I Robinson Italiani/Capitolo XIII
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Capitolo XIII
Attraverso i boschi
Il 18 settembre, cioè venticinque giorni dopo il loro approdo su quell’isola, i naufraghi si mettevano in marcia per fare una esplorazione del loro dominio, se non totale, almeno parziale.
Non conoscendo ancora l’estensione di quella terra, avevano deciso di guadagnare la vetta dell’alta montagna, certi di poter di là abbracciare tutte le coste e di formarsi un’idea più o meno esatta della possessione.
Si erano provveduti di una trentina di chilogrammi di pane rinchiusi in solidi sacchi di tela, accuratamente cuciti essendosi già procurati gli aghi desiderati colle spine di alcuni grossi pesci, delle armi con frecce avvelenate e senza veleno per abbattere se non della grossa selvaggina almeno degli uccelli, di alcuni litri di tuwak, forte ed eccellente liquore ricavato dal succo fermentato dell’arenga saccharifera, di sale ed anche di carne avendo torto il collo ai loro più grossi uccelli.
Le due scimmie li seguivano portando nei loro sacchi la pentola, alcuni tondi, le forchette, e lo Sciancatello, già robusto, portava la tenda e una parte di pane.
Le due scimmie dapprima si erano mostrate ricalcitranti a portare la loro parte di bagaglio, ma l’orang-outan, che si era armato d’un randello, le aveva ben presto domate e ora esse marciavano sotto la sua sorveglianza, pronto a battere sulle loro spalle un pezzo musicale da far strappare urla di dolore.
Il mondo alato si risvegliava sotto la brusca invasione della luce. In mezzo alle foglie degli alberi e dei cespugli ingemmati dalla rugiada notturna, svolazzavano a gruppi i più belli uccelli, le cui penne variopinte, a riflessi d’oro e d’argento o di rame, scintillavano vivamente sotto i primi sprazzi luminosi dell’astro diurno, sorgente sull’orizzonte.
I graziosi epimachus arruffavano le loro penne vellutate e brillanti, come se fossero cosparse di pagliuzze d’oro, e le loro lunghe code sottili; i bellissimi chimachus, volatili grossi come un piccione, col corpo anteriore nerissimo con striature d’oro e il posteriore candido, e la coda formata di barbe lunghissime e arricciate, si spennacchiavano reciprocamente coi loro becchi sottilissimi ma assai lunghi; i charmasyna, specie di pappagalli, colle piume rosse e gialle a striature nere, cominciavano i loro cicalecci scordati ed importuni, mentre le splendide parozie dorate, scintillanti di mille colori, immobili sulle più alte cime degli alberi, si ubbriacavano di sole, lasciando ondeggiare graziosamente le cinque barbe piantate sulle loro teste e terminanti in una specie di fiocco, ai soffi della brezza marina.
Miriadi d’insetti svolazzavano poi in tutte le direzioni: farfalle sfolgoranti, di dimensioni straordinarie, s’incrociavano sopra i fiori o attorno ai vasi vegetali dei calamus rimasti ancora aperti; farfalline rosse, gialle, azzurre ed anche battaglioni di lucertoline volanti, chiamate dai Malesi draco, bizzarri animaletti lunghi venti centimetri, colla coda compressa, colle zampine unite da una membrana che serve come di ali e che permette a loro di spiccare delle volate di venti e perfino trenta metri.
I naufraghi, oltrepassata la piantagione di bambù che si estendeva su un lungo tratto di costa, s’internarono sotto i boschi, piegando un po’ verso levante, sembrando a loro che da quel lato la montagna fosse meno aspra e anche meno boscosa.
Si videro però ben presto costretti a rallentare la marcia, poichè quella parte della grande boscaglia era assai fitta e impediva loro di procedere direttamente.
Migliaia e migliaia d’alberi intrecciavano i loro rami frondosi o le loro foglie piumate, impedendo ai raggi del sole di penetrare fino a terra. La ricchissima e svariata flora malese, aveva là tutti i suoi campioni.
