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Aristotele La Poetica

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MIMESIS, HAMARTΊA E KATHARSIS

Un resoconto della Poetica di Aristotele1

Yulius Fery Kurniawan

Aristotele definisce la poesia come un mezzo di mimesi, attraverso il linguaggio, il


ritmo e l’armonia, per la purificazione dalle passioni (catarsi). L’attrazione
dell’uomo per la poetica deriva dalla sua natura di essere vivente che si accresce
attraverso l’imitazione. Nella Poetica, Aristotele si concentra in particolare sulla
tragedia, che utilizza la forma drammatica, piuttosto che quella narrativa, per
raccontare l’eroe tragico i cui caratteri sono migliori di noi. Questo resoconto si
concentra sulla Poetica di Aristotele che dividiamo in diversi temi principali,
ovvero: (1) gli aspetti generali dell’opera d’arte, (2-5) il compito e la definizione
della tragedia e (6-7) la superiorità della tragedia sull’epopea.

1) I tre aspetti dell’opera d’arte2

Le opere d’arte differiscono l’una dall’altra per tre aspetti cioè in (1)
imitazione o in materiali diversi, (2) in oggetto diverso e (3) in maniera diversa. 3
Riguardo ai materiali diversi, come primo aspetto, alcuni imitano molte cose
rappresentandole con i colori e con le figure, mentre altri per mezzo della voce. Per
le seconde, le arti producono l’imitazione nel ritmo, nel discorso e nell’armonia
presi separamente o mescolati assieme. Per esempio, dell’armonia e del ritmo (da
soli) si avvalgono le musiche strumentali; del ritmo, l’arte dei danzatori; del ritmo e

1
ARISTOTELE, Poetica, a cura di Domenico Pesce, Bompiani, Milano 2021.
2
Nella Poetica, l’arte (τέχνη: téchne) usata nell’accezione moderna, per indicare gli oggetti
artistici: la pittura, la scultura, la musica e le arti sceniche; ma occore ricordare che, per Aristotele,
il termine ha un’estensione più vasta, che indica ogni fare dell’uomo collegato alla pro-duzione.
Nell’ultimo senso, la poesia è un’arte in quanto implica un processo razionale di produzione e di
applicazione pratica. Cfr. D. PESCE, Parole chiave, in ARISTOTELE, Poetica, p. 197.
3
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 1-3, p. 53-59.

1
del discorso, l’epopea; tutti dei tre, la tragedia, la commedia e il ditirambo 4 e l’arte
dei nomi; del discorso (da solo), l’arte cosiddetta oggi, quella priva di un nome o la
prosa, a differenza di quello poetico formato di discorso e di ritmo.

Il secondo aspetto per cui si fa distinzione è l’arte d’imitazione, che ha come


oggetto gli uomini che agiscono5. Queste sono persone o migliori dell’ordinario o
peggiori o simili a noi. Per esempio, nel regno dei pittori, Polignoto rappresenta gli
uomini migliori; Pausone, peggiori; Dionisio, simili. Nel regno delle opere in prosa,
Omero imita uomini migliori; Cleofonte, simili; Egemone di Taso, peggiori. La
stessa differenza vale tra la tragedia che tende ad imitare persone migliori e la
commedia, che imita quelle peggiori.

Il terzo aspetto è la maniera in cui ogni oggetto si può imitare. A tale


riguardo è possibile imitare con gli stessi materiali gli stessi oggetti, a volte
narrando, oppure diventando un altro, come fa Omero, o anche restando se stesso
senza mutare; altre volte gli autori imitano persone che agiscono e operano.

2) Imitazione, catarsi e tragedia

Per Aristotele, sono le due cause naturali che hanno dato origine all’arte
poetica: 1) l’istinto d’imitazione, connaturato negli uomini da bambini, attraverso il
quale si procacciano i primi insegnamenti e 2) tutti si rallegrano delle cose imitate. 6
Aristotele lo prova nei fatti di esperienza umana. Le cose che vediamo con disgusto
le guardiamo con piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza. Oltre
a tale fatto, l’apprendere riesce piacevolissimo non soltanto ai filosofi ma anche agli
uomini in generale, per quanto poco ne possano fare. Come l’imitare conforme a
natura, cosi pure nell’armonia e nel ritmo, la poesia ha origine da istinto naturale a

4
D. PESCE, Parole chiave, in ARISTOTELE, Poetica, 198: «Si tratta di un canto corale non tragico in
onore di Dionisio, dal quale avrebbe avuto origine la tragedia greca».
5
D. PESCE, Parole chiave, in ARISTOTELE, Poetica, 199: «Imitazione (μίμησις: mimesis), dal punto
di vista poetico, per Aristotele, si tratta della creazione artistica, che è una ri-creazione del reale
secondo le leggi della possibilità e della verosimiglianza [...] Già Platone aveva sostenuto che l’arte
è imitazione, dando però a questo termine connotati negativi».
6
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 4, 1448b5-10, 59.

