Diritto
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A.A. 2023/2024
Caratteristiche della norma giuridica: CHE COS’È? Innanzitutto, la norma giuridica è una regola di
comportamento. Nel nostro ordinamento noi scegliamo i rappresentanti e questi scelgono le norme di
comportamento che ci dicono come stipulare contratti, come comportarci ecc. o come trovare soluzioni per
la civile convivenza.
❖ Dunque, il carattere della norma giuridica è quello di essere obbligatoria per tutta la collettività
statuale;
❖ Deve essere poi generale, perché deve essere rivolta a tutta la collettività, non può essere ad
personam né favorire o danneggiare alcuni individui;
❖ Strettamente legata alla generalità è l’astrattezza: quest’ultima rivolta più a chi fa attività di scavo.
Esistono poi delle norme particolari che si chiamano imperfette e hanno delle sanzioni irrisorie, per cui la
sanzione non costituisce un deterrente in questo caso, però ne esistono altre senza sanzione. Lo Stato ha il
legittimo monopolio della forza per far osservare le norme e imporre poi eventualmente delle sanzioni.
L’ordinamento giuridico distingue le fonti del diritto secondo criteri generali. COSA SONO? Le fonti del
diritto sono quei fatti ai quali l’ordinamento giuridico riconnette questo effetto di far sorgere, modificare o
estinguere una o più norme giuridiche. Riconosciamo una fonte giuridica a fronte di questi criteri, cioè
quando può creare, modificare o estinguere questi criteri generali rivolti alla collettività.
- Fonti di cognizione;
- Fonti di produzione.
FONTI DI COGNIZIONE → Molto importanti perché se una norma o legge non viene pubblicata sulla fonte
di cognizione il popolo non ha modo di saperlo. La pubblicazione in gazzetta ufficiale è seguita
dall’approvazione della legge e dalla messa in vigore. Dunque, dopo 15 giorni si presume che la collettività
conosca la legge in questione.
Oltre la gazzetta ufficiale sono fonti di cognizione i bollettini regionali per le leggi delle regioni e la gazzetta
dell’Unione Europea per gli atti normativi dell’UE.
A proposito di consuetudini, le camere di commercio tengono una raccolta di usi e consuetudini a livello
provinciale, soprattutto in materia di commercio. Sono raccolte che riguardano usi commerciali
contrattuali, raccolte che fanno riferimento ad accomodamenti del Codice civile a livello di scambi di beni e
servizi. PERCHÉ È IMPORTANTE PER NOI? Perché queste raccolte di usi delle camere di commercio ci danno
un’indicazione del nostro patrimonio culturale immateriale. Sono tradizioni della collettività che in certi
aspetti si sono radicate in quella popolazione, e la raccolta della camera di commercio è solo una
testimonianza che ha valore giuridico solo per comodità di consultazione, ma la creazione è immateriale, di
comportamento, come per beni culturali immateriali.
➢ Criterio verticale: è un criterio di tipo gerarchico perché una fonte di gerarchia inferiore non può
modificarne una di gerarchia maggior;
➢ Criterio di competenza: fa sì che certe materie vengano ripartite. Una parte viene disciplinata
dall’Europa, una parte dallo Stato e una dalle regioni. E non va modificato. Se ad esempio la regione
dovesse invadere la sfera riservata allo Stato si creerebbe un conflitto che dovrà essere risolto dalla
costituzione;
➢ Criterio cronologico: più consueto. In questo caso, la legge successiva abroga la legge precedente
che risulti in contrasto, ma è un criterio che non vale per leggi speciali, a tutela dell’ambiente, della
salute o per il codice dei beni culturali. Per quello occorre una norma ad hoc.
Costituzione: la costituzione contiene norme e tutele delle istituzioni del nostro ordinamento
Fonti internazionali o comunitarie: affinché le norme internazionali entrino a far parte dell’ordinamento
interno, si deve verificare “l’adattamento”. L’art. 10 della costituzione prevede un adattamento
automatico. L’Unione Europea è un altro ordinamento giuridico di cui fanno parte sia gli stati che i soggetti,
ma soprattutto gli individui. Essa emana anche direttive, altra fonte del diritto particolare perché consente
agli stati membri l’adattamento, cioè il recepimento della direttiva entro 3 anni affinché essi adeguino il
loro ordinamento ai principi contenuti nella direttiva stessa. Alcune normative contengono norme di
immediata applicazione, però c’è un altro profilo della direttiva da non trascurare (altrimenti lo Stato può
essere sanzionato) ed è il principio dell’effetto utile.
Fonti primarie:
- La fonte primaria per eccellenza è quella del parlamento, cioè la legge. La legge ordinaria è per
eccellenza quell’atto generale e obbligatorio che disciplina gli interessi di tutta la comunità;
- Altra fonte primaria è la legge regionale nelle materie in cui ha una competenza esclusiva: in alcune
materie lo Stato non può emanare leggi perché la costituzione le riserva alle regioni. Ad esempio, è
competenza della regione la pianificazione del territorio, MA solo la pianificazione;
- Importantissima fonte è poi il decreto-legge, emanato dal governo in casi di necessità ed urgenza.
Entra in vigore lo stesso giorno della pubblicazione in gazzetta, mentre per la conversione in legge
occorrono 60 giorni. In questo caso c’è un controllo del parlamento per la conversione, e se ciò non
accade il decreto cade.
A. Decreto legislativo: sempre atto del governo, ma ha una natura legislativa perché emanato a
seguito di una delega del parlamento che contiene i principi ai quali deve attenersi il governo
nell’emanare il decreto legislativo. Si usa questo sistema perché il meccanismo legislativo è molto
complesso. In questo caso, rispetto al decreto-legge, il parlamento interviene prima, ecco perché è
subprimario, e il governo dovrà attenersi ai principi altrimenti il decreto verrà considerato
anticostituzionale poiché ha violato appunto l’art 76;
B. Legge regionale nelle materie concorrenti: simile al meccanismo del decreto legislativo. Prima del
2001 i principi li dettava lo Stato ed è subprimaria perché in certe materie elencate nell’art. 117
non si può emanare la legge senza che prima lo Stato abbia emanato una legge cornice.
Il referendum: un’altra fonte altrettanto importante è il referendum che vede la partecipazione della
collettività alla modifica delle norme. È una fonte avente forza e valore di legge e ne esistono due forme:
Entrambi comunque sono conformati a una domanda a cui si può rispondere con un sì o un no. Tuttavia,
quello confermativo è più complesso perché in genere è previsto per la modifica della costituzione. È vero
che la costituzione è immodificabile, però è comunque elastica quanto ai principi fondamentali sempre
attuali.
Fonti secondarie:
- d.P.R.: acronimo di decreto del Presidente della Repubblica. Non è emanato dal presidente stesso,
non è nelle sue funzioni, ma emana i decreti del governo previa deliberazione del Consiglio dei
ministri sentito il parere del Consiglio di Stato;
- Decreti ministeriali: nell’ambito di queste fonti abbiamo anche i decreti ministeriali. In particolare,
ci interessano i decreti del Ministero della Cultura (MIC) perché sono attuali e spiegano norme che
devono essere applicate alla disciplina dei Beni Culturali;
- Dpcm: oltre ai decreti ministeriali (che alcuni considerano di terzo grado) ci sono anche un’altra
tipologia di decreti che fanno discutere, cioè i dpcm. Sono comunque una fonte secondaria perché
attuativi o di un decreto-legge o di un decreto legislativo. Questi decreti del presidente del
Consiglio dei ministri sono comunque esecutivi, hanno bisogno di una fonte precedente che li
autorizzi. ESISTE UN GIUDICE CHE POSSA TUTELARE DA UN DPCM? Essendo un atto di
un’amministrazione si può impugnare davanti a un giudice se lede la mia posizione. Nel nostro
caso, un decreto del ministro della cultura che trasmoda i limiti imposti dal Codice dei Beni Culturali
può essere impugnato davanti al TAR ad esempio, e così accade per un dpcm.
FONTI ATIPICHE → Accanto a queste fonti classiche ce ne sono altre atipiche, ma comunque importanti.
- Abrogatrici: quando la Corte costituzionale viene adita per l’illegittimità di una norma, può ritenere
quella norma incostituzionale e accogliere il ricorso. L’accoglimento di questo ricorso fa sì che
quella norma venga abrogata;
- Un’altra categoria di sentenze (delicate) sono quelle interpretative che possono essere di rigetto o
accoglimento. Sono delicate perché trattandosi di sentenza interpretativa il testo della norma
rimane lo stesso, ma la Corte può dichiarare l’incostituzionalità dell’interpretazione prospettata dal
giudice che l’ha adita. Questo tipo di sentenze ci dà l’indicazione della distinzione che si esige fra
norma e disposizione: la norma è testo scritto, la disposizione è il comando contenuto nella norma;
- Additive: la Corte può aggiungere una frase un comma alla norma. A quel punto viene riscritta da
un legislatore con l’aggiunta di quanto dichiarato dalla Corte stessa.
L’interpretazione:
1. Letterale;
2. Intenzione (ratio);
3. Sistematica;
4. Analogica.
a. Analogia legis: si può prendere un fatto simile, un atto simile a quello che abbiamo di fronte e
adattarlo alla nostra situazione.
b. L’art. 12 prevede che si debba decidere secondo principi generali dell’ordinamento giuridico dello
Stato. Questa è l’analogia juris e si tratta di principi che desumiamo dalla codicistica di diritto
privato, come ad esempio il principio di buona fede, il principio di correttezza o di imparzialità…
Circolare: sono al di fuori della gerarchia delle fonti, però la circolare è un atto amministrativo ugualmente
obbligatorio per chi lo riceve. Ha valore normativo. Tuttavia, se il destinatario della circolare si accorge
dell’illegittimità di questa può disapplicarla se è contra legem facendo presente al superiore gerarchico
l’illegittimità dell’atto.
LE NORME GIURIDICHE
1. Norme penali;
2. Norme civili o di diritto privato;
3. Norme di diritto pubblico.
Norme penali: sono norme di comportamento con sanzioni molto gravi che tutelano soprattutto la persona
fisica. Sono volte a reprimere, prevenire comportamenti che possano ledere beni costituzionalmente
garantiti.
Norme civili: disciplinano i rapporti tra privati e questi ultimi sono sullo stesso livello.
Norme di diritto pubblico: più delicate, spesso vi si possono affiancare anche le norme penali. Quelle di
diritto pubblico sono norme di comportamento delle pubbliche autorità nei confronti dei privati. Quindi, si
tratta di un rapporto NON in posizione paritaria: la pubblica amministrazione (governo, comuni, regioni…)
agisce con atti autoritativi che il privato deve eseguire e che incidono in maniera unilaterale sulla sfera
giuridica dei privati.
Le pubbliche amministrazioni sono istituite per il perseguimento dei diritti pubblici. All’interno del diritto
pubblico, infatti, il diritto amministrativo è il diritto di tutte le amministrazioni pubbliche di curare gli
interessi della collettività.
Gli interessi pubblici sono quegli interessi generali della collettività che vengono individuati dalle leggi e
affidati alla cura di enti pubblici. Ad esempio, in questo caso potrebbe essere la cura dei beni culturali.
Diritto dei beni culturali: prendiamo in considerazione la cura che lo Stato pone per la cura dei beni
culturali, come la tutela, conservazione, garantire la fruibilità. Lo fa affinché tutta la collettività possa fruire
di più e al meglio del bene. Anche solo la conservazione o il restauro fanno sì che ne possiamo godere
meglio.
I. IL QUADRO NORMATIVO
Tutte le normative dei Beni Culturali hanno un filo conduttore che è dato dal potere di intervento su questi
beni. Nel nostro caso l’autorità è cambiata negli anni.
UNESCO: in realtà non dà un grande vantaggio dal punto di vista della tutela, anche perché se il bene viene
distrutto non si può più tutelare o conservare. Da un punto di vista fattuale non ha potere di intervento
sulla tutela del bene anche se rientra nelle liste.
L’espressione “Beni Culturali” è stata adottata abbastanza recentemente dai ministri, più precisamente nel
1954 nell’ambito della Convenzione dell’Aia. PERCHÉ? Perché questa convenzione emerge proprio dalle
convenzioni precedenti strette in tempo di guerra poiché in quel caso venivano salvaguardati i beni. Questa
convenzione, allora, è stata stilata per fare in modo che i beni culturali protessero avere un universale
riconoscimento da parte della collettività e non solamente in tempo di guerra. Tale individuazione porta
anche a un rovesciamento della prospettiva: l’attenzione viene incentrata soprattutto sulla fruizione, sulla
funzione che svolge il bene, non tanto sui limiti imposti al privato, quanto soprattutto su quello che deve
fare l’amministrazione e sulla possibilità di fruizione della collettività del bene culturale da parte della
collettività. Dopo questa convenzione ne sono state firmate altre:
- La Convenzione Culturale Europea firmata a Parigi nel 19 dicembre 1954 per la conservazione della
lingua dato che anch'essa è un bene;
- La Convenzione per la Protezione del patrimonio Mondiale Culturale e Naturale firmata a Parigi il
16 novembre 1972. Questa è volta ai beni culturali dai quali si prescinde dall’origine e dal loro
proprietario. La cultura non ha un volto, è di tutti, e il patrimonio è dei popoli. Anche i centri storici
vengono tutelati per il loro rapporto che hanno con la storia.
1602 → In Italia (prima dell’unità) il primo accenno di tutela giuridica particolarmente interessante è del
1602 con il Granducato Mediceo di Toscana perché vengono nominati Raffaello e Tiziano le cui opere non
potevano essere esportate. Questo è il primo accenno di universalità della nozione, di tutela globale del
bene culturale.
1820 → Tuttavia, la più ricordata è la normativa contenuta nell’editto di Bartolomeo Pacca Vescovo di
Frascati. Questo editto contiene principi tuttora attuali della tutela dei beni culturali intesi come preziosi
oggetti antichi di cui avere gelosa cura. QUALI SONO I PRINCIPI?
A. Principio di catalogazione;
B. Divieto di esportazione;
C. Per la prima volta viene affermata la proprietà pubblica del sottosuolo archeologico perché
nell’editto romano la proprietà privata si estende dalle stelle agli inferi. Adesso il sottosuolo non è
più privato.
1939 → Con le leggi Bottai si tutelano le cose d’arte.
• N. 1089: la legge 1089 tutelava le cose più significative dal punto di vista estetico, oggetti materiali
per lo più;
• N. 1497: tutelava le “bellezze naturali”.
1948 → Dopo le leggi Bottai abbiamo l’art. 9 della costituzione del ’48. La repubblica tutela, ma il
patrimonio storico e artistico è della nazione che si identifica culturalmente in quel territorio. PERCHÉ È
FONDAMENTALE QUESTA SOTTOLINEATURA? Perché nel momento in cui il popolo si sente nazione, sente
l’esigenza di tutelare la propria cultura come elemento identitario di se stesso, come privilegio da
tramandare per il futuro.
1964 → Questo concetto di bene culturale in Italia compare con la Commissione di indagine per la tutela e
la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio: la cosiddetta Commissione
Franceschini del 1964. Questa dichiara che il bene culturale è una testimonianza materiale avente il valore
di civiltà.
1975 → È stato istituito il Ministero dei Beni culturali ed Ambientali e la stessa normativa delle leggi Bottai
viene superata inizialmente con il Testo Unico del 1999 che a sua volta verrà superato dal decreto
legislativo del 2004, il cosiddetto Codice.
Differenza tra Testo Unico e Codice: il Testo Unico è una raccolta di norme che disciplinano la materia,
mentre il Codice è una ricomposizione organica in cui ci sono anche la modifica di norme superflue o simili.
Ad esempio, la legge Bottai è confluita nel Codice.
I Beni Culturali trovano fondamento nell’art. 9 della Costituzione che rientra tra i principi fondamentali.
Questa normativa sostiene che sia lo Stato stesso che deve provvedere alla tutela dei beni culturali,
testimonianza materiale di essa.
COSA DEVE VALORIZZARE QUESTA TUTELA DELLA CULTURA? CHI DICE COSA È BELLO? Non esiste un bello
assoluto, ma deve essere scevro da qualsiasi condizionamento merceologico, cioè finalizzato a uno scambio
economico del bene. Il compito di tutela è un compito che viene riconosciuto in combinato discorso con
l’art. 2 della Costituzione perché è un diritto inviolabile dell’uomo godere di questi beni.
ART. 41 → L'iniziativa economica privata è libera. Non può recare danno nemmeno ai beni culturali, non
può tradursi in un libero mercato dei beni culturali. È consentito qualsiasi limite al commercio e allo
smercio dei beni
ART. 42 → Tutela la proprietà privata, ma letto insieme all'art. 9 fa sì che la proprietà privata possa subire
dei limiti affinché venga garantita la fruibilità del bene culturale di proprietà privata da parte della
collettività. Per questo la disciplina vincolistica del Codice è conforme alla Costituzione.
II. RIPARTO DELLA POTESTÀ LEGISLATIVA ED
AMMINISTRATIVA
Viene dettata sia dalla Costituzione che dal Codice.
D.LGS. N42/2004 → Distinzione funzioni tutela e valorizzazione: le regioni non hanno la stessa potestà
legislativa dello Stato, solo in alcune materie, in altre ne hanno una sub primaria, e devono stare alle leggi
di cornice. La repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale, sempre in riferimento all’articolo 117
della costituzione, che distribuisce il potere legislativo tra stato e regioni.
COMMA 3 →
Il Codice pone più l’accento su un patrimonio storico artistico della Nazione, la Costituzione lo pone invece
sulla Repubblica. Si deve conservare il bene, se conservato adeguatamente si può valorizzare, ma:
CHI È LA REPUBBLICA? Qui è intesa in senso soggettivo, che comprende i comuni, le province, le città
metropolitane, le regioni e lo Stato. Tutti gli enti pubblici territoriali che agiscono per il bene della
collettività. Intesa quindi come stato-ordinamento comprensivo di tutti i soggetti. La nazione invece ha un
riferimento solo soggettivo, agli individui che fanno parte di quello stato-ordinamento giuridico e stabilisce
l’appartenenza di un individuo.
Meccanismo: TUTELA → FRUIZIONE >> VALORIZZAZIONE → ANCORA Più FRUIZIONE >> FRUIZIONE
Tutti questi soggetti pubblici e privati concorrono in primo luogo alla conservazione del bene ma anche alla
valorizzazione. La distinzione tra i vari soggetti è fondamentale perché il regime legislativo è differente a
seconda del proprietario.
Il riparto delle funzioni a livello costituzionale L’art. 9 prevede la repubblica impegnata nella promozione e
tutela della cultura, ricerca, paesaggio e patrimonio storico artistico.
