INDICE
Prefazione
di Alessandro Caroni
Luca Gori
Alessandro Iorio
Maddalena Lucarelli
Draga Rocchi
Introduzione
«Che cos’è la fenomenologia?»
di Edoardo Ferrario
ALTERITÀ
ANIMA
AVVENIMENTO
COMUNITÀ
CORPO
DIFFERENZA
EMPATIA
EPOCHÉ
ESISTENZA
FANTASIA
FONDAMENTO
INTENZIONALITÀ
di Fabio Schiappa
di Francesco Mischitelli
di Stefano Maschietti
di Michele Spanò
di Monica Serrano
di Maddalena Lucarelli
di Giulia Tossici
di Giorgia Bordoni
di Camilla Croce
di Antonio Lucci
di Alessandro Iorio
di Federico Boccaccini
IX
1
25
43
61
86
106
121
140
170
191
213
236
256
IPSEITÀ
MONDO DELLA VITA
NATURA
PATHOS
PERCEZIONE
PHYSIS
POLIS
PROSSIMITÀ
PSYCHE
SEGNO
SENSIBILITÀ
SOGGETTO
SPAZIALITÀ
STORIA
TECHNE
TEMPORALITÀ
TRACCIA
TRASCENDENZA
UMANITÀ
VERITÀ
VITA
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice dei termini
Notizie sugli autori
di Alessandro Caroni
di Stefano Bancalari
di Riccardo Paparusso
di Arianna Vennarucci
di Gianpaolo Gravina
di Adriano Ardovino
di Luca Gori
di Teresa Bettini
di Enrico Vicinelli Polucci
di Filippo Silvestri
di Annalisa Romani
di Nicola Zippel
di Niccolò Argentieri
di Nane Cantatore
di Daniele De Santis
di Alessandra Penna
di Paolo Cartasegna
di Draga Rocchi
di Edoardo Ferrario
di Paolo Vinci
di Isabella Aguilar
284
306
321
346
369
386
406
426
442
464
491
509
532
560
576
602
616
643
669
698
712
738
771
PREFAZIONE
Un nome, nel venir pronunciato, ci ricorda la galleria di Dresda e
l’ultima visita che vi facemmo: noi giriamo per le sale, ci fermiamo
davanti a un quadro di Teniers che rappresenta una galleria di quadri. Supponiamo che i quadri di quest’ultima rappresentino di nuovo dei quadri, che a loro volta rappresentino delle epigrafi leggibili,
ecc. (HUSSERL 1950c, p. 258).
Anche a noi − mentre ci dedicavamo alla cura di questo libro − la
pronuncia del nome “fenomenologia” ha ricordato quella trasognata
visita di Husserl alla galleria di Dresda. E forse capiterà così anche ai
visitatori che si apprestano a girare per queste sale e a incamminarsi
lungo queste “vie”: vie che ora puntano al cuore e ora a un certo margine, che ora sembrano convergere e ora divergono; che a volte si sdoppiano, si raddoppiano, si intersecano, e sempre ricominciano da capo
– come i famosi Holzwege di Heidegger. Nella singolarità e nel timbro
inconfondibile di ciascuna delle 33 “voci” di cui questo volume si
compone e nel gioco polifonico che le intreccia e le attraversa è, ogni
volta, la fenomenologia a cercarsi e a cercare di dire se stessa: passando,
non di rado, per un certo “altro” (la letteratura, l’arte, la psicanalisi, la
religione, la politica, ecc.), passando, perfino, al limite e oltre il limite
di se stessa. Dalla “a” di “alterità” e di “anima” alla “v” di “verità” e
di “vita”, ogni parola-guida di questa raccolta non si esaurisce nello
IX
spazio delle pagine che le sono dedicate, ma apre al suo interno una o
più finestre, che a loro volta ne dischiudono altre, sino a tratteggiare
i termini en abîme di una sorta di ipertesto: una selva intricata e quasi
un labirinto nel quale ogni voce, oltre a offrire il proprio unico suono,
sembra capace di riflettere in sé l’eco delle altre. Come in un gioco
di specchi o come nei rimandi di quella galleria richiamata nel passo
delle Idee di Husserl che abbiamo citato in esergo: un passo − non per
caso − posto in epigrafe, e poi ripreso − alla pagina che “conclude” in
modo inconcludente La voce e il fenomeno − da un erede di quel modo di
fare filosofia come Jacques Derrida. Eppure − proprio allontanandosi
dall’idea della fenomenologia come di un indirizzo filosofico chiuso
(suscettibile come tale di una ricostruzione enciclopedica o storicosistematica), accogliendo in questa rubrica molti nomi di filosofi che
hanno avvertito il fascino e fatta propria qualche movenza del suo
stile e del suo modo di cercare, e di altri ancora che hanno contribuito
ai suoi molti sconfinamenti e smarrimenti (ma non è stato così per
tutti?) − questo libro si rivela almeno in parte capace di rispecchiare
le complesse linee di ricerca cui la filosofia fenomenologica ha dato
vita, e di registrarne, anche, alcune delle stagioni più importanti. In
questo viaggio dagli approdi spesso inaspettati, la fenomenologia si è
offerta come un diario privilegiato per accogliere le grandi questioni
che hanno segnato la tradizione della filosofia, sondandone le eredità rimosse e i debiti inestinguibili; e, sull’esempio dei grandi autori
che ne hanno fatto la storia, si è rivelata una via non secondaria per
immergersi nella corrente dei problemi che attraversano il mondo in
cui viviamo. E tutto il libro è teso a ricominciare sempre dal limite,
all’intreccio dei confini, tanto che a percorso compiuto (ma sappiamo
che questo è solo il provvisorio sostare del viandante) ci si è accorti che
la contaminazione è la cifra e la trama di questo stile di ricerca.
