Demografia e Distribuzione Geografica
Demografia e Distribuzione Geografica
Demografia e Distribuzione Geografica
PARTE PRIMA
1. Demografia e distribuzione geografica
- Quanti erano?
Sul piano demografico, l’Itali è connotata da una presenza ininterrotta di
ebrei sul suo territorio nell’arco di oltre ventidue secoli. Agli inizi dell’età
moderna gli ebrei in Italia oscillavano tra i 35.000 del XV secolo e i
50.000 del XVI secolo. Le ragioni della crescita rapida della popolazione
ebraica tra quattro e cinquecento sono da individuare nelle correnti di
immigrazione verso l’Italia che, a partire dal XIV secolo, coinvolsero
correligionari provenienti dalla Francia, dalla Provenza e dalla Germania.
Nel corso del XVII secolo l’ebraismo italiano era ridotto a circa 21.000
persone, concentrate per lo più nelle città grandi e medie che avevano
istituito i ghetti. Roma restava una delle comunità ebraiche più
importanti.
- Ebrei in giudizio
Nel frattempo si assiste a un progressivo ridimensionamento dell’autorità
vicariale a seguito della concorrenza tra diversi tribunali ecclesiastici e di
una pluralità di giurisdizioni che si occupavano degli ebrei. Le pene più
frequentemente comminate dal tribunale criminale del governatore
variavano dalla multa all’esilio, la pena più grave, mentre sembrerebbe
che fosse evitata la pena capitale. Gli ebrei potevano essere sottoposti a
giudici particolari, a loro deputati, o ai tribunali ordinari per le cause civili
e criminali. Per le questioni relative alla religione o alla morale anche nei
territori non pontifici erano attivi i tribunali vescovili, che spesso
entrarono in conflitto con i rappresentanti locali dell’inquisizione romana.
Nel campo civile e per questioni che riguardavano solo ebrei esistevano
anche dei tribunali interni agli stati, che risolvevano le controversie sulla
base della legge ebraica, ad esempio in materia matrimoniale,
successoria e dotale.
- Verso la reclusione
Proprio come era avvenuto a Roma, in conseguenza degli sconvolgenti
che gli ebrei di tutta Italia avevano subito tra la fine del ‘400 e i primi
decenni del ‘500, fratture, tensioni, scissioni e conseguenti ridefinizioni
amministrative e organizzative si verificarono anche in altre comunità.
L’organismo assembleare del consiglio era contemplato in molte altre
comunità, accompagnato da organi intermedi. Ovviamente non si può
parlare di partecipazione democratica, in quanto i fattori relativi alla
ricchezza e al prestigio di alcune famiglie funzionavano spesso nella
direzione di limitare il numero degli eleggibili. Siamo nell’età del ghetto,
il secondo trauma subito dall’ebraismo italiano.
PARTE SECONDA
5. Il secondo trauma. La nascita dei ghetti: geografia e cronologia
- Battesimi forzati
L’ossessione della conversione degli ebrei aveva un’impronta dottrinale di
tipo escatologica ed era basata essenzialmente sulla concezione
millenaristico-messianica relativa all’attesa della seconda venuta di cristo
sulla terra e dunque dell’avvento di mille anni di pace e di fedeltà, che
sarebbero giunti quando il mondo fosse stato unificato all’interno
dell’unica fede.
Le balie cristiane, spesso in buona fede, quando vedevano, o credevano,
un bimbo ebreo in pericolo di morte non esitavano a battezzarlo
sommariamente, salvo denunciare poi il fatto alle autorità, che
intervenivano per separarlo dalla sua famiglia.
Oltre a questi battesimi, definibili come clandestini, esistevano altre
tipologie di coercizione, però non praticate certo ingenuamente o in
buona fede come poteva avvenire per le balie. I battesimi forzati
potevano essere le conseguenze sia di denunce prestate alle autorità di
cristiani o perfino da ebrei, che asserivano con giuramento di aver
sentito dire da un ebreo di volersi convertire, sia alle cosiddette offerte
che derivano dal diritto riconosciuto ai convertiti di offrire appunto alla
nuova fede della chiesa le mogli e i figli su cui avevano la patria potestà
e persino altri parenti lontani.
