l’adozione di ordinanze e il conferimento di ampi poteri a
tribunali speciali (la Camera stellata per gli affari politici e l’Alta commissione per gli
affari religiosi). I deputati del Parlamento del re, del resto, dovevano fare molta
attenzione a invocare le loro prerogative per contrastare l’azione del sovrano:
poche erano le garanzie di fronte al volere sovrano.

L’esperienza Tudor si esaurisce però quando nel 1603 muore Elisabetta I e arriva al
potere la dinastia Stuart, quando la situazione inglese, sotto innumerevoli punti di
vista, subisce una flessione, una battuta d’arresto. Tale flessione, ovviamente,
ebbe chiari effetti anche sul piano politico, istituzionale e costituzionale.

Il secolo XVII fu anche per l’Inghilterra un’epoca di grandi trasformazioni, da un lato


segnata da una congiuntura economica negativa e da un calo demografico
vistoso.

Dall’altro canto però fu un’epoca segnata da profonde innovazioni:

1. Artistiche: l’epoca del Barocco.

2. Scientifiche: rivoluzione scientifica da Copernico in avanti.

3. Filosofico-politiche: l’era dell’individualismo.

4. Costituzionali: che andremo ad indagare.

Preme tuttavia segnalare che il Seicento non fu affatto, o non soltanto, un secolo di
crisi e/o decadenza Ma di trasformazione. Fu un secolo complesso. E per quanto
riguarda l’Inghilterra uno dei segnali più evidenti di questo assunto è l’arrivo al
potere della dinastia Stuart e il loro ‘progetto di governo’ che fin da subito si
mostrò alternativo a quello fino ad allora attuato dai Tudor e dai loro predecessor.

LA DINASTIA STUART
Con Giacomo I Stuart nel 1603 fu sancita l’unione di Inghilterra e Scozia Inoltre sin
da subito la dinastia attuò:

A. Una politica filo-cattolica

B. Una politica filo-nobiliare e feudale

C. Una politica sovranocentrica e ‘antiparlamentare’.

Si tratta di una politica che innova profondamente il quadro politico e


costituzionale vigente.

LA CRISI LA COSTITUZIONE INGLESE TRADIZIONALE


È evidente infatti che:

A. Il filocattolicesimo irritò subito i ceti borghesi e della piccola nobiltà (i cavalieri


etc…)

B. La politica filonobiliare e magnatizia irritò ulteriormente quei ceti laboriosi e


attivi nel Parlamento, che proprio lì avevano visto consolidarsi il proprio ruolo
costituzionale e sociale

C. La politica sovranocentrica e di regalità accentrata irritò tali ceti conducendo


al tentativo di marginalizzare il Parlamento con conseguente attrito
costituzionale e sociale.

Da subito allora la politica Stuart provocò forti tensioni:

A. Sociali: tra magnati e Lords da una parte e borghesi e piccola nobiltà dall’altra

B. Costituzionali: tra Corona e Parlamento.

C. C. Politiche: tra i sostenitori della Corona (i cavalieri) e i sostenitori del


Parlamento.

Tale situazione finì per diventare ancora più complessa con la successione al trono
di Carlo I nel 1625.

Capitolo 17
Ai Tudor succedono gli Scozzesi Stuart. Alla morte di Elisabetta I, nel 1603, le
succedono gli Stuart con Giacomo I. Con Giacomo I si verifica un’unione
‘personale’ tra i regni di Scozia e Inghilterra senza però che ci fosse una fusione tra
le due entità territoriali che infatti mantengono differenti parlamenti e ordinamenti.

Inoltre si noti gli Stuart si dimostrarono sensibili alla concezione assolutistica del
potere monarchico in voga nell’Europa continentale. Di più Tale dinastia si espose,
teorizzando e esplicitando la volontà assolutistica attirando così le aspre critiche
dei pari.

Abbiamo visto che sin da subito la politica Stuart provocò acute tensioni di ordine:

1.Sociale (tra Lords e borghesi e piccola nobiltà).

2. Costituzionale (tra Corona e Parlamento).

3. Politico (tra sostenitori della Corona e sostenitori del Parlamento).

4. Religioso (tra protestanti e cattolici) Questa situazione divenne ancora più


complessa con l’arrivo al potere di Carlo I nel 1625.

CARLO I STUART
Confermò la politica del padre Giacomo I:

A. Antiparlamentare

B. B. Governo sovrano-centrico retto per mezzo di un favorito: il Duca di


Buckingam, dichiaratamente filocattolico, filofeudale e antiparlamentare.

Sebbene la pratica del governo del favorito fosse una tendenza molto diffusa nel
XVII secolo sia in Francia sia in Spagna sia in altri grandi Stati europei, in Inghilterra
ciò fu avvertito con grande disagio dal Parlamento che sin da subito si dimostrò
ostile al re.

Tale ostilità del Parlamento fu dimostrata sin dall’ascesa al trono di Carlo I

A. Nel 1625 in occasione dell’incoronazione, il Parlamento concesse solo una


piccola parte dei finanziamenti che per tradizione venivano invece riconosciuti
ai nuovi sovrani; finanziamenti in questo caso insufficienti per il mantenimento
della nuova corte.

B. B. Nel 1626: nuova convocazione del Parlamento da parte di Carlo I per avere
un nuovo finanziamento: Il Parlamento dal canto suo: negò il finanziamento e
avanzò la pretesa di impeachment per il duca di Buckingam.

Carlo I contro il Parlamento si trattava di una scelta di aperta rottura con il re, che
rompeva le consuetudini costituzionali degli ultimi secoli. Quello del Parlamento fu
perciò un atto fortemente provocatorio contro il quale Carlo I reagì altrettanto
provocatoriamente: sciolse il Parlamento. Il Parlamento è riconvocato nel 1628.
Solo nel 1628 Carlo I riconvocò il Parlamento ma i parlamentari proseguirono la
politica ostile al sovrano:

1. Rivendicavano il rispetto delle tradizioni costituzionali.

2. Rivendicavano il rispetto della vita autonoma dei diversi ceti ‘minori’.

Infatti produssero un documento molto duro nei confronti del sovrano che
vincolava l’accettazione delle richieste di finanziamento alla previa accettazione da
parte del Sovrano di questo documento.

LA PETITION OF RIGHTS 1628


Si tratta di un documento molto importante. Esso ribadisce i princìpi-cardine della
Costituzione tradizionale e denunciava gli abusi fino ad allora perpetrati ai danni
dello Stato da parte del re e del suo favorito, dichiarando:

• Il divieto di imposizione fiscale senza l’assenso del Parlamento.

• Il divieto d’arresto o detenzione senza un pubblico processo.

• Il divieto di imporre la legge marziale senza autorizzazione del Parlamento.

• Il divieto di acquartieramento forzoso di militari a danno dei civili.

Dopo molti dibattiti la Petizione dei diritti fu approvata. Tuttavia, gli animi non erano
pacificati:

A. Il duca di Buckingam venne assassinato.

B. Nel 1629 Carlo I, impreparato a risolvere per via costituzionale tale conflitto,
sciolse in maniera definitiva il Parlamento.

C. Egli avvia una fase di governo senza mai convocare il Parlamento.

VERSO UNA NUOVA COSTITUZIONE?

CARLO I KING ALONE


Dal 1629 al 1640, per un totale di 11 anni, si assiste allora a un governo del Re: un
modello di governo personale che rompe con quello del King in Parliament
inaugurando in area inglese il modello costituzionale del King alone in voga nella
Spagna di Olivares e nella Francia di Richelieu.

Il re allora governava senza il Parlamento utilizzando e potenziando uffici che


facevano capo direttamente alla sua persona:

A. Il Consiglio privato.
B. La Camera stellata.
Soprattutto avviò una politica che sembrava negare i valori alla base della
Costituzione inglese: in particolare, per quanto riguarda la religione. Mostrò
chiaramente l’intenzione di rivedere i suoi rapporti con la Chiesa di Roma.

Per i finanziamenti, invece, il re faceva ricorso ad espedienti autoritari e


discrezionali, agendo chiaramente al di fuori della prassi costituzionale
consolidata. Ricorse infatti alla:

1. Vendita dei privilegi economici e territoriali.

2. Vendita di monopoli.

3. Vendita delle titolarità degli uffici.

4. Vendita dei titoli nobiliari.

Nel 1639 Carlo I attacca la Scozia, la controversia ha inizio con il rifiuto da parte
degli scozzesi di adottare il libro di preghiera anglicano. Carlo I allora attacca
militarmente la Scozia, ma viene sconfitto ripetutamente. Il dissesto finanziario
derivato dalla dura sconfitta fu evidente e così nel 1640 fu costretto a convocare
nuovamente il Parlamento.

Il nuovo Parlamento riunito gli confermò la propria precedente opposizione ma gli


negoziò il finanziamento, e così Carlo I sciolse nuovamente il Parlamento per la
brevità della seduta (dall’aprile al 5 maggio 1640) questo Parlamento divenne noto
come Parlamento corto (Short Parliament).

Sciogliere il Parlamento però non fu una buona risoluzione. Le difficoltà per Carlo I
aumentarono a dismisura:

1. Gli scozzesi (vincitori e recalcitranti) erano ai confini.

2. Le casse pubbliche erano sempre più vuote.

3. I sostenitori del Parlamento aumentavano sempre più – anche al di fuori del


Parlamento stesso, nella società o ‘in piazza’.

E così Nel 1640 Carlo I fu costretto a convocare un nuovo Parlamento che pur con
varie epurazioni rimase in vigore fino al 1653, e per questo fu detto il Lungo
Parlamento (Long Parli). Tuttavia i rapporti tra la Corona e il nuovo Parlamento
non migliorarono, anzi rimasero altamente conflittuali.

Il Parlamento:

A. Chiedeva l’abrogazione degli organi sovranocentrici.

B. Chiedeva la revoca degli atti di governo del King alone.

C. Pubblicava un atto molto importate che intendeva vincolare gli atti futuri di
Carlo I: il cosiddetto Triennal Act ament).

1641: IL TRIENNAL ACT


Tale atto:

a) Rivendicava l’importanza del Parlamento.

b) Chiedeva l’apertura per 50 giorni almeno ogni 3 anni.

c) Imponeva la clausola di ‘autoconvocazione’ in caso di inottemperanza da parte


del Sovrano.

Si gettavano allora le basi per un ulteriore inasprimento del rapporto tra Corona e
Parlamento che sfocerà nel colpo di Stato.

IL ‘COLPO DI STATO’ DI CARLO I - 1642

Il Re, dal canto suo, cercò di attuare un colpo di Stato per risolvere una volta per
tutte la questione dell’opposizione parlamentare. Entrò a Westminster con un
drappello di suoi uomini per far arrestare i capi dell’opposizione, i quali avvisati,
non si fecero trovare. Si trattò dell’ennesimo fallimento di Carlo I che, di fatto,
faceva precipitare il paese in una condizione di guerra civile non dichiarata.

LA GUERRA CIVILE

Lo scontro tra sostenitori della Corona (cavalieri e feudali) e i sostenitori del


Parlamento (le ‘teste rotonde’, dette così perché non indossavano le parrucche
degli aristocratici, in larga parte appartenenti alla gentry) si estese sempre più al di
fuori delle aule parlamentari Si giunse alla guerra civile vera e propria E ad una
grave crisi costituzionale.

A. Vedeva da un lato Carlo I che non sembrava disposto ad andare oltre un


modello di governo del King in Parliament sbilanciato a favore del re. E tuttavia,
oramai, pareva troppo tardi perchè un tale modello potesse essere accettato
dal Parlamento.

B. Dall’altro lato il Parlamento rifiutava ostinatamente ogni riduzione del suo


potere.

C. Infine, addirittura alcune fazioni popolari di teste rotonde facenti capo a Oliver
Cromwell (moderati) e anche alcune frange più avanzate di radicali.
Rivendicavano la fine della monarchia e l’impianto della Repubblica e
rivendicavano il suffragio universale maschile.

Si trattò di una crisi senza precedenti: Carlo I fu arrestato. Nel novembre del
1647, fuggito agli arresti, raccolse un esercito per scontrarsi con le forze
sostenitrici del Parlamento, riaccendendo la guerra civile, ma venne sconfitto
dall’esercito riformato di Cromwell. Con questa vittoria Oliver Cromwell allora
conquistò la leadership dell’intero movimento puritano antimonarchico. Tale
movimento si faceva sostenitore di un sistema costituzionale non radicale e
rispettoso della proprietà privata.

OLIVER CROMWELL
Convocò subito il Parlamento (quello eletto nel 1640) escludendo però da esso gli
elementi sgraditi. Per via dell’epurazione, questa assemblea fu definita il
Parlamento moncone (rump Parliament). Il Parlamento moncone approvò infine la
sentenza del processo che condannava a morte il sovrano per tradimento della
causa inglese.

Il 30 gennaio 1649 infine, Carlo I venne decapitato.  

LA CRISI ‘DEFINITIVA’ DEL GOVERNO MISTO

Si trattava, l’abbiamo detto, di una crisi senza precedenti sotto tutti i punti di vista:
1. Sociale.

2. Politico.

3.Costituzionale Siamo arrivati in effetti alla metà del XVII secolo quando Thomas
Hobbes scrive il suo Leviatano e ci troviamo di fronte alla crisi del Governo misto
e della Costituzione inglese.

LA STAGIONE ‘REPUBBLICANA’
Nel 1649 Oliver Cromwell avvia un governo autoreferenziale di ‘tipo’ repubblicano:
abolisce la Camera dei Lords e avvia una politica estera imperialista contro le
province olandese. Questa stagione ‘repubblicana’ – di fatto dittatoriale – proseguì
fino al 1658.

Alla morte di Cromwell il quadro delineato era ancora più complesso: il figlio di
Cromwell infatti si dimostrò incapace di governare e il Parlamento era frazionato.

IL RITORNO DELLA DINASTIA STUART

Fu così allora che nel 1660 si raggiunse un accordo trasversale tra whigs e tories in
senso anti-Cromwell e anti-repubblicano. Si decise per il ripristino del sistema
monarchico. La dinastia Stuart tornò al trono con il figlio di Carlo I ossia Carlo II.

CARLO II (1660-1685)
Formalmente si impegnava a ripristinare la tradizionale Costituzione inglese nella
formula del King in Parliament. Tuttavia Costui riprese sin da subito la politica del
padre:

A. Una politica sovrano-centrica.

B. Intollerante verso anglicani e protestanti.

C. Una politica filocattolica: in ambito religioso infatti il sovrano produsse


un’escalation normativa che riportò indietro a quel clima filocattolico che già
aveva condotto alla guerra civile.

Infatti il Parlamento richiede allora nel 1662 un Atto di conformità con il quale
imponeva al clero regole e testi anglicani. Il Sovrano però rispondeva, nel 1672,
con un atto di indulgenza a favore dei cattolici. Infine, il Parlamento riuscì ad
imporre nel 1678 il Test Act con il quale si stabiliva per il Clero il giuramento di
fedeltà alla Chiesa anglicana.

Vediamo in termini di Stato istituzionale il tormentato secolo degli Stuart. Esso


segna:

A. Il declino del Governo misto

B. Il tentativo disastroso degli Stuart di ‘rompere’ la Costituzione tradizionale

C. Il tentativo di instaurare come in Francia o in Spagna un governo senza


Parlamento, un governo assoluto.

Quest’ultimo è in effetti il motivo principale di dissesto all’interno della società


inglese del XVII secolo che dà l’avvio a una vera e propria guerra civile tra Corona
e Parlamento.

Abbiamo poi visto l’avvio di una stagione politica e costituzionale non meno fosca,
quella del governo autocratico – repubblicano con Oliver Cromwell. Una stagione,
lo si sottolinea, assai dirompente dal punto di vista costituzionale.

Cromwell infatti:

1. Avvia una politica imperialista e anti-olandese.

2. Abolisce la Camera dei Lords.

3. Si fa nominare Lord Protettore della Costituzione Eppure si trattò di


un’esperienza effimera, dal momento che non ebbe seguito dopo la sua morte.

IL RIPRISTINO DELLA DINASTIA STUART


Furono proprio gli accordi trasversali tra le diverse ‘fazioni’ politiche a favorire
l’accantonamento della Repubblica e il conseguente ripristino della dinastia Carlo
II. Tuttavia si trattò di un ripristino che non ‘premia’ la Costituzione tradizionale del
governo del King in Parliament, bensì i sovrani Stuart tentarono di proseguire con
una politica antiparlamentare e filocattolica. Questo fu il rischio più evidente che si
concretizzò con l’ascesa al trono di Giacomo II, cattolico e reazionario.

Possiamo allora dedurre che la situazione politica inglese rimaneva altamente


complessa: Il terremoto costituzionale innescatosi con Carlo I a metà Seicento
continuò ad agitare il quadro costituzionale dell’Inghilterra ancora per 3 decenni
dopo, quando si prospettava, appunto, dopo Carlo II, l’ascesa al trono del figlio
Giacomo II, anch’egli cattolico.

LA REPULSIONE PER LA RELIGIONE PROFESSATA DA GIACOMO II


Innescò come reazione un nuovo accordo tra i due partiti del Parlamento. Il
Parlamento allora:

- Bloccò la successione di un nuovo Stuart che allora fuggì in Francia.

- Chiamò al trono Maria Stuart (protestante) e suo marito Guglielmo III d’Orange
(olandese, anticattolico e antifrancese).

Inoltre autoconvocatosi produsse un atto la cui approvazione preventiva da parte


di Guglielmo III fu considerata la condizione essenziale per l’ascesa al trono dello
stesso Guglielmo III d’Orange e Maria Stuart.

IL BILL OF RIGHTS 

I nuovi sovrani avrebbero avuto il potere solo e soltanto se accettavano tale


documento: Maria Stuart e Guglielmo III accettarono il documento nel dicembre
del 1689 diventarono sovrani d’Inghilterra. Il documento proposto dal Parlamento
nel febbraio 1689 era volto a ridefinire l’assetto della monarchia e delle istituzioni
inglesi attraverso una serie di limitazioni del potere sovrano e affermare nuove e
inviolabili, prerogative del Parlamento.

THE GLORIOUS REVOLUTION

Il processo sociale e politico che aveva condotto a un cambio dinastico e alla


stesura del Bill of Rights da parte del Parlamento prese da subito la
denominazione di Gloriosa Rivoluzione. L’effetto combinato di questo Atto del
Parlamento e della Rivoluzione produsse una fortissima accelerazione del tempo
storico e di fatto l’Inghilterra passa a una nuova era costituzionale.

Si assiste perciò al superamento del modello di Costituzione fondato sul governo


del King in Parliament, non a favore di un governo assolutista, bensì attraverso
l’approdo alla Costituzione ‘moderna’ o dei moderni Del sistema di poteri separati
Ossia Della formula costituzionale del Governo Bilanciato.

Capitolo 18
IL GOVERNO BILANCIATO
Lungi dall’essere solo un avvicendamento dinastico la Gloriosa Rivoluzione è
anzitutto un evento di portata epocale che segno l’avvio per l’Inghilterra di una
nuova Costituzione. Di fatto Il tornante 1688-89 segna per l’Inghilterra il passaggio
a una nuova era, con il superamento della Costituzione medievale e l’approdo alla
Costituzione ‘moderna’ o dei moderni.

