Fata Morgana - Quadrimestrale di Cinema e Visioni
EDITORIAL STAFF
Editor in Chief:
Roberto De Gaetano
Editorial Advisory Board:
Dudley Andrew, Raymond Bellour, Sandro Bernardi, Francesco Casetti, Antonio Costa, Georges Didi-Huberman, Ruggero Eugeni, Annette Kuhn, Jacques Rancière, David N. Rodowick, Giorgio Tinazzi
Associate Editors:
Marcello W. Bruno, Alessia Cervini, Daniele Dottorini, Bruno Roberti, Salvatore Tedesco, Antonio Somaini, Luca Venzi
Managing Editor:
Alessandro Canadè
Editorial Board:
Daniela Angelucci, Francesco Ceraolo, Massimiliano Coviello, Paolo Godani, Andrea Inzerillo, Carmelo Marabello, Emiliano Morreale, Antonella Moscati, Ivelise Perniola, Francesco Zucconi
Editorial Office Manager:
Loredana Ciliberto (resp.), Simona Busni
Editorial Office Staff:
Raffaello Alberti, Andreina Campagna, Giovanni Festa, Greta Himmelspach, Caterina Martino, Clio Nicastro, Antonietta Petrelli, Annunziata Procida, Antonio Russo
Translation of abstacts into English:
Francesco Ceraolo
Layout and Graphics:
Bruno La Vergata
Webmaster:
Alessandra Fucilla
Publisher:
Walter Pellegrini
Address: Italy
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Roberto De Gaetano
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Issues by Fata Morgana - Quadrimestrale di Cinema e Visioni
"Cinema", a cui partecipano anche molti cineasti. Questi ultimi hanno scelto, o disegnato, l’immagine di un film rappresentativo della loro idea di cinema, associandola ad un breve testo, talvolta poche parole. Numero a cui partecipano studiosi di prestigio, alcuni dei quali accompagnano la rivista fin dalla sua nascita."
Call For Papers by Fata Morgana - Quadrimestrale di Cinema e Visioni
La deadline per la consegna dei saggi è il 9 luglio 2017.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 23 aprile 2017.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie e la cui lunghezza deve essere compresa tra 35.000 e 40.000 battute, spazi e note incluse) o Rifrazioni (interventi più brevi dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale e la cui lunghezza deve essere compresa tra 15.000 e 20.000 battute, spazi e note incluse).
Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Per ogni altra informazione è possibile consultare il sito della rivista
http://fatamorgana.unical.it/
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The issue 33 of “Fata Morgana” which is dedicated to Medium.
The deadline for the submission of essays is July 9, 2017.
The proposal (max 15 lines) should be received by April 23, 2017.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective and that should strictly respect the following word limit: Min 5000 Max 6000 words, including spaces and footnotes); essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, and that should strictly respect the following word limit: Min 2000 Max 3000 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
For additional information please visit our website: http://fatamorgana.unical.it
La deadline per la consegna dei saggi è il 4 settembre 2016.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 15 giungo 2016.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, 12.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Per ogni altra informazione è possibile consultare il sito della rivista:
http://fatamorgana.unical.it
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The issue 31 of “Fata Morgana” which is dedicated to Consciousness.
The deadline for the submission of essays is June 15, 2016.
The proposal (max 15 lines) should be received by September 4, 2016.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 1.800 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
For additional information please visit our website: http://fatamorgana.unical.it
http://fatamorgana.unical.it/num31.htm
La deadline per la consegna dei saggi è il 6 marzo 2016.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 15 dicembre 2015.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, 12.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Per ogni altra informazione è possibile consultare il sito della rivista:
http://fatamorgana.unical.it
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The issue 29 of “Fata Morgana” which is dedicated to Myth.
The deadline for the submission of essays is March 6, 2016. The proposal (max 15 lines) should be received by December 15, 2015.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 1.800 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
For additional information please visit our website: http://fatamorgana.unical.it
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num29.htm
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 5 luglio 2015.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 6 cartelle, 12.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num28.htm
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The 28th issue of “Fata Morgana” which is dedicated to Thing. The deadline for the submission of essays is September 30, 2015. The proposal (max 15 lines) should be received by July 5, 2015.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 6 pages in length, 1.800 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/number28.htm
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 28 febbraio 2015.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 8 cartelle, 15.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num27.htm
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the 27th issue of “Fata Morgana” which is dedicated to Love. The deadline for the submission of essays is May 28, 2015. The proposal (max 15 lines) should be received by February 28, 2015.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 8 pages in length, 2.000 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/number27.htm
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 15 ottobre 2014.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 8 cartelle, 15.000 battute, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num26.htm
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26th issue of “Fata Morgana” is dedicated to Theory. The deadline for the submission of essays is January 10, 2015. The proposal (max 15 lines) should be received by October 15, 2014.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 8 pages in length, 2.000 words).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/number26.htm
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 8 cartelle, 15.000 battute, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
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The 25 issue of “Fata Morgana” which is dedicated to Memory. The deadline for the submission of essays is September 31, 2014. The proposal (max 15 lines) should be received by July 15, 2014.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 8 pages in length, 2.000 words).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com"
Deadline per la consegna dell'abstract (massimo 15 righe): 20 marzo 2014
Deadline per la consegna del saggio: 31 maggio 2014
Lunghezza testi: Focus: 30.000 battute; Rifrazioni: 15.000 battute
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
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The 24th issue of “Fata Morgana” is dedicated to Device.
Deadline for the submission of the abstract (max 15 lines): March 20, 2014
Deadline for the submission of the essay: May 31, 2014
Approximate length: Focus section: 4.000 words; Rifrazioni section; 2.000 words (including footnotes)
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
La deadline per la consegna dei saggi è il 15 gennaio 2014.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 31 ottobre 2013.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio (Focus: saggi, di circa 10 cartelle, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie; Rifrazioni: interventi più brevi, circa 5 cartelle, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Schema del numero:
- Azione come praxis
- Azione come performance
- Azione e incontro
- Logica dell’azione e potenza del visibile
1. La maschera carnevalesca, vitale e rigenerativa, capace di riprendere una linea di vita oltre la morte, capace di rinascere perennemente. Sono le maschere della commedia dell’arte, la cui presenza lungo una profonda tradizione teatrale giunge fino al Novecento cinematografico, in primo luogo italiano (da Totò ai De Filippo).
2. La maschera gotica, nera, critica, che ha perso la sua spinta rigenerativa per farsi maschera di morte. Qui l’ascendente è nella tradizione romantica, gotica, nella maschera che cela il “vuoto”, inquietante. E qui il cinema ha, fin dalle origini, attraverso generi e filoni, dal fantastico all’horror, messo in immagine i vari aspetti (ripresi anche da un immaginario letterario, a partire da Poe) della maschera gotica. Questo aspetto, se trova nel moderno (dalla stagione romantica fino all’espressionismo) una declinazione di “coscienza infelice”, segnata dall’ambiguità e dalla melanconia saturnina, è nondimeno presente fin dalle radici “apotropaiche” del carnevalesco come “festa del ritorno dei morti” e della rigenerazione sacrale del tempo (come ha mostrato Mircea Eliade), e nell’antichità connette la maschera all’orrore e allo spettrale, fin da una delle sue ipotesi etimologiche, quella di “maska” (nome dato a una figura femminile di strega) e dalla figurazione del “gorgoneion” (maschera di Medusa e bocca dell’inferno, come hanno mostrato gli studi di psicologia storica della scuola di Vernant). Una ripresa moderna di tale immaginario, nell’ambito del cinema, la troviamo, alle origini nel ciclo di “Fantomas” di Feuillade, e più di recente nel nesso carnevalesco/orrorifico di film come La maschera della morte rossa di Corman.
Oltre la maschera-persona, con le questioni dell’identità ad essa connesse (e dove troviamo fra tutti il cinema di Bergman, a partire da Persona), e al senso ambivalente della maschera carnevalesca, gioiosa o nera, la maschera porta con sé un problema capitale delle forme rappresentative, quello che la differenzia dal personaggio. Se quest’ultimo si sviluppa e varia nel tempo, la prima tende a ripetersi e rimanere la stessa nell’iterazione degli atti. E questo ha un effetto importante nell’elaborazione dell’intreccio: le maschere “annullano” l’intreccio, che discende da queste come susseguirsi iterativo di atti e situazioni che confermano i tratti della maschera (da Molière fino alla galleria di maschere di Sordi); i personaggi invece discendono dagli intrecci, ne sono diretta emanazione, da cui l’inscindibilità tra l’essere di un personaggio e la sua appartenenza ad una storia, ad un intreccio. Questa distinzione è importante per capire e distinguere buona parte delle commedie: ci sono commedie di intreccio, fondate su equivoci e simulazioni, che hanno al centro personaggi inscindibili dalle storie a cui danno vita (tutta la sophisticated comedy americana, ma anche la nostra commedia anni Trenta sono commedie di intreccio); e ci sono commedie di maschere che assorbono l’intreccio in un ritratto carico e grottesco, che si risolve, spesso nel bozzetto e nell’episodio: tutta la commedia all’italiana, dagli anni Sessanta in poi è contrassegnata da questi tratti (a partire da I mostri di Risi).
La questione della maschera denota in prima istanza la forma del rapporto, all’interno del soggetto, fra sé e il mondo, l’individuo e la società, e i modi mai pacifici in cui questo rapporto viene a determinarsi. La maschera come gabbia, come rifugio, come doppio, come via di fuga nel gioco infinito delle simulazioni, è qualcosa che il cinema degli anni Trenta e Quaranta in Italia e altrove (a partire da Pirandello, Bontempelli, e il Teatro del Grottesco) ha sviluppato con grande forza, determinando un rapporto stretto con la scena e con il teatro, cioè con le forme più vicine alla “teatralizzazione della vita”. Il processo di “disinganno” e la sua dialettica con un immaginario “dell’illusione” comincia con il Barocco (vedi l’uso metaspettacolare della maschera e del travestimento a partire dal teatro shakespeariano, fino alla spettacolarità del Bernini e alla sua ripresa “fantastica” in Hoffmann). Tale processo trova nel moderno un risvolto sia psicoanalitico che pedagogico: la maschera può assumere tanto la funzione fantasmagorica del “feticcio”, anche erotico (vedi un film come Casanova di Fellini), quanto quella della “dissimulazione onesta”, contenuta nella metamorfosi da burattino a bambino di Pinocchio (maschera della modernità italiana per eccellenza, su cui si sono esercitati sia Fellini che Comencini che Benigni); o, in un uso “satirico-educativo”, la funzione di mettere in scacco il potere costituito (vedi, in ambito italiano, i film che assumono questo andamento barocco o espressionista, da Un’avventura di Salvator Rosa di Blasetti a Il cappello a tre punte di Camerini a Ferdinando I Re di Napoli di Franciolini, a O Re di Magni, tutti film che leggono in tal modo la maschera “eterna” di Pulcinella). Del resto il cinema e lo spettacolo comico italiano hanno tematizzato in tal senso, fin dai suoi inizi, la figurazione della maschera (vedi comici come Polidor, Fregoli, Petrolini, Totò, o il nesso maschera/melodramma/commedia in film muti come Carnevalesca, Storia di un Pierrot, Cyrano, Capitan Fracassa, o le ambiguità metacinematografiche del travestimento nel cinema di Carlo L. Bragaglia).