2
poco a poco partendo da improvvisazioni.7 Per questo essa diverge a seconda dei
caratteri propri di ciascuno: i più seri autori imitano le azioni nobili componendo
inni ed encomi, come nella tragedia dell’Iliade e dell’Odissea e gli altri, più
modesti, le azioni della gente spregevole, da principio invettive, per esempio nella
comedia del Magrite, una delle opere di Omero8. Tuttavia, quando comparvero la
commedia e la tragedia, ciascuno si spingeva per sua natura verso l’una o l’altra
poesia: gli uni divennero commediografi anziché autori di giambi e gli altri
tragediografi anziché autori di poemi epici.

La tragedia, secondo Aristotele, nasce all’inizio dall’improvvisazione. Si è


sviluppata un poco per volta dal ditirambo in cui 1) Eschilio per primo ridusse il
numero del coro e promosse il discorso parlato al ruolo di protagonista. 2) Con
l’opera di Sofocle ci sono poi nella tragedia il terzo attore e la pittura della scena. 3)
Essa acquisisce un carattere serio, mentre il metro dal primitivo tetrametro, più
satirisco e più danzato, diventa giambico, il cui carattere è più vicino al discorso
parlato e 4) Infine in forma fissa insieme alla pluralità degli episodi9.

Inoltre, nota Aristotele, le tre differenze significative tra l’epopea e la


tragedia: 1) la prima è raccontata in forma drammatica pittosto che in quella
narrativa, 2) l’epopea cerca il più possibile di stare entro un solo giro del sole,
mentre la seconda è più lunga, indefinita rispetto al tempo. 3) Tutto quel che ha
l’epopea appartiene anche alla tragedia, mentre quello che appartiene alla tragedia
non si trova per intero nell’epopea.10

La commedia cresce dalle processioni falliche e ha a che fare con imitazione


di persone più spregevoli, mancanza di rispetto di ogni male, ma con imitazione del
brutto.11 Essa, con la sua bruttezza, non provoca, però, né dolore né danno agli
spettatori. Aristotele qui è purtroppo capace di esplicarne le origini soltanto in forma
7
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 4, 1448b20-1449a5, 61-63.
8
D. PESCE, Parole chiave, in ARISTOTELE, Poetica, 197: «Aristotele ha definito l’azione (πρᾶζις:
praxis) dal punto di vista ontologico come quel determinato tipo di movimento, operato da un
essere razionale, che tende ad un fine; dal punto di vista poetico, è importante ricordare che i
drammi sono imitazioni di uomini che agiscono».
9
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 4, 1449a9-30, 63.
10
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 5, 1449a10-20, 65, 67.
11
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 5, 1449a34-35, 65.

3
molto breve, perché la commedia, dal suo inizio di improvvisazione, non era presa
sul serio.

Possiamo quindi definire la tragedia in base ai suoi sette caratteri


fondamentali, ovvero: 1) un’arte che implica la mimesi, 2) ha propria espressione
seria, 3) propria azione compieta e nobile, 4) usa un linguaggio adorno, ma 5) in
modo specificamente diverso per ciascuna delle parti. Infine, è presentata attraverso
6) persone che agiscono piuttosto che narrare, in modo da 7) far emergere le
emozioni di pietà e terrore come forma di purificazione delle passioni, cioe
κάθαρσις (kátharsis)12. Per realizzare questi sette caratteri, la tragedia contiene in sé
sei parti essenziali, vale a dire: 1) lo spettacolo che è la visualizzazione complessiva
della scena e degli attori; i mezzi di imitazione che si dividono in 2) l’elocuzione e
3) il canto (linguaggio, ritmo e armonia); gli attori dell’azione che si dividono in 4) i
caratteri e 5) il pensiero; 6) il racconto che è la composizione delle azioni o dei
fatti13.

Ma la parte più importante di tutte, secondo Aristotele, è il racconto. Ciò


perché tutte le parti si orientano ad un’ultima parte: i caratteri servono l’azione del
racconto, non viceversa, la felicità come il fine della vita consiste nelle attività del
racconto e non nei caratteri, l’elocuzione ed il canto non avrebbero inoltre alcuna
forza catartica senza un racconto ben composto e infine le peripezie e i
riconosimenti che muovono l’anima fanno parte del racconto 14. Possiamo ora
classificare gerarchicamente le altre cinque parti partendo dalla più importante: I
caratteri che rivelano le motivazioni scelte degli individui, il pensiero che presenta
le verità in generale, l’elocuzione come mezzo per esprimere il racconto, il canto e
lo spettacolo che completano la tragedia con ornamenti che muovono l’anima.