LA COSTITUZIONE DEI MODERNI


Portava con sé alcuni addentellati teorici, tra cui:

A. La Sovranità risiede nello Stato.

B. Il Potere esecutivo e il Potere legislativo sono separati.

C. Il rapporto tra i Poteri è basato su un sistema di pesi e contrappesi - checks


and balances.

D. Gli individui sono garantiti come tali e NON come appartenenti ai ceti.

E. La base del sistema è elettorale e individuale.

È molto importante registrare che non si ha più un sistema di poteri indistinti


compresi nel sistema di governo del King in Parliament composto dai tre organi
del Re e delle Camere dei Lords e dei Comuni, ma si ha il sistema dei Poteri
separati identificati dalla formula del Governo Bilanciato, che vede due organi
separati:

A. Il Re e il governo che rappresentano il potere esecutivo

B. Il Parlamento che rappresenta il potere legislativo.

Ed è proprio attraverso questo dispositivo che l’Inghilterra approda alle teorie del
moderno Costituzionalismo, dove Il focus di ogni riflessione è finalizzato ad
evitare le degenerazioni dispotiche del potere.

LA MONARCHIA BILANCIATA
Prima di vedere l’aspetto teorico del Governo Bilanciato, andiamo ad osservare il
versante costituzionale: siamo naturalmente in ambito di una monarchia che però
assume una nuova forma di governo che chiamiamo Bilanciata. Possiamo quindi
dire che l’Inghilterra post 1688 è una Monarchia moderata bilanciata. Il
meccanismo della ‘bilancia’ qui è visibilissimo: esso, inoltre, è reso ancor più
visibile dal dispositivo costituzionale fissato proprio nel Bill of Rights.

Nel Bill of Rights, infatti, dal punto di vista del potere era sancito che:

1. il potere esecutivo spettava al Re.

2. Il potere legislativo spettava al Parlamento.

Il Parlamento inoltre era composto da:

A. Lords: di nomina regia.

B. Commons: elettivi a base individuale.

La Bilancia si attivava perché il Re aveva ancora molto potere e soprattutto quello


della Negative voice ossia la possibilità di bloccare un atto del Parlamento. Il
Parlamento deteneva il potere di sollevare cause di Impeachment, per bloccare
l’esuberanza del potere esecutivo.

VERSO UNA NUOVA VERFASSUNG


È chiaro allora che teoricamente con questa forma di governo nessuno dei due
Poteri avrebbe potuto “montare in superbia” verso l’altro e i singoli cittadini – come
elettori – erano molto più tutelati.

Alla luce di queste assunzioni: con il Bill of Rights, con la Glorious Revolution non
si ottiene soltanto un cambio di dinastia e non si ha solo una trasformazione
strutturale e formale Si ha un totale cambio di Verfassung.

Si ricorda che l’offerta della corona a Guglielmo III d’Orange e a Maria Stuart era
subordinata all’accettazione di diritti definiti indubitabili tramite giuramento
solenne. Mai prima di allora l’accesso al trono era stato vincolato da simili
condizioni. In secondo luogo, il tradizionale brocardo cuius regio et eius religio,
viene di fatto ribaltato: da ora in poi non sarà più il sovrano a determinare la
religione dei sudditi, ma l’esatto contrario.

Dopo questa epocale cesura infatti in Inghilterra l’accesso al trono era subordinato
alla dichiarazione di fede nella religione dei sudditi. Si tratta un sostanziale
ribaltamento di tutti i principi di Antico regime:

1. La teoria del diritto divino dei re.

2. L’idea di successione ereditaria.

3. La prerogativa del re in diverse materie: legislativa, fiscale.

LA VERFASSUNG BILANCIATA (RE – PARLAMENTO)

Si tratta di una nuova Verfassung perché i soggetti sono gli stessi ma i loro rapporti
sono profondamente diversi e i poteri posti in un diverso equilibrio: i poteri sono
ora separati. Il Re sceglie a sua discrezione i suoi ministri; svolge potere
esecutivo. Il Parlamento – elettivo per la Camera Bassa – svolge il potere
legislativo. Inoltre, grazie al sistema di checks and balances i due organi si
controllano reciprocamente e nessun altro ‘legame’ esisteva tra i due.

Occorre dare uno sguardo al versante teorico da questo punto di vista occorre
avere chiari due passaggi fondamentali:

A. A metà Seicento Thomas Hobbes

B. A fine Seicento John Locke. Tali teorici ci descrivono l’approdo al moderno


Costituzionalismo nel mondo anglosassone.

A. THOMAS HOBBES E LA SUA OPERA


Nel 1651 pubblica “The Leviatan”, un’opera fortemente innovativa e di grandissimo
impatto sul pensiero coevo. La sua opera è importante:

1. Per la lettura dei fatti coevi: la crisi Stuart.

2. Per la comprensione della concezione della società.

3. Per comprendere la concezione delle forme di organizzazione del potere.


Come già detto, Hobbes mise a frutto le conquiste delle scienze pure (da
Galilei in avanti) e costruì un sistema teorico nuovo della società e della
politica.

IL LEVIATANO

Definitivo superamento della fortunata teoria del Governo Misto. Hobbes infatti è
tra i primi teorici a commentare l’inapplicabilità della teoria del Governo misto a
partire da teorie giusnaturalistiche. Inoltre con la sua smentita del Governo misto
assistiamo all’approdo a una nuova concezione del potere all’interno dello Stato.

Data la visione di uno Stato di Natura conflittuale che mette a rischio la vita stessa
degli individui e data la conflittualità che deriva dalla sfrenata ambizione di ognuno
a possedere tutti i beni degli altri, Hobbes elabora una teoria per uscire da tale
stato di natura e costituire lo Stato civile di convivenza.

Attenzione: qui entra in gioco la logica ‘scientifica’ del momento, ossia come per le
scoperte scientifiche l’uomo ha usato la sua razionalità. Anche in politica e società
l’uomo può usare la propria razionalità per creare un nuovo ordine civile di
convivenza.  

IL PATTO TRA INDIVIDUI COME SCELTA RAZIONALE

Infatti gli uomini, sceglievano razionalmente di privarsi della propria autonomia, dei
propri poteri – a patto che ciascuno faccia lo stesso – e di cedere a un soggetto
terzo esterno alla comunità tali poteri.

Così facendo, il Sovrano – il soggetto terzo esterno:

A. Non era vincolato dall’accordo a perdere i suoi poteri.

B. Acquisiva un potere enorme, generale, indivisibile e inalienabile.

C. Ravvisava solo nella salute dei propri sudditi il limite al suo potere.

LO STATO DI INDIVIDUI
Lo Stato era allora totalmente in mano al Sovrano. Tuttavia in base agli accordi
individuali perde il suo assetto plurale e cetual-corporativo assume una natura
individuale: è Stato di individui.

Il Sovrano rappresenta tutti i singoli individui si veda appunto l’immagine di


frontespizio all’opera:

1. È formato da tutti i singoli.

2. Impugna i simboli del potere laico e religioso.

LO STATO DI HOBBES
È Stato di individui e ha una base rappresentativa. Ciò apre la via al moderno
Costituzionalismo. Infatti, da questo punto di vista, pare evidente che le
elaborazioni teoriche di Hobbes preparino in qualche modo il terreno alle riflessioni
che circa quattro decenni dopo saranno pubblicate da John Locke.

JOHN LOCKE - DUE TRATTATI SUL GOVERNO


Pubblicati nel 1690 seppur scritti tra gli anni ‘70 e ’80, John Locke nel redigerli
attinge alla logica razionalista e scientifica del secolo che avevano animato anche
l’opera di Hobbes. Anche Locke parte da una visione giusnaturalistica. Le basi
teoriche di partenza sono:

A. Uno Stato di Natura conflittuale.

B. Le aspirazioni individuali a costruire uno Stato civile di convivenza.

John distingue per primo distingue, nel costituzionalismo moderno, la differenza


tra potere assoluto e potere moderato. Ci dice cioè:

1. Il potere assoluto, in uno Stato, si ha quando il potere legislativo e il potere


esecutivo sono in mano ad un unico soggetto (individuale o collettivo).

2. Il potere moderato, in uno Stato, si ha quando il potere esecutivo e il potere


legislativo sono separati e intestati a organi diversi.

LA LEGGE BASILARE DELLE COSTITUZIONI MODERNE


Chi detiene il formidabile potere di fare le leggi (potere esecutivo) , di dettare le
regole di convivenza NON deve disporre dell’altrettanto formidabile potere di
coazione sugli individui e di quello di governo. Dunque siamo molto distanti oramai
dalla visione del Governo misto e del Sovrano-giudice, ma siamo ormai nell’ambito
della Costituzione dei moderni, quella in cui i poteri sono separati.

L’equilibrio tra i poteri garantisce:

- La sicurezza dei cittadini.

- La convivenza pacifica.

Quando l’equilibrio si rompe per un’azione invadente dell’uomo o dell’altro dei due
poteri il Governo si dissolve e le Costituzione si scioglie ed è necessario un nuovo
atto fondativo. Insomma, lo schema di Locke è in pratica riassuntivo dello Stato
inglese post-1688: quello che abbiamo chiamato della Monarchia Bilanciata.

A fine Seicento questa è la Costituzione Inglese:

1. Il Sovrano ha il Potere esecutivo, cioè: nomina i suoi ministri; presiede il cabinet


(un organo potente e segreto a cui prendono parte i ministri più influenti),
decide la politica estera, detiene il potere di Negative voice.

2. Il Parlamento elettivo ha il potere legislativo e ha priorità in materia fiscale e


mantiene il potere di Impeachment.

Prima dell’avvio del tornante settecentesco preme evidenziare ancora due Atti
importanti che segnano la storia della Monarchia Bilanciata inglese:

A. L’Atto di tolleranza: firmato da Guglielmo III nel 1689 e che conferma le libertà
religiose.

B. Il nuovo Triennal Act del 1694 con il quale si ribadiva la necessità di


regolarizzare le sedute del Parlamento e le elezioni con caduta almeno
triennale.

Il governo bilanciato allora nel corso del Settecento andrà incontro a


trasformazione che coinvolge i suoi protagonisti. Tale trasformazione modificherà i
rapporti di forza originando una nuova forma di governo: Il governo parlamentare.

Capitolo 19
Ricapitolando abbiamo detto che nel corso del Settecento il Governo bilanciato
sorto con la crisi del Governo misto e con la Glorious Revolution andrà incontro a
una importante trasformazione, ma prima di analizzare l’esito di questa
trasformazione è importante inquadrare il panorama settecentesco e gli aspetti
culturali, sociali e diplomatici fondamentali che contraddistinguono il secolo XVIII.

IL SETTECENTO
Rappresenta un tornante importante:

A. Per la politica inglese e globale

B. Per la storia costituzionale inglese.

Il secolo XVIII si aprì con due importanti novità:

1. l’Union Act del 1707 con il quale si sanciva l’unione effettiva della Scozia
all’Inghilterra: nasce la Gran Bretagna, un unico regno, dotato di un unico
Parlamento.

2. Nel 1714 accede al potere una nuova dinastia: gli Hannover. Costoro in effetti
proveniva dalla Germania, dall’omonimo ducato, e parlavano a stento inglese.

Nei primi decenni verificheranno una serie di:

A. Vicende sociali.

B. B. Vicende politiche.

C. C. Vicende diplomatiche.

Che produrranno profonde trasformazioni:

A. Alla società

B. B. Al sistema politico

C. C. Alla Verfassung, alla forma di governo dello Stato.

Il primo aspetto su cui richiamare l’attenzione è il fatto che a governare l’Inghilterra


venga chiamata infine la dinastia Hannover. Si tratta di una dinastia:

- Di origini e cultura tedesche.

- Spesso distante da Westminister.

- Poco adusa alle pratiche istituzionali prettamente inglesi che il Governo


Bilanciato richiede.

Il secondo aspetto è legato alle vicende sociali. In quei decenni la Gran Bretagna,
grazie alla sanzione della libertà di stampa e della libertà di parola, dopo il 1688
diviene:

A. Una nazione di lettori, scrittori, commentatori

B. B. Una nazione di giornali politici

C. C. Un paese con numerosi luoghi di sociabilità legati alla circolazione della


parola scritta e ‘parlata’.

In altre parole, già dalla fine del Seicento in Inghilterra si erano gettate le basi per la
formazione della moderna opinione pubblica.

Sopratutto dalla metà del Settecento questa moderna opinione pubblica si


concentrava attorno a:

• Fatti politici.

• Attività del Parlamento.

• Scelte politiche del Sovrano e dei suoi ministri.

Insomma, come in tutte le società moderne, la politica divenne oggetto di


discussioni pubbliche, di commenti e critiche. La politica allora ebbe forti effetti sia
agglutinanti sia divisivi.

NASCONO I PARTITI POLITICI

Dalle divisioni derivate da queste dinamiche di discussione politica emerse in seno


alla crescente opinione pubblica si fanno strada sempre più delle fazioni diverse: in
Gran Bretagna dal primo Settecento nacquero i Partiti politici.

In particolare presero a chiamarsi:

A. Whigs: i discendenti delle ‘teste rotonde’ cioè i sostenitori del Parlamento e


della politica liberale.

B. Tories: i discendenti dei Cavalieri, sostenitori di una politica più moderata e


conservativa, e soprattutto sovrano-centrica.

Questa polarizzazione partitica tra Whings e Tories si manifestò sia in Parlamento


sia nella società È del resto una conseguenza fisiologica della forma di governo
bilanciato che propone due poli di potere con due diversi protagonisti: il Re e i
ministri e il Parlamento.

Tuttavia per comprendere a fondo le trasformazioni sopraggiunte occorre inserire


in questo quadro:

A. Politico dato da una situazione bipartitica.

B. Sociale dato da una società moderna che si esprime attraverso un’opinione


pubblica capace di controllare la politica (il re, i ministri e il Parlamento).

C. Costituzionale dato dalla forma di governo bilanciato.

D. La presenza di sovrani ‘quasi’ tedeschi o poco inglesi.

Proprio la provenienza della dinastia e la loro poca conoscenza delle pratiche di


governo inglese e la frequente loro assenza, fanno sì che nella Costituzione
bilanciata:

A. Il Potere legislativo: sia e rimanga saldo nelle mani del Parlamento che anzi,
sempre più, diventa lo specchio dell’opinione pubblica e del sistema partitico.

B. Il Potere esecutivo: scivola sempre più nelle mani dei ministri del Re, che però
in assenza del Re garantiranno il loro appoggio: al Parlamento e al leader del
partito vincitore delle elezioni, quindi alla maggioranza parlamentare.

IL CABINET
Si afferma progressivamente come organo detentore del potere esecutivo-
collegiale. Il cabinet:

1. Era composto dai ministri più importanti

2. Presieduto dal re o dal leader di maggioranza

3. Le sue sedute erano segrete e non venivano prodotti verbali Ebbene accade
che con gli Hannover all’inizio del Settecento la Verfassung si trasformò, da
bilanciata a sbilanciata a favore del Parlamento.

Questo stato di cose perdurerà almeno fino al 1760 data decisiva perché
accaddero molti avvenimenti:

1. Lo ‘scoppio’ della Rivoluzione industriale.

2. La Guerra dei Sette anni considerata la prima guerra globale.

3. E infine, l’accessione al trono d’Inghilterra di Giorgio III di Hannover. 

Capitolo 20
Ricapitolando abbiamo detto che la prosecuzione dinastica con gli Hannover al
trono d’Inghilterra ebbe diverse ricadute costituzionali. In particolare, la loro
refrattarietà alle consuetudini e alle leggi inglesi, e la loro frequente distanza da
Westminister, fece sì che al livello di potere esecutivo si assistesse:

1. A un progressivo scivolamento di potere dalle mani del Sovrano a quelle dei


ministri.

2. A un progressivo allineamento da parte dei ministri alla politica del leader


della maggioranza parlamentare.

Questa situazione, abbiamo detto che proseguì fino al 1760 quando salì al trono
di Inghilterra Giorgio III di Hannover. Apparentemente questa non parrebbe una
novità eclatante dal momento che si trattava di un altro sovrano della stessa
dinastia ‘quasi’ tedesca e poco inglese. Eppure Giorgio III dimostrava alcune
caratteristiche peculiari:

A. Egli era il primo Hannover nato in Inghilterra.

B. Parlava perfettamente inglese.

C. Si sentiva inglese.

D. Voleva governare l’Inghilterra secondo la costituzione vigente.

QUALE COSTITUZIONE PER GIORGIO III?


Qual era nel 1760, dopo 70 anni dalla Gloriosa Rivoluzione, e dopo cinque decenni
di regno Hannover la Costituzione vigente a cui si richiamava Giorgio III?
Nell’immaginario di Giorgio III, nel 1760 la Costituzione vigente era quella del Bill of
Rights, ossia quella bilanciata. Quella che riconosceva al sovrano molti poteri, tra
cui: l’iniziativa in politica estera e il potere di Negative voice per bloccare gli atti del
Parlamento.

Tuttavia, in via di prassi nei cinque decenni precedenti, l’assenza dei sovrani aveva
sbilanciato i rapporti tra i due Poteri:

A. la Negative voice non era più usata dal 1707

B. B. La politica estera, al pari di quella interna, era negoziata tra i partiti

C. C. Il Potere esecutivo – il Cabinet – era sempre più controllato dal Parlamento 


Insomma, l’immagine di costituzione di Giorgio III non era più veritiera ma solo
virtuale.

LA COSTITUZIONE DI GIORGIO III


Quella che avrebbe voluto come base del proprio governo non era più ‘attuale’,
essendosi verificato uno scivolamento a favore del Parlamento e come reazione
Giorgio III si irrigidì. Sia chiaro però:

- Egli non aveva un progetto reazionario.

- Non era come Carlo I.

- Intendeva solamente riappropriarsi di alcune sue prerogative che il Bill of Rights


gli aveva riconosciuto e che la prassi del primo Settecento gli aveva tolto.

LA CRISI COSTITUZIONALE

Giorgio III intendeva riappropriarsi:

A. Della Negative voice perduta dal 1707

B. Della presidenza del Cabinet (ormai presieduto dal leader della maggioranza
parlamentare)

C. Della titolarità della politica estera.

Queste intenzioni produssero nel decennio 1760-1770 una crisi costituzionale e un


intenso dibattito pubblico sul ruolo della Corona.

GLI INTELLETTUALI A FAVORE DI GIORGIO III


David Hume: secondo Hume il re deve salvaguardare il proprio ruolo di guida del
sistema con influence, quindi si fa portavoce di un potere informale.

Brolinbrooke sostiene il ruolo centrale del re come primo patriota del regno.
Intanto però la politica nazionale procedeva e imponeva a tutti gli attori scelte di
campo più o meno brutali e tra questi anche e naturalmente Giorgio III.

LE VICENDE DIPLOMATICHE
La vicenda diplomatica più impegnativa in cui si trova coinvolta la Gran Bretagna
della seconda metà del Settecento. È senz’altro il rapporto conflittuale con le ‘sue’
colonie d’America. Vediamo meglio il nesso tra questa vicenda e il nostro discorso
sulla forma di governo.

