Introd Gen Alla Sacra Scrittura
Introd Gen Alla Sacra Scrittura
Introd Gen Alla Sacra Scrittura
INTRODUZIONE ALLA
SACRA SCRITTURA
Dispensa ad uso degli studenti
dell'ISSR "G. Duns Scoto"
Nola-Acerra
Nola
2018
2
NOZIONI PRELIMINARI1
1
L'Introduzione alla Sacra Scrittura comprende tre Trattati: Ispirazione, Testo e Canone. Ad essi si aggiungono due
Appendici: Geografia della Palestina e Cenni di storia biblica. Le sigle dei libri biblici sono quelle riportate ne La Sacra
Bibbia pubblicata dalla CEI-UELCI (2008).
2
Per facilitare la lettura delle parole traslitterate dal greco (discostandomi dall'uso comune), segno l'accento sulla sillaba
su cui effettivamente cade in italiano. Il dittongo greco ου, trascritto con ou, si legge u. Il doppio gamma (- γγ) si legge
ngh (gamma nasale).
3
«Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge
l'antica alleanza, perché è in Cristo che esso viene abolito».
3
TRATTATO DELL'ISPIRAZIONE
D) FEDE DI ISRAELE (ad esempio: la fede nella creazione del mondo da parte di
un solo Dio; la caduta dei progenitori Adamo ed Eva; il diluvio)→MESSA PER
ISCRITTO DEI DATI DI FEDE (si pensi al libro della Genesi).
E) DETTI E FATTI DI GESÙ→PREDICAZIONE ORALE DEGLI APOSTOLI→RACCOLTE
PARZIALI (orali e documentarie)→VANGELI.
F) AUTORITÀ DI UN APOSTOLO RICONOSCIUTA DA UNA O PIÙ
COMUNITÀ→PRODUZIONE SCRITTA DELL'APOSTOLO→RICONOSCIMENTO IN ESSA DELLA
STESSA VOCE E DELLA STESSA AUTORITÀ DELL'APOSTOLO E ATTRIBUZIONE AD ESSA DEL
CARATTERE NORMATIVO.
L'ispirazione, dunque, riguarda unicamente la messa per iscritto della Parola di Dio: è
dunque una ispirazione a scrivere, e non una semplice ispirazione a parlare. Lo
Spirito Santo, infatti, ha ispirato gli agiografi a mettere per iscritto le «verità
divinamente rivelate» (cfr Dei Verbum 11): per questa ragione «tutto ciò che gli
autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo».
L'origine trascendente della Scrittura ne fonda il carattere normativo per la fede
e la morale, come ricorda la Dei Verbum, che definisce la Scrittura «fonte di ogni
verità salutare e di ogni regola morale» (no7), avente il compito di insegnare «con
certezza, fedelmente e senza errore (firmiter, fideliter et sine errore) la verità che
Dio, per la nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle sacre lettere» (Ibid. 11).
§ 1 - Dati magisteriali
dell'uno e dell'altro Testamento hanno parlato sotto l'ispirazione del medesimo Spirito
Santo (eodem Spiritu Sancto inspirante)» (DS 1334).
Il Concilio di Trento nel primo Decreto sulle Sacre Scritture (IV sessione, 8
Aprile 1546) parla dell'ispirazione usando il verbo "dictare" inteso, come si vedrà,
non nell'accezione di dettatura verbale, ma nel senso di insegnare/prescrivere: «E
poiché il sinodo sa che questa verità e normativa è contenuta nei libri scritti e nelle
tradizioni non scritte che, raccolte dagli stessi apostoli, sotto l'ispirazione dello
Spirito Santo (Spiritu Sancto dictante), trasmesse quasi di mano in mano, sono giunte
fino a noi, seguendo l'esempio dei padri della vera fede, con uguale pietà e
venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento,
essendo Dio autore di entrambi» (DS 1501).
La categoria patristica del "dictare" usata dal Concilio di Trento soltanto in
relazione alle tradizioni orali, viene ripresa e applicata ai libri sacri dall'Enciclica
Providentissimus Deus (18 Novembre 1893) di Leone XIII (EB 81-134) e dalla
Spiritus Paraclitus (15 Settembre 1920) di Benedetto XV (EB 440-495). Il verbo
dictare non compare più nei Concili Vaticano I e Vaticano II e nella Divino afflante
Spiritu (30 Settembre 1943) di Pio XII (EB 538-569).
Il Concilio Vaticano I nel 2o capitolo della Costituzione dogmatica Dei Filius
(DS 3006) ribadisce il concetto di Dio come autore affermando che i libri dell'AT e
del NT sono considerati sacri dalla Chiesa «non perché, composti per opera
dell'uomo, siano stati posteriormente approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto
perché contengano senza errore la rivelazione, ma perché, scritti sotto l'ispirazione
dello Spirito Santo (Spiritu Sancto inspirante), hanno Dio per autore e come tali sono
stati trasmessi alla Chiesa».
Il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica Dei Verbum (no11)
riepiloga i dati di fede sull'ispirazione biblica, indicando nell'azione ispiratrice dello
Spirito Santo la ragione per cui Dio può dirsi realmente autore della Sacra Scrittura:
«Le realtà divinamente rivelate, che sono contenute e presentate nei libri della Sacra
Scrittura, furono messe per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu
Sancto afflante). Infatti la santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e
canonici tutti interi i libri sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro
parti, perché, essendo scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto
inspirante), hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la
composizione dei libri sacri Dio scelse e impiegò uomini in possesso delle loro
facoltà e capacità e agì in essi e per mezzo di essi, affinché scrivessero come veri
autori tutte le cose e soltanto quelle che Egli voleva». Si noti l'uso teologico dei verbi
"afflare" (soffiare) e "inspirare" (soffiare dentro, ispirare profeticamente):
quest'ultimo adoperato da Virgilio in relazione alla Sibilla, ispirata dal dio Apollo, e
la sottolineatura degli agiografi intesi come «veri autori» in quanto impiegati da Dio
nel pieno possesso delle loro facoltà, secondo il modello utilizzato già da Leone XIII
nella Providentissimus Deus.
7
1. L'Antico Testamento
In due passi il NT parla dell'ispirazione delle Scritture in modo diretto: 2Tm 3, 15-
17 e 2Pt 1, 19-21:
b) 2Pt 1, 19-21: «19E abbiamo anche la più solida parola dei profeti, alla quale
fate bene a rivolgervi come a lampada che brilla in un luogo tenebroso fino a che
non spunti il giorno e la stella del mattino sorga nei vostri cuori. 20Sappiate anzitutto
questo: ogni profezia della Scrittura (pâsa profētèia grafês) non è di privata
interpretazione (idìas epilýseōs ou ghìnetai); 21non infatti per volontà di uomo fu
portata mai una profezia, ma essendo mossi da Spirito Santo parlarono degli uomini
da parte di Dio».
L'autore di 2Pt si sta riferendo, verosimilmente, all'ispirazione degli oracoli
messianici, e non all'intero "corpus" delle Scritture (come intendeva, ad esempio, il
von Soden), anche perché solo in un secondo momento si diffuse l'abitudine di
10
4
Cfr 1Ts 2, 13: «[...] avendo ricevuto da noi la parola della predicazione di Dio, l'avete accolta non quale parola di
uomini ma, come è realmente, quale parola di Dio (logon theoû), che è potenza in voi credenti».
11
§ 3 - La Tradizione cristiana
I libri sacri hanno da sempre costituito l'origine del nutrimento spirituale della
Chiesa, secondo la celebre affermazione di Tertulliano (De praescr.,XXXVI: PL 2,
50): «Inde potat (Ecclesia) fidem (Da lì la Chiesa beve la fede)» e regolarmente
venivano letti durante le assemblee liturgiche. Talvolta, però, ricevevano lo stesso
onore anche altri libri, ma era un fatto eccezionale o occasionale: così a Corinto si
leggevano le lettere ricevute dai Papi Clemente e Sotero (Eusebio di Cesarea, H. E.,
IV, 23, 11); in Africa, in Gallia, in Spagna si leggevano le passioni dei martiri
nell'anniversario della loro morte. A tal proposito, si devono segnalare alcuni abusi
derivanti dal considerare come ispirati libri che non lo erano: contro tali abusi
reagirono vari Concili, come quello di Laodicea (fu un semplice Concilio
provinciale), nel 360, il cui can. 59 afferma: «Non devono essere letti pubblicamente
nella chiesa salmi privati, né libri non canonici (akanònista biblìa) ma solo i libri
canonici dell'Antico e del Nuovo Testamento» (EB 11) e quello di Ippona (anch'esso
di carattere locale), nel 393, il quale stabilisce che «al di fuori delle Scritture
canoniche non venga letto niente nella Chiesa con la denominazione di scritture
divine» (EB 16); molto importante è anche l'affermazione del Canone Muratoriano
(II sec.) che, riferendosi al Pastore di Erma dice: «il libro è molto utile da leggere ma
non può essere pubblicamente letto nella Chiesa al popolo, né tra i Profeti, il cui
numero è completo, né tra gli apostoli» (EB 7).
È sulla Sacra Scrittura che si fonda la teologia dei Padri, i quali vi ricorrono
nelle controversie dottrinali per troncare autorevolmente le questioni. Gli stessi eretici
non ne rifiutavano l'autorità, anzi la invocavano con eguale premura (Tertulliano, De
praescr.,XIV; XV). Durante la persecuzione di Diocleziano (303) le Scritture ebbero,
addirittura, i loro martiri: molti cristiani infatti preferirono morire piuttosto che
consegnare ai magistrati i loro codici biblici; i traditores, vale a dire coloro che per
paura consegnavano (dal verbo latino tràdere, "consegnare") i libri santi si videro
tacciati di apostasia. Questi fatti sarebbero inspiegabili se la Chiesa non avesse
esplicitamente professato l'ispirazione delle Scritture. È impossibile riportare tutte le
affermazioni patristiche sulla Scrittura: è importante però segnalare un progresso
dogmatico che mostra come un «Nuovo Testamento» abbia definitivamente preso
posto nella raccolta delle Scritture, al pari dell'Antico.
12
§ 4 - Estensione dell'ispirazione
1. Gesù, gli apostoli e gli evangelisti hanno fatto intendere che tutta la
Scrittura è ispirata; Gesù stesso, infatti, ha detto che neppure un iota o un solo apice
cadrà dalla Legge (Mt 5, 18), mentre San Paolo afferma: «Ora, quanto è stato scritto
prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione» (Rm 15, 4). E ancora 2Tm 3, 16,
già esaminato.
5
315 ca.- 403.
6
Negavano la divinità di Gesù Cristo, sostenendo che il Verbo non si era unito alla umanità sostanzialmente.
7
Huig de Groot.
8
Filosofo, teologo e cardinale: 1801-1890.
13
2. Del pari estranea ai Padri era l'idea della Bibbia come insieme di brani
eterogenei, ispirati alcuni, puro prodotto umano gli altri. Ireneo di Lione (Adv. haer.,
II, 28: PG 7, 806) afferma, ad esempio, che le Scritture sono «tutte intere spirituali
(hòloi pneumatikòi)»; Origene è ancora più energico: «La divina sapienza si è sparsa
sulle Scritture ispirate fino alla più piccola lettera» (In ps., I, 4: PG 12, 1081): per lui,
anche gli errori di grammatica celerebbero una intenzione speciale dello Spirito Santo
(In Osee: PG 13, 828); Girolamo afferma, perentoriamente: «Nelle divine Scritture
tutte le parole, sillabe, accenti e punti sono pieni di senso» (In Eph., 5, 6: PL 26, 481).
3. La Chiesa si è pronunciata in maniera solenne sull'estensione
dell'ispirazione. Per decisione del Concilio di Trento si debbono ricevere come sacri e
canonici i libri della Bibbia «integri con tutte le loro parti (integros cum omnibus suis
partibus)»9, così come vengono letti nella Chiesa e così come si trovano nella
Vulgata (DS 1504). In epoca moderna, la Pontificia Commissione Biblica (18 Giugno
1915) ha ricordato agli esegeti il «dogma cattolico» in virtù del quale «tutto ciò che
l'agiografo asserisce, enunzia, insinua, si deve ritenere come asserito, enunciato,
insinuato dallo Spirito Santo» (EB 415).
4. Holden e Newman, in effetti, sono partiti da un principio esatto: lo Spirito
Santo ha ispirato gli agiografi solo per nostra istruzione ed educazione religiosa;
hanno sbagliato, tuttavia, nel concludere che i passi biblici dai quali non si può
ricavare alcun profitto religioso devono considerarsi fuori dell'ispirazione, postulando
una sorta di ispirazione a singhiozzi, o intermittente. Lo Spirito Santo, infatti, ha
voluto comunicare il suo insegnamento non per mezzo di libri di carattere tecnico, o
trattati di teologia, ma per mezzo di scritti adatti al sentire comune degli uomini
(storie, racconti sapienziali, preghiere, il vangelo, lettere...). Questi testi, benché
religiosi e dottrinali, invocano normalmente dei complementi, eventualmente anche
di carattere profano, che di per sé potrebbero anche non avere un interesse dottrinale.
In questa prospettiva è facile capire come e perché l'ispirazione abbia potuto cadere
occasionalmente su cose di per sé estranee al dogma o alla morale. La verità che
Holden e Newman hanno intravisto, ma deformata, è semplicemente la distinzione
nella Sacra Scrittura tra oggetto primario e oggetto secondario dell'ispirazione:
ispirando gli agiografi lo Spirito Santo aveva come fine diretto la dottrina della fede e
dei costumi, con tutti gli inseparabili rivestimenti di tipo storico-letterario che
consentono di meglio comprenderla. Quanto al resto, esso è stato ispirato in modo
accessorio e concomitante (L. Billot).
Senza giungere a rifiutare l'ispirazione di questa o di quella parte della Bibbia,
ci si potrebbe chiedere se sia possibile accordare loro soltanto un'ispirazione di specie
inferiore o di minore qualità. Gli antichi rabbini, per esempio, distinguevano tre
specie di ispirazione, corrispondenti alle tre sezioni del Canone biblico, disposte
secondo un ordine di decrescente santità: Mosè ha scritto la Tôrāh sotto la dettatura di
Dio che parlava con lui faccia a faccia; i profeti hanno parlato nello Spirito; gli altri
agiografi hanno ricevuto un aiuto divino meno elevato.
9
Sul concetto di "parti" si veda più avanti il § 21.
14
Alla fine del XIX secolo alcuni protestanti progressisti (come l'anglicano
Charles Gore) ritenevano che l'ispirazione fosse di qualità variabile da libro a libro e
da pagina a pagina, e che dovesse essere riconosciuta dalla purezza ed eccellenza
delle idee e dei sentimenti espressi. Tra i cattolici, il palermitano Salvatore Di Bartolo
(1888) distingueva nella Scrittura non tanto delle specie ma dei «gradi» differenti di
ispirazione: essa, ad es., attingerebbe la sua massima intensità quando è in giuoco la
dottrina; discenderebbe al minimo nella geografia o nella fisica; si fisserebbe a un
livello medio nella storia. Ma queste opinioni poggiano su equivoci. È certo, infatti,
che gli scrittori ispirati non godevano delle stesse prerogative soprannaturali e dei
medesimi carismi (per esempio, non possedevano tutti il dono della profezia); è
altresì chiaro che le Scritture non sono tutte egualmente atte a nutrire la pietà, né
egualmente ricche di insegnamenti. Queste differenze, tuttavia, non toccano affatto
l'ispirazione in sé, ma riguardano soltanto la materia su cui essa poggia, e le diversità
degli argomenti di cui gli agiografi hanno voluto parlare. Noi possiamo esaminare
l'ispirazione sia negli scrittori che ne furono il "soggetto", sia nelle Scritture che ne
furono l' "effetto" e il termine. Negli scrittori l'azione dello Spirito Santo ha potuto
essere più o meno forte, e questo è più che probabile. Ma chi potrebbe affermare con
certezza assoluta che nei Profeti, ad esempio, l'impulso a scrivere sia stato più forte
che negli autori sapienziali? Riguardo ai testi sacri è dunque sbagliato affermare che
uno è più ispirato di un altro. Considerata nelle Scritture, infatti, l'ispirazione è
dappertutto identica e non ammette né specie, né gradi. Lo ricorda in modo
autorevole il Concilio di Trento, il quale «venera tutti i libri [...] con un eguale senso
di pietà e di riverenza» (DS 1501) e ordina tutti i libri tra i «testimoni e gli aiuti» di
cui intende servirsi «in confirmandis dogmatibus et instaurandis in Ecclesia moribus»
(DS 1505).
15
§ 5 - Natura dell'ispirazione
a) ispirazione ed estasi
Era opinione comune nell'antichità che gli indovini e le sibille non potessero
pronunziare oracoli conservando nel contempo l'uso delle loro facoltà perché la
divinità, discendendo su di loro, li poneva in uno stato di delirio, come la platonica
thèia manìa (divina follia). Illegittimamente, Filone di Alessandria (I sec. a. C.-I sec.
d. C.) applicava questa concezione ai profeti (cfr Quis heres 69), facendone dei
sublimi dementi, in preda all'enthousiasmòs (divino trasporto, entusiasmo, frenesia)
come i coribanti10. Secondo lui, quando lo Spirito di Dio si impossessava di loro, essi
perdevano conoscenza, perché lo Spirito immortale non avrebbe potuto coabitare
nell'uomo con lo spirito mortale (in questa teoria è facile ravvisare l'influenza del
platonismo, che separava nettamente materia e spirito). I profeti di Israele, dunque,
non sapevano più quel che dicevano o, meglio, essi non dicevano nulla, dal momento
che Dio stesso parlava attraverso la loro bocca. In ambito cristiano, la teoria filoniana
si ritrova in Atenagora di Atene (II secolo) il quale affermava che i profeti
pronunziavano i loro oracoli in stato di estasi (Legat., IX: PG 6, 908). Anche gli
eretici montanisti (II secolo) concepirono l'ispirazione come una sorta di alienazione,
ed infatti Montano, Priscilla e Massimilla (vale a dire il fondatore della setta e due
sue discepole) profetizzavano in uno stato di incoscienza analogo al sonno e davano
perfino segni di smarrimento e di frenesia (cfr Eusebio, H.E., VI, 7. 9). I loro
partigiani, specialmente Tertulliano, sostenevano che l'ispirazione è necessariamente
un'estasi, che sospende nell'uomo l'esercizio della ragione. Lo stesso Tertulliano
aveva composto un trattato in sette libri, De ecstasi, ora perduto. Successivamente, i
Padri (tra cui Origene, Atanasio, Epifanio, Giovanni Crisostomo, Girolamo)
rifiutarono questa teoria considerandola ingiuriosa nei confronti di Dio, perché le
estasi che provengono da Dio non hanno affatto i caratteri della demenza: al
contrario, è proprio dello spirito del male oscurare nell'uomo l'intelligenza. Essa
inoltre è contraria alle Scritture, le quali testimoniano che i loro autori, profeti
compresi, erano pienamente in possesso delle loro facoltà. Indubbiamente, i profeti
sono stati spesso rapiti in estasi per contemplare le cose future, ma non erano affatto
in estasi quando le annunciavano. Lo stesso San Paolo, del resto, aveva affermato che
«le ispirazioni dei profeti sono sottomesse (ypotàssetai) ai profeti» (1Cor 14, 32).
10
Sacerdoti di Cibele, la Grande Madre, dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici.
