Stefano Bolelli-3 Bisi
Stefano Bolelli-3 Bisi
Stefano Bolelli-3 Bisi
Daniele Bisi
Ad Alessandra,
per tutto il tempo e la passione
che mi hai dedicato, grazie...
Abstract
Partendo dall’occasione dell’incontro tra uno dei massimi compositori di
musica colta del Novecento e una rockstar di fama mondiale, da cui è nata
una collaborazione conclusa con una tournèe ed un cd (Krzysztof Penderecki/
Jonny Greenwood), la nostra indagine inizierà da una serie di conferenze sul
serialismo tenute nei primi anni Trenta da Anton Webern, per poi indagarne
gli sviluppi e la ricezione da parte della scuola di Darmstadt fino ad arrivare
alla crisi dello strutturalismo ed alla strada alternativa intrapresa da Pende-
recki dalla sua avanguardia degli anni Sessanta fino alla collaborazione con
il chitattista dei Radiohead nel 2012, seguendo questo cammino dal punto di
vista estetico e musicale, con una particolare attenzione al significato della
musica stessa e ai suoi riflessi sul pubblico.
Introduzione
Nel 1945 finisce la guerra in Europa, e con essa trova tragicamente la fine
anche uno dei maggiori compositori del Novecento, Anton Webern, che la-
scia un’eredità pesantissima al mondo della musica: come continuare, dopo
essere giunti al limite estremo dell’astrazione musicale? Bisogna in qualche
modo trovare strade diverse, per proseguire il cammino della musica, o si
può continuare su quella tracciata dal compositore austriaco, portandola alle
estreme conseguenze a testa bassa, quasi senza più riflettere sugli esiti cui
condurranno le scelte che si stanno compiendo, resi ciechi da una volontà di
ricerca quasi fine a se stessa e in nome dell’avanguardia a tutti i costi?
La morte di Webern è uno spartiacque, è un punto di rottura. Se prima del
Novecento la musica era andata evolvendosi in una sola direzione, tracciata
all’interno di un linguaggio comune a chi la creava e a chi la ascoltava, con
l’inizio del secolo breve tutto si sfalda: la seconda scuola di Vienna, guidata
da Arnold Schoenberg, spinge il linguaggio dove mai nella storia era stato
spinto, arrivando sino ad incrinare le sue stesse fondamenta; e a partire da
questa eredità altamente instabile, dopo il 1945, verrà fondata un’altra scuo-
la, che diventerà per decenni il principale riferimento per la musica colta in
Europa.
Pierre Boulez e la “sua” scuola di Darmstadt, nella convinzione di poter
guardare al futuro solo iniziando da un anno zero della musica, sceglieranno
1. Da Schoenberg a Darmstadt
5 Ibid., p. 238.
6 Ibid.
7 Ferruccio BUSONI, Lettera ad Arnold Schoenberg, Vienna, Arnold Schoenberg
Center.
compositore: si potrà notare infatti che le otto del ’32 sono mediamente più
brevi rispetto alle otto del ’33 qui prese in esame, in quanto presentano molti
esempi musicali che vennero suonati ed illustrati ai presenti da Webern stesso.
Webern apre la prima conferenza citando un articolo di Karl Kraus (fon-
datore della rivista «Die Feckel», sulle cui pagine scrisse, tra gli altri, anche
Schoenberg stesso), affiancando le riflessioni dello scrittore sulla parola alle
proprie sulla musica: queste considerazioni preliminari costituiscono già di
per sé un manifesto estetico importantissimo in quanto, nel mostrare il paral-
lelismo tra il linguaggio verbale e quello musicale, Webern sostiene la tesi per
cui non vi è necessità di occuparsi delle leggi e dei segreti della materia che
si vuole plasmare (sia essa parola o suono) per «farci belli e pavoneggiarci
a destra e sinistra, ma dobbiamo farlo in vista di un guadagno morale»8. La
superiorità del valore morale rispetto a quello tecnico che traspare in questo
passo si riallaccia immediatamente a quello che viene enunciato poco dopo,
quando l’attenzione viene spostata da Kraus a Goethe. Webern afferma che
«alla base di ogni arte, e quindi anche della musica, vigono delle regole»9 e
sembra quindi porsi sulla scia di Schoenberg, il quale, dopo le creazioni del
periodo atonale, aveva ritenuto indispensabile procedere all’individuazione
di nuove norme che dessero unitarietà e coerenza al discorso musicale; ma
introducendo e condividendo il pensiero del poeta romantico tedesco per ec-
cellenza, secondo cui «fra prodotto della natura e prodotto dell’arte non regna
alcun contrasto essenziale»10, Webern arriva alla conclusione che la produtti-
vità umana ed in particolare la genialità siano un prodotto della natura uni-
versale, le cui regole devono essere ricercate ma, ancora una volta in accordo
con Goethe, probabilmente non saranno mai del tutto rintracciabili.
La conseguenza sul piano estetico è sorprendentemente diversa da quelle
postulate da Boulez in quanto, in prima persona, Webern conclude sostenen-
do che11
non è che io decida di dipingere un bel quadro, di comporre una
bella poesia, e così via. Sì, può accadere anche così – ma questo
8 Anton WEBERN, Il cammino verso la nuova musica, trad. it. di G. Taverna, Milano,
SE 1989, p. 15.
9 Ibid., p.17.
10 Ibid.
11 Ibid.
non è arte.
In questa affermazione sono già posti e individuati alcuni dei maggiori pro-
blemi che affliggeranno (in maniera minore) il suo tempo e (in maniera molto
maggiore) la metà del secolo successiva alla sua morte; attraverso esempi
illustri – come Schopenhauer, che preferisce Rossini a Mozart, così come Go-
ethe, che antepone Zelter18 a Beethoven, per finire poi con il famoso rapporto
Nietzsche-Wagner – Webern arriva alla conclusione che «è sempre la stessa
storia: chi vale meno viene esaltato, e i grandi vengono misconosciuti»19, an-
che dai più grandi pensatori20.
Cosa c’è dunque di più romantico dell’idea del genio incompreso che porta
sulle spalle il peso della storia, mentre il presente si dimentica di lui? Eppure
questa idea non si spegne con il romanticismo, ma continua attraverso il XX
secolo, nonostante quel mondo e i suoi valori estetici siano stai aboliti da
Boulez; e basta ascoltare più di 50 anni dopo proprio Stockhausen per capirlo,
quando afferma che «l’arte è proiettata nel futuro: giudicarla? L’esperienza
insegna che il giudizio è riservato ai posteri»21. Emerge da questi passi il ten-
tativo di giustificare un linguaggio incompreso (sia dal pubblico costituito
dalle ‘grandi menti’, sia dalla massa) attraverso l’idea che il pubblico stesso
non sia ancora pronto per questo tipo di musica e che l’artista, capace di vede-
re nel futuro, si faccia carico di portare sulle proprie spalle il peso dell’oblio
dell’oggi in attesa del riconoscimento del domani.
Poco più avanti Webern propone un nuovo interrogativo, come per affron-
tare il problema da un’altra prospettiva:22
come si ascolta la musica? Come l’ascolta la grande massa? Sem-
bra che essi debbano riferirsi ad un’atmosfera. Se non si possono
rappresentare un verde prato, un cielo azzurro o qualcosa di simi-
le, non sanno più come raccapezzarsi.
Con questa frase Webern si riallaccia al paradigma estetico che si era af-
fermato nel corso dell’Ottocento, che aveva cambiato l’idea stessa di musi-
ca e che aveva introdotto nel mondo musicale dal romanticismo in avanti il
dualismo tra la musica a programma e la «musica assoluta»23. Siamo di fronte
ad una forte presa di posizione in favore della ben nota teoria estetica di Han-
slick24, secondo la quale le forme sonoramente mosse sono l’unico possibile
contenuto della musica, chiudendo la strada quindi alla possibilità di un pas-
saggio di sentimenti tra il compositore e il fruitore dell’opera.