Di fronte al crescente attrito tra la Gran Bretagna di Giorgio III e le ‘sue’ colonie
d’America. Accadde un evento che avrebbe avuto forti ricadute in ambito
costituzionale:

A. L’opinione pubblica – attore costituzionale oramai potentissimo – era contraria


alla guerra

B. Il Parlamento era in ampia parte contrario alla guerra, quello stesso


parlamento verso cui da diversi decenni guardano lettori, giornali e
commentatori

C. Il Re Giorgio III essendo invece favorevole conseguentemente dichiarò guerra


alle colonie.

L’esito di tale guerra fu rovinoso: l’Inghilterra subì una durissima sconfitta militare e
nel 1782 dalla Pace di Parigi uscì umiliata e profondamente impoverita; il 1782,
l’anno della Pace di Parigi, segna la sconfitta dell’Inghilterra in tutti i campi:
politico, diplomatico, economico, e soprattutto costituzionale:

A dare un senso costituzionale a questa vicenda infatti fu la lettera di dimissioni da


Presidente del Consiglio da parte di Lord Frederic North a Giorgio III.

In sostanza, il Presidente del Consiglio sottolineava al Re Giorgio III che:

A. Il Parlamento non avrebbe voluto la guerra

B. L’opinione pubblica non avrebbe voluto la guerra

C. Il Re e i ministri hanno, invece, deciso di fare la guerra contro l’aperto parere di


Parlamento e opinione pubblica.

Egli affermava allora che bisognava prendere atto che si era commesso un errore:
Per questa ragione si dimetteva e auspicava che gli altri ministri facessero lo
stesso. Perché?

Perché, dice North, non è più possibile:

A. Governare contro il Parlamento.

B. Governare contro l’opinione pubblica.

O meglio non è più possibile governare senza, anche, la fiducia del Parlamento.
Tali dimissioni ‘costituzionalizzano’ lo slittamento a favore del Parlamento che dal
1700 si era avuto all’ombra di diversi sovrani Hannover.

Infatti, dal momento che, in assenza dei sovrani Hannover, il potere esecutivo era
sempre più scivolato nelle mani del Cabinet e, dal suo canto, per ovviare
all’assenza degli Hannover, aveva cominciato sempre più a negoziare le scelte di
politica ‘esecutiva’ con il Parlamento.

D’ora in avanti il governo e i ministri dovranno:

A. Avere la ‘fiducia’ del Re – come tradizione

B. Avere la fiducia del Parlamento – come per prassi a partire dal Settecento.

Dal punto di vista costituzionale è accaduto che: i due poteri sono ora in mano a
tre organi:

1. Il Re – potere esecutivo e diplomazia.

2. Il Cabinet – potere esecutivo.

3. Il Parlamento – potere legislativo.

Il Cabinet doveva avere la doppia fiduciosa del Re e del Parlamento. Per il


consolidamento di questa prassi siamo dunque approdati alla monarchia
costituzionale.

LA MONARCHIA PARLAMENTARE
Da allora in avanti la Costituzione inglese sarà sempre più confermata e
consolidata. La modernità costituzionale era del resto oramai raggiunta. Da allora
in avanti si ‘allargherà’ il numero dei ‘privilegiati’ chiamati ad eleggere i deputati:
nel 1832 si assiste al primo allargamento elettorale e nel 1867 ulteriore
ampliamento dei soggetti elettorali.

Questo assetto costituzionale consolidatosi nel XVIII secolo si irrobustirà nel XIX
secolo con le riforme predette al corpo elettorale. Si modificherà in direzione della
crescita del ruolo del leader del partito di maggioranza che diventerà anche Prime
minister e poi premier. Tuttavia la logica costituzionale rimarrà sempre la stessa
imperniata sul dispositivo della doppia fiducia al Cabinet.

Sia chiaro come in moltissimi altri casi di cui abbiamo discusso nei capitoli
precedenti si tratta di una situazione dovuta a necessità costituzionali e pratiche: il
re, infatti, sceglie quale primo ministro colui che è in grado di raccogliere i più ampi
consensi in Parlamento. Perché senza il Parlamento, ossia senza soldi e senza
leggi, il monarca non può governare.

Questo rapporto tra Corono e Parlamento si stabilizza ulteriormente nel 1835


quando Guglielmo IV di Hannover richiama come primo ministro lord Melbourne, al
posto di Peel, che non godeva del consenso del partito, dentro e fuori il
Parlamento. La lezione di Lord North era confermata: senza il consenso del paese
non si governava: l’era dei favoriti del re era tramontata come quella delle velleità
del governo personale.

Abbiamo dunque visto come:

A. La ‘modernità costituzionale’ arriva nel 1688 con l’avvio della forma di governo
bilanciato.

B. Ulteriore scatto in avanti si ha dal 1782 in avanti con l’evoluzione del sistema in
senso parlamentare Si noti dunque che • L’avvio del governo parlamentare a
partire dal 1782 – arriva a 93 anni dall’emanazione del Bill of Rights – che
aveva segnato la svolta costituzionale e il passaggio alla ‘costituzione dei
moderni’.

C. La crescita della rappresentatività del sistema avviene con gli le riforme al


sistema elettorale del 1832 e 1867 volte ad un ampliamento del corpo
elettorale.

D. D. L’evoluzione costituzionale passa attraverso la funzione del Premier.

Lo snodo elettorale è importantissimo: facendo leva sul fenomeno del patronage


infatti, la Corona e i Lords influenzavano le votazioni. Inoltre, le circoscrizioni erano
del tutto arbitrarie: alcune città non erano affatto rappresentate e alcuni borghi
pressoché disabitati mantenevano il privilegio consuetudinario di inviare i propri
deputati. Infine, il voto era pubblico e, per questo, gli elettori facilmente
manipolabili.

LE CINQUE LEGGI ELETTORALI INGLESI E LA SVOLTA DEL XX SECOLO


La stagione riformatrice delle leggi elettorali: prende avvio nel 1832, prosegue con
gli atti del 1867, del 1884 (allargamento del suffragio maschile) e del 1918
(suffragio universale maschile e suffragio femminile solo per donne di età sopra i
30 anni) e si conclude nel 1928 con il suffragio universale maschile e femminile.

IL CICLO DELLE CINQUE LEGGI ELETTORALI INGLESI


È unito alla legge sul voto segreto del 1872. Affranca e emancipa la politica dal
patronage e dai condizionamenti personali: gli elettori inglesi, da ora in poi,
saranno chiamati a scegliere direttamente la maggioranza per governare il paese.

Ciò che è essenziale è che il capo del partito che vince le elezioni è nominato
primo ministro ed ottiene automaticamente la fiducia in Parlamento. Il sistema
elettorale inglese è dall’origine votato alla stabilità perché basato su un saldissimo
bipartitismo (whigs e tories) che elimina terzi contendenti che potrebbero
indebolire il sistema. Inoltre, di regola, le sconfitte elettorali decretano la fine della
carriera di un primo ministro.

Per la solidità costituzionale del primo ministro e il nesso forte che lo lega alla
maggioranza parlamentare taluni hanno parlato di: ‘DITTATURA ELETTORALE’
Data la preponderanza assunta progressivamente dal Primo ministro all’interno del
Cabinet.

Il primo Ministro, infatti, può:

1. Revocare i ministri recalcitranti onde evitare ostruzionismi.

2. Al governo compete la fissazione dell’ordine del giorno.

3. Il governo ha quindi ereditato dal monarca quel che restava della medievale
prerogativa regia, e quindi il potere di emanare decreti aventi carattere
eccezionale, poiché il Primo ministro brandisce lo scettro di warlord che una
volta spettava solo al re, in materia militare.

Cosi si conclude che agli esordi del XX secolo la parabola evolutiva della forma di
governo della Monarchia inglese attraverso i secoli presi in esame Che vede per
l’appunto l’evoluzione da:

A. Governo misto a governo bilanciato.

B. Da bilanciato a parlamentare.

Allora tracciato questo sentiero istituzionale e costituzionale non sarà difficile


affrontare l’esperienza francese, che si dimostra un caso assai diverso da quello
preso in esame.

Capitolo 21
L’ESPERIENZA FRANCESE: Dentro lo spazio ‘dei francesi’
Questa definizione ‘dei francesi’ non è casuale: la Francia dal punto di vista
costituzionale è uno Stato mosaico, cioè si allarga per successivi ampliamenti
territoriali che si registrano in maniera più o meno irregolare dal Basso Medioevo in
avanti. Solo molto dopo, rispetto all’Inghilterra, nello spazio continentale si può
parlare di ‘Regno di Francia’.

Una “costellazione” di ordinamenti territoriali all’inizio sul territorio si ha una


‘costellazione’ di ordinamenti territoriali più o meno estesi e/o più o meno
autonomi. Il processo di coagulazione di un Potere ‘regio’ del tipo che abbiamo
definito ‘Stato territoriale’ si sviluppa dopo una fase embrionale avviata già da
Filippo II e Luigi VIII della dinastia dei Capetingi, che avviano una fase di conquista.

Tale processo di trasformazione in Stato Territoriale però si realizza molto dopo. In


particolare Luigi IX re Capetingio:

A. Intono al 1259, imprime un’accelerazione all’espansione territoriale giungendo,


di fatto due secoli dopo l’Inghilterra, a controllare quasi tutto lo spazio entro i
confini naturali

B. Nel 1254, riesce a imporre la denominazione ‘statale’ e territoriale al suo


potere, non si definisce più come Re dei francesi bensì come Re di Francia.

L’AVVIO DELLO STATO TERRITORIALE

Dal nostro punto di vista si tratta di un passaggio cruciale: al vertice non c’è più un
signore feudale più ricco e potente di altri, ma un Sovrano-giudice che si presume
investito da Dio che pretende soggezione politica e territoriale in cambio della
protezione offerta ai sudditi.

IL REGNO DI FRANCIA

Non a caso in quel torno di decenni, fino al XIII secolo, comincia a delinearsi dal
punto di vista costituzionale: sono creati nuovi uffici ‘reali’ e sono creati nuovi
ufficiali-impiegati ‘del re’.

1. I balivi: a capo di circoscrizioni dette baliaggi nella Francia del Nord.

2. I Siniscalchi: a capo delle circoscrizioni nella Francia meridionale.

3. I Prevosti: incaricati soprattutto di materie fiscali e di controllare le operazioni


di versamento del fisco agli ufficiali superiori (balivi e siniscalchi).

Al centro vengono istituzionalizzati i ruoli:

1. Del consiglio del Re omposto da: baroni (membri dell’antichissima nobiltà) e


prelati (membri dell’alto clero).

2. Della camera dei conti composta da alti funzionari (ufficiali preposti


principalmente al controllo del drenaggio fiscale dalle province al centro).

LA VERA TRASFORMAZIONE DELLO STATO DI FRANCIA IN MONARCHIA


NAZIONALE

Avvenne alcuni decenni dopo, con FILIPPO IV detto il Bello re Capetingio, quando
tutte le istituzioni a cui prima si è accennato si consolidano, cioè: al vertice
(Consiglio del Re e Camera dei conti) sul territorio (Balivi, Siniscalchi, Prevosti).

Inoltre, come perfetto del “suo” tempo Filippo IV si dichiarò capo della Chiesa in
Francia imponendo il prelievo fiscale al clero. Cercò di rendersi autonomo
dall’autorità del Papa di Roma.

Questa vicenda, è solo in apparenza di natura politico-religiosa Essa ebbe


importantissime ricadute costituzionali.

PERCHÉ?
Bonifacio VIII scomunicò Filippo IV. La scomunica per quel tempo, infatti, per un
Sovrano significava la fine del suo Potere, perché a seguito della scomunica i
sudditi non erano più tenuti all’obbedienza al Sovrano.

DAL PUNTO DI VISTA COSTITUZIONALE


Si tratta di un passaggio drammatico: si era nel bel mezzo di un processo di
‘addensamento’ costituzionale volto alla creazione di un Regno di Francia. Tutto –
naturalmente – procedeva in via di prassi, secondo aggiustamenti consuetudinari.
Le istituzioni era sì visibili ma in via di consolidamento e la società era percorsa da
fratture sociali, religiose, culturali e territoriali. La scomunica del Sovrano, perciò,
giunse in un quadro costituzionale altamente ‘instabile’.

LA REAZIONE DI FILIPPO IV

Come gesto estremo in opposizione alla scomunica di Bonifacio VIII ebbe


un’intuizione: per cercare in extremis il consenso dei francesi ‘sciolto’ dall’obbligo
dell’obbedienza per imitare i suoi omologhi sovrani tedeschi e soprattutto inglesi.

Cioè per consolidare il proprio ruolo al vertice del regno nonostante la scomunica
convocò – per la prima volta – in Francia un’assemblea che riunisse i maggiori
‘ceti’ del suo regno, ossia gli Stati generali.

GLI STATI GENERALI

Tale assemblea era appunto il Protoparlamento e fu convocata per la prima volta il


10 aprile del 1302 nella Cattedrale di Notre Dame. Gli Stati generali erano divisi in
tre ‘Camere’:

1. Una per l’alta Nobilità, più 31 principi e molti baroni

2. Una per l’alto Clero

3. Una per le città e i borghi più importanti inoltre vi erano poi magistrati, ufficiali e
alti amministratori locali.

Insomma, Filippo e i suoi “consiglieri” trovarono l’escamotage a cui ancora


nessuno aveva pensato: cercare consenso nei corpi cetuali della società. Ed è per
questa idea strumentale alla conservazione del Potere del Re che in Francia
nacque l’istituzione centrale di una rappresentanza generale dei ceti del Regno.

Per chiarire le differenze tra Protoparlamento inglese e francese:

1. Mentre il Parlamento inglese si consolida come istituzione ‘spontanea’ a partire


dalla prassi medievale del quod omnes tangit e assurge a ruolo centrale per le
convinzioni costituzionali dei diversi sovrani il Protoparlamento francese nasce
come ‘semplice’ istituzione di sostegno del Sovrano, da lui voluta per vantare
la propria autorità contro il Papa.

2. Il Protoparlamento francese fu convocato con compiti ‘meramente’ formali, al


più consultivi, diretti specificamente contro il Papa mentre il Parlamento inglese
si conquistò da quasi subito un ruolo più che consultivo, quasi decisivo, in
procedimenti decisionali che coinvolgevano il Regno d’Inghilterra.

Tuttavia, sebbene l’idea di Filippo IV si fosse rivelata vincente a discapito del Papa,
la Storia dell’istituzione degli stati Generali per quanto riguarda la Costituzione
francese va in una direzione diversa rispetto a quella inglese. Gli Stati Generali
ebbero sin da subito un’esistenza molto stentata.

Come sappiamo infatti, le istituzioni sono il prodotto di molteplici fattori: sociali,


politici, territoriali che variano in base alla latitudine e per provare ad inquadrare
meglio il caso francese può essere utile tenere a mente alcune peculiarità del
regno di Francia che incisero sul funzionamento degli Stati generali.

LE PECULIARITÀ DEL CASO FRANCESE


Innanzitutto un’osservazione di carattere geografico: il territorio di riferimento in
Francia era molto più esteso di quello inglese (che inizialmente non annoverava
neanche quello di Scozia e Irlanda).

Da tale premessa derivano:

1. Difficoltà logistiche e operative: non era agevole, per i delegati, spostarsi dalle
loro province per recarsi al centro dove – diversamente da quanto accadeva in
Inghilterra – costoro dovevano semplicemente avallare la volontà del Sovrano.

2. Difficoltà sociali e relazionali: il territorio era talmente vasto al punto che i


diversi delegati parlavano ‘lingue’ diverse e stentavano a lavorare insieme e a
decidere insieme: la stessa comunicazione spesso era compromessa.

Inoltre i delegati cetuali in Francia – diversamente dai loro omologhi in Inghilterra –


disponevano di altri – e più efficaci – canali di accesso al centro per cercare di
tutelare i propri interessi cosicché le riunioni degli Stati generali apparvero presto
inutili e fumose ‘perdite di tempo’.

Infatti, da subito

A. Gli Stati generali stentano ad imporsi come istituzioni centrali veramente


‘operative’ e rappresentative.

B. Le riunioni degli Stati generali furono quasi sempre ‘imperfette’ per l’altissimo
tasso di assenteismo.

Fino all’inizio del XV secolo gli Stati Generali non hanno un regolamento definitivo,
anzi, di volta in volta per le varie convocazioni:

a. Si hanno criteri diversi di selezione dei delegati.

b. Si hanno modalità diverse di convocazione.

c. Si hanno luoghi diversi di riunione.

Insomma, fino alla fine del XV secolo ogni convocazione era in sé unica e slegata
dalla Costituzione del Regno, cioè solo a fine XV secolo si ha un modello
standard. Per Stati generali con assortimento ‘tipo’ clero, nobiltà e terzo Stato:
città. Riunioni in tre camere separate e voto per ceto.

Dobbiamo però tenere a mente che dal 1302 al 1614 Gli Stati generali furono
convocati circa 35 volte cioè più o meno quanto il parlamento inglese fu
convocato in circa vent’anni.

A. Dal 1302 al 1484: vengono convocati con una qualche frequenza, imperversa
la Guerra dei Cent’anni e il re ha bisogno di finanziamenti.

B. Dal 1484 al 1561: non vengono mai convocati.

C. Dal 1561 al 1614: vengono convocati 5/6 volte.

D. Dal 1614 al 1789: vengono convocati una sola volta.

Due riflessioni di fronte alla sequenza delle convocazioni degli stati generali:

1. Non è importante la frequenza delle convocazioni delle riunioni del Parlamento


ma soprattutto che tale istituzione fosse presente nell’immaginario collettivo di
tutti: Sovrano e ceti 28.

2. La bassa frequenza (una media di 1 ogni 10 anni) NON deve indurci a pensare
agli Stati Generali come istituzioni deboli dal punto di vista costituzionale.

Capitolo 22
Tra la metà del Trecento e la fine del Quattrocento si verifica il momento di
massima visibilità degli Stati Generali con maggiore frequenza di convocazioni, in
cui si avvicendano una serie di fasi:

- La fase iniziale del Regno di Francia.

- La fase più cruda dello scontro tra sovrani francesi e sovrani inglesi.

- La fase che coincide con la Guerra dei Cent’anni,

Con susseguirsi di altre fasi:

- La fase di espansione della Monarchia Nazionale.

- La fase nella quale il Sovrano ha bisogno di grandi e crescenti finanziamenti.

- La fase in cui si crea la Chiesa gallicana.

- La fase in cui si razionalizza il sistema militare.

- La fase in cui si razionalizza il sistema fiscale.

Queste fasi, insomma, fanno parte di una stagione in cui i Re di Francia hanno
molti bisogni – dalla scomunica in avanti – e cercano aiuto nei ceti. Infatti quando
le crisi diminuiscono e conseguentemente diminuiscono i bisogni dei Re le
convocazioni degli Stati Generali diminuiscono e – addirittura – dal 1484 al 1561
non si hanno più convocazioni.

In questo quadro accadde un fatto di grande rilievo costituzionale per la storia


della Francia. Vediamo:

1. da una parte il Re (Carlo VIII) che ha bisogno di finanziamenti e per questo –


‘ogni tanto’ – convoca gli Stati Generali.

2. Dall’altra i delegati dei ceti che, come sempre accadeva in ogni convocazione
precedente, si ritrovano costretti ad avallare scelte del sovrano anche e
soprattutto in termini di prelievo fiscale.