ART. 117 COSTITUZIONE → Riparto potestà legislativa, spiega i compiti dei vari soggetti pubblici
- Ripartizione delle funzioni a livello costituzionale > non modificabile in senso migliorativo: mai
meno vincolistico, solo più rigido
- Stato e Regione > 3 tipi di potestà legislativa:
1. Esclusiva dello Stato
2. Concorrente (Stato e Regioni)
3. Esclusiva (residuale) della Regione
ART.117, COMMA 2 →
Dunque:
o Lo Stato emana principi generali seguendo il Codice dei Beni Culturali, quest’ultimo inderogabile a
meno che non venga modificato da un legislatore con una normativa ad hoc;
o Le regioni emanano una disciplina più adatta al loro territorio rispettando i principi generali dettati
dallo Stato.
TUTELA: ogni disciplina che abbia l’effetto di limitare o inibire o conformare la condotta dei soggetti
pubblici o privati affinché sia garantito il valore culturale del bene. Quindi hanno l’effetto di limitare un
diritto, condizionare la condotta dei soggetti, per garantire il valore culturale del bene.
VALORIZZAZIONE: ha come oggetto un bene già tutelato, si fonda sul rapporto di convergenza di interessi
tra la pubblica amministrazione a cui si deve chiedere autorizzazione e sul privato che la chiede. Fondata su
un rapporto di potenziale convergenza tra l’interesse pubblico al valore culturale e le situazioni soggettive
coinvolte.
POTESTÀ REGOLAMENTARE
Potere (amministrativo) di emanare regolamenti, detta nello specifico come godere e fruire del bene.
Quella legislativa difficilmente può dettare norme di dettaglio, altrimenti il legislatore ci metterebbe troppo
a emanare leggi, invece il regolamento va nel dettaglio
TUTELA → Lo Stato conserva la legittimazione in maniera di tutela dei beni culturali, salvo possibilità di
delega alle Regioni. Questo perché i beni dello stato si trovano nelle regioni, nei loro territori, per questo
può delegare alle Regioni la potestà regolamentare perché queste conoscono meglio il loro territorio.
Questi sono principi generali, ma si vive in un ordinamento regionale con un federalismo differenziato:
questa differenza viene riportata dalla Costituzione per garantire autonomia e i cittadini hanno diritto ad
avere lo stesso trattamento.
infatti, l’art. 116 prevede che può essere concessa una particolare autonomia in materia di competenza
concorrente alle regioni che ne hanno la capacità, che abbiano adeguate risorse e adeguata struttura per
valorizzare i beni culturali. Quindi potremmo avere delle regioni che si occupano di tutela e valorizzazione
senza dover rispettare le leggi cornice dello Stato. Una regione che ha una particolare autonomia in materia
di tutela dei beni culturali è la regione Toscana.
L’articolo 118 dispone che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, perché è il comune che
conosce i bisogni della comunità. Se non è in grado, esse sono attribuite ad altri enti → sussidiarietà
verticale.
Ma l’articolo 118 prevede anche una sussidiarietà orizzontale che vede la distribuzione dei compiti tra
soggetti pubblici e privati, ossia nel raggiungere i fini degli enti (per perseguire la tutela e valorizzazione dei
beni culturali) gli enti si devono affidare anche ai privati.
FUNZIONI DEI SOGGETTI NEL CODICE → LA TUTELA CHI COMPRENDE? Nel Codice le funzioni in maniera di
tutela sono attribuite al Ministero dei Beni Culturali, che le esercita sui beni di appartenenza statale, anche
se utilizzati da soggetti diversi dal Ministero (come gli enti locali). Per il principio di cooperazione il ministro
può anche delegare le sue funzioni e avvalersi di quelli territoriali. Le autonomie territoriali ex art.5
svolgono funzioni di cooperazione, assegnandosi ai livelli di governo sub statale un ruolo essenzialmente
ausiliario.
VALORIZZAZIONE → Anche nel Codice vengono dettati i principi fondamentali che per le Regioni
costituiscono le norme quadro, e che devono essere rispettate dalle Regioni stesse ogni volta che
emaneranno una legge in tema di valorizzazione dei beni culturali. Il Codice consente alle Regioni di
emanare norme di valorizzazione solo in relazione a quei beni che non sono proprietà dello Stato, oppure
su quei beni di cui lo Stato ne abbia consentito l’uso. In ogni caso se la regione attarda nell’emanare leggi di
valorizzazione, interviene lo Stato e le emana, leggi che cadranno quando la regione emanerà le sue, per
evitare il vuoto normativo. Questa è una norma di chiusura = Art.112: ciascun soggetto pubblico è
comunque tenuto alla conservazione dei beni di cui ha disponibilità. Principio generale, non esiste vuoto
normativo.
RUOLO DEI PRIVATI → Proprietari, possessori e detentori, tutti i soggetti, per il solo fatto che ne
dispongono sono soggetti all’obbligo di garantirne la conservazione, art. 1 Codice. Anche i privati
contribuiscono non solo alla conservazione ma anche alla valorizzazione, una iniziativa sia pubblica che
privata, ma non è obbligatoria come la conservazione.
Per stimolare i privati alla valorizzazione dei beni culturali, il Codice definisce questa attività come attività
socialmente utili, con una finalità di solidarietà sociale. Questo ci indica il valore del bene culturale, il valore
che rappresenta la culturalità per l’essere umano.
III. L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA DEL
MINISTERO
Ministero organo primario deputato alla tutela dei beni culturali. (Non necessario sapere tutte le varie
divisioni, ma i principi generali). Il Ministero della pubblica istruzione si occupava della tutela delle Belle
Arti, ossia delle bellezze e non del bene, nel 1975 venne istituito il ministero dei beni culturali poi
modificato nel 98, traslato in ministero di spettacolo turismo, oggi Ministero della Cultura.
Principio di separazione tra attività di indirizzo e attività di gestione: ossia tutti i ministeri stabiliscono
quali siano le finalità da raggiungere per quanto riguarda l’indirizzo (politico).
Nel nostro ordinamento vige questo principio di separazione dal 93, dopo Tangentopoli: i ministri non
possono più gestire qualcosa che ha una valenza esterna, cioè non possono formare contratti, appalti ecc.,
si occupa solo di attività di indirizzo, di quella di gestione se ne occupano i dirigenti, i funzionari
amministrativi.
Tutti i ministri sono affiancati dai sottosegretari che ricevono delle deleghe per sopraintendere le funzioni
svolte dai dirigenti per controllare che venga raggiunto l’obiettivo prefissato dal ministro. Quello del MiC ha
anche organi periferici, dunque oltre il Ministero di Roma si hanno le soprintendenze nelle regioni, anche
se rimane organo del ministro.
Dunque:
➢ Ufficio di gabinetto;
➢ Ufficio legislativo;
➢ La segreteria tecnica;
➢ Per noi, anche il Comando dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale.
STRUTTURE CENTRALI → Abbiamo diverse direzioni generali competenti per le varie materie, per la
migliore organizzazione dei diversi interessi di cui si occupano, in particolare gli organi consultivi come il
Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici: sette comitati tecnico scientifici ad esempio per
l’archeologia, che supportano il consiglio superiore.
Gli uffici delle direzioni generali hanno funzione di amministrazione attiva, ossia hanno il potere di stipulare
un contratto.
Nell’ambito della riforma del Ministero che ha subito in questi anni c’è un fatto interessante: il regolamento
ministeriale tende a potenziare non solo le funzioni di tutela, ma anche rafforzare le strutture di creatività
contemporanea e digitalizzazione, e la gestione dei musei. Direzione generale creatività contemporanea:
sono affidate le competenze in materia di rigenerazione urbana, periferie, industrie culturali, ecc.
DIREZIONE GENERALE PER LA SICUREZZA DEL PATRIMONIO CULTURALE: ha servizi dedicati alle emergenze
e alle ricostruzioni in caso di eventi naturali disastrosi, e ha la funzione di garantire maggiore sicurezza
contro furti o incendi. È stato istituito l’istituto centrale per il Patrimonio immateriale, ossia le tradizioni
della comunità, le canzoni popolari, le compagnie teatrali, ossia quello che non può essere tutelato dal
Codice dei Beni Culturali, perché il Codice tutela le cose mobili e immobili che costituiscono materiale di
civiltà, solo le cose materiali, proprio per natura, non si possono espropriare materiali immateriali. Un’altra
forma di tutela è stata riconosciuta con il patrimonio subacqueo della soprintendenza con sede a Taranto.
IV. NOZIONE DI PATRIMONIO CULTURALE
Anche la nostra Costituzione parla di patrimonio nazionale.
ART. 2 → Lo definisce come costituito dai beni culturali e paesaggistici. Dunque, il patrimonio è una
nozione collettiva costituita da singoli elementi. CHE DIFFERENZA C’È? I singoli beni possono appartenere a
individui diversi, ma è il patrimonio che appartiene alla nazione.
Patrimonio deriva dal latino pater munus, cioè compito, dovere del pater. Allora, il patrimonio sta a
indicare un dovere del pater di curare i singoli livelli che compongono la consistenza del fondo della casa
per tramandarla ai propri figli. Questo è il suo significato: cura dinamica. Impone un facere a un soggetto
che ha a disposizione un patrimonio, e allora il pater deve fare qualcosa affinché i singoli beni del
patrimonio possano essere tramandati in buono stato ai discendenti.
Parlando di beni culturali naturalmente si allude al valore dei beni non solo dal punto di vista economico,
ma anche da un punto di vista storico, artistico. Il valore che viene attribuito ai beni riguarda la loro
artisticità e storicità.
Il nostro Codice è del 2004, ma questa nozione di patrimonio già esisteva nel nostro ordinamento perché il
Codice penale già all’art. 733 puniva chi danneggiava il patrimonio culturale ad esempio. Questo termine
unificante “patrimonio” (perché unifica i singoli beni che lo compongono) riconduce all’art. 9 della
Costituzione dove si fa riferimento al patrimonio nazionale.
PATRIMONIO NAZIONALE
È un insieme complesso, ma sempre unitario, dei beni che lo compongono e ci fa considerare come il
costituente abbia individuato una sorta di valori gerarchici per la tutela del patrimonio culturale: la
salvaguardia del patrimonio culturale e la tutela e valorizzazione dei beni che lo compongono. Quello che
viene in primo luogo è l’unitarietà, considerata sia dal costituente che dal legislatore nazionale.
Dunque, l’idea di patrimonio riconduce a beni culturali che lo compongono, ma la nozione non è statica,
non solo perché fa riferimento alle varie azioni che il titolare del bene deve compiere, ma anche perché la
composizione del patrimonio è variabile. I singoli beni sono variabili: il valore culturale non viene
individuato solamente dal punto di vista artistico, anche perché possono verificarsi eventi storici, possono
scoprirsi casi d’artista, fatti. Insomma, non è la cosa in se che ci porta a considerare il valore del bene, ma la
cosa che rappresenta. Ecco perché il patrimonio ha una dimensione variabile anche se unificante nella sua
immagine.
IL PATRIMONIO APPARTIENE ALLA NAZIONE → L’appartenenza alla nazione, tuttavia, non implica che si
parli di proprietà in senso civilistico, ma parliamo di appartenenza alla nazione. Questa espressione ne
evidenzia lo scopo conservativo: se appartiene alla nazione, tutti i soggetti sono chiamati alla
conservazione del bene. Da qui la Convenzione di Faro che chiama in causa la collettività per
l’individuazione e conservazione dei beni culturali.
PERCHÉ INSISTIAMO SULLA TUTELA DEL PATRIMONIO? Perché la tutela assoggetta un insieme di cose a un
sistema vincolistico. L’interesse superiore è quello della fruizione da parte della collettività, di tutti i
soggetti anche se il bene è di proprietà privata o ridotto male.
Si insiste sulla conservazione perché prevale su tutte le altre. Già la valorizzazione presuppone qualcosa di
più, anche se non sempre è possibile la messa a valore del bene, ma basta il ragionamento logico: la
conservazione e la tutela fanno sì che il bene resti integro per la fruizione della società. Il bene culturale ha
un valore di per sé, e lo Stato lo deve conservare anche se non serve a nulla perché fa riferimento al
godimento della collettività.
Il fatto che il bene culturale sia della nazione ha valore precettivo, cioè “di comando”: c’è un obbligo dei
soggetti pubblici e privati che hanno la titolarità dei beni nella fruizione pubblica o manutenzione del bene.
Anche nei confronti dei privati perché il dovere di manutenzione si applica per i beni in loro possesso.
IL POTERE DI TUTELA COMPETE ALLO STATO → Le soprintendenze dei beni culturali sono su tutto il
territorio, ma non sono delle province, ma del Ministero che le deconcentra a livello nazionale per
assicurare ai cittadini la realizzazione degli interessi della collettività.
V. LA NOZIONE DI BENE CULTURALE
COS’È QUESTA CULTURALITÀ DEI BENI?
La nozione l’abbiamo già vista in precedenza: la commissione Franceschini supera la nozione estetica e ci
parla di bene che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà, comunque essa venga
espressa. Non solo in senso positivo (come case di artista), ma potrebbe avere valore artistico anche il
luogo di una battaglia.
COME VIENE DEFINITO IL BENE CULTURALE NEL NOSTRO CODICE? → Anche il nostro Codice definisce i
beni culturali superando le leggi precedenti. Si aggancia alla materialità del bene e ad una nozione storica,
ad un valore che esprime il bene che supera il concetto estetico. Sono le cose immobili e mobili che
presentano un valore storico-artistico, storico, archeologico, archivistico e bibliografico. E le altre cose
individuate dalla legge quali testimonianza aventi valore di civiltà.
Si dice che quella del bene culturale sia una nozione aperta. Si parla di concetti giuridici indeterminati
perché rinvia ad una disciplina non giuridica per stabilire il contenuto del concetto “testimonianze aventi
valore di civiltà” o per stabilire se quel bene abbia valore artistico, storico…
Quando il legislatore ci parla di testimonianza materiale avente valore di civiltà FA RIFERIMENTO ALLA
COSA O AL VALORE CHE ESSA ESPRIME? Prendiamo come esempio l’abitazione di un’artista: TUTTA LA
CASA O SOLO IL PICCOLO STUDIO IN CUI DIPINGEVA? O IL GIARDINO IN CUI CAMMINAVA (come Monet)?
Questa è la discrezionalità della scelta del valore culturale: dipende dal valore culturale che vogliamo dare a
quel bene, ed è l’esperto di beni culturali a fare questa scelta.
In queste definizioni generali che abbiamo visto nell’art. 2, intervengono poi altri articoli, come l’art. 10:
Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni,
agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a
persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici
civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico.
Leggendolo così vediamo che emergono dei principi della tassatività e tipicità dei beni culturali che
costituiscono un paletto di confine per la pubblica amministrazione che impone i vincoli. La Soprintendenza
non può creare vincoli a suo piacimento, ma può imporre solo vincoli previsti dal codice, cioè le limitazioni
previste da esso.
PRINCIPIO DI LEGALITÀ → Se la pubblica amministrazione vìola le norme che regolano la sua azione, il
provvedimento che emana è illegittimo e il privato può impugnare questo provvedimento davanti a un
giudice.
TIPICITÀ E TASSATIVITÀ → La nozione di bene culturale è aperta, ma le fattispecie di beni culturali, i fatti
sono elencati dal codice e solo quelli possono essere vincolati.
MATERIALITÀ → Possono essere vincolati solo i beni che legislatore ha individuato come cose da tutelare.
Un archivio è tale solo se è completo dei suoi elementi, perché se manca una parte essenziale non è più
archivio e non può essere vincolato come tale.
PUBBLICO O PRIVATO?
Il nostro codice fa poi una distinzione di appartenenza: pubblica e privata. PERCHÉ LA DISTINZIONE È
FONDAMENTALE? Per la diversa modalità di assoggettamento alla disciplina codicistica vincolistica.
Il codice ci dice che sono beni culturali le cose mobili e immobili appartenenti a territori nazionali che
presentano interesse artistico, storico… e non sono compresi quei beni che hanno meno di settant'anni.
Infatti, il presupposto perché certi beni siano considerati beni culturali è l'appartenenza a un soggetto
pubblico e la risalenza temporale ad oltre settant'anni oltre all'autore morto. Per il solo fatto che un
determinato edificio è stato realizzato più di settant'anni fa e appartiene allo Stato è considerato per
presunzione un bene culturale. Questo significa che adesso si applica la disciplina del codice dei beni
culturali.
Le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle
regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto
pubblico;
Gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici
territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico;
Le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici
territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico, ad eccezione delle raccolte
che assolvono alle funzioni delle biblioteche indicate all'articolo 47, comma 2, del
decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616.
CHE COS’È QUESTA PRESUNZIONE? La presunzione di culturalità permane fintanto che non viene spedita la
verifica di culturalità: quest'ultima ha lo scopo di o consolidare la culturalità del bene in caso di esito
positivo, oppure in caso di esito negativo la verifica ci dice che quel bene non ha culturalità e la presunzione
cade.
Un'altra differenza è la diversa intensità di interesse culturale di un bene: ovviamente occorre riscontrare
un interesse culturale da giustificare, novità introdotta dal codice per la tutela dei beni dei privati.
Altra differenza riguarda la modalità di assoggettamento al regime di tutela: il legislatore ci dice che si
appartengono al suolo pubblico e hanno più di settant'anni sono beni culturali da tutelare.
Ci sono dei beni che esprimono un valore culturale non in quanto essi abbiano un valore artistico in sé, ma
per il valore che hanno con l'esterno, con la storia, con il lavoro svolto dall'uomo in quel luogo virgola in
quanto testimonianza avente valore di civiltà. Ecco perché ad esempio sono assoggettati a vincolo le ex
fabbriche, ex cementifici e locali storici come antichi caffè e farmacie. Anche i ristoranti possono essere
assoggettati a vincoli di culturalità, PERÒ INSIEME ALLA LORO DESTINAZIONE? Ciò contrasterebbe con
l'art. 2 del nostro Codice che parla di cose mobili e immobili: l'attività svolta in quel luogo è un'attività
immateriale legata certo al luogo ma un profilo è tutelare il luogo, altro profilo è vincolare l'attività svolta in
quel luogo. E ALLORA CHE COS’È CULTURALE? IL LUOGO O L’ATTIVITÀ SVOLTA? LA CULTURALITÀ DEL
LUOGO È DATA DALL’ATTIVITÀ CHE VIENE SVOLTA? O IL LUOGO È CULTURALE DI PER SÉ?
Un caso recente ha visto l'intervento dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato. C'è stato un dibattito e
sentenze contrastanti: alcune sentenze dicono che si può vincolare sia l'attività e altre no.