A questo punto è facile per Webern arrivare poco dopo ad una sua formula-
zione dell’idea di musica, ed in particolare di suono, definito come «la natura
con le sue leggi in rapporto al senso dell’udito»25, dove le citate leggi della
natura implicano ancora una volta il ritorno alla teoria degli armonici, che
andrà poi a sostenere l’emancipazione della dissonanza. «Noi continuiamo a
prendere possesso, progressivamente, di quel che ci è dato dalla natura», af-
ferma il compositore austriaco, la cui tesi sarà sposata ancora da Stockhausen,
quando affermerà che il destino dell’umanità sia di progredire per raggiunge-
re le vette dell’evoluzione e che quindi ogni difficoltà o incomprensione tem-
poranea siano dovute solo ad «una questione di crescita»26, di cui nessuno può
prevedere la lunghezza o la durata; Stockhausen tuttavia si dice sicuro che27
il cane impiegherà più tempo dell’uomo, ma un giorno o l’altro
riuscirà anche lui a percepire la Passione secondo Matteo.
La dissonanza quindi non è altro che il rapporto tra gli armonici più lon-
tani, ma, se fino a quel momento aveva rappresentato il «condimento»28 della
triade (a sua volta invece formata dagli armonici «più importanti»29 e vici-
ni alla fondamentale, e quindi più facili all’ascolto), adesso rivendica il suo
ruolo paritario all’interno di un nuovo linguaggio musicale, contro il quale
perciò non può essere mossa nessuna critica, in quanto «nei suoni, così come
30 Ibid.
31 Ibid., p. 28.
32 Ibid.
33 Arnold SCHOENBERG, Conferenza su Gustav Mahler, in Stile e pensiero, trad. it. di
Annamaria Morazzoni, Milano, Il Saggiatore 2008, p. 51.
34 Ibid.
Siamo quindi giunti alla terza conferenza, dove viene introdotto un ulterio-
re tema che verrà poi ampiamente portato avanti nelle cinque seguenti, attra-
verso un percorso sullo sviluppo del pensiero secondo le leggi musicali nella
storia, a partire dal gregoriano fino alla fine della tonalità; come si è già detto,
è obbiettivo di Webern dimostrare che la dodecafonia sia una evoluzione na-
turale all’interno della storia della musica e il compositore porterà numerosi
esempi di come la tecnica della variazione abbia costituito un elemento di
primaria importanza nell’opera dei grandi compositori.
Ma il punto focale del discorso, posto proprio in apertura, riguarda un
aspetto di grande importanza, e cioè il fatto che l’esposizione di un pensiero
musicale (ancora una volta Hanslick è all’orizzonte) deve essere formulato
sulla base di leggi valide, ma37
se devo esprimere qualcosa, subito si presenta la necessità di far-
mi capire. E questo posso farlo se mi esprimo il più chiaramente
possibile.
38 Ibid., p. 30.
39 Ibid.
40 Ibid.
41 Giovanni PIANA, Barlumi per una filosofia della musica, 2007, p. 323, consulta-
bile a questo indirizzo: http://filosofia.dipafilo.unimi.it/piana/index.php/filosofia-del-
la-musica/72-barlumi-per-una-filosofia-della-musica (ultimo accesso: 12/07/2015).
42 Ibid., p. 324.
43 Sempre nelle parole di Piana in Barlumi per una filosofia della musica, cit., p.
323.
44 Anton WEBERN, Il cammino verso la nuova musica, cit., p. 31.
45 Ibid.
46 Karlheinz STOCKHAUSEN, Intervista sul genio musicale, cit., p. 139.
47 Ibid., p. 143.
48 Ibid., p. 144.
49 Ibid., p. 132.
Eccoci arrivati dunque, sul finire della conferenza, al postulato che più di
ogni altro ha creato (e crea tuttora) la frattura tra la percezione musicale e l’i-
dea musicale stessa: «il nostro sistema dodecafonico si fonda su un continuo
ritorno dei dodici suoni: sul principio della ripetizione!»54. Sulla carta, tutto
funziona: la musica, in quanto linguaggio, ha bisogno di un’esposizione chia-
ra dell’idea, che solo la coerenza può garantirle, e la ripetizione, all’interno
di un linguaggio perfettamente coerente, basato sull’esperienza acquisita nei
secoli con le conquiste verticali (armonia) e orizzontali (contrappunto), ga-
Bisogna chiedersi se sia possibile avere allora una parole senza langue59:
Schoenberg era pronto a sostenere, in una nota esternazione, che da un mo-
mento all’altro si sarebbe aspettato di sentire fischiettare per strada una serie
dodecafonica, come conseguenza indiretta di una comprensione linguistica
che mette in parallelo la grammatica riconoscibile della dodecafonia con
quella del linguaggio parlato60, ma la storia è andata in un’altra direzione e
quella nuova langue che si sarebbe dovuta creare di fatto non è mai esistita
e, per quanto ne sappiamo, i cani non possono ancora ascoltare la Passione
secondo Matteo.
Se guardiamo ancora oltre, in cerca di possibili risposte alle domande che
55 Cfr. Anton WEBERN, Il cammino verso la nuova musica, cit., p. 92, dove nella set-
tima conferenza del ’32 Webern afferma che “non ha importanza se l’orecchio non
sempre può seguire lo svolgimento della serie”, ammettendo quindi l’ipotesi che la
ripetizione non sia sempre sinonimo di comprensibilità in assoluto.
56 Claude LÉVI–STRAUSS, Il crudo e il cotto, trad. it. a cura di A. Bonomi, Il Saggia-
tore, Milano 1966, p. 44.
57 Ibid.
58 Ibid., p. 43-44.
59 In riferimento alla differenza tra langue e parole introdotta dallo strutturalismo
linguistico di De Saussure.
60 Come arriva a concludere dopo una riflessione sui due saggi di Schoenberg st-
esso sulla Composizione con dodici note sempre Giovanni Piana in Barlumi per una
filosofia della musica cit., p 323.
66 Arnold SCHOENBERG, Composizione con dodici note [II], in Stile e pensiero, cit.,
p. 176, da cui traspare la consapevolezza di una maggiore difficoltà di comprensione
degli intervalli più dissonanti.
67 Anton WEBERN, Il cammino verso la nuova musica, cit., p. 17.
68 Non è questo il luogo per discutere il concetto di “naturalezza” in riferimento
all’ambito estetico, per il quale si rimanda alle interessanti riflessioni di Gerard GE-
NETTE, L’opera dell’arte, tomo II: La relazione estetica, a cura di Fernando Bollino,,
Bologna, Clueb 1998, p. 146 e segg.
69 Il compositore si schiererà poi dalla parte delle vittime, attribuendo la strage a
Lucifero, ma rimane, ad un livello concettuale più profondo, l’idea dell’arte come
prodotto naturale del genio umano, che questa tenda indistintamente “al bene” o “al
male”: arte ed etica sono dunque due sfere separate.
Dati i temi fin qui trattati, è singolare notare che fino a questo momento la
figura di Richard Wagner non sia ancora apparsa in maniera significativa nelle
parole di Webern, nonostante l’importanza che ricopre il Maestro germanico
nel cammino verso la Neue Musik. La ragione potrebbe essere duplice: da
una parte, nonostante il percorso seguito fin qui (che conduce alla scomparsa
dei modi maggiore e minore in favore di un nuovo «super-modo»70 proposto
da Schoenberg) sia stato ampiamente favorito da Wagner, potrebbe esserci
la volontà da parte dei compositori dodecafonici di nascondere parzialmente
l’importanza delle conquiste wagneriane, ancora una volta in ossequio alle
concezioni estetiche di Hanslick; dall’altra c’era forse la consapevolezza71 di
dover fare una scelta ed evitare quindi di dare peso al significato che le novità
armoniche ricoprono nell’opera d’arte totale wagneriana, dove la dissonanza
viene utilizzata a livello funzionale al dramma e mai come mera ricerca tec-
nica, che pare essere invece il fine ultimo, se non di Webern e Schoenberg,
almeno della generazione successiva votata alla serialità integrale e allo strut-
turalismo.