Nel 1439, di fronte alla richiesta di Carlo VIII di acconsentire al prelievo per
l’esercito con tassa annuale. Gli Stati Generali approvano – a favore del re – una
imposta annuale , senza che in futuro ci sia più bisogno della loro convocazione
per autorizzarla.

Tale imposta assumerà il nome di taglia. È una decisione molto importante dal
punto di vista costituzionale perché toglie agli Stati Generali ogni potere
contrattuale e li priva di forza nei confronti/scontri che li opponevano al Re.

Insomma, il Re aveva già il permesso di imporre ogni anno un prelievo consistente


e dunque non avvertì più il bisogno di convocare gli Stati Generali. Si avverte allora
in maniera evidente la differenza tra Stati Generali e Parlamento inglese.

GLI STATI GENERALI VS. IL PARLAMENTO INGLESE


Mentre gli Stati Generali rinunciarono al controllo fiscale, il Parlamento inglese fece
da subito di quella funzione l’occasione per imporsi all’attenzione del Sovrano fino
a farne una delle principali loro prerogative (cfr. Magna Carta, Petition of Rights e
Bill of Rights).

Con la scelta del 1439 gli Stati Generali, di fatto, si auto-escludono dal ‘gioco dei
poteri’ all’interno dello Stato. Infatti Dal 1439 al 1614 gli Stati Generali furono
convocati pochissime volte (cinque o sei) e per questioni di scarso rilievo.

NEL REGNO DI FRANCIA


Soprattutto a partire dalla fine del XVI secolo fino all’inizio del XVII prese avvio una
prassi costituzionale che vide il Re come protagonista più svincolato (rispetto
all’Inghilterra) dalle rappresentanze cetuali. Una sorte analoga toccherà anche alle
istituzioni rappresentative cetuali in Spagna e Portogallo.

Il Seicento allora è e si ricordi il tentativo di Carlo I in Inghilterra. Una stagione di


governo dei Sovrani ‘da soli’ o con il supporto di loro favoriti e una stagione di
declino delle istituzioni rappresentative di ceto. Tuttavia questo non deve indurci a
pensare che ovunque tali istituzioni siano state semplici esperienze effimere e prive
di senso.

Al contrario, tali istituzioni erano ovunque consolidate nell’immaginario collettivo.


Un immaginario costituzionale che vedeva il Re e i ceti cooperare, più di quanto i
Re ammettessero o dessero a vedere e ciò è sufficiente a farli ‘rinvenire’ in tutta la
loro potenza costituzionale nei secoli a venire.

PER L’ESPERIENZA SPAGNOLA

Basti pensare alle Cortes. Saranno proprio queste infatti ad ispirare nel 1812 una
vittoriosa rivolta contro Napoleone che allora era ovunque in Europa all’apice della
sua parabola politica, avendo conquistato e sottomesso la maggior parte degli
Stati del continente. Questo esempio, solo per segnalare la forza evocativa e
costituzionale di istituzioni e consuetudini consolidate nell’immaginario collettivo
dell’Occidente continentale.

IL SEICENTO
Non deve essere considerato un secolo di decadenza Bensì Un secolo nel quale si
ebbero innovazioni molto importati.

È il secolo:

1. Del Barocco.

2. Della rivoluzione scientifica.

3. Del moderno costituzionalismo Dobbiamo però essere consapevoli della sua


complessità.

LA FRANCIA DEL XVII SECOLO

Dal punto di vista costituzionale è uno Stato tendenzialmente orientato al


governo assoluto, dove assoluto non vuol dire affatto dispotico, tutto al contrario.
Si intende per regni assoluti governi in cui il re governa senza l’affiancamento degli
organi di governo tradizionali (cetuali).  

Dal nostro punto di vista istituzionale per valutare la forza delle istituzioni occorre
osservarle anche nelle fasi in cui apparentemente sono assenti. Osservare cioè:

A. Il loro radicamento nell’immaginario collettivo.

B. Se e con quali istituzioni i sovrani le sostituiscono.

Nel caso francese, iI diversi Re attivano delle ‘istituzioni’ parallele ai


Protoparlamenti:

1. Ugualmente cetuali.

2. Ugualmente tricamerali.

3. Ma più docili, data la cooptazione da parte del Re.

Tali istituzioni erano, tra le altre:

A. Assemblea dei notabili.

B. Stati Provinciali (simili agli stati Generali ma di ambito territoriali locale).

Inoltre, l’esistenza stessa di tali istituzioni suggerisce un’attenuazione della


concezione assolutistica del potere del Re Infatti continuando ad esistere e ad
essere operative per tutto il XVII e XVIII secolo Con le loro scelte riuscivano a
tenere in apprensione il governo dei Re di Francia Per questo possiamo parlare di
un governo tendenzialmente orientato verso l’assolutismo, e non veramente
assoluto.  

Capitolo 23
PER ORIENTARCI, VEDIAMO IL CONTESTO DEL SECOLO XVII

Si tratta, lo abbiamo detto, di un secolo complesso, di grandi trasformazioni e


cambiamenti in tutti gli ambiti della vita associata:

1. Politica.

2. Economia.

3. Cultura (letteraria e figurativa).

4. Religione.

5. È infatti in questo contesto che prende avvio una delle stagioni più
interessanti della storia delle istituzioni francesi.

DA RICHELIEU A MAZZARINO
Nel 1642 moriva il ‘ministro’ Richelieu, indicando come suo successore al fianco di
Luigi XIII il cardinale Mazzarino. Vediamo in Francia, perfettamente rappresentata
la figura del ‘favorito’ del re, che lo affiancava nelle scelte di governo, figura che
abbiamo visto in Inghilterra essere duramente osteggiata da ogni frangia del
Parlamento. Quando l’anno seguente anche Luigi XIII morì, e essendo erede al
trono il figlio di appena 5 anni, con la reggenza della madre Anna d’Asburgo In
tale congiuntura favorevole, allora, Mazzarino organizzò il suo progetto politico su
tre punti principali.

Il progetto politico di Mazzarino prevedeva:

1. Il risanamento delle finanze.

2. Il riassetto delle istituzioni attraverso la limitazione della nobiltà di toga.

3. La normalizzazione del rapporto con l’alta nobiltà che contrastava il tentativo


del sovrano di accentrare il potere nelle proprie mani.

Da questo punto di vista, allora, il progetto di Mazzarino ben rappresenta il


momento di passaggio da una monarchia giurisdizionale e post-feudale a una
monarchia amministrativa premoderna. Tuttavia, la politica di Mazzarino provocò
un diffuso stato di agitazione sociale nei Parlamenti i cui membri si sentivano
colpiti nella propria autonomia di ceto.

Uno snodo cruciale è il 1648 a queste agitazioni scaturì una rivolta che prese il
nome di fronda parlamentare. Nell’agosto del 1648 Scoppiò una rivolta urbana
capeggiata dai parlamentari locali che costrinsero Mazzarino, la reggente e il
sovrano bambino a fuggire da Parigi, e firmare nell’aprile del 1649 la pace di Rueil.

Il governo allora a seguito di questa pace fu costretto ad accogliere molte richieste


che i Parlamenti avanzavano per ripristinare i propri privilegi. Proprio a causa di
queste concessioni fatte ai Parlamenti, Mazzarino si ritrovò a fronteggiare
un’ondata di contestazione da parte della nobiltà, ovvero la fronda dei principi,
guidata dal principe di Condé.

LA FRONDA DEI PRINCIPI


Fu un anacronistico ‘rigurgito’ feudale contro il tentativo della nobiltà più recente,
quella di toga – degli uffici, dell’amministrazione e dei tribunali – di acquisire
ulteriori spazi all’interno del governo regio.  I numerosi scontri si estinsero tra il
1652-53 quando le forze frondiste furono dissolte dal generale Henry de la Tour e
Mazzarino poté rientrare a Parigi.  

L’ASCESA DI LUIGI XIV 

Luigi XIV  Abbiamo visto che Luigi XIV, figlio di Luigi XIII, accede al potere nel 1643
alla morte del padre. Tuttavia, essendo ancora un bambino fu affiancato al potere
dalla reggenza della madre Anna d’Austria e del primo ministro il Cardinale
Mazzarino.  

Dal 1661 al 1715 governerà invece da solo. È infatti nella figura di Luigi XIV –
autodefinitosi le Roi Soleil – che si identifica:

A. Il Regno di Francia del XVII secolo.

B. Lo stereotipo del sovrano assoluto.

Si tratta di un sovrano assoluto o quasi assoluto. È chiaro comunque che con il


suo governo Luigi XIV impresse in Francia una fortissima accelerazione a partire
dal 1661 a: 

• Dinamiche di potere tra corona e ceti.

• Politica amministrativa.

• Politica religiosa.

• Politica diplomatica.

LA CONDOTTA DI GOVERNO DI LUIGI XIV


Fu tale da imporsi come modello di assolutismo su tutto il continente e fuori.
Ovviamente, si tratta dell’esito di dinamiche già delineatesi negli anni precedenti,
soprattutto con la figura di Mazzarino, ma che Luigi XIV portò alle estreme
conseguenze.

La grande novità introdotta con il regno del Re Sole fu l’interruzione della


consuetudine di associare al governo un favorito. Dopo la morte di Mazzarino,
infatti, Luigi XIV non nominò alcun sostituto. Da allora in poi tutti gli affari di
governo sarebbero stati svolti dal sovrano. 

L’obiettivo di Luigi XIV era ridimensionare il potere dell’alta nobiltà che fino ad
allora:

A. Aveva governato al centro tramite l’Assemblea dei notabili, nel Consiglio del Re.
B. Governava le comunità locali come membri più eminenti tra i residenti delle
diverse città e borghi disseminati sul territorio.

Luigi XIV allora inventò una strategia per:

1. Portare a corte la nobiltà e ridurla a mero elemento di folklore.

2. Sradicare la nobiltà dal territorio e rimuoverla dal vertice delle istituzioni – dove
oltre a svolgere attività di esazione fiscale, amministrava la giustizia.

3. Ridimensionare la nobiltà di toga ‘depotenziando’ alcune funzioni attribuite ai


Parlamenti.

In effetti gli Stati Generali durante il regno di Luigi XIV non vennero mai convocati.
Il Sovrano infatti Tentava di portare nelle proprie mani quote di un potere che fino
ad allora era stato condiviso con una pluralità di organi cetuali di antichissima
tradizione.

Luigi XIV allora con due ordinanze emanate nel 1667 e nel 1670.

1. Abolisce la pratica del lit de justice, vietando ai parlamenti qualsiasi forma di


obiezione prima della registrazione degli editti sovrani Insomma.

2. Il Re Sole, più che sovvertire il modello in vigore fino a quel momento, puntava
a risolvere a suo favore alcune disfunzioni del sistema fiscale e della
condivisione con i ceti del potere – di cui voleva godere in maniera esclusiva.

L’aspetto amministrativo di Luigi XIV creò una serie di nuovi organi centrali
direttamente dipendenti da lui, dove sopratutto nelle periferie, ampliò la rete degli
intendenti creati dai suoi predecessori e li dotò di nuovi poteri. Nell’ambito della
finanza invece diede pieni poteri a Jean-Baptiste Colbert, già segretario di
Mazzarino, che attuò un piano di risanamento delle finanze funzionale a questa
virata sovrano-centrica.

Infatti, Luigi XVI cancellò il vecchio apparato statale che la monarchia francese si
portava dietro dal periodo feudale. In primo luogo:

1. Il cancelliere del regno vedeva il proprio potere marginalizzato e ridotto a un


semplice ruolo di etichetta.

2. Il consiglio supremo del re, composto da nobili e dotato, come si è detto, di


larga autonomia, era trasformato in organo tecnico di consulenza composto
dai soli più stretti collaboratori del re.

3. Inoltre, istituì un sistema di sub-consigli ciascuno di quali accoglieva


collaboratori che egli cambiava di volta in volta, per garantirsene la lealtà.

4. Infine, la radicale riforma dell’apparato centrale dello Stato ebbe importanti


conseguenze anche sull’apparato periferico.

L’APPARATO PERIFERICO: GLI INTENDENTI


A partire dal 1661 venne rafforzato il ruolo degli intendenti (giuridicamente erano
Commissari). Costoro erano direttamente responsabili di fronte al re e a Colbert, il
Controllore generale delle finanze.

Con due importanti editti del 1667 e del 1683 Luigi XIV trasformò gli intendenti in
veri e propri ministri sul territorio, unici amministratori di tutte le nuove imposte
varate dal Sovrano. Questa inedita struttura di governo non deve in alcun modo
essere confusa con la moderna amministrazione, che arriverà negli Stati del
continente solo all’alba del XIX secolo per giungere ‘quasi immutata’ fino a oggi.  

Gli intendenti del Seicento, dunque, erano semplici funzionari delegati del re ed
erano depositari di un’amministrazione tutoria, completamente inserita nella logica
del sistema consolidatosi fino ad allora, che attribuiva al centro funzioni di
coordinamento dei numerosi poteri presenti sul territorio, secondo il sistema del
potere condiviso (plurale).

Il Re Sole chiuse il suo Regno nel 1715. L’ambizioso progetto portato avanti di
Luigi XIV fu sì, un modello di assolutismo per altri sovrani sul continente Ma allo
stesso tempo Fu un regno ‘pesante’ per i suoi sudditi perchè sempre in guerra e
perchè oppresso da un fisco invadente.

La società era quindi percorsa da un malessere crescente e ricorrenti ondate di


rivolte.

Capitolo 24
Alla morte di Luigi XVI gli succedeva Luigi XV, ancora bambino, e i suoi due
reggenti: Filippo d’Orléans e Luigi Enrico.

Dal 1726 Luigi XV assume il potere in prima persona con il suo ministro, il cardinale
André-Hercule de Fleury. Dal 1743, infine, Luigi XV regna da solo.

LA FRANCIA DEL PRIMO SETTECENTO


1. Aveva imboccato una fase discendente della parabola del potere – che aveva
toccato il punto più alto Luigi XIV, il Re Sole.

2. I diversi sovrani cercarono – eccezion fatta per il decennio delle reggenze di


Luigi XV che fu il più pacifico – di riprendere la politica economica, sociale,
costituzionale e amministrativa del Re Sole.

Cercarono sì, di farlo, ma inutilmente: infatti la Francia del secolo XVII era percorsa
da drammatiche crisi.

La crisi sociale da un lato, infatti: i ceti privilegiati stavano progressivamente


esaurendo le risorse dello Stato, mentre i ceti meno abbienti, il cosiddetto Terzo
Stato, era per cui portato a un livello estremo di povertà.

Inoltre, gli stessi ceti privilegiati non sempre erano solidali tra di loro dove l’antica
nobiltà e la nuova nobiltà di toga erano spesso in conflitto sull’unico argomento
condiviso, ossia l’ostilità della Corona nei loro confronti.

LA CRISI POLITICA

1. Frequenti le rivolte sul territorio: le diverse città e comunità rifiutavano infatti


l’autorità dei Commissari (intendenti) del Re.

2. Erano crescenti gli attriti istituzionali tra Corona e Istituzioni cetuali. La


questione della territorialità infatti, riaffiorava sottotraccia con attriti tra Corona
e Parlamenti.

In Inghilterra l’organo della rappresentanza cetuale si chiamava Parlamento


mentre in Francia l’organo della rappresentanza cetuale si chiamava Stati Generali
Invece, in Francia I Parlamenti erano tribunali presenti in ogni provincia storica
dello Stato – con funzioni giudiziarie, erano il più alto livello d’appello, al di sotto
del re, del sistema giudiziario francese.

I PARLAMENTI DI FRANCIA 

Erano grandi tribunali sorti per servire la giustizia del Re. Vi era un Parlamento per
ogni provincia. Essi adempivano a funzioni parapolitiche e funzioni di servizio,
ricoperte dalla nobiltà di toga. Inoltre, tali Parlamenti si sentivano perciò sempre
più rappresentativi sia del territorio sia della nobiltà recente.

Si appellavano al giudizio di costituzionalità, al rispetto delle leggi fondamentali


del regno: lit de justice.

Oltre alla devastante crisi finanziaria a quell’altezza, in Francia imperversava


un’acutissima crisi costituzionale:

A. il sovrano resta arroccato nella sua corte, con i suoi commissari.

B. B. I ceti erano stati progressivamente marginalizzati: gli Stati Generali non


venivano più convocati.

C. Le sole istituzioni collegiali ancora in funzione: l’assemblea dei notabili


(assoggettata al re) e gli Stati provinciali (assemblee di ceti a livello
provinciale). Erano la ‘voce’ territoriale dei ceti: convocati dal sovrano ma
espressione dei bisogni locali. La logica vincolante era quella cetuale e non
ricevevano ascolto al centro.

E tuttavia ciò che più incise negli ultimi decenni fu la crisi economica dovuta a:

A. Caduta dei prezzi agricoli.

B. Calo dei consumi da parte dei ceti bassi.

C. Carestia.

L’immediata conseguenza fu la crisi dei ceti meno abbienti di cui faceva parte il
90% della popolazione: la ‘massa lavoro’ e gettito fiscale su cui fino ad allora si era
retta l’economia della Francia. Per contro la rendita fondiaria dei proprietari, dei
nobili e del clero, raddoppiò.

Di fronte alla condizione disastrosa delle casse dello Stato. Due erano le strade
possibili:

1. Aumentare le entrate, colpendo i ceti privilegiati e favorendo la ripresa


dell’agricoltura.

2. Ridurre le spese Su queste due strade si avviarono i tentativi di Luigi XV e Luigi


XVI e dei loro Controllori Generali delle Finanze nei decenni centrali del
Settecento.

Al primo filone di pensiero apparteneva Anne Robert-Jacques Turgot


(1727-1781), economista e filosofo francese di orientamento fisiocratico. Egli
elabora, tra il 1774-1776 un progetto volto a:

A. Eliminare dal potere del governo locale i nobili e il clero parassita.

B. Riportare il nucleo del potere sulla base della proprietà terriera.

C. Adeguare in maniera proporzionale il prelievo fiscale al possesso della terra.

D. Riconfigurare il governo locale sulla base di un progetto fisiocratico.

Tra il 1775 e il 1781 elabora un nuovo progetto per un nuovo sistema di governo
locale e centrale che promanava dalle municipalità governate dai proprietari.
Passando attraverso le assemblee con funzioni amministrative territoriali: le
assemblee di distretto composte da proprietari, le assemblee provinciali
composte da proprietari, per arrivare fino all’assemblea centrale, detta
significativamente Grande Municipalité.

Tutti, in Francia e in Europa, percepivano tale proposta come dirompente


dell’ordine vigente dal medioevo. Infatti questo progetto fu applicato su porzioni
limitate di territorio dove di pensava che fosse minore l’impatto con l’assetto
vigente. È applicato per lo più fino al livello provinciale nelle province di

1. Berry.

2. 2. Delfinato.

3. 3. Borbonese.

4. 4. Alta Guienna.

Tuttavia il progetto turgottiano non riuscì a decollare a causa della resistenza


nobiliare e alle proteste dei ceti popolari che ritenevano il liberalismo turgottiano
responsabile del loro progressivo impoverimento.

