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Dante e l'invidia

2010, Viator (English and Multilingual Edition)

DANTE E L’INVIDIA Rossella Pescatori* Abstract: Dante Alighieri’s works contain definite universal motifs, based not only on their conceptualization of important truth, which concerns philosophical and rational issues, but also on their universal emphatic character. Dante defines a map of emotions, which, starting from personal experience, become exemplars valid for all his readers. This essay focuses on the way Dante deals with envy as an emotion and as one of the seven deadly sins. References to his relationship with the Florentine people and his experience of exile are frequent in the Divine Comedy. This article first analyzes how Dante represents envy as a real iconographic and allegoric figure in Purgatorio, Canto XIII. Then it focuses on two particular cases of envy which have different and opposite consequences (Piero Della Vigna in Inferno, Canto XIII, and Romeo of Villanova in Paradiso, Canto VI) and which can be clearly related to Dante’s autobiographical experience of the cause of his exile. Key Words: Dante Alighieri, Divine Comedy, Vita Nuova, envy, seven deadly sins, medieval literature, medieval theories of emotion, allegory. La complessità delle innumerevoli implicazioni contenute nella produzione poetica di Dante è costante oggetto della critica dantesca: numerosi studi mettono in evidenza che uno degli intenti della Commedia è quello di creare un poema epico-cristiano carico di un valore di verità di carattere esemplare valido per tutta l’umanità, mentre altri1 sottolineano che la Commedia non può solo essere considerata come fittizia narrazione del viaggio del pellegrino Dante nei tre regni dell’al di là ignorando la storia personale, del poeta.2 Questa è la storia che Dante stesso scrive e racconta: il suo amore per Beatrice, le sue vicessitudini politiche con l’inerente esilio e la sua storia intellettuale come poeta e filosofo. Questo breve saggio si aggiunge a quegli studi che sono rivolti ad investigare la mappa delle emozioni che coinvolgono Dante come uomo-poeta nella sua produzione letteraria. L’attenzione viene rivolta al modo in cui Dante affronti l’invidia, intesa sia come sentimento che come peccato, e si vuole sottolineare il particolare coinvolgimento psicologico del poeta. Si investigherà l’invidia come concetto nella sua rappresentazione concreta, iconografica e allegorica data nel canto XIII del Purgatorio, per poi passare agli esempi pratici, con ovvi riferimenti autobiografici, indicati da Dante in Inferno XIII e Paradiso VI. Una delle caratteristiche dei versi di Dante è la loro forza scenografica: Dante riesce a rappresentare diversi tipi di problematiche usando parole che in un modo simultaneo vengono ad identificare ed evocare vari rimandi reali, morali ed intellectuali. Il risultato è una forza incredibile della parola che riesce a dipingere con le linee dei concetti e con i colori delle passioni. “Invidia” è un termine che racchiude in sé una ricchezza di connotazioni: a seconda del contesto esso si può riferire a un’emozione o a una causa d’azione ed al suo esito, quale può essere il commettere un “peccato,” ovvero la trasgressione l’ordine morale vigente in un determinato contesto. Dante viene a presentare l’invidia sia in una valenza concreta, raccontando delle situazioni con chiari rimandi o associazioni autobiografiche, sia da un punto di vista concettuale. In particolare nella Commedia si possono scorgere due esempi di esiti di persone invidiate; questi sono rispettivamente un esito negativo, Pier Della Vigna, in * El Camino College, 16007 Crenshaw Blvd., Torrance, CA 90506, rpescatori@elcamino.edu. 1 Questo saggio è una revisione di un “paper” scritto nel 2001 sotto l’egidia di Amilcare Iannucci a cui sono debita per i suggerimenti e precisazioni. 2 A. A. Iannucci, ed., Dante: Contemporary Perspectives (Toronto 1997). Viator 41 Multilingual (2010) 259–268. 10.1484/J.VIATOR.1.100734. 