Ma gran parte del cinema moderno ha percorso lo spazio innovativo e rischioso del dissolvimento della maschera, strappando allo stesso tempo lo schermo illusorio della finzione e quello caricaturale e posticcio del grottesco. Trovare al di sotto e tra le maschere lo spazio vitale di un incontro tra corpi e anime è stata la posta in gioco di tanto cinema “nouvelle vague” e dei suoi eredi: da Bresson a Godard a Rivette ai Dardenne. Tutto il desiderio di catturare il reale sotto il suo “mascherarsi” (il sogno di tanto cinema documentario). Perché se – come dice Nietzsche – “tutto è maschera”, è possibile pensare e filmare qualcosa che vada oltre? E se una volta tolta la maschera, il velo che ci difende e ci posiziona nel mondo, non emerge che il vuoto più inquietante, l’assenza di ogni desiderio? È l’assenza che, ancora una volta, il cinema italiano ha saputo rappresentare in modo impareggiabile, come il cinema di Ferreri dimostra.
Reale/realismo: l’evidenza apparente del suo significato si scontra con l’evanescenza del suo senso. O forse, più che con l’evanescenza, con la molteplicità di sensi possibili. Come si definisce ciò che è reale? A cosa si oppone questa parola? Cosa cambia quando opponiamo reale a virtuale, reale a immaginario, a simbolico, a fantasmatico, a menzognero, a finzionale o ad astratto? Oppure quando opponiamo reale a realtà? Ognuna di queste coppie oppositive riassume in fondo un discorso possibile, una posizione possibile di fronte al problema di cosa sia, di come si configuri il reale e il nostro rapporto con esso.
Proprio nel passaggio tra XIX e XX secolo il dibattito ha rilanciato con forza il problema del reale (del suo senso, del suo significato), a partire dalla rivoluzione tecnologica che ha attraversato l’Europa e il mondo intero. Dalla fotografia al cinema, dai nuovi mezzi di produzione e riproduzione dell’immagine, il concetto di reale ha trovato ulteriori declinazioni, incrociando spesso e volentieri il pensiero del Novecento e costruendo pratiche e forme che hanno ulteriormente approfondito la questione di ciò che, oggi come oggi, chiamiamo reale.
L’impronta del reale (prospettiva ontologica). È la linea che attraversa uno sguardo che ha caratterizzato la modernità e che per comodità trova nella figura di Bazin il rappresentante più esemplare. Lungi però dal proporre una lettura ingenua del reale – inteso come l’evidenza dei sensi che la macchina da presa coglie in modo immediato – questa linea (a partire dalla riflessione dello stesso studioso francese) individua un rapporto particolare tra il dispositivo (la macchina da presa) e ciò che viene filmato (corpi, situazioni, eventi). Non si tratta di una rappresentazione del reale, ma di quello che Bazin chiama un’impronta, un rapporto particolare che è al tempo stesso una costruzione, una forma, e una testimonianza di ciò che è stato lì, di fronte allo sguardo meccanico della camera. In un certo senso connessa ad una prospettiva ontologica ce n’è una di carattere fenomenologico, dove il realismo dello sguardo cinematografico assume l’aspetto di una rivelazione del reale.
Una tale prospettiva ontologico-fenomenologica ha attraversato e continua ad attraversare le forme audiovisive contemporanee e diventa ancora più urgente nel momento in cui è il dispositivo stesso a mutare forma e struttura nel cinema contemporaneo. Si tratta allora di riprendere questa linea interrogandone principi e conseguenze, proprio quando il dibattito contemporaneo sembra decretarne l’inattualità (si veda a questo proposito gli esiti attuali dei Film Studies anglosassoni) oppure ne declina i principi in senso pragmatico (si veda ad esempio la posizione di filosofi come Ferraris).
Il vuoto del reale (prospettiva psicoanalitica). È la linea che attraversa quelle letture del cinema e dell’immagine in generale in cui ciò che importa è la capacità dell’immagine di svelare il Reale (con la “R” maiuscola) come vuoto, come impossibile forma, priva di senso e di fine. Le pratiche dell’immagine mettono in scena in modo sintomatico i buchi e i vuoti del reale proprio laddove cercano di riempirlo di senso, di organizzare una struttura della realtà coerente e organica. È la lettura psicoanalitica del cinema da Lacan a Žižek; lettura che fa del Reale una sorta di orizzonte impossibile da mettere in forma, radicalmente opposto agli orizzonti del simbolico e dell’immaginario. Si tratta allora di seguire questa prospettiva nella consapevolezza che il cinema o l’immagine sono qui visti ed analizzati come forme sintomatiche, esempi di un inconscio collettivo.
In questa prospettiva rientra anche l’idea della spettralità del reale, per riprendere un termine caro a Derrida: lo spettro, riferito e al reale e all’immagine, è ciò che al tempo stesso è fenomenico e non fenomenico, materiale e immateriale
Un cinema per il reale (prospettiva etica). La linea che connette il reale ad un problema etico è la linea che evidenzia la domanda di fondo che sta alla base (che viene prima) ogni atto del filmare: perché filmare? Quali scelte sono necessarie prima di organizzare, concatenare un’immagine ad altre immagini? La sfida del cineasta di fronte al reale è anzitutto una sfida etica prima ancora che conoscitiva od ontologica. Si tratta di una linea che ha attraversato con forza e a volte con urgenza tutta la storia del cinema, e che si è spesso identificata con uno sguardo cinematografico dalla potente forza documentaria. Non si tratta però qui di identificare nel documentario come genere la prospettiva più adatta per parlare di un “cinema del reale”, ma di riconoscere nell’istanza documentaria del cinema il campo all’interno del quale indagare e approfondire le forme e le tipologie del suo “essere per il reale”, di una forma cinematografica cioè che attiva se stessa a partire da una sfida etica, quella di interrogare un reale che non è (mai) già dato, già disponibile, che semplicemente si offre alla macchina da presa.
Il cinema per il reale è però anche il cinema capace di autenticare il reale che sembra svanire nonostante la sua massiccia presenza (come nei reality). Quali procedure reggono questa autenticazione? Sicuramente la più importante è il montaggio nelle forme pervasive ed originali che assume nella contemporaneità.
Il discorso del reale (prospettiva retorica). Quest’ultima linea parte dalla dicotomia già individuata da Bazin (l’immagine audiovisiva è al tempo stesso “impronta” del reale e sua costruzione, sua scrittura), per rovesciarla al suo interno, facendo della scrittura, cioè della “retorica” del reale, il suo spazio privilegiato. Il realismo, per esempio, secondo la lettura che ne dà Deleuze, è una questione di codificazione generica, di forma dell’azione.
Proprio nel momento in cui lo sviluppo delle forme audiovisive contemporanee sembra andare nella direzione di una proliferazione delle immagini artificiali, tecnicamente prodotte, scisse da un rapporto immediato con una realtà materiale, l’immagine intesa come “autentica”, “reale”, prolifera nel panorama contemporaneo sotto forma di retorica, di costruzione “linguistica” del reale. Se, di fronte all’impossibilità da parte del cinema di cogliere ciò che nella sua totalità sfugge all’immagine (appunto il reale), l’immagine lavora o può lavorare sul concetto di verosimile (secondo una prospettiva che risale alla rilettura di Aristotele da parte di Della Volpe), nello scenario contemporaneo, il verosimile si trasforma in supposto reale, negando la propria costruzione, la propria artificialità. Il reale si offre (o meglio, scompare) sotto forma di reality, di pura convenzione artificiale della realtà.
Eppure questi termini – credito, debito, economia – non sono unilaterali, non appartengono ad un solo ordine del discorso, ma hanno subito nel corso dei secoli numerose e significative trasformazioni. Come hanno mostrato gli studi di Giorgio Agamben e di Marie-José Mondzain, ad esempio, il termine “Economia” ha una profonda radice teologica che impregna di sé il pensiero politico dell’occidente, ed esso è profondamente legato alla produzione di immagini capaci di dispiegare nel mondo sensibile una potenza che ha origine ultraterrena. Dall’Icona all’Immagine, dal Regno alla Gloria, il rapporto tra potere e immagine si sviluppa anche, se non soprattutto, a partire da questo spostamento di significati che non può non riguardare una storia generale delle immagini, in cui il cinema assume una posizione privilegiata.
Da un punto di vista cinematografico, infatti, il tema del credito assume di nuovo una complessa e multiforme area di significati, anche critici nei confronti di un pensiero unico dell’economia del mondo. Parlare di credito in riferimento all’immagine cinematografica significa allora interrogarsi sulla sua potenza, pensarne la storia e le forme da una particolare e straordinariamente attuale prospettiva. Dare credito all’immagine significa allora pensare che le immagini cinematografiche siano in un modo o nell’altro legate ad un processo di verità. È quanto anche un filosofo come Alain Badiou afferma a proposito del cinema, ed è ciò che in fondo appartiene ad una linea teorica profonda e duratura negli studi sul cinema, a partire da André Bazin. L’immagine filmata o fotografata acquista il suo credito per il fatto di essere “impronta del reale”, per la sua capacità di testimoniare o tracciare un legame tra la sua immaterialità (il cinema è un affare di fantasmi, ricordava Derrida) e la materialità del mondo che ha incontrato, messo in forma con il suo sguardo.
La credenza nel mondo (cinema e mondo sensibile). È stato Deleuze a sottolineare la potenza del cinema nel restituire una credenza nel mondo (“abbiamo bisogno di credere nel mondo”). Il credito è cioè qui legato al credere, al bisogno e alla necessità di credere nel mondo e non oltre il mondo, alla sua bellezza e alla sua vitalità, alla sua possibilità di essere il mondo per noi e non “nonostante” noi. Il cinema ha a che fare con la sensibilità, con la materialità di un mondo che ci restituisce come qualcosa di nuovo, non già-visto, dunque sorprendente. È la linea di Rossellini, di Renoir, di Romher, e ora la linea di Lav Diaz, Weeresethakul Apitchapong, Jia Zhangke: linea feconda e non interrotta che occorre continuare ad esplorare. All’opposto abbiamo lo screditamento del mondo, la sua negazione, in forma elusiva o aggressiva, malinconica o distruttiva: abitare la pendenza ripida del sospetto e della negazione può portare alla dissoluzione del mondo e di se stessi (sono le forme tragiche e melodrammatiche che hanno attraversato e attraversano il cinema).
Il credito che fonda l’immagine (il cinema e l’evento). Ciò che fonda la possibilità stessa di un’immagine cinematografica è il credito che noi le diamo, vale a dire la fiducia, il patto, il contratto a partire dal quale un’immagine – che non sia un cliché, una vuota forma ripetuta, un già-visto – è per noi nuova e pregna di significato. La fiducia si fonda sul riconoscimento, conscio o meno, che quell’immagine nasce da un incontro tra uno sguardo e il mondo, e che ciò che ci restituisce è proprio la capacità veritativa di quello sguardo; sguardo che non è detto che abbia solo una potenza rivelativa di tipo fenomenologico ma che può anche essere “sguardo montato”, un montaggio-dello-sguardo dal quale può nascere la credibilità dell’immagine. Se l’accento è posto sullo sguardo, sul patto tra lo spettatore e il credito dato a quello sguardo, allora il cinema può essere uno straordinario mezzo di creazione o rivelazione dell’immaginario, allora la sua artificialità tecnologica passa in secondo piano a favore di una etica dello sguardo (che fonda il credito dato all’immagine). È l’interrogativo di Kieslovskij, di Herzog, di ogni cinema che si caratterizza come incontro (anche unico, straordinario, casuale) e dunque come forma dell’evento (il cinema documentario tutto, da Flaherty a Wiseman).