12
D. PESCE, Parole chiave, in ARISTOTELE, Poetica, 197: «Aristotele usa questo termine, derivato
dal linguaggio medico e magico-religioso (letteralmente significa “purificazione” o “purgazione”)
per indicare il sollievo, il piacere estetico, che si prova nell’asistere ad una rappresentazione
teatrale; Aristotele parla in modo specifico di catarsi delle e dalle passioni (pietà e terrore)».
13
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 6, 1449a30-1450a14, 68-69.
14
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 6, 1450a-1450b20, 70-71.

4
3) L’importanza del racconto ed il compito della poesia

Ponendo al centro della tragedia il racconto e non i caratteri, Aristotele


intende sottolineare che gli spettatori sono mossi non per imitare un carattere (per
esempio il re Edipo), ma che attraverso questo carattere possono conoscere
catarticamente essi stessi ed il proprio destino nel mondo. Qui la catarsi non è
chiaramente il fine ultimo della tragedia, ma una tappa che deve essere attraversata
per raggiungere le verità e le idee generali che ci condurranno al fine ultimo della
felicità. La funzione della tragedia è correlata alla virtù perché il suo fine ultimo
corrisponde direttamente al fine umano.

Da qui Aristotele elabora le ragioni per cui la tragedia è l’imitazione di


un’azione compiuta e costituisce un tutto che ha grandezza. La sua grandezza è
dovuta proprio al fatto che la tragedia nel suo tutto ha principio, mezzo e fine.
Principio è quel che non deve di necessità essere dopo altro, mentre dopo di esso
qualche altra cosa nasce; fine è quel che per sua natura è dopo altro, mentre dopo di
esso non c’è niente; mezzo poi è quel che è esso stesso dopo altro e dopo di esso c’è
altro15. Pertanto, un racconto ben costruito non deve iniziare e terminare in modo
disordinato, ma deve essere conforme ai tre principi di cui sopra.

Inoltre, la grandezza di un racconto non è diversa dalla grandezza dell’arte


visiva, che non può essere grandissima né essere piccolissima per essere catturati
dalla visione. Anche la tragedia deve avere una lunghezza moderata che sia facile ad
abbracciarsi con la memoria16; quindi è necessario stabilire i suoi limiti: «Ma, per
definire la cosa in generale, quella grandezza in cui, svolgendosi di seguito gli
eventi secondo verosimiglianza o necessità, sia dati di passare dalla sfortuna alla
fortuna o dalla fortuna alla sfortuna, è il limite giusto della grandezza»17.

Tuttavia, il passaggio dalla fortuna alla sfortuna, e viceversa, deve anche


tenere conto dell’unità della tragedia, che non si tratta di un’unica persona. La

15
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 7, 1450b26-1450b231, 73.
16
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 7, 1451a5, 73.
17
ARISTOTELE, Poetica, 7, 1451a11-15, 75. D. PESCE, Parole chiave, in ARISTOTELE, Poetica, 199:
«La fortuna sspettai tratta dell’insieme di avvenimenti casuali che determinano risultati buoni,
indipendentemente dalla bontà o dalla malvagità dei personaggi».

5
tragedia, infatti, dovrebbe imitare la vita umana, in cui molte cose e molte azioni
che accadono a una persona non possono ridursi a un’unica azione. Un buon
esempio di racconto è quello di Omero, che non ha incluso tutti gli episodi di
Odisseo per formare una storia coerente. Una parte del racconto può essere aggiunta
o omessa, purché non renda la storia supreflua o perda la sua unità18.

Creando l’unità del racconto e rivelando le possibili seconde verosimiglianza


e necessità del destino dell’uomo, la poesia ha un compito distintivo e diverso dalla
storia:

Che compito del poeta è di dire non le cose accadute (la storia) ma quelle che
potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità [...] E
perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia
tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale poi è
questo: quali specie di cose a quale specie di persona capiti di dire o di fare
secondo verosimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur ponendo nomi
propri, mente invece è particolare che cosa Alcibiade fece o che cosa patì19.

Nella tragedia, tra tutti i racconti e le azioni, gli episodici sono i peggiori
proprio perché nella cronologia da un episodico all’altro non c’è né verosimiglianza
né necessità. Pertanto i cattivi poeti tendono a costringere la successione dei fatti
solo per il piacere degli spettatori. Al contrario, il buon poeta crea in una tragedia
un’imitazione di casi di terrore e pietosi lasciando che i fatti si presentino
sorprendentemente e fortuitamente davanti agli spettatori. Che l’uomo non conosca
la causa del suo destino e non possa mai intuirla è una consapevolezza che la buona
tragedia porta con sé.

Alcuni racconti sono semplici se le loro azioni si svolgono con continuità e


unità senza peripezia e senza riconoscimento; mentre sono complessi se ne hanno
peripezia (peripeteia) o riconosicemnto (anagnorisis) o tutti due20. La peripezia
stessa è il rivolgimento dei fatti verso il loro contrario e secondo il verosimile e il
necessario, come in una tragedia in cui il protagonista che pensava di stare bene si
18
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 8, 1451b16-35, 75-77.
19
ARISTOTELE, Poetica, 9, 1451b-10, 77.
20
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 10-11, 1452a11-1452b10, 81-83.

