CULTURE E SOCIETÀ
laRegione, lunedì 9 ottobre 2023
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LA RECENSIONE
Raffaella Carrà
entra nel melodramma
‘Raffa in the Sky’, riuscita
unione tra opera e pop
italiano 70/80. Impressiona
Chiara Dello Iacovo,
troneggia Carmela Remigio,
bravissimo Carlo Boccadoro
di Giuseppe Clericetti
Si è chiusa ieri sera al Teatro Donizetti di Bergamo, con la quarta recita in dieci giorni, un’esperienza teatrale che potrebbe lasciare il segno nel
panorama melodrammatico della nostra contemporaneità: la felice e riuscita unione tra il
mondo dell’opera e il più profondo pop italiano
degli anni Settanta-Ottanta; con un colpo di genio lungamente mediatizzato, si è messa in scena
la carriera di Raffaella Carrà. La Fondazione Teatro Donizetti, convinta che la distanza che ci separa dal fenomeno Carrà sia ora sufficiente per
uno sguardo più disincantato e ironico, sia per i
detrattori che per i fan, ha incaricato il giovane
compositore Lamberto Curtoni e i librettisti Renata Ciaravino e Alberto Mattioli (conosciutissimo critico e divulgatore nel campo operistico,
nonché attivo in qualità di “Dramaturg” a Bergamo), di creare una Fantaopera in due atti, con la
regia curata da un altro nome ben affermato nell’ambiente del melodramma, Francesco Micheli,
al quale si deve l’idea, curiosa e provocatrice nell’anno di Bergamo e Brescia capitali italiane della
cultura.
La trama dell’opera è semplice: un’entità extraterrestre si incarna sul nostro pianeta per redimerlo, battezzata unendo i nomi di due geni dell’arte, Raffaello Sanzio e Carlo Carrà. Si raccontano quindi le sue peripezie, in parallelo con la vita
MUSICA
Opera al femminile
di Carlo Piccardi
Elena Mosuc in ‘Lucia di Lammermoor’, 2008
KEYSTONE
Al di là della funzione del personaggio femminile
nell’opera in genere è fuori dubbio che nel ruolo assegnatogli sia possibile rintracciare l’ago della bussola estetica romantica. Innanzitutto il personaggio
femminile vi appare come sede di empito e di instabilità di sentimento, in altri termini come arco capace di lanciare più lontano oltre l’orizzonte le frecce
dell’emozione. Secondariamente l’Ottocento operistico può anche essere visto come un campo di contesa, in cui la figura della donna vieppiù incombe rosicchiando il piedistallo del personaggio maschile,
cantando la sua prima selvaggia vittoria in ‘Carmen’,
effondendo sentimentalità sull’ampio spazio riservatole nel ventaglio operistico di Massenet e imponendo la propria visione del mondo nei drammi pucciniani dove risulta irrimediabilmente affossato l’ideale eroico che nessun tenore riuscirà più a incarnare, men che meno quel Cavaradossi caduto vittima
più per essersi trovato nell’ingranaggio di malvagia
macchinazione che per conclamata fede repubblicana. Di fronte all’impallidire del ruolo maschile, la
donna nell’opera romantica percorre un itinerario
che dall’astratta vocazione alla virtù la conduce ad
arrendersi alle forze della sua propria natura, sia essa la travolgente passionalità dell’eroina di Bizet oppure il virginale languore di Mimì. Al centro di questa
riflessione compare sintomatica la Traviata, la cortigiana che detiene il deflagrante potere di mettere in
questione il sistema dei valori morali della civiltà
borghese, la stessa che celebra efferata vittoria nella
‘Lulù’ di Alban Berg-Frank Wedekind. Ma quale distanza più abissale è tracciabile al di là del vallo che
separa la trepidante umanità di Violetta dalla degra-
di una coppia, prima innamorata poi in crisi, con
un figlio gay. La trama è pure godibile (a eccezione di qualche predicozzo sul finale), con mille riferimenti al personaggio Carrà e ai suoi simboli,
caschetto, ombelico, vestiti e mosse craniali: particolarmente azzeccati e convincenti i costumi di
Alessio Rosati e la scenografia di Edoardo Sanchi.