Se i bambini furono le vittime principali delle conversioni forzate,
altrettanto lo furono le donne, che spesso dovevano seguire la volontà
del marito o del padre, o che abbracciavano la fede del figlio battezzato
pur di non esserne separate per sempre. Le ebree erano dunque le
destinatarie preferite di questa politica di conversione e un gran numero
di offerte concernevano appunto le donne.
La conversione, forzata o spontanea, culminava nelle cerimonie del
battesimo e della riconciliazione, che venivano celebrate, soprattutto nei
casi più clamorosi, con pompa trionfale e con la solenne esibizione
pubblica del battezzato.
Il fenomeno dei battesimi forzati, in ogni modo si sviluppò in parallelo
con la ripresa, tra XVII e XVIII secolo, degli stereotipi antiebraici
secolari, anche i più violenti e con la virulenta polemica antiebraica della
pubblicistica cattolica reazionaria della Restaurazione.
- La Kabbalah
Un elemento importante della cultura ebraica trasmessa attraverso i libri
era la Kabbalah, arrivata in Europa con i profughi ebrei dalla Spagna.
Nella nuova sistemazione di Isaac Luria, il misticismo cabbalista si
presenta come la reazione culturale alla catastrofe materiale e spirituale
seguita all’esilio dalla Spagna e allo choc dell’espulsione. La
metempsicosi guadagnò allora una immensa popolarità poiché insisteva
sulle diverse tappe dell’esilio dell’anima, allusivo del tragico destino di un
intero popolo esiliato e dell’espiazione delle colpe fino alla liberazione.
Non stupisce che nell’indice dei libri degli ebrei da proibire in assoluto
fosse stata inserita tutta la produzione di Isaac Luria, messa sotto accusa
soprattutto per la dottrina della trasmigrazione delle anime, in particolare
di quelle dei peccatori che diventavano demoni o spiriti malvagi capaci di
entrare nei copri umani e di dominarli totalmente.
La Kabbalah propagata in Europa dai profughi ebrei iberici, a partire dalla
metà del ‘500 aveva cominciato sempre più a diffondersi. Questa grande
ondata culturale incluse anche l’Italia. Le Universitates iudaeorum delle
città italiane avevano accolto, più o meno di malavoglia, come si è visto,
i rifugiati spagnoli e la loro cultura.
La Kabbalah è una forma di sapere assai varia e complessa, tesa tanto
all’interpretazione quanto all’intervento sul creato.
Nel corso dell’età moderna, tutta la popolazione, ebrea o cristiana che
fosse, spesso pronunciando formule ebraiche, o latine miste a una
pseudo-ebraico incomprensibile, praticava la magia, la divinazione e
l’esorcismo, indipendentemente dall’appartenenza a un determinato ceto
sociale. È sufficiente leggere gli editti del sant’Uffizio, i processi intentati
contro ebrei per magia e stregoneria, così numerosi negli archivi, per
rendersi conto di come in questi secoli, una volta conclusasi la caccia alle
streghe, avanzasse il nesso ebraismo-stregoneria.
- Ebraismo e magia
L’immagine dell’ebreo stregone e la leggenda della stregoneria ebraica
erano assai diffuse e rinviavano alla percezione cristiana degli “strani”
rituali e usanze degli ebrei.
Fin dal ‘500 sono testimoniati casi di ebrei stregoni di cui erano
frequentatori e clienti molti cristiani e perfino ecclesiastici. La
grammatica delle scienze occulte era scritta in caratteri ebraici, veri o
immaginari che fossero. La lunga sopravvivenza delle credenze
demonologiche ben oltre il ‘500 e fino almeno al cuore dell’età dei lumi,
anche quando l’attività di repressione della stregoneria si era da tempo
allentata, già a partire dalla fine del XVI secolo, e il mantenimento del
controllo attento su tali credenze, di ebrei e di cristiani, da parte
dell’inquisizione romana pongono anche alcune questioni storiografiche e
metodologiche da segnalare.