16
b) ispirazione e rivelazione
c) ispirazione e dettato
Girolamo, Agostino, Gregorio Magno, Isidoro) i quali, però lo adoperavano non nel
senso che noi oggi attribuiamo a tale verbo ma nel significato, corrente nella bassa
latinità, di "dire/insegnare/prescrivere"11. La già rilevata confusione tra ispirazione e
rivelazione portò però alcuni teologi (Tostat, Bañez, Estio, Billuart) a presentare
l'ispirazione in una forma in qualche modo meccanica e materiale, secondo la quale
Dio avrebbe "dettato" i suoi libri agli autori sacri pressappoco come un uomo detta il
suo testamento a un notaio (dictatio verbalis), con una differenza, però: Dio non
agiva sui sensi esteriori degli agiografi, ma faceva loro intendere le frasi e le parole
interiormente o, meglio, le mostrava alla loro immaginazione come un testo da
copiare. In tal modo il loro lavoro sarebbe stato modesto e facile, senza alcuno sforzo
di riflessione. La teoria fu portata agli estremi dal domenicano Domingo Bañez
(1528-1604)12, il quale intendeva salvaguardare con la massima sicurezza la
trascendenza e la purezza della Parola di Dio, ponendola al riparo dagli errori e dalle
debolezze degli autori umani13. Accolta con grande favore anche da luterani e
calvinisti (Johannes Andreas Quenstedt, David Hollatz, Francis Turretin), divenendo
ai loro occhi l'«ortodossia», fu abbandonata alla fine del '700. Essa è molto
pericolosa, perché minimizza il ruolo dell'uomo, facendone uno strumento passivo e
incosciente nelle mani di Dio. L'agiografo, invece, deve intendersi come «vero
autore» di quanto scrive, benché autore strumentale. È quanto affermato dalla Dei
Verbum al n. 11: «Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini
nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo Egli in essi e per loro
mezzo, scrivessero, come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva
fossero scritte»: questo importante passaggio della Dei Verbum rigetta tanto la teoria
della dictatio verbalis quanto quella dell'estasi, sottolineando la qualifica
dell'agiografo come vero autore.
Se, però, la teoria della dictatio verbalis minimizzava il ruolo dell'uomo, altre
teorie, all'opposto, minimizzavano il ruolo dello Spirito Santo. Nel 1575, ad esempio,
Sisto da Siena (seguito tre secoli dopo da Daniel Haneberg) affermò che un Concilio
può fare di un libro ordinario, ma pio, una Scrittura Sacra, dichiarandolo esente da
errori e includendolo nel canone biblico. Nel 1587 il gesuita belga Leonardo Lessio
(Leendert Leys), per reagire contro la teoria del dettato, andò più lontano, con
affermazioni del tipo: «Se di un libro (come forse è il caso di 2Mac) scritto per opera
dell'uomo senza l'assistenza dello Spirito Santo, lo Spirito Santo attesta in seguito
che ivi non v'è nulla di falso, esso diviene Scrittura Sacra». Questa e altre
proposizioni estratte dagli appunti dei suoi allievi furono censurate dall'Università di
Lovanio (Belgio), anche se in seguito il Lessio chiarì del tutto la sua ortodossia
dinanzi all'autorità ecclesiastica del tempo. In realtà, un libro di cui lo Spirito Santo
proclamasse la assoluta veracità avrebbe automaticamente una autorità divina, e
diventerebbe in qualche maniera sacro: su questo punto Lessio ha ragione, ma si
11
Dictare è un frequentativo del verbo dicere. La forma frequentativa di un verbo latino indica una azione frequente,
ripetuta.
12
Il teologo spagnolo fu anche confessore di Santa Teresa d'Avila.
13
«Dio stesso non solo rivelò allo scrittore cose sconosciute, o lo indusse a scrivere cose note e gli tenne la mano
affinché non errasse, ma gli suggerì anche, e quasi gli dettò, le singole parole con le quali scrivere» (Scholastica
Commentaria [...],Salmanticae 1584, col. 63 q. 1, a. VIII).
18
inganna sul senso che la Chiesa dà all'espressione "Sacra Scrittura", essendo essa
riservata unicamente ai libri aventi un'origine divina. In verità, Lessio, in merito alla
tesi citata si difese affermando di aver espresso una mera opinione da studioso, una
pura possibilità, ammettendo che anche 2Mac, come tutti i libri della Bibbia, era stato
scritto per ispirazione dello Spirito Santo. Merito del Lessio è, comunque, la
distinzione tra rivelazione e ispirazione: la rivelazione è la manifestazione di verità
fatta all'agiografo da parte di Dio, e può escludere le singole parole, fermandosi ai
puri concetti, mentre l'ispirazione è la peculiare mozione dello Spirito Santo, che
muove lo scrittore sacro a scrivere determinate cose e lo assiste in quest'opera.
Dopo Lessio, altri teologi (Bonfrère, Simon, du Pin, Calmet, Chrismann)
affermarono che sono state "dettate" da Dio solo quelle pagine che l'uomo sarebbe
stato incapace di scrivere senza rivelazione; in generale, Dio si sarebbe contentato di
"suggerire" all'agiografo l'idea o il sommario del libro da comporre, vegliando sulla
sua composizione. All'inizio del sec. XIX Johann Jahn riconduceva l'ispirazione a
una «assistenza divina che preserva dall'errore», abolendo così ogni differenza tra un
testo sacro e una definizione solenne di un Concilio. Al pari del Lessio si credeva in
sintonia con la Tradizione, dal momento che egli, comunque, salvaguardava l'autorità
infallibile della Scrittura.
Questi teologi sono vittime della confusione regnante tra ispirazione e
rivelazione o dettato, e la loro posizione è, perciò, illegittima. Non basta infatti
l'assistenza divina perché Dio possa essere detto autore di un testo. Per fare un
esempio, le definizioni del magistero, anche solenne, non sono parola di Dio ma
parole di un Concilio o di un Papa: Dio ha dato semplicemente le disposizioni
necessarie perché il Concilio o il Papa non si allontanassero dalla verità, nulla di più.
carpentiere taglia (è la sua natura), ma partecipa nello stesso tempo della virtù della
causa principale, ossia dell'intelligenza e abilità di chi se ne sta servendo. Egli, infatti,
non le imprime un movimento qualunque, o a caso, ma un movimento giudizioso, in
conformità con l'idea esemplare che ha concepito e intende realizzare materialmente.
San Tommaso (che meglio di tutti ha precisato la nozione di autore strumentale)
insegna che lo strumento compie due azioni differenti: «Una strumentale secondo cui
opera non in virtù propria ma in virtù dell'agente principale; un'altra, invece, propria
che spetta ad esso secondo la propria forma, così come alla scure spetta il tagliare in
ragione della sua affilatezza e il fare invece un letto in quanto strumento dell'arte»
(S.Th., III, q. 62, a. 1 ad 2). Ovviamente, non si tratta di due operazioni realmente
distinte, e infatti lo strumento non ne compie che una; ma questa unica operazione si
presenta sotto due aspetti, perché essa è determinata sia dalla natura dello strumento,
sia dall'uso in cui si trova applicato. Si deve dunque attribuirgliela in proprio o
attribuirla alla mozione che esso strumento riceve, secondo il punto di vista in cui ci
si pone. L'ascia del carpentiere non squadra se non tagliando; è la potenza propria
dello strumento quella che l'artefice utilizza, ma utilizzandola egli la completa,
elevandola a un livello che la sorpassa. Parallelamente, l'effetto che artefice e
strumento producono l'uno per mezzo dell'altro è uno e indivisibile e procede
totalmente da ciascuno dei due. Un quadro, ad esempio, non contiene alcun tratto che
non sia e del pennello e del pittore. E tuttavia è necessario distinguere in questo
effetto due formalità: una, che si esplica mediante le proprietà dello strumento; l'altra,
imputabile all'agente principale. Inevitabilmente esse hanno marchiato la loro opera
comune, ciascuna col proprio carattere: quando si osserva un disegno, ad esempio, si
riconosce il genio dell'artista che lo ha realizzato ma si riconosce anche di quale
attrezzo si è servito per disegnare.
Alla luce di quanto detto, occore rilevare che Dio solo è "causa prima", mentre
le cose create sono soltanto "cause seconde": è loro impossibile fare alcunché senza
una mozione di Dio, ma non ne consegue, però, che esse siano soltanto delle cause
strumentali. Al contrario, esse sono generalmente delle cause principali a modo loro,
ossia secondo il loro grado di cause seconde. La mozione di Dio è loro necessaria per
passare all'atto, ed è ancora in virtù di questa mozione che esse producono il loro
effetto, che, ordinariamente, non eccede i limiti della loro efficienza propria.
Tuttavia, Dio ha deciso di servirsi, in certe circostanze, di creature per compiere delle
opere che oltrepassano le loro possibilità. Egli allora non si contenta di accordare loro
questa mozione generale di cui tutte le cause seconde hanno bisogno, ma - per una
mozione speciale - nello stesso tempo che le fa agire, eleva la loro azione a un
ordine preternaturale o soprannaturale. Nel caso degli agiografi, lo strumento di
cui Dio fa uso non è una cosa ma una persona: ed è come persona che Dio lo
utilizza, in ragione della sua intelligenza e della sua libera volontà. E qui il mistero si
fa più fitto: infatti un uomo può prendere un altro uomo come suo ministro,
mandatario, servitore, ma prendere un uomo come "strumento" in senso rigoroso è un
potere che appartiene solo a Dio, e se ne comprende il perché. Sotto l'ispirazione,
l'uomo si comporta da uomo; se egli è uno strumento nelle mani di Dio è, nondimeno,
anche un essere pensante, responsabile delle sue azioni: «Movetur a Deo ad
20
scrivere quel che già sa e come lo sa, influenzando l'agiografo sul "come" comunicare
il complesso di verità già acquisito. Di conseguenza, i giudizi che egli va a enunciare
non dipendono dall'ispirazione ma sono stati concepiti interiormente senza di essa.
L'ispirazione, pertanto, non avrebbe altro risultato che quello di spingere l'agiografo a
enunciare tali giudizi esteriormente, per iscritto. Illuminato dall'ispirazione,
l'agiografo si rende semplicemente conto del fatto di dover intraprendere un'opera per
l'istruzione della comunità, e fra le certezze che egli ha acquisito discerne quelle di
cui far parte agli altri, in qual ordine e in che modo. Come già anticipato, questa
opinione è gretta ed è inficiata da una grave lacuna: essa, infatti, spingerebbe quasi a
concludere che le Scritture non sono, nella loro interezza, Parola di Dio. Nessun testo
infatti può essere considerato tale se i pensieri che esprime sono, semplicemente,
quelli di un uomo e non quelli di Dio. Secondo questa tesi i testi sacri
esprimerebbero, per la maggior parte, pensieri di origine strettamente umana e non
divina, e l'agiografo (tranne il caso di rivelazioni, alle quali si richiami
esplicitamente) non avrebbe fatto altro che attingere, per mezzo dell'ispirazione, alle
sue proprie ricchezze, al tesoro di conoscenze e informazioni che ha raccolto per
mezzo delle sue sole forze, alla sola luce della sua intelligenza.
In realtà, lo Spirito Santo penetra molto più profondamente per mezzo della sua
azione sull'intelligenza degli autori sacri, e non ispira loro soltanto l'intenzione di
scrivere, ma gli stessi pensieri che essi scrivono e i giudizi speculativi che essi
formulano, proiettando sugli oggetti conosciuti per via naturale una luce superiore e
soprannaturale. Quando lo Spirito Santo si serve degli agiografi per scrivere, è con
una certezza divina e infallibile che essi percepiscono la verità e che emettono
giudizi. Tale è la dottrina di San Tommaso (S. Th., II-II, q. 174, a. 2, ad 3), il quale
accosta la semplice ispirazione al dono della profezia, senza peraltro confonderle.
Una conoscenza umana, secondo San Tommaso, comincia sempre con l'acceptio sive
repraesentatio rerum, e si compie con il judicium de rebus repraesentatis. Nel caso
della rivelazione profetica l'acceptio rerum ha luogo in modo soprannaturale; nel caso
della semplice ispirazione, invece, ha luogo in modo naturale. In entrambi i casi,
però, il judicium de rebus repraesentatis è di carattere soprannaturale. Così, le cose
che conosce e di cui parla uno scrittore ispirato, ma sprovvisto di rivelazione, sono
tutte di ordine naturale, tuttavia egli non ne giudica mediante la sua ragione naturale
ma per mezzo di una illuminazione divina.
Gli autori sacri hanno deciso di scrivere liberamente, dopo personale
deliberazione, al pari degli altri autori profani; essi, tuttavia, si sono determinati sotto
l'impulso e la direzione dello Spirito Santo. Le loro decisioni concernenti l'aspetto
compositivo e redazionale hanno, infatti, Dio per causa principale. La loro volontà
compie, nelle Sue mani, l'ufficio di strumento, e non si muove che nella misura in cui
Egli la muove. Se così non fosse, l'iniziativa delle loro opere spetterebbe interamente
a loro, ma invece, come ricorda 2Pt 1, 21: «mai una profezia è stata recata da
volontà d'uomo», sottintendendo «d'un uomo che abbia agito di sua propria
iniziativa».
La mozione impressa da Dio alla volontà dello scrittore è necessariamente una
mozione fisica. Qualcuno, infatti, può essere "causa morale" in rapporto alle decisioni
22
li mosse (gli autori ispirati) a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté
mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva, le
concepissero rettamente con la mente e avessero la volontà di scrivere fedelmente e
le esprimessero in maniera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli
stesso l'autore di tutta la sacra Scrittura» (EB 125).
Noi sappiamo che l'ispirazione si estende certamente a tutte le idee o pensieri
che gli autori biblici enunziano: ma sono ispirate anche le parole, le frasi di cui si
sono serviti per enunziarle? Agobardo vescovo di Lione (IX sec.) fu il primo a
sollevare la questione, risolvendola negativamente. Gli scolastici medievali la
trascurarono. La discussione si riaccese nel XVI sec. con Lessio: «Non est
necessarium singula (Scripturae) verba inspirata esse e Spiritu Sancto». La posizione
del Lessio fu seguita da un buon numero di teologi. Il gesuita austriaco card.
Johannes Baptiste Franzelin (1816-1886) la completò e precisò (De divina Traditione
et Scriptura [1870]) assicurandole, grazie alla sua autorità e al suo talento, una
larghissima diffusione. Secondo Franzelin le "idee" che contengono le Scritture
dipendono dalla ispirazione divina, mentre le "parole" dipendono dall'assistenza. In
sostanza, Dio avrebbe ispirato agli scrittori i pensieri, lasciando loro la cura di
esprimerli, mentre i vocaboli, le locuzioni, lo stesso ordine della narrazione
dipenderebbero dalla scelta personale dell'agiografo. Durante questo lavoro Dio lo
avrebbe semplicemente salvaguardato dall'errore; ed è potuto capitare, ad esempio,
che gli autori sacri abbiano scelto, per esprimere i loro pensieri "ispirati" espressioni
talora oscure o contorte, mai però esse sono qualificabili come inesatte o false. In tal
modo, concludeva il Franzelin, si spiegano le differenze tra gli agiografi. Questa
teoria non ha nulla contro la tradizione o le dichiarazioni del Magistero ecclesiastico,
ma presta il fianco a pesanti obiezioni, specialmente a quelle provenienti dalla
psicologia sperimentale. Infatti, benché distinte, idee e parole non sono separabili,
costituiscono nella coscienza umana un blocco indivisibile, come anima e corpo. In
pratica, noi non concepiamo prima le idee e poi le parole, ma in un solo momento
idee e parole, ossia l'idea rivestita di parole. Pensare equivale a pronunziare una
parola interiore: a ogni parola corrisponde un'idea e viceversa. E infatti, teologi come
Dausch, Loisy, Billot criticarono Franzelin accusandolo di "vivisezionare" la
Scrittura. In tal modo questa teoria apparentemente chiara, diviene molto vaga e
oscura. È infatti impossibile tracciare, in un libro, una linea di demarcazione tra idee
e parole che le esprimono: in tal senso, le metafore, i paragoni, i simboli poetici, le
allegorie, le amplificazioni oratorie andrebbero annoverate nel rango delle idee da
esprimere o in quello delle parole, ovvero dell'espressione? Vanno considerate,
dunque, ispirate, o no? Se si risponde «no» si riduce l'ispirazione di certe pagine
immaginifiche o liriche a ben poca cosa: si pensi a Gb 41 (il Leviatàn) o Is 5, 1-7 (il
cantico della vigna). Se invece le si ricollega all'ispirazione, si riduce allora a ben
poca cosa il lavoro dello scrittore sacro. Tuttavia, la teoria del Franzelin presenta un
aspetto ancor più caduco poiché non rende pienamente giustizia né a Dio, né agli
scrittori. L'autore di un libro infatti, non è solo l'autore dei concetti ivi espressi, così
come non è solo l'autore delle frasi che esprimono i pensieri, ma è l'autore del libro
nella sua interezza. Ora, i libri sacri hanno Dio per autore: a Lui dunque bisogna
24
attribuire sia i concetti che le frasi che li esprimono. Ma questi libri hanno per autore
anche l'uomo: bisogna dunque attribuire a lui concetti e frasi. Invano il Franzelin si
lusinga di spiegare il perché della diversità di stile della Scrittura: la diversità non sta
solo nell'espressione delle idee ma nelle idee stesse. San Paolo e San Giovanni, ad
esempio, non differiscono solo per lo stile e il lessico, ma anche per la loro teologia.
Il grande torto di Lessio e di Franzelin è, in definitiva, lo stesso di Bañez e dei
partigiani del dettato materiale: costoro dimenticano il concetto di "causa
strumentale", professando implicitamente il principio secondo cui l'opera di Dio e
l'opera dell'agiografo sono realmente distinte. Secondo Bañez, Dio ha depositato le
frasi bell'e pronte nella immaginazione dello scrittore sacro, il quale si sarebbe
limitato a trascriverle materialmente. Parallelamente, secondo Franzelin Dio ha
depositato nell'intelligenza dell'agiografo i pensieri, che dovranno poi essere rivestiti
di parole. Franzelin accorda all'agiografo una funzione più rilevante ma, come Bañez,
divide l'opera tra Dio e lo scrittore sacro, compiendo ciascuno dei due la parte che gli
è propria. Ora, una causa principale e una causa strumentale non possono dividersi
l'opera da realizzare, ma la producono entrambe interamente, l'una per mezzo
dell'altra. Dio che sceglie un uomo come strumento per fare un libro, gli fa fare tutto.
Non gli comunica né pensieri né frasi già formate ma, per mezzo di una mozione
soprannaturale, mette in esercizio ed eleva l'intelligenza, l'immaginazione e le facoltà
dell'uomo. In virtù di questa mozione l'uomo lavora, compone, redige, elabora i
pensieri e li traduce in parole. Così, il libro tutto intero ha rigorosamente l'uomo per
autore e ne reca l'impronta personale, e tuttavia Dio non ne è, in primo luogo e
principalmente, meno autore rispetto all'uomo. Allo stesso modo, le idee e le parole
sono egualmente ispirate: le idee non lo sono più delle parole né le parole meno delle
idee.
25
L'INERRANZA
L' inerranza è una qualità grazie alla quale la Sacra Scrittura è esente da errori.
§ 7 - Dati magisteriali
«Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da
ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri
della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio,
per la nostra salvezza (nostrae salutis causā),volle fosse consegnata nelle sacre
Scritture».