Si vedevano bellissimi alberi della canfora, coi tronchi così grossi che cinque uomini non sarebbero riusciti ad abbracciarli, e che esalavano un acuto profumo; degli splendidi sunda-matune o alberi tristi, così chiamati perchè i fiori di tali alberi, che esalano un profumo squisito, non si aprono che di notte; dei pergolati di pepe, piante sarmentose che si avviticchiano attorno agli alberi, che hanno le foglie somiglianti a quelle dei nostri fagiuoli e i cui granelli aromatici disposti a grappolini dapprima verdi, poi rossi e quindi bruni quando sono a perfetta maturanza; grandi upas, chiamati anche bohon-upas, snelli, alti oltre trenta metri e coperti di larghe foglie che formavano dei superbi ombrelli; noci moscate, piante somiglianti ai nostri allori, alte dai sei ai sette metri, già cariche di noci mature che esalavano acuti profumi; garofani coi rami già irti di quei mazzolini aromatici che vengono poi posti in commercio, quando sono ben seccati, col nome di chiodi di garofano; quindi, confusamente mescolati, stretti e avviluppati da lunghissimi rotang che formavano vere reti, si vedevano a centinaia alberi che producono il belzoino, ragia odorifera che scola incidendo il tronco di quella specie di abeti; alberi della cannella, alberi cotoniferi che producono una specie di bambagia serica, tecche colossali dal legno incorruttibile; alberi del ferro coi cui rami si fanno delle mazze pesantissime che non si possono scheggiare tanto sono resistenti le fibre di quel legno, ed una infinità d’alberi gommiferi preziosissimi.
Non mancavano però gli alberi da frutta. Di tratto in tratto, in mezzo a quel caos di vegetali, i naufraghi scoprivano dei mangostani carichi di frutta deliziose che dànno una polpa bianca, delicata, divisa in chicchi e che messa in bocca si fonde come un gelato; o dei manghi chiamati dai Malesi buâ-mamplan ma di qualità inferiore, essendo per lo più impregnati d’un forte odore di resina; o dei pombo, grossissimi e succolenti aranci, o dei nefelium che producono delle frutta racchiudenti una polpa bianca, semi-trasparente, succosa, dolce ma un po’ acidula.
I naufraghi non si lasciavano sfuggire quelle occasioni per fare ampia raccolta delle frutta migliori. Di ciò s’incaricava lo Sciancatello il quale si prestava colla miglior grazia del mondo, inerpicandosi sulle cime più alte delle piante per cogliere le frutta più grosse e più mature.
Verso le dieci del mattino, dopo aver percorso almeno sei chilometri, distanza ragguardevole se si pensa ai lunghi giri che erano costretti a fare per trovare dei passaggi ed ai numerosi ostacoli, si trovarono dinanzi ad una foresta di alberi forniti di foglie gigantesche, d’aspetto maestoso. Nello scorgerli, il signor Albani non potè frenare un grido di contentezza.
— Una foresta di banani! — esclamò. — Ci regaleremo una scorpacciata di frutta deliziose, amici miei, che potranno variare la nostra provvista di pane.
— I banani? — chiese il marinaio.
— Sì, Enrico.
— Io non li ho mangiati che come frutta.
— Ed io ti dico che possono anche surrogare il pane e che servono a fare dei piatti squisiti. Quando sono maturi, cioè quando l’amido è completamente scomparso tramutandosi in materia zuccherina, non servono che come frutta, ma quando le bucce sono ancora verdi, messi ad arrostire sotto la cenere, possono surrogare il pane essendo ricchi di fecola.
Allora le frutta si possono anche tagliarle, seccarle al sole e conservarle per molto tempo.
Se poi sono più giovani, si possono mangiarle in salsa, oppure quando sono vicine alla maturità, se ne possono fare delle fritture squisite. Andiamo a fare raccolta, amici. —
Quel bosco era meraviglioso, essendo formato da migliaia di piante. Fra i vegetali erbacei, nessuno rivaleggia coi banani per ricchezza di foglie e per maestà.
Queste piante, nei climi caldi acquistano proporzioni gigantesche, e non di rado le loro foglie raggiungono un’altezza di quattro o cinque metri ed una larghezza di uno e anche più.
Molte di quelle piante già reggevano a stento dei grappoli enormi, carichi di frutta allungate, un po’ curve, racchiudenti una polpa tenera e profumata. Ve n’erano di varie specie, ma il signor Albani diede il sacco a quelle chiamate pisang-mas, che dànno frutta più piccole, d’un bel colore giallo d’oro e che sono le migliori.
Accesero il fuoco all’ombra d’una pianta che aveva delle foglie mostruose e fecero una appetitosa colazione con banani maturi e con banani verdi cucinati sotto la cenere. Le scimmie e Sciancatello non furono dimenticati e fecero una vera scorpacciata di quelle frutta.
Mancava l’acqua, quantunque quel terreno fosse umidiccio, ma il signor Albani non tardò a scoprire, sul margine della foresta poco prima attraversata, dei nepentes.