Il credito tecnologico. L’atto caratterizzante il piacere del cinema è la sua capacità di farci credere a ciò che vediamo. In questo senso il credere (dare credito) si fonda sul patto di fiducia nei confronti di un’immagine che volontariamente crea un “altro” reale, sotto forma di fantasmagoria, di scena immaginaria, di pura o ibrida fantasia.. Ma in questa tradizione esiste uno scarto che caratterizza la contemporaneità? Possono cioè gli sforzi delle nuove tecnologie essere considerati come il desiderio di aumentare il più possibile questo meccanismo “fiduciario” (che fonda la verosimiglianza)? Nell’infinita produzione e fruizione tecnologica delle immagini contemporanee come è pensabile l’operazione di accreditamento?
Le nuove immagini digitali lavorano sempre più in una doppia direzione, strettamente intrecciata: da una parte spingono per una sempre maggiore mimesi delle forme rappresentative (in cui i corpi artificiali sono sempre meno distinguibili dai corpi “reali”); dall’altra tendono ad una sempre maggiore costruzione di realtà impossibili, eccessive, senza misura, seppur credibili sullo schermo. Come collocare in questa duplice direzione il problema del credito dell’immagine?
"Cinema", a cui partecipano anche molti cineasti. Questi ultimi hanno scelto, o disegnato, l’immagine di un film rappresentativo della loro idea di cinema, associandola ad un breve testo, talvolta poche parole. Numero a cui partecipano studiosi di prestigio, alcuni dei quali accompagnano la rivista fin dalla sua nascita."
La deadline per la consegna dei saggi è il 9 luglio 2017.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 23 aprile 2017.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie e la cui lunghezza deve essere compresa tra 35.000 e 40.000 battute, spazi e note incluse) o Rifrazioni (interventi più brevi dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale e la cui lunghezza deve essere compresa tra 15.000 e 20.000 battute, spazi e note incluse).
Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Per ogni altra informazione è possibile consultare il sito della rivista
http://fatamorgana.unical.it/
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The issue 33 of “Fata Morgana” which is dedicated to Medium.
The deadline for the submission of essays is July 9, 2017.
The proposal (max 15 lines) should be received by April 23, 2017.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective and that should strictly respect the following word limit: Min 5000 Max 6000 words, including spaces and footnotes); essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, and that should strictly respect the following word limit: Min 2000 Max 3000 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
For additional information please visit our website: http://fatamorgana.unical.it
La deadline per la consegna dei saggi è il 4 settembre 2016.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 15 giungo 2016.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, 12.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Per ogni altra informazione è possibile consultare il sito della rivista:
http://fatamorgana.unical.it
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The issue 31 of “Fata Morgana” which is dedicated to Consciousness.
The deadline for the submission of essays is June 15, 2016.
The proposal (max 15 lines) should be received by September 4, 2016.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 1.800 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
For additional information please visit our website: http://fatamorgana.unical.it
http://fatamorgana.unical.it/num31.htm
La deadline per la consegna dei saggi è il 6 marzo 2016.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 15 dicembre 2015.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, 12.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Per ogni altra informazione è possibile consultare il sito della rivista:
http://fatamorgana.unical.it
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The issue 29 of “Fata Morgana” which is dedicated to Myth.
The deadline for the submission of essays is March 6, 2016. The proposal (max 15 lines) should be received by December 15, 2015.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 1.800 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
For additional information please visit our website: http://fatamorgana.unical.it
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num29.htm
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 5 luglio 2015.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 6 cartelle, 12.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num28.htm
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The 28th issue of “Fata Morgana” which is dedicated to Thing. The deadline for the submission of essays is September 30, 2015. The proposal (max 15 lines) should be received by July 5, 2015.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 6 pages in length, 1.800 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/number28.htm
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 28 febbraio 2015.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, spazi e note incluse, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 8 cartelle, 15.000 battute, spazi e note incluse, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num27.htm
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the 27th issue of “Fata Morgana” which is dedicated to Love. The deadline for the submission of essays is May 28, 2015. The proposal (max 15 lines) should be received by February 28, 2015.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words, including spaces and footnotes; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 8 pages in length, 2.000 words, including spaces and footnotes).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/number27.htm
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 15 ottobre 2014.
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 8 cartelle, 15.000 battute, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/num26.htm
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26th issue of “Fata Morgana” is dedicated to Theory. The deadline for the submission of essays is January 10, 2015. The proposal (max 15 lines) should be received by October 15, 2014.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 8 pages in length, 2.000 words).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
Call for papers: http://fatamorgana.unical.it/number26.htm
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio: Focus (saggi, di circa 15 cartelle, 30.000 battute, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie) o Rifrazioni (interventi più brevi, circa 8 cartelle, 15.000 battute, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
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The 25 issue of “Fata Morgana” which is dedicated to Memory. The deadline for the submission of essays is September 31, 2014. The proposal (max 15 lines) should be received by July 15, 2014.
In the proposal please clearly indicate the section in which you place the essay (essays for the Focus section, where the main theme is developed in a wider perspective, should be about 15 pages in length, 4.000 words; essays for the Rifrazioni section, which includes shorter entries dedicated to single films, images or sequences relating to the main theme, should be about 8 pages in length, 2.000 words).
Please note that essays should be written specifically for the journal and that “Fata Morgana” is a peer reviewed journal.
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com"
Deadline per la consegna dell'abstract (massimo 15 righe): 20 marzo 2014
Deadline per la consegna del saggio: 31 maggio 2014
Lunghezza testi: Focus: 30.000 battute; Rifrazioni: 15.000 battute
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
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The 24th issue of “Fata Morgana” is dedicated to Device.
Deadline for the submission of the abstract (max 15 lines): March 20, 2014
Deadline for the submission of the essay: May 31, 2014
Approximate length: Focus section: 4.000 words; Rifrazioni section; 2.000 words (including footnotes)
Send to: redazionefatamorgana@gmail.com
La deadline per la consegna dei saggi è il 15 gennaio 2014.
La proposta (massimo 15 righe) va invece presentata entro il 31 ottobre 2013.
Da inviare a: redazionefatamorgana@gmail.com
Nella proposta bisognerà indicare in maniera chiara la sezione nella quale si colloca il saggio (Focus: saggi, di circa 10 cartelle, di carattere generale in cui il tema del numero è declinato secondo prospettive ampie; Rifrazioni: interventi più brevi, circa 5 cartelle, dedicati a singoli film, immagini, sequenze, legati al tema principale). Si ricorda che i saggi dovranno essere pensati ed elaborati appositamente per la rivista e che “Fata Morgana” prevede la procedura del peer review.
Schema del numero:
- Azione come praxis
- Azione come performance
- Azione e incontro
- Logica dell’azione e potenza del visibile
1. La maschera carnevalesca, vitale e rigenerativa, capace di riprendere una linea di vita oltre la morte, capace di rinascere perennemente. Sono le maschere della commedia dell’arte, la cui presenza lungo una profonda tradizione teatrale giunge fino al Novecento cinematografico, in primo luogo italiano (da Totò ai De Filippo).
2. La maschera gotica, nera, critica, che ha perso la sua spinta rigenerativa per farsi maschera di morte. Qui l’ascendente è nella tradizione romantica, gotica, nella maschera che cela il “vuoto”, inquietante. E qui il cinema ha, fin dalle origini, attraverso generi e filoni, dal fantastico all’horror, messo in immagine i vari aspetti (ripresi anche da un immaginario letterario, a partire da Poe) della maschera gotica. Questo aspetto, se trova nel moderno (dalla stagione romantica fino all’espressionismo) una declinazione di “coscienza infelice”, segnata dall’ambiguità e dalla melanconia saturnina, è nondimeno presente fin dalle radici “apotropaiche” del carnevalesco come “festa del ritorno dei morti” e della rigenerazione sacrale del tempo (come ha mostrato Mircea Eliade), e nell’antichità connette la maschera all’orrore e allo spettrale, fin da una delle sue ipotesi etimologiche, quella di “maska” (nome dato a una figura femminile di strega) e dalla figurazione del “gorgoneion” (maschera di Medusa e bocca dell’inferno, come hanno mostrato gli studi di psicologia storica della scuola di Vernant). Una ripresa moderna di tale immaginario, nell’ambito del cinema, la troviamo, alle origini nel ciclo di “Fantomas” di Feuillade, e più di recente nel nesso carnevalesco/orrorifico di film come La maschera della morte rossa di Corman.
Oltre la maschera-persona, con le questioni dell’identità ad essa connesse (e dove troviamo fra tutti il cinema di Bergman, a partire da Persona), e al senso ambivalente della maschera carnevalesca, gioiosa o nera, la maschera porta con sé un problema capitale delle forme rappresentative, quello che la differenzia dal personaggio. Se quest’ultimo si sviluppa e varia nel tempo, la prima tende a ripetersi e rimanere la stessa nell’iterazione degli atti. E questo ha un effetto importante nell’elaborazione dell’intreccio: le maschere “annullano” l’intreccio, che discende da queste come susseguirsi iterativo di atti e situazioni che confermano i tratti della maschera (da Molière fino alla galleria di maschere di Sordi); i personaggi invece discendono dagli intrecci, ne sono diretta emanazione, da cui l’inscindibilità tra l’essere di un personaggio e la sua appartenenza ad una storia, ad un intreccio. Questa distinzione è importante per capire e distinguere buona parte delle commedie: ci sono commedie di intreccio, fondate su equivoci e simulazioni, che hanno al centro personaggi inscindibili dalle storie a cui danno vita (tutta la sophisticated comedy americana, ma anche la nostra commedia anni Trenta sono commedie di intreccio); e ci sono commedie di maschere che assorbono l’intreccio in un ritratto carico e grottesco, che si risolve, spesso nel bozzetto e nell’episodio: tutta la commedia all’italiana, dagli anni Sessanta in poi è contrassegnata da questi tratti (a partire da I mostri di Risi).
La questione della maschera denota in prima istanza la forma del rapporto, all’interno del soggetto, fra sé e il mondo, l’individuo e la società, e i modi mai pacifici in cui questo rapporto viene a determinarsi. La maschera come gabbia, come rifugio, come doppio, come via di fuga nel gioco infinito delle simulazioni, è qualcosa che il cinema degli anni Trenta e Quaranta in Italia e altrove (a partire da Pirandello, Bontempelli, e il Teatro del Grottesco) ha sviluppato con grande forza, determinando un rapporto stretto con la scena e con il teatro, cioè con le forme più vicine alla “teatralizzazione della vita”. Il processo di “disinganno” e la sua dialettica con un immaginario “dell’illusione” comincia con il Barocco (vedi l’uso metaspettacolare della maschera e del travestimento a partire dal teatro shakespeariano, fino alla spettacolarità del Bernini e alla sua ripresa “fantastica” in Hoffmann). Tale processo trova nel moderno un risvolto sia psicoanalitico che pedagogico: la maschera può assumere tanto la funzione fantasmagorica del “feticcio”, anche erotico (vedi un film come Casanova di Fellini), quanto quella della “dissimulazione onesta”, contenuta nella metamorfosi da burattino a bambino di Pinocchio (maschera della modernità italiana per eccellenza, su cui si sono esercitati sia Fellini che Comencini che Benigni); o, in un uso “satirico-educativo”, la funzione di mettere in scacco il potere costituito (vedi, in ambito italiano, i film che assumono questo andamento barocco o espressionista, da Un’avventura di Salvator Rosa di Blasetti a Il cappello a tre punte di Camerini a Ferdinando I Re di Napoli di Franciolini, a O Re di Magni, tutti film che leggono in tal modo la maschera “eterna” di Pulcinella). Del resto il cinema e lo spettacolo comico italiano hanno tematizzato in tal senso, fin dai suoi inizi, la figurazione della maschera (vedi comici come Polidor, Fregoli, Petrolini, Totò, o il nesso maschera/melodramma/commedia in film muti come Carnevalesca, Storia di un Pierrot, Cyrano, Capitan Fracassa, o le ambiguità metacinematografiche del travestimento nel cinema di Carlo L. Bragaglia).