6
trova improvvisamente in una brutta situazione, o viceversa. Mentre il
riconoscimento è il rivolgimento dall’ignoranza alla conoscenza, e quindi o
all’amicizia o all’inmicizia, di persone destinate alla fortuna o alla sfortuna. Il
riconosimento più bello poi è quello che si compie assieme alla peripezia, quando
un protagonista trova l’amore e la felicità grazie alla conoscenza della fortuna, ma
sperimenta l’odio e la sofferenza a causa della conoscenza di verità indesiderate. Tra
le due parti della tragedia ce n’è una terza, il fatto orrendo: un’azione che reca
rovina o dolore, come le morte sulla scena, le sofferenze, le ferite e cose simili.
Anche le tre parti della tragedia hanno lo scopo di incoraggiare lo spettatore a
rendersi conto che la vita non ha uno schema fisso e sequenziale. Esistono piuttosto
fattori interni ed esterni di cui non siamo immediatamente consapevoli e che spesso
comprendiamo a posteriori.

Ma improvvisamente, in questa dodicesima sezione, Aristotele interrompe la


discussione sui racconti con quattro elementi quantitativi. Sembra che qui stia
semplicemente descrivendo le sue osservazioni sull’uso del coro. Il Prologo è tutta
quella parte della tragedia che viene prima del pàrodo e stàsimo; episodio è tutta
quella parte della tragedia che sta in mezzo a canti corali interi; esodo è tutta quella
parte della tragedia dopo la quale non c’è più canto del coro; mentre parte corale
(pàrodo e stàsimo) è tutta intera la prima espressione del coro21.

Dopo aver affermato che un racconto bello è quello complesso che evoca
terrore e pietà, Aristotele sottolinea che ci sono tre cattivi racconti da evitare: 1) il
racconto che mostra uomini dabbene che passano dalla fortuna alla sfortuna desta
ripugnanza, 2) il racconto che mostra uomini malvagi che passano dalla sfortuna
alla fortuna perché non evocano la simpatia umana, 3) il racconto che mostra
uomini malvagi che passano dalla fortuna alla sfortuna perché anch’esso non desta
l’empatia del terrore e della pietà. Perché la pietà si riferisce sempre all’innocente,
mentre il terrore al nostro simile. Il caso in questione non sarà né pietoso né
terribile. Secondo Aristotele, un racconto ben fatto mostra un passaggio dalla
fortuna alla sfortuna, non a causa di motivi malvagi, ma piuttosto a causa di un

21
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 12, 1452b15-25, 84-85.

7
qualche errore (ἁμαρτία: hamartía) di uno piuttosto migliore che peggiore
dell’ordinario22.

Inoltre, secondo Aristotele, la pietà e il terrore di un poeta migliore nascono


nella stessa composizione dei fatti piuttosto che nella messa in scena 23. La forza del
racconto di evocare la pietà ed il terrore qui deriva davvero dalla capacità creatrice
del poeta stesso. La tragedia ben fatta, come nell’Antigone, nasce da quella di
famiglia, con diverse alternative: 1) il protagonista non sa di aver ucciso i suoi
familiari, o 2) sa che la persona che sta uccidendo è la sua famiglia o 3) progetta di
uccidere qualcuno, ma quando viene a conoscenza del rapporto di parentela tra i
due, lo annulla. Secondo Aristotele, il racconto migliore si verifica nella terza
alternativa, poi nella seconda e infine nella prima. Mentre il racconto peggiore si ha
quando, con piena consapevolezza, si progetta di uccidere un’altra persona ma si
fallisce al momento dell’esecuzione. Questo non è tragico né provoca terrore e
pietà, ma piuttosto ripugnanza.

4) I caratteri, il riconoscimento e le regole in approfondimento

Per sostenere la creazione di una bella tragedia, Aristotele ritorna sulla


questione dei caratteri dell’eroe tragico, che richiede quattro cose 24. La prima è che
siano buoni gli eroi. La seconda è la convenienza, in quanto per esempio, non
sarebbe conveniente imporre un carattere coraggioso ad una donna in un certo
racconto. La terza è la somiglianza tra la qualità del protagonista da rappresentare e
la sua qualità così come è nel mito. La quarta è la coerenza, giacché anche se il
modello dell’imitazione fosse una persona incorente e si sia supposto un tale
carattere, deve essere coerentemente incorente. Per esempio, nell’Iliade, Omero
descrive ripetutamente il carattere scontroso di Achille, facendolo tuttavia apparire
molto gentile ed eroico.

22
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 13, 1453a1-18, 87.
23
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 14, 1453b-1454a15, 89-93.
24
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 15, 1453b16-1454b19, 93-97.