Il caso di specie riguardava un ristorante di nome Vero Alfredo, luogo in cui compaiono anche foto di figure
importanti come quella del presidente Kennedy. Il ristorante Vero Alfredo è stato oggetto di questo vincolo
di destinazione, non solo perché luogo culturale, ma perché l'attività era stata ritenuta collegata alla
collettività, come espressione di una storicità di quel luogo e quindi meritevole di un vincolo di
destinazione. Storicamente quell'attività era sempre stata collegata a quel ristorante, dunque il Ministero
ha imposto il vincolo. I proprietari hanno cercato di fare ricorso ma è intervenuta l'adunanza plenaria
secondo la quale (questa è una novità assoluta del nostro ordinamento) questo vincolo di destinazione
d'uso può essere imposto quando è utile alla conservazione dell'integrità materiale della cosa o del suo
carattere storico, artistico o culturale sulla base di un'adeguata motivazione dell'amministrazione preposta
dai beni culturali da cui risulti l'esigenza di prevenire situazioni di rischio per la culturalità del bene. Se
eliminiamo questa destinazione d'uso viene meno il valore culturale del bene, questo è il senso.
L'imposizione del vincolo di destinazione d'uso viene disposta quando si vuole tutelare un bene espressione
di identità culturale collettiva, per consentire nel tempo la condivisione e la trasmissione di questa
culturalità. Il principio di libera determinazione economica è anticostituzionale. Ehi l'adunanza plenaria ha
stabilito che quello che si vuole tutelare è la cultura collettiva, dunque chi acquista il bene sa cosa si deve
svolgere lì.
g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o
storico;
In questa elencazione ci soffermiamo sulle architetture rurali: non hanno di per sé bellezza artistica, ma
vengono considerati beni culturali per il loro rapporto estrinseco alla storia, alle tradizioni. Questa lettera l
è stata inserita nel codice di recente, nel 2004, perché sempre in quel periodo il Consiglio di Stato aveva
valutato la legittimità dell'imposizione del vincolo di immobili considerati come esempi di fabbriche locali il
cui pregio storico e artistico era intrinseco al bene stesso. Dunque, non tanto perché rappresentano un
bene estetico, ma per quel carattere di particolarità architettonica che rappresentava quel bene. Con
l'inserimento di questa norma si ha risolto il problema dell'illegittimità dell'imposizione del vincolo. E quella
sentenza di Consiglio di Stato del 2004 è stata ripresa anche nel 2020 per una sentenza che fa riferimento al
messaggio che quel bene può significare per le generazioni future.
Questo valore del patrimonio è stato ulteriormente tutelato ed esaltato dalla Convenzione di Faro firmata
dall'Italia nel 2013. Non crea specifici obblighi, ma fornisce degli obiettivi generali. Venne attuata in diversi
posti in Italia: Faro Venezia e Faro Trasimeno, e gli elementi significativi sono la nozione di patrimonio e di
eredità.
L’art. 2 della Convenzione di Faro ci spiega cosa sia questa comunità che deve tutelare il patrimonio
culturale: sono le persone che attribuiscono un valore ad oggetti specifici del patrimonio e che vogliono
trasmettere a generazioni future. Ecco perché si parla di eredità del patrimonio in ambiti specifici. L'onere
riguarda lo organizzarsi per le collettività, gestire e tutelare il proprio patrimonio culturale. Non è un
obbligo.
FARO VENEZIA → Cerca di rendere la città più attraente per i propri residenti e non per il turismo.
FARO TRASIMENO → È costituita da un gruppo di cittadini dell'area Trasimena. Essa cerca di favorire
l'ambiente quindi organizza passeggiate in luoghi di particolare interesse. Questo è lo scopo di sentirsi una
società che vuole tutelare la propria espressione di culturalità.
VI. LA VERIFICA DELL’INTERESSE CULTURALE
BENI AD APPARTENENZA PUBBLICA
Vediamo ora come il legislatore disciplina il modo in cui si va a riscontrare la culturalità dei beni e iniziamo
con quelli ad appartenenza pubblica.
ART. 12 DEL CODICE → Prima dell’entrata in vigore del codice, gli enti pubblici diversi dallo Stato dovevano
presentare un elenco dei beni mobili e immobili che potevano presentare valore storico e artistico per poi
essere sottoposti a verifica da parte di un ministro che individuava il valore di questi beni. Per i beni di
identità statale non si prevedeva alcuna verifica di individuazione e ciò rendeva anche impossibile la
possibilità di vendere questi beni pubblici quando non presentavano valore culturale.
Il Codice ha modificato questa situazione prevedendo che tutti i beni di proprietà pubblica di autore non
vivente e che abbiano più di 70 anni siano per presunzione dei beni culturali. Tuttavia sono comunque
soggetti ad una verifica di culturalità: è vero che si presume, ma ci può essere un accertamento successivo
della culturalità il quale fa sì che nelle more di accertamento venga considerato bene e assoggettato alla
disciplina del Codice. Questa verifica serve a controllare se sussiste la culturalità.
Il codice vieta la vendita dei beni culturali: non si può vendere se il bene ha più di 70 anni e appartiene a
soggetto pubblico. Però, se la verifica decide che non si tratta di un bene culturale, il soggetto a cui
appartiene può venderlo. Non si applica più il codice che invece si applicava sin dall'inizio perché la verifica
negativa lo fa cessare.
COME SI EMANA? Per emanare questo provvedimento di verifica occorre seguire un iter, ed è un
procedimento che il Codice non disciplina ma al quale possiamo risalire applicando l'articolo 12: questo dice
che c'è una richiesta del proprietario interessato a una verifica e inizia così il procedimento con la
documentazione necessaria a dimostrare la non culturalità del bene. Il MIBAC è intervenuto con dei decreti
indirizzati a pubbliche amministrazioni di riferimento spiegando che si deve applicare la legge 241
soprattutto con riferimento al diritto di partecipazione dell'interessato e all'obbligo di una puntuale
motivazione. L'applicazione di queste regole generali significa che abbiamo: una fase di avvio del
procedimento, viene svolta l'istruttoria e poi c'è una formulazione di proposta di esito positivo o negativo
della verifica. La comunicazione di avvio del procedimento fa subito scattare i termini.
ESITO NEGATIVO → Nel caso di esito negativo, se il bene apparteneva ai beni demaniali la verifica negativa
comporta la sdemanializzazione del bene quando non vi siano altre ragioni che impediscono quest’ultima,
perché i beni demaniali dello Stato o di enti regionali sono inalienabili, nel presupposto che la culturalità ci
sia. Se il bene non è più demaniale allora si può vendere.
COSA SUCCEDE SE LA VERIFICA NEGATIVA DI CULTURALITÀ ARRIVA DOPO CHE IL BENE È STATO
VENDUTO? Ci sono state delle sentenze del Consiglio di Stato che dicono che è insanabile. Riteniamo nullo
un contratto che poi verrà stipulato nuovamente, perché la verifica negativa permette la vendita del bene.
Teniamo presente che è sempre più vantaggioso per il privato ripetere un procedimento o un atto anche se
l'ordinamento a volte, come nella legge 241, lo evita per un principio di economicità.
Tornando alla verifica di culturalità, la conclusione di questa verifica va comunque trascritta nei pubblici
registri per consolidare quel regime di inalienabilità di cui abbiamo finora discusso, prima caratteristica e
grande limite che tocca da vicino sia le pubbliche amministrazioni che i privati.
COME E QUANDO SI CONCLUDE IL PROCEDIMENTO DI VERIFICA → Questo procedimento deve avere una
fine prima o poi e tutti i provvedimenti devono essere emanati entro un determinato termine. La verifica di
culturalità si deve concludere entro 120 giorni dalla richiesta. SE PASSANO 120 GIORNI E IL
PROVVEDIMENTO NON VIENE EMANATO? L'AMMINISTRAZIONE PROPRIETARIA DEL BENE COSA PUÒ
FARE? Esiste un istituto che si chiama silenzio della Pubblica Amministrazione che si può configurare in
silenzio assenso: questo vuol dire che a quel punto il provvedimento si considera rilasciato, dunque di esito
positivo. Però, è un meccanismo che non si applica per i beni costituzionalmente garantiti, tra cui i beni
culturali.
COMMA 9 → Contiene una precisazione interessante perché riguarda il mutamento di qualifica del
soggetto proprietario del bene. I proprietari dei beni culturali possono essere anche altri soggetti pubblici,
come gli enti ecclesiastici, e quei tipi di enti sono sottoposti a questa presunzione di culturalità e al
successivo provvedimento di verifica.
Se l'ente pubblico dovesse essere privatizzato, i beni culturali di sua appartenenza CHE FINE FANNO? NON
SONO PIÙ BENI CULTURALI? La culturalità appartiene al bene e non al soggetto. Questo è uno dei casi in
cui il soggetto proprietario può chiedere la verifica, perché quella presunzione di culturalità si basa sul
presupposto che il bene sia pubblico, ma qui si tratta di un bene privato: si applica allora il procedimento di
verifica solo se è richiesto.
VII. LA DICHIARAZIONE DI BENE CULTURALE
l'articolo 13 del nostro Codice dispone la finalità della dichiarazione di culturalità, molto diversa dalla
verifica, perché la dichiarazione ha come oggetto i beni che appartengono a un privato. La verifica deve
solo controllare se il bene pubblico ha un interesse culturale, ma nella dichiarazione, invece, l'interesse è
qualificato.
Il codice tende alla massima tutela dei beni culturali, ed è per questo che la dichiarazione di culturalità è
volta ad accertare la sussistenza dell'interesse culturale con un atto amministrativo della pubblica
amministrazione volto ad accertare il contenuto di un concetto giuridico indeterminato.
Per riconoscere la natura culturale di un bene, COME FA LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE CHE NON HA
COMPETENZE TECNICHE? Quando va a valutare la culturalità del bene di proprietà privata deve rilevare un
interesse culturale particolare attraverso questa scienza metagiuridica. Se il bene è pubblico basta che ci sia
un interesse semplice.
Il bene culturale, a chiunque appartenga, già nasce culturale. La dichiarazione della Soprintendenza si limita
ad accertare questo valore immateriale del bene che esso già aveva, cioè si limita semplicemente a farlo
emergere, lo fa conoscere a tutti. Ha una natura dichiarativa e non espropriativa. È anche vero però che
dopo la dichiarazione di culturalità noi abbiamo un nuovo bene, che è il bene culturale: l'atto di
dichiarazione ha creato una nuova res, il bene culturale.
EFFETTO DELLA DICHIARAZIONE → L’effetto è quello di creare un nuovo bene, è dopo la dichiarazione,
diversamente per i beni di appartenenza pubblica, che si pone il vincolo di immodificabilità del bene da
parte del proprietario senza preventiva autorizzazione della Soprintendenza. Questo procedimento di
imposizione del vincolo (procedimento di dichiarazione di interesse culturale del bene) è rilevante per
come si sviluppa e come si struttura la sua funzione.
COME FUNZIONA? Il procedimento è quel percorso giuridico che serve a valutare se una determinata cosa
che appartiene alle categorie dell'articolo 10 presenta o non presenta quel livello eccezionale o particolare
di culturalità. Il procedimento ha una particolarità: è il soprintendente che avvia questo procedimento, ma
l'iniziativa della Soprintendenza può essere anche affiancata dalla motivata richiesta o della Regione o di un
altro ente territoriale. È comunque dato avviso, non solo al proprietario ma a tutti coloro che hanno
interesse di regime giuridico di una cosa.
Questa comunicazione di avvio del procedimento deve avere un termine comunque non inferiore ai 30
giorni, entro cui il proprietario può presentare osservazioni del tipo se è interessato o meno alla culturalità
del bene che lo riguarda. PERCHÉ INSISTIAMO SU QUESTA COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL
PROCEDIMENTO? Innanzitutto per l'effetto partecipativo che comporta, perché solo con la comunicazione
il privato è a conoscenza che verrà emanato un provvedimento che lo riguarda.
INOLTRE → Il vincolo ha efficacia già alla sua comunicazione di avvio del procedimento. Si parla di via
cautelare di alcune disposizioni che poi verranno applicate a regime dopo l'esito, cioè quando la
dichiarazione accerterà la culturalità del bene, ma intanto, per evitare la dispersione della probabile
culturalità del bene, con la procedura di avvio si applicano in maniera cautelare:
In particolare, l'articolo 20 pone un vincolo sulla dispersione del bene. Si vieta un uso non compatibile forse
col carattere culturale del bene stesso, cioè uno uso che potrebbe recare un pregiudizio ai beni o alla loro
conservazione.
Su proposta della Soprintendenza la commissione deve emanare il decreto di interesse culturale. I 120
giorni vengono computati dal momento che il proprietario riceve la comunicazione di avvio del
procedimento. Tutte queste articolazioni procedimentali sono a tutela del privato perché se
l'amministrazione non rispetta i termini è illegittimo dato che non ha rispettato la legge che disciplina il suo
iter. Nel nostro caso, il nostro Codice dice che entro 120 giorni dalla comunicazione di avvio del
procedimento deve essere emanato il provvedimento di dichiarazione di culturalità.
Questo decreto di dichiarazione di culturalità ha anche degli obblighi contenutistici da rispettare: l'intento
deve essere motivato, a maggior ragione nel nostro caso la Soprintendenza (o commissione regionale) deve
indicare la motivazione per cui il bene è meritevole di questa tutela particolare, dunque deve indicare i
presupposti di fatto, le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell'amministrazione in relazione
alle risultanze dell'istruttoria. A volte, alla dichiarazione della culturalità viene aggiunta una relazione
tecnica alla quale la Soprintendenza e la commissione potranno fare rinvio per motivare, indicare i caratteri
di culturalità, il fatto culturale, la rilevanza culturale del bene.
Per agevolare il proprietario di questo provvedimento, l'atto di dichiarazione contiene anche le indicazioni
di quelle disposizioni volte alla tutela del bene culturale, cosicché il privato non si sbagli e magari venda per
errore o lo danneggi, lo alteri così violando la regola di prima tutela del bene culturale che è la
manutenzione e la conservazione.
Inoltre, la notifica di dichiarazione della culturalità sottomette alla disciplina codicistica quel determinato
bene: il privato, dal momento della notifica, sarà soggetto a tutte le misure del codice, anche quelle atte
alla valorizzazione del bene. Dunque, questo provvedimento di dichiarazione di culturalità ancorché
completo non è efficace fin quando non viene notificato ai proprietari detentori del bene. Da quel
momento in poi il nostro bene è sottoposto a vincolo e il provvedimento dichiarativo viene trascritto nei
registri immobiliari, anche per tutelare i terzi cioè i soggetti diversi da me che potrebbero voler acquistare il
mio bene, quindi è bene che anch'essi sappiano dei vincoli.
Di questi beni di cui è stata effettuata la dichiarazione e rientrano nel patrimonio culturale, viene effettuato
un elenco da parte del Ministero anche su supporto informatico proprio per agevolare l'individuazione di
beni medesimi.
TUTELA INDIRETTA → Un altro concetto su cui riflettere e che non dobbiamo confondere con la
dichiarazione di culturalità del bene, sono quei beni che subiscono un vincolo per la tutela indiretta. Sono
prescrizioni di tutela indiretta del bene perché non cadono direttamente sul bene, ma su quelli che lo
circondano: infatti, il ministro può prescrivere istanze, misure, norme volte a evitare il pericolo che sia
danneggiato il bene o la prospettiva del bene o volte a evitare che non possano godere di abbastanza luce o
che ne siano alterate condizioni ambientali o di decoro. In poche parole, vengono vincolati dei beni che
NON rivestono valore culturale ma che costituiscono la cornice ambientale del bene ed è per questo che
svolgono questa funzione di completamento del regime di tutela. Spesso si può giungere a imporre la
inedificabilità dei terreni che si trovano vicino al bene.
Ciò che per noi è di particolare interesse è che queste prescrizioni che il ministero dei beni culturali può
imporre non al bene ma ai beni circostanti, questi vincoli indiretti sono in primo luogo immediatamente
precettivi, cioè di immediata efficacia. Poi, al contempo vincolano anche tutti gli enti pubblici territoriali
interessati a rispettarli e a inserirli nei propri strumenti urbanistici.
È prevista anche la possibilità di una tutela più celere: in questa ipotesi è ammesso un ricorso al ministero
per motivi di legittimità e di merito entro 30 giorni dalla notifica di verifica della culturalità. Si chiama
ricorso amministrativo perché ci rivolgiamo a una pubblica amministrazione, quindi non è un giudice che
deve decidere se quell'atto è conforme o no alla legge, ma trattandosi di una amministrazione che deve
giudicare, questa può sindacare l'atto non solo per motivi di legittimità ma anche di merito.
MOTIVO DI LEGITTIMITÀ → Vuol dire che non ha rispettato la legge, ha violato il codice.
MERITO DELLA SCELTA → Ammettiamo che la legge sia stata rispettata, ma il bene non è dei migliori. In
questo caso il ministro può sindacare la culturalità o meno del bene, cosa che invece non può fare un
giudice.
Svolta l'istruttoria il ministro decide il ricorso entro 90 giorni. Rimane sempre la possibilità dell'altra forma
di tutela da parte del privato che è quella giurisdizionale: in questo caso ha un maggior lasso di tempo per
andare davanti a un giudice, cioè 90 giorni.
Quelle che abbiamo visto finora sono forme generali di individuazione dell'interesse culturale, verifica e
dichiarazione. Però, ci sono forme più limitate di individuazione del bene culturale, cioè forme che
accertano la culturalità del bene al limitati fini o per limitati scopi. Esempio: opere di architettura moderna
previste nell'articolo 11 → il ministro in questo caso accerta il particolare valore artistico col fine di avere
contributi per interventi conservativi. Questo perché il bene non ha più di settant'anni e l'artista è vivo,
dunque il particolare valore artistico si può ottenere solo per aver contributi di conservazione. Un altro
esempio possono essere le aree aventi valori archeologico, storico artistico, aree in cui l'esercizio di
commercio è consentito solo a particolari condizioni, cioè quando le attività di artigianato sono riconosciute
come facenti parte dell'identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni Unesco. Al fine di sottoporli
alla visita del pubblico devono essere dichiarati di eccezionale interesse culturale, non basta il particolare
interesse culturale.
VIII. IL BENE CULTURALE TRA RES E VALORE IMMATERIALE
COME FA LA RES A DIVENTARE BENE?
ARTICOLO 810, CODICE CIVILE → Fa una distinzione fra beni e cose: sono beni solo le cose che possono
formare oggetto di diritti, avere un valore per l'ordinamento giuridico a cui interessa poco ad esempio del
valore emotivo. La cosa, dunque, diventa un bene che può formare oggetto di diritti perché presenta un
determinato valore, nel nostro caso valore culturale.
La questione del valore immateriale dei beni culturali risale alla commissione Franceschini di 1967 perché
viene elaborata questa nozione di bene culturale come espressivo di un valore immateriale che ha
testimonianza di civiltà. Insomma, il valore immateriale sta nell'essere testimonianza di civiltà.