260 ROSSELLA PESCATORI Inferno XIII, e un esito positivo, Romeo Di Villanova in Paradiso VI. Fra questi esempi, e anche posizionata in un luogo intermedio—Purgatorio XIII— ritroviamo una concettualizzazione o un’allegoria dell’invidia stessa con la figura di Sapia. La Commedia si organizza su due forze propulsive e contrarie basate entrambe sul desiderio: Amore e Odio. La spinta ascendente è data dall’amore: l’amore di Dante per Beatrice, il desiderio di congiungersi al bene amato frutto dell’amore divino. In opposizione, la spinta discendente e distruggente è data dall’odio e dal desiderio di veder e di togliere il bene dall’odiato. L’invidia è intesa da Dante come quest’odio nullificatore. Questo fu un punto molto sentito dall’uomo “sociale” Dante che partecipò attivamente alle vicende politiche della sua città, Firenze, e che proprio per questo motivo fu esiliato. Attraverso i versi del poema e la Vita Nuova vediamo che l’invidia è sentita da Dante come una presenza costante in tutta la sua esistenza. Nella Vita Nuova leggiamo: Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad essere impedito ne la sua operazione, peró che l’anima era tutta data nel pensare di questa gentilissima; endo io divenni in picciolo tempo poi di sì fraile e debole condizione, che a molti amici pesava de la mia vista; e molti pieni d’invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto celare ad altrui. (Vita Nuova IV 1–2) Lo sguardo degli altri e l’essere osservati sono due condizioni che aprono il terreno all’invidia e questo perché la sua stessa essenza è la socialità. Meglio o peggio, sopra e sotto, più e meno, bene e male, elogio e rimprovero, successo o insuccesso, sono tutte comparazioni. Per pensare a noi stessi siamo condannati a confrontarci con gli altri esseri umani, con le loro qualità, con la loro virtù, la loro bellezza, la loro intelligenza, i loro meriti. Sullo sfondo di qualsiasi valutazione c’è sempre “qualcuno” che costituisce la nostra misura, che nel confronto si installa al centro del nostro essere.3 L’invidia è oggi in psicologia definita come emozione sociale e morale in quanto fa riferimento ai valori e all’immagine del Sé, quindi è in stretta relazione con l’orgoglio, la presunzione e la superbia. Bisogna però sottolineare che ‘Invidia’ per Dante, come uomo del XIII secolo, assume delle connotazioni abbastanza differenti da quelle che normalmente le si attribuibiscono oggi, XXI secolo. In effetti, l’invidia ai giorni d’oggi è spesso mischiata con la gelosia e spesso queste due “emozioni” sono confuse e assimilate.4 Il concetto che Dante ha dell’invidia deriva senz’altro dalla teologia morale, in particolare dalla “tradizione cristiana—quella degli asceti e dei maestri dello spirito, assai più che quella dei teologi di scuola—che si è occupata dell’invidia soprattutto a livello di fenomenologia dell’esperienza morale: con attenzione al 3 F. Alberoni, Gli invidiosi (Milano 1991) 8. In un mio studio (R. Pescatori, La costruzione sociale dell’invidia; testi rinascimentali a confronto, tesi di laurea [Venezia 1995]) mi sono occupata proprio di questo analizzando le diverse teorie psicologiche contemporanee che studiano queste emozioni. Nella mia tesi poi venivo a confrontare, a livello sincronico e diacronico, differenti testi che investivano situazioni di “invidia” e “gelosia” e come queste emozioni venivano recepite. L’interessante risultato è stato che ci sono variazioni “culturali” nel riconoscere il significato di una situazione di “invidia pura” che possono essere connesse alla società e al tempo in cui un individuo vive. Sia invidia che gelosia sono due “emozioni” complesse, alla base di entrambe risiede uno squilibrio di forze dove il soggetto desidera riacquistare un determinato equilibrio, ma mentre per l’invidia c’è un rancore, un’ira passiva, per non poter essere o avere ciò che si vorrebbe essere o avere, nella gelosia viene a subentrare la paura di perdere o di aver perso ciò che si era o ciò che si aveva. 