La musica di Lamberto Curtoni è quanto di più
simpatico sia immaginabile, con trovate geniali a
partire dall’ouverture, notevole maestria di orchestrazione, e numerosissimi spunti di grande
raffinatezza, non da ultimo la fisarmonica ad accompagnare i recitativi. Non vengono lesinate citazioni colte, Čajkovskij, Wagner, Mozart, Monteverdi, e sicuramente altre meno clamorose, ma si
propongono soprattutto le hit della Carrà, dal
‘Tuca, Tuca’ a ‘Ma che musica maestro’, da ‘A far
l’amore comincia tu’ a ‘Rumore’, rileggendoli attraverso lenti deformatrici e stuzzicanti.
La voce che più impressiona è quella scelta per
incarnare la Carrà: è Chiara Dello Iacovo, ventisettenne cantautrice, giunta seconda a Sanremo
nel 2016; dopo un nostro primo smarrimento dovuto all’amplificazione della sua voce, unica del
cast a utilizzare il microfono, apprezziamo le sue
doti vocali e il timbro, così vicino al personaggio
incarnato. Voluto, e intrigante, lo scarto di impostazione vocale con gli altri cantanti, tra i quali
troneggiava Carmela Remigio, la recente Anna
Bolena al Lac. Bravissimo il direttore Carlo Boccadoro a tenere per oltre due ore le fila dell’esecuzione, in un intreccio complesso e multiforme di
stili e scritture.
L’operazione è riuscita: la grande tradizione operistica si appropria di un’icona pop, gratificando
una buona fetta dei fruitori abituali, e attirando
un pubblico meno avvezzo al genere, facilmente
convertito ed entusiasta. Il teatro Donizetti ha registrato il tutto esaurito, riempiendo platea e i
suoi cinque ordini di palchi: al termine tutti insieme in piedi a cantare e ballare “Tanti auguri, a chi
tanti amanti ha...”.
data animalità del personaggio berghiano. L’odore di
santità in cui muore l’eroina verdiana è sintomo della difficoltà di rinunciare alla lente idealistica proprio nel primo capolavoro scenico musicale che osava accogliere la scabrosa realtà contemporanea.
Ma lo stesso livello è leggibile nella donizettiana ‘Lucia di Lammermoor’ che muore onorata sulla tomba
dall’amato trascinato a compiere il gesto suicida per
affrettare in cielo il ricongiungimento dei due destini, la cui luminosità lascia in ombra la follia che ha
macchiato di sangue maritale le mani della disperazione femminile. Sennonché mezzo secolo dopo ben
diversa sarebbe apparsa la figura di Tosca, irretita in
un groviglio di sentimenti in cui passione e gelosia
non le avrebbero lasciato più spazio di gioia, trascinando la sua generosità all’atto cruento che irreparabilmente ne avrebbe segnato il torbido destino.
Nell’opera dell’Ottocento la donna compì dunque
una parabola in cui, nel venir meno dell’irradiante
proiezione di visioni ideali, trascolorò pure il vigore
dello stesso linguaggio che, oltre a passare attraverso
la mutevole tavolozza armonica pucciniana che rimane nella storia dell’opera un riferimento indelebile, giunse alla soglia dell’espressionismo berghiano a pregiudicare le proprie virtualità comunicative
proprio consumando i nitidi contorni dell’immagine
femminile.
CINEMA
Addio a Terence Davies,
Pardo d’oro a Locarno
Il regista e sceneggiatore britannico Terence Davies, noto per i film autobiografici ambientati nella
Liverpool della classe operaia ‘Voci lontane... sempre presenti’ (1988, che gli valse un Pardo d’oro a
Locarno) e ‘Il lungo giorno finisce’ (1992), è morto
sabato scorso dopo breve malattia. Aveva 77 anni e
si è spento nella sua casa di Mistley, nell’Essex, nell’Inghilterra orientale. L’annuncio della scomparsa è stato dato dalla pagina ufficiale del cineasta su
Instagram e la notizia è stata confermata dal suo
manager, John Taylor, precisando che Davies si è
spento “serenamente nel sonno”.
Nato a Liverpool il 10 novembre 1945, cresciuto in
una numerosa famiglia della classe operaia, dopo
aver lavorato come commesso in un’agenzia di
spedizioni e come ragioniere in uno studio contabile, Davies entra nel 1971 alla Coventry School of
Drama, dove scrive e dirige il suo primo cortometraggio, ‘Children’ (1976). Entrato poi alla National
Film School, realizza come film di diploma ‘Ma-
Chiara Dello Iacovo, sabato scorso al Teatro Donizetti di Bergamo
donna and Child’ (1980) e, in seguito, il terzo cortometraggio, ‘Death and Transfiguration’ (1983).