A supporto di questa tesi, secondo la quale il creatore del Ring utilizze-
rebbe a livello funzionale al dramma consonanze e dissonanze, vale la pena
ricordare quello che il critico musicale Teodoro Celli scrive riguardo alle in-
terpretazioni distorte di alcune parti del Gotterdammerung, dove i leitmotiven
vengono trasfigurati da Wagner nel più fitto e cromatico contrappunto per de-
scrivere insieme «barbarie e finezza raziocinante, nobiltà assolutamente finta
e malcelata ferocia»72 del meschino (e privo di valori) popolo dei Ghibicun-
ghi, che con l’inganno vorrà distruggere il vero valore della coppia Siegfried-
Brünnhilde; e, continua Celli,73
è da pagine come queste, torbide e malsane, che prenderanno poi
le mosse i sinfonisti tardo-romantici [secondo l’autore ancora pri-
ma della dodecafonia], scambiando per progresso e per evolu-
zione del linguaggio ciò che in Wagner è null’altro che adesione
geniale a un particolare ‘momento’ del suo dramma.
70 Ibid., p. 58.
71 Cfr. Anton WEBERN, Il cammino verso la nuova musica, cit., p. 79, dove traspare
in Webern la consapevolezza che in Wagner “l’armonia assume significati più vasti”,
senza che ciò gli impedisca comunque di preferire, giudicandolo più interessante per
i rapporti armonici, l’esempio brahmsiano.
72 Teodoro CELLI, L’anello del Nibelungo, Milano, Rusconi 1997, p. 219.
73 Ibid.
79 Ibid., p. 56.
80 Pierre BOULEZ, Schoenberg è morto, in Note di apprendistato, cit., p. 236.
81 Anton WEBERN, Il cammino verso la nuova musica, cit., p. 57.
82 Ibid., p. 59.
83 Arnold SCHOENBERG, Composizione con dodici note [II], in Stile e pensiero, cit.,
p. 201.
84 Ibid.
espressivo dell’opera, e non a caso arriva infine ad elogiare l’altro suo allievo
(finora grande escluso), Alban Berg, il quale fu il meno ortodosso dei tre: dice
Schoenberg che egli «mescolava brani o sezioni in una precisa tonalità con
altri non tonali»90, ma spiegava questo procedere,91
scusandosene, sostenendo che in qualità di compositore operisti-
co non poteva rinunciare al contrasto offerto dal cambiamento da
maggiore a minore per ragioni di espressione e di caratterizzazio-
ni drammatiche;
90 Arnold SCHOENBERG, Composizione con dodici note [II], in Stile e pensiero, cit.,
p. 201.
91 Ibid.
92 Ibid.
93 Lo scritto in cui Schoenberg esprime con maggior chiarezza posizioni vicine a
quelle di Hanslick è Il rapporto con il testo, in cui fra l’altro riporta una sua esperien-
za personale e asserisce di avere amato i Lieder di Schubert anche senza conoscerne
i testi: “Quando poi ebbi letto le poesie, constatai che non ne avevo tratto niente che
potesse servirmi per la comprensione dei Lieder, non essendo stato minimamente
indotto dai versi a modificare la mia idea e la mia comprensione del componimento
musicale. Mi accorsi al contrario che, pur senza conoscere i versi, avevo raggiunto il
contenuto, l’autentico contenuto, iim modo persino più profondo che se fossi rimasto
aderente alla superficie, e cioè al significato letterale delle parole” (cfr. Wassily KAN-
DINSKY, Franz MARC, Il cavaliere azzurro, trad. it. di Giuseppina Calzecchi Onesti,
SE, Milano 1988, pp. 55-65: p. 62).
ne) trasportate sui 12 toni fornisce quarantotto forme, «abbastanza per poter
scegliere!»94.
Ed ecco che, se per Webern con la dodecafonia95
siamo così giunti alla fine! Abbiamo conquistato una sempre più
larga comprensione del campo sonoro e una sempre più chiara
rappresentazione del pensiero,
1.3 Il fallimento
«È noto che un eccesso di ordine è senza interesse»97
(Pierre Boulez)
sizione contro ogni possibile scelta estetica e musicale diversa da quelle te-
orizzate e portate avanti dalla scuola di Darmstadt; ma è proprio Boulez, nel
1963, a rilasciare sorprendentemente una sorta di feedback negativo (almeno
nei risultati, se non nelle intenzioni, come vedremo) riguardo alle esperienze
maturate fino a quel momento:98
Quando abbiamo cominciato a generalizzare la serie a tutte le
componenti del fenomeno sonoro, ci siamo buttati a corpo morto
– a testa morta, piuttosto – nelle cifre… […] Del resto, a forza
di preorganizzare il materiale, di «precostringerlo» si era arrivati
all’assurdità totale…
102 Ibid.
103 Ibid., p. 199.
104 Ibid., pp. 199-200.
105 Ibid., p. 167.
106 Ibid.
107 Ibid.
108 Ibid.
109 Ibid.
tenza imbarazzante a essere semplici verso ciò che non dovrebbe presentare
problemi»128 oppure, addentrandosi ancor più nello specifico del problema
musicale ed estetico, quando arriva a domandarsi se129
in fin dei conti non vi sia una volontà deliberata di crearsi delle
difficoltà, sia per concedersi il piacere gratuito di superarle, sia
per avere una riserva di scuse in caso di fallimento.
136 Ibid.
137 Ibid., p. 192.
138 Ibid.
139 Ibid.
140 Ibid.
141 Pierre BOULEZ, Il paese fertile, cit., p. 173.
142 Ibid., p. 196.
147 Theodor WIESENGRUND ADORNO, Il fido maestro sostituto, trad. it. di Giacomo
MANZONI, Torino, Einaudi 1982, p. 43.
148 È importante sottolineare che è lo stesso Boulez a citare precedentemente il
tema della redenzione, chiamando in causa addirittura l’esempio più rappresentativo
di redenzione in musica, cioè il Parsifal wagneriano, quando accenna all’automuti-
lazione di Klingsor.
149 Da un articolo del 2013 con relativa intervista a Penderecki, a cura di Luca IA-
VARONE (Gli 80 anni di Penderecki, il grande compositore polacco tra avanguardia e
classicismo), consultabile a questo indirizzo: www.fanpage.it/gli-80-anni-di-pen-
derecki-il-grande-compositore-polacco-tra-avanguardia-e-classicismo-in-
tervista/ (ultimo accesso: 09/04/2014).
Daniele Bisi, Pag. 114
De Musica, 2015: XIX
derecki per cui «il tempo delle sperimentazioni è finito, perché avevamo già
scoperto tutto»161 non sembra essere tanto provocatoria, quanto piuttosto disil-
lusa e cosciente del punto di arrivo di un certo tipo di sperimentalismo: il pe-
riodo dell’avanguardia della musica occidentale, secondo Penderecki, dopo
aver vissuto una rapida nascita ed espansione negli anni Cinquanta (dove «in
ogni concerto, in ogni festival, si poteva ascoltare qualcosa di nuovo»162) ha
visto un altrettanto rapido declino e quindi la sua conclusione nei primi anni
del decennio successivo.
Ancora una volta, Penderecki prende posizione nei confronti dell’avan-
guardia stabilendo un parallelo con la storia, e indirettamente con la politica,
sostenendo che163
io non credo nella rivoluzione permanente, come avrebbe voluto Trot-
sky. Sapete cosa è successo a lui e alla rivoluzione. Ogni rivoluzione,
infatti, è seguita dalla sua contro-rivoluzione164.
161 Da un’intervista a cura di Philip ANSON a Montreal del 1 Aprile 1998, (Krzysztof
Penderecki talks about the Polish Requiem), in occasione di un concerto di pre-
sentazione del Requiem Polacco di Penderecki, con il compositore sul podio della
Montreal Symphony Orchestra, consultabile a questo indirizzo: www.scena.org/lsm/
sm3-6/sm36pene.htm (ultimo accesso: 10/04/2014).