8
Prima si è definito il anagnorisis, ora Aristotele lo divide in sei specie25. 1)
La prima è il riconoscimento per mezzo dei segni, come ad esempio Odisseo fu
riconosciuto dalla sua cicatrice in un modo dalla nutrice e in un altro dai porcari. 2)
La seconda specie è costituita dai riconoscimenti fabbricati apposta dal poeta e
perciò non artistici. Ad esempio nell’Ifigenia Oreste si fece riconoscere, perché
mentre la sorella viene riconosciuta per mezzo della lettera, dice lui stesso quello
che vuole non già il racconto ma il poeta. 3) La terza è quella che avviene ad opera
della memoria, quando ci si rende conto nel vedere qualcosa, come Odisseo che,
ascoltando il citarista e ricordandosi, piange, donde venne riconosciuto. 4) La quarta
è il riconoscimento derivante dal ragionamento, come nelle Coefore, dove Elettra
argomenta che è giunto uno a lei simile, ma a lei simile non c’è nessuno se non
Oreste, e dunque è questi che è giunto. 5) La quinta è un riconosimento combinato
con un paralogismo da parte del pubblico come quello dell’Odisseo falso
messagero, che egli infatti sapeva tendere l’arco e nessun altro, e mostrando la sua
capacità dichiara se stesso. 6) La sesta migliore di tutti è un riconoscimento che
scaturisce dalla stessa azione, perché la sorpresa sopravviene per mezzo di fatti
verosimili, come nell’Edipo di Sofocle.

Dopo aver esplorato le due parti più importanti della tragedia, Aristotele
passa ad analizzare le sei regole che devono essere seguite nella preparazione dei
racconti26. 1) Il poeta deve comporre i racconti e rappresentarli compiutamente con
il linguaggio, ponendoseli quanto più è possibile davanti agli occhi. 2) Il poeta deve
anche, quanto più possibile, rappresentare compiutamente con i gesti e con
coinvolgimento di passione, in modo da persuadere gli spettatori a farsi coinvolgere
emotivamente nella tragedia. 3) Il poeta deve esporre i racconti dapprima in
generale e solo dopo stenderli introducendo gli episodi. 4) In ogni tragedia, il nodo
(desis), costituito dalla sezione che va dall’inizio dei fatti fino alla sezione in cui la
vicenda muta dalla fortuna alla sfortuna, e lo scioglimento (lusis), che va dal
principio di questo mutamento alla fine. 5) Il poeta deve essere in grado di far
emergere tutte le parti importanti di una delle quattro specie da lui scelte, ovvero: la
25
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 16, 1454b20-1455a20, 97-101.
26
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 17-18, 1455a21-14563a30, 101-107.

9
tragedia complessa, composta da peripeteia e anagnorisis; quella dell’orrore, come
i vari Aiace e Issione; quella di carattere, come le Ftiotidi e il Péleo; quella dello
spettacolo, come le Forcidi e il Prometeo. 6) Il poeta dovrebbe scrivere di eventi
focalizzati e non di una composizione epica, in quanto non è necessario narrare gli
interi racconti, ma piuttosto selezionare ed elaborare alcuni racconti di una tragedia.
7) Anche il coro poi occore considerarlo come uno degli attori e le canzoni corali
devono essere parte integrante della storia.

5) Il pensiero e l’elocuzione della tragedia in approfondimento

Aristotele rivolge poi la sua attenzione al pensiero, che in realtà affronta in modo
più rigoroso ne La retorica, e all’elocuzione27. In sostanza, il pensiero è qualsiasi
effetto prodotto dal discorso, che comprende: il confutare, il procurare emozioni (la
pietà, il terrore, l’ira e così via), l’amplificazione e la diminuzione. Quindi nella
tragedia le azioni devono essere trattate allo stesso modo del discorso. L’unica
differenza è che le azioni devono manifestare gli effetti del pensiero senza ricorrere
a discorsi messi in bocca ai personaggi, mentre nel discorso sono procurate da chi
discorre e si generano ad opera del discorso.

Poi passa ad approfondire l’elocuzione dividendola in otto parti: Lettera,


sillaba, connetivo, nome, verbo, articolazione, flessione e discorso. Vale la pena di
notare che Aristotele intendeva questi passaggi più per il linguaggio parlato che per
quello scritto. Di conseguenza, 1) la lettera vine intesa in particolare come una voce
indivisibile, ma che è per natura destinata a divenire una voce composta. 2) La
sillaba è una voce non significativa composta da una muta e da una lettera avente
voce. 3) Il connettivo è una voce non significativa, la quale né impedisce né fa sì
che da parecchie voci si componga naturalmente un’unica voce significativa o una
voce non significativa, che, dà più di una sola voce, è capace di produrre una’unica
voce significativa. 4) L’articolazione è quella voce non significativa che del
discorso indica o il principio o la fine o una divisione. 5) Il nome è una voce
composta significativa senza tempo, di cui nessuna parte è di per sé significativa. 6)
27
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 19-20, 1456a34-14573a30, 107-113.