JACQUES NECKER (1730-1804)

Il re Luigi XVI nel 1776 destituì Turgot dalla guida delle finanze dello Stato e lo
sostituì con Jacques Necker. Economista e esponente del secondo filone di
pensiero egli aspirava a una riduzione delle spese dello Stato tramite adeguati
progetti fiscali.

Per risolvere la crisi economica il progetto di Necker prevedeva:

A. L’abolizione di molti uffici centrali e periferici per tagliare la spesa pubblica.

B. Il licenziamento di quattrocento ufficiali sul territorio.

Tuttavia anche Necker non riuscì a imporre un sistema fiscale duraturo: le spese
nel 1781 ripresero a salire e il re Luigi XVI lo licenziò.

Luigi XVI nominò un nuovo controllore delle finanze: Charles Alexandre de Calonne
(1734-1802) che muovendosi nel solco proprietaristico e razionalizzatore.

De Calonne nel 1786 riuscì a far varare un progetto fiscale delle spese che
prevedeva l’imposta unica fondiaria chiamata significativamente Sovvenzione
territoriale. Tale imposta, inoltre, intendeva colpire – TUTTI i proprietari terrieri
indifferentemente dal loro ceto.

Il progetto era senz’altro ambizioso ideato circa un decennio dopo l’operato di


Turgot. Forte era il rischio che il re rifiutasse l’approvazione per timore delle
reazioni dei nobili proprietari: aveva base proprietaria e colpiva tutti i pro.

Si trattava dunque di un’imposta progressiva: colpiva tutti proporzionalmente


all’entità della rendita fondiaria. Non da ultimo, tale carico fiscale era amministrato
non dai ceti, ma dalle Assemblee provinciali convocate su base censitaria.

Allora De Calonne escogitò un progetto per certi versi decisamente dirompente


che si univa a un aspetto costituzionale. Per legittimare l’approvazione di tale
progetto e evitare il rifiuto dei ceti privilegiati, il re avrebbe convocato i ceti
privilegiati non nei parlamenti provincia per provincia ma all’interno di un’istituzione
più docile: l’assemblea dei notabili.

L’ASSEMBLEA DEI NOTABILI

Tale assemblea era molto più accondiscendente perché i componenti erano scelti
dal re stesso ed era composta da nobili che controllavano il territorio e che
volevano mantenersi fedeli al re.

Nel 1787 convoca l’assemblea dei notabili, convocando 144 notabili regolarmente
divisi secondo i tre ceti. Inaspettatamente l’assemblea dei notabili votò contro il
progetto di De Calonne di una tassa unica per tutti i proprietari. Si tratta di un fatto
inaspettato che dimostra la difficile congiunzione.

ETIENNE-CHARLES LOMÉNIE DE BRIENNE (1727-1794)

Il re allora nominò Controllore delle Finanze il leader che presiedeva l’assemblea


dei notabili, il vescovo di Tolosa Loménie de Brienne.

Il cardinale Loménie de Brienne propose di attenuare il progetto di De Calonne:

1. Uniformare gli organi di governo degli enti locali.

2. Istituire in comunità così concepite anche i borghi e i villaggi che ne erano


sprovvisti (quelli al di sotto dei 500 abitanti).

3. Riproporre il sistema piramidale proprietaristico.

4. Attenuare il sistema del sistema cetuale.

5. Attenuazione della tassa unica a favore della piccola nobiltà.

L’assemblea dei notabili continuò a rifiutare il progetto di riforma che prevedeva:

A. La riforma del sistema fiscale.

B. La revisione del sistema di governo locale che era originariamente così


composto dal consiglio generale (per le questioni più importanti composto dai
nobili più importanti); corpo municipale (svolgeva attività contabile e
amministrativa, composto da sindaco e membri più eminenti tra i cittadini
come consiglieri della giunta) e sindaco. Insomma, la territorialità cetuale
resisteva e era ancora fortemente legata alla residenza e al potere dei ceti.

Capitolo 25
Dicevamo una crisi irreversibile: nel maggio 1787 anche Loménie de Brienne fu
costretto ad ammettere il suo fallimento. Nello stesso mese Luigi XVI scioglie
l’Assemblea dei Notabili. Per competenza territoriale allora si impose sulla scena il
Parlamento di Parigi che si pretese e si accreditò di fronte al sovrano e a tutti come
‘rappresentante’ degli interessi dei ceti privilegiati.

Lo scenario nel frattempo, dalla metà del 1781 al 1787, era profondamente
cambiato. La domanda di fondo che circolava nella sfera pubblica non era più:

A. Come risanare le finanze.

B. B. Come riformare (o se riformare) il governo locale.

MA MOLTO PIÙ’ SIGNIFICATIVAMENTE: COME RIFORMARE LO STATO?


A. La massa del Terzo Stato, i 25/26 milioni di francesi che lo componevano, non
avevano una profonda percezione di cosa ciò implicasse.

B. I nobili invece ritenevano in gioco: i loro privilegi, il loro potere sul territorio e il
loro potere nello Stato.

Attraverso il pronunciamento del Parlamento di Parigi, i nobili sostennero con forza


la necessità di convocare gli stati generali per sottoporre ai ceti la questione
centrale della riforma dello Stato.

Loménie da Brienne allora da esponente privilegiato del clero, ben percepiva il


rischio che una simile decisione comportava per tutti i ceti privilegiati. Nell’agosto
del 1788 rassegnò le sue dimissioni annunciando però che nel maggio 1789
sarebbero stati convocati gli Stati Generali – un evento epocale, dopo 175 anni
quell’istituzione tornava a vivere.

Il Parlamento di Parigi nel settembre 1788 stabiliva che gli Stati Generali avrebbero
dovuto funzionare secondo le regole cetuali del 1614. Non è solo una questione
tecnica, bensì una questione di alta densità politica perché:

1. I tre ceti dovevano essere eletti separatamente.

2. I tre ceti dovevano riunirsi in tre assemblee separate.

3. Ogni ceto esprimeva il proprio parere con un voto. Un voto per i 130.000
componenti del Clero; un voto per i 200.000 componenti della Nobiltà; un voto
per i 22.000.000 componenti del Terzo Stato.

Nell’autunno del 1788 allora sembrerebbe che la crisi del sistema francese si
fosse risolta a favore della nobiltà per voce del Parlamento di Parigi. Il disegno
della nobiltà, infatti, a quell’altezza:

1. Era disegno che guardava al passato.

2. Era disegno che mirava a riconquistare il potere a fianco del sovrano. Un


potere che la politica dei diversi sovrani, da Luigi XIV a Luigi XVI, aveva
progressivamente eroso a vantaggio del loro progetto tendenzialmente
assolutistico.

Inoltre, era un disegno che mirava a ripristinare l’assetto costituzionale pre-Luigi


XIV e che mirava a ripristinare l’assetto del potere condiviso tra il Re e gli Stati
Generali L’idea era dunque quella del ripristino del governo misto secondo il
modello inglese.

Tuttavia il governo misto si trovava dal punto di vista costituzionale in fase calante,
basti pensare alla vicenda inglese e all’avvio della formula parlamentare e
soprattutto si creò un vasto moto d’opinione contrario al progetto nobiliare e
antiborghese che si profilava dietro la richiesta dei nobili a favore degli Stati
Generali e del ripristino del governo misto.

A partire dall’autunno 1788

1. Si sviluppò una arroventata campagna d’opinione con grande messe di


pamphlets e giornali antimonarchici e soprattutto antinobiliari.

2. Si sviluppò in parallelo un dibattito sulla rappresentanza. Coloro che


animavano tale dibattito si chiedevano il nome di chi si dovevano riunire gli
Stati Generali ed era mai possibile che 130 mila esponenti del Clero, 200 mila
della Nobiltà e 22 milioni di sudditi esponenti del Terzo Stato avessero lo
stesso peso decisionale? Ma, soprattutto: era mai possibile che Clero e
Nobiltà, numericamente inferiori, potessero sopraffare la volontà di 22 milioni di
francesi?

Per attenuare le proteste anti nobiliari, nel gennaio del 1789 il Parlamento di Parigi
emanò un regolamento riguardo al funzionamento degli Stati Generali. Stabilì che:
A. Il Terzo Stato avrebbe dovuto raddoppiare i propri rappresentanti.

B. Gli Stati Generali avrebbero, come già fino al 1614, votato per ceto (ossia ogni
assemblea un voto).

C. I territori potevano inviare le proprie ‘lamentele’ al sovrano attraverso i Cahiers


de doleances.

D. I rappresentanti dei ceti erano legati al ceto e al territorio dal mandato


imperativo.

Il 5 maggio 1789 una riunione epocale degli Stati Generali con 1165 delegati
cetuali di cui: 290 del Clero, 295 della Nobiltà, 580 del Terzo Stato.

Sin dall’apertura si evidenziarono due poli contrapposti: l re e la corte (la voce


dell’assolutismo), il clero e la nobiltà (la voce del privilegio).

Il Terzo Stato e la piccola nobiltà che reclamavano la riforma amministrativa,


riforme sociali e riforme giudiziarie.

Il progetto del re e dei ceti privilegiati mirava a marginalizzare il Terzo Stato:

A. Mantenendo il voto per ceto.

B. Mantenendo il sistema dei poteri locali tradizionali come mosaico di spazi, di


tessere governate dal centro, quasi caso per caso. Era tuttavia un progetto
destinato a fallire.

EMMANUEL JOSEPH SIEYÈS (1748-1836)

Il 17 giugno 1789 avanzò a tutti i delegati la proposta di:

1. Riunirsi in un’unica assemblea.

2. Assumere denominazione di Assemblea Nazionale.

3. Proporre un programma di riforme radicali in materia fiscale, sociale e


amministrativa. Sieyès, infatti, in quei mesi aveva elaborato un concetto-chiave
per l’innesco di un dibattito generale, ovvero il concetto di nazione.

IL CONCETTO DI NAZIONE
A. Il Terzo Stato è la nazione.

B. La nazione non poteva più accettare privilegi.

C. La nazione doveva farsi Stato.

D. Il territorio doveva essere totalmente disponibile all’azione creatrice dello Stato.


I poteri locali allora sono una diretta emanazione dello Stato.

Insomma, in questo progetto di Sièyes di riunione dei ceti in un’unica assemblea


c’era tutto un progetto ‘innovativo’ che la cultura più avanzata aveva saputo – e
potuto – produrre a partire dai Fisiocratici in avanti e in particolare dal gennaio
1789 in poi:

A. Che vedeva l’emersione del concetto di nazione.

B. Lo scardinamento del sistema cetuale sia al livello statuale sia territoriale.

C. L’emersione di un nuovo soggetto collettivo: l’Assemblea nazionale.

Nonostante il genetico di ostruzionistico del re, il 20 giugno 1789 i delegati del


Terzo Stato e gli altri che condividevano il progetto nazionale si riunirono nella Sala
della Pallacorda e giurarono collettivamente di non separarsi fino a quando non
avessero riformato la costituzione del regno: il Giuramento della Pallacorda.

Dal nostro punto di vista non è solo un evento politico, ma anche, e soprattutto,
costituzionale. Era infatti avvenuta una trasformazione epocale: i delegati cetuali
(che aderirono al progetto di Sieyès) da debole delegazione cetuale divengono a
densissima rappresentanza nazionale.

Infatti, ancora su ispirazione di Siéyes il 9 luglio 1789 assunse il nome di


assemblea nazionale costituente.

MA QUAL ERA L’OBIETTIVO DI QUESTA ASSEMBLEA?


La Monarchia Bilanciata sul modello inglese. Le vicende successive sono note con
il 14 luglio 1789 e la presa della Bastiglia si sancisce formalmente l’inizio della
Rivoluzione francese.  

Capitolo 26
Il 14 luglio 1789 alcune centinaia di artigiani e bottegai parigini assaltarono la
prigione della Bastiglia in cerca di armi e fucili. Fu allora che la storia della Francia
e della Rivoluzione subì un’accelerazione portentosa.

LA PRESA DELLA BASTIGLIA


L’azione si concluse la sera stessa con l’uccisione del governatore della fortezza de
Launay, la liberazione dei pochi reclusi politici e il saccheggio del deposito delle
armi con un centinaio di morti e feriti. Fu un evento di grande impatto che spinse il
re a richiamare rapidamente al governo Necker.
Con la presa della Bastiglia Parigi diventò il centro simbolico della Rivoluzione
anche se l’intera Francia fu percorsa da un fremito di rivolta, animato dai più
svariati motivi:
1. dalla disperata ribellione contro la fame alle rivolte annonarie.
2. dalla lotta politica contro le sopravvivenze feudali (dazi e dogane interne).
3. dalla lotta contro le imposte municipali.

LA RIVOLUZIONE ‘MUNICIPALE’
L’insieme di questi avvenimenti che in moltissime zone della Francia si conclusero
con:
1. l’abbattimento dei tradizionali organi comunali.
2. la creazione di nuovi organismi municipali, che prese il nome di “rivoluzione
municipale”.

LA ‘GRANDE PAURA’
Nelle regioni rurali della Francia la rivolta, detta “Grande Paura”, coinvolse le
masse contadine che distrussero i simboli dell’antico ordine feudale. Infatti nei mesi
di luglio e agosto 1789 si ebbe in molte zone del Centro-Nord del paese la
distruzione dei registri e delle mappe catastali su cui si fondava il prelievo feudale.
Tale sollevazione dette da subito il segno tangibile dell’irruzione delle plebi
contadine nell’agone politico.

IL MOVIMENTO DELLE CAMPAGNE FRANCESI


Ebbe un peso decisivo e ambivalente nell’evolversi della rivoluzione: a. da un lato
sostenne la borghesia nel suo cammino verso il potere b. dall’altro si impose
nell’immaginario dei ceti medi come l’ombra di un pericolo incombente Questo
delicato rapporto trovò una precaria sintesi nella seduta notturna dell’Assemblea
nazionale costituente del 4 agosto.

L’ABOLIZIONE DEL REGIME FEUDALE


L’Assemblea votò l’abolizione del regime feudale. Questa svolta epocale fu sancita
poi dalla stesura – da parte dell’Assemblea Nazionale Costituente - della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 sui diritti
imprescindibili del cittadino. La Dichiarazione infatti tratteggiava i contorni di uno
Stato compiutamente liberale.
Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino all’individuo venivano
riconosciuti come diritti naturali e imprescrittibili:
A. la libertà di pensiero e di parola.
B. la proprietà.
C. la sicurezza.
D. la resistenza all’oppressione.
E. l’assoluta eguaglianza dei cittadini (maschi) di fronte alla legge.

Inoltre a questi principi ne erano aggiunti almeno altri due: ossia: la sovranità
nazionale e la separazione dei poteri.
Ad ottobre 1789 però una nuova carestia provocò una nuova manifestazione
popolare che arrivò a Versailles costringendo il re a riconoscere alcune concessioni
e a trasferirsi a Parigi. Nel frattempo, in tutta la Francia, erano sorti e si erano
radicati club e società “politiche” dove per la prima volta i sudditi potevano fare e
parlare pubblicamente di Politica. I principali ‘gruppi’ politici erano:
1. I giacobini: divisi in democratici e costituzionali (detti “foglianti”).
2. I cordiglieri: democratici radicali antimonarchici.
3. Gli “anglomani”: nobili e borghesi liberali a favore di una monarchia
costituzionale all’inglese.
All’interno dell’assemblea si creò una spaccatura politica tra ‘destra’ e ‘sinistra’. Tale
distinzione è ancora oggi in uso per distinguere le diverse ‘famiglie politiche’ attive
all’interno di ogni sistema politico nazionale. Si tratta in effetti di una distinzione che
inizialmente derivava esclusivamente dalla posizione fisica all’interno della sala
dell’assemblea nazionale costituente.

LA RIVOLUZIONE E L’ASSEMBLEA
L’irruzione delle masse rivoluzionarie nel conflitto aveva alterato i tradizionali
equilibri, costringendo le forze in campo a collocarsi – come si disse da allora in
avanti – “a destra” o “a sinistra” della sala del Maneggio del palazzo delle Tuileries
a Parigi Infatti, come abbiamo sottolineato: la posizione dipendeva dalla natura
conservatrice (a destra) o progressista (a sinistra) della propria ispirazione ideale.
Dal gennaio 1790 l’Assemblea varò riforme di portata universale in tutti i campi
istituzionali. 1. Nel campo dell’amministrazione:
A. furono cancellate le vecchie circoscrizioni territoriali, espressione della
stratificazione storica dello Stato francese.
B. Creati i dipartimenti (in tutto furono 83), i distretti, i cantoni fino ai comuni su cui
verrà incardinata la “nuova” amministrazione ora definitivamente pubblica ed
esecutiva.
C. Nel maggio 1790 inoltre la capitale fu divisa in 48 sezioni. Questo per favorire lo
svolgimento di attività politiche che diedero linfa a club e società popolari.

Nel campo giuridico: fu confermata la centralità e il primato della legge dello Stato
su ogni altra fonte giuridica e soprattutto sulle consuetudini.
Infine importanti furono anche le riforme al sistema giudiziario: la legge dell’agosto
1790 istituì a ogni livello di amministrazione territoriale un organo giudiziario
elettivo. Esso attuava la definitiva separazione dei poteri e la fine della venalità
delle cariche.
Dopo che fu sventata la fuga all’estero del re e della famiglia le forze democratiche
accrebbero molto i loro consensi orientandosi sempre più verso la Repubblica.
Infatti dopo la repressione di una mobilitazione repubblicana di cordiglieri e
giacobini, il movimento rivoluzionario si sdoppiò da un lato il fronte moderato
della borghesia, timorosa del successo dei democratici, dall’altro la massa
rivoluzionaria, democratica e repubblicana.
Nel settembre 1791 l’Assemblea approvò la nuova Costituzione. Questa istituiva
una monarchia costituzionale bilanciata nonostante ridimensionasse i poteri del re:
era su base censitaria, esprimeva valori borghesi ed era, perciò, non gradita ai
democratici e repubblicani.
LA COSTITUZIONE BILANCIATA
L’architettura istituzionale prevedeva una camera di 745 membri elettivi, ossia
l’Assemblea legislativa su base censitaria a cui competeva il potere legislativo,
mentre il potere esecutivo era di competenza dei ministri nominati dal re. Il sovrano,
che disponeva solo del veto sospensivo sugli atti della camera, vedeva così
notevolmente ridimensionati i suoi poteri.
Da un punto di vista politico la Costituzione si fondava sulla distinzione tra i cittadini
attivi (circa 4.000.000), con un censo pari o superiore alle tre giornate di lavoro, e i
cittadini passivi (circa 3.000.000), con un censo inferiore. Solo ai cittadini attivi
attraverso un sistema elettorale a due gradi, era riconosciuto il diritto di eleggere i
deputati, mentre i cittadini passivi godevano dei soli diritti civili.

La cittadinanza politica, dunque non era riconosciuta a tutti e finiva per coincidere
con la proprietà proprio tale coincidenza esprimeva compiutamente i valori di una
società borghese il suffragio ristretto su base censitaria, infatti da un lato si ergeva
a solido baluardo contro il rischio di ritorno al passato dall’altro, però, rendeva
impossibile ogni evoluzione democratica.