162 Da un articolo con relativa intervista del 15 Marzo 2012, a cura di Federico
CAPITONI (La strana coppia. Penderecki incontra i Radiohead: Sono rock ma vicini
al mio stile), consultabile a questo indirizzo: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/
archivio/repubblica/2012/03/15/la-strana-coppia-penderecki-incontra-radiohead-so-
no.html (ultimo accesso: 09/04/2014).
163 Da un’intervista di Bruce DUFFIE a Chicago del Marzo 2000 (Composer Krzysz-
tof Penderecki in Conversation with Bruce Duffie), consultabile a questo indirizzo:
www.bruceduffie.com/penderecki.html (ultimo accesso: 09/04/2014).
164 Il concetto è ribadito più volte, anche a distanza di un decennio, come si legge
in un’intervista a cura di Igor RADETA (Interview with Krzysztof Penderecki), sulla
rivista «New Sound» n. 37, I/2011 (consultabile a questo indirizzo: http://www.new-
sound.org.rs/sr/pdfs/ns37/01%20Interview%20Radeta%2005-14.pdf; ultimo acces-
so: 10/04/2014), dove il compositore afferma che «loro pensano che l’avanguardia
possa esistere per sempre. Non è possibile. Perché quello che abbiamo fatto abbiamo
fatto, a quel tempo. Quella musica non può continuare»
165 Ibid.
C’è quindi un attacco diretto alla scuola di Darmstadt, che sembra avere
però ragioni molto radicate a livello estetico e musicale, considerato il fatto
che i rapporti diretti con Boulez non soffrivano di problematiche sensibili
per trasformare queste divergenze in attacchi personali: è proprio Penderecki
stesso infatti ad ammettere nel 1967 che, durante il suo periodo di apprendi-
stato, accanto all’opera di Bartok e Stravinsky era stato attratto dalla musica
di Pierre Boulez: «mi interessava e la studiavo con grande attenzione, anche
se la mia musica non ha nulla a che fare con la sua»172.
Considerando in ultima istanza tutti questi fattori, possiamo quindi rileg-
gere la frase su cui abbiamo cominciato ad interrogarci all’inizio del para-
grafo sotto una luce diversa e maggiormente chiarificatrice: Penderecki, af-
fermando che i suoi colleghi sono già tutti morti, vuole ribadire la posizione
molto forte che già quasi cinquant’anni prima aveva assunto nei confronti
dell’avanguardia, nella quale Boulez sembra non trovare posto (rimanendo
al di fuori della sua concezione estetica e poetica della musica) e con lui, di
conseguenza, tutte le scuole post-darmstadtiane.
A supporto di questa tesi, basta leggere infine come il compositore polacco
si esprime riguardo il panorama attuale della musica contemporanea: parten-
do ancora dal presupposto che «quelli della nostra generazione hanno portato
la musica così lontano che ora il progresso è difficile»173, la situazione dell’ar-
te oggi «sembra essere arrivata ad un punto morto, perché le idee e i materiali
sono stati già tutti sfruttati»174.
La conclusione cui perviene Penderecki suona come un monito per le nuo-
ve generazioni di compositori che riassume bene passato, presente e futuro
della musica colta contemporanea, vista da un musicista che l’hai vissuta in
Dal 1962 in poi, con la composizione dello Stabat Mater (per coro, che
sarà poi inserito nella Passione del 1964 ) inizia infatti da parte del com-
positore un lento ma rilevante recupero di elementi tradizionali, derivati sia
dall’antica polifonia rinascimentale, sia dal gregoriano, che vengono inglo-
bati all’interno della componente sonoristica: questo recupero del passato lo
condurrà, dalla metà degli anni Settanta (il Concerto per Violino, significativo
in questo senso, è del 1976), ad una ripresa e ad una riscoperta del «croma-
tismo post-wagneriano, con le sue linee melodiche espressive, il suoi sfoghi
lirici e i suoi drammatici climax»185.
In prima battuta, cercheremo di individuare quelle che sono le ragioni che
hanno portato Penderecki a cercare la sua personale via all’interno dell’avan-
guardia attraverso la sperimentazione sul suono. Al riguardo, il compositore
ha più volte ribadito la necessità di espandere le possibilità degli strumenti
tradizionali, in particolar modo degli archi186:
Il problema di tutti i compositori, non solo il mio, è che avevamo
a disposizione strumenti costruiti duecento o trecento anni fa. Lo
strumento più nuovo, in orchestra, è forse il saxofono, che ha più
di cento anni. Nel secolo delle grandi scoperte e della conquista
della Luna, dobbiamo ancora scrivere per strumenti molto vecchi,
da museo. […] Questo è il vero problema della seconda metà del
Sembra quindi essere stata questa la spinta principale che ha portato Pen-
derecki ad una approfondita ricerca sulle possibilità timbriche al di fuori delle
tecniche tradizionali degli strumenti - possibilità che hanno aperto la strada
all’aspetto sonoristico della sua fase avanguardistica. È da considerare rile-
vante, in quegli anni, anche un altro aspetto che conferiva al suono una rin-
novata e quanto mai influente capacità di attirare l’attenzione da parte dei
compositori, e cioè la diffusione sempre maggiore della musica elettronica.
Per quanto la situazione in Polonia fosse arretrata di qualche anno rispetto a
quella in Germania o in Italia187, è lo stesso Penderecki a sottolineare che188
era il tempo del rinnovamento del linguaggio musicale e della
scoperta della musica elettronica. Mentre scrivevo Threnody, la-
voravo contemporaneamente in uno studio di musica elettronica
in Polonia.
187 Lo studio per la musica elettronica di Colonia, dove lavorava Stockhausen, era
nato nel 1951, mentre lo studio di Fonologia di Milano cominciò la sua attività nel
1955.
188 Tratto da un’intervista di Kevin FILIPSKI a Penderecki (Krzysztof Penderecki
Interview), in occasione di un suo concerto tenuto a New York il 29 Aprile 2010 alla
guida della Yale’s Philarmonia Orchestra, consultabile a questo indirizzo: flipsid-
ereviews.blogspot.it/2010/04/krzysztof-penderecki-interview.html (ultimo accesso:
12-04-2014).
189 È proprio Penderecki, nella già citata intervista di Igor RADETA, ad usare questa
parola in riferimento all’elettronica e alle sue influenze sulla sua musica di questo
periodo.
I manifesti estetici del futurismo sono in realtà molto distanti dalla poetica
di Penderecki, specialmente per quello che riguarda il rapporto con la tradi-
zione, che viene vista, come si può dedurre anche dalla frase sopra citata, in
modo molto negativo, al contrario del compositore polacco, il quale dichiara
apertamente che «un lavoro artistico dev’essere doppiamente radicato: nella
terra e nell’aria. Nessuna creazione può arrivare senza radici».193 Il rapporto
con il futurismo appare quindi più debole rispetto al rapporto con le teorie
190 Ferruccio BUSONI, Abbozzo di una nuova estetica della musica, 1907, consulta-
bile all’indirizzo: http://www.rodoni.ch/busoni/estetica/estetica.html (ultimo acces-
so: 12-04-2014).
191 Ferruccio BUSONI, citato in Luca CONTI, Suoni di una terra incognita, Lucca,
Libreria Musicale Italiana 2005, p. 60.
192 Luigi RUSSOLO, L’arte dei rumori, 1913, consultabile all’indirizzo: http://www.
eclectic.it/russolo/artofnoises.pdf (ultimo accesso: 12-04-2014).
193 Krzysztof PENDERECKI, Labyrinth of Time, cit., p. 39.
A fargli eco ancora una volta in quegli anni (1962) è un altro pioniere
del suono, che ha basato le sue ricerche quasi esclusivamente sugli sviluppi
e le possibilità delle componenti acustiche in chiave avanguardistica, prima
198 Edgar VARÈSE, da una lettura svolta alla Yale University nel 1962 (The Elec-
tronic Medium), contenuto in Contemporary composers on contemporary music,
cit., p. 207.