10
Il verbo è una voce composta significativa con tempo, di cui nessuna parte è
significa di per sé. 7) La flessione è propria del nome e del verbo e significa a volte
«di questo», «a questo» e così via. 8) Il discorso è una voce composta significativa,
di cui alcune parti di per sé considerate di significare qualche cosa.

La ventunesima sezione analizza il linguaggio poetico28. Qua i nomi sono di


due specie: quelli semplici che non sono costituiti da parti significative (per
esempio: «terra») e quelli doppi o composti, formati da parti non-significative o
significative (per esempio: «Ermocaicoxanto» formati da l’Ermo, il Caico e lo
Xanto). Ogni nome poi è o una parola comune o peregrina o una metafora o un
ornamento o una parola coniata dall’autore o una parola allungata o abbreviata o
modificata. 1) Chiama comune il nome di cui si servono tutti, peregrino invece
quello di cui si servono altri popoli. 2) La metafora è il trasferimento ad una cosa di
un nome proprio di un’altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla
specie alla specie o per analogia. 3) Mentre la relazione analogica è quella in cui il
secondo termine sta al primo nella stessa relazione in cui il quarto sta al terzo,
giacché allora si potrà dire il quarto termine invece del secondo o il secondo invece
del quarto. 4) Coniato dall’autore è quel nome che, mai adoperato da alcuno, pone
lo stesso poeta. 5) Una parola allungata è quando la propria vocale viene scambiata
con una più lunga o quando viene inserita una sillaba. 6) Una parola abbreviata è
invece quando la propria vocale o una silaba si abbrevia. 7) Alterata è la parola
quando del nome di una cosa una parte rimane ed un’altra è coniata.

Aristotele conclude la sua discussione sul’elocuzione con alcune regole 29. Un


poeta dovrebbe cercare una moderazione, esprimendosi con chiarezza. La poesia
può essere vivacizzata con l’uso di parola peregrina, di metafora, di ornamento, e di
altre specie di elocuzione. Tuttavia, l’uso eccessivo di metafora produrrà un enigma;
mentre quello di parole peregrine un barbarismo. Di tutti questi dispositivi,
Aristotele apprezzava soprattutto la metafora, perché la metafora non può essere
insegnata, ma può essere compresa solo intuitivamente: c’è un certo livello di
genialità per riuscire ad individuare le somiglianze tra cose diverse.
28
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 21, 1457a31-1458a15, 113-117.
29
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 22, 1458a20-1459a15, 119-123.

11
6) L’epopea in approfondimento

Dopo aver parlato della tragedia in sé, Aristotele rivolge la sua attenzione
all’approfondimento dell’epopea, rispetto alla tragedia30. Mentre la mimesi della
tragedia è contenuta negli atti drammatici, quella dell’epopea nella composizione
narrativa. Ma le due cose presentano alcune analogie. 1) Sia la tragedia che l’epopea
si distinguono dalla storia per il fatto di concentrarsi maggiormente sull’unità e sulla
coerenza di una particolare storia piuttosto che su un evento in un particolare
periodo di tempo o su particolari personaggi. 2) L’epopea deve contenere anche
parti della tragedia, escludendo lo spettacolo e il canto, deve essere semplice o
complessa e deve rivelare peripeteia e anagnorisis.

L’epopea si differenza invece dalla tragedia per la lunghezza della


composizione e per il metro. L’epopea ha di suo il grande vantaggio di poter
estendere la propria grandezza per il fatto che nella tragedia non è possibile imitare
più parti di un’azione, che accadono simultaneamente, ma soltanto quella parte che
si svolge sulla scena e viene recitata dagli attori; mentre nell’epopea, poiché è una
narazione, è possibile rappresentare molte parti che si compiono simultaneamente,
dalle quali, purché siano appropriate, viene accresciuta la grandiosità del poema.

In questa sezione, i numerosi riferimenti di Aristotele alle opere di Omero,


come esempio di epopea ben fatta, testimoniano la sua ammirazione per Omero
stesso. Egli elogia Omero perché è solo tra i poeti che parlano il meno possibile e
lascia che le azioni e i caratteri raccontino le loro storie. Omero è degno di essere
lodato per aver reso insignificanti i difetti dell’Odissea nell’episodio del bagno
utilizzando il paralogismo (argomenti impossibili ma verosimili a cose possibili ma
incredibili). Aristotele, infine, metteva in guardia dall’uso di un linguaggio troppo
complesso, perché spesso può oscurare gli elementi più importanti di una tragedia o
di un’epopea.

30
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 23-24, 1459a16-1460b5, 123-131.