LA NOZIONE SI È RIFERISCE SOLO ALLE COSE O VA OLTRE IL DATO MATERIALE? Il nostro Codice tutela i
beni culturali immateriali nel codice 7 bis solo quando espressione di identità culturale collettiva e se le liste
UNESCO sono collegate a bene materiale. Allora, due sono i presupposti: rientrare nelle liste UNESCO ed
essere collegati a bene materiale.
La commissione Franceschini ha individuato anche la duplicità della cosa e del valore: da una parte
abbiamo la cosa, dall'altra il valore culturale che la cosa esprime di cui si occupa il Codice. È un interesse
che ha in cura la pubblica amministrazione, solo il profilo culturale è sotto la tutela dell'ordinamento
giuridico.
C'è sempre una cosa che incorpora una culturalità, però la cosa in sé non è sempre un bene, cioè non
sempre può formare oggetto di diritto. Esempio: il muretto etrusco. SE IL MURETTO NON FOSSE ETRUSCO
AVREBBE VALORE DI SCAMBIO? No. Non solo non ha valore di scambio, ma rappresenta una diminuzione
del valore del terreno perché chi lo acquisterà dovrà demolirlo. Tuttavia, se individuiamo un valore in quel
muretto diroccato e se esso diventerà oggetto di tutela da parte dell'ordinamento giuridico, diventerà un
bene culturale perché espressivo della tecnica etrusca. Ed ecco che è il valore culturale che domina sulla
cosa.
Questo primato della componente culturale lo vediamo sui beni che definiamo identitari soprattutto. E lo
vediamo anche nella distinzione fra beni materiali e immateriali:
A. I beni immateriali sono tutelati dal nostro ordinamento, come quelli musicali. Consistono in una
creazione intellettuale, ma si estrinseca attraverso un corpus mechanicum (come la radio per la
musica). Ma quella che è la creazione intellettuale e la musica che sentiamo. Questo corpus
mysticum nasce per effetto di un giudizio che accerta la presenza nella cosa di una testimonianza di
civiltà. Si parla di interesse;
B. Nei beni culturali materiali il corpus mechanicum non è solo una mera estraniazione del prodotto
intellettuale con una sua autonomia. Ma nei beni culturali c'è una immedesimazione fra cosa e
valore, fra corpus mechanicum e corpus mysticum. Se si distrugge il bene materiale si distrugge il
bene culturale, questa è la caratteristica che distingue i beni culturali immateriali da quelli
materiali: i beni materiali non hanno le caratteristiche di riproducibilità e indistruttibilità.
PERCHÉ INSISTERE SU QUESTO VALORE CULTURALE DEL BENE? Perché ha rilievo particolare nel nostro
ordinamento. Anche perché, se perde carattere di culturalità un bene di appartenenza pubblica questo
esce dalla qualifica dei beni culturali e diventa bene comune. Quindi, già ha un valore spendibile
quando il bene appartiene a un soggetto pubblico.
La presunzione di culturalità del bene ad appartenenza pubblica lo sottopone immediatamente per sua
nascita, ma la culturalità è un valore che va accertato se vogliamo escludere quel bene della vincolistica
del codice. Se all'esito della verifica questa culturalità non c'è, il soggetto può vendere l'oggetto
liberamente nel mercato.
Giannini definì il bene culturale come bene pubblico a chiunque esso appartenga caratterizzato da una
pubblicità particolare, perché pubblico non in quanto bene di appartenenza (cioè non perché
appartiene a un soggetto pubblico, perché è di proprietà di un soggetto pubblico, anche perché
considerato pubblico anche il bene privato), ma la pubblicità deriva dalla fruibilità collettiva. Il valore
culturale è pubblico.
La fruibilità viene fuori quando pensiamo alle modalità di utilizzo del bene culturale:
A. Uso comune o generale dei beni pubblici: è quello che vede l'uso conforme alla ordinaria
destinazione dei beni. Questo è il riconosciuto indifferentemente e indiscriminatamente a tutti i
cittadini; ad esempio passeggiare o sedersi dentro corso Vannucci, dunque conforme alla sua
ordinaria destinazione tranne casi particolari;
B. L’uso speciale: anche questo risulta conforme alla naturale destinazione del bene, però è diverso
dall'uso comune perché non è consentita a tutti, ma solo a quelli che acquisiscono un particolare
titolo di utilizzazione, ad esempio un biglietto;
C. Uso eccezionale: questo avviene al di fuori delle norme, della normale destinazione del bene. Tale
uso può essere legittimato soltanto ed esclusivamente da uno specifico provvedimento
amministrativo (concessione) e spesso è a titolo oneroso. Ad esempio, creare un'edicola su una
strada pubblica: questa concessione fa sorgere nel destinatario la possibilità di uso del bene diversa
da quella spettante alla generalità dei soggetti.
Dell'uso comune o generale il Codice se ne occupa in particolare nell'art. 101, dove afferma che gli istituti e
luoghi della cultura (musei, biblioteche, parchi…) quando appartengono a soggetti pubblici sono destinati
alla pubblica fruizione. Ma la disposizione dell'art. 101 al comma 3 che consente questo uso generale
conforme alla destinazione dei musei, biblioteche, parchi… va letta insieme all'art. 103: esso prevede un
uso speciale dei beni, infatti dice che l'accesso agli istituti e luoghi della cultura può essere gratuito o a
pagamento, sottolineando che comunque Ministero o regioni possono stabilire ipotesi in cui l'ingresso sia
gratuito o dividere biglietti per categorie di età, lavoro o appartenenza. Proprio nello stesso art. 103
abbiamo due ipotesi di uso del bene: uso generale e uso speciale.
1. È l'onerosità che rende speciale quello che la norma prevede come uso generale, cioè l'accesso ai
luoghi pubblici della cultura. Se è gratuito è generale, se è oneroso diventa speciale.
2. Sempre generale è l'accesso alle biblioteche, archivi pubblici per finalità di ricerca, studio.
USO ECCEZIONALE
A titolo individuale. L'art. 106 del codice prevede questo uso a titolo particolare da parte di coloro che
hanno ottenuto un provvedimento di concessione dopo averne fatto richiesta. Cioè, si concede a coloro che
ne hanno fatto richiesta potendo prescrivere nell'atto di concessione condizioni particolari per il
destinatario, che deve avere cura del bene garantendone la conservazione, la fruizione pubblica e
dovendone assicurare la compatibilità con la sua destinazione d'uso e il suo essere un bene culturale.
È POSSIBILE LA RIPRODUZIONE DEI BENI CULTURALI? In realtà gli articoli 107 e 108 prevedono la necessità
di un provvedimento di concessione anche per un uso “strumentale” e precario dei beni culturali ai fini di
riproduzione. Questa ipotesi di utilizzazione individuale dei beni culturali è sempre comunque onerosa.
Quando parliamo di uso eccezionale siamo sempre di fronte ad una utilizzazione individuale del bene che
contrasta con la sua natura, con la sua utilizzabilità da parte della collettività, perché in genere è stabilito un
divieto di uso eccezionale contrastante con il bene, come ad esempio la riproduzione dei beni attraverso
calchi di sculture originali. Sono invece consentiti, previa autorizzazione del soprintendente, i calchi da
copie degli originali già esistenti nonché quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con
l'originale.
Tuttavia, il decreto-legge citato ha altresì introdotto nel testo dell'articolo 108 un comma 3 bis, ai sensi del
quale
sono in ogni caso libera le seguenti attività, purché attuate senza scopo di lucro ma
con finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero espressione
creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale.
DIRITTO CIVICO ALLA RIPRODUZIONE DEL BENE → Si tratta di libertà di panorama, dunque fotografabili e
riproducibili. Questa tesi trova fondamento proprio sul principio della fruizione collettiva, dell'appartenenza
collettiva, del fatto che si tratta di beni pubblici in quanto beni di fruizione. C'è solo un limite: l'uso che ne
facciamo delle riproduzioni. L'unico limite che richiede autorizzazione è la finalità: se è per finalità
commerciale occorre autorizzazione ad esempio.
VALORE CULTURALE → Anche se i beni restano nella titolarità proprietaria dei privati, quello che riguarda
la gestione e l'utilizzazione del valore culturale appartiene alla pubblica amministrazione che è il soggetto a
cui è affidata la cura di quell'interesse che viene fruito dalla collettività. Questo è l'elemento caratterizzante
la natura dei beni, la fruizione da parte della collettività del loro valore culturale.
I BENI COMUNI → La commissione Rodotà nel 2008 individua questi beni comuni che sono cose che
esprimono la loro utilità in quanto servono per esercitare i diritti fondamentali, nonché il libero sviluppo
della persona umana. QUALI SONO I BENI COMUNI? Nell'elenco che la commissione ha stilato, oltre a
fiumi, sorgenti, corsi d'acqua, zone boschive, la flora.. ci sono i beni archeologici culturali, ambientali e le
altre zone paesaggistiche tutelate. Anche i beni culturali rientrano tra i beni comuni ed è importante perché
il valore di questi beni è il valore d'uso, non di scambio. Quello che conta è che il loro costo, qualunque
possa essere il costo di manutenzione, è sempre subordinato al valore che possa avere la realizzazione del
diritto al quale sono collegati. Il valore di questi beni comuni è parametrato sul loro valore d'uso, non al
valore di mercato. E la loro efficienza economica è subordinata al giudizio di valore che noi diamo alla
fondamentalità dei diritti: se è un diritto fondamentale non importa quanto costa mantenere quel bene
comune necessario per mantenere quel diritto fondamentale.
Ciò può creare una certa gerarchia, per questo si dice che è parametrato alla fondamentalità dei diritti: tra
l'acqua è un bene culturale ad esempio si deciderà di tutelare per prima l'acqua dato che è un bene
essenziale.
IX. BENI IMMATERIALI
PROBLEMA CENTRALE: RELAZIONE CON UNA RES → Questa immateriale funzione di accrescimento delle
conoscenze viene svolta da un bene che vede la compenetrazione del valore nella res. Più volte è stato
ribadito dalle corti che la cultura si compenetra nelle cose e non può essere protetta separatamente dal
bene, però noi abbiamo visto che già sentenze del Consiglio di Stato hanno protetto l'attività svolta nel
locale in quanto compenetrata in quel locale: si tutela il locale perché svolge quell'attività (Vero Alfredo). In
questo caso allora c'è la tutela separata.
C'è questa compenetrazione fra valore culturale e cosa che rende imprescindibile e inscindibile la loro
tutela anche se della divisione fra i due beni noi ci rendiamo conto se parliamo di beni di proprietà privata.
Perché, mentre il privato può utilizzare il bene secondo la sua natura, l'aspetto è il valore culturale di cui si
occupa la pubblica amministrazione viene tutelata e disciplinato con una normativa ad hoc che può limitare
ulteriori aspetti del diritto di proprietà. Sicuramente limiterà la sua facoltà di disposizione del bene sotto
qualsiasi profilo: dalla libertà di dipingere le pareti fino a quella di spostarlo, alienarlo.
ART. 7-BIS DEL CODICE → Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni
UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle
diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono
assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e
sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10.
Con l'acronimo D.E.A. Sono stati tradizionalmente indicati quei beni, appartenenti al patrimonio culturale
nazionale, che si distinguono per essere “legati alle culture locali ed alla vita della gente comune, e che
costituiscono espressione delle tradizioni oggetto di studio degli antropologi”. Questa definizione in
questione riunisce tre ambiti disciplinari che in Italia erano fino a quel momento rimasti divisi:
PROBLEMA → I beni immateriali individuati nella Convenzione sono assoggettabili alle disposizioni del
Codice solo se sono rappresentati da testimonianze materiali. Occorre dunque che non siano privi di un
substrato materiale fisicamente percepibile, di una res che li renda concretamente tutelabili, conservabili,
valorizzabili, fruibili da parte dell'intera collettività nazionale.
SENTENZA N.118 DEL 1990 → Tutela indiretta impossibile perché impossibile vincolare il luogo (struttura e
arredi) e anche la sua destinazione > non si può sperare di ottenere tutela sull'attività svolta in un luogo
tutelando questo, necessario ricollegare il vincolo di tutela solo a struttura e beni e non all'attività in sé.
Come tutelarli? Nel 2001 era stata adottata una raccomandazione dell’UNESCO che aveva auspicato la
creazione di strumenti normativi internazionali finalizzati alla protezione giuridica di questa particolare
specie di bene che, pur nella sua immaterialità, appartiene comunque al patrimonio culturale mondiale. A
questa raccomandazione segue una vera e propria convenzione Unesco del 2003 per la salvaguardia del
patrimonio culturale immateriale, cui è stata data esecuzione in Italia con la legge 27 settembre 2007. Gli
Stati contraenti sono arrivati alla seguente definizione del patrimonio culturale immateriale:
“le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli
oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi - che è le comunità, i gruppi, gli individui
riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale … trasmesso di generazione in generazione …
costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la
natura ed alla loro storia, dando loro un senso di identità e di continuità”
In relazione a questa definizione gli Stati firmatari hanno assunto formali impegni di salvaguardia e
cooperazione, anche attraverso l'adozione di misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale
immateriale, ivi compresa l'identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la
promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un'educazione formale e informale.
Si spiega così come mai il legislatore ha introdotto all'interno del Codice un nuovo art. 7-bis, attraverso il
quale è stato previsto che “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate nelle convenzioni
Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle
diversità culturali, adottate a Parigi rispettivamente nel 2003 e 2005, sono assoggettabili alle disposizioni
del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le
condizioni per l'applicabilità dell'art. 10”.
X. LA TUTELA DEI BENI CULTURALI
PARTE 1
Quello che l'ordinamento, La Repubblica devono avere a cuore e devono tutelare è questo valore
immateriale che il bene culturale rappresenta innanzitutto prendiamo. La prima funzione che il nostro
ordinamento riconosce alla Repubblica è proprio alla tutela di questo valore intrinseco del bene, dunque
realizzare l'interesse pubblico attraverso vari istituti. L'istituto rappresenta un nucleo di disciplina per
raggiungere un certo risultato per la massimizzazione dell'interesse pubblico, per la migliore realizzazione.
La tutela conservativa del bene culturale si concretizza in primo luogo nella sua immodificabilità: il codice
prevede una immodificabilità in senso generale del bene che vede un nesso fra idoneità del bene e del suo
valore immateriale a porsi come strumento rappresentativo della cultura e uso di cui si può fare. La
pubblica amministrazione prevede tre funzioni principali:
TUTELA SECONDO IL CODICE → l'art. 3 del Codice ci indica la definizione di tutela. Essa è una nozione
decisamente ampia che inizia con l'individuazione del bene, volta a garantire la tutela del bene sempre per
scopi di fruizione. Possiamo dire allora che lo scopo principale è la protezione, ed essa comprende
l'individuazione del bene, la sua conservazione con la finalità di garantire la pubblica fruizione che è
l'obiettivo di tutte le funzioni, perché il bene culturale è di appartenenza pubblica ed è dovere della
pubblica amministrazione garantire la fruibilità alla collettività.
IN COSA CONSISTE?
PROPRIETÀ
BENE CULTURALE DI PROPRIETÀ PRIVATA → Se il bene è di proprietà privata è chiaro che lo Stato dovrà
cercare di favorire la tutela in tutte le sue declinazioni, ma senza interferire troppo con libero esercizio della
proprietà privata da parte del privato. La discrezionalità della pubblica amministrazione è essenziale in
questo caso.
BENE CULTURALE PUBBLICO → la fruizione collettiva è in re ipsa > perché un bene pubblico è di per sé
destinato ad un pubblico interesse.
PROPRIETÀ PUBBLICA CONDIVISA → Abbiamo accennato in precedenza alla distinzione fra corpus
mysticum e mechanicum, cioè la distinzione per l'interesse culturale rappresentato dal bene (insito nel
bene) e il valore della cosa. Proprio perché l'oggetto è il valore culturale e tende alla fruizione collettiva, il
poteri dello Stato che sono volti a tutelare il bene si possono esercitare sempre, a prescindere dalla natura
del soggetto proprietario della cosa, sia che sia pubblico sia che sia privato.
Il soggetto che possiede il bene culturale deve comunque avere esaurito il procedimento di verifica di
culturalità perché il bene deve aver ottenuto la dichiarazione di bene culturale. Però noi sappiamo che la
richiesta di verifica già comporta le misure di salvaguardia.
SENTENZA DEL 69 → Importante e interessante sotto un duplice profilo: innanzitutto per quello che noi
studiamo ora, e poi perché nell'ambito della tutela la corte specifica che tutte le disposizioni volte alla
conservazione e al mantenimento della cosa, volte al proprietario privato, non impongono ad esso un
obbligo di miglioramento di abbellimento o di ampliamento, ma solo un obbligo di manutenzione e di
custodia della cosa.
La lite in questione era fra due privati: uno di loro possedeva un bene culturale, un giardino. In questo
giardino il proprietario, con l'approvazione della Soprintendenza, ha fatto piantare degli alberi
particolarmente elevati per abbellirlo dato il suo valore artistico. L'altro vicino era andato dal giudice
perché su quel giardino gravava una servitù a favore della propria casa e del proprio giardino, per cui non
poteva costruire o piantare sopra una certa altezza e non poteva togliere luce al suo giardino. Dunque,
PREVALE LA SERVITÙ CIVILISTICA OPPURE L'ABBELLIMENTO E IL MIGLIORAMENTO DEL BENE ARTISTICO?
La Corte spiega che non poteva trattarsi di manutenzione o di conservazione, non era obbligato a mettere
un albero che toglieva luce e veduta al vicino, quindi in questo caso prevaleva la servitù che gravava sul
bene culturale.
ESPROPRIAZIONE
Un obbligo di miglioramento non esiste, però l'obbligo conservativo sì. Se il privato non si attiva e lascia
rovinare il bene l'ordinamento prevede una decisione molto incisiva, cioè giunge ad esercitare quello che
viene chiamato potere ablatorio: gli toglie la proprietà del bene.
Mentre generale abbiamo il testo unico su espropriazioni per pubblica proprietà per realizzare opere
pubbliche, il Codice dei Beni Culturali prevede l'espropriazione di beni immobili e mobili per causa di
pubblica utilità quando corrisponde a un'importante interesse a migliorare le condizioni di tutela del bene
ai fini della pubblica fruizione. Questa espropriazione ha lo scopo di migliorare la fruizione del bene
attraverso la tutela: se il privato non lo fa ci pensa lo Stato.
La giurisprudenza ha specificato che anche questa possibilità di espropriazione può essere devoluta alle
regioni, resta sempre in mano al ministero ma il ministro può autorizzare ad espropriare il bene culturale.
In questi casi è il ministro che dichiara l'importanza della res culturale.