199 Ibid.
200 Ibid., p. 196.
201 Bruce DUFFIE, Composer Krzysztof Penderecki in Conversation, cit.
202 György LIGETI, da un’intervista del 1968 a cura di Josef HÄUSLER (An Interview
with Josef Häusler), contenuta in Contemporary composers on contemporary music,
cit., p. 391.
scritti dopo queste esperienze, cioè Apparitions e Atmosphères «ci sono certi
suoni o trasformazioni sonore che non sarebbero potute esistere altrimenti»203,
e ciò nonostante il fatto che (sebbene all’ascolto si possano trovare delle simi-
litudini) il canone a 56 voci di Atmosphères ad esempio risulta radicalmente
diverso, sia come notazione sia come caratteristiche intrinseche dal linguag-
gio utilizzato (per ottenere quella sonorità), rispetto ai lavori di Penderecki
presi qui in esame. Siamo di fronte quindi a due modi diversi di ottenere un
effetto sonoristico, anche se hanno sullo sfondo lo stesso percorso formante e
ispiratore (l’elaborazione elettronica del suono).
Può sembrare forse una divagazione rispetto al periodo sonoristico di Pen-
derecki preso in esame, ma è invece di notevole interesse mettere in evidenza
che la ricerca nel campo del suono non si è mai fermata nel compositore po-
lacco, anche quando, negli anni successivi, il suo linguaggio e la sua poetica
sono sembrati intraprendere nuove vie.
Lui stesso dichiara quindi che, dopo essersi reso conto di aver204
fatto tutto quello che era possibile per gli strumenti antichi, pre-
ferisco cercare strumenti nuovi, piuttosto che scrivere per quelli
vecchi cose che non sono realmente nella natura dello strumento
stesso.
La ricerca sul suono appare quindi un work in progress anche nelle fasi
della maturità del compositore, quando i risultati delle ricerche dei decen-
ni precedenti vengono incamerate all’interno del nuovo linguaggio205, così
come l’introduzione (spesso di pari passo con l’ideazione) di nuovi strumenti
aumenta le possibilità timbriche sottoposte alla spinta dell’immaginazione
sonora, come afferma lui stesso a riguardo:206
In Seven Gates of Jerusalem, ho inventato un nuovo strumento, i
tubaphones. Sono canne, lunghe, di plastica. Volevo una percus-
sione intonata profonda, ma non esisteva, così ho dovuto inven-
tarla […] Se sto immaginando un suono che non posso produrre
perché non esistono gli strumenti per farlo, allora devo inventare
203 Ibid.
204 Bruce DUFFIE, Composer Krzysztof Penderecki in Conversation, cit.
205 Sempre nell’intervista citata a cura di Galina ZHUKOVA, Penderecki sottolinea
l’utilizzo delle tecniche degli anni ’60 anche nel brano Violoncello totale, scritto nel
2011, proprio in occasione della XIV “International Tchaikovsky Competition”.
206 Bruce DUFFIE, Composer Krzysztof Penderecki in Conversation, cit.
quegli strumenti.
Nella parte più recente della sua carriera, Penderecki arriva infine a defini-
re la sua poetica mediante un concetto importantissimo, cioè quello di sintesi
- una sintesi che però sembra andare molto oltre il solo significato tecnico,
come di primo acchito si sarebbe portati a pensare. Come lo stesso composi-
tore afferma, “sintesi” non equivale a “eclettismo”, come qualche critico ha
sostenuto, ma proprio al contrario: infatti207
la sintesi non può dipendere dalla meccanica connessione di ele-
menti diversi, bensì deve essere una lega omogenea risultante da
un’esperienza unificatrice.
Regole e norme come risultato a posteriori dell’opera dei maestri del pas-
sato, non come imposizioni preliminari, di cui dodecafonia e serialità integra-
le appaiono inconfutabilmente come esempi: le posizioni estetiche dei due
compositori, che anche se in anni diversi si sono battuti insieme per spostare
verso il futuro le frontiere della musica, si incontrano laddove si vanno ad
intrecciare la musica come mezzo di espressione e il recupero di una sponta-
neità e di una naturalezza perdute.
Possiamo chiudere l’analisi sulla poetica di Penderecki citando una sua
ultima affermazione, nelle cui poche righe sembra essere racchiuso il bilan-
cio di una vita artistica che ha visto passare Penderecki dall’avanguardia al
recupero della tradizione, fino ad arrivare ad una fusione di entrambe, come
risultato finale ma non definitvo, perché la ricerca del linguaggio universale
non può certo trovare una facile conclusione:211
Dopo essere passato attraverso la lezione del tardo romanticismo, e
aver utilizzato le possibilità del pensiero post-modernista, ho realizzato
che molto può essere detto sottovoce.
210 Edgar VARÈSE, da una lettura svolta alla Mary Austin House nel 1936 (New
Instruments and New Music), in Contemporary composers on contemporary music,
cit., p. 196.
211 Krzysztof PENDERECKI, Labyrinth of Time, cit., p. 18.
è scritto per 48 archi che si potrebbero definire soli, nel senso che, nonostante
le sezioni (24 violini, 8 viole, 8 violoncelli e 8 contrabbassi) suonino spes-
so insieme, ognuno dei singoli strumenti esegue la propria parte, diversa da
quella di ogni altro strumento (sia pure di un solo quarto di tono).
Quello che ha reso il brano molto celebre, al di là delle ricerche portate
Sembra esserci quindi una grande differenza, secondo Penderecki, tra l’u-
tilizzo di un accordo tonale e il recupero della tonalità: l’accordo di Do mag-
giore infatti risulta essere completamente decontestualizzato e defunzionaliz-
zato, assumendo quindi un significato che va oltre l’armonia tradizionale, ma
che è inserito in un ambito estetico e poetico che punta a liberarsi dalla paura
di utilizzare materiale del passato, se questo è necessario per scrivere musica
convincente. È interessante anche ciò che emerge fra le righe dall’utilizzo
della parola “correttivo” in riferimento all’utilizzo quasi vincolante, in quegli
anni, del totale cromatico: la posizione dell’autore è chiaramente polemica nei
confronti di un’avanguardia che sembra nutrire timore verso qualsiasi remini-
scenza del passato, come gli accordi tradizionali, anche se questi sono privati
della loro funzione armonica e sono utilizzati, come nel caso di Polymorphia,
come un materiale sonoro (consonante), con funzione dialettica di contrasto
rispetto al materiale sonoro (dissonante) sentito fino a quel momento. Nessun
recupero tonale, quindi, come ribadirà lo stesso Penderecki anche dieci anni
dopo, sottolineando che i riflessi sull’ambiente musicale di quel Do maggiore
erano (e forse sono) ancora ben visibili:224
quell’accordo era il seme da cui germogliava tutta la composi-
zione. Questo utilizzo del più semplice elemento dell’armonia
tradizionale non ha niente a che fare con la tonalità, ma il ruolo
che occupa è quello di sottolineare l’interazione tra tensione e
distensione.
una linea continua che attraversa il pentagramma nel tempo, con un disegno
che è replicato anche in questo caso a canone, con l’ingresso progressivo
delle voci: è possibile individuare due linee diverse, una per le 8 viole e una
per i 12 violini che entrano a (13). La curva melodica, che presenta anche un
andamento periodico di 3,5 secondi nella linea delle viole e di 2 secondi in
quella dei violini, è ricavata da Penderecki direttamente dall’encefalogramma
dei pazienti dell’ospedale di Cracovia, tracciato durante l’ascolto di un’altra
composizione di Penderecki stesso, per la precisione proprio di Threnody.226
Relativamente a questo punto si possono fare due osservazioni. La prima
riguarda l’analogia tra la notazione sismografica immaginata da Varèse227 e
questo passaggio della partitura, dove sembra che Penderecki metta in atto
quello che il compositore francese aveva immaginato un quarto di secolo pri-
ma. La seconda invece riguarda ancora una volta la contrapposizione rispetto
alla posizione di Boulez, cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente:
qui Penderecki dimostra che il grafismo può essere funzionale alla musica, se
il suo utilizzo viene portato avanti in un’ottica diversa dalla pura speculazione
astratta, tendendo invece ad un significato musicale (ma non solo) che porta
questo passaggio ad apparire, ancora a più di cinquant’anni dalla sua ideazio-
ne, assolutamente convincente.