4 DANTE E L’INVIDIA 261 sentimento, certo, e dunque al vissuto emotivo immediato e indeliberato; ma nell’orizzonte del discernimento tra bene e male.”5 La presenza dell’invidia è costante nel Poema e la sua essenza è inscindibile dal fatto che è nello stesso tempo un’ emozione negativa e un peccato. Invidia appare subito nel prologo Inferno I vv. 109–111: Questi la caccerà per ogni villa, fin che l’avrà rimessa nell’Inferno. là onde invidia prima dipartilla. Dove “questi” sta per “il Veltro” e “la” sta per la Lupa. Quindi compagna della Lupa, identificata come l’avarizia, fra le tre negative fiere del prologo, sta l’invidia. A ribadire questa associazione possiamo vedere Inferno VI v. 74–75, dove Ciacco dice parlando dei fiorentini: superbia, invidia ed avarizia sono le tre faville che hanno i cuori accesi. E si hanno di nuovo in sequenza due delle tre belve della selva oscura: il leone e la lupa. Ancora in Inferno XV vv. 67–68 Brunetto Latini ribadisce il severo giudizio proferito da Ciacco dicendo: Vecchia fama nel mondo li chiama orbi, gente avara, invidiosa e superba. I riferimenti possono essere rintracciabili nelle stesse vicende autobiografiche di Dante: alla fine del 1301 i Guelfi Neri, approfittando dell’arrivo di Carlo di Valois, fecero in modo di neutralizzare la fazione opposta, i Guelfi Bianchi, fra cui Dante era un attivo esponente. Avvenne così che il 27 gennaio 1302 Dante fu condannato con la falsa accusa di interesse privato in atti pubblici a due anni di confino, ad una multa di 500 fiorini e alla esclusione perpetua dagli uffici pubblici. Poiché Dante, che non era a Firenze ma a Roma in missione diplomatica, non rispose all’invito del podestà a difendersi dalle accuse e seguì una seconda sentenza, il 10 marzo 1302, che condannava il poeta ad essere arso sul rogo se fosse tornato a Firenze. Dante fu allora costretto a scegliere l’esilio, e negli anni successivi si rifiutò sempre orgogliosamente di venire a compromessi umilianti con la fazione che allora governava Firenze. Questo uno dei moventi per cui Dante associa l’invidia a una sfera semantica più ampia, che unisce accidiosi (e chi può non dire che sotto la l’acqua dello Stige non ci siano anche gli invidiosi?), ipocriti (si veda a proposito Inferno XXIII 85) e anche i superbi. Da un punto di vista teorico Dante definisce l’invidia in Purgatorio XVII, quando Virgilio espone all’Alunno come ogni virtù ed ogni colpa provenga da amore, e come questo possa traviare in tre modi: o torcendosi al male e generando così superbia, invidia e ira o muovendosi lontano dal vero bene in silenzio come avviene peccando di accidia, o correndo disordinato verso i beni terreni come l’avarizia. Ai vv. 5 G. Angelini, “Ci è insopportabile solo a vederlo”: l’invidia nella luce della croce di Gesù,” L’invidia– Aspetti sociali e culturali, a cura di G. Pietropolli Charmet e M. Cecconi (Milano 1990) 64. 262 ROSSELLA PESCATORI 118–120 troviamo: E’ chi podere, grazia, onore e fama Teme di perder perch’altri sormonti, Onde s’attrista sì che il contrario ama. L’invidia è quel sentimento per il quale l’uomo odia, senza un determinato motivo, il bene degli altri: proprio per questo l’invidioso ama “al contrario” visto che desidera il male e non il bene per l’altro. Il riferimento è chiaramente San Tommaso, e di conseguenza Aristotele. Nella Summa Theologica, I II, q. XXXVI, a. 2 l’Aquinate dice: “Quarto modo aliquis tristatur de bonis alicuiius, in quantum alter excedit ipsum in bonis. Et hoc proprie est invidia. Et istud semper est pravum ut etiam Philosophus dicit in II Rethor., quia dolet de eo, de quo est gaudendum, scilicet de bono proximi” e ancora in 2 2 q. 36: §1.qui est de bono alterius ut aestimatur malum proprium, idest minuit nostrum; contrariatur charitati (§ 3)”; ne seguono “(§4) multa peccata, precipuo dei quali l’odio, quia (q. 34 §6) invidia est tristita de bono alterius, et ex tristitia odium.”6 Secondo la definizione di Vincent de Beauvais: “Invidia est dolor vel aegritudo animi ex aliena felicitate nascens, est dolor vel aegritudo animi ex aliena felicitate nascens, et animum torquens, Huic itaque vitio partes sunt tres: afflictio, scilicet, in prosperis proximi; exultatio in adversis; et malignitas, sive malitia.”7 L’invidia contrariamente agli altri peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, ira, accidia, gola) non dà un senso di piacere alla persona che ne è soggetta, ma aggiunge un più forte malessere e dolore.8 Inoltre sembra che non abbia uno specifico oggetto: in effetti l’ottenere la stessa cosa che ha suscitato invidia non comporta che il soggetto non invidi più, anzi questo senso di malessere continua e non può venire smorzato. Per la teologia cristiana l’invidia è una bestemmia diretta allo Spirito Santo perché