Il nesso stregoneria-ebraismo, usuale e naturale per i cristiani,
conduceva due opposti risultati. Da un lato, i cristiani si servivano delle
magie degli ebrei, che ritenevano assai efficaci, dall’altro, però, teologi e
polemisti utilizzavano questa convinzione per accusare gli ebrei di
superstizione e soprattutto per demonizzarli.
- Il mondo della cultura
Secondo alcuni interpreti, per tutto il ‘600 la Kabbalah fu la cultura
egemone tra gli ebrei italiani che, con credenze e pratiche, coinvolgeva
sia le élites che gli stati popolari. La forma medievale del misticismo
ebraico espressa nel sapere cabbalistico continuò a essere trasmessa
come una modalità di esoterica saggezza nel ‘500.
- Ebrei e riforme
Le riforme liberalizzatrici di Giuseppe II, che era peraltro un convinto
cattolico, erano aspirate all’idea di un’organizzazione politica in cui le
diverse confessioni dovevano convivere per l’utilità dello stato e al
disegno di una compagine statale in cui si dovevano sciogliere i diversi e
autonomi corpi, come quelli costituiti dalle comunità ebraiche.
Le riforme anticipavano anche le contraddizioni dell’emancipazione e i
paradossi dell’illuminismo, perché il principio dell’eguaglianza assoluta
comportava il rischio dall’assimilazione/ cancellazione delle identità
diverse. Occorreva fare i conti con l’anelito religioso di queste riforme
che spingevano verso la cosiddetta rigenerazione degli ebrei: vale a dire,
rispondevano all’esigenza della loro integrazione culturale ed economica
nella società cristiana, non certo esente da finalità conversionistiche più o
meno esplicite.
- Il dibattito sulla questione ebraica
Ma quali erano gli atteggiamenti della cultura non ebraica, cattolica o
laica che fosse, nei confronti degli ebrei? Qui ci troviamo di fronte a una
situazione complessa e contraddittoria. Il ‘700 è proprio il secolo che non
solo inaugura riforme volte all’emancipazione, ma avvia precocemente
una discussione accesa sul problema ebraico che sconvolge i diversi
piani: economico, giuridico e teologico.
Relativamente al mondo cattolico, l’avvicinamento all’ebraismo non va
spiegato sulla base delle trasformazioni economiche liberistiche o dei
mutamenti culturali indotti dal razionalismo, dall’illuminismo e dalle idee
di tolleranza, ma va visto in riferimento alle trasformazioni interne al
cattolicesimo stesso e alla spaccatura ideologico-politica e teologica
esistente fra correnti diverse e in conflitto.
La questione ebraica si colloca allora al cuore di una frattura interna a
questo mondo. I circoli cattolici filogiansenisti e i riformatori ecclesiastici
anticuriali, che reclamavano l’eliminazione degli abusi introdotti da Roma
e dal papato mediante il ristabilimento del puro cristianesimo delle
origini, fino dagli anni settanta del XVIII secolo avevano fondati le loro
attese millenaristiche e palingenetiche su un deciso filoebraismo e su un
netto recupero delle origini ebraiche del cristianesimo.
Quanto al mondo della cultura laica e riformatrice che viene in genere
considerata come in toto favorevole agli ebrei, anche qui erano presenti
ambiguità e divisioni interne. Sono note le posizioni antiebraiche degli
illuministi francesi, a partire da Voltaire.
- Il mito di Napoleone
Le difficoltà fi coniugare le novità con la tradizione e le ambiguità di una
emancipazione/eguaglianza concessa implicitamente a prezzo della
rinuncia alla diversità e all’autonomia dell’organizzazione comunitaria
emersero pesantemente nelle fasi di dominazione diretta di Napoleone in
Italia.