12
7) La critica letteraria e la superiorità della tragedia sull’epopea

Prima di entrare nelle ultime due sessioni, Aristotele riformula brevemente il dovere
del poeta:

E infatti, poiché il poeta è imitatore alla stessa maniera del pittore o di qualunque
altro facitore di immagini, è necessario che, essendo tre di numero le possibilità,
sempre ne imiti una, e cioè o le cose quali furono o sono, o quali si dice o sembra
che siano, o quali dovrebbero essere. Queste cose poi il poeta le comunica con
l’elocuzione in cui trovano posto le parole peregrine, le metafore e molte altre
alterazioni del linguaggio, cose tutte che concediamo ai poeti31.

Questo compito non è ovviamente facile per ogni poeta proprio perché la
correttezza non è la stessa per la poetica e per la politica e per qualche altra arte.
È questa differenza che i critici della poetica non hanno osservato con
sufficiente attenzione. Aristotele risponde quindi alle due accuse contro la
poetica dimostrando che la scorrettezza non risiede nella poesia in sé, ma nel
soggetto che l’ha creata (il poeta)32.

Si dice: la poetica ha rappresentato cose impossibili, dunque ha errato.


Per Aristotele, l’imitazione scorretta della poetica deriva dall’incapacita tecnica
del poeta. Un’altra ragione è che l’impossibilità deriva dall’incapacità del poeta
di descrivere accuratamente le cose che conosce bene. Aristotele risponde poi
che spesso l’impossibile – come il racconto di Omero nell’Iliade
dell’inseguimento di Ettore da parte di Achille – serve innanzitutto a dare al
racconto un effetto di curiosità e sorpresa. Anche se è meglio ottenere questi
effetti attraverso le cose possibili, Aristotele ci ricorda comunque che un poeta
dovrebbe preferire l’impossibile credibile all’incredibile possibile. Inoltre, va
notato che non tutta la poesia è destinata a rappresentare la realtà come tale, ma
a volte si conforma ai miti popolari su come dovrebbero essere i caratteri dei
racconti.

31
ARISTOTELE, Poetica, 25, 1460b6-1, 130, 133.
32
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 25, 1460b14-1461b25, 133-139.

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Nella ventiseiesima sessione, Aristotele tenta di rispondere alla domanda
su quale forma sia superiore, la tragedia o l’epopea 33. L’argomento a favore
della superiorità dell’epopea si basa sul principio che la forma d’arte superiore
dovrebbe essere meno volgare e riservata agli spettatori migliori. La tragedia,
invece, produce spettacoli melodrammatici per le masse con gesti esagerati.
Aristotele risponde a questa argomentazione affermando che la volgarità e il
melodramma non sono propriamente rivolti all’arte poetica, bensì alla propria
recitazione, agli attori che eseguono male i movimenti. Del resto, senza gesti e
movimenti, anche la tragedia può produrre effetti solo attraverso la lettura
semplice.

Inoltre, Aristotele suggerisce diverse ragioni per cui la tragedia è


superiore all’epopea. 1) La tragedia ha tutte le parti essenziali dell’epopea;
all’epopea, invece, mancano lo spettacolo e il canto che la tragedia possiede. 2)
Con sola una semplice lettura, la tragedia è in grado di produrre i suoi effetti. 3)
La tragedia, essendo più breve dell’epopea, dimostra la sua capacità di produrre
un effetto più concentrato sulla memoria degli spettatori. 4) La tragedia è più
capace di mostrare unità, come dimostra il fatto che diverse tragedie sono
estratti di un’unica epopea.

8) La conclusione

Per Aristotele, la tragedia in quanto una più superiore poetica d’imitazione serve
ad evocare emozioni di pietà e terrore ed a produrre la catarsi (purificazione e
liberazione) di queste emozioni. Tra le parti essenziali della tragedia (mito o
racconto, carratteri, pensiero, elocuzione, canto e spettacolo), il primo è la parte
più importante. Un bel racconto deve consistere in un personaggio “eroe” che
passa dalla fortuna alla sfortuna. La sfortuna deve essere l’effetto di qualche
errore, e non di un malvagio. Un racconto tragico deve sempre comportare una
sorta di azione tragica, che può essere compiuta o non compiuta, e questa
azione può essere affrontata con piena conoscenza o meno. Infine, Aristotele
33
Cf. ARISTOTELE, Poetica, 26, 1461b26-1462b15, 141-143.

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discute del pensiero e dell’elocuzione, per poi passare all’epopea. Sebbene
l’epopea sia simile alla tragedia sotto molte parti, egli sostiene che la tragedia è
superiore all’epopea.