Ma gran parte del cinema moderno ha percorso lo spazio innovativo e rischioso del dissolvimento della maschera, strappando allo stesso tempo lo schermo illusorio della finzione e quello caricaturale e posticcio del grottesco. Trovare al di sotto e tra le maschere lo spazio vitale di un incontro tra corpi e anime è stata la posta in gioco di tanto cinema “nouvelle vague” e dei suoi eredi: da Bresson a Godard a Rivette ai Dardenne. Tutto il desiderio di catturare il reale sotto il suo “mascherarsi” (il sogno di tanto cinema documentario). Perché se – come dice Nietzsche – “tutto è maschera”, è possibile pensare e filmare qualcosa che vada oltre? E se una volta tolta la maschera, il velo che ci difende e ci posiziona nel mondo, non emerge che il vuoto più inquietante, l’assenza di ogni desiderio? È l’assenza che, ancora una volta, il cinema italiano ha saputo rappresentare in modo impareggiabile, come il cinema di Ferreri dimostra.
Reale/realismo: l’evidenza apparente del suo significato si scontra con l’evanescenza del suo senso. O forse, più che con l’evanescenza, con la molteplicità di sensi possibili. Come si definisce ciò che è reale? A cosa si oppone questa parola? Cosa cambia quando opponiamo reale a virtuale, reale a immaginario, a simbolico, a fantasmatico, a menzognero, a finzionale o ad astratto? Oppure quando opponiamo reale a realtà? Ognuna di queste coppie oppositive riassume in fondo un discorso possibile, una posizione possibile di fronte al problema di cosa sia, di come si configuri il reale e il nostro rapporto con esso.
Proprio nel passaggio tra XIX e XX secolo il dibattito ha rilanciato con forza il problema del reale (del suo senso, del suo significato), a partire dalla rivoluzione tecnologica che ha attraversato l’Europa e il mondo intero. Dalla fotografia al cinema, dai nuovi mezzi di produzione e riproduzione dell’immagine, il concetto di reale ha trovato ulteriori declinazioni, incrociando spesso e volentieri il pensiero del Novecento e costruendo pratiche e forme che hanno ulteriormente approfondito la questione di ciò che, oggi come oggi, chiamiamo reale.
L’impronta del reale (prospettiva ontologica). È la linea che attraversa uno sguardo che ha caratterizzato la modernità e che per comodità trova nella figura di Bazin il rappresentante più esemplare. Lungi però dal proporre una lettura ingenua del reale – inteso come l’evidenza dei sensi che la macchina da presa coglie in modo immediato – questa linea (a partire dalla riflessione dello stesso studioso francese) individua un rapporto particolare tra il dispositivo (la macchina da presa) e ciò che viene filmato (corpi, situazioni, eventi). Non si tratta di una rappresentazione del reale, ma di quello che Bazin chiama un’impronta, un rapporto particolare che è al tempo stesso una costruzione, una forma, e una testimonianza di ciò che è stato lì, di fronte allo sguardo meccanico della camera. In un certo senso connessa ad una prospettiva ontologica ce n’è una di carattere fenomenologico, dove il realismo dello sguardo cinematografico assume l’aspetto di una rivelazione del reale.
Una tale prospettiva ontologico-fenomenologica ha attraversato e continua ad attraversare le forme audiovisive contemporanee e diventa ancora più urgente nel momento in cui è il dispositivo stesso a mutare forma e struttura nel cinema contemporaneo. Si tratta allora di riprendere questa linea interrogandone principi e conseguenze, proprio quando il dibattito contemporaneo sembra decretarne l’inattualità (si veda a questo proposito gli esiti attuali dei Film Studies anglosassoni) oppure ne declina i principi in senso pragmatico (si veda ad esempio la posizione di filosofi come Ferraris).
Il vuoto del reale (prospettiva psicoanalitica). È la linea che attraversa quelle letture del cinema e dell’immagine in generale in cui ciò che importa è la capacità dell’immagine di svelare il Reale (con la “R” maiuscola) come vuoto, come impossibile forma, priva di senso e di fine. Le pratiche dell’immagine mettono in scena in modo sintomatico i buchi e i vuoti del reale proprio laddove cercano di riempirlo di senso, di organizzare una struttura della realtà coerente e organica. È la lettura psicoanalitica del cinema da Lacan a Žižek; lettura che fa del Reale una sorta di orizzonte impossibile da mettere in forma, radicalmente opposto agli orizzonti del simbolico e dell’immaginario. Si tratta allora di seguire questa prospettiva nella consapevolezza che il cinema o l’immagine sono qui visti ed analizzati come forme sintomatiche, esempi di un inconscio collettivo.
In questa prospettiva rientra anche l’idea della spettralità del reale, per riprendere un termine caro a Derrida: lo spettro, riferito e al reale e all’immagine, è ciò che al tempo stesso è fenomenico e non fenomenico, materiale e immateriale
Un cinema per il reale (prospettiva etica). La linea che connette il reale ad un problema etico è la linea che evidenzia la domanda di fondo che sta alla base (che viene prima) ogni atto del filmare: perché filmare? Quali scelte sono necessarie prima di organizzare, concatenare un’immagine ad altre immagini? La sfida del cineasta di fronte al reale è anzitutto una sfida etica prima ancora che conoscitiva od ontologica. Si tratta di una linea che ha attraversato con forza e a volte con urgenza tutta la storia del cinema, e che si è spesso identificata con uno sguardo cinematografico dalla potente forza documentaria. Non si tratta però qui di identificare nel documentario come genere la prospettiva più adatta per parlare di un “cinema del reale”, ma di riconoscere nell’istanza documentaria del cinema il campo all’interno del quale indagare e approfondire le forme e le tipologie del suo “essere per il reale”, di una forma cinematografica cioè che attiva se stessa a partire da una sfida etica, quella di interrogare un reale che non è (mai) già dato, già disponibile, che semplicemente si offre alla macchina da presa.
Il cinema per il reale è però anche il cinema capace di autenticare il reale che sembra svanire nonostante la sua massiccia presenza (come nei reality). Quali procedure reggono questa autenticazione? Sicuramente la più importante è il montaggio nelle forme pervasive ed originali che assume nella contemporaneità.
Il discorso del reale (prospettiva retorica). Quest’ultima linea parte dalla dicotomia già individuata da Bazin (l’immagine audiovisiva è al tempo stesso “impronta” del reale e sua costruzione, sua scrittura), per rovesciarla al suo interno, facendo della scrittura, cioè della “retorica” del reale, il suo spazio privilegiato. Il realismo, per esempio, secondo la lettura che ne dà Deleuze, è una questione di codificazione generica, di forma dell’azione.
Proprio nel momento in cui lo sviluppo delle forme audiovisive contemporanee sembra andare nella direzione di una proliferazione delle immagini artificiali, tecnicamente prodotte, scisse da un rapporto immediato con una realtà materiale, l’immagine intesa come “autentica”, “reale”, prolifera nel panorama contemporaneo sotto forma di retorica, di costruzione “linguistica” del reale. Se, di fronte all’impossibilità da parte del cinema di cogliere ciò che nella sua totalità sfugge all’immagine (appunto il reale), l’immagine lavora o può lavorare sul concetto di verosimile (secondo una prospettiva che risale alla rilettura di Aristotele da parte di Della Volpe), nello scenario contemporaneo, il verosimile si trasforma in supposto reale, negando la propria costruzione, la propria artificialità. Il reale si offre (o meglio, scompare) sotto forma di reality, di pura convenzione artificiale della realtà.
Eppure questi termini – credito, debito, economia – non sono unilaterali, non appartengono ad un solo ordine del discorso, ma hanno subito nel corso dei secoli numerose e significative trasformazioni. Come hanno mostrato gli studi di Giorgio Agamben e di Marie-José Mondzain, ad esempio, il termine “Economia” ha una profonda radice teologica che impregna di sé il pensiero politico dell’occidente, ed esso è profondamente legato alla produzione di immagini capaci di dispiegare nel mondo sensibile una potenza che ha origine ultraterrena. Dall’Icona all’Immagine, dal Regno alla Gloria, il rapporto tra potere e immagine si sviluppa anche, se non soprattutto, a partire da questo spostamento di significati che non può non riguardare una storia generale delle immagini, in cui il cinema assume una posizione privilegiata.
Da un punto di vista cinematografico, infatti, il tema del credito assume di nuovo una complessa e multiforme area di significati, anche critici nei confronti di un pensiero unico dell’economia del mondo. Parlare di credito in riferimento all’immagine cinematografica significa allora interrogarsi sulla sua potenza, pensarne la storia e le forme da una particolare e straordinariamente attuale prospettiva. Dare credito all’immagine significa allora pensare che le immagini cinematografiche siano in un modo o nell’altro legate ad un processo di verità. È quanto anche un filosofo come Alain Badiou afferma a proposito del cinema, ed è ciò che in fondo appartiene ad una linea teorica profonda e duratura negli studi sul cinema, a partire da André Bazin. L’immagine filmata o fotografata acquista il suo credito per il fatto di essere “impronta del reale”, per la sua capacità di testimoniare o tracciare un legame tra la sua immaterialità (il cinema è un affare di fantasmi, ricordava Derrida) e la materialità del mondo che ha incontrato, messo in forma con il suo sguardo.
La credenza nel mondo (cinema e mondo sensibile). È stato Deleuze a sottolineare la potenza del cinema nel restituire una credenza nel mondo (“abbiamo bisogno di credere nel mondo”). Il credito è cioè qui legato al credere, al bisogno e alla necessità di credere nel mondo e non oltre il mondo, alla sua bellezza e alla sua vitalità, alla sua possibilità di essere il mondo per noi e non “nonostante” noi. Il cinema ha a che fare con la sensibilità, con la materialità di un mondo che ci restituisce come qualcosa di nuovo, non già-visto, dunque sorprendente. È la linea di Rossellini, di Renoir, di Romher, e ora la linea di Lav Diaz, Weeresethakul Apitchapong, Jia Zhangke: linea feconda e non interrotta che occorre continuare ad esplorare. All’opposto abbiamo lo screditamento del mondo, la sua negazione, in forma elusiva o aggressiva, malinconica o distruttiva: abitare la pendenza ripida del sospetto e della negazione può portare alla dissoluzione del mondo e di se stessi (sono le forme tragiche e melodrammatiche che hanno attraversato e attraversano il cinema).
Il credito che fonda l’immagine (il cinema e l’evento). Ciò che fonda la possibilità stessa di un’immagine cinematografica è il credito che noi le diamo, vale a dire la fiducia, il patto, il contratto a partire dal quale un’immagine – che non sia un cliché, una vuota forma ripetuta, un già-visto – è per noi nuova e pregna di significato. La fiducia si fonda sul riconoscimento, conscio o meno, che quell’immagine nasce da un incontro tra uno sguardo e il mondo, e che ciò che ci restituisce è proprio la capacità veritativa di quello sguardo; sguardo che non è detto che abbia solo una potenza rivelativa di tipo fenomenologico ma che può anche essere “sguardo montato”, un montaggio-dello-sguardo dal quale può nascere la credibilità dell’immagine. Se l’accento è posto sullo sguardo, sul patto tra lo spettatore e il credito dato a quello sguardo, allora il cinema può essere uno straordinario mezzo di creazione o rivelazione dell’immaginario, allora la sua artificialità tecnologica passa in secondo piano a favore di una etica dello sguardo (che fonda il credito dato all’immagine). È l’interrogativo di Kieslovskij, di Herzog, di ogni cinema che si caratterizza come incontro (anche unico, straordinario, casuale) e dunque come forma dell’evento (il cinema documentario tutto, da Flaherty a Wiseman).