§ 8 - Il problema
§ 9 - Precisazioni
In passato, dato il carattere sacro del libro, si riteneva che ogni asserzione biblica
fosse esente da errore, comprese le affermazioni di tipo scientifico (che sono, sì,
contenute materialmente nella Bibbia, ma non sono formalmente insegnate), le quali
rispecchiano il grado di cultura delle diverse epoche. Quando, ad es., Giosuè impone
al sole di fermare il suo corso (Gs 10, 12-13), mostra di condividere la cosmologia
del suo tempo, che immaginava la terra ferma al centro dell'universo e il sole che le
ruotava intorno, né avrebbe potuto fare altrimenti, magari proclamando: «Fermati, o
terra!». C'è un errore scientifico nel passo biblico in questione? Sì, ma si tratta di un
errore solo materiale, nel senso che esso è, sì, presente nel testo, ma non vi è
insegnato come verità. In altre parole, non è detto essere insegnamento veniente da
Dio il dover ritenere che il sole giri e la terra sia ferma al centro dell'universo,
secondo la vecchia teoria tolemaica: questo sarebbe stato un errore vero e proprio, un
errore formale; nel passo citato si esprime, invece, solo una concezione del cosmo
26
propria di quel tempo. Peraltro, tutti gli errori scientifici della Bibbia si spiegano con
il fatto che essa è un testo che parla a uomini concreti e in epoche precise. Essa
dunque non è l'enciclopedia dei diversi saperi, né, tantomeno, si propone di rettificare
le errate cognizioni scientifiche delle diverse culture all'interno della quali vennero
alla luce i libri che la compongono.
Questa concezione fu messa seriamente in crisi dal progresso delle scienze e, in modo
eclatante, dal "caso Galilei", vale a dire dal processo con relativa condanna che lo
scienziato Galileo Galilei subì a Roma nel 1633 a motivo della sua teoria eliocentrica,
che contrastava con la vecchia dottrina geocentrica, fatta propria dalla Chiesa, e che
si basava, a livello biblico, su un passo del libro di Giosuè (10, 12-13): «Fermati,
sole, su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon! Si fermò il sole e la luna rimase
immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici».
Ma se molte affermazioni scientifiche contenute nella Bibbia sono in
disaccordo con la scienza moderna, altre ve ne sono, nell'AT, in stridente contrasto
addirittura con l'insegnamento di Gesù, il che è ancor più sconcertante: basti pensare,
ad es., al ḥerem, ossia il voto di sterminare un popolo o un gruppo nemico (cfr Dt 20,
10-20; Gs 11, 14-15) o alle espressioni contenute in alcuni Salmi, come il 109 (108) o
il 137 (136), 8-9, animate da un feroce spirito di vendetta. Queste, e altre consimili
espressioni, vanno valutate non (anacronisticamente) secondo il nostro modo di
pensare ma, piuttosto, vanno inquadrate nell'orizzonte della cultura semitica antica e
nella sua ancor primitiva morale, ricordando che l'ethos (dei singoli e del popolo) è
una realtà in evoluzione, e dunque una realtà nella quale si registra un affinamento
che troverà il suo vertice nella morale evangelica proposta da Gesù Cristo. Per
intendere rettamente le espressioni bibliche che spiacciono alla nostra sensibilità va
ricordato, inoltre, che per l'uomo dell'AT il nemico di Dio era anche il suo nemico
personale, e viceversa, donde la virulenza delle sue affermazioni. E ancora: poiché la
nozione di una vita oltre la morte, con la conseguente retribuzione dei buoni e dei
malvagi, era ancora dottrina oscura e incerta, si riteneva che l'ambito in cui Dio
manifestava la sua giustizia fosse ristretto, necessariamente, alla vita presente, che
diventava, quindi, lo scenario della giustizia divina.
Il testo di Dei Verbum 11, senza entrare nei particolari, sottolinea che la Bibbia
contiene e insegna con certezza, fedelmente e senza errore, le verità salvifiche, ossia
quelle verità che conducono alla salvezza (ad es., la fede in Gesù Cristo figlio di
Dio). Se possono essere presenti errori di tipo scientifico, cosmologico, o anche
paradigmi morali passibili di successivi sviluppi (dalla morale imperfetta dell'AT a
quella perfetta del NT) e se, per la presenza di questi elementi, si può parlare di
Bibbia come di un libro che riflette la cultura del suo tempo (del tempo, cioè, in cui
fu pubblicato ogni singolo testo), non è consentito qualificare egualmente come
"provvisoria" o riformabile l'antropologia presentata nel libro della Genesi, o
la morale del Nuovo Testamento. Esse, infatti, godono di perenne validità
esemplare, una validità che è stata unanimemente e ininterrottamente riconosciuta
dalla Chiesa.
27
1) Lingue dell'AT
a) dalla LXX, in cui si notano divergenze, talora macroscopiche, col testo masoretico
(per il libro del profeta Geremia il testo della LXX è di circa un ottavo più breve del
testo masoretico);
b) dal cosiddetto Pentateuco samaritano (ca. V sec. a. C.), che pure presenta evidenti
divergenze col testo masoretico (trasposizioni, aggiunte, cambiamenti di parole,
differenze ortografiche);
c) dal confronto dei passi paralleli all'interno del testo masoretico, la cui
comparazione mostra evidenti varianti (come sostituzioni di sinonimi ai vocaboli del
testo primitivo, compendi, brevi aggiunte, trasposizioni) nella trasmissione di passi
che dovevano essere originariamente identici, essendo la trascrizione di un medesimo
documento;
d) dai manoscritti di Qumran (nei quali sono rappresentati tutti i libri biblici, tranne il
libro di Ester), alcuni dei quali (non molti) presentano una forma testuale più vicina
alla LXX, o al Pentateuco samaritano.
Il confronto del testo masoretico con altri documenti rivela, per questo periodo,
un gran numero di varianti introdottesi nel testo, specialmente in 1-2 Sam, Pr, Ez, le
quali, benché in molti luoghi ne modifichino il senso, non toccano mai la sostanza.
grandi codici (del Cairo [IX sec.], di Aleppo [X sec.] e di Leningrado [1008]). Tra gli
altri sistemi antichi, soppiantati successivamente dal tiberiense, vanno segnalati
quello «babilonese» (nato e diffuso nelle comunità orientali e sopravvissuto nello
Yemen per molto tempo) e quello «palestinese», che riflette probabilmente la
tradizione di lettura delle comunità a sud della Palestina.
31
4) Codici ed edizioni
La maggior parte dei codici ebraici è stata scritta dal sec. XIV in poi. Si
conservano circa 50 manoscritti del XIII sec., 8 del XII sec., e soltanto pochissimi dei
secoli IX-XI. Tra essi figurano il codice dei Profeti del Cairo (anno 895) scritto da
Mosè ben Asher; il codice di Aleppo (2a metà del X sec.); il codice dei profeti di
Leningrado (anno 916) con vocalizzazione sopralineare (di tipo babilonese); il codice
di Leningrado B 19a (anno 1008). A tutti questi codici vanno aggiunti i numerosi
frammenti di codici trovati nel corso del XIX secolo nella genizah (ossia nel
ripostiglio dei codici fuori uso) della sinagoga del Cairo, risalenti fino al sec. VII.
Grazie a questi ritrovamenti è stato possibile studiare meglio i diversi sistemi di
vocalizzazione in uso nei manoscritti ebraici, fino al prevalere, intorno al sec. XI,
della vocalizzazione tiberiense, che è quella ancora in uso. Le grotte di Qumran
hanno fornito manoscritti risalenti ai secoli III a. C. - I d. C. che hanno confermato le
già acquisite conclusioni della critica testuale circa la sostanziale bontà del testo
masoretico.
A testimonianza del prestigio goduto dal sistema di lettura tiberiense, già nel
XVI sec. Ya'aqov ben Ḥayyim aveva cercato di riprodurre un testo che gli si
avvicinasse il più possibile, prendendo a fondamento della sua edizione (la cosiddetta
seconda Biblia rabbinica edita da Daniel Bomberg, Venezia 1524-1525) manoscritti
spagnoli o sefarditi, nei quali tale tradizione è ben confermata. Nelle edizioni
precedenti, invece, gli editori si basarono su manoscritti di origine franco-tedesca (o
ashkenaziti), con una masora meno accurata rispetto a quella dei manoscritti
spagnoli.
Mentre per il NT esistono svariate edizioni critiche, per l'AT viene riprodotto,
nelle edizioni a stampa, un solo manoscritto (denominato genericamente codex
optimus, ossia quello che riporta le lezioni giuste nel maggior numero di casi di
varianti), con l'eventuale aggiunta a piè pagina di un apparato che registra le varianti
tratte da altri manoscritti e dalle versioni antiche, nonché le varie congetture proposte
dai filologi per sanare i passi evidentemente corrotti. Si tratta, perciò, di edizioni
"storiche", più che critiche. Riproduce il Codice di Leningrado B 19 a la Biblia
Hebraica Stuttgartensia [BHS], diretta da K. Elliger e W. Rudolph (Stoccarda 1977),
l'edizione più in uso in ambiente accademico; alla base della edizione (in corso di
pubblicazione) della Hebrew University di Gerusalemme è invece il Codice di
Aleppo; per la sola sezione profetica, riproduce il Codice dei Profeti del Cairo (da
Giosuè a Zaccaria) il testo curato da E. Fernandez Tejero nell'ambito della Biblia
Poliglota Matritense (I-VII, Madrid 1979-1980).
Il testo masoretico, fissato con cura dai dottori ebrei sulla base di una
tradizione veneranda è, certamente, vicinissimo alla forma in cui veniva letto nei
secoli immediatamente prima di Cristo, come pure al tempo di Cristo e degli apostoli.
32
Gli studiosi fanno risalire alla metà del III sec. a. C. l'inizio di questo
eterogeneo "corpus" di traduzioni, collocandone la fine intorno al 100 a. C., sulla
scorta del prologo del Siracide, in cui il traduttore parla dell'esistenza (in Egitto) di
una traduzione in greco della «legge», dei «profeti» e del «resto dei libri», dopo aver
affermato di essersi recato in Egitto l'anno trentottesimo di Tolomeo II Evergete, vale
a dire nel 132, e di essersi accinto alla traduzione del libro scritto da suo nonno non
subito.
Essendosi protratto per tanto tempo, il lavoro di traduzione della LXX è,
evidentemente, opera di diversi individui, distinti tra loro per cultura e abilità
letteraria. Per questa ragione, non tutti i libri hanno eguale valore critico e letterario.
Il Pentateuco, ad esempio, è il meglio riuscito per fedeltà al testo, come pure i libri
storici. Oscura, invece, perché troppo servile, risulta la traduzione dei Salmi, del
Qoelet, del Cantico dei Cantici e dei profeti (nella LXX il libro del profeta Geremia
ha 2700 parole in meno del testo masoretico, oltre ad avere una differente
disposizione della narrazione). Arbitraria e oscura è la traduzione di Giobbe (che
risulta di 1/6 più breve dell'originale ebraico, 389 stichi in meno, a differenza del
libro di Ester che risulta notevolmente più ampio) e dei Proverbi.
Nella LXX, oltre ai deuterocanonici dell'AT (non presenti nel canone
palestinese «breve») figurano altri testi, non entrati nel canone cattolico, ossia: Primo
libro di Esdra, Terzo e Quarto libro dei Maccabei, Salmo 151, Odi (con la cosiddetta
Preghiera di Manasse), Salmi di Salomone.
Vi sono moltissime differenze tra il testo masoretico e quello della LXX,
sull'origine delle quali non sempre c'è accordo tra gli studiosi. Generalmente, si
ritiene che quando la LXX diverge dal testo masoretico, stia traducendo o un testo
pre-masoretico, spesso attestato dai manoscritti di Qumran, o (come accade per
moltissimi casi) stia traducendo dal cosiddetto Pentateuco Samaritano. Altre volte le
differenze vanno imputate a differenze di interpretazione, ad ambiguità presenti nel
testo ebraico, ad alterazioni volontarie di stile o di senso o ad errori involontari dei
copisti, come accade, del resto, nella tradizione manoscritta di qualunque testo
letterario antico.
La Bibbia della LXX è stata a lungo il testo ufficiale degli ebrei ellenisti (vale a
dire parlanti greco) ed è stata utilizzata dagli autori sacri del NT per le citazioni
dell'AT (su circa 350 citazioni, ben 300 sono prese dalla LXX), influenzandone talora
anche lo stile (i cosiddetti «septuagintismi» del NT). La chiesa cristiana, nei primi
secoli, considerò la LXX come suo testo ufficiale per l'AT, con l'eccezione del libro
di Daniele, per il cui testo fu scelta la recensione di Teodozione.
A motivo delle singolarissime caratteristiche di questa bibbia ellenistica, dalla
quale il NT ha desunto gran parte delle sue citazioni dell'Antico, anche laddove il
testo si differenzia da quello ebraico, è stato posto il problema della sua ispirazione.
Per alcuni autori, si potrebbe parlare, per la LXX, di una ispirazione "mediata",
essendo per i cristiani Sacra Scrittura l'intero Nuovo Testamento che, in un certo
senso, veicola il testo della LXX e lo fa ricadere sotto il dogma dell'ispirazione. Si
può anche parlare, però, di una ispirazione di tipo analogico, poiché «come esiste
un'ispirazione per i profeti orali, per le guide d'Israele (Mosè, Giosuè, Davide), per i
34
sapienti le cui riflessioni sono state poi raccolte da redattori, essi pure ispirati, così si
può pensare a un'ispirazione divina specifica per i traduttori dei LXX che offrirono
l'Antico Testamento destinato a entrare nel Nuovo Testamento e ad essere lampada
per i passi nel cammino della Chiesa» (G. Ravasi).
Le Esaple menzionano altre tre versioni greche: Quinta, Sesta, Settima delle quali
non si sa se si trattasse di traduzioni o revisioni e se fossero continue o meno. Per i
Salmi vi erano due colonne in più (Octapla) che riportavano la Quinta e la Sesta
versione.
36
La prima edizione del testo della LXX apparve nella Biblia Polyglotta
Complutensis (Alcalà de Henares, in Spagna, dal 1514), cui seguirono la "Aldina"
(Venezia 1518) e la "Sistina" (Roma 1587) la quale propone già un testo critico e un
apparato con varianti dei manoscritti e delle altre versioni greche e latine. Tra il 1797
e il 1827 apparve il Vetus Testamentum Graecum cum variis lectionibus (in 5
volumi), pubblicato a Oxford a cura di R. Holmes e J. Parson. Tra il 1887 e il 1894 fu
pubblicato a Cambridge The Old Testament in Greek according to Septuagint (in 3
volumi), curato da H. B. Swete (editio minor di Cambridge) riproducente il testo del
Codex Vaticanus (B) con le varianti di manoscritti maiuscoli e minuscoli. L'edizione
più diffusa attualmente è quella curata da A. Rahlfs (Septuaginta, id est Vetus
Testamentum Graece iuxta LXX interpretes, Stuttgart 1935, con altre successive
edizioni; la 2a ediz. apparsa nel 2006 è stata curata da B. Hanhart), un'edizione
manuale non molto utile per la critica testuale, per la scelta limitata di testimoni del
testo che offre. Le edizioni di Swete e Rahlfs sono le uniche complete del testo di
tutti i libri. Tra il 1906 e il 1940 sono stati pubblicati 9 volumi della cosiddetta editio
maior di Cambridge, curata da A. E. Brooke - N. McLean - H. St.J. Thackeray (The
Old Testament in Greek according to Text of Codex Vaticanus [...]). La collezione è
interrotta definitivamente.
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6) I Targumim
Il materiale scrittorio dei manoscritti del NT è costituito o dal papiro (in greco
pàpyros, in latino charta), fabbricato col midollo del Cyperus papyrus, una pianta
acquatica, o dalla pergamena (pērgamenḕ/membrana), prodotta dalle pelli dei
bovini, delle pecore e delle capre, raschiate per asportarne il pelo, conciate e ridotte in
fogli, usata a partire dal I sec. d. C.
14
Esempi in Ez 2, 10 e Ap 5, 1.
15
Il quaternione, come dice la parola, è un fascicolo di quattro fogli.
39
b) Sia sul papiro che sulla pergamena si scriveva con una canna chiamata
calamus (in greco kàlamos), tagliata ed appuntita con un temperino. Dal VI sec. d. C.
si usarono penne di oca, anche se nel medioevo i termini calamus e penna si
confondono volentieri. L'inchiostro (mèlasma/atramentum) era prodotto con
ingredienti vegetali e si cancellava con una spugna bagnata. Si usavano fuliggine
delle lampade, fondi di vino e neri di seppia, mescolate con sostanze gommose
vegetali diluite con acqua. Ci sono anche inchiostri a base metallica, dal III sec. d. C.
d) La scrittura utilizzata nell'antichità, tanto per i codici latini quanto per quelli
greci, era la cosiddetta «onciale», così chiamata perché in origine era forse di grandi
dimensioni (oncia = 2 cm e mezzo). Si scriveva senza divisione di parole, senza
spiriti e senza accenti (scriptio continua), sicché un testo come At 1, 1a, risultava
scritto così: ΤΟΝΜΕΝΠΡΩΤΟΝΛΟΓΟΝΕΠΟΙΗΣΑΜΕΝΠΕΡΙΠΑΝΤΩΝ (Ton men
prōton logon epoiēs mēn perì p ntōn): ovviamente la lettura era più difficoltosa della
nostra e potevano anche ingenerarsi dubbi circa l'esatta divisione delle parole, come
per Mc 10, 40 (ΑΛΛΟΙΣ), in cui alcuni codici recano la lezione all'òîs e altri àllois.
A complicare la consultazione dei testi antichi si aggiungevano la mancanza dei titoli
nei capitoli e la mancanza degli indici.
16
La scrittura poteva essere cancellata anche lavando la pergamena con latte.
40
g) Generalmente, alla fine dei manoscritti del NT c'è, come in quelli dell'AT, il
colofone, che conteneva notizie sulla data della copiatura, sui committenti, o altro
ancora. Più ricchi di notizie sono i colofoni dei manoscritti ebraici.
Il NT ci è giunto in lingua greca. Gli autografi dei vari libri del NT, che non
possediamo più, furono riportati da varie copie (apografi), dal confronto delle quali il
filologo (chiamato, tecnicamente, editore) cerca di ricostruire, con l'ausilio della
critica testuale, lo scomparso testo originale, scritto direttamente dall'agiografo
(«testo autografo») o sotto la sua diretta supervisione. Per questa ragione, riferendosi
al NT greco, non si parlerà di «testo originale», che è andato perduto, ma di «testo
in lingua originale» (lo stesso si farà in riferimento all'AT).
● I Papiri ritrovati (107 Papiri) ci hanno conservato più della metà del NT.18
Nelle edizioni critiche si siglano con una P gotica (P) seguita da un numero come
esponente: P1, P52, ecc. 19 Quasi tutti provengono dall'Egitto, il cui clima asciutto ne
ha favorito la conservazione. Tra i papiri neotestamentari ricordiamo:
il P52 (P. Ryl. 457) conservato alla John Rylands Library di Manchester. Fu
acquistato in Egitto nel 1920 da Bernard P. Grenfell. È, con molta probabilità, il più
17
Edward Maunde Thompson notava modificazioni di alcune lettere verso il carattere minuscolo già in manoscritti del
sec. VI.
18
Le principali collezioni di papiri del NT sono: la collezione Bodmer (Cologny, presso Ginevra), la collezione Chester
Beatty (Dublino), la collezione Rylands (Manchester).
19
La attuale modalità di classificazione dei Papiri, così come quella degli altri testimoni diretti del NT, è dovuta a
Caspar René Gregory (1846-1917).
41
antico testimone del testo del NT, essendo stato scritto tra il 100 e il 15020. Il
frammento, che appartiene chiaramente a un codice, contiene sul recto Gv 18, 31-33,
e sul verso Gv 18, 37-38. Testimonia che nella prima metà del II sec. il vangelo
secondo Giovanni era già giunto in Egitto: nessun'opera dell'antichità ha reperti
manoscritti così vicini all'originale.