La sfuggente politica napoleonica, sostanzialmente condizionata dagli
stereotipi antiebraici settecenteschi, soprattutto in materia economica e
riguardo al tema ossessivamente presente dell’usura, era volta a
spingere in direzione dell’assimilazione attraverso la concessione di una
non completa emancipazione.
Le questioni poste da Napoleone all’assemblea rispecchiavano perciò
antichi timori, stereotipi e pregiudizi nei confronti degli ebrei e del loro
rapporto con le autorità civili, timori a cui si voleva dare risoluzione con
semplici decreti legislativi. Il Sinedrio assunse una precisa funzione
politica, quella di imporre ai corregionali l’assimilazione per legge, anche
a spese di modifiche fondamentali delle norme tradizionali dell’ebraismo,
come ad esempio avveniva con la dispensa dall’osservanza religiosa per i
militari. La partecipazione italiana ai lavori fu numericamente importante,
anche se non tutte le comunità inviarono i loro rappresentanti.
I limiti e le ambiguità dell’orientamento napoleonico resero acuta la
tensione fra emancipazione, assimilazione e identità ebraica, già evidente
nella fase rivoluzionaria, ed esplicitarono la mancata conciliazione tra
universalismo dei diritti e differenze di individui e gruppi, con esiti
dirompenti tanto all’interno, quanto all’esterno del mondo ebraico. Oltre
a ciò il regime napoleonico innescò un complesso processo simbolico
delle future, rilevanti, conseguenze.
L’antisemitismo, oltre a contestare qualsiasi diritto di cittadinanza agli
ebrei se prima non si fossero convertiti, si traduceva anche, sul piano
politico, nel prospettare ai sovrani dell’Europa restaurata il pericoloso e
assai solido nesso tra l’appartenenza alla separata nazione ebraica e la
sovversione rivoluzionaria.
- La vendetta
Un evento emblematico del livello di altissima conflittualità innescato dal
periodo rivoluzionario tra ebrei partigiani dei nuovi regimi e società
cristiana maggioritaria, sostanzialmente antifrancese e antirepubblicana,
fu quello che si svolse a Roma, nel corso della repubblica romana del
1788-1789. Particolarmente odiato dagli ebrei era un tale Gioacchino
Savelli, un pescivendolo che faceva parte di una corporazione di mestiere
importante, appunto quella dei pescivendoli. Si trattava di un gruppo
sociale che oltre a vivere e lavorare alle porte del ghetto. Nel Portico
d’Ottavia, era anche l’organizzatore delle cosiddette “giudiate”,
manifestazioni teatrali di strada che si tenevano a Carnevale e che
prendevano di mira gli ebrei e la loro religione. In seguito al ritorno dei
francesi, all’inizio del 1799e dunque con il ripristino della Repubblica, il
cadavere di Cimarra fu trovato nella campagna romana. Subito il delitto
fi ascritto agli ebrei, che infatti organizzarono anche il trasporto del corpo
in città, esibendolo al pubblico durante un corteo che l’attraversata tutta.
Lo spettacolo del cadavere del controrivoluzionario Cimarra, fiero nemico
del ghetto, fatto uccidere dai ricchi ebrei giacobini delle famiglie Ascarelli
e Baraffael e portato in giro per l’Urbe al suono dei tamburi, in una sorta
di macabra festa di trionfo, potè costituire una dolce vendetta per i
tartassati ebrei romani, proprio quando però si approssimava la fine della
repubblica e il ritorno del papato.
- Roma 1825. La svolta antiebraica della restaurazione
Nel 1800 e nel 1814-15 le due restaurazioni dei governi di antico regime
e del potere pontificio determinarono un radicale ribaltamento della
situazione giuridica degli ebrei nella penisola, cancellando quasi ovunque
le conquiste dell’emancipazione civile e politica che avevano riconosciuto,
nell’Europa rivoluzionaria e napoleonica, la loro piena cittadinanza e
l’eguaglianza.