Il credito tecnologico. L’atto caratterizzante il piacere del cinema è la sua capacità di farci credere a ciò che vediamo. In questo senso il credere (dare credito) si fonda sul patto di fiducia nei confronti di un’immagine che volontariamente crea un “altro” reale, sotto forma di fantasmagoria, di scena immaginaria, di pura o ibrida fantasia.. Ma in questa tradizione esiste uno scarto che caratterizza la contemporaneità? Possono cioè gli sforzi delle nuove tecnologie essere considerati come il desiderio di aumentare il più possibile questo meccanismo “fiduciario” (che fonda la verosimiglianza)? Nell’infinita produzione e fruizione tecnologica delle immagini contemporanee come è pensabile l’operazione di accreditamento?
Le nuove immagini digitali lavorano sempre più in una doppia direzione, strettamente intrecciata: da una parte spingono per una sempre maggiore mimesi delle forme rappresentative (in cui i corpi artificiali sono sempre meno distinguibili dai corpi “reali”); dall’altra tendono ad una sempre maggiore costruzione di realtà impossibili, eccessive, senza misura, seppur credibili sullo schermo. Come collocare in questa duplice direzione il problema del credito dell’immagine?
Lo spazio comune del cinema. La sala e i suoi rituali, la sala e la sua scomparsa, la fruizione individuale, la vecchia e nuova cinefilia, la trasformazione dell’esperienza comune del cinema. Da The Dreamers di Bertolucci, alle visioni private, individuali e ossessive (Peeping Tom). Dal rito della sala cinematografica (presente ossessivamente nel cinema, da Vertov a Ferreri, attraverso le mille forme della cinefilia moderna) alla sua decadenza come luogo al tempo stesso individuale e collettivo. La fruizione cinematografica ora appare sempre di più come spazio individualizzato, frammentato, disperso. È la fine dell’esperienza comune del cinema? O le pratiche di riappropriazione del cinema, delle sue immagini come della sua memoria continuano? È su questo interrogativo che la riflessione del e sul “comune” si declina come spazio comune per gli spettatori e per i corpi che abitano lo schermo. Per la storia del cinema e per la storia di tutti quei discorsi che hanno accompagnato la storia del cinema, che è la storia di un amore comune, e la storia di un’esperienza particolare – quella spettatoriale –, esperienza di perdita e di ritrovamento di sé.
Massa, folla, individuo. Il cinema come esperienza della massa urbana, come utopia di un mondo filmato come possibile spazio comune. Il cinema delle origini ha filmato i corpi come parte integrante di un paesaggio che stava cambiando, quello della nuova città, dell’esposizione universale, dei caffè, delle strade, delle piazze (da Lumière in poi). Uno spazio in cui i corpi diventavano anonimi, diventavano parte di un termine che ha origine (dal punto di vista sociale) proprio in quel periodo: “massa”. Il cinema coglie e filma dunque l’anonimato della folla, dei passanti che attraversano lo spazio visivo della macchina da presa per poi scomparire. Al tempo stesso però, il nuovo dispositivo coglie anche i fermenti di cambiamento della collettività, e cerca di rappresentarla come corpo collettivo comune (come nel cinema rivoluzionario di Ejzenštejn). È sulla base di una contrapposizione tra corpo collettivo e anonimato della folla che si può fare una storia del cinema come storia della contrapposizione tra il corpo anonimo e il corpo collettivo, di un cinema che annulla i soggetti, li coglie come parti integranti di un meccanismo della modernità, e un cinema che li pensa come parte integrante di un progetto comune o di una comune utopia. È il cinema che coglie la massa (Lang, Vidor) e il cinema che mette insieme dei soggetti, facendo vivere loro straordinarie esperienze in comune (Hawks, Ford). Oppure il cinema che esplora lo spazio comune inteso come paesaggio umano e naturale insieme, reale e simbolico: lo spazio dove vive una comunità, un gruppo, un insieme di persone. È lo spazio del reale che si snoda nel cinema da Rossellini a Rouch a da De Seta e tantissimi altri. Pensare e filmare il comune significa anche cercare di filmare ciò che non necessariamente ancora esiste, pensare l’utopia, il sogno, la speranza, il desiderio. Come il cinema abbia dato forma alle utopie, all’immaginazione del comune è ciò che vale la pena rintracciare, ripensare, oggi come oggi.
Il sentire comune del cinema (il montaggio del comune). È il linguaggio stesso del cinema o, se si vuole, il suo dispositivo primario a costituire la sua forza espressiva, la modalità con cui la settima arte ha rivelato il sentire comune dei corpi, il loro spazio comune. Il cinema mette in relazione, attraverso le riprese e il montaggio, soggetti e mondi, esistenze e storie. La connessione messa in opera dal montaggio e dalle inquadrature costruisce un mondo che può diventare il mondo comune di chi quelle storie le crea e di chi le ammira, le fa diventare parte della propria esperienza. La scelta di un campo-controcampo, o di un totale, di un campo lungo o medio rispondono anche all’esigenza di mettere in relazione (o di evidenziare una relazione) tra i corpi che abitano, infestano, vivono sullo schermo. Due sguardi che si incrociano in un montaggio fulmineo, o due gesti che si richiamano pur se compiuti in tempi e spazi diversi, costruiscono un’immagine nuova, capace di mettere in comune (è il grande potere del montaggio da sempre, in fondo) singole esistenze, destini comuni (è il caso della scrittura classica, da Griffith a Eastwood). Ma dietro questa grande potenza del cinema sta anche il suo pericolo, il suo rovesciamento: proprio il potere del montaggio è lo strumento attraverso cui il comune può essere costruito come proprio, come esclusivo, elemento che unifica ma che al contempo esclude tutto ciò che rimane fuori campo. Il cinema di propaganda, il cinema pubblicitario nel senso più ampio del termine: è questo il cinema del proprio, più che del comune ed è qui, ancora una volta, che l’indagine può e deve insistere.
Il “senza comune misura” è l’espressione con cui Jacques Rancière definisce le forme del disaccordo fra immagini e fra immagini e suoni, individuandolo come un tratto distintivo del cinema moderno (in primis Godard). Quest’assenza di misura comune, questo disaccordo, questa distanza, comportano un’unità più profonda, un accordo più radicale, che eccede ogni legame di carattere empirico, e che in un certo senso predispone di volta in volta alla costruzione di nuovi accordi, di nuovi terreni comuni. Allora si apre un’ulteriore prospettiva: disinquadrature, falsi raccordi, intervalli definiscono le procedure dove la messa in questione di un “comune” empirico e pacifico, rimanda e fa emergere un “comune sentire” intensivo che prende forma solo nel disaccordo. Come pensare dunque un “comune” nella distanza? Una condivisione del disaccordo? È questo il segno di autori come Bresson, gli Straub, De Oliveira, Gianikian e Ricci Lucchi, Tsai Ming Liang, Pedro Costa, Cimino.
Il “comune” dei generi è forse la forma più imponente di affermazione del “comune” al cinema. Che cosa è un genere se non un insieme di elementi, di «membri, dei quali può essere detto che essi condividono ciò che si può delineare come caratteristica comune. In pratica, questo significa che, laddove un membro diverge, allora esso dovrà, rispetto al resto, “compensare” questa divergenza». Queste parole di Stanley Cavell ci aprono ad una possibilità di pensare il genere e le forme generiche come una “famiglia di testi” tenuta insieme da qualcosa di “comune”, pensato secondo prospettive articolate, “legami di sangue” (identificazione immediata e oggettiva di caratteri e tratti: pensiamo al western o al musical) o “legami elettivi” dove il comune, pensiamo a tutte le contaminazioni e ibridazioni (la commedia all’italiana, per esempio), diviene di volta in volta il luogo di una negoziazione e di un accordo fra forme espressive e attese spettatoriali.
Il rito contemporaneo, come risulta evidente dalle riflessioni che sul tema hanno offerto autori come De Martino o Durkheim, non è una forma esclusivamente legata alla sua origine – quella di un atto legato alla religione, al mito, all’esperienza individuale e collettiva del sacro: il rito investe le esperienze più comuni e quotidiane, esso risponde spesso a quella “crisi della presenza” di cui parlava De Martino, svolge una funzione di orientamento, offre modelli di comportamento e di guida nel caos del mondo.
Soprattutto, il rito, in quanto gesto, atto, rappresentazione è, ed è sempre stato profondamente legato al cinema, all’immagine cinematografica come forma estetica e al cinema come fruizione rituale, liturgia laica della contemporaneità. Il cinema come sguardo del Novecento, come afferma Casetti, capace di costruire nuovi miti e nuovi riti, «sullo schermo e nella sala, in un’epoca che ha avuto particolarmente bisogno di nuove immagini e di nuovi comportamenti in grado di dare conto delle preoccupazioni, degli ideali o degli ordini sociali emergenti» (L’occhio del Novecento). Il cinema intercetta il bisogno del rito e lo modula in forme comprensibili; la macchina cinematografica produce e consolida nuovi riti, nuovi comportamenti e atti sociali, secondo modalità sempre diverse.
O ancora, il rito come “forma” dell’immagine cinematografica, come sottolinea Ejzenštejn che rilegge il cinema alla luce del mito dionisiaco o come evidenziano le letture warburghiane dell’immagine in quanto forma mobile e dinamica, che sopravvive proiettandosi sempre verso nuove configurazioni.
Il rito della sala e oltre la sala. Che cosa resta del rito spettatoriale del cinema? Della sala cinematografica come tempio laico, struttura non solo fisica, ma luogo potente, carico di mistero e di energia capace di dare sostanza ai sogni e all’immaginario? Il cinema come esperienza collettiva, ma anche il rito cinefilo che permea di sé le immagini del cinema moderno, del cinema che mette in scena se stesso, omaggio a una visione in più del mondo. La ripetizione come dimensione rituale del dispositivo cinematografico, e la sala cinematografica che nel corso della storia del cinema ha avuto molteplici funzioni rituali: la sala come spazio-tempo “altro”, del e nel mondo: dalle storie al tempo stesso mitiche e concrete del Marco Ferreri di Nitrato d’argento (1996) o dei tanti registi del progetto Chacun son cinéma (2007), fino alle sale cinematografiche che aprono nuovi spazi all’immagine e alla narrazione, sognanti e terribili – come in Last Action Hero (1993) di John McTiernan, Matinée (1993) di Joe Dante o in Cigarette Burns (2005) di John Carpenter. La sala come nuovo tempio in Good Morning Babilonia (1987) dei fratelli Taviani, o come cortocircuito del tempo in L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam; lo schermo come specchio e autoriflessione di uno sguardo in Questa è la mia vita (1962) di Jean-Luc Godard, o come elemento di una dialettica senza fine tra chi filma, chi è filmato, e chi guarda ciò che è stato filmato, come in L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov. La sala e la sua lenta morte che non smette di tornare a nuova vita, come in Nel corso del tempo (1975) di Wim Wenders, L'ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich, Finalmente domenica! (1983) di François Truffaut. Ma soprattutto i nuovi riti della visione e della fruizione, “dislocati” rispetto alla sala, collocati altrove, in una proliferazione di schermi che attraversano le città, i non-luoghi (aeroporti, stazioni ecc.), o gli ambienti domestici.