Sono databili al II secolo anche P90 (Gv 19, 2-7; 18, 36-19, 1), P104 (Mt 21, 34-37)21,
P98 (Ap 1, 13-20);
il P66 «Papiro Bodmer II», di straordinario valore sia per la sua antichità (è
datato intorno al 200) che per l'ampiezza del contenuto (Gv 1, 1-6.11; 6, 35b-14.15).
Il testo ha 440 correzioni a causa di errori grossolani dovuti alla fretta. Alcuni passi
presentano delle varianti uniche e non attestate in precedenza, come ad es. Gv 7, 52
in cui la presenza dell'articolo fa sì che il testo si legga: «scruta (le Scritture) e vedrai
che il profeta non viene dalla Galilea»;
il P75 «Papiro Bodmer XIV-XV», scritto all'inizio del sec. III, contenente passi
dei vangeli di Luca e Giovanni. Presenta un testo molto simile a quello del Codex
Vaticanus e, quindi, rivoluziona tutte le teorie circa le «recensioni», ossia le
rielaborazioni totali del testo del NT, che sarebbero avvenute nel IV secolo.
I principali sono:
il CODEX SINAITICUS ( ﬡopp. 01; IV sec.; 347 fogli, di cui 148 per il NT):
scoperto in modo avventuroso da Constantin Tischendorf (1815-1874) nel monastero
di S. Caterina al Sinai tra il 1844 e il 1859, conteneva tutta la Bibbia in greco. Riporta
l'AT con lacune, e il NT intero. Contiene anche taluni scritti apocrifi. È l'unico
manoscritto del NT su quattro colonne. Presenta molte lezioni singole, specialmente
nei vangeli e nelle lettere di San Paolo. Insieme al Codex Vaticanus e al P75
rappresenta il cosiddetto «testo alessandrino». Si trova al British Museum di Londra,
eccetto 43 fogli che sono a Lipsia;
20
Fino a pochi anni fa i papirologi concordavano nel datare al 125 questo frammento. Attualmente si propende per una
data un po' più alta, che potrebbe arrivare anche al 150.
21
Sicuramente della fine II sec.
42
il CODEX ALEXANDRINUS (A opp. 02; V sec; 773 fogli, di cui 144 per il NT):
contiene l'AT e il NT, quest'ultimo con notevoli lacune. Contiene anche la I e la II
lettera di Clemente (fino a 12, 4). È scritto su due colonne. La qualità del testo è
altissima per l'Ap; alta per il resto del NT (tranne i vangeli); scadente per i vangeli. Si
trova al British Museum di Londra;
il CODEX EPHRAEMI SYRI RESCRIPTUS (C opp. 04; V sec.; 145 fogli per il
NT): conteneva tutta la Bibbia, ma oggi ha ampie lacune, specialmente nell'AT. È un
palinsesto, perché nel sec. XII fu lavato e riutilizzato per scrivervi 38 trattati di Efrem
Siro in traduzione greca. Fu decifrato nel 1834 da F. F. Fleck e nel 1843 dal
Tischendorf, con l'aiuto di un reagente chimico (idrocianuro di ferro e di potassio,
chiamato anche liquido del Giobert o tintura giobertina22). Si conserva nella
Biblioteca Nazionale di Parigi.
22
Fu scoperta nel 1820 dal chimico Giovanni Antonio Giobert.
43
La somma dei testimoni diretti del NT greco (al 1982) è di oltre 5000
manoscritti, ma si tratta di una cifra meramente convenzionale, perché include anche
frammenti che, in realtà, fanno parte di un unico manoscritto smembrato.
§ 14 - Antiche versioni
1) La Vetus latina
testi della Vetus latina si collocano su livelli linguistici tra loro sensibilmente diversi:
nella maggior parte dei casi essi sono a un livello medio-basso; alcuni, pochi,
presentano una qualità linguistica più alta, quasi sofisticata; altri ancora contengono
un intreccio di livelli linguistici variabili in maniera imprevedibile e non giustificata.
La Vetus latina attua una importantissima sperimentazione linguistico-letteraria e
culturale: infatti, volendo tradurre le pagine della Bibbia da altre lingue in latino, gli
autori hanno dovuto scegliere dei termini che prima erano stati utilizzati per altri
scopi e significati, oppure ne hanno creato di inediti; ripetutamente hanno adottato
delle formule e delle espressioni preesistenti, già usate in contesti di altro genere,
oppure ne hanno forgiato di nuove, creando, a pieno titolo, il «latino cristiano»
Attualmente, non è stata ancora approntata un'edizione critica completa della Vetus
latina. L'unica edizione della Vetus latina che comprenda tutto l'AT è quella di P.
Sabatier (3 volumi: 1743-1749, 1751) di cui è in atto una revisione completa da parte
dei Benedettini di Beuron (Germania).
2) La Vulgata
È chiamata così la versione latina della Bibbia curata da Girolamo (ca. 348-
420) a cominciare dal 382, su incarico di papa Damaso, di cui era segretario, e
abitualmente in uso nella chiesa latina. Il termine significa «(edizione) divulgata» e fu
usato per indicare tale versione solo a partire dal XVI secolo; prima, infatti designava
sia la LXX che la Vetus latina in quanto testi «divulgati», ossia diffusi. Il Concilio di
Trento, nel 1546, parlò di «antiqua et vulgata editio» nel senso odierno di Vulgata, la
quale non è un ordinato e stilisticamente omogeneo "corpus" di traduzioni, perché
non tutti i libri della Bibbia, che sono entrati nella Vulgata, furono tradotti in
latino da Girolamo.
a) traduzioni oscure o prive di senso a causa del testo in lingua originale non
sempre criticamente attendibile, o a causa di guasti al testo adoperato per la
traduzione;
b) brevi aggiunte esplicative;
47
3) Altre versioni
Cesariense (P45, W [032] in Mc 5, 31-16, 20, f1-13, 28, e in molti lezionari greci); tipo
testuale Cesariense (Θ [038], 500, 700, Origene [nelle sue ultime opere]), Eusebio,
Cirillo di Gerusalemme, antiche versioni armena e georgiana);
c) tipo testuale Alessandrino (detto anche "neutrale" o "egiziano"): è frutto
di una accurata opera filologica nella tradizione di studi alessandrina, ed è perciò il
tipo testuale più vicino al testo originale, in quanto si basa su un archetipo (attestato
da P66 e P75) che può essere posto cronologicamente agli inizi del II sec. Spesso si
serve di un vocabolario poco elegante (vi si notano spesso forme verbali e desinenze
diverse da quelle del greco classico); quasi sempre salva accuratamente le
caratteristiche di ogni singolo scrittore sacro, senza concordare tra loro i passi
paralleli; non aggiunge glosse al testo sacro, anzi talvolta omette una parola o,
addirittura, un breve passo (così in Mt 1, 25 omette l'appellativo «suo primogenito»
che appare in D, C, Θ ecc. In Gv 3, 13 omette «che è nel cielo», contro la maggior
parte degli altri codici, ecc.). I due testimoni principali di questo tipo testuale sono i
maiuscoli [ ﬡ01] e B [03], entrambi del IV sec., ai quali vanno aggiunti parecchi
papiri, l1596, Origene, Atanasio. Un testo del tipo Alessandrino sta alla base della
Vulgata e della versione bohàirica.
1) ERRORI DI OMISSIONE
23
Più raramente: lipografia.
53
trascrivendone solo la seconda parte: «e fu dato ad essa potere su ogni tribù e popolo
e lingua e nazione».
a) aggiunta semplice: in Gv 17, 1 doxasòn sou ton yiòn hina ho yiòs dox sē(i)
se («glorifica il tuo Figlio affinché il Figlio glorifichi te») alcuni manoscritti
aggiungono dopo hina (= affinché) un kài (= anche), con il seguente risultato:
«glorifica il tuo Figlio affinché anche il Figlio glorifichi te»;
b) dittografia («scrittura doppia», ossia duplicazione di un elemento): Eb 7, 1
ho synantḗsas («essendo venuto incontro») diventa, in alcuni manoscritti, hos
synantḗsas («il quale, essendo venuto incontro»), con duplicazione del sigma (s) della
parola synantḗsas;
c) falsa interpretazione di una abbreviazione: in alcuni mss. 1Tm 3, 16 Hos
ephanerṑthē en sar ì («Colui che fu manifestato nella carne») diventa, per una falsa
interpretazione del pronome relativo Hos interpretato come abbreviazione di Theòs,
Theòs ephanerṑthē en sar ì («Dio fu manifestato nella carne»);
d) influsso del contesto: in Gv 14, 11 pistèuetè moi hoti egṑ en tō(i) Patrì ai
ho Patḗr en emòi; ei de mē, di t erga aut pistèuete («Credete a me: io sono nel
Padre e il Padre è in me. Almeno credete a causa delle opere stesse») alcuni
manoscritti aggiungono moi (= a me) dopo l'ultimo pistèuete, per influsso del primo
pistèuetè moi, sicché la frase risulta: «Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in
me. Almeno credete a me a causa delle opere stesse».
Possono essere scambiate tra loro lettere simili, come avviene in 2Pt 2, 13,
dove en taîs apàtais («nei loro inganni») viene letto da alcuni manoscritti en taîs
agàpais («nei loro conviti») per la somiglianza di alcune lettere: ΑΠΑΤΑΙΣ e
ΑΓΑΠΑΙΣ. Ricordiamo che in greco, nella maiuscola si possono confondere ad
esempio: Α, Λ, Δ; Ι, Γ, Τ; Ε, Η; Θ, Ο; Μ,ΛΛ; ΤΤ, Π. Nella minuscola spesso si
confondono: β, κ, μ, ν, υ; η, κ. In latino: tum, cum, eum; tacitis, facitis; facinus,
facimus, ecc. Parimenti possono essere scambiate parole sinonime: fōnè n per kalèîn
e viceversa (cfr Gv 10, 3).
Possono essere invertite lettere (in Mc 14, 65 molti codici hanno èbalon al
posto di èlabon («prendevano»), parole (caso molto frequente: Mt 9, 35 ha, in alcuni
codici, «omnes civitates», in altri «civitates omnes»), o anche intere frasi (nella breve
parabola di Mt 21, 28-32 alcuni codici pongono prima il caso del figlio ubbidiente,
altri viceversa).
54
Così in Mt 5, 44 «Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli
che vi perseguitano», alcuni codici tramandano il testo in questa forma: «Io invece vi
dico, amate i vostri nemici, benedite quelli che vi maledicono, fate del bene a quelli
che vi odiano e pregate per quelli che vi maltrattano», aggiungendo alcune parole da
Lc 6, 27-28. Nel primo resoconto della conversione di Paolo in At 9, 5 («Egli rispose:
"Chi sei, o Signore?" E quegli: "Io sono Gesù che tu perseguiti"») alcuni codici,
attingendo da 36, 14 e 22, 10, aggiungono dopo le parole "Io sono Gesù che tu
perseguiti": «ti è duro recalcitrare contro gli sproni. E, tremebondo e stupito, disse:
"Signore, che vuoi che io faccia? E il Signore a lui ...», segue il v. 6 «ma àlzati in
piedi ecc.».
La preoccupazione armonistica ha pure l'effetto di conformare al testo della
LXX le citazioni libere che il NT fa dell'AT. Così, mentre Mt 15, 8 cita liberamente
Is 29, 13, alcuni manoscritti riportano letteralmente il testo della LXX.
Un caso speciale di preoccupazione armonistica è quello in cui lo scriba,
trovandosi davanti a due lezioni diverse dello stesso passo, per sicurezza le trascrive
entrambe: si ha così una lectio conflata («fusa insieme, composta»). In Mt 26, 15 la
maggior parte di manoscritti parlano di triàkonta argýria (trenta pezzi d'argento),
qualcuno però ha la lezione triàkonta statêras (trenta stateri), sicché alcuni
manoscritti optano per la variante composita triàkonta statêras argyrìou (trenta
stateri d'argento);
c) preoccupazioni esegetiche e dottrinali. Sono fatte allo scopo di rendere più
intelligibile un testo oscuro (talora si tratta di glosse marginali introdottesi nel testo
stesso) o di eliminare difficoltà dogmatiche che alcuni testi sembravano contenere.
Come esempio di interpolazione esplicativa può valere, in 1Cor 7, 14 «È santificato il
marito non credente (àpistos) dalla moglie», l'aggiunta «credente» tê(i) pistê(i)
riferita alla moglie, che si trova in vari codici. A scrupolo dottrinale (per evitare
l'impressione di scienza limitata in Gesù Cristo) va ascritta la soppressione in Mc 13,
32 «Quanto a quel giorno o all'ora, però, nessuno ne sa niente, neppure gli angeli del
cielo (e) neppure il Figlio, se non il Padre», delle parole "neppure il Figlio" in alcuni
codici. Un caso particolarmente inquietante è costituito dall'omissione, in qualche
papiro (P75) e in codici anche importanti, dell'invocazione di Gesù morente al Padre:
«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Come alcuni studiosi
ritengono, la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio nel 70 d. C.
avrebbero potuto costituire una dimostrazione che la preghiera di Gesù al Padre non
era stata esaudita: il Padre, infatti, non aveva perdonato ai Giudei l'uccisione del
Figlio, consentendo la fine di Gerusalemme e del Tempio: da qui la decisione di
cancellare questo versetto. È facile intuire quanto di ideologico (di perversamente,
stoltamente, empiamente ideologico) ci sia dietro questa omissione.
credibili. Numerosi sono gli esempi di aderenza pedissequa al testo, di esattezza nel
riproporre anche le lezioni più difficili e di ostinata fedeltà al testo da parte dei
copisti.
Questa constatazione vale a maggior ragione per i testi biblici, i quali a causa
del loro carattere sacro venivano ricopiati con una attenzione maggiore rispetto a
quella messa in atto per la copiatura di opere profane. Nel NT, infatti, il numero delle
varianti è enorme unicamente a causa dell'altissimo numero di testimoni pervenuti,
ma gran parte di esse non ha alcun peso contenutistico. Solo un numero limitato di
varianti ha importanza per il contenuto; tra queste, molto poche sono dovute
all'impossibilità di stabilire il testo originale con sufficiente certezza, seguendo le
regole della moderna critica testuale. Anche le correzioni dogmatiche sono facilmente
identificabili, e l'accusa di falsificazione avanzata dai Padri della Chiesa nei confronti
degli eretici risulta fondata solo per Marcione e, ma assai meno, per Taziano.
ma talora possono recare lezioni giuste: si riportano le loro varianti solo in questo
caso.
Nella raccolta delle testimonianze a favore di una variante non è di per sé
motivo sufficiente a sostenere l'autenticità di una lezione il numero anche grande di
codici che la riportano, i quali potrebbero derivare tutti da uno stesso manoscritto
veicolante una lezione corrotta. Anche l'antichità di un codice non è un argomento
decisivo in ordine alla genuinità delle sue lezioni (lectio antiquior): infatti possono
esistere codici posteriori che siano copie immediate e fedeli di un manoscritto molto
più antico (onde la regola: recentiores non deteriores), testimoniando uno stadio
antico della tradizione andato perduto. Occorre dunque tener conto non solo della
quantità e della qualità dei codici, ma anche della loro genealogia.
filologia, richiede cautela e non può essere applicata in modo automatico. Osserva,
infatti, H. Frankel: «È sempre raccomandabile, prima di prendere una decisione sulla
base del criterio della lectio difficilior, fare la controprova, chiedendosi: "Cosa è qui
veramente plausibile: che la lezione strana, poiché più difficile, s'è corrotta in quella
più facile, ovvero che la lezione strana è difficile perché è corrotta?» (Testo critico e
critica del testo, trad. ital., Firenze 1969, 37).
c) Una lezione breve è da preferirsi in generale a una lezione più lunga (lectio
brevior, lectio potior). La tendenza scribale è infatti quella di ampliare piuttosto che
di restringere, soprattutto quando trovandosi di fronte a due diverse lezioni ne
formano una nuova conflata, cioè risultante dalla somma delle due precedenti. Così le
due lezioni di Lc 24, 53 «lodando Dio» (codice D) e «benedicendo Dio» (codice B)
sono conflate in vari testimoni, che riportano: «lodando e benedicendo Dio».
Quest'ultima lezione e certamente da scartare.
Anche questa regola va seguita con criterio e non in modo automatico, perché
ci si potrebbe trovare di fronte non a una genuina lectio brevior ma ad un'omissione
dovuta a negligenza.
d) Una lezione difforme dal passo parallelo è da preferirsi a una conforme.
Ciò è conseguenza di quanto si è detto sopra sulla tendenza degli scribi alla
armonizzazione dei testi. Così, per es., in Lc 11, 2-4 il testo della preghiera viene
conformato in molti codici al «Padre nostro» di Mt 6, 9-13.
Talora può darsi che nessuna delle lezioni varianti presentate dai manoscritti
regga a un esame interno, cioè che tutte si dimostrino manifestamente erronee. Il caso
è assai raro nel NT ma può essere più frequente là dove la tradizione manoscritta è
poco numerosa o troppo uniforme, come nell'AT ebraico. Occorre allora ricorrere alla
emendatio per coniecturam, vale a dire alla divinatio. Ciò va fatto sempre con la
massima cautela e riserbo, e solo lo specialista potrà avanzare congetture seriamente
probabili.
testo di Erasmo è noto come «textus receptus», vale a dire "recepito", "accettato" da
tutti24, con una notorietà a dir poco abusiva, data la pessima qualità dell'opera.
Le edizioni successive del NT greco di Erasmo si arricchirono, è vero, di un
apparato critico più o meno vasto ma, sostanzialmente, riportavano il «textus
receptus», a cominciare dalle quattro edizioni curate dallo Stephanus (Robert
Estienne) nel 1546, 1549, 1550, 1551, seguite dalle nove edizioni curate da Théodore
de Bèze (1565-1604) e dalle tre curate da Bonaventura e Abraham Elzevier a Leida
(1624, 1633, 1641).
Il primo a discostarsi dal «textus receptus» in 210 punti fu l'inglese Edward
Wells (prima metà del '700). Chi se ne staccò completamente fu il berlinese Karl
Lachmann il quale con il suo Novum Testamentum graece (Berlino 1831) pubblicò
la prima vera edizione critica del NT greco, che tentava di riprodurre il testo greco
corrente alla fine del IV sec.
● Editio octava critica maior di COSTANTIN TISCHENDORF. Il filologo cui i
moderni critici testuali del NT sono maggiormente debitori pubblicò dal 1841, nello
spazio di circa 30 anni, otto categorie di edizioni del NT. L'ottava edizione, la famosa
Editio octava critica maior fu pubblicata in due volumi a Lipsia (1869-1872), con un
terzo volume di Prolegomena curato successivamente da Caspar René Gregory. Il
Tischendorf utilizzò 64 codici maiuscoli, un solo papiro (il P11, del VII sec.) ed ebbe
a disposizione solo una piccolissima parte dei codici minuscoli che noi oggi
possediamo, eppure ciò che egli offre allo studioso è un prodotto privo di omissioni e
degno di fede. Tutto il materiale a disposizione, infatti, viene esaminato e catalogato.
Stella polare di Tischendorf è il Codex Sinaiticus scoperto da lui e ritenuto decisivo
per la constitutio textus: ed è quanto gli è stato rimproverato. Ma bisogna ricordare
che Tischendorf non poté esaminare l'altro importantissimo testimone del testo del
NT, vale a dire il Codex Vaticanus perché l'eruditissimo cardinale Angelo Mai, che
ne voleva pubblicare un'edizione, fece di tutto per impedirgli di studiarlo. Quando poi
fu pubblicata la prima edizione in facsimile del codice, era troppo tardi perché
Tischendorf potesse mutare i criteri fondamentali della propria edizione.