viene ad oltraggiare la distribuzione della grazia che è data nel mondo creato. L’invidioso non solo non è in grado di rendere grazia di ciò che si è avuto e non riesce a gioirne ma presuntuosamente giudicare Dio nella sua distribuzione di doni e beni. L’invidioso inoltre non solo fa male al suo prossimo, ma anche a se stesso, perché la sua afflizione gli impedisce di godere di ciò che ha e di ciò che vorrebbe avere. Dante presenta l’invidia prima di darne la sua definizione concettuale: ritrae la sua figura in Purgatorio XIII, delineandola attraverso le manifestazioni più tipiche che la riguardano, e queste sono in primo piano lo sguardo e secondariamente la voce.9 Il canto si divide in più o meno due parti uguali. I primi 72 versi descrivono il terreno di questa nuova cornice e descrivono e identificano la situazione delle anime degli invidiosi. I rimanenti 79 sono dati al dialogo con le anime incontrate e con la senese Sapia. Dante e Virgilio stanno salendo il monte del Purgatorio e hanno lasciato la 6 Dictionainnaire de Théologie Chatolique contenaint l’exposé des doctrines de la théologie catholique, leurs preuves et leurs histoires (Paris 1953) 132. 7 Spec. Mor. IV. 130. 8 “A differenza di ogni altro vizio è un vizio ce non dà piacere”; S. Natoli, “Il tormento dell’impotenza e le insidie del risentimento,” L’invidia (n. 5 sopra) 35. 9 Un recente studio in psicologia sociale si è soffermato sulle espressioni particolari rivolte all’invidia, fra le quali: “Ha uno sguardo invidioso, parla con la voce dell’invidia. E’ livido dall’invidia, o è verde d’invidia” V. D’Urso, “Otello e la mela,” La Nuova Italia Scientifica (1995) 106. DANTE E L’INVIDIA 263 prima cornice, per entrare nella seconda. Appena il pellegrino Dante entra nella seconda cornice si sente subito disorientato: è preso da una senso di assenza. Non riesce a vedere nulla distintamente e non gli appare nessuna immagine, solo il colore livido della petraia. Virgilio prende la parola e dice che sarebbe tempo perso chiedere la direzione. Decide dunque di orientarsi con il sole, che il poeta vate solenizza con un’invocazione. Abbiamo subito una opposizione: la luce del sole messa in contrasto con le ombre della petraia. Il sole di per sé presenta una grande ambivalenza allegorica: può rappresentare la saggezza, la conoscenza ma anche l’amore. Forse è l’amore il referente visto che subito dopo i due pellegrini si trovano in contatto con invisibili spiriti vocali che gridano esempi di carità: tre in particolare e le fonti sono il vangelo di Giovanni, il latino Pacuvio, il vangelo di Matteo e Luca. In tutti e tre di questi esempi si viene a indicare il precetto di prediligere gli altri a sé in perfetto accordo con la teologia cattolica che attribuisce a chi soffre d’invidia l’incapacità di essere umile, nel senso di accettare il suo destino anche se non riesce a capirlo. Al sesto vizio capitale si contrappone infatti la sesta virtù, il compiacimento, cioè il ricevere gioia nella vista del bene altrui. Virgilio spiega a Dante che in questa cornice si castiga la colpa dell’Invidia. Ammonisce l’Alunno ad aprire bene gli occhi e di guardare le persone che sono sedute in fila a ridosso della roccia. Le anime sono coperte da manti di cilicio e sedute come stanno i ciechi che chiedono le elemosina fuori dalle chiese. Queste anime non possono vedere perché i loro occhi sono cuciti con il fil di ferro. Nel contrappasso dato agli invidiosi ipostatizza la etimologia stessa dell’invidia.10 Invidia infatti significa vedere di traverso, vedere di malocchio, non sopportare la vista del bene altrui.11 Poiché hanno guardato con sguardo bieco i beni altrui, queste anime sono private della vista che avevano usato così malamente nella loro vita terrena. Poiché l’invidia è contraria alle azioni virtuose, queste anime devono rimanere sedute a terra; poiché il loro animo sentiva il freddo dell’odio, così ora sono ricoperte con il cilicio, una veste di setole di cavallo annodate, che pungendoli le castiga dei morsi che provavano in terra alla vista delle gioie altrui. In questa cornice troviamo dunque gli invidiosi, che avevano sofferto per la felicità altrui e che avevano augurato sventura al prossimo, vestiti di un duro vestito che provoca a loro sofferenze e