Il cinema e la forma politica del rito. Il cinema come modulatore e mediatore, grande dispositivo di messa in scena del rito, di svelamento e scoperta di tutte le sue forme, da quelle antiche a quelle più secolarizzate, apparentemente lontane da ogni forma del sacro. L’immagine come dono, come magia. Dalla ripresa sul set all’immagine montata, flusso del reale e costruzione astratta. Il mistero del cinema (la sua dimensione sacrale) contrapposto alla sua struttura industriale, mercificata. La “terza macchina” del cinema (come la chiama Metz), la macchina discorsiva che produce teorie e analisi, sguardi critici e letture ha spesso colto e analizzato la storia del cinema come macchina costruttrice di nuovi riti e di nuovi miti. Da Balázs a Morin, da Pierre Sorlin a Kracauer, la forza anche politica del cinema come macchina disciplinare – che seleziona e propone nuovi miti e nuovi riti – è stata al centro di numerose analisi. Il rito come forma del politico, come elaborazione visuale della gloria del potere (come afferma Agamben), o come messa in immagine dei riti di istituzione (come li chiama Bourdieu): i riti collettivi del potere messi in forma da Leni Riefenstahl, o il potere come grande rappresentazione rituale nel cinema di Mikhail Ciaureli. Il rito del potere come finzione vuota nel cinema di Moretti, o come immobilità della Storia nel cinema di Sokurov. I rituali grotteschi e carnevaleschi del potere (politico come sessuale) nel cinema di Fellini, Ferreri, Petri. Il rito scenografico del potere politico in Griffith o Kurosawa, in Oshima o Syberberg. Il rito come rinnovamento individuale e collettivo, controllato e regolato da codici che garantiscono l’instaurazione del nuovo e dell’ordine dopo l’emersione, controllata, del caos (il rituale latino del mundus).
Le infinite figure cinematografiche del rito. Il rito cinematografico è allora forma mobile e cangiante, mai unilaterale. Dal sacrificio all’incoronazione, dal battesimo al matrimonio, dai riti di successione ai riti di saluto, i funerali, le veglie, le commemorazioni. Dai riti di ingresso a quelli di passaggio, dal giuramento al transito all’età adulta. Dai riti cannibalici ai riti collettivi della festa; dai riti della politica e del potere ai riti della fertilità, dell’amore; dal rituale sociale al rituale familiare, intimo e pubblico al tempo stesso. Dai nuovi riti della società, ai riti individuali che mostrano l’affacciarsi sulla scena di nuovi soggetti, di nuovi corpi e nuovi gesti. Dalla nostalgia del rito come legame con un passato che non può tornare alla ripresa del rito come forma visibile del legame tra l’uomo e il mito. Dalla grande tradizione del cinema documentario, da sempre grande memoria mobile del rito (basti pensare a Flaherty o Grierson, a Herzog, Rouch, De Seta; al cinema diretto, o alle forme contemporanee del cinema del reale, da Wiseman a Farocki, da Guzman a Joaquim Jordà, fino ai riti del corpo di un’autrice come Maya Deren); al cinema che riprende il rito per indagarne i significati più reconditi, per moltiplicarne le trame simboliche, i legami profondi con il passato e con il presente. Da Rossellini che filma la pesca dei tonni in Stromboli (1950), ai riti del matrimonio di Bergman; dalle forme rituali dei generi (la commedia del “rimatrimonio” di Stanley Cavell), ai riti di passaggio di ogni bildungsroman cinematografico. I riti si moltiplicano e diversificando le proprie dinamiche e la propria potenza, mostrandosi dunque come “luoghi” e “forme” possibili del cinema.
L’origine è (solo) una traccia. Il cinema ritrova e ripensa le tracce che ogni immagine lascia con sé, non per riconsegnarle ad un’origine, ma per renderle di nuovo presenti. È un lavoro genealogico che accomuna gli autori che lavorano sulle pratiche dell’archivio, del rimontaggio dell’immagine del passato (da Gianikian/Ricci Lucchi a Harun Farocki, da Godard a Jay Rosenblatt, da Peter Forgacs a moltissimi altri). In questo senso, l’immagine è proprio ciò che sfugge ad ogni dinamica ingenua dell’origine, del riposizionamento nel passato (nel momento aurorale della sua nascita). Il montaggio rende possibile una dinamica complessa della temporalità del cinema, appunto sempre proiettato nel presente e nel passato. L’origine – o meglio, la concezione metafisica dell’origine – è dunque infilmabile, perché l’occhio della macchina da presa, così come ciò che viene proiettato al nostro sguardo non testimonia di un momento iniziale, quanto di un tempo sempre aperto, ad ogni visione, ad ogni montaggio.
La nascita (infinita) del cinema. Proprio per questa ragione il cinema sposta sempre in avanti il concetto di origine, cominciando “ogni volta” di nuovo. È il caso ad esempio del cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, un cinema in cui ogni origine è sempre, di volta in volta, ripensata, rifilmata, fatta nascere di nuovo, come gesto poetico, coup de dés. Oppure agli innumerevoli gesti di ripresa, remake, ritorno che il cinema ha attivato, con autori che hanno ripreso lo stesso film più volte (da Skolimowski a Hitchcock), o con film che continuano a essere filmati. Il cinema, in questa prospettiva, nasce ogni volta, (ri)nasce ad ogni visione, ad ogni sguardo che lo rende possibile. Solo se si crede ad un’immagine dalla temporalità molteplice è possibile pensare ad un cinema che non ricostruisce filologicamente l’origine delle immagini. Sia dal punto di vista del singolo film, sia dal punto di vista dell’intera storia del cinema (dal cosiddetto “cinema delle origini”), la settima arte ricomincia ogni volta, sempre disponibile ad ogni proiezione; negando così, l’unicità e l’assolutezza del concetto di origine. Non solo la morte, ma anche la nascita avviene ogni pomeriggio. All’idea di origine, infatti, il cinema associa anche quella di nascita, di venuta al mondo di una vita. La nascita proietta in avanti, verso il futuro ciò che l’origine spinge indietro, nel passato. Ma ciò che nasce al cinema nasce sempre più volte – lo si è detto – e vuole disperatamente poter tornare indietro, vivere due volte: «You’re my second chance!» grida James Stewart a Kim Novak in Vertigo. È lungo questo solco che si collocano allora film come Un’altra giovinezza di Francis Ford Coppola o Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher o anche film come Solaris (di Tarkovskij ma anche di Soderbergh) o L’invenzione di Morel di Emidio Greco: film in cui il sogno, il desiderio è quello di “rivivere” una nascita (di un amore, di una vita, di un gesto). La nascita spinge l’origine verso l’esterno, ne mostra il limite, la fa, in un certo senso, esplodere.
La poesia dell’origine, il racconto del mito. Ma il cinema, grande forza mitopoietica, non ha mai smesso di raccontare l’origine del mondo, il movimento che ha dato la genesi al mondo, ogni mondo, dal cosmo ad ogni civiltà. Per farlo, l’immagine cinematografica deve necessariamente astrarre da se stessa, ritrovare il proprio limite – appunto l’infilmabile di cui si parlava prima –, e farsi profondamente poetico, come il Kubrick di 2001: Odissea nello spazio o l’Ermanno Olmi de la Genesi: la creazione e il diluvio: film impossibili perché opere che filmano ciò che non lascia tracce, film-limite che accolgono la sfida di pensare e immaginare l’origine come possibilità di inventarne la genesi, di fondarla, appunto, ogni volta di nuovo. Per questo il film può essere fiume di racconti, riproduzione di un’epica che non vuole essere la parodia di qualsivoglia mito fondatore, ma può lavorare la necessità del mito, di ogni mito dell’origine. Il cinema è un fiume che scorre in più direzioni, come il (non) mai finito Heimat di Edgar Reitz e come ogni racconto senza fine del cinema (dal western-monstre La conquista del West di J. Ford e H. Hathaway al ritorno impossibile ad un’infanzia perduta che ossessiona l’immane serie I bambini di Golzow di Wilfred e Barbara Junge). L’origine è perduta, ma proprio per questo ogni immagine non è sottoposta al suo comando, l’origine non è (più) la meta.
Che si concretizzi in un racconto scritto o in una sola immagine, l’autoritratto sembra rispondere a un’esigenza tipicamente umana. Nei secoli, tale tendenza ha assunto forme e usi diversi, di volta in volta adeguati al paradigma rappresentativo imposto dalla cultura dominante. Ma a quale bisogno specifico risponde questa tendenza che da sempre spinge pittori, scrittori, fotografi, registi, filosofi a cercare una forma (artistica o no) a cui affidare il compito di esteriorizzare, rendendo in certa misura pubblico, ciò che è invece interiore, e dunque essenzialmente privato? Nella riflessione di Arendt (cfr. Vita activa), il racconto di sé diventa necessario proprio con la fuoriuscita dall’ambiente familiare domestico e la conseguente apertura di un orizzonte propriamente politico. Si diventa soggetti pubblici quando, abbandonata la dimensione chiusa della propria privatezza interiore, si entra a far parte di un consesso in cui “agire” significa essenzialmente “prendere parola”. È in quel momento che si assiste alla propria “seconda nascita” e si può dar conto di ciò che si è, attraverso un racconto che non può però non incappare non in una sorta di inaggirabile paradosso: esso non potrà aver fine (e dunque essere considerato propriamente un racconto) fin quando sarà affidato alla stessa persona di cui racconta. Essendo allo stesso tempo attore, colui che racconta delle proprie azioni non potrà raccontare di ciò che metterà inesorabilmente fine contemporaneamente alle sue azioni e al racconto di esse: la morte.
Si pensi, a questo proposito, al complesso intreccio tra pubblico e privato nel cinema di autori come Amos Gitai e Elia Suleiman.
Autoritratto come auto-ritrarsi
L’ambivalenza del verbo “ritrarsi” restituisce bene il paradosso in cui finisce per imbattersi ogni autoritratto: dietro la possibilità di restituire un’immagine più o meno fedele di sé si nasconde infatti la necessità di ritrarsi (nel senso di tirarsi fuori da sé), di considerarsi, cioè, “estranei” in casa propria. La psicoanalisi freudiana ha dato, per la prima volta, una spiegazione a una condizione che appartiene all’uomo fin dalle sue origini. Qualcosa sfugge sempre alla nostra consapevolezza e dunque al racconto che di noi stessi siamo in grado di fornire. Si riferisce a una convinzione come questa la Kristeva, quando riconduce le numerose immagini di teste senza corpo (cfr. La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente) a un inconscio desiderio di escissione che sarebbe alla base, fra le altre cose, di ogni autoritratto. Un taglio separa il sé dall’immagine in cui si rappresenta, una cesura che apre uno spazio di distanza che impedisce di considerare l’immagine come semplice duplicato del soggetto che pure l’ha originata. Nessuna coincidenza possibile riesce dunque a sopravvivere in una prospettiva che è aperta certamente da Freud e a cui fa di nuovo riferimento un autore come Derrida, nei due testi che dedica ad altrettante forme diverse di racconto di sé: l’autoritratto per immagini e l’autobiografia (cfr. Memorie di un cieco. L’autoritratto e altre rovine e Memorie per Paul de Man). L’idea della totale indecidibilità fra racconto autobiografico e finzione ritorna, appunto, anche in un testo di Paul de Man (quello da cui lo stesso Derrida prende le mosse), in cui la presa di distanza da sé (qui intesa nei termini della finzione) diviene requisito essenziale per la costruzione del racconto in prima persona (cfr. L’autobiografia come “sfiguramento”). Sono innumerevoli le tecniche che possono essere utilizzate a questo scopo: qui basti ricordare, per esempio, l’uso dello pseudonimo (è il caso di Colette, la narratrice francese a cui, non a caso, Kristeva dedica una importate biografia) o quello dell’alter-ego. Attraverso la storia di qualcuno che non sono io, racconto in realtà la mia storia, come accade nel romanzo che ancora una volta Kristeva (il numero si apre con una conversazione insieme alla filosofa francese) dedica alla figura di Santa Teresa d’Avila. Vengono in mente allora le immagini lancinanti di Nicholas Ray in Nick’s Movie di Wenders o Garage Demy o Les plages d’Agnes di Varda; o ancora al cinema di Garrel, dell’ultimo Pollet.