● The New Testament in the Original Greek, di BROOKE F. WESTCOTT e
FENTON J. A. HORT (2 volumi, Cambridge-London 1881). Per i due studiosi inglesi la
stella polare per la constitutio textus è rappresentata dal Codex Vaticanus, nel quale
essi credettero di trovare il testo più vicino all'originale. Per i due, quando una lezione
è tramandata dal Codex Sinaiticus e dal Codex Vaticanus, deve essere senz'altro
accolta come autentica: una convinzione a dir poco affrettata, poiché almeno fino al
sec. IV il NT rappresentò una sorta di «testo vivente» che si andava sviluppando
autonomamente a seconda delle comunità, dei luoghi geografici ecc. Anziché cercare
e collazionare nuovi manoscritti, come aveva fatto Tischendorf, utilizzarono
precedenti raccolte di varianti, selezionate in base a una rigorosa metodologia critica.
Per questa ragione, il loro testo non è corredato da un apparato, ma unicamente da
una selezione di varianti in margine (alternative readings); le più problematiche sono
discusse nel II vol.
24
La locuzione «textus receptus» fu coniata dall'umanista olandese Daniel Heinsius nel 1633, e si trova nella sua
Prefazione all'edizione di Leida.
60
● Edizioni manuali:
In un'edizione critica (di qualunque testo) ogni pagina è divisa in due parti:
1) testo critico, stabilito dall'editore, vale a dire dal filologo, o critico testuale che ha
curato l'edizione critica del testo; 2) apparato critico, che riporta le lectiones variae
scartate, i manoscritti che le veicolano e i manoscritti che veicolano la lezione
accettata nel testo critico. Nelle edizioni critiche, tanto bibliche quanto di autori
profani, l'apparato critico risulta spesso di ardua consultazione, anche a causa delle
numerose abbreviature latine che possono renderlo, addirittura, ambiguo o oscuro. Va
evidenziato, perciò, l'ingegnoso sistema adottato dal Novum Testamentum Graece di
25
Trad. it.: Gli scritti del NT nella loro più antica forma testuale raggiungibile.
61
Nestle-Aland (26a edizione) che, mediante sette segni tipografici posti all'interno del
testo critico, segnala omissioni, sostituzioni, aggiunte, lacune, forme diverse in cui
una certa lezione è stata tramandata, mutamento dell'ordine delle parole, da verificare
nell'apparato critico. Dopo aver segnalato le principali lectiones variae, il Nestle-
Aland indica quali manoscritti tramandano la lezione scelta.
62
§ 18 - Premessa terminologica
26
«Canonici primi ordinis, quos Protocanonicos appellare libet, sunt indubitatae fidei libri; hoc est, de quorum
autoritate (sic) nulla umquam in Ecclesia catholica fuit dubitatio, aut controversia (...). Canonici secundi ordinis (qui
olim Ecclesiastici vocabantur, et nunc a nobis Deuterocanonici dicuntur) illi sunt, de quibus, quia non statim sub ipsis
Apostolorum temporibus, sed longe post ad notitiam totius Ecclesiae pervenerunt, inter Catholicos fuit aliquando
sententia anceps » (pp. 1-2 dell'edizione di Francoforte del 1575).
63
1 Esdra (il cosiddetto Esdra greco) e III Maccabei sono considerati canonici
dalla Chiesa ortodossa ma non dalle Chiese cattolica e protestante.
Giuditta, Tobia, 1 e 2 Maccabei, Sapienza di Salomone, Sapienza di Sirach,
Baruc e Lettera di Geremia sono inclusi nel canone cattolico e in quello ortodosso,
ma non nel canone protestante.
IV Maccabei, Odi e Salmi di Salomone non sono inclusi in alcun canone.
§ 21 - Il magistero ecclesiastico
Dagli Atti del Concilio si evince che con la parola «parte» i Padri volevano
intendere in modo particolare tre brani evangelici: Mc 16, 9-20 (la finale lunga, detta
"finale canonica", perché inclusa nel canone); Lc 22, 43-44 (il sudore di sangue); Gv
7, 53-8, 11 (la pericope dell'adultera), la cui genuinità era stata messa in dubbio da
Erasmo da Rotterdam, il quale sosteneva che essi non erano stati scritti dagli autori ai
quali si attribuivano (rispettivamente: Marco, Luca, Giovanni). Oltre a questa
considerazione (che, comunque, non distingue la genuinità di un testo dalla sua
ispirazione), va rilevato che i tre brani mancano, effettivamente, in codici importanti,
quindi risultano male attestati. E tuttavia la Chiesa, accettandoli, ne ha sancito, se non
la genuinità (che è argomento di critica letteraria, in primo luogo), almeno la
canonicità e, conseguentemente, l'ispirazione. La dizione «parti», comunque, va
assunta in senso ancora più ampio, intendendo anche le sezioni greche dei
protocanonici Daniele ed Ester. La precisazione del Concilio di Trento sulle «parti»
verrà ripresa alla lettera dai Concili Vaticano I e Vaticano II.
Prima del Concilio di Trento un solo Concilio ecumenico fornisce il canone dei
libri ispirati, benché non nella forma di definizione ma di solenne enunciazione, ed è
il Concilio di Firenze (Bolla Cantate Domino, del 4 Febbraio 1442: DS 1335).
Altre dichiarazioni sul canone furono emanate da Concili particolari o
provinciali: Ippona (393), III di Cartagine (397), IV di Cartagine (419), Trullano II o
Quinisesto (692). Papa Innocenzo I nel 405 nella lettera Consulenti tibi al vescovo
Esuperio di Tolosa (PL 20, 501) riferisce un canone identico a quello che sarà
definito a Trento; anche il cosiddetto Decreto Gelasiano (ca. 492-496) assume il
canone lungo. Da tutti i documenti riportati si ricava che il magistero ecclesiastico ha
sempre tenuto il medesimo Canone, comprendente tutti i libri protocanonici e
deuterocanonici.
1) La Tôrāh
2) I Profeti
Il canone ebraico include nella sezione dei Profeti anche libri che nel canone
greco stanno tra i libri storici: Giosuè, Giudici, Samuele, Re, Isaia, Geremia,
Ezechiele e i dodici Profeti minori. Tutta questa sezione era già compiuta verso la
fine del II sec. a. C., epoca in cui fu composto il libro del Siracide. Infatti Sir 46-49
rievoca i principali personaggi ed episodi della storia ebraica proprio secondo l'ordine
degli scritti di questa seconda collezione. Il nipote di Gesù ben Sirach, che traduce in
greco l'opera del nonno (verso il 132 a. C.), afferma nel Prologo: «la stessa Legge, i
Profeti e il resto dei libri nel testo originale conservano un vantaggio non piccolo».
Egli perciò attesta nel II sec. a. C. l'esistenza di una seconda raccolta di scritti, diversa
dalla Tôrāh, denominata "Profeti". Non sappiamo quando sia cominciata questa
seconda raccolta; sappiamo però che essa fu considerata ispirata e canonica dagli
Ebrei.
3) Gli Scritti
La terza parte del canone ebraico delle Scritture comprende: Salmi, Proverbi,
Giobbe, Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Qoelet, Ester (fino a 10, 3), Daniele
(eccettuate le sezioni greche), Esdra, Neemia, Cronache. Nell'VIII sec. a. C. il re
Ezechia curò la raccolta di quei proverbi salomonici che formano i capitoli 25-29 del
libro dei Proverbi, come infatti si legge in Pr 25, 1 («Anche questi sono proverbi di
Salomone, trascritti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda»), il che suppone anche una
raccolta precedente di proverbi. Il traduttore del libro del Siracide, nel Prologo,
distingue, benché in modo vago, una terza sezione di libri, quando ricorda che suo
nonno si era dedicato lungamente «alla lettura della Legge, dei Profeti e degli altri
libri dei nostri padri». Come i Proverbi, anche i Salmi dovettero formare ben presto
raccolte parziali, specialmente per l'uso liturgico. Non si sa con esattezza quando
siano stati inseriti nella terza raccolta gli altri scritti protocanonici: comunque,
allorché fu terminata la traduzione della LXX (I sec. a. C.), già dovevano esservi,
giacché la traduzione li riporta tutti.
È importante indagare perché nel canone ebraico delle Scritture non figurino
gli scritti deuterocanonici che, pure, erano ritenuti sacri nella fiorentissima colonia
giudaica di Alessandria fin dal I sec. a. C., quando fu conclusa la traduzione della
LXX, che contiene tutti i deuterocanonici, anzi li inserisce tra i protocanonici senza
alcuna apparente distinzione. La Bibbia greca, la LXX, era, peraltro, ritenuta ufficiale
per tutti gli ebrei grecofoni. Tuttavia, almeno dal I sec. d. C., gli ebrei palestinesi si
rifiutarono di ammettere nel canone i deuterocanonici: lo si deduce dalle varie
trascrizioni della Bibbia ebraica, dall'apocrifo IV libro di Esdra (I-II sec. d. C.) 14, 44
e da Flavio Giuseppe (Contra Apionem 1, 8) che, seguendo la sentenza dei farisei,
elenca solo i protocanonici, in un canone di 22 libri: il Pentateuco, 13 libri profetici e
67
altri quattro libri contenenti «inni a Dio e precetti morali per gli uomini». Si è
discusso sull'identificazione dei 17 libri che compongono, insieme con il Pentateuco,
il canone di 22 libri adottato da Flavio Giuseppe. Il Gutschmid propone la seguente
lista: 4 profeti anteriori (Giosuè, Giudici con Rut, Samuele, Re); 4 profeti posteriori
(Isaia, Geremia, Ezechiele, 12 profeti minori); 5 agiografi (Giobbe, Daniele,
Cronache, Ester, Esdra); 4 lirici e morali (Salmi, Proverbi, Qoelet, Cantico dei
Cantici). Tra i testi di Qumran, tuttavia, ci sono le prove che anche gli ebrei
palestinesi si siano serviti di Tobia e del Siracide. Ma li hanno ritenuti sacri? La cosa
è probabile tanto per i due libri citati quanto per tutti gli altri deuterocanonici,
altrimenti non si spiega come mai gli ebrei di Alessandria, dipendenti totalmente da
quelli di Gerusalemme e con loro in continuo contatto, equiparassero i
deuterocanonici ai protocanonici. Evidentemente, anche i palestinesi facevano così.
Furono quindi questi ultimi ad abbreviare il canone, escludendone i libri
deuterocanonici. Vari motivi spiegano perché gli ebrei abbiano ridotto il canone:
anzitutto l'assenza dopo il tempo di Esdra (sec. V a. C.) di un "profeta" che
assicurasse il carattere divino degli scritti più recenti, la cui scrizione o traduzione
greca va dal IV al I sec. a. C.; lo afferma chiaramente Giuseppe Flavio (Contra
Apionem 1, 8) il quale, dopo aver enumerato tutti gli scritti canonici, aggiunge: «Da
Artaserse (sec. V) fino a noi, tutto fu scritto, però questi libri non hanno presso di noi
la stessa autorità che i precedenti, perché non vi fu una sicura successione di profeti».
Inoltre, vi erano alcuni pregiudizi dei farisei (come risulta dalla letteratura rabbinica),
per i quali uno scritto non era sacro se non era in lingua ebraica o aramaica e
composto sul suolo palestinese, l'unico considerato degno della divina rivelazione. E
infine, la LXX era diventata un po' la «Bibbia dei cristiani», i quali volentieri se ne
servivano per il marcato valore messianico di certe sue lezioni. I sette libri
deuterocanonici, dunque, per almeno uno di questi criteri, non furono inseriti nel
canone.
1) Epoca apostolica
mai presentata la necessità di citarli. D'altra parte, nel NT mancano citazioni esplicite
anche di libri protocanonici come Rut, Esdra, Neemia, Ester, Cantico dei Cantici,
Qoelet, Abdia, Naum, senza che per questo se ne asserisca il misconoscimento da
parte degli agiografi del NT.
2) Tradizione ecclesiastica
Anche per l'epoca subapostolica, e per molto tempo dopo, il testo ufficiale della
Chiesa per quanto riguarda l'AT è stato quello della LXX: questa costatazione
documenta chiaramente il pensiero del magistero ordinario della Chiesa circa il
canone dell'AT, assunto sempre nella forma greca e mai in quella ridotta
palestinese. Una ulteriore conferma a favore del canone completo ci è offerta
dall'iconografia, specialmente quella presente nelle catacombe, dove si trovano
numerose scene che rappresentano alcuni episodi narrati nei deuterocanonici dell'AT,
frammiste a scene narrate in libri protocanonici. Specialmente frequenti sono le
rappresentazioni dei tre fanciulli nella fornace, con le braccia alzate in preghiera e di
Daniele nella fossa dei leoni con il profeta Abacuc che gli porta da mangiare, basate
su due sezioni «greche» del libro di Daniele (rispettivamente, i cc. 3 e 14)
Se un Padre della Chiesa cita come «parola di Dio» un passo tratto dai libri
deuterocanonici è legittimo presumere che egli ritenesse ispirati anche gli altri
deuterocanonici dell'AT. Ecco una breve rassegna delle diverse posizioni:
Costantinopolitano (sec. IX), Ugo di San Vittore (sec. XI), Antonino di Firenze (sec.
XV), e il Gaetano (sec. XVI).
1) Età apostolica
2) Tradizione ecclesiastica
● PERIODO DEI PADRI APOSTOLICI E DEI PRIMI APOLOGISTI (fino al 175 ca.): nei
loro scritti sono citati, direttamente o in modo allusivo, tutti i libri del NT, eccettuata
la Terza lettera di Giovanni, il che è spiegabile essendo essa molto breve e di non
spiccato contenuto dottrinale. Anche per gli scritti deuterocanonici ci sono in
quest'epoca manifeste testimonianze a favore della loro ispirazione e canonicità. La
lettera agli Ebrei è attestata da Clemente, San Giustino, la Didachè, lo Ps. Barnaba,
lo Ps. Clemente, Policarpo, Taziano. La lettera di Giacomo è attestata da Clemente e
dal Pastore di Erma. La Seconda lettera di Pietro è attestata da Clemente, Ps.
Barnaba, Pastore di Erma e San Giustino. La Seconda lettera di Giovanni è attestata
da Policarpo. La lettera di Giuda è attestata, tra gli altri, dal Martirio di san
Policarpo (del 157 ca.). L' Apocalisse è attestata da Papia (ca. 125), Ireneo, Metodio,
Ippolito, San Giustino.
● PERIODO DEI DUBBI CIRCA I LIBRI DEUTEROCANONICI DEL NT (dal 175 ca. fino
al 450 ca.). I testimoni dei dubbi sono:
a) Canone Muratoriano (Roma, prima del 180: forse la più antica lista dei libri
del NT), nel quale mancano Eb, Gc, 1 e 2Pt e 3Gv. Tuttavia la Chiesa di Roma
certamente non ignorava gli scritti mancanti nel Canone Muratoriano, poiché essi
sono citati da Clemente.
b) Eusebio di Cesarea, che elenca (H. E., III, 25: PG 20, 268-272) tra i libri
discussi (amphiballòmenoi) Gc, Gd, 2Pt, 2 e 3Gv; lo stesso Eusebio è incerto se
collocare Ap tra gli homologùmenoi (accettati da tutti) o, addirittura, tra i notha (gli
spurii);
c) Canone Claromontano (sec. IV)27, nel quale manca la lettera agli Ebrei.
d) Cirillo di Gerusalemme, nel cui catalogo riferito in Catech. 4, 36 (PG 33,
500s.) manca l'Apocalisse: omissione che è una vera e propria negazione.
27
Così chiamato perché si trova nel codice omonimo, tra la lettera a Filemone e la lettera agli Ebrei. Benché il codice
risalga al VI sec., il canone è datato al IV sec.
72
Nella medesima epoca dei dubbi circa la canonicità dei deuterocanonici del NT
vanno, però, segnalati molti scrittori e molti documenti notevoli che testimoniano
(con piccole sfumature) la canonicità di tutto intero il NT. I principali sono: Clemente
Alessandrino, Tertulliano, Origene, Atanasio, papa Damaso, Gregorio Nazianzeno,
Agostino, Epifanio, papa Innocenzo I, Girolamo. Essi rappresentano tutta la Chiesa,
dall'Oriente all'Occidente. Tra i documenti importanti di quest'epoca vanno citati i più
antichi codici greci della Bibbia, tanto papiracei quanto pergamenacei, i quali hanno
tutto il NT, compresi i deuterocanonici (la peggiore attestazione papiracea è riservata
a 2-3Gv). Tra i pronunciamenti degni di rilevo va segnalato, per questo periodo, il
can. 36 del Sinodo di Ippona (393) e il can. 47 del III Sinodo di Cartagine (397).
● PERIODO DELL'UNANIMITÀ (dal 450 ca. in poi): dalla seconda metà del sec. V
in poi c'è unanimità assoluta circa l'estensione del canone biblico. Si discostano da
tale consenso universale, oltre i nestoriani, Giunilio Africano (VI sec.) che escludeva
dal canone cinque epistole cattoliche e l'Apocalisse; Cosma Indicopleuste (VI sec.)
che non ammetteva tutte le epistole cattoliche e l'Apocalisse; Niceforo di
Costantinopoli (IX sec.) che dubitava dell'ispirazione dell'Apocalisse. In Occidente, il
solo Gaetano (XVI sec.) mise in dubbio la canonicità di Eb, Gc, 2 e 3 Gv e Ap.
28
Fu scoperto da Th. Mommsen nel 1886. È chiamato anche "Canone africano".
73
anche dei cc. 40-66. Lo stesso vale per quegli scritti del NT che, per ragioni di critica
letteraria, risulta difficile attribuire all'autore sotto il cui nome sono stati conosciuti.
Essi infatti, pur essendo stati scritti materialmente da discepoli o da collaboratori
degli apostoli, poiché ne riportano fedelmente il pensiero, sono stati tramandati non
con il nome del reale estensore (peraltro sconosciuto) ma con il nome, comunque più
prestigioso, di un apostolo.
c) USO LITURGICO DI UN LIBRO: il fatto che i testi del NT venissero usati nella
liturgia insieme con quelli dell'AT facilitò il riconoscimento della loro canonicità.
Dalle antiche fonti patristiche e dai documenti del magistero emerge, è vero, che
anche altri libri (come la Prima lettera di Clemente, il Pastore di Erma, il
Diatessàron di Taziano) per qualche periodo vennero letti nelle assemblee liturgiche,
ma quest'uso ben presto venne vietato, consentendo ai soli libri canonici la lettura
liturgica.
Già Marcione aveva operato una macroscopica selezione nel canone biblico,
escludendone tutto l'AT e presentando un NT fortemente mutilato e privo di
qualunque aggancio all'Antico. Martin Lutero, a sua volta, aveva attribuito un ruolo
secondario a Eb, Gc, Gd e Ap, distinguendo questi scritti da quelli che egli definiva
«i veri, sicuri e più importanti libri» del NT, e operando perciò una selezione
all'interno del canone neotestamentario. Questa volontà di discernere, per così dire,
un nucleo originale, rappresentativo della genuina predicazione di Cristo e degli
apostoli si ripropose, al principio del XX secolo, all'interno del protestantesimo.