ESPROPRIAZIONE PER FINI STRUMENTALI → Come istituto, cioè come tipologia di disciplina, e nuovo. Però
prevede una finalità che ci è già nota: essa ha ad oggetto beni immobili che non sono beni culturali, ma che
vengono espropriati quando è necessario restaurare beni culturali o quando è necessario assicurare luce,
aria, prospettiva o accrescerne il decoro. Ha ad oggetto quelle cose che sono vicine al bene. In questo caso
con l'espropriazione si ha una modifica dello Stato dei luoghi da parte del soggetto che espropria.
INDENNIZZO
È vero che la legge può togliermi il diritto di proprietà per costruire un'opera pubblica, però si può ricevere
un'indennità, il giusto prezzo che consente di contentare il privato per il sacrificio legittimamente subìto.
ULTERIORI LIMITI
Un altro limite alla libera disponibilità dei beni culturali e quello della possibilità di imporre diritti d'uso e
godimento pubblico a vantaggio della collettività. Si può convertire questa fattispecie nell’equivalente
privatistico delle servitù: le servitù sono a vantaggio dei beni reali, delle cose, dei fondi in questo caso.
- Fondo servente (obbligo di far passare). Il proprietario delle penne culturale in questo caso deve
sopportare la visita della collettività; la servitù segue il bene. abbiamo una servitù a vantaggio della
collettività perché il ministero può imporre al proprietario dei beni culturali un orario, delle
modalità di accesso al suo bene in modo che la collettività ne possa fruire.
- Fondo dominante (diritto di passare): un terreno vede un diritto di passaggio da parte del
proprietario ma questo passaggio è a vantaggio del fondo. Il proprietario in questo caso è assente
perché è la collettività intera ad esserlo.
PARTE 2
Le varie declinazioni della tutela si fanno via via interessanti sotto il profilo delle varie forme di protezione
del bene:
I beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi
non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare
pregiudizio alla loro conservazione.
In primo luogo sono quelle misure di salvaguardia che abbiamo visto scattare appena arriva la
comunicazione di avvio del procedimento di dichiarazione di culturalità. Immediatamente scatta questo
divieto. MA QUALI SONO GLI INTERVENTI VIETATI? Si vieta la distruzione, il deterioramento e il
danneggiamento del bene, insomma quelle attività in contrasto con la loro funzione culturale. Questo è lo
scopo di tutela dell'articolo 20: l'esigenza è quella di protezione dei beni evitando atti che possano recare
pregiudizio al bene, e in questo caso il pregiudizio è proprio un danno che va anche graduato.
Gli archivi pubblici e gli archivi privati per i quali sia intervenuta la dichiarazione [...]
non possono essere smembrati.
Il secondo comma dell'articolo 20 addirittura ripete lo smembramento di archivi pubblici e privati. Per i
privati è valido solo una volta che viene dichiarata la culturalità.
Il pregiudizio non è proprio un danno, ma una fattispecie di pericolo: il danno ancora non esiste ma siamo
in un momento antecedente, dunque quello che a noi interessa è che il codice tutela addirittura l'uso del
bene che deve essere compatibile con il loro carattere storico artistico.
❖ Rendere in tutto o in parte inservibili o non fruibili: danneggiare e rendere non più godibile da
parte della collettività anche se strutturalmente rimane lo stesso. Si tratta di dare
un'interpretazione applicativa a questi termini perché comunque si tratta di atteggiamenti che
vengono puniti anche con l'arresto oltre che sanzioni. E poi l'oggetto è riferito non solo ai beni
propri ma anche beni altrui. Si commette reato se si fa con l'intenzione di danneggiare, disperdere…
Nel nostro ordinamento già esisteva una norma che tutelava e tutela l'integrità del patrimonio
culturale e che punisce la distruzione, cioè l'articolo 173 del Codice penale. Chiunque distrugge o
deteriora una cosa pubblica o propria è punito;
ART. 173 → Questa norma si applica nei casi in cui per colpa si è recato un danno.
ART. 733 → Prevede solo una negligenza di comportamento e si applicherà invece nei residui casi in cui
non c'era l'intenzionalità.
❖ Distruzione: provoca la dispersione del bene. L'ordinamento tutela l'originalità della cosa, salvo
autorizzazione a demolire. Se però commetto un reato di distruzione si andrà a disperdere il valore
culturale che quel bene rappresentava;
❖ Danneggiamento: il danneggiamento comporta il permanere del bene. Questo può perdere alcuni
suoi caratteri o funzionalità. È irreparabile, dunque è tutelata la intangibilità del bene che deve
essere conservata a futura memoria.
❖ Devastazione e saccheggio dei beni culturali: alla norma introdotta prevista dall'articolo 518.
Questo è l'articolo che prevede il grado maggiore di lesione all'integrità del bene. La devastazione
dipende dalle proporzioni del danno che ha subìto il bene.
OBBLIGO DI FACERE → Questo divieto di tenere comportamenti dannosi nei confronti del bene può anche
trasformarsi in un obbligo di tenere un comportamento positivo affinché il bene non subisca questo danno
a carico della Pubblica Amministrazione, cioè quando è di pubblica proprietà. Bisogna controllare che i
soggetti, quando eseguono dei lavori, si comportino in modo tale da non danneggiare il bene culturale,
altrimenti la colpa, cioè la responsabilità per il danneggiamento arrecato dalla ditta che esegue i lavori, non
è solo o soltanto (o forse non lo è proprio) della ditta, ma del comune che aveva il compito di vigilare.
Il Codice All'articolo 21 prevede che si possa chiedere autorizzazione per certi interventi, ma che il
ministero potrebbe concedere valutando gli interessi in gioco. Tra questi interventi sottoposti ad
autorizzazione in via eccezionale il ministero può autorizzare:
3. L'ordine [...] si intende revocato se, entro trenta giorni dalla ricezione del
medesimo, non è comunicato, a cura del soprintendente, l'avvio del
procedimento di verifica o di dichiarazione.
La comunicazione di avvio del procedimento di dichiarazione dei culturalità impedisce qualsiasi modifica del
bene. Ordinare la sospensione dei lavori di un bene, pur di appartenenza pubblica, significa far scattare
l'obbligo di iniziare il procedimento di verifica di culturalità, mentre nel caso di un privato scatta l'obbligo di
avvio di dichiarazione di culturalità.
Se entro 30 giorni l'amministrazione non inizia il procedimento che succede? Il bene perde definitivamente
la sua valenza culturale se non viene iniziato il procedimento di verifica per i beni di appartenenza pubblica.
Dunque perde la sua presunzione. Se invece accade ad un privato, egli può continuare con i suoi lavori.
Declina in diverse attività. Non impone un fare specificatamente articolato nel contenuto, cioè cosa si deve
fare nello specifico. Ma ci dice la finalità che si deve perseguire, ovvero la conservazione.
La conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata
attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro.
1. Lo studio è un’attività tecnica, volta a ricostruire la storia e le caratteristiche del bene. Solo in
questo modo siamo in grado di identificare le tecnologie per proteggerlo e quali saranno gli
interventi migliori per conservare il bene e tramandarne il valore. Già la commissione Franceschini
aveva individuato l’importanza dello studio dello stato di conservazione del bene;
2. Prevenzione: superata la fase di studio ci occupiamo della prevenzione dei danni del bene. Sono
quelle attività che possono limitare le situazioni di rischio che potrebbero minacciare il bene
culturale nel suo contesto, cioè non solo vita che minacciano il bene culturale in sé per sé
considerato res, ma anche quelle attività volte a neutralizzare i fattori di rischio “ambientali” che
vogliono limitare il degrado del bene nella sua struttura fisica. Esempio: pensiamo alla limitazione
dell'umidità, oppure alle tecniche di schermatura della luce che possono riguardare i beni mobili
collocati all'interno di edifici; tutto questo è finalizzato ad evitare interventi diretti sul bene, per
evitare di arrivare al restauro;
3. Manutenzione: parliamo di conservazione. Attività programmata che prevede interventi diretti sul
bene, di carattere ripetitivo episodico, sempre volti al controllo delle condizioni del bene per
mantenerne l'integrità, l'efficienza funzionale e soprattutto l'identità sia del bene che delle sue
parti. Fa riferimento anche agli interventi e la condizione del bene. Uno degli obblighi del privato di
base è proprio la manutenzione ordinaria del bene;
4. il comma 3 del nostro articolo 29 ci dice in cosa consiste il restauro: in questo caso sono previsti
attività più incisive sempre di carattere episodico. Il restauro, a differenza della manutenzione che è
programmata, è eventuale, cioè avviene solamente in caso di necessità. Per questo motivo
comporta un intervento diretto sul bene finalizzato in primo luogo alla sua integrità materiale e al
recupero del bene per quanto possibile, poi per proteggere e trasmettere i valori culturali.
ART. 3 DEL D.P.R. 380 DEL TESTO UNICO DELL'EDILIZIA → Anche dell'edilizia abbiamo un'articolazione
degli interventi di manutenzione sui beni (da leggere in combinato disposto alla normativa sul restauro del
Codice dei beni culturali): in questo caso abbiamo una manutenzione ordinaria e straordinaria.
➢ Ordinaria: si tratta di opere di riparazione, sostituzioni di finitura degli edifici, insomma interventi
che cercano di mantenere in efficienza gli edifici così come sono e mantenerli in quel modo;
➢ Straordinaria: in questo caso si apportano quelle modifiche necessarie attraverso rinnovamenti,
sostiene di parti dell'edificio anche strutturali, come ad esempio per realizzare adeguamenti dei
servizi igienico sanitari, oppure per introdurre accessi ai disabili. Sono interventi incisivi, purché
però non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non modifichino le destinazioni d'uso.
Abbiamo allora due definizioni di restauro, quella del Codice e quella del Testo Unico. Questo significa che
tutti gli interventi che leggiamo nell'articolo 3 possono essere operati su un bene culturale tenendo sempre
presente la finalità di protezione del valore culturale del bene: questi interventi non potranno mai essere
così incisivi da alterarne la culturalità. Ma in ogni caso, questa attività di restauro tende a rinnovare
l'organismo, si tratta comunque di conservazione dunque bisogna lasciare inalterata la struttura del bene.
CHE SIGNIFICA? Che è vietato demolire e ricostruire perché per eseguire attività di restauro dobbiamo
applicare la norma sull'edilizia.
Nel 2022 c'è stata una modifica notevole perché è consentito demolire però solo in terreni che fanno parte
dei beni paesaggistici. Demolire è consentito in limitate ipotesi, prima non lo era. Questa modifica che è
stata apportata prevede che sono esclusi dalla possibilità di questa demolizione e ricostruzione
(ristrutturazione edilizia) gli edifici che sono nel centro storico.
La Suprema Corte di Cassazione penale precisa che non possono essere mutati:
In questa dimensione facciamo rientrare la possibilità di restauro del bene culturale, che il Testo Unico
chiama anche risanamento conservativo, cioè fedele ricostruzione del bene. Questo si qualifica per tutto
l'insieme di opere che sono volte a ripristinare la individualità originaria del bene che deve essere inalterato
nella sua struttura sia interna che esterna.
SU CHI GRAVANO?
1. Lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché ogni altro ente ed
istituto pubblico hanno l'obbligo di garantire la sicurezza e la conservazione dei
beni culturali di loro appartenenza;
I soggetti pubblici vanno distinti dai privati perché per gli enti pubblici l'obbligo è più gravoso dato che
devono garantire la sicurezza e la conservazione dei beni culturali di loro appartenenza, e devono rispettare
il luogo di collocamento del bene che è stato individuato dalla Soprintendenza e nel modo indicato dalla
Soprintendenza.
I privati devono rispettare la garanzia di conservazione del bene essendo meno gravosa la sicurezza.
a. Volontari (art. 31): Il restauro e gli altri interventi conservativi su beni culturali ad iniziativa del
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo sono autorizzati ai sensi dell'Art. 21;
b. Imposti (art. 32): Il Ministero può imporre al proprietario gli interventi necessari per assicurare la
conservazione dei beni culturali, ovvero provvedervi direttamente (se non eseguiti dal privato
saranno eseguiti dal Ministero a spese del privato);
La disciplina della circolazione è molto diversa a seconda che si tratti di spostare il bene nell'ambito
nazionale e internazionale. E vedremo che anche quella internazionale è differenziata in base alla
circolazione all'interno dell'Unione Europea e all'esterno. Vista la diversità di disciplina fondamentale,
dobbiamo preliminarmente fare un approfondimento sui beni ad appartenenza pubblica.
CHE COSA SONO? → In linea generale i beni ad appartenenza pubblica sono l'insieme delle cose mobili e
immobili che appartengono allo stato a titolo dominicale (da dominus, a titolo di proprietà). Essi sono
finalizzati alla strumentalità della finalizzazione del bene pubblico, cioè finalizzati a realizzare il godimento e
la fruibilità collettiva.
Ma ci sono anche altri beni che appartengono al pubblico e l'ordinamento dei distingue in:
❖ Beni demaniali;
❖ Beni patrimoniali indisponibili;
❖ beni patrimoniali disponibili.
Beni demaniali (art. 822 comma 1): il Codice civile identifica con demanio pubblico soltanto i beni immobili
(edifici, terreni), oppure universalità di beni mobili che vengono considerati immobili e debbono
necessariamente appartenere a un ente pubblico territoriale (quelli che compongono la Repubblica:
comune, provincia, regione, stato). Il codice fa anche una distinzione tra demanio necessario o accidentale:
1. Demanio necessario: appartiene allo Stato e fa parte del demanio pubblico (lido, fiumi, porti,
torrenti…). Sono anche opere destinate alla difesa nazionale, come aeroporti, strade naturali,
fortezze perché certe fortezze ad esempio potrebbero avere rilevanza storica artistica. Anche i
ricoveri antiaerei potrebbero averli. Anche le linee fortificate fanno parte del demanio, ma
potrebbero anche rivestire quella qualitas che abbiamo identificato nel nostro percorso, come il
rilievo storico nazionale. Anche perché non solo il bello artistico dà la culturalità al bene;
2. Demanio accidentale: il comma 2 dell'articolo 822 prevede dei beni che fanno parte del demanio
pubblico se appartengono allo Stato. Dunque lo saranno solo in ragione dell'appartenenza, cioè
solo se appartengono allo stato.
REGIME DEI BENI DEMANIALI → Se i nostri beni culturali appartengono allo Stato e rientrano in quelle
categorie non possono essere usucapiti, sono inalienabili e non possono formare oggetto di pignoramento
ed espropriazione forzata da parte dei privati (che si esegue in caso di debito del proprietario). È
impossibile applicare questi istituti al bene del demanio perché si verificherebbe un trasferimento della
proprietà.
COME FANNO I BENI AD ACQUISIRE QUESTO CARATTERE DEMANIALE? In caso di demanio naturale lo
diventano per la loro conformazione ovviamente, oppure possono acquisirlo a seguito di uno specifico atto
di destinazione pubblicistica.
C'è però una piccola complicazione, perché i beni del demanio eventualmente possono perdere questo
carattere di demanialità. Cioè possono essere sdemanializzati dallo Stato attraverso un atto. La vicenda è
ancora più complicata perché abbiamo visto che ci possono essere beni demaniali caratterizzati da opere
destinate alla difesa nazionale, come la fortezza oppure trincee storiche. Lo Stato decide che vengono
considerati di interesse culturale, quindi hanno doppia valenza perché sono sia destinati a difesa sia beni
culturali. Ma se lo Stato decide di trasferire la difesa da quel luogo o ritiene non necessaria più quella
fortezza e la elimina da questa caratteristica, quest'ultima continuerà a far parte del demanio dello Stato
sotto il profilo della sua valenza culturale come bene culturale e quindi demaniale.
La sdemanializzazione può comportare la liberazione del bene, a meno che il bene non risulti a sua volta
vincolato anche sotto il profilo della culturalità. Mentre, sei il bene perde culturalità occorre comunque
verificarla: se la fortezza perde il carattere della culturalità ma continua ad essere destinata alla difesa,
rimane comunque bene demaniale ma il suo utilizzo di difesa deve rimanere.
Beni patrimoniali indisponibili (art. 826): «Patrimonio dello Stato» (o Province, Comuni): foreste, cave
ecc… + cose d'interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico, ritrovate nel sottosuolo + edifici
destinati a sede di uffici pubblici con i loro arredi e gli altri beni destinati a un pubblico servizio.
Beni disponibili: categoria residuale, comprende tutti quei beni che non rientrano nel demanio o nei beni
indisponibili + quelli che hanno perso il loro carattere demaniale o il loro carattere culturale. Sono beni che
lo stato può vendere, affittare, dare in locazione.
Tuttavia, perdere il carattere della demanialità non vuol dire perdere la culturalità. Il vincolo segue il bene,
dunque il bene perderà la culturalità solo quando questa verrà meno. La demanialità segue il soggetto: se
passa da un pubblico a un privato non è più demaniale, ma comunque culturale. Questo significa che se
rimane la culturalità rimane la disciplina del codice che è vincolistica.
ART. 53: BENI DEL DEMANIO CULTURALE →
1. I beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici
territoriali che rientrino nelle tipologie indicate all'articolo 822 del Codice civile
costituiscono il demanio culturale;
2. I beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di
diritti a favore di terzi se non nei limiti e con le modalità previsti dal presente
codice.
Individuati costituiscono il demanio culturale. Ad ulteriore conferma del regime a cui sono sottoposti i beni
culturali comunque demaniali espressamente ci dice il Codice che non possono essere venduti, non
possono formare oggetto di diritto a favore di terzi se non con le modalità previste dal Codice dei beni
culturali che limita l'uso.
ART. 54: BENI INALIENABILI → Esistono anche dei beni assolutamente inalienabili. Non possono essere
venduti a nessuno e sono i beni più appetibili da parte di nazioni straniere, privati collezionisti… e sono:
I beni pubblici, in particolare beni culturali molto richiesti da parte del privato ma di appartenenza dello
Stato, sono stati interessati da un processo di privatizzazione con la creazione del Patrimonio dello Stato
(S.p.A.):
- Compito di gestire, valorizzare o vendere il patrimonio dello Stato. Tuttavia, l’alienazione può
essere garantita solamente nei casi stabiliti dalla legge e sempre previa autorizzazione del MIBACT;
- Vincolo: mantenere la destinazione pubblicistica dei beni conferiti (che perdevano il carattere
patrimoniale > non più demaniali, ma restava il vincolo di culturalità, per questo serve
l’autorizzazione del MIBACT);
- Risultato: privatizzazione del patrimonio culturale.
1. I beni culturali immobili appartenenti al demanio culturale e non rientranti tra quelli elencati
nell'articolo 54, comma 1, non possono essere alienati senza l'autorizzazione del Ministero.
(“alienabilità relativa”).
La regola è che questi beni non possono essere alienati senza prima l’autorizzazione del Ministero, dunque
potranno essere venduti solamente previa autorizzazione.