L’ASSEMBLEA LEGISLATIVA
L’Assemblea nazionale costituente si sciolse, sostituita da un’Assemblea
legislativa: a destra i foglianti, per i quali la rivoluzione era terminata; al centro i
moderati “girondini”; a sinistra giacobini e cordiglieri e al centro sedevano invece
dei deputati incerti tra le due ali.

LA SECONDA RIVOLUZIONE: I GIRONDINI


I girondini, rappresentanti della borghesia dinamica e moderna, sostenevano
un’espansione della rivoluzione attraverso una guerra europea con lo scopo anche
di conquistare nuovi mercati. La guerra contro l’Austria, appoggiata dal re Luigi XVI,
fu approvata dall’Assemblea nell’aprile 1792, ma fu subito una disfatta. Ciò
alimentò il malcontento delle masse popolari che sospettarono un complotto del re
e dei nobili che ancora erano attivi sul territorio. In questo clima teso, le masse
parigine, esasperate da carovita e guerra, marciarono sulle Tuileries: si aprì la fase
detta “seconda rivoluzione” nella quale apparve la débâcle della borghesia e
l’ascesa politica delle forze democratiche e radicali urbane che progettavano la
convocazione di un’assemblea, la “Convenzione nazionale” per riscrivere la
Costituzione (del 1791) in senso popolare e democratico.

A Parigi i sanculotti, popolani “affamati”, diedero vita a un’inedita “Comune


insurrezionale” (agosto 1792). Da quelle elezioni per la prima volta a suffragio
universale, emersero nuovi leader tra cui il cordigliere Danton e il giacobino
Robespierre. Nell’immaginario collettivo, la difesa della rivoluzione e difesa della
patria si sovrapponevano. Decadeva del tutto la figura del sovrano giudicato
traditore della patria. Il re venne poi arrestato e crebbero violenze ed esecuzioni
pubbliche.
Per la prima volta dal 1789 la piazza aveva scavalcato l’Assemblea che ne diresse
le scelte e impose le proprie volontà. La Costituzione, approvata solo un anno
prima, fu sospesa e avviato un sistema provvisorio facente capo alla eligenda
Convenzione. Conseguente poi fu il passaggio dall’egemonia dell’élite borghese
repubblicana all’egemonia delle forze popolari e piccolo-borghesi e democratiche.
Alle elezioni per la Convezione però prevalsero (ancora) le forze borghesi e
l’orientamento repubblicano. Tale vittoria elettorale condusse all’abolizione
della monarchia e all’instaurazione della ‘Repubblica una e indivisibile' .

I NUOVI EQUILIBRI POLITICI


Con la Repubblica gli equilibri politici interni alla Convenzione mutarono
rapidamente e si ebbe un vistoso slittamento a sinistra. Inevitabile poi la
contrapposizione tra la destra dei girondini, moderati, difensori della repubblica e
dell’ordine borghese e la sinistra dei montagnardi (giacobini) sostenitori di una
politica sociale egualitaria.  

IL PROCESSO E LA CONDANNA DI LUIGI XVI


Il conflitto latente tra queste forze contrapposte – i girondini da una parte, i
montagnardi dall’altra – esplose apertamente attorno alla delicata questione della
sorte da riservare a Luigi XVI. Sulla sorte del re prevalsero i montagnardi: il re fu
processato, condannato a morte e ghigliottinato (21 gennaio 1793). Con la morte
dei Luigi XVI si chiudeva un’epoca e si apriva quella della Francia repubblicana. I
nuovi valori rivoluzionari di libertà, eguaglianza e fratellanza furono accolti con
entusiasmo dall’emergenti borghesie nazionali d’Europa.

Al contempo, però tra la maggior parte dei governanti conservatori e dei sovrani di
Europa si formò una “grande coalizione” antifrancese alimentata dal timore che la
Francia divenisse il modello di tutti coloro che intendevano sovvertire l’ordine
cetuale tradizionale. La Francia, dunque, fu sempre più osteggiata anche
militarmente dai conservatori di tutta Europa che nei decenni successivi fu
sconvolta da numerose guerre si della Francia sia contro la Francia.
 
Capitolo 27
Come abbiamo visto l’esecuzione di Luigi XVI trasformò la rivoluzione in un evento
universale. Le implicazioni di tale evento non erano più limitate ai destini della
Francia, ma investivano direttamente l’assetto del potere statale e dell’intera
società europea. Si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra nella quale la
Francia repubblicana avrebbe dovuto difendersi dalla controffensiva dell’Europa di
Antico regime, ‘dei troni e dell’altare’.

La Repubblica Francese però risultò del tutto impreparata a questa


controffensiva antifrancese e antirepubblicana sebbene con una legge del
febbraio 1793 avesse istituito la coscrizione obbligatoria e l’esercito si fosse
trasformato in milizia popolare con l’arrivo di oltre 300.000 nuovi militi effettivi. La
‘grande coalizione antifrancese’ riuscì spesso ad avere la meglio.

LA GUERRA CIVILE FRATRICIDA


La fragilità del governo girondino fu resa manifesta dall’insurrezione scoppiata in
Vandea, un dipartimento della Bassa Loira, contro la coscrizione obbligatoria.

Le sollevazioni del marzo 1793 in Vandea avevano una fortissima connotazione


ideologica: Nonostante la portata epocale delle ‘innovazioni’ dei rivoluzionari,
erano ancora in molti, anche in Francia, a rimpiangere il sistema ‘antico’ dei ceti e
dei privilegi per pochi. Infatti in Vandea il rifiuto per l’arruolamento forzato, vissuto
come sopraffazione si legò con l’iniziativa controrivoluzionaria, promossa e diretta
dalla nobiltà locale alla ricerca degli antichi privilegi e dal clero.

I girondini allora dovettero fare i conti con il divampare della guerra civile fratricida
tra masse popolari, borghesia e ceti privilegiati che si estese rapidamente anche
alla vicina Bretagna.

LA ‘TERZA RIVOLUZIONE’: I GIACOBINI


Di fronte alla crisi economica e alle sconfitte militari ci fu una rapidissima ascesa
nel consenso pubblico dei giacobini.

Essi– in seno alla Convenzione – fecero votare la nascita di:

1. Un Tribunale rivoluzionario.

2. Numerosi Comitati di vigilanza.

3. Un Comitato di salute pubblica (nell’aprile 1793), organo segreto e


indipendente dalla Convenzione, con poteri eccezionali.

LA FASE DEL ‘DISPOTISMO DELLA LIBERTÀ’


La nascita del Comitato segnava una profonda discontinuità nella storia della
rivoluzione, poiché spostava il baricentro del potere dall’organo legislativo, la
Convenzione a un organo di tipo esecutivo, il Comitato chiamato a esercitare un
benefico e virtuoso “dispotismo della libertà”.

LA NUOVA COSTITUZIONE

Il potere fu assunto dai giacobini. Costoro imposero una nuova Costituzione il 24


giugno 1793, detta Costituzione dell’anno I, ispirata ai principi della Dichiarazione
dei diritti ma ulteriormente ampliati.  

La nuova Costituzione infatti stabiliva alcuni principi ispirati al pensiero


rousseuviano:

1. Il superamento della distinzione tra cittadini attivi e passivi.

2. La sovranità popolare (non più nazionale).

3. Il suffragio universale.

4. Il diritto alla proprietà privata.

Secondo la costituzione dell’anno I, infatti:

a. Il potere legislativo era nelle mani di un’unica assemblea elettiva a suffragio


universale maschile, i cui membri rimanevano in carica un anno.

b. Il potere esecutivo apparteneva invece a un Comitato esecutivo di 24 membri.

Erano inoltre previste forme di democrazia diretta che includevano l’approvazione


popolare per le leggi più importanti.

Il potere però fu conferito al Comitato di salute pubblica. Il Comitato allora assunse


la caratteristica di un governo dittatoriale rivoluzionario sotto la guida di
Robespierre. Egli prese subito provvedimenti sociali a favore delle masse affamate
e abolì definitivamente i privilegi nobiliari.

IL ‘TERRORE’
Successivamente fu varata poi la ‘legge sui sospetti’ strumento efficace ma
arbitrario e illiberale che sulla base di denunce anonime consentiva alle autorità di
agire contro chiunque. Si aprì il periodo definito del ‘Terrore’, con centinaia di
decapitazioni di molti oppositori politici, compresi rappresentanti del clero.

Tuttavia la società francese della borghesia industriale e mercantile chiedeva


d’interrompere la dittatura e di ristabilire la normalità così un colpo di Stato nel
luglio 1794 portò all’arresto e all’esecuzione di Robespierre.

LA NORMALIZZAZIONE DELLA RIVOLUZIONE


I fautori del colpo di Stato, detti Termidoriani erano un gruppo eterogeneo ma
accomunato dall’intento di ‘normalizzare’ la rivoluzione e consolidarne i risultati a
favore della borghesia emergente: a. Liberarono molti prigionieri politici b.
Ripristinarono le libertà economiche. Anche le istituzioni giacobine furono
normalizzate:

a. Soppressero il Tribunale rivoluzionario.

b. Ridussero i poteri del Comitato di salute pubblica.

Infine fu chiuso il club dei giacobini di Parigi molti dei girondini sopravvissuti al
Terrore furono, poi, riammessi ai lavori della Convenzione.

IL TERRORE BIANCO
I risentimenti ancora vivi portarono però a un reflusso antigiacobino di giovani
borghesi, che dettero vita al “Terrore Bianco” con molti morti tra giacobini e
sanculotti.

UNA NUOVA COSTITUZIONE


Nell’aprile 1795 la Convenzione nominò una commissione con l’incarico di
compilare una nuova Costituzione che:

1. garantisse il predominio delle classi medie.

2. impedisse una concentrazione dei poteri tale da riprodurre, come nel recente
passato giacobino, una dittatura ‘para legale’.

LA COSTITUZIONE DELL’ANNO III DELLA RIVOLUZIONE


Essa aveva come preambolo una nuova, e più moderata, Dichiarazione dei diritti
(con l’aggiunta dei doveri) del cittadino. Inoltre presentava un assetto istituzionale
ispirato a una rigidissima separazione dei poteri per evitare
degenerazioni dittatoriali.

LA STRETTA SEPARAZIONE DEI POTERI


Il potere legislativo era in mano a due camere rinnovabili ogni anno per un terzo

Le due camere avevano funzioni diverse:

1. il Consiglio dei Cinquecento doveva presentare e discutere le leggi

2. il Consiglio degli Anziani poteva solo accettare o rigettare in blocco tali leggi.

La novità della Costituzione dell’anno III era l’introduzione della Presidenza della
repubblica. Essa era attribuita a un organo collettivo detto ‘Direttorio’ composto da
5 direttori rinnovabili annualmente per un quinto a opera del Consiglio degli
Anziani.

Infatti al Direttorio spettava il controllo del potere esecutivo (non collegiale) tale
potere era svolto attraverso ministri competenti nelle diverse materie.

Infine il suffragio era censitario: formalmente aperto a tutti i contribuenti ma con un


forte sbarramento per l’elettorato passivo per cui, di fatto era circoscritto ai
segmenti più alti della società.

Attenzione in vista delle elezioni previste per l’ottobre 1795 i termidoriani vararono
una legge elettorale che imponeva per la formazione delle due nuove camere il
ricorso, per almeno due terzi, a membri già facenti parte della Convenzione (e
dunque di provata fede repubblicana e termidoriana).

Evidentemente si trattava di un provvedimento che mirava a evitare l’ingresso in


quelle camere a un numero eccessivo di deputati di fede monarchica o
conservatrice.

Alle elezioni infatti nonostante l’affermazione dei monarchici, i termidoriani:

1. mantennero la maggioranza qualificata dei due consigli.

2. riuscirono a controllare la nomina del primo Direttorio.

Il Direttorio allora si trovò subito di fronte aa una parte all’opposizione dei realisti e
dall’altra al ritorno di una montante opposizione giacobina e ultrademocratica.

 Nel marzo 1797 le elezioni politiche per il rinnovo di un terzo dei consigli come già
quelle del 1795 dettero un risultato molto favorevole per la destra monarchica. La
destra allora acquisì una posizione di maggioranza creando una situazione di
conflitto con il Direttorio ancora allineato sulle posizioni termidoriane. Poiché la
Costituzione non prevedeva alcuna forma di dialogo o di compensazione tra i due
consigli che avevano il potere legislativo e il Direttorio: che controllava il potere
esecutivo il clima istituzionale andò rapidamente arroventandosi.

IL COLPO DI STATO DEL 1797


I direttori allora grazie all’appoggio di alcuni generali, il 4 settembre 1797 (18
fruttidoro dell’anno VII) ordirono un colpo di Stato contro la maggioranza
monarchica:

1. due direttori moderati furono destituit.

2. le elezioni favorevoli ai monarchici annullate.

3. fu avviata una politica di brutale repressione contro le opposizioni di destra.

La Repubblica termidoriana per il momento si era salvata ma aveva perduto


quell’alone di virtù repubblicana e di legalità che l’aveva contraddistinta, in
alternativa al disordine giacobino, fino dalla sua erezione nel 1794. D’altra parte,
però, occorre tenere presente che la vicenda rivoluzionaria e, in particolare, quella
della repubblica termidoriana esercitò una notevole influenza nell’immaginario
collettivo europeo.

Appare evidente che i termidoriani puntavano a conquistare spazio ben al di là dei


confini naturali segnati all’inizio della rivoluzione. La tendenza espansiva della
repubblica termidoriana derivava da un insieme di ragioni:

1. Si trattava di esportare i valori della repubblica e della rivoluzione a un numero


più ampio possibile di paesi.

2. Sul fondo di questa motivazione ideale stava l’obiettivo economico: acquisire


alleati con cui condividere spese o su cui scaricare i costi militari e, non ultimo,
da cui prelevare ricchezze d’ogni genere.

3. L’ultima stagione della Rivoluzione sarebbe segnata da un ultimo Colpo di


Stato (1799) i cui esiti vedremo nell’ultima unità.

Capitolo 31
Come abbiamo avuto modo di osservare nei capitoli precedenti, l’Europa
dell’ultimo decennio del secolo XVIII era caratterizzata da profonde trasformazioni
in campo sociale, giuridico, politico e istituzionale. Tali trasformazioni in buona
parte erano state stimolate dalle suggestioni provenienti dalle due grandi
rivoluzioni politiche del periodo: quella americana e quella francese.

Tuttavia fu soprattutto la rivoluzione francese con le sue “novità” ideali e


costituzionali applicate direttamente sul campo a influenzare “concretamente” e
per tutto questo decennio la vita degli Stati e dei sudditi dell’intero continente
europeo.

NAPOLEONE BONAPARTE
Il personaggio che, nel bene e nel male, a partire dalla metà degli anni Novanta del
Settecento, più di tutti contribuì a ‘esportare’ nel mondo la rivoluzione fu
Napoleone Bonaparte (1769-1821).

A partire dal 1799 fu Napoleone che:

A. Si trovò nella posizione di decidere della politica estera e militare della Francia.

B. Influenzò la vita di milioni di cittadini europei.

C. Con le proprie decisioni e le proprie ‘invenzioni’ in campo costituzionale e


amministrativo e contribuì a trasformare, per sempre, gli assetti dello Stato
francese e quelli della maggior parte degli Stati continentali che, come alleati o
come avversari, con lui entrarono in contatto.

Il mondo di Napoleone non è dunque fuori luogo definire il quindicennio che segue
la sua discesa in campo come “mondo di Napoleone”. Proprio per la portata e gli
effetti delle sue scelte e delle sue intuizioni, non è affatto esagerato dire che, dopo
l’esperienza napoleonica, in Francia e in tutto il continente europeo nulla fu più
come prima.

IL COLPO DI STATO DEL 18-19 BRUMAIO 1799


Verso la metà dell’ottobre 1799 Napoleone si trasferì a Parigi dove prese contatto
con i direttori a lui più vicini e con le forze – per lo più borghesi, antimonarchiche e
anche antigiacobine – che stavano preparando un colpo di Stato militare per
instaurare un nuovo regime e rivedere la vigente Costituzione dell’anno III.

Il successivo 9 novembre 1799 (18 brumaio, secondo il calendario rivoluzionario)


Bonaparte:

1. assunse il comando dell’armata di Parigi.

2. riuscì a porre sotto il controllo dei suoi ufficiali i deputati dei due consigli
legislativi.

3. ottenne l’autodissoluzione del Direttorio dove Sieyes, Roger Ducos e Barras,


fautori di questa svolta, accettarono di dimettersi. Napoleone, al termine di
quell’epica giornata, divenne il riferimento delle principali istituzioni
repubblicane.

Il perfezionamento del colpo di stato avvenne il giorno successivo, il 10 novembre


(19 brumaio), quando si recò a Saint Cloud per discutere insieme ai consigli
legislativi di un eventuale loro autoscioglimento e delle conseguenti trasformazioni
costituzionali. Grazie all’intercessione del fratello Luciano, presidente del consiglio
dei Cinquecento, ottenne il parere positivo dei consigli e, grazie all’intervento
armato del generale Gioacchino Murat (1767-1815), vide sgomberata l’assemblea
dei più renitenti.

Dal 18 brumaio al 22 frimaio 1799 Napoleone primo console. Come prima


soluzione sotto la presidenza del fratello Luciano, i deputati rimasti votarono la
creazione di un Consolato formato dagli ex direttori Sieyes, Roger Ducos e da
Napoleone Bonaparte. Costoro nominarono un governo provvisorio con il preciso
incarico di ripristinare l’ordine in tutto lo Stato.

I tre consoli nominarono anche una commissione con il compito di scrivere una
nuova Costituzione. La nuova Costituzione (detta Costituzione dell’anno VIII) entro
in vigore già il 13 dicembre 1799 (22 frimaio) e fu poi ratificata con un plebiscito
nazionale nel febbraio 1800.

LA COSTITUZIONE DELL’ANNO VIII

Pur all’interno di una struttura “democratica” basata sul suffragio universale,


produceva un sistema fortemente sbilanciato a favore di Napoleone: Infatti stabilì
una forma di governo di stampo autoritario guidata formalmente da tre persone (i
consoli), ma in realtà retta dal solo Primo Console, Napoleone.

La fine della rivoluzione in qualità di primo console Napoleone controllava il potere


esecutivo e buona parte del potere legislativo mentre gli altri due consoli erano, di
fatto, relegati a un ruolo meramente consultivo. Così Napoleone aveva ‘chiuso’ la
rivoluzione entrando nell’agone della politica, si incaricava di consolidarne i risultati
attraverso una svolta sì moderata ma non reazionaria.

IL CONSOLATO A VITA
Ristabilita (momentaneamente) la pace internazionale e pacificati i conflitti
all’interno della società francese Napoleone Bonaparte si dedicò alla revisione
della Costituzione per ampliare le proprie prerogative al vertice dell’ordinamento
della repubblica.

IL SECONDO PLEBISCITO
Grazie al consenso di cui godeva al Senato, Bonaparte indisse un plebiscito (il
secondo da quando era arrivato al potere) con il quale interrogava direttamente il
popolo di Francia - In quanto massima autorità costituente secondo la logica
rivoluzionaria - sulla possibilità di essere nominato console a vita.

LA DERIVA CENTRALISTICA

La nazione rispose con 3.500.000 sì e soli 8.374 no: era il segno della grande
fiducia a favore del ‘generale’, ma anche l’inizio di una deriva centralistica che
spostava il ruolo guida dello Stato dalla nazione al primo console.