Abbiamo visto quindi come il diagramma della tensione di A sia facil-
mente rappresentabile con una linea retta costantemente inclinata in direzione
ascendente, in analogia con la tensione crescente dell’equivalente sezione A
della forma sonata.
Analizzando B possiamo constatare, come abbiamo già accennato, che
questo utilizzi un materiale contrastante rispetto ad A (basato appunto su ele-
menti ritmici e percussivi) e presenti anche a livello di tensioni una differenza
notevole: è infatti individuabile al suo interno un’evidente suddivisione tri-
partita, e ciascuna delle tre distinte sottosezioni contiene al suo interno una
direzione ascendente verso un culmine locale (sempre crescente di intensità
tra una sottosezione e la successiva) con relativa conclusione in sospensione.
Non è riscontrabile quindi in B una unica direzione tensiva, bensì un curva
che sale e scende per tre volte nel tempo.
226 Ronen GIVONY, Waves and Radiation, dal booklet del CD Krzysztof Penderecky
/ Jonny Greenwood, New York, Nonesuch Records 2012.
227 Cfr. par. 2.3.
230 Edgar VARÈSE, New Instruments and New Music, in Contemporary composers,
cit., p. 197.
231 Giovanni PIANA, Filosofia della musica, 1991, pag. 209, consultabile a questo
indirizzo: http://www.filosofia.unimi.it/~giovannipiana/filosofia_della_musica/pdf/
filosofiadellamusica.pdf (ultimo accesso: 30/07/2015).
232 Giovanni PIANA, Barlumi per una filosofia della musica cit., pag. 71.
233 Ibid.
234 Ibid.
235 Ibid., pag. 72.
236 Ibid.
237 Ibid.
238 Ibid., pag. 74.
239 Ibid., pag. 72.
delle due sezioni formali estreme del brano, sia quando Penderecki fa glissare
aleatoriamente in senso ascendente e discendente intere sezioni di archi all’in-
terno di un range di altezze prestabilite, come i contrabbassi a (6) o i violon-
celli a (7), creando quindi uno spazio sonoro con limiti predeterminati ma che
al suo interno contiene un numero potenzialemente infinito di combinazioni
verticali di note-nodi ad altezze indefinite che scorrono nel tempo, sia quando
come nelle viole e nei violini a (11) e (13) le altezze delle fluttuazioni dei
suoni glissati, pur rimanendo indeterminate, hanno un andamento organizzato
e segnato secondo il già citato uso dei grafici ottenuti dagli encefalogrammi
Daniele Bisi, Pag. 154
De Musica, 2015: XIX
246 L’analogia del procedimento, anche se con contrasto ed esiti molto differenti tra
i due brani, è messa in luce anche dal fatto che entrambi concludono in un range di
due ottave, da Do a Do (anche se il range di Threnody , da Do2 a Do4, si trova un’ot-
tava sopra a quello di Polymorphia, che copre lo spazio vericale tra Do1 e Do3).
247 Da una recensione apparsa il 18 Marzo 2012 su «The Observer» a cura di Ste-
phen PRITCHARD (Krzysztof Penderecki/ Jonny Greenwood), consultabile a questo in-
dirizzo: http://www.theguardian.com/music/2012/mar/18/penderecki-green-
wood-threnody-popcorn-review (ultimo accesso: 12/04/2014).
248 In un primo momento, Ligeti non aveva permesso che le sue musiche fossero
inserite in 2001: Odissea nello spazio.
249 Altre composizioni di Ligeti sono state usate come colonna sonora sempre da
Kubrick, come Lontano in Shining, del 1980, e Musica ricercata No. II in Wide eyes
shut, del 1999.
250 Il riferimento qui è all’aggettivo utilizzato proprio in questo contesto da
Theodor Wiesengrund ADORNO, nella sua opera Il fido maestro sostituto, cit.
251 Consultabile a questo indirizzo: http://www.imdb.com/name/nm0671678/
recki, si può notare come l’attività del compositore polacco nel campo della
musica associata alle immagini inizi nel 1961, per alcuni cortometraggi del
suo paese d’origine, per continuare fino ad oggi, in apparizioni sempre più
importanti all’interno di film conosciuti a livello internazionale. Il primo film
di successo mondiale in cui appare il suo nome è L’esorcista di William Fri-
edkin, uscito nel 1973, dove compaiono tra gli altri Kanon, Polymorphia e
The devils of Loudon (1969): questi brani, due dei quali appartenenti alla fase
sonoristica della sua produzione. sembrano infatti il commento sonoro per-
fetto per il film “più terrorizzante di sempre”, come venne definito all’epoca
della sua uscita.
Penderecki dunque ha sempre accolto le opportunità che venivano offerte
alla sua musica di poter uscire dall’ambiente in cui era nata, permettendole di
raggiungere il grande pubblico; è interessante notare però che lui stesso abbia
più volte sottolineato la differenza tra comporre per il cinema e autorizzare i
registi ad utilizzare le proprie musiche, come si può evincere dalle sue stesse
parole252:
Ho scritto musica per film agli albori della mia carriera negli anni
’50 e ‘60 (come per The Saragossa Manuscript e Je t’aime, Je
t’aime). Decisi però che era molto pericoloso per un cosiddetto
compositore colto, perché è molto facile guadagnare molti soldi
[sic], ma ritornare a comporre musica colta sarà molto più diffici-
le, dopo. Ho permesso però a bravi registi come Stanley Kubrick
e David Lynch di usare la mia musica per i loro film.
254 Come egli stesso dichiara nell’intervista di Kevin FILIPSKI citata: «Ancora più
importante per me è il recente film di Andrzej Wajda, Katyn, che usa tantissima mia
musica.»
Quello che traspare dal giudizio personale espresso dal compositore polac-
co nei confronti del chitarrista inglese è una rilevante apertura culturale non
255 Ibid.
256 Federico CAPITONI, La strana coppia, cit.
solo verso le musiche altre, nonostante lui stesso ammetta che siano generi
musicali che non frequenta abitualmente, ma anche nel tracciare un paralleli-
smo tra il suo modo di fare musica e quello di una band rock.
Il CD in questione, intitolato semplicemente Krzysztof Penderecki / Jonny
Greenwood, contiene una tracklist abbastanza inconsueta: si tratta dei due
brani che abbiamo precedentemente analizzato, Threnody e Polymorphia, af-
fiancati da altrettanti brani scritti ex novo da Greenwood e che traggono ispi-
razione proprio da quelli di Penderecki, intitolati Popcorn Superhet Receiver
(2005) e 48 Responses to Polymorphia (2011), entrambi con lo stesso organi-
co dei rispettivi modelli, e cioè orchestra d’archi (34 archi soli in Popcorn e
48 nelle Responses, registrati dalla Ausko Orchestra con Penderecki sul podio
per i suoi stessi brani, e da Marek Mos per quelli di Greenwood).
Le ragioni alla base di questa tracklist sono riportate nel racconto dell’in-
contro tra i due musicisti257:
Greenwood si è detto ispirato dalla mia musica degli anni Sessan-
ta e voleva organizzare un concerto con me. È venuto a Cracovia
e abbiamo parlato a lungo: lui però conosceva alla fine soltanto
Threnody. Gli ho fatto ascoltare Polymorphia ed è rimasto così af-
fascinato che ha deciso di scrivere le Responses to Polymorphia.