***
Per quanto riguarda la sua genesi concreta, il libro riproduce a
grandi linee il tracciato delle lezioni e delle discussioni di due corsi seminariali tenuti presso la cattedra di Estetica del prof. Edoardo Ferrario alla Facoltà di filosofia dell’Università “La Sapienza” di
X
Roma nell’anno 2006: tra marzo e giugno il primo, tra ottobre e
dicembre il secondo. L’intento che lo ha animato è stato quello di
schiudere un vivace spazio di ricerca e di confronto all’interno della
stessa attività didattica: una libera entrata nella filosofia che rifuggiva da qualsiasi strada maestra, da qualunque ingresso principale.
Qui, tutte le porte si sono rivelate di servizio: al servizio di chiunque
volesse entrare, e mai riservate ai soli addetti ai lavori. I vari relatori che si sono avvicendati in questa esperienza hanno liberamente
stravolto ogni gerarchia accademica, così che a confrontarsi tra loro
erano, di volta in volta, docenti, ricercatori e giovanissimi studiosi
appena laureati. E sempre, equamente, a volte travalicando i limiti
dell’orario, si sovrapponevano e si affollavano − al di là del limite
concesso alle singole “voci”, lette o narrate all’impronta – gli spazi
della discussione, i momenti in cui tutto l’auditorio era chiamato
a partecipare, a contestare, a criticare, a rischiare in proprio. Quasi immancabilmente il dibattito iniziava in modo timido, incerto,
troppo cauto. Poi, d’improvviso, qualcuno si alzava dal fondo dell’aula, si avvicinava per porre una questione o fare un’osservazione,
e poi un altro e un altro ancora, finché qualcuno doveva affrettarsi,
correre alla porta e scusarsi con chi, fuori, aspettava la lezione successiva, perché sì, il dibattito era finito, ma ecco, non ancora, solo
un minuto, un secondo ancora, un’ultima domanda che non vuole
finire e a cui non si può, non si sa, non è ormai più concesso dare una
risposta... In questo stato di sospensione si concludevano gli incontri, lasciando in ognuno dei partecipanti il desiderio di continuare a
scambiare impressioni, di confrontare il proprio studio con i nuovi
spunti ricevuti, di leggere o rileggere autori troppo poco conosciuti
o, forse, troppo incautamente trascurati, e di approfondire ancora,
con rinnovato interesse, gli studi. Per cercare insieme risposte, per
allargare il raggio delle domande e spalancarne di nuove, per ricercare insieme. E, immancabilmente, le discussioni continuavano fuori dell’aula − in piedi nei vialetti e nelle piazzole, adagiati sull’erba
o seduti sulle panchine della nostra Villa − quasi a sottolineare ciò
che questa attività seminariale ha pertinacemente desiderato e cercato: nuovi luoghi per la filosofia, nuovi paesaggi e modalità per un
conoscere che rifiuti ogni chiusura. Così che ora quelle fuoriuscite
XI
precipitose, gioiose, piene di parole e di sguardi, quei fine lezione
che non la finivano di finire, ci sembrano il segno più vero di quell’esperienza e l’augurio che facciamo a questo libro: di trovare la via
per incamminarsi nella vastità del mondo.