Dal primato dell’azione alla supremazia del dettaglio
Michel Foucault ha ritrovato nella confessione il momento istitutivo in cui l’infimo, il non detto, i pensieri e i desideri più reconditi accedono a parola in una cornice mediata dal potere. Erede della pratica confessoria è tutta la grande tradizione romanzesca dal secondo Ottocento in poi, in cui il linguaggio interiore trova nello spazio del romanzo (Flaubert, Proust e Joyce) il suo luogo più importante di manifestazione. È il carattere confessorio del romanzo moderno su cui ha insistito Maria Zambrano. Secondo questa direttrice, dunque, l’autoritratto si installa dove un ritratto non è possibile, cioè dove tutta un’interiorità prende parola senza potersi trasformare in azione.
La prospettiva, che qui abbiamo si integra con quella riconducibile a un orizzonte chiaramente psicoanalitico (che va da Freud fino a Lacan) e si oppone a un’idea di autoritratto come quella emerso dalla posizione di Arendt. Se in quest’ultimo caso il racconto di sé passava attraverso la possibilità di restituire principalmente le azioni di una vita (nello specifico quella di colui che racconta), nella chiave confessorio- psicoanalitica, il racconto di sé finisce per dar rilievo a elementi che si potrebbero ritenere inessenziali o addirittura trascurabili, esattamente come inessenziale o trascurabile è un dettagliato all’interno di una descrizione complessa e articolata. Se non è possibile offrire un’immagine o un racconto di sé completo ed esaustivo, diviene quasi imprescindibile la scelta di affidare tale compito a qualcosa che, pur nella sua dichiarata parzialità, sia in grado di restituire il senso di una unità, divenuta di per sé inaccessibile. È la logica che si nasconde dietro quelle forme di autoritratto che, per esempio, si richiamano alla forma della confessione (religiosa o no) o, in una versione certamente più recente, dell’autoanalisi psicoanalitica.
Il cinema, almeno secondo letture ormai celebri (da Ejzenštejn a Rancière), e ancor prima la fotografia hanno raccolto questa importante eredità, senza dimenticare, questo è ovvio, la sua indiscutibile capacità di costruire grandi racconti epici.
Il cinema come “linguaggio muto” delle cose non dette e perfino indicibili, come autodenominazione del mondo fin nei suoi aspetti molecolari. È così che, al cinema, il racconto di sé passa dalle forme di narrazione più classiche a quelle dichiaratamente intimistiche, a seconda che l’occhio sensibile della macchina da presa sia posto più o meno vicino alla vita che vuole restituire.
È questo il caso di forme cinematografiche anche radicalmente diverse come quelle di Mekas, Brakhage da una parte, e di Moretti o Chaplin (si pensi a Un re a New York) dall’altra.
Suggerimenti filmografici
Italianamerican (M. Scorsese, 1974); Il volto di Karin (I. Bergman, 1984); Vanessa in the Garden (C. Eastwood, 1985); J’entends plus la guitare (P. Garrel, 1991); El sol del membrillo (V. Erice, 1992); JLG/JLG - autoportrait de décembre (J.-L. Godard, 1994); Dieu sait quoi (J.-D. Pollet, 1994); Teatro di guerra (M. Martone, 1998); Bodas de Deus (J.C. Monteiro, 1999); As Porto da minha infância (M. De Oliveira, 2001); Flashback (H. Frank, 2002); Takeshis’ (T. Kitano, 2005); Mulberry Street (A. Ferrara, 2006); Autoritratto Auschwitz/L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima (A. Grifi, 1965-68/2007); Carmel (A. Gitai, 2009); Il tempo che ci rimane (E. Suleiman, 2009); Copia conforme (A. Kiarostami, 2010); Sorelle mai (M. Bellocchio, 2010); Road to Nowhere (M. Hellman, 2010).
Se la radicale divisione tra uomo e animale perde la sua consistenza, l’animalità si configura sempre di più come modello interlocutorio interno all’uomo. Se nel pensiero antico, l’animale e il bambino sono “quasi” saggi (perché vivono la loro serenità nell’immediatezza dell’istinto e non nella mediazione del logos), e mettono di fatto l’uomo di fronte alla responsabilità morale e intellettuale del pensiero e del suo uso corretto, nel pensiero moderno (in Erasmo – Elogio della pazzia – o in Giordano Bruno – Lo spaccio della bestia trionfante o Gli eroici furori), l’animalità costituisce la sana e necessaria follia, l’eccedenza e l’eccezione che contrastano il logos normativo e limitante. Il ruolo assegnato all’animale oscilla dunque – ha sempre oscillato – tra due poli estremi: quello dell’alterità totale rispetto all’uomo e quello dell’identità assoluta con l’uomo.
Identità che diventa modello dei legami naturali e sociali tra gli esseri umani – ad esempio negli studi sul totemismo di Levi-Strauss o, prima ancora, nella straordinaria gamma di significati simbolici legati agli animali esplorata da Freud – o momento di passaggio dalla natura allo spirito – ad esempio in Hegel, che, nell’Enciclopedia, parla dell’animale come passaggio, come natura che inizia a dotarsi di un senso, a elevarsi verso un organismo vero e proprio.
Alterità che trova la sua rappresentazione più famosa e radicale in Heidegger, per il quale l’animale è povero-di-mondo, perché non esiste, ma vive soltanto. All’animale in quanto “semplice vivente” è negata l’apertura al mondo, manifestatività dell’ente in quanto tale.
Il Novecento, che si apre con l’alterità assoluta heideggeriana (ma è proprio tale?), esplora però anche altre strade. Da Deleuze a Derrida, fino ad autori come Agamben, il pensiero contemporaneo ritorna sul tema dell’animalità da altre prospettive, accettandone la sfida mai risolta: «L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio qui», afferma Jacques Derrida ad apertura de L’animale che dunque sono, evidenziando proprio nella contemporanea alterità e prossimità dell’animale, l’origine possibile del pensare. Accanto a Derrida si pone Deleuze, che, nel concetto di divenire-animale dell’uomo, mostra proprio che, se la distinzione tra uomo e animale è impossibile (così come l’identità), è nel flusso, nel movimento continuo, nella trasformazione di uno nell’altro, nel raggiungimento di punti di intensità pura, che sta il rapporto (sempre dinamico, quindi) tra uomo e animale.
Infine, è Agamben a porre con forza – in L’aperto, l’uomo e l’animale – il problema della cesura continua che, nella vita pratica come in quella politica, ha definito di volta in volta, cosa siano l’animale e l’uomo: «Chiedersi in che modo – nell’uomo – l’uomo è stato separato dal non-uomo e l’animale dall’umano. È più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani».
Se il Novecento riprende e sottolinea i grandi temi del rapporto uomo-animale, il cinema, inteso come grande dispositivo teorico, ma anche come straordinario creatore di immagini complesse, ha continuamente riproposto tale problematica attraverso le sue specifiche forme. In particolare, spesso l’animalità ha costituito uno dei banchi di prova dell’immagine cinematografica e soprattutto dei limiti della rappresentazione.
L’animale-totem. Nella storia del cinema, l’animale è stato spesso al centro di rappresentazioni del mondo magico e simbolico che affonda le sue radici nel patrimonio mitico della cultura occidentale come di quella orientale. L’animale parlante, dotato di poteri che vanno al di là dell’umano, è l’ultima rappresentazione del mito e della fiaba. In questo senso il cinema ha sempre lavorato in una doppia direzione, quella del cinema fantastico e fiabesco (di animazione o “dal vero”), e quella del cinema perturbante, in diretta connessione con le forme dell’irrappresentabile, la sessualità e il divino. Dall’animale come pura espressione della potenza sessuale in La bestia di Walerian Borowczyk, all’animale come impossibile segno del divino nel cinema di Tarkovskij (Andreij Rublëv), fino all’animale come incarnazione di una forza pura, astratta, espressione di orrore totale (Lo squalo di Spielberg, King Kong) o di radicale alterità metafisica (di cui l’immagine archetipica più potente nella contemporaneità è forse Moby Dick), l’animalità è posta spesso come segno inquietante e perturbante di un’alterità misteriosa e irrappresentabile, al tempo stesso prossima e lontana dall’umano (Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola). L’animale magico, espressione della dimensione animistica della natura, è al centro, ad esempio, delle forme rappresentative del cinema orientale, in cui la tradizione buddista e shintoista permeano la rappresentazione del mondo, disegnando un universo in cui ogni elemento naturale è in realtà permeato di un elemento divino (basti pensare al cinema di Miyazaki).
L’immagine-limite: la violenza animale. Il problema dell’animalità è anche il problema della violenza, nella sua duplice accezione: la violenza sugli animali e la violenza degli animali. Se la prima è al centro di una profonda e trasversale interrogazione etica sulle forme del male (la morte degli animali in Dostoevskij, l’agonia del cavallo in Nietzsche), la seconda si pone come interrogazione sui limiti della rappresentazione. È nel cinema estremo di Buñuel, di Lisandro Alonso, di Kim Ki-duk, di Park Chan-wook, tanto per fare alcuni nomi, che la violenza sugli animali diventa interrogativo etico e politico, esplorazione del ruolo e delle forme della violenza. La violenza pura come espressione propria dell’animalità diventa spesso anche la forma attraverso la quale indagare la scissione costitutiva (come ricorda Agamben) tra l’uomo e il non-uomo (ad esempio in Porcile di Pasolini, o in La mosca di Cronenberg). È qui, probabilmente, che il cinema affronta lo snodo costitutivo delle sue immagini: della sua potenza e dei suoi interdetti.
L’animale-specchio. L’animale come specchio dell’umano, come sua trasfigurazione. L’antropomorfizzazione dell’animale è un elemento costantemente presente nella storia delle forme rappresentative. Dalla tradizione del cinema di produzione Disney, in cui la resa antropomorfa dell’animale costituisce una sorta di marca stilistica e rappresentativa, all’uso del montaggio e degli strumenti del cinema (fino all’uso delle nuove tecnologie digitali) per “simulare” un comportamento “umano” dell’animale (come evidenziato dalle famose pagine baziniane dedicate al montaggio proibito in Che cos’è il cinema?), in moltissimi film “animalisti” (un esempio su tutti: L’orso di Jean-Jacques Annaud). L’animale-specchio è spesso anche immagine ideale dell’umano, sua estraneazione idealizzata, proiezione di una perfezione e di una purezza innocente che l’uomo non possiede più (o non ha mai posseduto). Ma il cinema è anche la forma che ha sottoposto a critica questo atteggiamento. È questo l’interrogativo che agita, ad esempio, il cinema di Werner Herzog (Grizzly Man), in cui, al contrario, l’animalità si rivela nella sua opacità costitutiva, nel suo essere totalmente altra dall’umano, inassimilabile (come anche nel cinema di Bresson, in Bright Future di Kyoshi Kurosawa, Il cameraman di Buster Keaton o Max mon amour di Oshima).