Nel corso del pontificato di Leone XII, pontefice antimoderno e zelante
durante il cui governo si realizzò una forte impennata della politica
antiebraica, divennero assai forti sia le motivazioni religiose che quelle
economiche dell’antigiudaismo. La linea repressiva nei confronti degli
ebrei, ripresa con rigore nel corso della restaurazione, rifletteva la
politica generale del papato di opposizione strenua al pluralismo culturale
e ai diritti civili portati dalla nuova cultura europea. L’antiebraismo era
appunto una delle facce del rapporto conflittuale della chiesa con il
mondo moderno uscito dalla rivoluzione.
Il 1825 in particolare rappresenta una data centrale sia per il mondo
cattolico che per quanto riguarda le motivazioni religiose e polemiche
dell’antiebraismo. Si tratta dell’anno in cui, dopo una pausa di mezzo
secolo e i recenti sconvolgimenti religiosi e politici, venne celebrato il
primo giubileo dell’800, che fu poi anche l’ultimo della Roma papale. In
connessione con il giubileo, l’anno 1825 è anche quello in cui il pontefice
immaginava e progettava per Roma addirittura un nuovo ghetto, da
edificare in un’altra parte della città e dove trasferire a forza e
rinchiudere con maggiore durezza gli ebrei.
Che un rapporto strettissimo esistesse tra i due eventi, il giubileo e
l’irrigidimento della politica antiebraica, e che entrambi fossero finalizzati
tanto alla riaffermazione del ruolo direttivo della religione e del papato
nella società e nella politica europee, quanto all’esaltazione della
funzione sacrale di Roma, è dimostrato dalla fioritura, proprio alla metà
degli anni venti, di una violenta pubblicistica antiebraica, spesso derivata
dalla predicazione, che accompagnò appunto quei due eventi e ad essi si
riferiva esplicitamente.
Nello stesso anno 1825 fu pubblicato un violento libello dal titolo Degli
Ebrei nel loro rapporto colle nazioni cristiane che ebbe ben 4 edizioni tra
il 1825 e il 1826, con numerose ristampe successive.
L’operetta costituisce un caposaldo e il punto di riferimento
dell’antigiudaismo cattolico italiano all’interno dell’Ottocento. In essa
erano ribaditi tutti i tradizionali stereotipi antisemiti, apertamente ripresi
da ora in poi e sempre più irrobustiti dal cattolicesimo reazionario
ottocentesco: il deicidio, l’avidità di arricchimento indirizzata a rovinare i
cristiani, le ambizioni di potere per giungere al dominio del mondo, il
danno arrecato alla morale e ai costumi, l’odio per la religione cristiana
spinto fino alla peggiore barbarie.
La situazione degli ebrei divenne nel corso della restaurazione sempre
meno garantita anche sul piano delle professioni e dei commerci. La
libertà economica, che sembrava acquista da tempo in molte località e
perfino prima degli eventi rivoluzionari, cominciò a incrinarsi di nuovo.
Era ovvio che soprattutto a Roma e nello stato papale non si tollerasse
più la residenza stabile di ebrei in località prive di ghetto, diventata
possibile dopo l’emancipazione.
Conclusioni
Antiebraismo e antisemitismo.
Le radici moderne dell’antisemitismo
L’emancipazione civile e politica degli ebrei sancita dalla rivoluzione francese
finì per accentuare ancora di più l’antiebraismo cattolico, che divenne una
componente primaria dell’intransigentismo ottocentesco, all’interno della
diffusa convinzione che esiste un nesso preciso tra emancipazione degli ebrei,
massoneria, Rivoluzione e, in ultima analisi, processi si scristianizzazione.