2. Le richieste di autorizzazione devono essere corredate da queste precise indicazioni:
a) dalla indicazione della destinazione d'uso in atto;
b) dal programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene;
c) dall’indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l’alienazione del bene e
delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento;
d) dall’indicazione della destinazione d'uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da
conseguire;
e) dalle modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle
precedenti destinazioni d'uso.
3. L'autorizzazione è rilasciata su parere del soprintendente, sentita la regione e, per suo tramite, gli
altri enti pubblici territoriali interessati. Il provvedimento, in particolare:
a) Detta prescrizioni e condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate;
b) Stabilisce le condizioni di fruizione pubblica del bene, tenuto conto della situazione conseguente alle
precedenti destinazioni d'uso;
c) Si pronuncia sulla congruità delle modalità e dei tempi previsti per il conseguimento degli obiettivi di
valorizzazione indicati nella richiesta.
3-bis → L’autorizzazione non può essere rilasciata qualora la destinazione d'uso proposta sia
suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o risulti non
compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo.
Questa autorizzazione ad alienare comporta la sdemanializzazione del bene: da pubblico passa a soggetto
privato, quindi non potrà più essere considerato demaniale. Tuttavia, non abbiamo un atto di
sdemanializzazione ad hoc ma è la vendita stessa che comporta la sdemanialità del bene che comunque
rimane culturale, dunque sottoposto a regime vincolistico del Codice.
Tutta la normativa prevede questi meccanismi di garanzia per tutelare i beni culturali, perché
l’autorizzazione a vendere è rilasciata pur con molte condizioni. Tutte queste prescrizioni devono essere
contenute anche nell’atto di vendita perché se l’acquirente non rispetta le condizioni, la vendita si scioglie,
si parla di risoluzione dell’atto di vendita.
ART. 60: ACQUISTO IN VIA DI PRELAZIONE → Questo istituto opera nell’ambito della vendita tra privati.
Nel caso dei beni culturali il Ministero si può inserire in questa alienazione. In che modo? In realtà l’istituto
opera in ogni fattispecie di cessione del bene: vendita, donazione, anche in caso di legato (donare il bene in
testamento) o eredità, oppure in caso di pignoramento; anche nel caso della datio in solutum (dare un bene
per sciogliere un debito). Ma quando il bene in questione è un bene culturale, il ministro ha un diritto di
prelazione: in questa ipotesi il venditore deve inviare l’atto di vendita al ministro affinché possa egli
decidere di acquistare quel bene per lo stesso prezzo indicato nell’atto di vendita.
La denuncia di vendita del bene culturale deve essere completa di tutti i suoi elementi identificativi,
altrimenti equivale a mancata denuncia, dunque il ministro non la prende in considerazione e si rischia di
cadere nel reato previsto dall'art. 18 novies: è punito con la reclusione fino a due anni più multa chiunque
senza la prevista autorizzazione o non presenta la denuncia degli atti di trasferimento, oppure si considera
non presentata anche quando non completa di tutti gli elementi identificativi. Questa procedura è
assolutamente fondamentale perché il Codice, con una norma di carattere generale all'art. 164, all'articolo
164 stabilisce la nullità di tutti gli atti di compravendita senza autorizzazione, senza prelazione. L'atto è
come se non esistesse. Però, visto che è stata manifestata l'intenzione a vendere, con una sorta di
punizione nei confronti più dell'acquirente, il ministro potrà comunque esercitare il suo diritto di prelazione
anche se l'atto di compravendita è nullo.
Un'ultima possibilità di obbligo di denunciare le proprie attività riguardano quelle del commercio di cose
antiche e usate. Anche questo è trasferimento dei beni culturali e il Codice ci dice che sono gli antiquari che
si occupano della vendita, e hanno anche loto obbligo di denuncia, di registrazione per evitare l’illecito
smercio dei beni storici rubati.
1.Il Ministero o [...] la regione o gli altri enti pubblici territoriali interessati, hanno
facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali alienati a titolo oneroso o
conferiti in società, rispettivamente, al medesimo prezzo stabilito nell'atto di
alienazione o al medesimo valore attribuito nell'atto di conferimento.
2. Qualora il bene sia alienato con altri per un unico corrispettivo o sia ceduto senza
previsione di un corrispettivo in denaro ovvero sia dato in permuta, il valore
economico è determinato d'ufficio dal soggetto che procede alla prelazione ai sensi
del comma 1.
5. La prelazione > può essere esercitata anche quando il bene sia a qualunque titolo
dato in pagamento.
XIV. CIRCOLAZIONE INTERNAZIONALE
Quello a cui tiene di più la normativa del codice è la limitazione della circolazione internazionale dei beni
culturali che è disciplinata in primo luogo, con principi generali in materia, dall'art. 54-bis. La limitazione è
pensata per preservare l’integrità del patrimonio identitario della Nazione in tutte le sue componenti
individuate dal Codice, e il controllo ovviamente si verifica nei limiti impostati anche dall’Italia con le altre
nazioni.
La prima regola è che i beni che costituiscono patrimonio culturale non sono assimilabili a merci: questo
vuol dire che i beni culturali vengono esclusi da quel regime di libera circolazione delle merci previsto
nell’ambito di tutti i paesi unionali. Questa non assimilabilità a merce che ha il bene ci consente oltretutto
di avere un controllo sugli atti di provenienza, cioè per capire se quel bene ha autorizzazione all’espatrio, di
chi è, se è stato rubato ecc… Lo stesso art. 64-bis lo ribadisce.
PROBLEMA → In questa circolazione in ambito internazionale, il maggior problema deriva soprattutto dalla
divisione che c’è nel mondo fra stati ricchi di risorse culturali e stati poveri. Tra l’altro, ogni stato attua delle
politiche differenti e a tutela del proprio patrimonio ognuno ha adottato dei propri limiti di espatrio dei
beni culturali.
ART. 65 → L’articolo 65 individua quei beni di cui è vietata l’uscita definitiva, quelli di cui è ammessa previa
autorizzazione e quelli di cui è ammessa la libera circolazione e commerciabilità.
ART. 65: USCITA DEFINITIVA → Questa non è soggetta ad autorizzazione, ma richiede autocertificazione:
1. È vietata l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica dei beni culturali mobili
indicati nell’art 10 comma 1, 2 e 3.
L’uscita definitiva è vietata a quei beni che presentano interesse culturale, cioè opere di autore non più
vivente e con risalenza oltre settant’anni.
SE APPARTIENE A UN PRIVATO? Non possiamo definirlo bene culturale se non c’è stata dichiarazione di
culturalità innanzitutto, però un legislatore potrebbe comunque identificare quel bene come di interesse
culturale se l’autore è morto e ha più di settant’anni. Dunque, la disciplina non impone nulla e se il valore è
inferiore a 13.500€ serve solo autocertificazione. Se invece l’autore è vivente e l’opera ha, diciamo, 30 anni
allora non c’è nemmeno bisogno dell’autocertificazione.
1. Può essere autorizzata l'uscita temporanea dal territorio della Repubblica […] per manifestazioni,
mostre o esposizioni d'arte di alto interesse culturale, sempre che ne siano garantite l'integrità e la
sicurezza.
2. Non possono comunque uscire:
a) i beni suscettibili di subire danni di trasporto o nella permanenza in condizioni ambientali
sfavorevoli;
b) i beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo,
pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica.
Chi vuole esportare il bene > cauzione di almeno 10% del valore del bene per i beni culturali ad
appartenenza pubblica e già dichiarati.
• Quando costituiscono mobilio di cittadini con cariche presso sedi diplomatiche o consolari,
istituzioni comunitarie o organizzazioni internazionali caratterizzate dal trasferimento di titolari
all’estero;
• Quando rappresentano l’arredamento delle sedi diplomatiche o consolari all’estero;
• Quando devono essere sottoposti ad analisi, indagini o interventi di conservazione che non
possono essere eseguiti in Italia;
• Quando sono destinati ad esposizioni in attuazione di accordi stipulati con musei stranieri ma in
regime di reciprocità
BENI CHE POSSONO USCIRE DALLO STATO PREVIA AUTORIZZAZIONE → È necessaria innanzitutto una
denuncia all’ufficio esportazioni e richiesta di un attestato.
Il Codice prevede due strumenti autorizzativi:
Chi intende far uscire in via definitiva dal territorio della Repubblica le cose indicate
nell'articolo 65, comma 3, deve farne denuncia e presentarle al competente ufficio
di esportazione, indicando, contestualmente e per ciascuna di essi, il valore venale,
al fine di ottenere l'attestato di libera circolazione.
L’interessato, in questo caso, non solo deve farne denuncia alla Soprintendenza, ma deve presentare
l’oggetto agli uffici di esportazione.
Una volta ricevuta la domanda con l’indicazione del valore, entro tre giorni il ministro comunicherà
l’avvenuto deposito e tutti gli elementi conoscitivi utili al rilascio dell’autorizzazione e della conoscenza del
bene. È l’ufficio esportazione che dichiara la congruità e rilascerà (o negherà con giudizio motivato)
l’attestato entro 40 giorni dalla presentazione. E SE PASSANO 40 GIORNI E L’UFFICIO ESPORTAZIONE NON
RISPONDE? Se questo dovesse rilasciare l’attestato, ad esempio, dopo 50 giorni (in ritardo dunque), che sia
di esito positivo o meno, nel diritto amministrativo di solito scatta il cosiddetto principio di silenzio assenso.
Tuttavia, qui la giurisprudenza del TAR dichiara che anche dopo 40 giorni si potrà negare l’attestato perché
è finalizzato alla garanzia dell’integrità del patrimonio culturale (insomma, il ritardo non è una cosa grave).
In questa valutazione di rilascio, inoltre, vedremo che l’attestato di libera circolazione ha validità
quinquennale.
Innanzitutto questo diniego deve essere motivato e basato sul particolare pregio del bene. PERCHÉ
PARTICOLARE PREGIO? Perché questo diniego fa scattare (ultimo comma) l’inizio del procedimento di
dichiarazione di culturalità, secondo i procedimenti previsti dalla legge. E quel bene, a quel punto, è
sottoposto a salvaguardia. Un privato, tuttavia, potrebbe fare ricorso al Ministero entro 30 giorni dalla
comunicazione del provvedimento: il Ministero dovrà intervenire allora entro 90 gg → se ritira il diniego dà
il permesso di esportazione e viene sospeso il procedimento di dichiarazione.
Entro 40 giorni l'ufficio di esportazione, qualora non abbia già provveduto al rilascio
o al diniego dell'attestato di libera circolazione, può proporre al Ministero l'acquisto
coattivo della cosa per la quale è richiesto l'attestato di libera circolazione, dandone
contestuale comunicazione alla regione e all'interessato, al quale dichiara altresì
che l'oggetto gravato dalla proposta di acquisto resta in custodia presso l'ufficio
medesimo fino alla conclusione del relativo procedimento. In tal caso il termine per
il rilascio dell'attestato è prorogato di sessanta giorni
L’ufficio di esportazione, esaminando il bene, potrebbe accorgersi di questo valore così particolare tanto da
proporre al ministro l’acquisto del bene prima ancora di rilasciare (o negare) l’attestato di libera
circolazione.
Il ministro potrà allora comprare il bene per il valore indicato nella denuncia di esportazione. E questa
acquisizione ministeriale equivale a dichiarazione di culturalità del bene, quindi se lo acquista vuol dire che
diventa bene culturale. COSA PUÒ FARE IL PRIVATO PER EVITARE CHE IL MINISTRO LO ACQUISTI? L’unica
possibilità che ha è evitare l’esportazione: potrebbe recarsi all’ufficio e materialmente ritirare il bene e
rinunciare formalmente all’uscita.
ART. 72: INGRESSO NEL TERRITORIO NAZIONALE → Finalizzato a evitare l’illecito smercio dei beni culturali
da un paese all’altro. Smercio che potrebbe nascondere furti o trafugazioni.
Nel caso di beni usciti illecitamente senza autorizzazione o violando le prescrizioni (autorizzazione scaduta,
furto…) le convenzioni internazionali impongono la restituzione del bene. Convenzioni internazionali
stabilite soprattutto dall'UNESCO.
2. Ai fini della direttiva UE, si intende per bene culturale un bene che è stato
classificato o definito da uno Stato membro [...] tra i beni del patrimonio culturale
dello Stato medesimo, ai sensi dell'articolo 36 del Trattato sul funzionamento
dell'Unione europea;
[...]
3. È illecita l'uscita dei beni avvenuta dal territorio di uno Stato membro in
violazione della legislazione di detto Stato in materia di protezione del patrimonio
culturale nazionale o del regolamento CE, ovvero determinata dal mancato rientro
dei beni medesimi alla scadenza del termine fissato nel provvedimento di
autorizzazione alla spedizione temporanea;
4. Si considerano illecitamente usciti anche i beni dei quali sia stata autorizzata la
spedizione temporanea qualora siano violate le prescrizioni stabilite con il
provvedimento di autorizzazione;
La sponsorizzazione permette alla Pubblica Amministrazione di tutelare il bene ai fini della valorizzazione e
fruizione. Inoltre, è uno strumento rapido per reperire fondi e poter mantenere i beni (anche restaurarli).
CONTRATTO DI SPONSORIZZAZIONE → Consiste in un negozio innominato (non esiste nel Codice civile) a
titolo oneroso e a prestazioni corrispettive stipulato tra due parti:
1. Sponsee: ha l’obbligo di fornire prestazioni di veicolazione del nome, marchio, immagine dello
sponsor;
2. Sponsor: obbligo di prestazione pecuniaria. Lo sponsor si assume la responsabilità di realizzare i
lavori, servizi o procurare forniture allo sponsee.
In ogni caso, questo contratto di sponsorizzazione non deve essere di pregiudizio per l’immagine del bene
culturale. Dall’altro lato, invece, il soggetto sponsorizzato ha l’obbligo di fornire i mezzi per la
sponsorizzazione, non il risultato: un probabile sponsor non potrà lamentarsi del mancato ritorno
economico della pubblicità con il proprietario del bene.
3 ipotesi di sponsorizzazione:
• Con lavori sotto la soglia di 40.000€ non sono necessarie le formalità per la ricerca di uno sponsor,
ma si può scegliere con una semplice indagine di mercato;
• Sopra la soglia di 40.000€ è la PA che deve pubblicare un avviso di ricerca dello sponsor (bando). La
PA può dunque pubblicare questo bando ma anche ricevere delle proposte: in questo caso, se
riceve molteplici proposte di sponsorizzazione, dovrà scegliere lo sponsor migliore rispettando le
regole di trasparenza e imparzialità.
COME FA LA PA A SCEGLIERE?
✓ Nella remota ipotesi che non arrivi nessun’altra proposta, la prima viene vincolata e lo sponsor può
recedere dal contratto solamente pagando una penale (principio della buona fede);
✓ Oggetto del contratto: non può essere modificato. Se si volesse cambiare sarebbe necessario un
nuovo bando,
✓ È possibile modificare le spese accessorie ma NON la spesa stabilita dal contratto per il restauro;
✓ I costi sostenuti dall’azienda sono interamente detraibili dal reddito dell’impresa (vengono scalati
dalle tasse);
✓ Nel caso in cui non si proponga nessuno come sponsor, le operazioni proseguono con i propri fondi,
altrimenti il bene viene chiuso;
✓ La sponsorizzazione è una collaborazione fra pubblico e privato → Forme di partenariato.
L’art-bonus consiste nell’erogazione liberale in denaro a sostegno dello sviluppo della cultura che dà diritto
a un credito d’imposta, cioè permette di scalare dalle tasse (inizialmente il 50% della spesa, ora il 65%).
Differisce dalla semplice sponsorizzazione perché in questo caso abbiamo un contributo in denaro elargito
da un benefattore-mecenate senza obblighi di controprestazione o di natura economica. Lo sponsee può
comunque ricambiare tramite forme di riconoscimento morale (senza fare pubblicità all’azienda).
CHI PUÒ USUFRUIRE DELL’ART-BONUS? Tutti i contribuenti che effettuano erogazioni liberali in denaro, a
prescindere dalla loro forma e natura giuridica.
Inoltre: con l’art-bonus è possibile avere un pubblico ringraziamento associando il nome del benefattore
all’intervento realizzato. C’è però un rischio: il ringraziamento potrebbe diventare una sponsorizzazione.
XVI. VALORIZZAZIONE
La valorizzazione viene messa dopo la fruizione, questo perché effettivamente noi possiamo fruire di un
bene anche senza valorizzarlo, l’importante è che sia mantenuto, conservato. Della fruizione parleremo
dopo la valorizzazione, perché è il tratto unificante di tutte le funzioni volte alla tutela del bene culturale,
mentre la funzione dominante è la tutela, in tutte le sue declinazioni.
C’è una sorta di dicotomia fra la tutela e la valorizzazione, e questa sorta di contrapposizione è stata
dominante nelle politiche volte alla disciplina del bene culturale, a partire dagli anni ’60 prima ancora del
Codice. La valorizzazione non aveva ancora assunto un proprio significato, non aveva un contorno preciso.
Addirittura era vista in maniera antitetica:
- La tutela veniva vista più vicina alla conservazione statica del bene (dunque utile a evitare danni);
- La valorizzazione invece veniva vista in una funzione più dinamica, come messa a reddito del bene.
Nel nostro ordinamento ha una particolare rilevanza la vicenda che riguarda il contemperamento del
decoro, il rapporto tra tutela del decoro ed esercizio dell’attività commerciale. Sono due interessi
fondamentali che però vanno contemperati. La prima esigenza fondamentale, ad esempio, consiste
nell’evitare l’eccessiva presenza di ambulanti in luoghi ad alta frequenza di visitatori. Venezia, invece, con
questa eccessiva presenza di visitatori rischia di essere degradata dai siti del patrimonio UNESCO, e questo
comporterebbe un gravissimo danno economico. COSA C’ENTRA QUESTO CON LA VALORIZZAZIONE?
C’entra perché è un’attività che ha riguardo proprio alla messa a reddito del bene culturale. Ed è per questo
che dobbiamo parametrare questa messa a reddito con la tutela del decoro che il Codice contempla
nell’art. 52 comma 1 ter. Infatti, proprio per assicurare il decoro dei complessi monumentali interessati da
flussi turistici rilevanti, i comuni possono adottare apposite determinazioni volte a vietare quegli usi che
ritengono non compatibili con le specifiche esigenze, non solo di tutela ma anche di valorizzazione del bene
culturale, comprese le forme d’uso pubblico.
Non solo la tutela può essere danneggiata, ma anche la valorizzazione: ad esempio attività ambulanti, uso
individuale di aree pubbliche di pregio ogni qualvolta il comune rilasci concessioni (che in ogni caso sono
concessioni che il Comune può revocare se si accorge che queste attività sono diventate troppe o troppo
invasive, tanto da recare danno al decoro del bene culturale medesimo).