lividi. Queste anime riescono tuttavia a piangere e questo pianto condurrà loro alla redenzione e alla riacquisizione della vista del sole. Dante prova pietà alla vista di questa scena e interpella le anime per sapere se c’è la presenza di qualche italiano: risponde un’anima che gli dice che lassù non ci sono più differenze di nazionalità perché, una volta morti, tutti sono cittadini del cielo. Dante chiede il nome a quest’anima che gli riferisce di essere la senese Sapia. Questa confessa a Dante tutta la sua colpa, che fu d’invidia verso i suoi concittadini e colpevole 10 Invidia deriva dal verbo invidiare che implica due connotazioni, una “video–in” che significa “guardare dentro, indagare, scrutare, la seconda “in-vedere” ossia “guardare con occhio bieco.” Per gli antichi questo sguardo bieco era alla base del malocchio, ovvero quell’influsso magico malefico che può causare disgrazie alle persone affette. Per ulteriori approfondimenti si veda il mio studio precedentente citato (n. 4) R. Pescatori, Icon e Logos: L’invidia nell’allegoria rinascimentale (Venezia 1998). 11 Il riferimento a Ovidio è evidente. Nelle Metamorfosi II, 780–782 troviamo, “Videt ingratos itabescitque videndo/successus hominum carpitque et carpitur/una sumpliciumque suum est” (L’invidia vede sgraditi i successi degli uomini, essa dilania ed è dilaniata a un tempo, e proprio in ciò sta la sua tortura). Sempre da Ovidio deriva l’Invidia Palor. 264 ROSSELLA PESCATORI di aver provato gioia quando questi furono sconfitti a Colle d’Elsa. Sapia racconta la sua conversione e l’intercessione ricevuta da Pier Pettinaio. Sapia chiede l’identità di Dante che presentandosi le risponde che toccherà pure a lui una simile sorte, cioè aver gli occhi cuciti e sedere qui con gli invidiosi, ma solo per poco, visto che il suo malvolere invidioso non è stato così lesivo al suo prossimo. In effetti Dante è più preoccupato per la sua superbia; ma forse quell’invidia di cui Dante si sente colpevole è proprio dello stesso genere a quella ascritta a Sapia. Forse anche Dante si augurava la sfortuna dei suoi concittadini che l’avevano esiliato, come fanno trasparire le frequenti invettive che lo stesso rivolge a Firenze e ai fiorentini nel suo poema. L’incontro con Sapia è un episodio quasi atemporale contraddistinto da una certa freddezza: non c’è una rievocazione drammatica del motivo della sua colpa. Sapia narra la sua storia con fredda razionalità e logicamente dà i motivi per cui si trova ad espiare la colpa che aveva commesso in terra, ma, contrariamente ad altri personaggi, rimane impassibile alle cose mondane. Sapia non si discolpa, anzi ammette con placidità la stoltezza del suo gesto: ammettendo di non essere saggia e ironizzando con il suo nome (Purg. XIII, v. 109) e paragonando il suo stupido orgoglio al merlo che ingenuamente crede che l’inverno sia finito alla prima bonaccia (Purg. XIII vv. 121–122). Dante delinea nel canto XIII e soprattutto con Sapia una figura allegorico-emblematica che racchiude in sé tutte le significazioni morali che “invidia” comporta: essenzialmente una dolente vanitas vanitatis sia per l’eterna sofferenza che questo peccato comporta per chi lo commette e per chi lo subisce. Il Canto si colora di queste tonalità di sofferenza (livido, pietraia, greve dolor, lacrimando, compassion, perdoni, bisogna, cilicio, sofferia, avvalla), di oscura vacuità (volar, volando, spiriti, spirando, voci, muto, ciechi, orbi in contrapposizione a occhi, lume, sole, vidi, vista). Uno studio dello storico Vincent-Cassy12 centrato sulle opere poetiche e narrative dell’Europa medievale la cui tematica è l’invidia, ha messo in evidenza che all’invidia siano associati alcuni concetti la cui prevalenza differisce di epoca in epoca. Nel secolo XIII è la maldicenza a prevalere, nel secolo XIV la cupidigia e nel XV l’odio. L’iconografia esprime la cupidigia, espressa dagli occhi fuori dalle orbite o da gesti che mettono in risalto un indice estremamente allungato e puntato verso l’oggetto invidiato. Gli invidiosi spesso sono insieme a un placido cane (e il lupo o la lupa di Dante?). Lo storico francese osserva come queste rappresentazioni non ci permettano di vedere una corrispondenza fra letteratura, che associa principalmente l’odio