LA COSTITUZIONE DELL’ANNO X
A seguito del plebiscito Napoleone fece scrivere un nuovo testo costituzionale che
il Senato approvò il 4 agosto 1802 Tale testo noto come Costituzione dell’anno X
venne ratificato con un nuovo plebiscito.

NAPOLEONE CONSOLE A VITA

Con il plebiscito non si abrogò la Costituzione dell’anno VIII Napoleone modificò


solo gli articoli riguardanti le prerogative del primo console, che diveniva ‘console a
vita'.

In console a vita:

a. aveva il potere di designare il suo successore.

b. la presidenza del Senato.

c. il diritto di sciogliere il Tribunato e il Corpo legislativo.

d. acquisiva il diritto di nominare gli altri due consoli.

LA REPUBBLICA IMPERIALE
Napoleone impresse nel 1804 una svolta irreversibile al processo di accentramento
del potere nelle sue mani con il parere positivo del Senato scrisse un testo
costituzionale nel quale il primo console a vita diveniva imperatore ereditario per
ordine di primogenitura maschile. La nuova Costituzione segnava l’approdo a una
nuova forma di Stato pur mantenendo alcuni istituti repubblicani, era del tutto
assimilabile alla monarchia. Tale contraddittoria commistione era del resto evidente
fin dal primo articolo di quella Costituzione che recitava: “il governo della
Repubblica è affidato a un Imperatore”.

L’IMPERATORE DEI FRANCESI


Il trapasso al nuovo modo di essere dello Stato, emerse il 2 dicembre 1804: a
Parigi, nella cattedrale di Notre Dame Bonaparte, si autoincoronò ‘imperatore dei
francesi’ ponendosi da solo sulla testa la corona imperiale presa dalle mani del
pontefice Pio VII. Avvenne l’autoincoronazione e la rottura dell’ordine feudale: il
gesto di Napoleone rompeva definitivamente con la tradizione feudale che
considerava il potere sovrano derivato direttamente da Dio (per le mani del Papa).
Autoincoronandosi il ‘generale’ Napoleone metteva in evidenza la derivazione
terrena del suo potere, frutto ‘solo’ della sua condotta politica e del consenso della
nazione.

TRA VECCHIO E NUOVO


L’esperienza napoleonica inizia con un colpo di Stato (1799) che interrompe sia la
tradizione repubblicana avviata nel 1792 sia quella realista antecedente al 1789.
Al contempo si caratterizza per il tentativo di conciliare le due anime: Quella
‘antica’, con l’autoincoronazione a imperatore “per grazia di Dio” Quella
‘moderna’, attraverso la consacrazione della nazione con il plebiscito a suffragio
universale. Proprio il suffragio universale progressivamente ‘imbrigliato’ e
circoscritto offre la misura della deriva autocentrica e dittatoriale assunta dal
sistema napoleonico nel quale Napoleone, da primo console, arrivò a fondare una
nuova dinastia con un proprio sistema nobiliare.

LE COSTITUZIONI DI NAPOLEONE
Nel quindicennio in cui fu al potere (1799- 1814) Napoleone ‘produsse’ tre
costituzioni:

1. quella dell’anno VIII (1799: primo console).

2. quella dell’anno X (1802: console a vita).

3. quella dell’anno XII (1804: imperatore), dove le ultime due, però, furono solo
aggiustamenti della prima.

L’architettura di base, rimase dunque la stessa: un esecutivo onnipotente nelle


mani del primo console (poi a vita e poi imperatore); un Senato (80 membri
nominati a vita dal primo console o per cooptazione); il potere legislativo diviso tra
Corpo legislativo (300 membri nominati dal Senato), Consiglio di Stato (nominato
dal primo console) e Tribunato (100 membri nominati dal Senato).

Tuttavia, col passare del tempo la prassi politica si discostò sempre più dalle forme
costituzionali depotenziando alcuni organi a tutto vantaggio di un sistema di potere
centrato sulla figura di Napoleone.

Quasi tutto il continente sotto Napoleone dal 1809 in avanti il Grande Impero di
Napoleone per consolidare il blocco continentale, procedette a nuove importanti
annessioni, soprattutto nell’area nordoccidentale: l’ex-regno d’Olanda, dopo aver
destituito il fratello Luigi sul mare del Nord, i territori di Amburgo, Brema, Lubecca
e il granducato di Oldenburg.

1811: LA MASSIMA ESTENSIONE


Nel 1810 Napoleone ottenne anche l’amicizia della Danimarca e soprattutto della
Svezia (protagonista di molte coalizioni antifrancesi) dove impose sul trono il ‘suo’
generale JeanBaptiste Bernadotte. Nel 1811, insomma, tra territori direttamente
annessi e Stati vassalli, l’impero francese raggiunse la sua massima estensione
coprendendo uno spazio di oltre 750.000 km2 con oltre 80 milioni di sudditi.
L’impero e la Francia, in particolare, governava direttamente un territorio
vastissimo suddiviso in ben 130 dipartimenti e con oltre 44 milioni di sudditi a cui
si aggiungevano gli Stati vassalli, governati da napoleonidi o da sovrani suoi alleati
con oltre 38 milioni di sudditi.

 
Capitolo 32
LA FINE DE L’ANCIEN RÉGIME
Come abbiamo avuto modo di vedere nel capitolo precedente La stagione
napoleonica costituisce un’esperienza di fondamentale importanza non solo per la
Francia e per l’Europa ma per l’intera comunità mondiale. Nel quindicennio tra la
fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo si assiste a un passaggio epocale. Si può
osservare che era archiviato l’Antico Regime e sostituito da pratiche e istituzioni di
matrice rivoluzionaria ma ispirate da una logica nuova, spesso elaborata dallo
stesso Napoleone o dai suoi più stretti collaboratori.
Napoleone ‘chiuse’ la stagione rivoluzionaria stravolgendone alcuni princìpi
fondando un regime che pur autocentrico, non fu reazionario.

Però, Napoleone fu anche colui che:

A. tenne il mondo intero in costante stato di guerra per oltre un decennio.

B. per esigenze di governo limitò fortemente alcune libertà fondamentali come la


libertà di stampa e la libertà di associazione.

C. ‘saccheggiò’ Stati alleati e vassalli delle proprie ricchezze artistiche e li


sottopose a brutali prelievi fiscali.

La macchina Statale che Napoleone aveva costruito a partire dal 1799 Infatti si
rivelò sempre più costosa e sempre maggiori furono i bisogni finanziari del suo
Stato soprattutto a partire dal 1804, quando la trasformazione imperiale impose
l’avvio di una serie di pratiche politiche, amministrative e di autorappresentazione
che fecero salire a dismisura le uscite pubbliche. Tuttavia, attraverso la sua intensa
opera di riforme Napoleone fu fautore di un’inedita modernizzazione politica sia dal
punto di vista ideale sia da quello pratico e alcune delle applicazioni politiche o
istituzionali di quella stagione continuarono a ispirare statisti e costituzionalisti
anche nei decenni successivi fino a oggi.

LO STATO DI NAPOLEONE: LE ISTITUZIONI E LA NUOVA ORGANIZZAZIONE


DEL POTERE STATALE
L’importanza dell’esperienza napoleonica nel periodo tra il Consolato (1799) e
l’Impero (1804) va in buona parte ricercata nelle riforme istituzionali applicate
all’interno dello Stato francese ma, per effetto della politica espansiva del
generale-consoleimperatore, presto estese ai vari alleati e vassalli nel continente.

LA LEGGE DEL 28 PIOVOSO DELL’ANNO VIII


Con questa legge (del 17 febbraio 1800) a meno di tre mesi dalla nomina a primo
console Napoleone ridisegnò completamente l’architettura istituzionale dandogli
quell’assetto accentrato che rappresenta la cifra più caratteristica del modello
napoleonico e in generale dello Stato francese.

TRE NUOVI ORGANI MONOCRATICI


Con pochi e semplici articoli, la legge attribuiva le principali funzioni di governo a
tre organi monocratici nominati dall’esecutivo:

1. il prefetto nel Dipartimento.

2. il sottoprefetto nell’Arrondissement (sezioni che componevano un


Dipartimento).

3. Il sindaco nel Comune.

DAL CENTRO ALLA PERIFERIA: LO STATO ACCENTRATO


Abbiamo visto che con la legge del 28 piovoso e l’istituzione del prefetto veniva
per sempre accantonato il principio collegiale fino ad allora alla base delle
istituzioni rivoluzionarie. Attraverso i nuovi organi si istituiva quella catena
gerarchica che dispiegava sul territorio il potere del governo dal centro dello Stato
dove erano stabilite in maniera univoca le singole unità facenti capo ai ministeri di
cui furono per la prima volta definiti ruoli interni e competenze alle più lontane
periferie dove punto di riferimento principale era il prefetto, rappresentante dello
Stato e incaricato dell’amministrazione pubblica locale.

IL PREFETTO NAPOLEONICO
Le competenze del prefetto erano sia politiche che amministrative:

A. doveva far applicare la legge.

B. occuparsi del mantenimento dell’ordine pubblico.

C. gestire le operazioni di leva.

D. controllare gli amministratori locali.

E. fornire informazioni al governo centrale.

F. sondare e controllare le opposizioni al governo.

I PREFETTI
Secondo un’efficace immagine dello stesso Napoleone, furono le “masse di
granito” su cui venne eretto il regime. Per la sua collocazione “periferica” la
storiografia ha a lungo ed erroneamente considerato il prefetto una istituzione-
copia dell’intendente di Antico Regime in realtà la logica alla base di queste due
istituzioni era totalmente differente.

L’INTENDENTE D’ANCIEN RÉGIME VS IL PREFETTO NAPOLEONICO


L’intendente era un commissario del re (con funzioni precise e specificate di volta
in volta), incaricato di amministrare, in suo nome, i corpi cetuali e territoriali in
periferia al contrario il prefetto napoleonico era lo Stato (con tutti i suoi poteri e
forza esecutiva) in periferia.

LO STATO “CHE FA”


Il concetto di amministrazione, nella sua accezione moderna di potere pubblico
(esecutivo) a se stante rispetto agli altri due (legislativo e giudiziario) Ed espresso
dal sintagma ‘amministrazione pubblica’ si affermò al termine del secolo XVIII
grazie a Napoleone. Infatti con la legge del 28 piovoso dell’anno VIII (13 febbraio
1800) Napoleone definì ruoli, fini e compiti dell’apparato statale incaricato di ‘fare’
cose per la comunità e di eseguire le leggi dello Stato: cosi nacque lo “Stato a
pubblica amministrazione”, un modello di amministrazione burocratico-gerarchico,
ancora oggi in uso nelle principali democrazie europee.

L’ANSIA DEL CONTROLLO ‘RAZIONALE’


1. I MINISTERI: oltre ai prefetti il nuovo sistema si basava sui ministeri, posti al
centro dello Stato, suddivisi in sezioni e dotati di un proprio organico. Essi
contribuirono a delineare il profilo accentrato dello Stato napoleonico che aspirava
ad essere laico e impersonale.

  2. LA POLIZIA CENTRALE: fu poi la funzione di polizia attribuita a una serie di


apparati che ampliarono notevolmente il campo degli interventi statali Finì per
acquisire anche competenze “politiche” al fine di controllare efficacemente gli
oppositori al regime.

   3. I CONTROLLORI: A coadiuvare questo lavoro di sorveglianza della società per


evitare sacche di resistenza fu attivata una capillare rete di ‘controllori’ che
intervenivano sul territorio occupandosi di: a. assistenza sociale e sanitaria b.
controllo dei mendicanti c. manutenzione delle strade e delle acque pubbliche.

  4. GLI UFFICI DI STATISTICA sempre più presenti all’interno dello Stato, erano
investiti del compito di: rilevare, raccogliere, inventariare dati statistici, sociali ed
economici, utili per la programmazione dell’intervento pubblico in maniera certa e
sistematica mediante inchieste e censimenti.

 
Capitolo 33
IL RIORDINO
Tra i progetti più ambiziosi di Napoleone ci fu la riorganizzazione del farraginoso
sistema legislativo francese nonostante la fine dell’Antico Regime, i giudici si
trovavano ancora, con grande difficoltà, costretti ad applicare:

A. editti reali del periodo cinquecentesco.

B. statuti cittadini d’epoca feudale.

C. consuetudini locali di tradizione millenaria.

D. spezzoni di diritto romano.

E. leggi del periodo rivoluzionario.

I CODICI DI NAPOLEONE
A questa imponente opera di riorganizzazione Napoleone dedicò tre codici:

1. Il Codice civile.

2. Il Codice di commercio.

3. Il Codice penale a cui unì i Codici di procedura civile e penale.

IL codice civile del 21 marzo 1804 notò anche come Codice Napoleone fu il
risultato del lavoro di una commissione interna al Consiglio di Stato che Napoleone
aveva incaricato già dai primi mesi del Consolato. Il Codice, compilato nel corso di
102 sedute di cui 57 con la presenza dello stesso Napoleone, si componeva di
2.281 articoli. Il Consiglio di Stato è un organo ausiliario dello Stato che svolge
funzioni sia consultive sia giurisdizionali:

1. La funzione consultiva si manifesta attraverso l’emissione di pareri su quesiti


posti dalle pubbliche amministrazioni riguardanti questioni relative allo
svolgimento delle loro attività.

2. Come organo giurisdizionale svolge funzioni di tribunale di secondo grado nei


riguardi delle pronunce dei tribunali amministrativi regionali. Storicamente
nasce in Francia ad opera di Napoleone nel 1799.

Tornando al codice civile, in esso si riprendevano molte delle conquiste della


Rivoluzione come:

1. Il primato della legge dello Stato.

2. L’uguaglianza di tutti i cittadini e venivano fissate in maniera indelebile le regole


per la convivenza civile che diverranno fondamentali per tutte le società
dell’Europa liberale.

3. Laicità dello Stato (sancita dal Concordato con la Chiesa cattolica del 1801).

4. L’abolizione dei diritti e dei privilegi basati sul ceto.

5. La libertà individuale.

6. La libertà di coscienza.

I CAPISALDI DEL NUOVO SISTEMA

1. la difesa della proprietà.

2. La disciplina della famiglia nucleare (matrimonio, divorzio, eredità). In questo


modo si intendeva consolidare i cambiamenti sociali che erano intercorsi negli
ultimi anni in Francia difendendo gli interessi della borghesia, nuova classe
emergente, e del notabilato terriero.

La società di Napoleone è una società post-rivoluzionaria?

Durante la sua carriera di generale-console-imperatore, Napoleone mostrò di avere


un’idea precisa della società sulla quale costruire l’edificio statale. Si trattava di
una società che senza abolire alcuni capisaldi della rivoluzione come:

a. la liberta individuale

b. la proprietà privata

c. la libertà di pensiero

d. l’uguaglianza di fronte alla legge

Doveva, secondo una logica funzionale, essere asservita alle istituzioni e

soprattutto solidale con l’orientamento politico del governo.

LA CENSURA PREVENTIVA
Per evitare pericolose opposizioni la libertà di stampa fu minata nella sua essenza
“liberale” dall’istituzione della censura preventiva affidata al ministro della polizia:
nessuno poteva pubblicare senza la preventiva autorizzazione del governo e,
addirittura, dal 1810 era possibile stampare un solo giornale per Dipartimento.

Tuttavia sempre in quegli anni lo Stato ampliò notevolmente lo spettro dei suoi
interventi a favore della società furono aperti:

1. nuovi ospedali.

2. brefotrofi.

3. istituti per l’accoglienza e l’assistenza sociale e sanitaria ai segmenti più deboli


come infanti, poveri e malati.

LA LEGIONE D’ONORE
Napoleone era consapevole del fatto che alcune istituzioni sociali pre-
rivoluzionarie bene servivano a disciplinare la società. A questo scopo pur
mantenendo in vigore tutte le disposizioni rivoluzionarie che avevano dissolto il
sistema feudale. Istituì un nuovo ordine cavalleresco.

  Infatti nel 1802 Napoleone istituì la Legione d’onore come onorificenza con cui
“premiare” i francesi che si erano distinti al servizio dello Stato,
dall’amministrazione all’esercito.

LA NOBILTÀ DI STATO
A compimento di questo progetto di disciplinamento della società e per aumentare
il consenso nel 1808 Napoleone istituì anche una nuova nobiltà di Stato la quale,
senza conferire privilegi fiscali era – come nell’Antico Regime – fonte di notevole
distinzione sociale.

Questa nuova nobiltà infatti come in passato era divisa per titoli e gradi (che erano
cinque) ordinati gerarchicamente e trasmissibile ai discendenti per primogenitura
maschile.

Con questa strategia “nobiliare” Napoleone intendeva legare la nobiltà “antica”, di


estrazione aristocratica, con quella “imperiale”, di origine rivoluzionaria e
borghese. L’obiettivo era creare una classe dirigente, stabile e solidale con il suo
governo.

DALLA SOCIETÀ ALLO STATO: I NUOVI DIRIGENTI


In generale e al di là delle sue componenti nobili la nuova classe dirigente era
composta da uomini che – secondo la logica napoleonica – dovevano essere
all’altezza del nuovo regime.

UN SISTEMA ‘MERITOCRATICO’
A fianco di funzionari, ufficiali e amministratori che si erano distinti nel corso della
stagione rivoluzionaria. Infatti Napoleone ammise anche funzionari già distintisi al
tempo dell’Antico Regime.

IL SISTEMA DI RECLUTAMENTO
Era legato al talento e alle capacità individuali Tuttavia per i livelli alti e dirigenziali
dello Stato napoleonico la selezione avveniva per cooptazione e sulla base della
fedeltà al governo una fedeltà misurata attraverso i dati forniti da “controllori”
sparsi su tutto il territorio e appositamente incaricati di verificare il consenso nei
confronti dello Stato e di Napoleone in primis.

Al vertice delle istituzioni francesi di quel decennio dunque andò formandosi


un’élite di burocrati e funzionari, mediamente molto capaci, che, insieme ai militari
e ai proprietari terrieri nobilitati costituì il fondamento sociale del sistema di potere
napoleonico.

OLTRE NAPOLEONE
La vicenda dello Stato napoleonico, come è noto, si chiuse con una sconfitta
militare e l'abdicazione dell'imperatore cui seguì la sua reclusione nell'isola di
Sant'Elena. Dal 1815, si aprì l’epoca della Restaurazione ossia una stagione nel
corso della quale si assiste a uno sforzo, orchestrato dagli Stati vincitori, per
contenere, reprimere e cancellare la nuova visione della politica, dei rapporti sociali
e dell’orizzonte culturale che, dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica, si era
diffusa nel continente europeo.

IL RITORNO DELL’ANTICO REGIME


Ciò si tradusse innanzitutto nella rivitalizzazione dei principi di fondo dell’Antico
Regime, del ripristino della maggior parte dei confini dei vecchi stati pre-
napoleonici e dei sovrani legittimi sui rispettivi troni. Si trattava di un progetto -
quello della Restaurazione e di cui L'Austria del cancelliere Metternich si fece
principale sostenitrice - impossibile da realizzare nel lungo periodo.