***
Nel leggere questo libro − destinato sia agli studiosi che potranno
confrontarsi con altri studiosi, sia a tutti coloro che vorranno cercare
un primo accesso a questa disciplina, sia, infine, a tutti i viandanti
del sapere che vorranno fermarsi ad ascoltare qualcuna di queste 33
parole − non è indispensabile cominciare dalle prime pagine. Si può
tanto partire dall’inizio quanto trovare nel sommario la voce più vicina ai propri interessi, e risalire poi da questa − seguendo itinerari
sempre nuovi − all’intera raccolta. In un simile percorso si rivelerà
di particolare aiuto l’Indice dei termini, uno dei principali vanti di
noi curatori, che abbiamo minuziosamente selezionato tutte quelle
espressioni che hanno scandito la storia della fenomenologia: parole
in qualche caso rubate a una tradizione accreditata e in qualche altro
inventate di sana pianta. La fitta trama dei lemmi, raggruppati fin
dove è stato possibile per famiglie, vuole soprattutto fornire un valido strumento per cercare percorsi trasversali all’interno del libro, per
tessere e ogni volta disfare sempre nuovi e nuovi intrecci tra le singole voci, tra le singole e molteplici questioni che in queste pagine
si affollano e si nascondono. A formare questo spazio di rimandi concorre anche l’Indice dei nomi, che permette tra l’altro di effettuare una
verifica a occhio di quanto la fenomenologia si sia venuta confrontando con il resto della tradizione filosofica e non solo (quanti e quanto
graditi gli ospiti inattesi!). La Bibliografia, ricavata direttamente dai
testi che qui vengono presentati, registra i nomi di coloro che hanno
fatto la storia della fenomenologia, ma anche di tutti coloro che ne
hanno ridiscusso i presupposti per contrastarne ipotesi o ereditarne
aspetti e suggestioni.
Ma più che nell’efficacia di questi strumenti, ciò in cui speriamo
è di essere riusciti a restituire in qualche modo la vitalità dell’esperienza di un laboratorio fenomenologico che ci ha visti coinvolti per
un anno insieme a molti altri. È indubbiamente impossibile rendere
in forma scritta le pause, le intermittenze, i silenzi, i contrasti, le
sfumature e gli accenti da cui dipendeva la vita stessa di tutte quelle
discussioni. Eppure confidiamo che questa raccolta di voci possa in
qualche modo costituire, se non certo un traguardo, almeno l’espressione e la continuazione di un pensiero che non riesce e non vuole
chiudersi, lasciando al lettore la possibilità di entrare nel vivo delle
questioni che vi sono affrontate: come se, leggendo, potesse riuscire
virtualmente a prenderne parte. E a condurle più avanti.
Alessandro Caroni, Luca Gori, Alessandro Iorio,
Maddalena Lucarelli, Draga Rocchi
***
XII
XIII
INTRODUZIONE
«CHE COS’È LA FENOMENOLOGIA?»
di Edoardo Ferrario
Cominciamo dall’inizio, parliamo dell’inizio. Vi troveremo – subito – mescolati i segni di una fine. In verità più d’una.
Cominciamo da Husserl, citiamone qualche parola:
L’autore vede aperto davanti a sé il territorio infinito della vera filosofia, la “terra promessa”, che egli non vedrà dissodata. Di questa
pretesa si può ridere, ma si può anche considerare se essa non abbia
qualche fondamento nei frammenti che qui si propongono come
una fenomenologia ai suoi inizi. Mi piace sperare che coloro che
verranno riprenderanno questi inizi, li svilupperanno costantemente e procederanno anche a eliminare le imperfezioni. Imperfezioni
che sono inevitabili agli inizi di una scienza (HUSSERL 1952c, pag.
433).
La filosofia come scienza, come una scienza seria, rigorosa, anzi apodittica – il sogno è finito (HUSSERL 1954, p. 535).
Queste due proposizioni appartengono agli anni trenta, gli ultimi
della vita di Edmund Husserl. Visionaria, spiritosa, velata dall’amarezza dell’età, la prima ci parla dei «frammenti» di una ricerca filo1
sofica «ai suoi inizi». Disarmata, ormai delusa, la seconda annuncia
una fine ormai raggiunta o sopraggiunta.
Ciò che più sorprende, in una vicenda di parole così diversamente
atteggiate, è il breve volgere di tempo che le separa tra loro: appena
un lustro. Certo, gli anni compresi tra il 1930 (data di pubblicazione
della Postilla alle “Idee”, cui appartiene il primo testo che ho citato)
e il 1935 (anno della stesura dell’Appendice XXVIII alla Crisi delle
scienze europee, ultima opera di Husserl) non sono, come si dice, anni
qualsiasi. E non possiamo non considerare lo stato d’animo di chi
– mentre la «barbarie» si impadroniva del cuore dell’Europa e si apprestava a dilagare nel mondo – faceva appello alla responsabilità dei
filosofi come «funzionari dell’umanità» e custodi ex professo del telos
della ragione occidentale (greco-europea). Queste proposizioni non
documentano però soltanto un improvviso mutamento di affetti: il
subentrare, agli entusiami di un «sogno» che sembrava vicino, della
preoccupazione per le vicende che stavano sconvolgendo le profondità del «territorio» dove quel sogno era nato. In esse c’è qualcosa
che concerne (e quasi circoscrive) il tempo e gli statuti della ricerca
fenomenologica, qualcosa che – pochi anni prima – dettava le parole
severe e appassionate delle Meditazioni cartesiane (1929):
In primo luogo chiunque vuole diventare seriamente filosofo deve
una volta nella sua vita ritirarsi in se stesso e cercare dentro di sé di
distruggere tutte le scienze ritenute fino allora valide e di ricostruirle. La filosofia, la sagesse, è una questione tutta personale del filosofo.