all’invidia, e iconografia. Questo viene interpretato come una sfasatura fra ciò che la morale cattolica proclamava e ciò che il senso comune recepiva. A conferma di ciò si può vedere che mentre i teologi del tempo opponevano all’invidia sempre la carità, fino al XIV secolo gli autori laici opponevano sempre la benevolenza, la lealtà, l’essere di ampie vedute. L’invidia era sentita dunque come una forma di ottusità. In Dante si può dunque intravedere la fusione di due tendenze: una tendenza teorica teologica, che vede l’invidia come peccato di vanagloria, e una componente popolare e pratica, che vede l’invidia come un desiderio smodato di potere e possesso. E’ importante notare che prima di Purgatorio VIII il termine “invidia” era sempre associato agli effetti e alla posizione di vittima. L’invidia e la superbia non godono 12 M. Vincent-Cassy, “L’envy au Moyen Age,” Annales 35.2 (1980) 253–271. DANTE E L’INVIDIA 265 nell’Inferno di una specifica posizione: non viene dedicato loro uno specifico girone, mentre entrambe vengono a sommarsi con altre colpe e possono presentarsi insieme. Da un punto di vista teorico questo vale anche per Lucifero, la cui ribellione non è stata motivata solo dalla superbia assoluta contro Dio, ma anche da quell’Invidia assoluta che è la causa del desiderio del male e della perpetua infelicità di tutte le creature. Questo certamente si riconnette al prologo dove Virgilio indica espressamente l’invidia il movente di tutti i peccati. Fra il canto XIII del Purgatorio e il canto XIII dell’Inferno ci sono moltissime assonanze e richiami. L’invidia non è l’argomento del canto ma è il suo sottofondo: l’invidia è la ragione per la quale una persona innocente ha subito un torto. Questa è la stessa invidia che ha colpito Dante e che è detta (vv. 64–66): La meretrice che mai dall’ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti, morte comune e delle corti vizio. Queste sono le parole di Pier Della Vigna, cancelliere di Federico II, morto suicida dopo essere stato accusato ingiustamente di tradimento, fatto incarcerare e accecare per volere dello stesso imperatore. I versi appartengono alla seguenza Inferno XIII v. 58–78, nella quale l’anima del dannato si rivela e auspica che gli sia fatta giustizia: la sua disgrazia è stata frutto della calunnia alla quale reagì con disdegno: egli disdegnò di scagiornarsene, e nella prigione si uccise, credendo di reagire vittoriosamente alla calunnia degli invidiosi; e ora sotto le spoglie di un gran pruno esprime e vuole gridare la sua innocenza. Qui sono chiari i riferimenti autobiografici: c’è tutto il disgusto, lo sdegno di Dante che aveva subito ingiurie da parte dei suoi concittadini per la sua attività politica e che lo avevano condannato a un ingiusto esilio. Nelle due appassionate denuncie del cancelliere capuano (fede portai, v. 62 ...giammai non ruppi fede, v. 74) si sente lo stesso appassionato grido del poeta fiorentino, che proclama la sua innocenza e che conserva, nonostante il torto patito, l’amore per la sua città, governata ora da gente subdola e indegna. Con il Canto Inferno XIII siamo nel secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno e qui si ritrovano le anime dei suicidi, che hanno esercitato violenza contro se stessi. Lo scenario è quello di un bosco di pruni foschi e selvaggi sui quali si annidano le Arpie.13 Le Arpie, quelle creature mostruose con viso di donna e corpo di uccello, emettono lamenti, suoni acuti ma incomprensibili. È inoltre chiara l’assonanaza Arpia-Sapia. In questo bosco suonano lamenti, senza che si veda persona alcuna. Anche qui dunque il senso della vista è offuscato: in Purgatotrio XIII la luce è oscurata dalle roccie livide, qui da secchi ma grossi alberi che fanno procedere i due poeti nell’ombra, come viene descritto ai vv. 4–6: Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi di tosco. C’è un implicito richiamo alla selva del primo canto che è collegata alla perdizione 13 Naturalmente qui l’intertesto esplicito è l’Eneide di Virgilio, sia per la descrizione delle Arpie e sia per l’episodio di Polidoro. 