In ogni caso, c’è stato un periodo di tempo in cui anche il nostro centro storico ha subìto un’invasione di
tavolini all’esterno dei locali pubblici nel periodo post Covid, per consentire la ripresa del commercio e
dell’economia. Tramite una legge si è concessa l’installazione di esercizi all’esterno senza la necessità
dell’autorizzazione dei Beni Culturali. L’installazione è stata temporanea, però questi arredi removibili
hanno comunque provocato un recesso nell’interesse del bene culturale e del suo decoro.
ART. 6: VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE → Accanto a quegli istituti che abbiamo visto
essere finalizzati alla tutela del bene culturale, cioè quelle volte all’identificazione e alla tutela,
l’alienazione, il restauro, la circolazione ecc… adesso vediamo come si atteggia la valorizzazione:
Dal punto di vista lessicale, COSA SIGNIFICA? È un termine ampio perché indica tutte quelle attività che
sono riservate all’incremento della qualità del bene, nel senso di messa a valore del bene per un suo utilizzo
economico.
L’incremento a cui tende il Codice non è solo economico, ma pensato anche ad aumentare la fruibilità del
bene da parte della collettività. A questo serve la valorizzazione: promuovere la conoscenza del patrimonio,
assicurare migliori condizioni di utilizzazione e fruizione, anche promuovere interventi di conservazione.
Tutte queste sono attività dirette ad un bene che già di per sé è fruibile visto che si parla di incrementare. E
soprattutto, sono attività che possono coinvolgere direttamente o indirettamente il bene, come la
sponsorizzazione.
Tutela e valorizzazione possono apparire anche conflittuali. Prendiamo come esempio la Domus Aurea: per
esigenze di conservazione l’accesso è consentito a gruppi ristretti di turisti e a determinati orari. Questa
finalità di pubblica fruizione, però, si scontra con quello che vorrebbe la valorizzazione, intesa come
riscontro economico. Per rendere appetibile la visita allora (dato che i visitatori sono pochi) la
valorizzazione può puntare su servizi accessori: offrire una guida, auricolari, insomma qualcosa di più.
Come funzione autonoma, a livello costituzionale ha un’origine recente. Compresa nell’art. 17 della
Costituzione, dal punto di vista giuridico anch’essa ha una funziona amministrativa, cioè è un’attività
obbligatoriamente volta alla realizzazione dell’interesse pubblico, dunque fruizione del bene culturale.
L’ambiguità sta nel fatto che utilizza un concetto di incremento del valore economico diretto o indiretto del
bene culturale: esso fa parte comunque della nozione, tuttavia la messa a valore ha una finalità più nobile
rispetto al solo e semplice ritorno economico; infatti, l’unico fine comune di tutte le attività di
valorizzazione è la fruibilità da parte della collettività. In teoria la l’accessibilità potrebbe anche essere
limitata da parte della tutela che ha un vincolo conservativo per evitare danni al bene, ma essendo la
fruibilità il fine principe non può essere limitata.
ART. 6, COMMA 2 → CHI È CHE SVOLGE QUESTA ATTIVITÀ DI VALORIZZAZIONE? La Repubblica. Però, essa
favorisce e sostiene la partecipazione di soggetti privati. È un’attività oggettivamente pubblica. La
Repubblica si occupa della gestione in primo luogo, ma fa in modo che anche i privati se ne occupino,
dunque è un’attività pubblica ma con soggetti o pubblici o privati. Quanto ai privati, la Corte costituzionale
dice che si applica il principio dominicale (godere del bene senza limitazioni da parte di terzi).
ART. 107 DEL TRATTATO UE → Sono previsti degli aiuti per i soggetti che cercano di valorizzare il bene
culturale, ma di regola sono concessioni soggette a restrizioni comunitarie. Sono vietati gli aiuti di Stato per
il rispetto del principio di parità di concorrenza tra paesi dell’Unione Europea, tuttavia l’art. 107 del Trattato
UE prevede l’eccezione di culturalità: gli aiuti di Stato sono concessi quando si deve intervenire su beni
culturali ma la PA deve notificarlo alla Commissione Europea la quale deve approvare.
Cioè: gli stati membri possono erogare finanziamenti a soggetti che fanno attività di tutela e conservazione
dei beni culturali. Questi aiuti si possono avere solo se finalizzati alla conservazione del bene, però devono
essere approvati da parte della Commissione perché questa deve verificare che non alteri la concorrenza.
COME SI FA A VERIFICARE CHE NON LA ALTERI? L'aiuto viene rivolto a un soggetto imprenditore che ricava
dalla propria attività un guadagno per la propria sopravvivenza, quindi non deve essere determinante per la
sopravvivenza dell'imprenditore altrimenti altererebbe il principio di concorrenza. Dunque, deve essere
solo finalizzato e limitato all'attività di valorizzazione.
ART. 111: ATTIVITÀ DI VALORIZZAZIONE → Nell’ambito del progetto di valorizzazione del bene culturale,
gli obiettivi sono quelli che dice il codice: migliorare la fruizione dei luoghi e aumentare l'offerta culturale.
Significa che la valorizzazione ha una natura strumentale, e il suo fine e migliorare l'accessibilità sotto tutti i
punti di vista, non solo perché è più facile da raggiungere ma anche perché è più facile così comprendere il
bene.
Differenza:
CARATTERE MULTIFORME → L'articolo che abbiamo visto contiene una classificazione particolare della
dimensione di valorizzazione che fa riferimento all'iniziativa, non tanto all'appartenenza del bene. La
dimensione ad iniziativa pubblica colloca la valorizzazione nell'ambito del servizio pubblico, mentre
occuparsi della valorizzazione da parte dei soggetti privati vorrà dire gestire il bene sotto il profilo della
fruizione e servizi aggiuntivi. Per la sfera privata si parla in particolare di attività socialmente utili: non è
un'attività obbligatoria, ma il privato vi accede volontariamente. Può però diventare obbligatoria quando
ha in proprietà il bene da sottoporre a valorizzazione.
ART. 112: VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI DI APPARTENENZA PUBBLICA → La distinzione della
funzione di valorizzazione emerge sotto il profilo dell'appartenenza del bene. La Pubblica Amministrazione
è sempre obbligata a rispettare regole codicistiche nella sua attività, ma la prima cosa a cui assistiamo è un
ridimensionamento della potestà legislativa regionale.
A questo ridimensionamento vediamo collegato anche una sorta di impoverimento contenutistico della
funzione di valorizzazione: il reparto di competenze legislative, sia Stato e Regione, è regolamentato dalla
dispositiva del bene. La valorizzazione spetta alle Regioni solo se non ha ad oggetto un bene che appartiene
allo Stato, però lo Stato può avere trasferito la disponibilità del bene alla Regione. Di questi beni, anche se
appartengono allo Stato, poiché li ha prestati alla Regione, quest'ultima può valorizzarli: ha una potestà
legislativa sulla valorizzazione di quei beni di cui lo Stato ha trasferito la disponibilità sulla base della
normativa vigente.
In ogni caso, ciascun soggetto pubblico deve garantire la valorizzazione del bene di cui ha disponibilità. Non
solo tutelare a livello conservativo con tutte le declinazioni (fino al restauro), ma anche migliorarne
l'accessibilità sia fisica che intellettuale. Ovviamente la valorizzazione è sempre della componente
immateriale del bene, dunque avviene tramite la res.
BENE CULTURALE = ATTRATTORE → La fruizione resta, sul piano sistematico del Codice, un aspetto della
valorizzazione, una finalità. Seguendo però una chiave di lettura diversa possiamo anche dire che
l'elemento caratterizzante della valorizzazione, proprio perché è una messa a valore che ha ritorno
economico, è che assicura dei vantaggi a soggetti che si assumono l'obbligo di valorizzare il bene. Quindi il
bene culturale funge da attrattore per l'utilizzo del bene stesso: è attraente sia da parte di colui che se ne
assume l'obbligo e ha un ritorno economico, sia da parte della collettività che gode di questa valorizzazione.
Potremmo dire che la valorizzazione economica è compatibile con quella culturale perché raggiungono il
medesimo fine: è pur sempre una messa a valore, sia che sia economica sia che sia culturale.
XVIII. LA GESTIONE DEI BENI CULTURALI
La gestione coinvolge di nuovo l’intervento dei privati nell’ambito dell’attività di messa a valore, ma non
solo, soprattutto la messa a valore di una migliore accessibilità dei beni culturali. Quando parliamo di
migliore accessibilità non parliamo solamente di aprire le porte a tutti, mettere rampe, ma parliamo anche
di comprensione dei beni culturali.
QUALI SONO I MEZZI? COME SI PUÒ E SI DEVE GESTIRE PER POTER GARANTIRE LA MIGLIORE FRUIBILITÀ?
In precedenza abbiamo visto che i privati possono intervenire con la sponsorizzazione, con l’Art Bonus, con
la valorizzazione e ora anche con la gestione. MA CHE COS’È LA GESTIONE?
L’articolo 115 ci dice che oggetto della gestione sono le attività di valorizzazione o comunque tutte quelle
attività che sono volte all’aumento della fruibilità.
GESTIONE → Deriva dal latino gerere, cioè condurre, mandare avanti, amministrare. Dunque, sorvegliare,
curare l’andamento dei beni, curare l’andamento degli affari in modo da garantirne l’efficienza e il
rendimento. Si presume che la gestione (attività di cura per garantire efficienza e rendimento economico)
sia un’attività che si pone al servizio della valorizzazione, perché già sappiamo che è una messa a valore del
bene. COME FARE? Attraverso l’attività materiale di gestione.
Questa strumentalità dell’attività di gestione non emerge solo con riferimento alla valorizzazione, ma anche
con la tutela è presente questa attività perché è anch’essa finalizzata alla fruibilità del bene. DUNQUE È
ATTIVITÀ FINALISTICAMENTE NEUTRA? Sì, perché la finalità è comune, si tratta comunque di garantire e
migliorare la fruibilità e accessibilità del bene, insieme ovviamente alla tutela e alla valorizzazione.
COME SI PUÒ FARE? Ricorrendo a soggetti esterni, come la Pubblica Amministrazione. Certi servizi
possono essere esternizzati a privati che si pendono in carico di curare e rendere appetibile per il pubblico
quel bene culturale. Soprattutto aumentare l’affluenza, perché aumentando l’affluenza potrà aumentare
anche la “redditività” del bene.
La valorizzazione, attraverso la gestione del bene, l’abbiamo vista in maniera un po’ romantica, cioè come
messa a valore del bene per la fruibilità. Ma la messa a valore consiste anche nell’aumento dell’accessibilità
in senso tecnico del bene e messa a valore nel senso di redditività attraverso forme di gestione che lo
stesso articolo 15 ci spiega: esso prevede che questa attività di valorizzazione del bene a iniziativa pubblica
possa avvenire in maniera diretta o indiretta.
La scelta fra le due forme la opera la stessa amministrazione che possiede i beni culturali. COME FA? A
seconda della disponibilità economica: se ce la fa economicamente può gestire il bene da sola, altrimenti
dà la gestione in affidamento a soggetti privati.
GESTIONE DIRETTA
ART. 115, COMMA 2→ La gestione in forma diretta ce la individua il secondo comma dell’articolo 115: essa
fa uso di strutture interne all’amministrazione, ed è un sistema che è stato utilizzato per la situazione di
Pompei. La scelta del Codice è quella di garantire la fruizione del bene attraverso strutture espositive
(musei, parchi archeologici…) che svolgono un servizio pubblico, di attività sociale. Però cercano comunque
di vendere biglietti di ingresso, cartoncini esplicativi, cataloghi, fino ad arrivare alla vendita di caffè, luoghi
di ristorazione… insomma entriamo nell’ambito di un commercio che ha impensierito l’UE.
PROBLEMA DELL’UE → Nell’ottica della parità di concorrenza sono vietati aiuti di Stato alle imprese perché
creerebbero una disparità. Avevamo parlato però della eccezione di culturalità: nel settore della cultura c’è
una sottrazione al diritto della concorrenza per quanto riguarda gli aiuti di Stato, ritenendosi compatibili
con il mercato interno solo quegli aiuti volti a promuovere la cultura, la conservazione del patrimonio a
condizione che non alterino la concorrenza e gli scambi. Entro questi limiti gli aiuti per i beni culturali sono
consentiti. Tuttavia, le attività svolte nei luoghi di cultura devono soggiacere alla normativa europea
essendo dei servizi aggiuntivi: dunque, sono vietati aiuti di Stato ogni volta che, ad esempio, un museo
svolge attività d’impresa.
QUAND’È CHE L’ATTIVITÀ DIVENTA ATTIVITÀ D’IMPRESA SOTTOPOSTA A DIVIETI? Quando dall’attività
d’impresa svolta professionalmente (dunque in maniera continuativa) si producono e ricavano beni e servizi
come ci dice il Codice civile. MA deve essere un’attività CONTINUATIVA. E visto che tutti questi servizi sono
svolti nell’interesse economico generale, devono essere assegnati attraverso procedure competitive e lo
Stato non può assegnarle in via diretta.
GESTIONE INDIRETTA
La gestione indiretta viene effettuata tramite la concessione a terzi, soggetti che operano nel mercato e che
vengono individuati attraverso procedure dette ad evidenza pubblica: la Pubblica Amministrazione deve
pubblicare bandi in cui comunica l’intenzione di affidare la gestione della valorizzazione e della
conservazione del museo a chi presenta determinati requisiti, spiegando le attività che deve svolgere il
gestore.
SERVIZIO UNIVERSALE → Il diritto europeo non influisce soltanto sulle forme di gestione del bene, ma
anche sulle modalità di erogazione dei servizi del bene, perché sono servizi di interesse generale che
richiedono un servizio universale: comprende tutte quelle attività riferite al bene stesso e risponde a
esigenze significative, a prescindere dalla loro ubicazione geografica. Il gestore deve allora assicurare la
continuità del servizio, la qualità, la tutela degli utenti consumatori, un prezzo accessibile…
Affinché i privati vengano attratti dalla partecipazione alle gare, il prezzo deve essere imposto dal gestore
ma deve comunque essere accessibile, tale da poter consentire di avere anche un minimo ricavo che gli
consenta di svolgere l'attività economica. Ovviamente sempre rimanendo nell'ambito di un'attività con
tornaconto economico, perché in altro caso non si pone il problema.
SERVIZI AGGIUNTIVI (ART. 117) → La concessione in uso richiede l'autorizzazione del ministero. Ci vuole
l'autorizzazione per concedere ai terzi questi servizi aggiuntivi, cioè quelli che il codice chiama servizi
accessori alla fruizione: sono quelli che rendono appetibile la possibilità per i privati di proporsi alla
Pubblica Amministrazione di gestire il bene. Questi servizi accessori servono a valorizzare i beni con
l'attività di mercato del bene, con attività di ospitalità che garantiscono maggiori entrate…
L'articolo 117 si mostra abbastanza eterogeneo: non tutti quei servizi che abbiamo visto rappresentano un
rischio di impresa.
Come facciamo a capire se una certa attività rappresenta un rischio di impresa? Innanzitutto pensiamo alla
differenza tra concessione ed appalto:
- Concessione: quando il terzo si assume i rischi di gestione del servizio chiedendo un canone ai
privati che usufruiranno del servizio e non un corrispettivo dalla PA. Insomma, è a pagamento,
perché il concessionario ricava il proprio guadagno dal pagamento della prestazione che offre da
parte degli utenti, come caffetteria, ristorazione…;
- Appalto: quando una parte assume, con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di
un servizio dietro un corrispettivo in denaro. Altri servizi, come quello di vigilanza, biglietteria, sono
spesso un appalto di servizio pubblico, quindi non ricavano un proprio guadagno perché pagati da
noi. Nel caso dell'appalto il proprietario del bene paga il soggetto che cura la vigilanza, la pulizia, la
biglietteria a prescindere magari da quanti biglietti si vendono.
COME? Migliorando la fruizione ai beni, ossia l’accessibilità. Questo soprattutto nell’auspicio che il bene
culturale venga percepito come bene universale. Per i pubblici poteri, la fruizione e la promozione della
cultura sono diventate una esigenza primaria, allo stesso livello della tutela. Tutta questa necessità di
tramandare la cultura attraverso la fruizione dei beni ha portato a una nuova modalità di gestione, alla
ricerca di nuove modalità di gestione dei beni, di utilizzo dei beni ma anche di fruizione di beni. Perché è
universalità del valore che noi cerchiamo nei beni materiali che richiede una nuova dimensione, non solo
quantitativa, ma anche qualitativa.
Quindi, di fronte a una aumentata domanda di cultura è chiaro che la globalizzazione incide sulla fruizione.
Mentre prima tutta l’attenzione degli studiosi e dei pratici dei beni del diritto e delle attività dei beni
culturali era rivolta alla conservazione dei beni, oggi si punta più alla fruizione dei beni.
IL CODICE → Dedica un’intera parte alla fruizione dei beni culturali. Nonostante ciò, non da una definizione
di fruizione, non contiene una definizione ad hoc specifica.
- Art. 2: la nozione l’avevamo già trovata nell’articolo 2, ed esso ci dice che la Repubblica promuove
lo sviluppo e la tutela della cultura e favorisce la pubblica fruizione dei beni.
- Art. 3: si garantisce la tutela dei beni finalizzati alla pubblica fruizione.
- Art. 6: parla della valorizzazione. A COSA SERVE? A migliorare una fruizione che già esiste, dunque
ad aumentarla. Tutto ruota attorno alla fruizione dei beni, una centralità della fruizione che
abbiamo letto anche in chiave di accessibilità dei beni, che è anche qualcosa di più.
Nel Codice invece emerge una nozione: si può definire come servizio di offerta alla pubblica fruizione del
bene culturale. Tutta la gestione del bene è volta a migliorare la fruizione del bene, è il concetto stesso del
bene culturale che contiene in sé il concetto di fruizione: la possiamo individuare come l’insieme di quelle
attività giuridiche, ma anche materiali, medianti le quali le amministrazioni pubbliche una volta individuato
il bene culturale come tale ne garantiscono l’accessibilità e il godimento collettivo. Quindi prima si individua
la culturalità, poi si rende accessibile e godibile per tutti.
La fruizione viene concepita non tanto come fine delle attività di tutela e valorizzazione, è proprio la sintesi
di tutti i servizi di cura, come un pater familias che si prende cura di tramandare il patrimonio familiare. La
fruizione si configura così come un servizio pubblico, una offerta del bene alla pubblica fruizione.