Working class
Nel 1988, Davies scrive e dirige il suo primo lungometraggio, il suddetto ‘Voci lontane... sempre presenti’, costruito sulla sua educazione come figlio della
classe operaia britannica. Oltre al Pardo, il film vince
il premio Fipresci al Festival di Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs. Con ‘Il lungo giorno finisce’
(1992), il regista racconta la Liverpool degli anni 50,
luogo nel quale vive un ragazzo introverso e solitario
che ha una grande passione per il cinema, vittima di
scherno da parte dei suoi coetanei e anche della sua
famiglia, che lo considera poco intelligente. Seguono
i film ‘Serenata alla luna’(1995), tratto da un romanzo
di John Kennedy Toole, presentato in concorso al Festival di Cannes, e ‘La casa della gioia’ (2008), tratto
dal romanzo di Edith Wharton, con Gillian Anderson. Dopo ‘Of Time and the City’ (2008), documentario sulla sua città natale, presentato come proiezione speciale nella selezione ufficiale del Festival di
Cannes, nel 2011 Davies dirige ‘Il profondo mare azzurro’, trasposizione dell’omonima opera teatrale di
Terence Rattigan, interpretato da Rachel Weisz nei
panni di una eternamente infelice ricercatrice d’amore. In ‘Sunset Song’ (2015), il regista racconta la
storia di una famiglia di contadini che lotta per sbarcare il lunario nel nord-est della Scozia.
Davies ha ricevuto grandi consensi per il film ‘A
Quiet Passion’ (2016), con Cynthia Nixon nel ruolo
della poetessa solitaria Emily Dickinson. Il suo ultimo film è una produzione Netflix dal titolo ‘Benediction’ (2021), con Jack Lowden nei panni del poeta
Siegfried Sassoon: l’opera ne ripercorre la vita, dal ricovero forzato in un ospedale psichiatrico a causa
delle sue posizioni contro la guerra alla crisi di fede e
la conversione al cattolicesimo, passando per le relazioni clandestine con alcuni uomini durante la Prima guerra mondiale.
ATS/RED
Il regista al Festival del 1988
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GIANFRANCO ROTA
ZURICH FILM FESTIVAL
Occhio d’oro
alla ‘dura realtà’
Selman Nacar, regista turco di ‘Hesitation Wound’
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È stato assegnato al regista turco Selman Nacar, per
la pellicola ‘Hesitation Wound’, l’Occhio d’oro dello
Zurich Film Festival (Zff). Premiati pure ‘Hollywoodgate’ dell’egiziano Ibrahim Nash’at, girato in
Afghanistan, e il documentario sull’invasione russa
in Ucraina ‘In the Rearview’ del polacco Maciek Hamela. Il direttore artistico Christian Jungen ha parlato di film “al passo con i tempi”che raccontano “dure realtà”in Turchia, Afghanistan e Ucraina. L’Occhio
d’oro, del valore di 25mila franchi, è stato attribuito in
tre categorie diverse.
Nella sezione “Lungometraggi”, dove hanno concorso produzioni da tutto il mondo, la giuria presieduta
dall’olandese Anton Corbijn ha insignito del riconoscimento ‘Hesitation Wound’ per aver presentato
con “umorismo” una critica della società religiosa
turca. Particolarmente acclamata la performance
dell’attrice Tülin Özen. Nella categoria “Focus”, dedicata a lavori provenienti da Germania, Austria e
Svizzera, si è imposto ‘Hollywoodgate’, un prodotto
americano e tedesco. Nash’at ha seguito due capi dei
talebani per un anno, dopo che gli americani e i loro
alleati hanno lasciato l’Afghanistan. Menzione speciale per il cineasta ginevrino Maxime Rappaz e il suo
‘Laissez-moi’. Nella sezione “Documentari”, l’Occhio
d’oro è andato a ‘In the Rearview’. Secondo la giuria,
il film di Hamela racconta gli eccessi sfrenati della
guerra con stile “minimalista e insistente”.
Conclusosi ieri, lo Zurich Film Festival ha proposto
148 film, di cui 52 prime internazionali; 18 le pellicole
elvetiche in concorso. Sulle rive della Limmat sono
arrivati, tra gli altri, Jessica Chastain, Diane Kruger,
Todd Haynes, Ethan Hawke, Wim Wenders e Peter
Sarsgaard.
ATS/RED