Nell’ambito delle definizioni correnti e fino a oggi predominanti, l’antiebraismo
viene interpretato come avversione cristiana nei confronti dell’ebraismo
rabbinico di epoca post-biblica e soprattutto come ideologia ispirata da motivi
unicamente religiosi, relativi al mancato riconoscimento da parte degli ebrei di
Gesù come Messia e alle responsabilità nella sua morte. Il termine
antisemitismo viene invece ricondotto sia alla nascita recente, alla fine
dell’Ottocento, sia ai suoi innovativi contenuti laici, secolarizzati e razziali, privi
di precedenti. Se da un lato la componente biologica innata e non religiosa è
esplicitata chiaramente nei trattati spagnoli di età moderna, dall’altro lato non
furono né la laicità, né la secolarizzazione, né l’anticristianesimo i fattori
decisivi dell’antisemitismo razziale di età contemporanea, dal momento che
pure in mancanza di quei fenomeni esso si sviluppò nella Spagna
cinquecentesca.
La negazione dell’esistenza di un antisemitismo razziale del Cinquecento fino
almeno all’Otto-Novecento è l’unico argomento, ancora molto adottato, che
consente di affrontare le difficoltà e gli imbarazzi introdotti dai tragici eventi del
secolo scorso, culminati con la Shoah.
Il sistema teologico giudicava gli ebrei come popolo della lettera e non dello
spirito, quanto all’interpretazione delle scritture, oltre che come popolo deicida,
giustamente punito da Dio con la dispersione nel mondo. Quello ebraico però,
secondo la tesi di Agostino, era anche il popolo testimone della verità del
cristianesimo, dimostrata con evidenza dalla condizione di degrado perenne e
di subordinazione degli ebrei, e soprattutto un popolo necessario alla
redenzione finale, secondo una teologia della storia che vedeva nella loro
conversione in massa il segno della fine dei tempi e della seconda venuta di
Cristo.
Nel ‘500 non si assiste alla semplice riproposta di tradizionali paradigmi
teologici, ma a un vero salto di qualità, a una rottura rispetto alla secolare
tradizione antiebraico, che pose in maniera del tutto nuova i termini della
questione.
Tra ‘500 e ‘700 l’armamentario mentale e ideologico che considerava gli ebrei
come servi e dunque non soggetti di diritto e tanto meno di cittadinanza, come
oggetti da poter denunciare, imprigionare e offrire alla fede cristiana, e che li
poteva obbligare a cambiare nome, appartenenza e identità con i battesimi
forzati, consolidò e rafforzò nel tempo abitudini e atteggiamenti mentali,
comportamenti e pratiche sociali che si collocano alle radici storiche
dell’antisemitismo otto-novecentesco, religioso e laico, poiché generarono
pratiche di esclusione e di persecuzione degli ebrei solo in quanto ebrei.
L’altra fase di svolta nei rapporti tra ebrei e cristiani si colloca alla fine del ‘700
e nei decenni della conquista dell’emancipazione civile e politica. Da un lato,
l’emancipazione presupponeva la logica universalistica e astratta
dell’uguaglianza e dei diritti di tutti i cittadini, e dunque a un diritto; dall’altro
lato, l’ideologia cattolica intransigente e reazionaria, che a tale emancipazione
si opponeva, negava l’eguaglianza in base appunto al presupposto della
differenza, riconosciuta certo, ma descritta come irriducibile e minacciosa, a
meno che gli ebrei non si convertissero.
Dopo la Rivoluzione francese, nell’800, l’antiebraismo si colora invece di tratti
storici e politici nuovi, e molto diversi dal passato, legati all’avversione e alla
paura della modernità e delle trasformazioni politiche da essa introdotte.
Non cambiano solo i contenuti, ma anche il linguaggio stesso di questo
antigiudaismo cattolico in cui, soprattutto il ‘900, l’appello e un sano
antisemitismo si coniuga con termini come razza, stirpe e nazione applicati agli
ebrei, a indicarne il carattere di estraneità, all’interno dei vari stati nazionali,
come pure le caratteristiche innate e inalterabili.