Il luterano Adolf von Harnack (1851-1930), storico del cristianesimo, intese
distinguere l'autentico «evangelo di Gesù Cristo» dalla degenerazione da lui
denominata Frükatholizismus («Proto-cattolicesimo», termine che ricorre la prima
volta nel 1908 in Ernst Troeltsch, benché in ambito sociologico), che sarebbe nata nel
II secolo, quando la Chiesa, dovendo combattere lo gnosticismo, costituì un rigido
"corpus" dogmatico ed etico, escludendo chi ad esso non si fosse adeguato. In questa
teoria non si ravvisa soltanto una precomprensione negativa nei riguardi del
cattolicesimo, ma anche un'arbitraria lettura del cristianesimo delle origini, qual è
quello che emerge dagli scritti del NT, interpretato con unilaterale accentuazione
dell'aspetto pneumatico che, pure, lo caratterizzava, ma nel quale esso, certamente,
non si esauriva.
Il Proto-cattolicesimo con cui Harnack qualificava la Chiesa del II secolo fu
rintracciato da Rudolf Bultmann (1884-1976) nelle lettere pastorali (1 e 2 Tm, Tt),
in 2Pt, nell'opera lucana (Luca/Atti) e nella redazione finale del vangelo secondo
Giovanni, nei quali sono già presenti una gerarchia ecclesiastica, i ministeri ordinati,
il sacramentalismo, nonché gli stadi iniziali del dogma e della morale. Il
convincimento di Bultmann fu ripreso dal suo discepolo Ernst Käsemann (1906-
1998), che postulò la necessità di individuare all'interno del canone un «cristianesimo
puro», vale a dire l'autentico nucleo normativo e obbligante, distinguendolo da ciò
che non lo è a causa della sua difformità col centro autoritativo del NT, costituito, per
Käsemann, dal concetto di giustificazione in virtù della fede, il cavallo di battaglia di
Lutero il quale in esso risolveva l'ampia e complessa teologia di Paolo.
Altri teologi (Kümmel, Braun, Marxen, Harbsmeier, Vielhauer) hanno, di volta
in volta, individuato il «centro» genuino della Scrittura, e dunque, della tradizione
apostolica, in altri libri o sezioni del NT.
Qualificare queste teorie (fortemente criticate, e non solo in ambito cattolico)
come forme rinascenti di marcionismo, è più che legittimo. L'ingenuo quanto
arbitrario tentativo di stabilire un "cuore" all'interno del canone, ha avuto, infatti, il
suo unico fautore nell'eretico Marcione, e non ha mai costituito argomento di
ortodossa e condivisa speculazione teologica. Inoltre, la Chiesa vagheggiata da questi
studiosi, una chiesa tutta "pneumatica" e "liberale", senza strutture o gerarchie, non
ha alcun fondamento storico, e si presenta unicamente come una proiezione di
personali e arbitrari convincimenti (un tentativo di retrodatare l'urgenza e
77
§ 28 - I libri apocrifi
momento che sono citati, talora, da alcuni Santi Padri")». I primi riformatori
tedeschi chiamarono apocrifi anche i deuterocanonici dell'AT, seguendo Girolamo
che li qualificava allo stesso modo.
Dell'esistenza di qualche produzione apocrifa parla già il NT, come nel
passo in cui Paolo dice: «Vi preghiamo, fratelli, quanto alla venuta del Signore nostro
Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, di non lasciarvi facilmente agitare nel
vostro animo e spaventare da oracoli, o da qualche lettera fatta passare per nostra»
(2Ts 2, 1-2). Per evitare eventuali falsificazioni, dunque, firma di proprio pugno la
lettera (che era stata dettata a uno scriba, secondo la prassi antica), aggiungendo:
«questo è il sigillo di tutte le lettere. Così scrivo (oùtōs gr phō)» (3, 17).
Il sospetto verso gli apocrifi cominciò verso l'epoca di Ireneo di Lione (ca. 115-
ca. 200), allorché si precisò l'opposizione dottrinale tra lo gnosticismo, che definiva i
suoi testi come apocrifi (nel senso di esoterici), e quella che si veniva costituendo
come "grande Chiesa", con la conseguente necessità di discernere quali scritti
veicolassero la genuina predicazione apostolica. Circolavano infatti diverse raccolte
di detti e fatti su Gesù, come pure numerosi scritti sotto il nome di apostoli o di loro
discepoli, e alcuni gruppi gnostici si richiamavano a tradizioni trasmesse
"segretamente" a partire da questo o quell'apostolo. Contro di loro si fece valere la
tradizione pubblica, portata dalla successione episcopale nelle diverse Chiese, e si
definì progressivamente un consenso intorno a una raccolta di libri cristiani ammessi
come autentici e ispirati. In quest'ottica, «apocrifo» divenne perciò sinonimo di falso.
Così, secondo Ireneo, gli gnostici «insinuano una massa indescrivibile di scritti
apocrifi e spurii, forgiati da loro stessi» (Adversus haereses, I, 20, 1). Atanasio di
Alessandria nella sua Lettera festale 39, del 367, bolla gli apocrifi come invenzione
di eretici, composti tardivamente e spacciati per antichi; la stessa posizione è tenuta
da Agostino e Girolamo, il quale parla di «apocryphorum deliramenta» (Comm. su
Isaia XVII, su Is 64, 4).
Esclusi, come secondari, inaffidabili e dottrinalmente ambigui, dal "corpus"
tradizionalmente ritenuto valido per la conoscenza dell'antichità cristiana (NT e
Padri), gli apocrifi cominciarono a essere raccolti in modo ordinato e studiati con
criterio scientifico solo a partire dal sec. XVIII, con pubblicazione del Codex
Apocryphus Novi Testamenti (Amburgo 1703, II ediz. ampliata 1719) di Johann
Albert Fabricius, che nel 1713 diede alle stampe anche una raccolta di apocrifi
giudaici, il Codex Pseudepigraphus Veteris Testamenti.
C'è una grande differenza qualitativa tra gli apocrifi dell'AT e quelli del NT: i
primi, infatti, trasmettono importanti filoni teologici (basti pensare a quello
apocalittico-messianico) i quali, benché non recepiti integralmente, contribuiscono
non poco all'intelligenza dei libri canonici; gli apocrifi del NT, invece, possiedono un
valore inferiore perché, o veicolano idee eterodosse (in modo particolare lo
gnosticismo), o sono composizioni ingenue, favolose e gratuitamente miracolistiche,
che tentano di «riempire» la sobrietà e i silenzi dei libri canonici su alcuni
personaggi, come Gesù, la Vergine, o gli apostoli.
Le vicende testuali dei singoli apocrifi, spesso trasmessi in una molteplicità di
lingue e non esenti da fenomeni di ipertestualità e di contaminazione, rendono il loro
79
studio molto arduo e delicato. Ogni testo apocrifo, infatti, risulta quasi sempre
composto di più strati, come un sito archeologico. Così, un apocrifo nato in ambiente
giudaico, come, ad es., i Testamenti dei XII Patriarchi, ha potuto subire un processo,
più o meno superficiale, di cristianizzazione (lo stesso vale, con le necessarie
differenze per gli Oracoli sibillini) che non solo ne ha inevitabilmente contaminato il
nucleo fondamentale, da ricercare con un complesso lavorio di critica letteraria, ma
ha anche compromesso l'individuazione dell'ambiente che lo ha generato o a cui il
testo si indirizzava: «Est enim eorum orìgo occulta, nec patet Sanctis Patribus a
quibus edita sint » (Ugo di San Vittore, De Scripturis et scriptoribus sacris
praenotatiunculae, XI: PL 175, 18).
Vero e falso, storia e leggenda, probabile e improbabile si mescolano talora in
maniera inestricabile in ogni testo che, comunque, va sempre attentamente studiato,
perché anche la letteratura apocrifa, nonostante i suoi «limiti», costituisce un ausilio
per una sempre meno approssimativa ricomposizione della teologia di Israele e della
storia e del pensiero della prima comunità cristiana.
§ 29 - Apocrifi dell'AT
1. Apocrifi storici
● LIBRO DEI GIUBILEI o APOCALISSE DI MOSÈ (ca. II sec. a. C.): nato forse in
ambiente esseno, è una rilettura della Genesi e dei primi capitoli dell'Esodo. Il libro si
apre raccontando come Mosè, salito al Sinai per ricevervi la Legge, vi avesse
ricevuto, in realtà, una rivelazione riguardante tutta la storia, dalla creazione fino a
quel momento e, per sommi capi, anche il destino futuro di Israele. La disposizione
della storia è divisa in 49 periodi di 49 anni ciascuno (donde il nome di «Giubilei»,
che sono appunto periodi di sette settimane di anni). Lo scritto intende esaltare la
legge mosaica ed è particolarmente importante, tra l'altro, per la conoscenza del
calendario ebraico. L'autore, che attinge a materiali della tradizione sacerdotale più
intransigente, condivide l'esaltazione per la restaurazione nazionale operata dai
Maccabei ma considera il tempio ancora contaminato: questo particolare riconduce lo
scritto a un ambiente come quello essenico, che aveva rotto i ponti con il sacerdozio
gerosolimitano e con la dinastia asmonea. L'opera, scritta verosimilmente in ebraico,
ci è nota attraverso varie versioni (in greco, latino, siriaco, etiopico). Frammenti
ebraici furono scoperti a Qumran.
● III LIBRO DI ESDRA: è così denominato per distinguerlo dal libro canonico di
Esdra (primo di Esdra) e dal libro di Neemia (detto anche secondo di Esdra). Espone
le vicende del tempio di Gerusalemme da Giosia fino alla ricostruzione postesilica e
all'epoca di Esdra, quindi dal VII al V sec. a. C. Il testo è caratteristico perché si
presenta (tranne 3, 1-5, 6) come una compilazione di brani tratti da scritti canonici:
Cr, Esd, Ne. Ciò spiega perché la LXX lo riporti col titolo di Ἔσδρας α΄ (Esdras
alpha), premettendolo ai libri canonici di Esd e Ne, riuniti sotto il titolo di Ἔσδρας β΄
(Esdras beta) e perché sia stato citato come ispirato da alcuni autori antichi
80
● III LIBRO DEI MACCABEI: composto in greco nel I sec. d. C., ha questo nome
perché riferito nei codici greci dopo i due libri dei Maccabei. Parla di un fatto
miracoloso inventato: il re d'Egitto Tolomeo IV Filopàtore (221-205 a. c.), offeso per
non aver potuto visitare il tempio di Gerusalemme dopo una vittoria militare, al suo
ritorno in Egitto ordinò che gli ebrei di Alessandria, condotti in catene
nell'ippodromo, fossero uccisi da 500 elefanti drogati, i quali, per intervento di due
angeli, non riuscirono a colpirne nessuno, facendo recedere, così, il re dal suo
proposito.
2. Apocrifi profetici
3. Apocrifi didattici
questi inni si trovano nella Pistis Sophia (vangelo gnostico in lingua copta, risalente
alla metà del II sec. ca.). Non vanno confuse con le Odi, raccolta di 14 inni contenuta
nella LXX, e considerata canonica dalla Chiesa ortodossa.
§ 30 - Apocrifi del NT
1) Vangeli apocrifi
● VANGELO SECONDO GLI EBREI: è il più antico vangelo apocrifo (fine del I
sec.), scritto in lingua aramaica. Stilisticamente è molto simile al vangelo secondo
Matteo. Era diffuso presso i giudeo-cristiani, in particolare presso la corrente dei
Nazarei. Menzionato da molti autori cristiani dei secoli II-V, fu tradotto da Girolamo
in greco e latino. Ne restano alcuni frammenti nelle citazioni patristiche.
● PROTOVANGELO DI GIACOMO: è il più celebre tra gli apocrifi del NT e risale
all'inizio del sec. II. Scritto in un greco che risente molto della fraseologia della LXX,
fu tradotto in molte altre lingue. Il titolo di «Protovangelo» risale al sec. XVI ed è
dovuto all'umanista Guillaume Postel, mentre l'attribuzione a Giacomo deriva da una
affermazione dell'autore stesso, che si presenta come Giacomo (presumibilmente il
«fratello del Signore», cfr Mc 6, 3; Gal 1, 19), nato, secondo questo apocrifo, dalle
prime nozze di San Giuseppe. In 24 capitoli parla: a) della vita della Vergine Maria,
figlia di Gioachino e Anna, presentata all'età di tre anni al tempio ove rimase fino ai
12 e in seguito sposa del falegname Giuseppe, molto anziano, vedovo e padre di
quattro figli (i «fratelli di Gesù»); b) delle meraviglie che capitarono alla nascita di
Gesù, insistendo sulla perpetua verginità di Maria; c) della strage degli Innocenti e
della crudeltà di Erode.
Il libro, privo di passi ereticali, è teso a soddisfare il desiderio che i fedeli
avevano di conoscere più ampi resoconti della vita di Maria e dell'infanzia di Gesù e,
nel contempo, è un documento molto antico della venerazione dei cristiani verso la
Madonna e una prova importante della fede nella sua verginità. La liturgia ha desunto
83
da esso alcune sue celebrazioni, in particolare la festa dei santi Gioachino e Anna e
della presentazione di Maria al tempio.
● VANGELO DI TOMMASO: da non confondere con il Vangelo dell'infanzia di
Tommaso e con l'Apocalisse di Tommaso, è una raccolta di 114 detti di Gesù,
ritrovata in un manoscritto copto, nella biblioteca gnostica di Nag-Hammadi in Egitto
(1945-1946). Citato da Padri della Chiesa, come Origene e Clemente Alessandrino,
può essere considerato come la più istruttiva scoperta sulle origini cristiane avvenuta
nella storia moderna. Come la cosiddetta fonte Q, esso riporta solo detti di Gesù, privi
di cornice narrativa. Benché il manoscritto copto risalga al IV secolo ca., alcuni
studiosi propendono, addirittura, per una data non posteriore alla metà del I sec. Non
è chiaro se il Vangelo di Tommaso dipenda dai vangeli canonici o da una tradizione
indipendente. Probabilmente fu scritto in Siria, dove la tradizione ritiene che la chiesa
di Emesa fosse stata fondata dall'apostolo Tommaso detto Didimo.
2) Atti apocrifi
3) Lettere apocrife
4) Apocalissi apocrife
● APOCALISSE DI PIETRO: composta in greco nella prima metà del sec. II, è
elencata dal Canone Muratoriano accanto all'Apocalisse canonica. Clemente
Alessandrino ne scrisse un commento. Questa apocalisse apocrifa descrive il paradiso
con la felicità degli eletti, e l'inferno con la pena dei dannati. Vi sono elementi
dottrinali e narrativi tratti dall'apocalittica giudaica e dagli scritti misterici dei
pitagorici.
Allo stesso genere appartengono anche l'APOCALISSE DI PAOLO (scritto in greco
tra il III e il IV sec.) e l'APOCALISSE DI TOMMASO (composta in latino nel sec. IV).
85
CENNI DI ERMENEUTICA
a) Errori comuni
basti pensare alle tantissime domande che, in epoca scientifica, sorgono quando si
legge la Genesi! Affinché la Bibbia possa essere letta e compresa in modo intelligente
occorre, perciò, che l'istruzione biblica del lettore sia proporzionata alla sua
istruzione generale. L'istruzione biblica comprende anche la conoscenza della storia.
Come si sa, infatti, la Bibbia è, per gran parte, la messa per iscritto dell'azione di Dio
nella storia di Israele, una azione spesso incomprensibile senza una conoscenza
almeno sufficiente della storia del Vicino Oriente Antico. Staccare l'azione di Dio da
quella storia per portarla "fuori-del-tempo" equivale a distorcere un elemento
fondamentale del messaggio biblico, e cioè che Dio opera solo in situazioni e
momenti concreti.
A tal proposito, tanto la Divino afflante Spiritu di Pio XII, quanto la Dei Verbum del
Concilio Vaticano II hanno insistito sulla necessità di determinare accuratamente i
generi letterari in vista di una corretta interpretazione della Scrittura.
c) La necessità di scoprire la storia letteraria del libro studiato e gli scopi della
sua composizione.
È, questo, un problema peculiare degli studi biblici, a causa del lungo processo
editoriale della Bibbia (terminato verso il 100 a. C. per l'AT e verso il 100 d. C. per il
NT). Per fare un esempio, bisogna districare il groviglio delle singole tradizioni del
Pentateuco, o delle raccolte che compongono il libro del profeta Isaia, o della
cronologia degli oracoli del libro di Geremia. Allo stesso modo, per il NT è
importante sapere che un logion di Gesù contenuto in Mt o Lc proviene da Mc o dalla
fonte Q e sapere, per mezzo di confronti, come l'attuale formulazione del logion nel
vangelo differisce dalla sua forma "originaria" (Mc o Q): in tal modo è possibile
scoprire l'intenzione teologica dell'agiografo, resa evidente dalla personale e
particolare accentuazione conferita alla tradizione pervenutagli (è quanto studia la
cosiddetta Redaktionsgeschichte).
Dopo questi passi l'esegeta è in grado di cercare il senso letterale dei singoli
passi e versetti della Scrittura, con un processo che (mutatis mutandis) è il medesimo
per qualsiasi opera antica. Certo, se è vero che almeno il 95% del senso letterale della
Bibbia può essere definito mediante l'intelligente applicazione di queste regole, non
disgiunto dal contributo di altre scienze ausiliarie, è vero che, comunque, un 5%
sembra permanere tenacemente nell'oscurità. Tuttavia, il continuo studio della Bibbia
dà sempre nuova luce anche a passi il cui significato ci sfugge a causa della
corruzione del testo nel corso della sua trasmissione, o perché in essi si usano
vocaboli rari, o perché l'autore si è espresso in maniera oscura.
SENSI SOPRA-LETTERALI
Sono così definiti quei sensi che l'autore umano intendeva direttamente.
L'esistenza di tali sensi si fonda sul presupposto che la Scrittura ha Dio per autore
principale, il quale, durante la scrizione di essa, previde il futuro in una maniera
ignota all'autore umano e di questo futuro tenne conto nell'ispirarlo.
31
Morto verso il 254 era dotato di un genio acutissimo e di una tenacia sorprendente. Compose moltissimi libri di
esegesi biblica e di omelie su libri dell'AT e del NT. Tra i suoi tanti seguaci si ricordano Basilio, Gregorio di Nissa e
Gregorio di Nazianzo.
32
Agostino riassunse il principio-guida della sua esegesi nel celebre detto: «Il Nuovo Testamento è nascosto nel
Vecchio; il Vecchio Testamento è illuminato dal Nuovo» (Quaest. in Heptateuchum 2. 73: PL 34, 625).
33
"La lettera insegna i fatti; l'allegoria che cosa credere; la morale cosa fare; l'anagogia verso dove sei diretto". Il
famoso distico è attribuito al domenicano danese Agostino di Dacia, vissuto nel sec. XIII.
89
storico della Bibbia. Per rispondere agli argomenti che fluivano dall'esegesi letterale
protestante, la Controriforma si appellò, egualmente, al senso letterale della Scrittura:
si segnala, in proposito, il poderoso commentario esegetico del gesuita Juan
Maldonado (†1583). Superato, tuttavia, il pericolo più immediato della Riforma,
l'esegesi spirituale rinacque, soprattutto sotto la bandiera del giansenismo. Il successo
di questo approccio fu ancor più alimentato dalla riscoperta dei Padri della Chiesa: si
ricordano in proposito i Commentari di Cornelio a Lapide (Cornelis Cornelissen van
den Staen †1637) infarciti di esegesi spirituale desunta dai Padri. In ambito
protestante il senso spirituale tornò in auge con il pietismo del sec. XVIII: l'olandese
J. Coccejus (†1669) presentò una esegesi impregnata di tipologia. Ma la ripresa
dell'esegesi spirituale non doveva tenere il campo per sempre; lo stesso sec. XVII
infatti fu testimone della carriera del francese Richard Simon (1638-1712), prete
oratoriano, il primo dei moderni critici biblici, che, tra fortissime incomprensioni ed
ostilità, diede l'avvio ad un movimento che avrebbe finito col dare la più stabile
supremazia all'esegesi letterale34.