Infatti i lasciti della stagione rivoluzionaria e napoleonica, non potevano più, nel
nuovo contesto storico, essere sradicati. Idee forti come quelle di nazione e di
costituzione, di rappresentanza, cittadinanza individuale e di libertà individuali
continuarono da allora in avanti a eccitare le riflessioni dei sudditi di tutto il
continente e a ispirarne azioni e movimenti per il loro ripristino all'interno di tutti gli
Stati.  
Capitolo 34
Per introdurre il nostro discorso sulla Costituzione in Italia. Occorre in primo luogo
rispondere a una domanda fondamentale e altrove che ci siamo già posti: Che
cos’è la Costituzione?

Si tenga presente che come abbiamo visto nei primi capitoli alla parola
Costituzione sono applicati una serie di significati apparentemente diversi: In molte
lingue, tra cui l’italiano Infatti Ritroviamo questa parola principalmente quando
alludiamo al corpo umano in ambito medico e al corpo dello Stato in ambito di
scienze della politica.

Ne abbiamo dedotto allora che il concetto di Costituzione rinvia a un corpo


complesso.

Un concetto che ha tanti significati: quello di costituzione è quindi un concetto


polisemico. Distinguiamo tra una Costituzione intesa:

1. in senso ideologico o formale.


2. in senso materiale.

IN SENSO IDEOLOGICO -FORMALE


Con il lemma Costituzione intendiamo soltanto l’atto formale e scritto. Tale atto
sancisce giuridicamente il quadro dei diritti fondamentali e/o le modalità con cui i
diversi poteri principali si rapportano tra loro.

IN SENSO MATERIALE
Con il lemma Costituzione intendiamo l’unità politica della comunità/società nel
suo rapportarsi ad un dato territorio.

LA COSTITUZIONE COME LEGGE FONDAMENTALE


Una Costituzione può dirsi legge fondamentale se si verificano tre condizioni:

1. La Costituzione regola in modo effettivo la forma di governo e l’assetto dei


poteri pubblici.

2. La Costituzione riporti la ‘clausola di supremazia’ ossia sia considerata una


norma giuridica sovraordinata a tutte le altre.

3. Il mutamento della Costituzione deve essere regolato dalla Costituzione stessa.

Per addentrarci nella storia della Costituzione italiana è doveroso porti alcune
domande, per esempio: Qual è stata la prima costituzione italiana? O ancora che
cos’è lo Statuto Albertino?

Nessuna delle Costituzioni concesse nel 1848 sulla penisola italiana. Infatti
assunse il nome di Costituzione, ma quello di Statuto, dove il problema non è solo
lessicale, ma ideologica.

Tale questione lessicale testimonia che la cultura municipale, da cui tali testi furono
prodotti, la parola Statuto appariva molto più rassicurante di “Costituzione” e
sembrava richiamare direttamente l’universo cittadino (gli Statuti erano infatti fin
dall’età medievale i patti fondativi delle comunità locali).

Il 4 marzo del 1848 fu del tutto inaspettato e avvenne in maniera molto frettolosa
come tentativo di arginare il dilagare dei moti rivoluzionari.  

L’arrivo sulla scena di una carta costituzionale Carlo Alberto allora, su consiglio del
suo staff di ministri, pressato dagli eventi, decide di concedere una Costituzione ai
sudditi del suo Regno.  

LO STATUTO ALBERTINO: UN DONO DEL SOVRANO


Questa ‘Costituzione’ infatti era una Costituzione concessa ossia scritta dal re (e
dai suoi fiduciari) nel pieno dei propri poteri ed elargita come “dono” ai sudditi. ™
Costituzioni di questo genere istituivano ovunque una monarchia costituzionale
pura (non bilanciata né parlamentare).

LO STATUTO ALBERTINO E IL MODELLO CENSITARIO


Lo Statuto prevedeva un Parlamento bicamerale formato da: ™ una camera alta di
nomina regia e vitalizia (Senato) ™ una camera bassa elettiva sulla base di un
criterio fortemente censitario (Camera dei deputati).

LO STATUTO ALBERTINO: LO STATUTO DEL RE


Il sovrano rimaneva al centro del sistema istituzionale e manteneva tutte le sue
prerogative:

1. Promulgava le leggi e aveva il potere legislativo in compartecipazione con il


Parlamento.

2. Aveva in esclusiva il potere esecutivo, che esercitava attraverso “propri”


ministri, responsabili solo verso di lui.

3. Poche erano le garanzie a tutela dell’indipendenza della magistratura.

4. La religione cattolica era proclamata religione di Stato mentre gli altri culti
erano «tollerati».

LO STATUTO ALBERTINO E LA PENA DI MORTE


Nello Statuto non si fa menzione della pena di morte ™ La pena di morte è
normata dal Codice penale in vigore nel Regno di Sardegna e successivamente nel
Regno d’Italia (con l’eccezione della Toscana) fino all’emanazione del Codice
Zanardelli nel 1889, che la abolisce.

MA QUANTO A LUNGO RESTA IN VIGORE LO STATUTO ALBERTINO?


Lo statuto albertino resta formalmente in vomire per cento anni, fino al primo
gennaio 1948. Con l’unificazione italiana, lo Statuto Albertino, «legge
fondamentale, perpetua e irrevocabile della monarchia sabauda» diventa la
Costituzione del Regno d’Italia. E lo resterà fino all’avvento della Repubblica nel
secondo dopoguerra.

ANCHE DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA


Durante il periodo fascista lo Statuto Albertino rimase in vigore come legge
fondamentale del Regno d’Italia, anzi fu interesse di Mussolini tributargli un
rispetto quantomeno di facciata, mantenendo intatta la forma di governo
prospettata dallo Statuto almeno fino all’emanazione delle cosiddette ‘leggi
fascistissime'.

1922: “primavera di bellezza nel fascismo è la salvezza della nostra libertà”. Nel
1922 le violenze fasciste si moltiplicavano in tutto il paese e lo squadrismo si
organizzava in forme ormai legalizzate, come la Milizia nazionale. Al già debole
governo Bonomi (luglio 1921- febbraio 1922) succede il debolissimo governo
Facta (febbraio-ottobre 1922). Nell’ottobre del 1922 i capi del partito fascista
(Balbo, De Vecchi, De Bono, Bianchi) preparano d’accordo con Benito Mussolini la
Marcia su Roma.

Organizzate le ‘colonne’ armate, le camicie nere marciano in direzione di Roma.


Consci del pericolo corso dallo Stato, il governo Facta decreta lo stato d’assedio
(con lo scopo di arrestare la marcia) da sottoporre all’approvazione del re. Vittorio
Emanuele III però rifiuta di firmare il decreto e offre a Mussolini l’incarico di formare
il nuovo governo.

30 OTTOBRE 1922 MUSSOLINI AL GOVERNO


Il sovrano aveva risolto la crisi evitando il conflitto armato. Tuttavia aveva agito
contro l’esplicito volere del Parlamento. Era il primo passo della monarchia nell’
‘avventura’ anticostituzionale, che nel timore di una rivoluzione socialista, offriva
invece il braccio all’instaurazione del Fascismo.

LE RIFORME COSTITUZIONALI LE LEGGI FASCISTISSIME


La riforma costituzionale fascista ha inizio con le leggi Rocco : - la legge del 24
dicembre 1925 sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo - la legge 31
gennaio 1926 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche.
Secondo il ministro della Giustizia, Alfredo Rocco tali leggi miravano alla
restaurazione della più pura tradizione statutaria, salvaguardando la forma di
governo dalla degenerazione parlamentare.

Il progetto di abolizione delle garanzie statutarie nel rispetto dello Statuto poteva
realizzarsi soltanto mettendo fuori legge l’opposizione.

A. Con la legge del novembre 1926 si dichiaravano decaduti i mandati dei 123
deputati aventiniani.

B. Con la legge 17 maggio 1928 si trasformano le elezioni in plebisciti.

C. Con la legge del 9 novembre 1928 sul Gran Consiglio, si ridefinivano i rapporti
fra lo Stato e il partito (di fatto già unico, ma che unico diverrà soltanto a partire
dal 1938 con la dichiarazione contenuta nello Statuto del Partito nazionale
fascista), venendo a creare un regime del capo di governo.

DIRITTI CALPESTATI
In tema di soppressione dei diritti, spiccano: ¾ l’abolizione dei partiti e della libertà
di associazione politica nel 1928; ¾ la soppressione della libertà di stampa nel
1928; ¾ con la legge 3 aprile 1926 si assiste alla sottomissione sotto stretto
controllo dello Stato dell’intero ordinamento sindacale. ¾ La reintroduzione della
pena di morte (1926).

IL FASCISMO E LA PENA DI MORTE


Il 5 novembre 1926, a pochi giorni da un attentato subìto da Mussolini stesso a
Bologna, venne ripreso e approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge
presentato dal ministro della Giustizia Alfredo Rocco. I Provvedimenti eccezionali
per la difesa dello Stato reintroducevano la pena di morte, abolita 37 anni prima
con il codice Zanardelli. La nuova legge prevedeva la pena di morte per attentato
ai sovrani, al reggente, al principe ereditario e al capo del governo.

A NORMATIVA CHE PERMETTE DI CALPESTARE I DIRITTI


1. La promulgazione del nuovo Codice Penale ad opera di Alfredo Rocco nel
1930.

2. La legge del 1931 contente le “Disposizioni sull’istruzione superiore” che


impone a tutti i professori universitari l’obbligo del giuramento (solo 11 su 1200
si rifiutarono).

3. La promulgazione il 6 ottobre 1938 della Carta della Razza scritta di proprio


pugno da Mussolini e approvata dal Gran Consiglio del fascismo e le
conseguenti leggi razziali del 1938-39.

4. La legislazione sull’urbanesimo che incide sulla libertà di circolazione e


soggiorno tramite lavoro (definita da Einaudi una legge sulla servitù della
gleba).

La monarchia che permette di calpestare i diritti la presenza della Corona era ormai
svuotata di ogni significato politico. La magistratura non era considerabile
indipendente dal momento che non poteva più giudicare in materia di reati politici.
Il Concordato del 1929 segnava in maniera molto netta il confine di non ingerenza
della Chiesa e delle associazioni cattoliche in questioni politiche.

E IL PARLAMENTO?
Con l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni (legge 19 gennaio
1939) viene abrogata la Camera dei deputati. Essa, del resto, ormai da anni era
stata drasticamente mutilata nelle sue prerogative. La nuova camera era composta
da consiglieri nominati in quanto componenti o del Pnf o del Consiglio nazionale
delle corporazioni: il suo ruolo era tuttavia del tutto privo di importanza, infatti
rimaneva il Gran Consiglio del Fascismo l’organo chiamato ad esercitare la
consulenza del governo in materia politica.

LA CRISI COSTITUZIONALE
Sotto l’incalzare degli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, il 24 luglio 1943
è convocata la riunione del Gran Consiglio del Fascismo in cui viene resa
manifesta la crisi del fascismo.

Il Gran Consiglio del Fascismo faceva appello al re perché, essendo la patria in


pericolo.

1. Ripristinasse la legalità costituzionale.

2. Riassumesse tutte le prerogative sovrane e la «suprema iniziativa di decisione».


N.B.: Lo Statuto Albertino non era mai stato dichiarato decaduto.

RE E LE SUE PREROGATIVE

Vittorio Emanuele III allora fece arrestare Benito Mussolini. In effetti, si trattò di un
‘colpo di mano’ del re che per salvare se stesso eliminò il Duce. Il governo fu allora
affidato al generale Pietro Badoglio.

Una transizione difficile. Il governo Badoglio fu un vero e proprio governo della


Corona, sia per la nomina regia di Badoglio stesso, sia per la volontà di procedere
subito a una sorta di riforma costituzionale.

Per prima cosa, attraverso decreti legge, si procedette:

1. all’abrogazione del Pnf e del Gran Consiglio del fascismo.

2. Allo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni. Si abbattevano


così i pilastri istituzionali del regime fascista, lasciando il potere politico e
costituzionale alla Corona e al suo governo.

l patto di Salerno e la convocazione della Costituente. I partiti antifascisti che si


erano riuniti nel Comitato di liberazione nazionale (CLN) rifiutano di entrare nel
governo Badoglio Con il patto di Salerno nel 1944 il CLN ottiene dalla Corona che:
1. dopo la liberazione di Roma Vittorio Emanuele III si ritirasse a vita privata e il
figlio Umberto fosse nominato luogotenente del Regno.

2. Alla fine della guerra si sarebbe dovuta convocare un’assemblea costituente per
la redazione della nuova Costituzione italiana.

IL NUOVO GOVERNO
Il 18 giugno 1944 venne allora formato il primo governo di Cnl presieduto da
Bonomi: la costituzione (Verfassung) del governo Bonomi innovò profondamente la
forma di governo italiana, dal momento che il Comitato centrale di liberazione
nazionale si sostituì alla Corona nella funzione di organo rappresentativo
dell’opinione pubblica italiana.

Capitolo 35
L’OPZIONE REPUBBLICANA
Dopo il disastro della guerra e lo shock del totalitarismo. L’Italia è chiamata alle
urne per decidere della forma di Stato da darsi: la Monarchia Parlamentare o la
Repubblica.

DIRITTI RICONQUISTATI
Il 2 giugno 1946 l’opzione repubblicana prevalse al referendum. Lo stesso giorno,
per la prima volta a suffragio universale, i cittadini italiani votarono per l’elezione
dei membri dell’Assemblea Costituente, con un sistema elettorale proporzionale
con liste concorrenti nei diversi collegi elettorali plurinominali.

I partiti entrati in campo nel dopo guerra avevano, a seguito della traumatica
esperienza totalitaria riconoscevano a fondamento dello Stato italiano:

1. Le libertà dell’individuo e dei gruppi, care alla tradizione liberale.

2. l’affermazione e la tutela dei nuovi diritti sociali (al lavoro, all’istruzione, alla
salute).

MA CHE COS’È LA COSTITUENTE?


Essa è un’assemblea votata dai cittadini affinché porti a termine il compito di
elaborare un nuovo testo costituzionale. È un’invenzione del dopoguerra?

Ha radici profonde nella storia del Costituzionalismo occidentale. È in America che


per la prima volta fu elaborata, su basi teoriche e pratiche, la moderna concezione
di ‘potere costituente’.

LA COSTITUZIONE AMERICANA
Il 17 ottobre 1787 si riunì a Filadelfia una Convenzione che decidesse sull’assetto
confederato o federato degli Stati uniti d’America. In quella circostanza si lavorò
alla stesura di una nuova Costituzione e si delineò, da allora e per sempre, il
moderno concetto di Konstitution, che vede la Costituzione come atto scritto,
emanato da assemblee costituenti rappresentative della nazione.

L’ASSEMBLEA NAZIONALE COSTITUENTE IN FRANCIA


Tra i convulsi avvenimenti della Rivoluzione francese spicca la convocazione di
un’Assemblea nazionale costituente che scrivesse e sottoponesse ad
approvazione la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto
1789 sui diritti imprescindibili del cittadino. Si dichiarava così la definitiva
abolizione del regime feudale e l’introduzione di uno Stato compiutamente liberale.

RITORNANDO ALL'ITALIA NEL DOPOGUERRA


L’Assemblea costituente, l’organo elettivo che svolgeva il compito di redigere il
nuovo testo costituzionale dell’Italia post-fascista, si riunì fra il 25 giugno 1946 e il
31 gennaio 1948.

LE DONNE DELLA COSTITUENTE


L’Assemblea era composta da 552 membri provenienti dai partiti antifascisti, di cui
21 erano le donne un ‘fatto’ inedito.

Furi dall’aula all’interno della Costituente riecheggiano quelli che sono i princìpi
antifascisti e puramente democratici di cui la Resistenza si fa portatrice almeno dal
1943 in avanti. Molti sono gli uomini e le donne di democrazia, che intendono la
politica come servizio del cittadino che non può essere neutrale, ma impegnato
secondo coscienza l’emancipazione delle donne allora rientra come un ‘punto’ del
difficile compito di ‘formare i cittadini’.

I PARTITI DELLA COSTITUENTE


Quanto alla forma di governo che avrebbe dovuto adottare la nuova costituzione,
le posizioni tra i vari partiti apparivano piuttosto discordanti. Significative differenze
intercorrevano tra la proposta delle sinistre e del PCI e quelle della Democrazia
Cristiana.

LA COMMISSIONE DEI 75
Risolutiva fu la decisione del Presidente dell’Assemblea Costituente, Giuseppe
Sagarat, di costituire una commissione di 75 membri presieduta da Meuccio Ruini
1. composta in proporzione alla consistenza numerica dei gruppi parlamentari

2. che avrebbe dovuto elaborare un progetto di costituzione da sottoporre


all’Assemblea.

LA COMMISSIONE DEI 75

Era poi suddivisa in tre sottocommissioni:

1. diritti e doveri dei cittadini.

2. organizzazione costituzionale dello Stato.

3. rapporti economici e sociali. I lavori di redazione della Commissione


procedettero fino al 12 gennaio 1947. Successivamente si ebbe la discussione
in Assemblea Costituente, e il testo venne approvato e pubblicato il 27
dicembre del 1947.

1° GENNAIO 1948 LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA


È composta da 139 articoli oltre a 18 disposizioni finali ™ I primi 12 articoli
rappresentano una sezione intitolata ‘Principi fondamentali’, ossia una
dichiarazione di principi e diritti inviolabili e non modificabili a fondamento del testo
stesso.

PRINCIPI FONDAMENTALI
Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come


singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali.

Art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le


condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Art. 5. La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali;


attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze
dell’autonomia e del decentramento.

Art. 6. La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.

Art. 7. Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine,


indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le
modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di
revisione costituzionale.

Art. 8. Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le
confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i
propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro
rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze.

Art. 9. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e


tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Art. 10. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è
regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo
straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio
della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa
l’estradizione dello straniero per reati politici.

Art. 11. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce
le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Art. 12. La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a
tre bande verticali di eguali dimensioni.

LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA E LA PENA DI MORTE


Art. 27 L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se
non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. Con la legge costituzionale 2
ottobre 2007 n. 1 L’art. 27 quarto comma della Costituzione recitava: “Non è
ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.
Diventa: “Non è ammessa la pena di morte”.

LA COSTITUZIONE ITALIANA OGGI: TRA MODIFICHE E CONSERVAZIONE


DEL DETTATO COSTITUZIONALE
È possibile modificare la nostra costituzione?

Art. 138 Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono
adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non
minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di
ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a
referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano
domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque
Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è
approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la
legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a
maggioranza di due terzi dei suoi componenti.

Secondo l’articolo 138 è possibile modificare la Costituzione ma solo secondo


rigide procedure che per la loro complessità hanno il compito di garantire la tenuta
e mantenere sostanzialmente intatto il dettato. Ma allora è possibile modificare
qualunque punto della Costituzione? Non proprio: Art. 139 La forma repubblicana
non può essere oggetto di revisione costituzionale.

A COSTITUZIONE ITALIANA
È una costituzione rigida, ovvero modificabile soltanto tramite procedure
complesse e rigorose, chiaramente sistematizzate dagli artt. 138 e 139 Tuttavia
Nonostante siano passati più di 70 anni dalla sua promulgazione, rimane una
Costituzione sensibile alle istanze del Paese contemporaneo e potatrice di princìpi
ancora validi per tutta la comunità italiana.

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