Queste piante sono le più bizzarre che immaginare si possa. Appartengono alla specie degli arrampicanti e le loro foglie sono arrotondate in forma di vasi, forniti d’una specie di coperchio che si abbassa alla notte e si alza di giorno.
Durante la notte le piante assorbono l’umidità del suolo e la raccolgono in quei vasi, i quali ne contengono di frequente perfino mezzo litro. Non è però un’acqua limpida e fresca come generalmente si crede, servendo quei recipienti di tomba a numerosissimi insetti, ma basta per dissetare, essendo del resto buonissima.
Dopo un riposo di qualche ora, il drappello si rimetteva in marcia salendo i primi contrafforti della montagna, ma attraverso a foreste sempre fitte e assai intricate.
Avevano già percorso un chilometro, quando lo Sciancatello si arrestò bruscamente, emettendo dei sordi brontolii e dando segni d’una certa agitazione.
— Ehi, Sciancatello, cosa succede? — chiese il marinaio. — Hai sentito qualche tigre? —
Il mias pareva ascoltasse con profonda attenzione, come se cercasse di raccogliere qualche rumore non ben distinto. Guardava le cime degli alberi, poi osservava i cespugli ed il suo volto manifestava ora stizza ed ora contentezza.
— Che sia impazzito? — chiese Piccolo Tonno.
— O che abbia una colica? — chiese invece il marinaio. — Ha divorato troppi banani di certo.
— No, — disse Albani. — Ha sentito qualche cosa.
— Ma io non vedo nulla, nè odo nulla.
— Pretenderesti di aver l’udito acuto come quel figlio dei boschi, Enrico? —
Ad un tratto l’orang dilatò fino agli orecchi la sua immensa bocca e uscì in uno scoppio di risa fragoroso.
— Ehi, Sciancatello! — gridò il marinaio. — Che i banani t’abbiano fatto l’effetto d’una solenne bevuta? Se ti sei ubbriacato, ti faremo una doccia, figliuol mio. —
L’orang non l’ascoltava più. Con un gesto imperioso aveva fatto cenno alle due scimmie di seguirlo e si era diretto verso un albero altissimo, coperto d’un fogliame folto assai e era messo ad osservarlo continuando a manifestare la sua gioia con scoppi di risa.
— Che lassù ci siano delle frutta ricercate dalle scimmie? — chiese il marinaio.
— Io non vedo che foglie, — rispose il mozzo. — Ma.... non udite questo ronzìo?...
— Sì, — disse il veneziano. — Oh!... Ora comprendo!... Non vedete lassù quel nuvolo d’insetti?...
— Sì, sì! — confermarono i due marinai.
— Sono api selvatiche, e il nostro orang si prepara a saccheggiare l’alveare per mangiarsi il miele.
— Il goloso! — esclamò il marinaio. — Ma non gli permetterò di mangiarselo tutto. Diavolo!... Voglio fare delle ciambelle io!...
— Zitto, — disse il veneziano.
— Cosa avete udito?
— Un grugnito.
— Dove?...
— Lassù, tra le foglie.
— Che lo Sciancatello trovi un competitore?
— Lo credo, Enrico, perchè mi pare che quelle api siano molto spaventate.
— Forse un altro mias?...
— Non lo so.
— Brutto incontro, signor Albani.
— Abbiamo le frecce mortali.
— Sciancatello sale, — disse il mozzo. —
Infatti l’orang, dopo una breve esitazione, aveva cominciata l’ascensione, ma procedeva con una certa diffidenza e portava con sè il randello.
Di tratto in tratto si arrestava per ascoltare, alzava il viso come se cercasse di discernere qualche animale che pareva si nascondesse fra il fogliame, poi scuoteva la testa e riprendeva l’ascensione.
Giunto ai primi rami si rizzò, abbracciò il tronco dell’albero e radunando le sue forze, si mise a scrollarlo con furore, emettendo dei sordi abbaiamenti ma che sembravano colpi di tosse: era il suo modo di manifestare la sua collera.
In alto si udirono dei grugniti, poi si vide una massa nera scendere lungo il tronco.
— Una bestia! — urlò il mozzo.
Lo Sciancatello, vedendosi a tiro quell’animale, gli appioppò una legnata così tremenda, da strappargli un vero urlo, poi con un calcio cercò di precipitarlo giù, ma l’altro, che stringeva forte il tronco, teneva duro.
Lo si vide però poco dopo lasciarsi scivolare lungo l’albero con grande rapidità, quindi piombare a terra in causa d’un’ultima e più furiosa scossa dell’orang.