È all’interno di questa costellazione di significati che una riflessione sul concetto di potenza a partire dal cinema e dalla problematica dell’immagine può prendere le mosse. Alla base del percorso di questo numero di “Fata Morgana” sta infatti la consapevolezza che il cinema e le forme audiovisive siano state degli straordinari momenti di elaborazione e reintepretazione del multiforme concetto di potenza. Momenti diversi che aprono strade interpretative differenti, come emergerà dalle ipotesi di percorso di questo prospetto.
L’immagine della potenza. Il cinema, nel corso del Novecento, si è in vario modo intersecato con l’immagine della potenza politica che ogni stato ha prodotto di sé. L’esperienza dei totalitarismi è stata possibile anche a partire dalle immagini che sono sorte in vario modo all’interno o all’esterno delle strutture totalitarie. Dal cinema di Leni Riefensthal a quello di Walter Ruttman, dagli affreschi apologetici di Mikhail Ciaureli alla produzione incessante (cinematografica e non) di immagini di propaganda, alla messa in scena del potere totalitario come “opera d’arte totale” (Boris Groys), gli stati totalitari hanno costantemente lavorato sull’estetizzazione della politica, sulla creazione di immagini capaci di rappresentare lo stato come “potenza” realizzata. Ma il rapporto tra volontà politica e forme cinematografiche non è mai stato semplice né lineare. È proprio tra le pieghe delle immagini della “potenza” del potere, che il cinema rivela la sua capacità di porsi come zona di resistenza al potere stesso, sia all’interno dei grandi meccanismi spettacolari, sia all’esterno, in forme cinematografiche che si oppongono ad una certa immagine della potenza. È proprio nello spazio pieno della potenza del potere, che l’immagine rivela il vuoto stesso che lo sostiene, l’ultimo arcanum imperii. In modo diverso i grandi cineasti della potenza contrapposta al potere (da Bellocchio a Sokurov) hanno dunque costituito il necessario controcampo del cinema del visibile.
Potenza del cinema. Il grande dispositivo cinematografico, capace di creare “immagini che si accordano ai nostri desideri” ha sempre accompagnato lo sviluppo della settima arte, soprattutto nei grandi sistemi industriali cinematografici (Hollywood in primis). La forza del cinema si è basata sempre su un’ambivalenza costitutiva, su una doppia direzione che ne ha costantemente accompagnato lo sviluppo: da una parte la grandeur dell’immagine (dall’epoca dei grandi formati, allo splendore del technicolor, dalle sperimentazioni sonore fino alle nuove tecnologie dell’immagine digitale), legati all’idea che la potenza del cinema risieda nella sua capacità di creare un’immagine bigger than life. Da Griffith a Cameron, il cinema ha saggiato la potenza dell’immagine attraverso anche la sua capacità di rinnovare l’universo mitico che la sostiene, al di là di ogni innovazione tecnologica. Dall’altra, la potenza del cinema si è spesso coniugata con ciò che l’immagine non mostra, con ciò che può potenzialmente dire e non dire (parafrasando Agamben). La potenza è, in questo senso, potenza dell’eccesso e contemporaneamente della sottrazione, potenza della luce e del nero che necessariamente la sostiene. A questa visione è legata una lunga e ricca tradizione teorica e (soprattutto) realizzativa. Qui il termine potenza è da intendere nel doppio senso che ne attraversa la storia. La potenza come dispiegamento del potere umano o della natura, esplicitazione di una visione “titanica” del mondo, e la potenza come dynamis dell’immaginazione, aperta all’interazione con lo sguardo attivo dello spettatore.
La potenza dei corpi. Che cosa può un corpo? È la domanda deleuziana che il filosofo francese riprende da Spinoza e che si interseca con l’esperienza cinematografica in più di un’occasione. Chiedersi cosa sia un corpo in termini di potenza, significa pensare (e mettere in gioco) l’immagine come promessa per il futuro. Se il potere è una pratica di addomesticamento dei corpi, di limitazione della potenza, il cinema ha lavorato costantemente sul movimento opposto, sulle pratiche di liberazione dei corpi ripresi, lasciati liberi di muoversi, colti nel flusso della loro esistenza, nella lotta perenne tra le strutture che li comprendono e l’anelito alla libertà. È una tensione costante quella dell’immagine dei corpi, che va dal cinema di Rossellini, colmo di corpi che cadono, si rialzano, vagano liberi (come i fraticelli di Francesco), fino al cinema di Pasolini, in cui la lotta, il contrasto tra la potenza dei corpi e il potere che li decifra si mostra sin nel contrasto tra il volto e la parola, tra il gesto e l’immobilità. È ancora il cinema di Bellocchio, in cui la potenza dei corpi diventa la linea guida di uno scarto possibile (finanche destinato alla sconfitta, alla follia o all’oblio), rispetto alle logiche aberranti del potere. La potenza è qui allora intesa come ciò che si oppone al potere, di cui il potere ha timore: dalla sessualità (come in Oshima) ai comportamenti aberranti, dalla rivolta alla negazione totale delle regole (come nel cinema di Herzog o nel rapporto corpo-parola nei film di Straub e Huillet).
Cosa succede, dunque, quando guardiamo un’immagine? Cosa accade, nello specifico, quando riconosciamo in quanto artistica l’immagine che abbiamo di fronte? La questione che riguarda la presa emotiva di un’opera d’arte su colui che ne fruisce è stata, almeno a partire dall’Ottocento, con le teorie classiche dell’empatia (Vischer, Lipps, Worringer e Wölfflin), al centro di un intenso dibattito che le teorie del cinema si sono trovate successivamente a ereditare o a rielaborare in modo originale.
In questa prospettiva, sono di un certo rilievo le famose pagine che Ejzenštejn dedicò alla capacità estatica che contraddistingue ogni opera d’arte organica (quella cinematografica in primo luogo) e che va intesa come la facoltà che spinge, contemporaneamente, l’opera a uscire fuori da sé, ristrutturandosi di continuo in una nuova unità compositiva, e lo spettatore ad abbandonare la posizione statica in cui si trova, per aderire, in prima istanza a livello emozionale, ai contenuti di cui l’opera è portatrice.
Sono queste caratteristiche proprie del cinema (la sua capacità di rappresentare per la prima volta il movimento e di mantenere sempre vivo il suo rapporto privilegiato con il reale) ad averne fatto una vera e propria macchina delle emozioni, capace anzitutto di far ridere, piangere, stimolare risposte di tipo motorio, prima ancora che indurre alla riflessione e all’esercizio razionale del pensiero. Si spiega dunque così, tenendo ferma cioè la rilevanza di quelle specificità che sono state in grado di distinguere il cinema da tutte le forme artistiche che l’hanno preceduto, l’enorme quantità di contributi teorici che hanno mirato a definire l’esperienza compiuta dallo spettatore cinematografico come un’esperienza del tutto peculiare e riconoscibile. Si tratta evidentemente di problemi che gli studi di filmologia hanno largamente esaminato: dalle riflessione dei primi filmologi francesi (Souriau, Michotte, Wallon), fino alle considerazioni circa le implicazioni empatiche, emozionali e affettive che caratterizzano la percezione del film, di cui Morin parla nel suo Il cinema o l’uomo immaginario; dalle pagine che Metz dedica in A proposito dell'impressione di realtà al cinema al legame che intercorre appunto fra l’impressione di realtà e la partecipazione dello spettatore al film che sta guardando, fino alle più recenti teorie di Casetti a tale proposito (Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore; L’occhio del Novecento).
Perché, dunque, tornare oggi a riflettere su un tema tanto dibattuto quanto controverso? La scienza, nella fattispecie la scoperta dei neuroni specchio da parte di un gruppo di ricercatori (fra gli altri Vittorio Gallese e Giacomo Rizzolatti), consente oggi per la prima volta di fornire una spiegazione neurologica e fisiologica a tutte le reazioni di tipo motorio ed emozionale che caratterizzano la fruizione di un’immagine (sia essa artistica o no) da parte di un spettatore. Se siamo in grado di emozionarci e reagire a livello corporeo a un impulso visivo è perché (secondo le prospettive aperte da tale indirizzo di indagine), grazie ai neuroni specchio, riusciamo a empatizzare con lo spettacolo che ci troviamo di fronte. Così, reagiamo emotivamente e fisicamente a un movimento, anche quando questo è solo rappresentato in un’immagine, perché assistendo a esso, mediante l’attivazione dei nostri neuroni specchio, rispondiamo a livello neuronale esattamente nel modo in cui risponderemmo se fossimo noi stessi a compiere quel movimento. Una scoperta del genere ha mostrato ben presto di poter avere ricadute importanti nel modo in cui alla storia e alla teoria delle arti, oltre che all’estetica, è stato dato fin qui di parlare dell’emozione, come di una delle componenti principali della fruizione artistica.
Per uno storico dell’arte come David Freedberg (una conversazione con lo stesso Freedberg aprirà il numero 12 di “Fata Morgana”), scoperte scientifiche come quelle a cui abbiamo fatto riferimento rappresentano la possibilità concreta, per tutte le scienze umane, di ampliare i propri confini e trovare, in ultima istanza, una spiegazione definitiva ed esaustiva a problemi che per molto tempo sono stati troppo velocemente liquidati o addirittura ignorati. Fra questi certamente il ruolo svolto dalle emozioni nella fruizione di un’immagine artistica, capace di distinguersi da ogni altra immagine proprio in virtù della esemplare presa emotiva sul suo spettatore che essa riesce in ogni caso a vantare. Dietro la seria presa in carico dell’idea secondo la quale, in quanto spettatori, reagiremmo, sempre, in prima battuta, con risposte di tipo corporeo ovvero emotivo a ciò a cui ci capita di assistere, si nasconde, secondo Freedberg, la possibilità di superare definitivamente quella frattura che il pensiero moderno, almeno a partire da Cartesio, ha creato e che finora si è mostrata più o meno inattaccabile, fra pensiero ed emozione, cultura e natura.
Tale convinzione non deve aprire le porte, però, a una specie più o meno celata di riduzionismo scientifico, ma spingerci a riflettere nuovamente, a partire, per esempio, da suggestioni darwiniane ancora tutte da discutere (L’espressione delle emozioni negli uomini e negli animali), sulla natura dell’uomo e su quella delle sue emozioni. Il cinema si è fatto carico, fin dalle sue origini, di assolvere a simile compito. È ciò che di cui si occupa per esempio Béla Balázs in un’opera come L’uomo visibile: mostrare come il cinema possa portare a completa esteriorizzazione la natura emozionale dell’uomo, natura che trova espressione nei tratti fisiognomici di un volto e nei gesti spontanei, così come in quelli riprodotti, di un corpo. La capacità del cinema di dar rappresentazione, grazie all’uso del primo piano, al lato più segreto e intimo di un volto, finisce così per assumere un ruolo importante nel tentativo di comprendere in che modo possano manifestarsi le emozioni di un uomo.
Su tutto questo vale la pena di tornare a interrogarsi, una volta che la scienza ci ha fornito nuovi strumenti (non scevri da dubbi) per la valutazione di un problema antico come quello che riguarda l’espressione artistica delle emozioni.