I secoli XIX e XX, specie in ambiente tedesco, hanno visto il trionfo
dell'esegesi critica e letterale, cui R. Simon aveva dato impulso. Tuttavia, se il secolo
XIX ci ha fatti sentire a disagio dinanzi all'interpretazione simbolica caratteristica dei
Padri e della Scolastica, la pretesa della critica storica di essere l'unica chiave per la
comprensione della Parola di Dio ha, a sua volta, incontrato opposizione anche nel
secolo XX. Un tentativo di ridare vita a un'esegesi spirituale e simbolica, a spese del
senso letterale, ad opera del sacerdote napoletano Dolindo Ruotolo (1882-1970), fu
condannato dalla Pontificia Commissione Biblica (20. VIII. 1941)35, ma questo
tentativo (minato da inadeguata preparazione scientifica e da una certa arbitrarietà) è
stato pur sempre una spia della diffusa insoddisfazione nei confronti del metodo
storico-critico, aprendo la strada a importanti movimenti che postulano la necessità
dell'approccio sopra-letterale nello studio della Scrittura.
Il «sensus plenior»
34
Pubblicò Histoire critique du Vieux Testament (1680) e Histoire critique du Nouveau Testament (3 voll. 1689-1693).
35
Il voluminoso commentario alla Bibbia pubblicato con lo pseudonimo di Dain Cohenel (La sacra Scritura:
Psicologia, Commento, Meditazione) era già stato messo all'Indice il 13 Novembre 1940.
90
consapevolezza, e come potesse venire raggiunta. Esistono due criteri per poter
parlare correttamente di sensus plenior:
1. l'interpretazione sopra-letterale delle parole della Scrittura deve essere
autorevole (deve, cioè provenire o dal NT, o dai Padri o dalle dichiarazioni del
Magistero), per evitare ogni iper-soggettività da parte del singolo esegeta.
2. Il sensus plenior di un testo deve essere omogeneo con il senso letterale,
come sviluppo di ciò che l'autore umano intendeva dire. Ad es.: l'uso di Is 7, 14 («...
la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele») in Mt 1, 23
costituisce un corretto esempio di sensus plenior: e infatti il riferimento originale
sembra che riguardasse la nascita di un figlio alla famiglia reale, figlio che sarebbe
stato il segno della continuità della discendenza davidica e, quindi, della continua
presenza di Dio in mezzo al suo popolo.
Il «senso tipico»
Il senso tipico è il significato più profondo che le cose della Scrittura (persone -
luoghi - eventi) possiedono per il fatto che, secondo l'intenzione di Dio, adombrano
realtà future. La realtà significante è chiamata tipo, quella significata, invece,
antitipo36. Il senso tipico differisce da quello letterale e dal "sensus plenior" in quanto
non è il senso delle parole della Scrittura ma è collegato con le cose descritte dalla
Scrittura. Come il "sensus plenior", esso può essere colto solo per mezzo di una
rivelazione ulteriore o attraverso uno sviluppo nella comprensione della rivelazione.
Esempi di senso tipico: la manna nel deserto è tipo dell'Eucaristia; Adamo,
Melkisedek, Mosè, Davide, Geremia sono tipi di Cristo; Eva è tipo di Maria; l'agnello
pasquale è tipo di Cristo; il serpente di bronzo posto in cima ad un palo nel deserto è
tipo di Gesù crocifisso; l'esodo è tipo del Battesimo; Giona nel ventre del pesce è tipo
di Cristo nella tomba.
Il «senso accomodatizio»
Il senso accomodatizio vede in un passo della Scrittura un senso che non era
inteso né da Dio né dall'agiografo e lo adatta ad un soggetto che né Dio né l'agiografo
avevano di mira.
L'accomodazione può essere fatta in due modi:
a) per estensione: quando un passo è adattato a esprimere una realtà
somigliante alla realtà che l'agiografo voleva esprimere con quel passo, così come,
spesso, fa la liturgia (ad es., la lode che Sir 44-45 attribuisce ai patriarchi è applicata
ai vescovi confessori della fede);
b) per allusione: quando a un passo si attribuisce un senso che non ha neppure
per analogia, ma che potrebbe avere soltanto assumendo le parole fuori dal loro
36
Il vocabolo greco typos (esempio, modello, immagine) si trova, ad es., in Rm 5, 14, in cui si dice che Adamo è
"figura" di Cristo.
91
Partendo da Ovest e andando verso Est la Palestina si può dividere in tre parti:
● La pianeggiante zona costiera lungo il Mediterraneo, ondulata verso
l'interno: nella parte meridionale erano stanziati i Filistei. Tra la Filistea e le
montagne centrali c'è la Shephela ("terra bassa"), monotona zona collinosa, ove si
svolsero non pochi episodi della lotta tra Filistei ed Ebrei (cfr ad es., 1Sam 13s; 17, 1-
3 [Davide e Golia]; 2Sam 5, 19-25 [vittoria di Davide]). La parte settentrionale è
costituita dalla pianura di Sharon, interrotta a Nord dal promontorio del monte
Carmelo.
37
La più antica mappa della Palestina è un mosaico del sec. VII d. C. esistente, in parte, sul pavimento di una chiesa
ortodossa a Madaba (Transgiordania). Un'altra mappa è la Tabula Peutingeriana pervenutaci in una copia del 1265,
anche se l'originale risale, verosimilmente, al sec. III d. C. Altre fonti per lo studio della Geografia biblica sono gli
autori classici (Erodoto, Strabone, Plinio, Tolomeo), l'Onomasticon di Eusebio di Cesarea, e i dati forniti dai pellegrini e
dai Crociati.
93
§ 32 - Idrografia
agitato da forti venti provocati soprattutto dalle correnti fredde che provengono
dall'Hermon. È attorniato da colline, che nella parte occidentale sono assai amene e
ricche di vegetazione. Il cosiddetto Mar Morto (chiamato nella Bibbia mare salato o
mare dell'Araba) è il grande lago nel quale sbocca il Giordano. Ha una superficie di
926 km2, una lunghezza di 76 km, una larghezza massima di 16 km, una profondità
assai varia, da un massimo di 395 m nella parte settentrionale a un minimo di 3 m in
quella meridionale. È a 394 m sotto il livello del Mediterraneo; nel punto dove è più
profondo raggiunge perciò i 789 m sotto il livello del mare e costituisce la massima
depressione che esista nel globo fuori dei mari liberi. Caratteristica del Mar Morto è
un calore soffocante, il quale fa evaporare ogni giorno 6-9 milioni di m3 d'acqua. Si
spiega così l'alta percentuale di sale (240%, oltre sette volte la salinità media del
mare), che provoca la morte dei pesci che vi entrano dai vari corsi d'acqua. La sua
acqua contiene bitume e asfalto (donde la denominazione greco-romana di lago
Asfaltide)38. La zona circostante, tranne qualche eccezione, è stepposa e brulla.
Per la sua latitudine, la Palestina si trova in una zona più sub-tropicale che
temperata. Ciò spiega la maggiore lunghezza dei giorni invernali e la minore
lunghezza di quelli estivi, con una minor differenza di temperatura tra il giorno e la
notte e tra l'inverno (dove raramente il termometro scende sotto lo zero) e l'estate
(dove non suole superare i 40°) .
Il rilievo, e la distanza maggiore o minore dal mare, influiscono sensibilmente
nel determinare la temperatura, che presenta notevoli differenze tra zona costiera
(clima mite), zona montuosa centrale (clima variabile), depressione giordanica (clima
torrido). I mesi più freddi sono Gennaio e Febbraio; quelli più caldi Luglio e Agosto.
I venti del Nord sono scarsi (30 giorni l'anno) e, in inverno, portano freddo e
gelo. Quelli del Sud sono rari (11 giorni l'anno) e sono caldi e secchi. Da notare il
vento che spira da Sud-Est, vale a dire dal deserto arabico, chiamato dalla Bibbia
«vento d'Oriente» (rūaḥ qādīm: cfr Es 10, 13; 14, 21; Gen 41, 6; Os 13, 15), che porta
in Palestina molta arsura (facendo salire la temperatura oltre i 40°) e, quando ha
forma di turbine, anche un pulviscolo di sabbia, nocivo agli uomini, agli animali e
alla vegetazione.
Le piogge cadono nel semestre metà Ottobre - metà Aprile; nell'altro semestre
è molto raro che piova. In media, la quantità di pioggia che cade in Palestina è da
considerarsi discreta, benché, nella realtà, essa sia decisamente insufficiente, a causa
del terreno molto poroso e quasi dovunque inclinato, che non trattiene l'acqua sulla
superficie coltivata. Talora, a causa dei notevoli sbalzi di temperatura, si hanno nei
mesi più caldi delle grandinate, di cui alcune tremende (cfr Gs 10, 11).
La neve cade nei giorni più freddi, particolarmente sui monti della Giudea, ma
è sempre di breve durata e di non considerevole quantità.
38
Secondo la tradizione biblica vi sorgevano Sodoma e Gomorra.
95
Il suolo palestinese, debitamente lavorato, è per gran parte fertile: si pensi alle
fiorentissime aziende agricole presso Tel Aviv, che si trovano presso zone che fino a
qualche tempo fa erano considerate quasi improduttive. Le principali coltivazioni
sono: frumento (pianura di Esdrelon, Filistea, pianura di Saron); orzo (fascia
montuosa centrale e Galilea); fave, lenticchie, ceci, lattughe, senape sono coltivati un
po' ovunque.
Tra gli alberi abbondano olivi e viti, particolarmente nei terreni sassosi e in
collina; frequenti anche fichi, melograni, sicomori (oggi quasi scomparsi), meli,
agrumi. Non mancano palme, cipressi, platani.
Quanto alla fauna, la Bibbia ricorda i seguenti animali domestici: pecore,
capre, bovini, asini. Sono scomparsi leoni e orsi. Molti sono i volatili tra cui:
colombe, tortore, passeri, rondini, gufi, aquile. Abbondanti i pesci, specialmente nel
lago di Tiberiade (con la strana caratteristica di appartenere a specie simili a quelle
del Nilo) e nel Giordano.
96
Qualche dato, tuttavia, mette in crisi, almeno in parte, il nichilismo storico che
sembra minare alla base gli studi di storiografia biblica. La corrispondenza tra le
cronologie biblica e assira, ad esempio, è tale da far scartare l'ipotesi di una
"invenzione" (Th. L. Thompson) che non sia basata su fonti autentiche e attendibili.
Tra un estremo che nega la possibilità di una ricostruzione storica di Israele o che,
addirittura, taccia di falsificazione storica l'intero AT (D. V. Edelman), e un altro,
caratterizzato da un ingenuo fondamentalismo (qual era quello degli archeologi del
sec. XIX, sicuri di poter ritrovare, un giorno o l'altro, l'arca di Noè), si pone dunque
una storiografia che, tenendosi egualmente lontana da questi due estremi, ripensa
98
tanto i dati biblici quanto quelli esterni alla Scrittura senza preoccupazioni
apologetiche e senza volontà decostruttive.
Per ricostruire la Storia di Israele si hanno a disposizione: l'AT, le Antichità
Giudaiche di Giuseppe Flavio (fine I sec.) e frammenti di storie risalenti all'epoca
ellenistica: tutte fonti non contemporanee agli eventi di cui parlano. Accanto ad esse
vi sono iscrizioni e testi del Vicino Oriente Antico (VOA), e altri reperti archeologici,
resti "muti" da interpretare (Überreste). La datazione "reale" degli eventi dell'AT è
difficile da stabilire, sia a causa dei remotissimi eventi narrati (si pensi, ad esempio,
alla storia dei Patriarchi, il cui valore storico non sembra più difeso da nessuno) che
alle molteplicità del computo del tempo esistenti nell'antichità.
39
In inglese: Fertile Crescent (pron. fèrtail cresent).
99
§ 36 - La terra promessa
9.481; in complesso comprende ca. km2 25.129, ed equivale quasi alla superficie del
Piemonte (km2 25.399). Questo territorio riceve nomi diversi:
● Paese di Canaan: termine che si trova: a) nelle lettere di Mari (Medio-
Eufrate, secoli XIX-XVIII a. C.): kînaḫnûm; b) in una iscrizione di Amenophis II
(sec. XV a. C.): kn'nì.v; c) nelle lettere di Tell-el-Amarna (Egitto): kinahni o
kinnaḫḫu. Il termine indica il territorio a ovest del Giordano, la terra promessa (Gen
17, 8; Nm 33, 51), i cui confini (detti «confini ideali», a differenza dei confini
«storici» espressi dalla dizione "da Dan a Beersheba") sono descritti in Nm 34, 3-12
e in Ez 47, 30-20. Come già visto, alla fine dell'età del bronzo, la terra di Canaan era
abitata da popolazioni semitiche (i Cananei), raggruppate in città-stato sottomesse
all'Egitto.
● Palestina: deriva dal nome di uno dei popoli del mare contro cui combatté
Ramses III, stanziati lungo la costa di Canaan: i Filistei (ebr. phelišt m )פלשתים. Dopo
la seconda Guerra giudaica (135 d. C.) i romani la chiamarono Syria Palestina e poi
solo Palestina, al posto della precedente Judaea.
● Terra d'Israele (ebr.ʾereṣ Ysrāʾēl )ארץ ישראל, espressione che ricorre
raramente nell'AT per designare l'intero paese. Altre volte si riferisce solo al nord.
L'arrivo degli Israeliti nella terra di Canaan viene narrato in due modi diversi,
benché entrambi concordino nell'attribuire a Israele la conquista di un paese che non
era suo (si ricordi la significativa notazione di Gen 12, 6 a proposito dell'arrivo di
Abramo nel paese di Canaan: «Nel paese si trovavano allora i Cananei»):
● Gs 2-8: conquista militare, città per città, cominciando da Gerico, per mano
di Giosuè insieme alle dodici tribù unite, il tutto accompagnato da prodigi e miracoli.
● Gdc 1, 1-2, 5: conquista parziale, come risultato delle azioni delle singole
tribù.
A queste due versioni "bibliche" possiamo aggiungere alcune teorie tese a
spiegare la presenza di Isarele in Canaan:
a) teorie di A. Alt e M. Noth, per le quali ci fu una infiltrazione pacifica e
graduale di tribù seminomadi che, all'inizio dell'età del Ferro, si stanziarono sulle
colline e le montagne della Palestina centrale, allora quasi disabitate. L'unione di
queste tribù porterà alla nascita di Israele;
b) teoria di G. E. Mendenhall e N. K. Gottwald, la quale scarta sia la
prospettiva della conquista che quella dell'infiltrazione, perché, di fatto, Israele
sarebbe stato sempre in Canaan. Il «popolo di Israele» sarebbe nato in seguito alla
rivolta delle classi contadine contro la potenza delle città-stato cananee.
Alcune di queste teorie, benché intelligenti e verosimili, si basano su
presupposti indimostrati. L'archeologia, comunque, testimonia che, a cavallo tra l'età
del Bronzo e quella del Ferro (ca. XIII sec. a. C.) nella terra di Canaan si passa da un
periodo di crisi a uno di maggiore prosperità, caratterizzato da nuovi insediamenti tra
i quali potremmo collocare quelli degli Israeliti. Ci sono, è vero, indizi archeologici
101
Per prendere possesso della terra promessa Israele dovette affrontare altri
popoli, molti dei quali conosciuti solo perché citati nella Bibbia: in Transgiordania
erano stanziati i nemici tradizionali di Israele, ossia Ammon, Moab, Edom. Ad
Abramo viene promesso «il paese dove abitano i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, gli
Hittiti, i Perizziti, i Refaim, gli Amorrei, i Cananei, gli Evei e i Gebusei» (Gen 15, 19-
21). Più frequente è una lista di sei nomi soltanto: Cananei, Hittiti, Amorrei, Perizziti,
Evei, Gebusei. Nonostante gli sforzi degli studiosi, non si possono ricavare molte
informazioni sulle popolazioni stanziate in Palestina, e lo stesso vale per la struttura
di quella entità che chiamiamo Israele. Per comprendere il senso del termine "tribù"
come viene inteso tradizionalmente dalla Bibbia, si deve tener presente la struttura
sociale della società patriarcale, alla cui base c'è la famiglia (in ebraico: bet-ab, "casa
del padre"), comprendente sempre nonno, figli, nipoti ciascuno con le rispettive
famiglie, più i servi e gli altri parenti stretti. Più famiglie imparentate tra loro
formano il clan (più o meno corrispondente a un villaggio). I clan viventi su un dato
territorio e legati tra loro da comuni tradizioni formano la tribù, che si presenta
«come un'associazione basata su un remoto (mitico?) antenato eponimo [...] Ma quali
sono le tribù che compongono Israele e qual è la natura del loro rapporto?» (C.
Balzaretti).
I dati forniti dalla Bibbia circa le 12 tribù non sono univoci, e lo stesso numero
delle tribù non è sempre fisso: in Nm 1 e 26, ad esempio, manca la tribù sacerdotale
di Levi e al posto di Giuseppe vi sono i suoi due figli Efraim e Manasse; in 1Re 4, 7-
19 Israele, senza Giuda, viene diviso in dodici distretti amministrativi, il cui territorio
102
non coincide con quello delle tribù; mentre la terra promessa non comprende la
Transgiordania, alcune tribù (Ruben, Gad e mezza tribù di Manasse) vi risultano
invece stanziate. Già il numero 12, peraltro, suggerisce un carattere di artificiosità,
anche perché altri popoli vengono presentati come divisi in 12 tribù (Gen 22, 20-24;
25, 12-16; 36, 10-14).
Le 12 tribù traggono i nomi dai figli di Giacobbe, raggruppati secondo le
rispettive madri (Gen 49):
a) tribù di Lia: Ruben - Simeone - Levi - Giuda - Issacar - Zabulon;
b) tribù di Rachele: Giuseppe e Beniamino;
c) tribù delle rispettive schiave: Dan e Neftali; Gad e Aser.
A Sichem (Gs 24, 1-28) le dodici tribù d'Israele, radunate da Giosuè, strinsero
un patto che sancì la loro unità religiosa («Noi serviremo il Signore nostro Dio e
obbediremo alla sua voce») e li costituì come nazione, con ogni tribù stanziata nel
proprio territorio. Il libro dei Giudici (1, 1) presenta già le 12 tribù unite come una
sola nazione: "Israele", benché prive di un capo comune.
§ 39 - La monarchia
carismatica dell'autorità e una istituzionale, benché per Saul non si possa ancora
parlare di vera monarchia, mancando un governo, una capitale, un'amministrazione
centrale e un esercito. Sconfitto dai Filistei sul monte Gelboe, si diede la morte per
non cadere nelle loro mani (1Sam 31, 1ss). Per 1Cr 10, 13-14 egli morì «a causa
della sua infedeltà al Signore, perché non ne aveva ascoltato la parola [...] per
questo il Signore lo fece morire e trasferì il regno a Davide figlio di Iesse».