Come risultato finale abbiamo questa erogazione di servizio pubblico, l’accessibilità al bene. Ma prima di
questo servizio di fruibilità del bene operano tutte quelle attività di mantenimento e gestione del bene
necessarie e preliminari alla sua fruibilità. La fruizione presuppone il mantenimento del bene, in condizioni
tali da poter espletare il servizio di offerta alla pubblica godibilità. Infatti, la valorizzazione migliora la
fruizione. La fruizione è:
- Inscindibilmente connessa alla tutela: essa si pone sia come scopo della tutela che come scopo
della valorizzazione;
- Lo sbocco necessario della tutela, interviene su un bene già conservato e quindi già fruibile. La
valorizzazione è volta a migliorare la fruizione del bene.
Dunque, la valorizzazione interviene su un bene già fruibile e ne aumenta la fruibilità. Questa cerniera che
consente la saldatura tra tutela e valorizzazione, questa funzione di fruizione viene messa in pratica con
accordi e partenariati tra Stato e Regioni per svolgere attività di tutela, attraverso questa condivisone di
beni culturali, progettando percorsi integrati con forme di gestione integrata.
Il Codice individua gli istituiti e luoghi della cultura indipendentemente dai soggetti a cui essi appartengono.
QUAL È LA DISTINZIONE TRA ISTITUTI E LUOGHI DELLA CULTURA?
1. Ai fini del presente codice sono istituti e luoghi della cultura i musei, le biblioteche
e gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali.
2. Si intende per:
a) “museo”: una struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina
ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio;
b) “biblioteca”, una struttura permanente che raccoglie, cataloga e conserva un
insieme organizzato di libri, materiali e informazioni, comunque editi o pubblicati su
qualunque supporto, e ne assicura la consultazione al fine di promuovere lettura e
studio;
c) “archivio”, una struttura permanente che raccoglie, inventaria e conserva
documenti originali di interesse storico e ne assicura la consultazione per finalità di
studio e ricerca
d) “area archeologica”, un sito caratterizzato dalla presenza di resti di natura fossile
o di manufatti o strutture preistorici o di età antica;
e) “parco archeologico”, un ambito territoriale caratterizzato da importanti
evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici o
ambientali, attrezzato come museo all'aperto;
f) “complesso monumentale”, un insieme formato da una pluralità di fabbricati
edificati anche in epoche diverse, che con il tempo hanno acquisito, come insieme,
una autonoma rilevanza artistica, storica o etnoantropologica;
3. Gli istituti e i luoghi […] che appartengono a soggetti pubblici sono destinati alla
pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico;
COSA LI DISTINGUE? Nell’Istituto abbiamo una struttura permanente, contenitore di beni culturali che solo
occasionalmente, ma non necessariamente, può essere bene culturale. Il luogo della cultura è rilevante per
essere esso stesso un complesso di beni culturali, come le aree archeologiche. Inoltre, non è sempre luogo
permanente, ma può avere carattere transitorio
Nel Codice il museo è una struttura permanente, come la biblioteca, e ugualmente lo è l’archivio. Per
ognuno di esso viene indicata la rispettiva fruizione, e spesso si parla di stessi beni culturali. Questi esempi
dimostrano come la fruizione non può essere sempre gratuita, perché lo stato non può poi far accedere
tutti. Per quanto riguarda i luoghi della cultura nel codice abbiamo: l’area archeologica, ma anche il parco
archeologico interessante perché viene attrezzato come un museo all’aperto, come il complesso
monumentale. Quest’ultimo ha una rilevanza autonoma, acquisita nel tempo. Anche gli istituti e i luoghi
della cultura sono destinati al godimento pubblico indipendentemente dalla loro proprietà.
1. Possono essere assoggettati a vista da parte del pubblico per scopi culturali:
a) i beni culturali immobili indicati all'articolo 10, comma 3, lettere a) e d), che
rivestono interesse eccezionale;
b) le collezioni dichiarate ai sensi dell'articolo 13;
Tuttavia, alcuni vincoli che riguardano la proprietà privata possono essere assoggettati a visita da parte del
pubblico. La fruizione dei beni di proprietà privata, quando si tratta di beni di eccezionale interesse, deve
essere eccezionale, con particolari caratteristiche ambientali. Come anche i giardini storici di una casa
collocata nel centro storico. Indipendentemente dall’eccezionale interesse quando si tratta di beni
restaurati con i fondi statali la visita è obbligatoria, se c’è un contributo pubblico.
Solo se gli immobili di un privato sono realizzati con fondi pubblici esso può essere costretto all'apertura al
pubblico.
Aumento oggi della richiesta di fruizione dei beni culturali ma anche aumento degli interessi che ruotano
intorno ai beni. Se aumentiamo l’accesso a un sito culturale questo può mettere a rischio la conservazione
del bene stesso, ma dall’altro lato limitare l’accesso a questi beni limita la fruizione. Quindi, tutti questi
diversi interessi possono trovare conciliazione utilizzando una nuova modalità di fruizione dei beni, ossia la
fruizione virtuale dei beni culturali. Attraverso le nuove tecnologie è possibile ampliare il novero dei
fruitori dei beni, sotto molti aspetti. L’utilizzo di nuove tecnologie, sotto un altro punto di vista, può porre
problemi di regolamentazione che non trovano risposta nei codici giuridici, a causa del fatto che si tratta di
una riproduzione.
L’utilizzo di tecnologie digitali ha contribuito notevolmente alla diffusione della conoscenza del patrimonio
culturale e possono essere impiegate per salvaguardare la fruizione dei beni culturali.
SITO WEB → Spazio in cui si può avere un approccio alla cultura differente da quello solito, ed è inoltre uno
strumento dalla doppia valenza:
Il nostro bene culturale così dematerializzato, digitalizzato, perde quel collegamento con quel substrato
generale che è un presupposto imprescindibile della tutela codicistica, ossia quello che il nostro Codice
attribuisce ai beni culturali.
NUOVE TECNOLOGIE → Queste nuove tecnologie sono viste con favore per la salvaguardia dei beni, la
diffusione della cultura e la produzione di nuove offerte culturali. L’aumento dell’offerta attraverso la
possibilità dei luoghi stessi di usufruire delle tecnologie digitali ha il vantaggio di diffondere la conoscenza
dei beni senza pericoli per la loro conservazione o manutenzione. Le riproduzioni svolgono quella funzione
sociale propria della cultura perché consentono di ampliare i fruitori dei beni. Ampliando la platea dei
fruitori, attraverso la fruizione mediatica, si rende accessibile il bene culturale a tutti rendendo dunque la
cultura stessa accessibile e comprensibile a tutti.
PROBLEMA → Potrebbe essere possibile un uso distorto delle immagini dei beni culturali, come una
contraffazione oppure l’utilizzo di queste immagini a scopo commerciale, cosa vietata dal nostro
ordinamento. Oppure potrebbe scattare in alcuni casi la legge sul diritto d’autore. Il bene immateriale che
si viene a creare attraverso la digitalizzazione può supporre il problema della sua tutela, espressione poi di
identità collettiva. Con il decreto art-bonus viene inserito l’Art.7-bis nel Codice che parla di «espressione di
identità culturale collettiva» e viene aggiunta la nuova categoria di “bene immateriale”
DECRETO ART-BONUS → Il decreto art bonus ha modificato l’art. 108 che liberalizza la riproduzione dei
beni culturali. Tuttavia, esso vieta la riproduzione di queste immagini a scopo di lucro, nemmeno indiretto,
ma solo per finalità di studio, di ricerca, libera manifestazione del pensiero, espressione creativa o
promozione della conoscenza del patrimonio culturale. In questi casi non è necessaria alcuna esplicita
autorizzazione da parte dei gestori del bene. UNICO LIMITE: non ci si deve guadagnare sopra.
Servizio pubblico dei luoghi della cultura, servizio pubblico essenziale secondo la UE, lo sciopero non può
essere indetto quando si vuole. Ma essendo costituzionalmente garantito come diritto, i soggetti pubblici
devono garantire la fruizione del servizio pubblico.
Abbiamo visto come il nostro Codice inquadra le funzioni in maniera schematica e coinvolgendo tutti i
soggetti dell’ordinamento: tutela, conservazione, valorizzazione, gestione e protezione.
TUTELA → Vuol dire proteggere e conservare il bene per poter garantire la fruizione e conoscenza che
abbiamo detto essere anche conoscibilità del bene da parte di tutta la collettività. Dunque, accessibilità non
solo fisica ma anche intellettuale. COME SI ESPRIME LA TUTELA?
✓ Riconoscimento: nella forma del riconoscimento del bene tramite il procedimento di dichiarazione
che è indispensabile se il bene in particolare è di appartenenza privata. Il procedimento di verifica
interviene in via eventuale su un bene che già presuntivamente culturale in quando di
appartenenza pubblica. Cioè, è un riconoscimento definitivo su un bene di appartenenza pubblica
di una culturalità già presunta in base a due requisiti: risalenza temporale e autore morto;
✓ Protezione: COME PROTEGGERE IN PRIMO LUOGO? Attraverso le imposizioni di divieti: da un
punto di vista soggettivo lo proteggiamo da interventi personali di soggetti. Ma abbiamo anche una
protezione che si esplica tramite interventi che possono essere consentiti, ma solo previa
autorizzazione. In questo caso ci troviamo sempre nell'ambito della protezione del bene e
abbraccia anche l'ambito edilizio;
✓ Conservazione: sempre nell'ambito della tutela abbiamo la funzione di conservazione del bene.
a) Questa conservazione inizia con un'attività di studio, con l'attività di prevenzione dei danni al
bene per limitarne situazioni di rischio;
b) Nella conservazione rientrano anche tutti quei vincoli indiretti dell'attività di prevenzione;
c) Abbiamo poi la manutenzione del bene che prevede un intervento limitato e non troppo invasivo
finalizzato anche questo a prevenire ulteriori danni e intervenire sulle erosioni che il tempo effettua
e provoca sul bene medesimo;
d) Il restauro è l'ultima di queste attività che contempla sempre un intervento diretto sul bene, ma
per recuperarlo. Esso interviene quando ormai è troppo tardi e il danno è già stato fatto, quindi non
è stato possibile o non è stata effettuata una manutenzione.
GESTIONE → La Repubblica deve conservare e tutelare il bene in modo da garantirne la conservazione con
lo scopo di aumentarne la pubblica fruizione, l'accessibilità attraverso l'attività di gestione, cioè un'attività
che organizza l'utilizzo dei beni culturali e delle risorse immateriali e che assicura la fruizione dei beni
mettendoli a valore attraverso la valorizzazione e manutenzione.
XX. LA TUTELA DEL PAESAGGIO
PERCHÉ PARLIAMO DI TUTELA DEL PAESAGGIO IN UN CORSO DEDICATO AI BENI CULTURALI? Perché il
paesaggio fa riferimento a molte discipline. La nozione è ancora oggi controversa anche se il nostro Codice
ci dà una nozione generale di carattere identitario. Identitario perché collegata al valore culturale che esso
esprime, a partire dall'articolo 9 della Costituzione ripreso poi nel 131.
EVOLUZIONE NORMATIVA
1905 → la normativa del 1905 si limitava ad applicare valori estetici che fino ad allora erano maturati
nell'ambito della tutela dei monumenti. Questa normativa in particolare faceva riferimento alla
conservazione delle pinete di Ravenna: esse erano infatti intese quasi come monumenti. Quindi il concetto
di “bello estetico culturale” trasferito come “bello estetico paesaggistico”.
1922 → Nel 1922 Benedetto Croce (Ministro dell'Istruzione) si interessò ai beni culturali sotto un profilo
artistico. Egli rilevava la necessità di una normativa a tutela delle bellezze naturali e degli immobili di
particolare interesse storico che legittimavano l'intervento dello Stato nella tutela del paesaggio, poiché è
la rappresentazione materiale visibile della Patria.
PERCHÉ È MOLTO SIGNIFICATIVA QUESTA NORMA DEL ‘22? Perché ha introdotto la dichiarazione di
interesse pubblico sul quale si fonda la tutela di determinate parti del territorio perché venivano
riconosciute come bellezze della natura. Questa legge è prodromica e costituisce la base delle Leggi Bottai
sulla tutela delle bellezze culturali.
1939 → Viene emanata la legge sulla protezione delle bellezze naturali. Questa normativa ha un limite
generale perché prevede una tutela episodica, dunque solamente alcuni beni individuati (in quanto
rivestivano questo carattere estetico caratterizzante) venivano sottoposti alla tutela, cioè quelli “belli di
natura”. E all'art. 5 di questa legge del 39 era previsto soltanto in via eventuale che queste bellezze naturali
potessero formare oggetto di un piano territoriale paesistico che doveva essere adottato dal ministro per
l'educazione nazionale.
Grandi novità:
- Possibilità di adottare dei piani paesaggistici per impedire che determinate aree di particolare
bellezza venissero utilizzate in maniera pregiudizievole alla bellezza naturale. Questa emergenza
sorge con la nascita dell'urbanizzazione a seguito dello sviluppo economico dopo la grande guerra;
- Questa legge del 39 vuole anche vincolare porzioni limitate di territori, ma anche singoli beni, con
lo scopo di proteggere tramite un divieto di modificare l'aspetto, soprattutto previa autorizzazione.
La caratteristica di questa legge è quella di aver introdotto una distinzione che prevale tutt'ora:
1. Bellezze individue → cose immobili con caratteri cospicui di bellezza naturale o singolarità
geologica, cose di “non comune bellezza” (ville, giardini, parchi…);
2. Bellezze d'insieme → complessi di immobili che hanno un aspetto caratteristico con valore
estetico particolare, bellezze panoramiche (belvederi, cose più ampie).
Un altro elemento innovativo è che la legge bottai introduce piani territoriali paesistici che riguardano aree
soggette a vincolo. E per la prima volta si pone il rapporto tra piano e vincolo: nel piano paesistico erano
individuate zone vincolate per la tutela del paesaggio, del bello di natura. Vincolare vuol dire che c'è divieto
di modifica. Ed è un piano che prevedeva questa tutela ad oltranza del paesaggio, dunque si dovevano
stabilire anche le zone di rispetto del paesaggio, il rapporto tra aree libere e fabbricabili ecc… ovviamente
tutto questo sotto controllo della Soprintendenza.
ART. 9 DELLA COSTITUZIONE → Dopo la legge Bottai solo l'articolo 9 della Costituzione tutela il paesaggio e
il patrimonio storico artistico della nazione. La tutela del paesaggio è un principio fondamentale della
Costituzione e allora anch'esso rientra fra il patrimonio storico artistico e culturale.
Anche la giurisprudenza ha specificato che questo concetto di paesaggio non può essere limitato a una
nozione estetica e va considerato come un bene che abbraccia tutto l'insieme dei valori inerenti il territorio
e che riguarda l'ambiente.
Insieme dei valori che insistono sul territorio che riguardano l'ambiente,
l'ecosistema e i beni culturali da tutelare nel loro complesso e non solamente nei
singoli elementi
8 AGOSTO 1985: LEGGE GALASSO → la legge Galasso è intervenuta proprio per rispondere al caos che si
era creato in relazione ai contrasti che c'erano fra realizzazione urbanistiche e interesse paesaggistico. Ciò
che era contenuto in questa legge è stato poi riportato nel nostro codice, modificando e aggiungendo. Ora
chiaramente la legge Galasso non c'è più, mai stata adattata all'articolazione codicistica: il legislatore ha
vincolato per legge intere zone del territorio nazionale senza chiedere l'emanazione di un provvedimento
amministrativo che doveva ravvisare la sussistenza dell'interesse paesaggistico, cioè senza aspettare che la
Pubblica Amministrazione emanasse un decreto come era previsto dall'allora vigente legge del ‘39.
Prima innovazione: è il legislatore ad aver vincolato queste vaste aree del territorio. È COSTITUZIONALE
QUESTA LEGGE? All'epoca sorse questo problema. Infatti è il legislatore stesso che impone il vincolo.
Risposta della Corte costituzionale: la legge Galasso è legittima perché:
- Ha una concezione innovativa, garantisce una protezione del paesaggio integrale e globale;
- Realizza un valore costituzionale primario in materia pronta ed efficace;
- Tutela beni che per le loro caratteristiche intrinseche possono esprimere l'identità di un territorio
tale da ricondurre ad una concezione culturale più che estetica del paesaggio.
Altra novità: sono tutelate anche le zone di interesse archeologico come beni paesaggistici. Tutto quello
che ha una parvenza di interesse archeologico o perché è bene culturale o perché bene paesaggistico, in
quanto zona di interesse archeologico, è vincolato.
CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO → Il nostro Codice dà una nozione ampia che fa
riferimento al valore identitario del paesaggio stesso: per paesaggio si intende il territorio espressivo di
identità il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. COME
TUTELARLO? Relativamente a quegli aspetti e caratteri che sono rappresentazione materiale e visibile
dell’identità nazionale in quanto espressione dei valori culturali.
Per questo si insiste sul fatto che i beni da tutelare non sono soltanto quelli costituiti da bellezze naturali,
ma hanno un carattere più vasto. Tant’è vero che il paesaggio ha un carattere mutevole proprio perché
caratterizzato da queste interrelazioni coi fattori umani.
CHE COSA TUTELIAMO ALLORA? Così come esiste la distinzione tra bene e patrimonio culturale, così esiste
la distinzione tra paesaggio e beni paesaggistici. Naturalmente la nozione di paesaggio è più comprensiva
perché contiene anche i beni paesaggistici.
ART. 2 DEL CODICE → Ci dice che cosa sono questi beni paesaggistici: gli immobili, le aree vincolate
attraverso un provvedimento puntuale amministrativo o ex lege o con nuovi piani.
Paesaggio: più vasto, comprende tutto il territorio riprendendo i beni paesaggistici e anche tutto ciò che
non è vincolato, perché i beni o hanno un provvedimento amministrativo ad hoc o una legge che li qualifica
tali. Il paesaggio comprende anche aree di un territorio legate all’identità nazionale non necessariamente
colpite da un provvedimento di vincolo. Infatti, l’art. 131 identifica il paesaggio come territorio.
VINCOLI
Disciplina espropriativa? No. Ha una natura dichiarativa. Il procedimento di dichiarazione (disciplinato dagli
artt. 138 e seguenti) inizia con una proposta formulata in genere da enti locali territoriali più interessati.
→ Proposta resa pubblica: tutti gli interessati possono così presentare informazioni o documenti.
Del provvedimento impositivo del vincolo si occupa invece la successiva articolazione del Codice che inizia
con una dichiarazione di notevole interesse pubblico del bene. questo fa sì che la successiva disciplina
pianificatoria dovrà tenere conto di quel vincolo che è stato posto sui singoli beni. Non potrà consentire la
modificabilità di quei beni.
Piani paesaggistici → Tutte le regioni sono obbligate ad adottare un piano paesaggistico oppure possono
adottare un piano urbanistico che tenga in considerazione il paesaggio. Il piano paesaggistico prevale su
tutti i piani paesaggistici sia che venga emanato prima sia che venga emanato dopo. Se emanato prima, i
piani urbanistici ovviamente si devono adeguare.