266 ROSSELLA PESCATORI provocata dal peccato e che in termini figurativi è resa con l’ombra, con la perdita della luce. In Inferno XIII Dante viene preso da un senso d’orrore e smarrimento (v. 19, v. 24). Si sente circondato da voci, da lamenti e da bisbigli (come comunque possono essere intesi le voci di corte, o le voci fra le vie della sua città—si veda il passo della Vita Nuova citato sopra) e si sente impotente. Non può che fare supposizioni finché seguendo il consiglio di Virgilio, tronca un ramo da un “gran pruno” e viene a sapere che le anime dei dannati sono rinchiuse in quelle piante. Ecco dunque l’anima di Pier Della Vigna, che racconta la sua storia e a cui Dante dà tutta la sua solidarietà e promette di riscattare nel regno dei vivi confermando la sua innocenza. Pier Della Vigna si ritrova ad essere in quel girone infernale per aver commesso violenza contro se stesso, spinto dal suo orgoglio in opposizione all’invidia. Egli tuttavia rimane una vittima dell’invidia perché non è stato capace di vincere e dimostrare la sua innocenza controribattendo e resistendo ai suoi avversari invidiosi. Dante presenta dunque un esempio di effetti distruttori dell’invidia: la disperata decisione del consigliere fa rilevare come chi è mosso dall’invidia riesca a creare un groviglio insolubile di iniquità in cui l’esistenza di un uomo giusto si può concludere in tragedia. In questo episodio echeggia lo stesso destino di Dante, ovvero è indicata una scelta che anche lo stesso Dante avrebbe potuto prendere. Dante comunque preferì un’altra soluzione: quella che lo avvicina a Romeo Di Villanova. Dante non cede all’invidia di chi l’ha voluto esiliare dalla sua città e dalla sua patria. Dante, in qualche modo, vince la sua battaglia con l’Invidia e la sua vittoria è la stessa che spetta a Romeo Di Villanova nel canto VI del Paradiso. La storia di Romeo non ci è raccontata dallo stesso protagonista, ma dall’imperatore Giustiniano. Anche qui siamo di fronte ad un imperatore, ma in questo caso l’imperatore stesso prende le parti di un fido ministro che era stato calunniato. E proprio Giustiniano che era stato ingrato verso il suo fido Belisario, esalta la figura Di Romeo, gran siniscalco di Raimondo Beringhieri IV, ultimo conte di Provenza. Questo ministro servì il suo principe con impareggiabile probità, ma pensò più alla gloria di questo mondo che al bene della propria anima e per questo si ritrova a essere nel cielo di Mercurio. Romeo amministrò i prossedimenti di Raimondo in un modo impeccabile, ma i cortigiani invidiosi aizzarono il loro signore contro l’onesto ministro, tanto che Romeo ne dovette rendere conto. La forza di Romeo fu quella di sopportare l’ingiurioso sospetto e di mostrare quel che aveva fatto e di prendere e andarsene per la sua strada. Probabilmente Romeo non fu il suo nome di battesimo: ma egli fu un romeo, un pellegrino diretto a Roma. Anche in questo Dante si proietta: Dante pellegrino della Gerusalemme celestre e nella quale trova il suo destino. L’episodio di Romeo di Villanova è contenuto nei versi 127–136 del canto VI del Paradiso, l’ultimo canto politico che stranamente si chiude con un’esaltazione della serena fortezza d’animo di contro alla calunnia, all’ingratitudine e alla miseria: tutte esperienze che lo stesso Dante aveva passato. A Romeo ora spetta la luce (v. 128): qui non ci sono più ombre, Romeo non si fece vincere dall’orgoglio e fu l’umiltà la sua arma. Le “parole biece” (v. 136) tanto dure quanto le roccie livide menzionate in Purgatorio XIII mossero il suo principe, ma poterono intaccare la sua persona. Sopportò sulla terra una desolata vecchiaia,14 ma ora può avere la sua eterna ricompensa a discapito di tutti quelli che lo 14 Vediamo anche nel Convivio I, III, 4–5 come a Dante sia molto vicina l’esperienza di Romeo di Villa- DANTE E L’INVIDIA 267 avevano invidiato. Così anche Dante ha il suo vagheggiato riscatto: la sua opera, il suo poema, che parlerà e gli darà giustizia, come ci viene detto nelle parole di Cacciaguida in Paradiso XVII vv. 124–142. indi rispuose: “Coscienza fusca o de la propria e de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. Questo tuo grido farà come il vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento. Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, che l’animo di quell ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia la sua radice incognita e ascosa, né per altro argomento che non paia.” L’antenato di Dante, Cacciaguida, infatti in (Pd. XV–XVII) delinea il significato della missione di Dante nel mondo dell’al di là, ed essa viene collegata da una parte al progetto di salvezza di Dio per gli uomini, per via della conoscenza del peccato e della beatitudine, e dall’altra allo stesso destino terreno del poeta con la profezia del suo esilio. Vediamo in questi versi il richiamo alla giustizia da parte di Dante: l’invidia è infatti strettamente legata al tema della giustizia e per questo può essere considerata l’emozione politica per eccellenza. Alcuni studiosi, fra i quali Schoek,15 sostengono addirittura che sia l’invidia guidare la società. Molti studi hanno affrontato questa tematica e si sono concentrati sul senso di giustizia percepito dall’invidioso e dall’invidiato. L’invidioso sente interiormente di aver subito un’ingiustizia perché un altro individuo, considerato da lui un suo pari, ha raggiunto successi che vanno oltre le sue presunte possibilità. Il bene dell’altro è dunque sentito come male proprio e comincia a perdere la sua dimensione esclusivamente privata, di logorio interiore, quando fa appello al sostegno pubblico o alla sua propria giustizia, denigrando il suo rivale e coinvolgento gli altri a sostenere il suo punto di vista. La chiacchera e la nova: “... Poiché fu piacere de’ cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno (nel quale nato e nutrito fui fino al colmo della mia vita, e nel quale con buona pace di quelli, desidero con tutto il cuor di riposare l’animo stanco e terminare il tempo che mi è dato), per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contro a mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà. E sono vile apparito agli occhi a molti, che forse per alcuna fama in altra forma mi avevano immaginato; nel cospetto de’ quali non solamente mia persona invilto, ma di minor pregio si fece ogni opera si già fatta, come quella che fosse a fare.” 15 H. Schoeck, Der Neid und die Gesellschaft (Freiburg/Muncher 1966). Trad. it. A. Audisio L’invidia e la società (Milano 1974). 268 ROSSELLA PESCATORI calunnia16 sono mezzi attraverso il quale avviene l’attacco invidioso. L’accusa d’invidia attacca tutti i movimenti dell’animo: il giudizio, perché impone al soggetto di non pretendere di attribuire lui il valore, mentre deve accettare solo quello stabilito dalla società; il sentimento di diminuzione, di pena, dicendo che è immotivato, assurdo; e, infine, l’aggressione: “Che cosa ti ha fatto? Perché sei malvagio verso chi non ti ha fatto nulla?”17 La giustizia a cui fa appello Dante non è quella dell’invidioso, ma quella che Dio solo può dare all’invidiato, a chi ha subito gratuitamente torti e sofferenze. L’invidiato infatti è solo una vittima innocente,18 la cui responsabilità è quella di non cedere all’odio invidioso. La Commedia è un’opera straordinaria, dove esperienze e sentimenti personali vengono ad assumere un valore universale. Come osservato in apertura di questo saggio, non si può distaccare l’autore Dante dalle sue concrete esperienze autobiografiche. Di certo l’Amore è uno degli elementi portanti di quest’opera; dall’amore ne discende la carità che è la spinta che conduce l’anima ad innalzarsi verso Dio. Le sofferenze, la caducità e la perdizione invece sono date da ciò che è contrario e opposto all’Amore, l’Odio da cui emana l’invidia, che, seguendo la logica medievale è proprio in opposizione alla carità. In questo saggio è stata messa in rilievo la forte componente emotiva presente nella Commedia data da motivi autobiografici di Dante. Le esperienze personali del poeta, come quelle delle persone riportate del poema nella concretezza della loro episodicità, vengono ad offrire una perfetta mappa dei sentimenti che per via del loro carattere empatico assumono ancor di più un valore esemplare universale. 16 Per ulteriori approfondimenti consiglio si vedano i miei studi (n. 4, n. 10 ) e D. Pajardi, L’Invidia (Padova 1993). 17 Alberoni (n. 3 sopra) 16. 18 Un’altra interessante rappresentazione di questa situazione sta nell’ekphrasis di Luciano, riutilizzata da L. B. Alberti nel suo De Pictura, La Calunnia D’Apelle, rappresentata pittoricamente da Botticelli. Si veda a questo proposito il mio studio già citato (n. 10).