Dopo l'annunzio profetico della fine di Saul (1Sam 15, 10ss) si inserisce la
vicenda di Davide40, figlio di Iesse, da Betlemme, consacrato re da Samuele perché
Saul, di fatto, è stato già considerato ripudiato da Dio (1Sam 16, 1ss). Nonostante la
grandezza del re Davide, dalle fonti esterne non si apprende nulla su di lui, sicché
anche in questo caso dipendiamo unicamente dal testo biblico, in cui si trovano due
grandi cicli di narrazioni che lo riguardano: la storia dell'ascesa al trono (1Sam 16-
2Sam 4) e la storia della successione al trono di Davide (2Sam 9-1Re 2). In 2Sam 7 è
riportata la ben nota promessa fatta da Dio a Davide per mezzo del profeta Natan:
«[...]io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile
il suo regno [...] il tuo trono sarà reso stabile per sempre». Storicamente, la nascita
della monarchia davidica fu favorita dall'indebolimento dell'Egitto, a partire dal regno
di Ramsete III (1206-1175), mentre l'impero assiro è ancora lontano dal raggiungere
la sua massima potenza. Davide è prima alleato poi nemico di Saul; con l'appoggio
dei Filistei dei quali è vassallo (1Sam 27) riesce a crearsi una situazione di potere al
sud, fino a diventare re di Giuda a Ebron (2Sam 2, 1ss). La morte di Saul e l'appoggio
dei Filistei gli permettono di ascendere anche al trono di Israele, cioè delle tribù del
nord (2Sam 5, 1ss). Verso l'anno 1000 una delle prime imprese di Davide è la
conquista di Gerusalemme, una delle città-stato cananee, creata capitale del nuovo
regno (2Sam 5, 6ss). Il motivo della scelta è chiaro: Gerusalemme è una città
neutrale, a metà strada tra nord e sud, forte anche di una posizione strategica. Dopo
aver battuto i vecchi alleati, i Filistei (2Sam 5, 17ss), Davide conduce altre campagne
militari che gli consentono di assumere posizioni di predominio nei confronti degli
stati vicini (Moab, Ammon, Edom, Aram...). La storia di Davide, il re per
antonomasia, non è priva di tensioni (emblematica è la rivolta del figlio Assalonne
contro di lui [2Sam 13-20]), non riducibili a semplici ribellioni locali, ma che fanno
pensare ad antiche correnti antimonarchiche, testimoniate da 1Sam 8, e a un forte
contrasto tra le tribù del nord e quelle del sud, che alla morte di Salomone si
trasformerà in aperta rottura.
principale causa della rovina di Isarele. Dopo l'esilio l'ideologia monarchica non
scompare, e infatti il Messia è visto come un re, figlio di Davide: Is 11 ("Un
germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici...":
essendo Iesse il padre di Davide, Isaia profetizza un rifiorire della stirpe davidica,
come d'altronde aveva promesso Dio stesso a Davide per mezzo di Natan); Mc 11, 9-
10 ("Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che
viene, del nostro padre Davide!"); Lc 19, 38 ("Benedetto colui che viene, il re, nel
nome del Signore).
Nell'VIII sec a. C. il re assiro Tiglat-Pilezer III, i cui guerrieri erano noti per la
loro crudeltà, aveva esteso la sua potenza da Babilonia fino al Sinai. Attorno al 734-
733 il regno del nord alleatosi con Rezin re di Damasco tentò una coalizione
antiassira, alla quale venne chiesto di far parte anche ad Acaz re di Giuda. Egli rifiutò
di intervenire, cosicché Rezin di Damasco e Pekach re di Israele tentarono di deporlo
con la forza: si tratta della cosiddetta "Guerra siro-efraimita", sottofondo storico del
celebre oracolo di Is 7. Acaz, rifiutando i consigli di Isaia, chiede aiuto proprio a
Tiglat- Pilezer III offrendogli spontaneamente un tributo (2Re 16, 7-8: fatto ricordato
in una iscrizione assira del 734 che nomina Acaz di Giuda). Il re assiro, dopo aver
conquistato Damasco, ridusse Israele a stato vassallo insediandovi un re di suo
gradimento, un certo Osea (2Re 17) che regnò per circa nove anni finché, per motivi
a noi ignoti, non si ribellò a Salmanassar V, nuovo re assiro, tentando un'alleanza con
l'Egitto. L'Assiria (corrispondente all'estrema regione settentrionale dell'odierno Iraq)
rispose con durezza, e sotto Sargon II, successore di Salmanassar, Samaria fu
conquistata nel 722 a. C. dopo tre anni di assedio e gran parte delle persone
(27.290 secondo un'iscrizione di Salmanassar) fu deportata in Assiria. Il nord
divenne così provincia assira, con nuovi abitanti non israeliti e con nuovi usi e
costumi religiosi, ponendo le basi del successivo scisma samaritano. Per 2Re 17, 7-23
la causa principale del crollo del regno fu l'idolatria.
Nel VII sec. a. C. l'Assiria inizia un lento ma inesorabile declino, minacciata
dalla crescente potenza di Babilonia e dalle incursioni di popoli seminomadi
confinanti con l'ormai troppo vasto impero. Nel 612 i Babilonesi conquistano Ninive
capitale dell'Assiria, episodio ricordato dal profeta Naum. Nel 597 Nabucodonosor44
marcia su Gerusalemme in risposta a una ribellione del re di Giuda, Ioiakim (figlio
del re Giosia), che muore durante l'assedio, mentre il figlio Ioiachin che si è arreso ai
Babilonesi, viene esiliato a Babilonia, insieme a 8.000-10.000 persone, tra le quali
anche il profeta Ezechiele. Nabucodonosor nomina un re di suo gradimento nella
persona di Sedecia, un altro figlio di Giosia, che sarà l'ultimo re di Giuda. L'episodio
è ricordato dalla Cronaca babilonese che colloca la presa di Gerusalemme nel
settimo anno di Nabucodonosor, tra il 15 e il 16 marzo del 597 (cfr Ger 52, 28 e 2Re
24, 12 che colloca però l'episodio nell'ottavo anno del re). Sedecia si ribellò però per
altre due volte a Nabucodonosor, il quale nel 587 assediò nuovamente Gerusalemme.
Dopo due anni la città fu presa per fame, il re Sedecia accecato e condotto in catene a
Babilonia e la famiglia massacrata (Ger 39, 1-10; 2Re 25, 1-7), mentre il tempio fu
incendiato e gran parte della popolazione esiliata, benché la percentuale dei deportati
fosse minore rispetto a quella messa in atto dagli Assiri. L'archeologia dimostra che
molte città, come Lachis e Arad, furono completamente distrutte.
Nabucodonosor insediò una sorta di viceré, un nobile israelita di nome
Godolia, il quale fu fatto assassinare da Ismaele, un israelita di stirpe reale che
intendeva restaurare la monarchia. Le misure repressive prese da Babilonia (Ger 52,
30 sembra parlare di una terza deportazione di 745 persone) costrinsero i ribelli a
fuggire in Egitto. Con la morte di Godolia la Giudea diventa una semplice provincia
44
In ebr. Nĕ u adneṣṣar.
107
§ 40 - Epoca persiana
Tra il 559 e il 539 la crescente potenza dei Medi minaccia Babilonia, finché nel
539 Ciro45, re di Persia e di Media, sconfigge Nabonedo46, ultimo re dell'impero
neobabilonese, e ne abbatte il regno, permettendo ai vari esuli presenti a Babilonia
di rientrare in patria, di restaurare le proprie città e di mantenere e riprendere
le proprie tradizioni religiose: il cosiddetto Cilindro di Ciro (539 ca.) dichiara Ciro
come re liberatore di Babilonia, che depone il babilonese Nabonedo, ripristina il culto
di Marduk e consente ai molti popoli mesopotamici deportati in Babilonia di ritornare
in patria. In questo documento, comunque, gli ebrei non vi sono menzionati, e ciò ha
fatto dubitare della storicità dell'editto di Ciro (cfr Esd 1, 1ss), in seguito al quale un
piccolo gruppo di esiliati rientra in patria, dopo il 538, sotto la guida di un certo
Sheshbassar, forse membro della famiglia reale di Giuda: «è probabile che esso non
sia mai stato promulgato, anche perché la stessa tradizione ebraica sembra indicare
che il rientro degli esuli, o meglio di parte di essi, avvenne solo con l'avvento del
regno di Dario I» (P. Sacchi).
Durante il regno di Dario47 re di Persia (522-485), la Giudea diventa provincia
imperiale governata da un funzionario di nomina regale, benché israelita,
Zorobabele48, un discendente di Davide. Nel 515 verrà consacrato il tempio
ricostruito. In quest'epoca nascono per i moltissimi Giudei lontani dal tempio le
prime sinagoghe, luoghi di preghiera, di studio e di incontro.
Con Serse49 (486-465) successore di Dario, l'impero persiano entra in una fase
di crisi: già Dario era uscito sconfitto dalla battaglia contro la Grecia (battaglia di
Maratona) e dopo di lui anche Serse viene sconfitto a Salamina e a Platea.
In un periodo di alterne vicende per l'impero persiano si collocano i fatti narrati
nei due libri biblici di Esdra e Neemia, epoca in cui il Pentateuco comincia ad
assumere la forma definitiva e la Tôrāh e il culto diventano i pilastri intorno ai quali
la nazione trova la sua unità.
45
In pers. Kūrush.
46
In accadico Nabu-na'id.
47
In ant. pers. Dārayavaush.
48
In ebr. Zĕru a el.
49
In ant. pers. Khshayārshā.
108
§ 41 - Epoca ellenistica
della Dedicazione. Nello stesso anno Antioco IV muore e Giuda riesce a ottenere dal
suo successore Antioco V Eupàtore un editto di tolleranza.
Nel 160 Giuda Maccabeo fu ucciso in battaglia contro l'esercito di Bacchide,
generale del nuovo re seleucida Demetrio, che mosse contro Gerusalemme
approfittando delle lotte sorte all'interno della popolazione per la carica di sommo
sacerdote.
A Giuda subentra il fratello Gionata che riesce a ottenere nel 152 a. C. la carica
di sommo sacerdote e l'autonomia pressoché totale per la Giudea. Ucciso a
tradimento dopo essere riuscito a concludere alleanze con Sparta e Roma (1Mac 12),
gli succede il fratello Simone che riuscì a farsi riconoscere dal re seleucida Demetrio
II come "sommo sacerdote, governatore e generale dei Giudei", allontanando
definitivamente i seleucidi dalla Giudea, che diventò, di fatto, uno stato indipendente.
Con la morte di Simone, assassinato da un suo parente termina il primo libro dei
Maccabei.
A Simone successe il figlio Giovanni Ircano I (134-104), fondatore della
prima dinastia regale (dinastia asmonea) dopo l'esilio babilonese, il quale
dimostrerà che l'ideale dei Maccabei è morto e che la nuova monarchia si è
trasformata in uno strumento di oppressione e dominio. In questo periodo nascono i
gruppi dei farisei e dei sadducei, critici verso Giovanni Ircano, accusato di
comportarsi in maniera tirannica e di aver tradito gli ideali maccabaici, a pro di
atteggiamenti di tipo ellenizzante.
A Giovanni Ircano successe il figlio Aristobulo (104-103) che si autoimpose il
nome di re dopo aver fatto assassinare sua madre e suo fratello. Gli successe un altro
fratello, Alessandro Ianneo (103-76) sotto il quale la dinastia raggiunge il suo
massimo splendore. Per contrastare i farisei, critici verso la dinastia, ne fece
crocifiggere centinaia intorno alle mura di Gerusalemme. Gli successe la vedova
Alessandra Salome (76-67) che riuscì a riconciliarsi con i farisei e a dare al regno un
breve periodo di pace. Alla sua morte il conflitto tra i due figli Ircano II (sommo
sacerdote) e Aristobulo II (erede al trono) arriva a un punto tale che Ircano II
preferisce chiedere l'aiuto di Roma.
Nel 63 a. C. Pompeo («il primo dei romani a domare i giudei», secondo Tacito
[Historiae, 5, 9]) entra come arbitro a Gerusalemme, dopo tre mesi di assedio,
facendo imprigionare e condurre a Roma Aristobulo e concedendo a Ircano II la
carica di sommo sacerdote, ma riducendo la Giudea a uno stato vassallo di Roma. Al
regno asmoneo viene tolta la Samaria e la Decapoli (ossia le città ellenizzate della
Transgiordania).
§ 42 - Epoca romana
risurrezione e l'angelologia (cfr Mc 12, 18-27; At 23, 8). In campo politico cercarono
sempre l'accordo con chi deteneva il potere (Erode, Romani). Dopo la distruzione di
Gerusalemme nel 70 scomparvero dalla scena, anche perché non godevano grande
stima presso il popolo. Traevano il nome, forse, da Sadoq, sommo sacerdote in epoca
salomonica (1Re 1, 34ss; Ez 44, 15ss), la cui famiglia ebbe una parte importante nella
rinascita religiosa dopo l'esilio.
● Farisei: nati, probabilmente, in epoca maccabaica, comprendevano laici di
estrazione medio-alta. Molto pii, cercavano di santificare alla luce della Tôrāh ogni
aspetto della vita. In pratica, estendevano a tutti i doveri prescritti ai soli sacerdoti,
intendendo tutto Israele come "popolo sacerdotale". Molto aperti dal punto di vista
dottrinale, accoglievano posizioni teologiche avanzate, in contrasto con i sadducei. Il
NT è eccessivamente severo nei loro confronti perché ne fa quasi l'emblema del
formalismo religioso; sappiamo invece dalle fonti che la loro religiosità era pura,
autentica, sentita. Dopo la terza guerra giudaica i farisei resteranno l'unica guida
spirituale del popolo, gettando le basi del giudaismo attuale. Il nome deriva
dall'ebraico perushim, vale a dire "i separati".
● Zeloti e Sicari: benché tendenze zelote (ossia determinate dallo zelo per la Legge)
fossero già presenti ai tempi di Cristo, gli zeloti nascono, storicamente, solo al
momento della prima rivolta giudaica, nel 66, come gruppo nazionalista antiromano.
Al loro fianco si colloca il movimento dei Sicari (dalla sica un piccolo pugnale che
usavano per i loro attentati), feroci nemici dei Romani, ma anche dei farisei e
sadducei, accusati di neutralità o collaborazionismo.
● Esseni: ricordati da Giuseppe Flavio, Plinio il Vecchio e Filone di Alessandria,
sono un gruppo di asceti che vivevano in comunità isolate, con un severo stile di vita,
una grande attenzione alla Tôrāh e attuando la pratica, singolare per Israele, del
celibato. Forse a Qumran, la località sulla sponda nord-occidentale del Mar Morto,
viveva una comunità essena, saparatasi dal giudaismo ufficiale già in epoca
maccabaica. Notevoli affinità verbali esistono tra i testi scoperti a Qumran (dal 1947
in avanti) e quelli del Nuovo Testamento.
● Gli scribi: nati in epoca ellenistica per reagire al diffondersi della cultura greca,
erano sia laici sia sacerdoti, il cui compito principale era l'interpretazione e
l'insegnamento della Tôrāh. Vere guide spirituali del popolo, ci si rivolgeva loro col
titolo di Rabbi ("Mio signore"). Famosi scribi sono Hillel, Shammai e Gamaliele,
maestro di San Paolo (At 22, 3). Dall'insegnamento degli scribi nasceranno testi come
la Mishnah e il Talmud, oltre ai commenti alla Scrittura, i quali regolano ancora oggi
la vita degli ebrei credenti.
In questi anni la storia della Giudea è strettamente legata alle vicende di Roma
e in particolare alla lotta tra Pompeo e Cesare, e, dopo la morte di quest'ultimo nel 44
a. C., a quella tra Ottaviano e Antonio.
111
Xanthico (mese di marzo) dell'anno 73, giorno dopo la Pasqua, cadde anche la
fortezza di Masada sulle rive del Mar Morto, nella quale, secondo Giuseppe Flavio
(Bellum Judaicum VII, 9, 1) si erano asserragliati più di 900 tra sicari, uomini, donne
e bambini, sotto il comando di Eleazar ben-Yair, capo dei sicari (Bellum Judaicum
VII, 8, 1). Incitati da un animato discorso di Eleazar, essi preferirono uccidersi
piuttosto che cadere in mano romana, dopo due anni di assedio. Le vittime furono
960. Si salvarono due donne e cinque bambini, che si erano nascosti nei cunicoli
sotterranei che trasportavano l'acqua potabile. Furono proprio le due donne a spiegare
ai romani tutti i particolari dell'accaduto. Recentemente, però, lo studioso ebreo
Nachman Ben-Yehuda51 ha messo in dubbio l'attendibilità del racconto di Giuseppe
Flavio, ridimensionando tanto la figura di Eleazar ben-Yair (visto come una sorta di
terrorista integralista ante litteram, capace di atrocità come quella di massacrare
l'intero villaggio di Ein-Gedi, che ospitava una comunità ebraica colpevole di poco
odio nei confronti di Roma), quanto i dati riportati da Giuseppe Flavio a proposito
dell'occupazione romana, che sarebbe durata non più di un mese, e non tre anni come
comunemente si riteneva.
Tra il 115 e il 117, mentre l'imperatore Traiano era impegnato a respingere la
minaccia dei Parti, scoppiò la seconda guerra giudaica (detta anche Guerra di
Kitos)52, che coinvolse le comunità ebraiche stanziate in Egitto, Cirenaica, Cipro e
Mesopotamia, istigate da rivoltosi scampati alla catastrofe del 70 d.C. Alcune frange
delle comunità ebraiche si scontrarono in modo violentissimo con le popolazioni
grecofone, accusate di essere fedeli a Roma. Traiano represse questi focolai di
insurrezione con estremo rigore. Praticamente, scomparvero le comunità ebraiche
d'Egitto. Di questa insurrezione parlano Eusebio di Cesarea53 e Cassio Dione54.
La terza guerra giudaica si svolse tra il 132 e il 135, in Palestina. Intorno al
130 d. C., quando l'imperatore Adriano decise di trasformare Gerusalemme in città
romana dedicata a Giove capitolino, un certo Simone, uno zelota chiamato, nelle
fonti cristiane, Bar Kōkhӗ (in aramaico "figlio della Stella", con riferimento
all'oracolo messianico di Nm 24, 17), e in quelle giudaiche Bar ōzibhā (forse dal
nome paterno, o dal luogo di origine), interpretato poi, a motivo del disastroso
fallimento della sua impresa, come Bar ōzēbhā ("figlio della menzogna"), si pose a
capo della nuova rivolta, scoppiata due anni più tardi, autonominandosi Messia,
principe d'Israele e poi re dei Giudei. Secondo le testimonianze di San Giustino (I
Apol. I, 31: PG 6, 376-377) e di Eusebio di Cesarea (Chronicon, II: PG 19, 558), egli
infierì crudelmente contro i cristiani che si rifiutavano di riconoscerlo come Messia.
Anche in questo caso, dopo iniziali e travolgenti successi la rivolta fu stroncata nel
sangue dalle legioni romane, a Bethar (oggi Bittir, a 12 km da Gerusalemme) nel 135:
secondo Cassio Dione perirono 580 mila ebrei. Nella città trovò la morte anche Bar
51
Autore di importanti studi su Masada, tra cui The Masada Myth. Collective Memory and Mythmaking in Israel,
Madison 1995
52
Alcuni manuali non la chiamano così, considerandola come semplice rivolta, e quindi parlano solo di due guerre
giudaiche. Il nome "Kitos" è forse una corruzione del latino Quietus: Lusio Quieto infatti era il governatore della
Giudea.
53
H.E. IV 2.
54
Storia Romana LXVIII 32.
113
Indice
Nozioni preliminari 2
Trattato dell'Ispirazione 4
L'Inerranza 25
Trattato del Testo 27
Trattato del canone 62
Cenni di Ermeneutica 85
Geografia della Palestina 92
Cenni di Storia Biblica 96