La visione positiva di Aristotele sull’arte dell’imitazione lo pone in una


posizione completamente opposta a quella del suo maestro, Platone 34. Egli vede
così nell’arte e in particolare nella poesia un mezzo potente di educazione, un
medium capace di esercitare una funzione purificatrice e liberatrice dell’anima
dello spettatore dalle passioni35. Platone invece ritiene che l’azione drammatica,
interessando gli spettatori alle passioni violente, agitate sulla scena, spargendo
su di loro il «terrore divino», alla fine potrebbe mettere a repentaglio l’integrità
della città. Riferendosi agli studi di Reale, Platone condanna qualche specie
dell’opera d’arte anche per il motivo che scatena sentimenti ed emozioni,
allentando l’elemento razionale che le domina. Aristoteles capovolge
l’interpretazione del suo maestro: L’arte non ci carica di emotività, ma ci
libera36.

Inoltre, in un modo non così duro come il bandone di Platone, Aristotele


fornisce anche dei criteri per stabilire quali tragedie sono educative. Nel
racconto finale di una tragedia, la sfortuna non deve colpire gli innocenti e la
fortuna non va donata ai cattivi. Possiamo ipotizzare che l’intento di questi
criteri sia che la poesia non deve dare un’impressione permissiva del male nel
mondo. In altre parole, Aristotele formula la catarsi sulla base delle sue

34
Cfr. G. REALE, Storia della filosofia greca e romana 4: Aristotele e il primo peripato, Bompiani,
Milano 2004, p. 274-276; N. ABBAGNANO, Storia della filosofia I, UTET, Torino 1982, p. 177-179.
35
ARISTOTELE, Politica, VIII, 1341b20-39, 1342a10-15, traduzione di Roberto Radice e Tristano
Gargiulo, Mondadori, Milano 2015, p. 217, 219: «A proposito delle armonie e dei ritmi, e in vista
del fine pedagogico, occore vedere in primo luogo se si deve far uso di tutti, oppure se si deve
operare una scelta; e poi, in secondo luogo, se dovremo seguire la stessa classificazione usata da
quelli che lavorano seriamente sull’educazione, oppure un’altra di natura ancora diversa [...] Da
parte nostra, però, sosteniamo che si debba praticare la musica non in vista di un solo vantaggio,
bensì di molteplici: ad esempio, con finalità pedagogiche, e per la purificazione e, in terzo luogo,
per lo stile di vita, il riposo e il rilassamento dalle tensioni [...] Le stesse esperienze
necessariamente condivide chi è sensibile alla pietà, o alla paura, o in generale alle altre passioni,
ma anche ogni altro uomo, nella misura in cui individualmente si lascia andare a ciascuna di esse: e
in tutti avviene una qualche purificazione e un piacevole sollievo. Anche le melodie purificatrici
infondono una gioia innocente negli uomini».
36
Cfr. G. REALE, Storia della filosofia greca e romana 4, 274-275.

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osservazioni di tragedie selezionate e pedagogicamente valide, che si
manifestano nelle tragedie di Omero.

Tuttavia, è molto difficile limitare la forza dell’imitazione, ovvero che


nell’antichità l’arte avesse un tessuto vivo connesso con la mentalità collettiva
della società. Se tale limitazione fosse possibile, allora la poesia non potrebbe
più essere chiamata arte d’imitazione della realtà, perché in effetti, spesso ci
sono destini sfortunati degli innocenti e destini fortunati dei malvagi. Qui la
preoccupazione di Platone ha senso: L’arte che imita la brutezza sarà imitata dai
giovani e quindi la censura dell’arte è necessaria nell’educazione dei giovanni.

Aristotele, però, affronta il problema dell’imitazione incontrollabile non


senza anticipazione. Ci ricorda che la sfortuna non è l’effetto del “malvagio”,
ma di qualche hamartίa di giudizio o, meglio, di ignoranza. In altre parole,
nessun uomo è veramente malvagio di per sé. Si comporta «male» perché il suo
destino è influenzato secondo verosimiglianza e necessità. Vi è decisione
appartenente all’uomo, ma vi è anche la forza del destino che non è sotto il suo
controllo. La via per vivere in virtù è la pratica di apprezzare il proprio destino.

Pertanto, da un punto di vista aristotelico, la mimesis non è innanzitutto


fine stesso: «Imitazione di non andare imitata», ma è potenza della poesia per
condurre il pubblico all’autoconosenza attraverso la katharsis. Proprio per la
forza imitativa dell’arte, ogni spettatore si esercita a vivere in un mondo con le
proprie fortune e sfortune. Questo significa che la funzione dell’«opera d’arte»
non è separabile dalla funzione dell’arte come la tecnica di produrre il mondo
da abitare37. La sopravvivenza dell’uomo nel suo mondo non comprende solo
aspetti tangibili, ma anche razionali ed emotivi 38. La funzione originaria
dell’arte è quella di formare il mondo fisico ed il mondo dei valori per l’uomo
sulla Terra.

37
Cfr. AGAMBEN, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata 2013, p. 12-13.
38
Cfr. G. REALE, Storia della filosofia greca e romana 4, 276.

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