257 Ibid.
258 Da un articolo del «New York Times» del 9 Marzo 2012 a cura di Alex PAP-
PADEMAS(Radiohead’s Runaway Guitarist), consultabile all’indirizzo: http://www.
nytimes.com/2012/03/11/magazine/jonny-greenwood-radioheads-run-
away-guitarist.html?_r=0 (ultimo accesso: 13/04/2014).
Daniele Bisi, Pag. 161
De Musica, 2015: XIX
Greenwood è dunque colpito dal fatto che i suoni che provengono da un’or-
chestra d’archi sembrino in realtà uscire da altoparlanti, come se non fosse
possibile attribuire quella sonorità, ancora dopo decenni dalla composizione
del brano, al solo suono acustico degli archi. Per capire qual è la sua posizio-
ne nei confronti della musica elettronica, anche in relazione alla musica che
potremmo definire acustica (ad indicare che non ci sono interventi di mani-
polazione di sorta, ma senza usare un termine come tradizionale, che male si
accosterebbe a brani avanguardistici come quelli che stiamo considerando);
riportiamo una sua dichiarazione, nella quale il chitarrista ammette259:
Sono preoccupato di essere solo un parruccone [sic] e di scrivere
solo per orchestra. Sento che in realtà dovrei fare roba più elet-
tronica. Per esempio computers come parte dell’orchestra, instal-
lazioni sonore, altoparlanti. [...] Credo fortemente che si debbano
utilizzare tutte le tecnologie a disposizione al giorno d’oggi. An-
che se, quando si tratta di musica orchestrale, ogni volta che vado
ad un concerto con orchestra ed archi e vedo che in sala ci sono
degli altoparlanti, il mio cuore accusa sempre il colpo, e penso
che ci stiamo abbassando alle idee di qualche tecnico del suono,
idee come quella di attaccare microfoni ai violini. Sono un puri-
sta, credo – io voglio solo essere il più vicino possibile al suono
reale degli strumenti, e non avere niente [di elettronico] che si
interponga tra me ed esso.
259 Ibid.
260 Maggiori dettagli su questo brano e l’utilizzo al suo interno delle Onde Martenot
sono disponibili in un articolo di Debora FRANCIONE (How to disappear completely:
l’enigma nella musica dei Radiohead), consultabile a questo indirizzo: http://www.
elapsus.it/home1/index.php/musica/generi-musicali/442-how-to-disappear-com-
pletely-lenigma-nella-musica-dei-radiohead (ultimo accesso: 14/04/2014).
nici nei due brani in risposta alle composizioni di Penderecki presenti nel CD:
l’obbiettivo di Greenwood è quello di dar vita a una sua particolare visione
del sonorismo, in rapporto ai classici di quello stile, partendo dalle stesse pos-
sibilità a disposizione (cioè la sola orchestra acustica), nonostante lui stesso
sia a favore della contaminazione tra il suono acustico e quello elettronico.
La ragione ultima sembra risiedere proprio nella sua ammirazione sincera
per Threnody e Polymorphia, davanti alle quali rimane quasi stupito per il
“miracolo” di poter ottenere quelle sonorità dai soli archi, come tiene a sotto-
lineare ulteriormente261:
Le sue composizioni creano suoni meravigliosi. Ed è una bellissima
esperienza ascoltarle dal vivo. Fra tutti i compositori la cui musica
soffre nell’essere registrata e riprodotta, Penderecki è uno dei casi più
eclatanti. Molte persone possono pensare che la sua musica sia stridente
e dissonante, o dolorosa per le orecchie . Ma a causa della comples-
sità di quello che accade – in particolare in pezzi come Threnody e
Polymorphia - e di come i suoni si riflettono sulle pareti della sala da
concerto, diventa un’esperienza indimenticabile quando sei lì. Non è
come ascoltare un feedback, e non è dissonante. È qualcos’altro. È la
celebrazione di tante persone che fanno musica insieme, ed è come se
stessi dicendo “wow, posso vederlo accadere”.
Greenwood, anche in relazione ai suoi stessi brani, dato che come abbiamo
visto, quelli di Greenwood vogliono esserne un omaggio e allo stesso tempo
una risposta262:
Niente di quello che ha fatto Jonny è una copia del mio lavoro.
Anche la notazione è differente dalla mia. Ha fatto cose che io
non avevo fatto, andando in direzioni differenti, pur utilizzando
alcuni elementi della mia musica. È molto dotato. Mi piace molto
la sua musica.
invece una vera e propria riproposizione testuale dei primi due moduli, segui-
ti, dopo una brevissima pausa, da un modulo che ripropone i clusters in modo
però molto frammentario e che, dopo un’altra brevissima pausa, lascia spazio
a 7’51’’ all’ultimo modulo che dura fino alla fine della prima parte, dove tro-
viamo un crescendo di glissati che conduce senza soluzione di continuità alla
parte successiva.
Divisa in due sottosezioni (2A e 2B, rispettivamente di 50’’ e 1’53’’), la se-
conda parte ha un carattere prevalentemente percussivo e quindi contrastante
con la prima: la parte 2A funge da introduzione alla vera e propria sezione
percussiva (la 2B) ed è formata da un’unica grande arcata discendente che
parte da un unisono statico, che viene portato verso il grave attraverso una
progressiva discesa mossa internamente da rapidissimi tremolati; la seconda
si presenta invece molto omogenea ed è costituita da un ostinato di carattere
percussivo su cui si inseriscono sporadicamente elementi melodici, distinti
dal substrato sottostante. La parte 2 non presenta modifiche sostanziali del
livello di tensione né un punto culminante definito, e la sua omogeneità si
traduce in un carattere sospensivo, anch’esso contrastante con la parte 1, dove
invece erano presenti tensioni e distensioni dalla direzione ben determinata
(eccetto chiaramente nelle parti dove il materiale appariva più frammentato).
La terza ed ultima parte, della durata di 2’22’’, inizia riproponendo inte-
gralmente la sezione da 6’ a 7’50’’ della parte 1 (e di conseguenza i primi due
moduli da 40’’, dato che erano ripresi al suo interno); i restanti 30’’ conclusivi
non sono che un prolungamento di questa parte, dove però il carattere disten-
sivo che ci si potrebbe aspettare non è presente: l’impressione è più quella
di un’interruzione, come se Greenwood decidesse ad un certo punto di fare
finire il pezzo, come se il ricevitore di onde RF e AF (il cui nome dà il titolo
al pezzo) venisse spento dal compositore stesso.
48 Responses To Polymorphia doveva, in origine, essere formato da qua-
rantotto brevi pezzi, ognuno con l’accordo di Do maggiore che chiude il bra-
no di Penderecki come incipit263, per poi svilupparlo in maniera differente; la
scelta iniziale però è decaduta, in favore di soli 9 pezzi, di durata variabile
tra meno di 30’’ e 4’12’’, e il 48 è rimasto come numero di archi, seguendo lo
orme dell’organico originale.
Three Oak Leaves (1’25’’) è l’unico brano dei 9 di cui abbiamo a disposi-
zione la partitura, seppure incompleta: si tratta di tre pagine, ognuna con una
diversa foglia di quercia disegnata in viola e sovrapposta ad un pentagramma
su un foglio a quadretti; ogni foglio riporta una durata di 25’’ e tra uno e l’al-
tro si trova una breve pausa. Gli strumenti partono all’unisono dal Do centra-
le per poi diramarsi, seguendo i bordi della foglia stessa, in un accordo sem-
pre più complesso e distribuito nello spazio, che si traduce con la proiezione
delle altezze verso l’acuto e verso il grave, mentre le dinamiche diminuiscono
fino al silenzio. L’aspetto grafico qui rimanda direttamente a Penderecki, an-
che se è molto diverso nella notazione stessa, ed è lo stesso Greenwood a
confermare il tributo al compositore polacco, non senza un punta di ironia,
sintomo che tra i due c’è un rapporto più profondo, che va al di là della sem-
plice collaborazione professionale: «È un po’ come averlo sviolinato [sic],
perché è ossessionato dagli alberi. Ha un suo arboretum».264 La forma è quin-
di circolare, con le tre sezioni che si susseguono una dopo l’altra.
Scan (0’28’’) è il pezzo più breve di tutti e consiste di una sola arcata
formale, che partendo ancora dal Do maggiore si intensifica, aumentando di
polveri (il brano inizia appunto con un effetto che richiama un campanello di
casa che suona, all’arrivo del venditore). Lo spessore tecnico-culturale dell’o-
perazione è di indiscusso valore, date le grandi capacità e intuizioni musicali
di Zappa e le capacità virtuosistiche dell’Ensemble, normalmente abituato ad
eseguire brani del repertorio della musica colta contemporanea. Quello che
però manca al progetto, se lo paragoniamo con la collaborazione tra Pendere-
cki e Greenwood, è un reale confronto tra i due musicisti in questione: se Pen-
derecki, come abbiamo visto, si è espresso in termini quasi entusiastici circa
il lavoro di Greenwood, e quest’ultimo, prendendo ispirazione dalla musica
del compositore polacco e contaminando le proprie esperienze con quelle di
Penderecki stesso, ha cercato di assimilare un linguaggio di mezzo secolo pri-
ma per scrivere musica che fosse comunque sua e attualissima, questo sembra
mancare nella collaborazione tra Boulez e Zappa. Dalle parole del composito-
re francese, proprio riguardo all’incontro che ha portato alla creazione di The
Perfect Stranger, si può cogliere tra le righe che la posizione stessa di Boulez
è molto differente da quella che abbiamo precedentemente osservato a pro-
posito di Penderecki, in relazione alla sua collaborazione con Greenwood271:
Zappa usciva dai ranghi [della musica rock] perché rifiutava di
lasciarsi rinchiudere all’interno, ed evitava le logiche commercia-
li. Provocatorio e tendente a sinistra, odiava il mercato in cui la
musica rock si comprometteva. È stato un piacere per me aiutarlo
a raggiungere questo obbiettivo, lavorando con lui sul materiale
musicale, sulla forma e sulla mobilità del linguaggio.
271 Questo passo, estrapolato da un’intervista a Pierre BOULEZ del magazine fran-
cese «Diapason» del settembre 2010, è consultabile a questo indirizzo: http://forums.
stevehoffman.tv/threads/pierre-boulez-talks-about-frank-zappa-in-a-recent-inter-
view.231549/ (ultimo accesso: 12/04/2014).
co non è il miglior modo per attuare un reale scambio culturale tra mondi di-
versi. È altrettanto chiaro il giudizio negativo che Boulez esprime sul mondo
del rock: tralasciando gli aspetti commerciali, è evidente che c’è un alone di
sufficienza nel modo in cui il rock è giudicato. Questa operazione ha il ca-
rattere più di un esperimento che di una reale collaborazione, e in ogni caso
la poetica di Boulez non mostra, né ha mostrato successivamente all’esperi-
mento stesso, alcun interesse per una contaminazione con le musiche altre,
né tantomeno alcuna apertura verso un mondo diverso, musicale o culturale
in senso lato che sia, estraneo a quello ermetico di Darmstadt e delle scuole
post-darmstadtiane.
Krzysztof Penderecki / Jonny Greenwood rimane quindi un esempio unico
nel suo genere, capace di mostrare come due mondi anche lontanissimi pos-
sano essere perfettamente integrabili e portare a grandi risultati, se è presente
alla base un comune denominatore: per citare di nuovo Penderecki, se è pre-
sente un significato della musica.
281 William WEBER, The rise of the classical repertoire in Nineteenth-Century or-
chestral concerts, in Alex ROSS, Il resto è rumore, cit., p. 73).
282 Sempre nell’incontro con la stampa a Firenze citato, Penderecki stesso prende
atto di questa reviviscenza: “Threnody era famosa nel momento in cui uscì, forse an-
che per il titolo che portava, ma poi ci fu una pausa: e adesso invece sta ritornando”.
Bibliografia
Philip ANSON, Krzysztof Penderecki talks about the Polish Requiem, consul-
tabile a questo indirizzo: www.scena.org/lsm/sm3-6/sm36pene.htm (ultimo
accesso: 10/04/2014).
Anna e Zbigniew BARAN, Passio artis et vitae, in «Dekada Literacka», 11-12,
1992.
Mike Barnes, Krzysztof Penderecki and AUKSO Chamber Orchestra (pro-
gramma di sala), consultabile a questo indirizzo: http://www.barbican.org.uk/
media/upload/music/0Penderecki%20freesheet%20HR.pdf (ultimo accesso:
12-04-2014).
Pierre BOULEZ, Il paese fertile, trad. it. di Guillemette Denis, Milano, Leonar-
do 1990.
Pierre Boulez, Interview, in «Diapason», 09, 2010, estratti consultabili a
questo indirizzo: http://forums.stevehoffman.tv/threads/pierre-boulez-talks-
about-frank-zappa-in-a-recent-interview.231549 (ultimo accesso: 12-04-
2014).
Pierre BOULEZ, Pensare la musica oggi, trad. it. di L. Bonino Savarino, Tori-
no, Einaudi 1979.
283 Arnold SCHOENBERG, citato in Alex ROSS, Il resto è rumore, cit., p. 98.
index.php/musica/generi-musicali/442-how-to-disappear-completely-lenig-
ma-nella-musica-dei-radiohead (ultimo accesso: 14/04/2014).
Enrico FUBINI, Estetica della musica, Bologna, Il Mulino 1995, pag. 21.
Gerard GENETTE, L’opera dell’arte, tomo II: La relazione estetica, a cura di
Fernando Bollino, Clueb, Bologna 1998.
Peter GENTLE, Michał KUBICKI, Penderecki album collaboration with Ra-
diohead guitarist released, consultabile all’indirizzo: www.thenews.pl/1/11/
Artykul/93001,Penderecki-album-collaboration-with-Radiohead-guitarist-
released (ultimo accesso: 17/04/2014).
Ronen GIVONY, Waves and Radiation, dal booklet del CD «Krzysztof Pende-
recky / Jonny Greenwood», New York, Nonesuch Records 2012.
Eduard HANSLICK, Il Bello musicale, a cura di L. Distaso, Palermo, Aesthetica
2001.
E.T.A. HOFFMANN, La musica strumentale di Beethoven, in Kreisleriana, trad.
it. di R. Pisaneschi, Milano Rizzoli, 2002.
Luca IAVARONE, Gli 80 anni di Pendercki, il grande compositore polacco tra
avanguardia e classicismo, consultabile a questo indirizzo: www.fanpage.
it/gli-80-anni-di-penderecki-il-grande-compositore-polacco-tra-avanguar-
dia-e-classicismo-intervista/(ultimo accesso: 09/04/2014).
Wassily KANDINSKY, Franz MARC, Il cavaliere azzurro, trad. it. di Giuseppina
Calzecchi Onesti, Milano, SE 1988.
Paul KLEE, Teoria della forma e della figurazione, 2 voll., trad. it. a cura di M.
Barison e C. Mainoldi, Milano, Mimesis 2009-2011.
Claude LÉVI–STRAUSS, Il crudo e il cotto, trad. it. a cura di A. Bonomi, Il Sag-
giatore, Milano 1966.
György LIGETI, An interview with Josef Häusler, in Contemporary composers
on contemporary music, a cura di Elliot Schwartz, Barney Childs e Jim Fox,
New York, Da capo Press 1998.
Danuta MIRKA, The Sonoristic structuralism of Krzysztof Penderecki, Ka-
towice, Music Academy in Katowice 1997.
Peggy MONASTRA, Krzysztof Penderecki’s Polymorphia and Fluorescences,
dal Moldenhauer Archives at the Library of Congress, consultabile a questo
indirizzo: http://memory.loc.gov/ammem/collections/moldenhauer/2428143.
pdf (ultimo accesso: 07/04/2014).