[...] Da che io ho deciso di vivere nel raggiungimento di questo
fine [...] ho scelto con ciò stesso di iniziare dalla assoluta povertà di
conoscenze. [...] Le Meditazioni cartesiane [...] costituiscono [...] il
modello delle meditazioni necessarie per ogni filosofo che ricomincia da capo (HUSSERL 1950a, p. 38).
E – come commento e insieme testimonianza della riaffermazione
dell’eredità di un’ingiunzione – vorrei richiamare qui altre parole,
questa volta vicinissime a noi, parole di Jacques Derrida:
Un filosofo è sempre qualcuno per il quale la filosofia non è data,
qualcuno che per essenza deve interrogarsi sull’essenza e la destinazione della filosofia. E reinventarla (DERRIDA 1997c, p. 29).
2
Proprio perché deve ricominciare ogni volta da capo, la fenomenologia è destinata a cancellare i suoi inizi nel gesto con cui si genera,
si feconda, si eredita e si affetta. A cancellarli e a rinviarli, a rimandarli e a tramandarli. E a scrivere le condizioni per distruggere la sua
stessa tradizione. Proprio perché non è davvero mai iniziata (e perciò è finita) quell’«avventura» – come l’ha chiamata sempre Derrida
– non finisce di finire. Deve re-inventarsi ogni volta, quasi al volgere
di ogni generazione. E al volgere di ogni generazione riscrivere la sua
genealogia, stimare i suoi lasciti e i suoi lutti, riconsiderare i tempi
e i luoghi della sua avventura, e guardare a «coloro che verranno».
Deve «interrogarsi» sulle sue origini e filiazioni, sulla sua «essenza» e sulla sua «destinazione»; consegnando a ogni nuovo (e ultimo)
venuto la domanda: che cos’è la fenomenologia? Che cosa ne resta?
Che ne è, oggi, della sua eredità? Perché la questione delle origini è
– dall’origine – una questione di eredità.
Sono più o meno questi i termini e gli interrogativi da cui ci apparirà il profilo – da subito incerto e tuttavia riconoscibile – di una
disciplina nata (o ereditata) sul finire dell’Ottocento da un ambito
ristretto anche se importante di studi logico-epistemologici, psicologici e matematici. “Battezzata” da Husserl (come la psicanalisi da
Freud) giusto allo scoccare del Novecento – sono state le Ricerche
logiche (1900-1901), ad aver «dato i natali alla fenomenologia», scriveva Heidegger1 – questa disciplina ha ben presto varcato le frontiere
tedesche a Ovest e a Est a Nord e a Sud, per diffondersi dalla Spagna
alla Russia, dall’Inghilterra all’Italia2. Ha attraversato – con più o
meno agio – altre storie, altri studi, altri saperi (dalle scienze del linguaggio e della letteratura alla psicologia, alla psichiatria, alla stessa
psicanalisi), fecondandoli e contaminandoli e lasciandosi a sua volta
contaminare e fecondare da loro. Ma, soprattutto, ha rivisitato i luoghi e i momenti più grandi della tradizione filosofica dell’Occidente
(e non dell’Occidente soltanto), fino a trovare o ritrovare se stessa là
dove proprio non aspettava di incontrarsi (Aristotele e il pensiero
greco, Cartesio, Kant, Hegel, Nietzsche...): al punto di confondere la
sua domanda – lo stiamo vedendo e lo vedremo ancora – con quella
della filosofia senz’altro.
È quanto spero testimoni, almeno attraverso qualche scorcio, que3
sto studio “a 33 voci”. Voci sono innanzitutto i titoli che compongono questa costellazione lemmatica (in verità più simile a un abecedario o a un cruciverba che non a un lexicon). Sono i registri innestati
per rieseguire qualche brano del complesso «“fraseggio” della ricerca
fenomenologica»3. Sono le glosse e le frasi dei grandi autori (da Husserl a Derrida, da Heidegger a Nancy, da Levinas a Merleau-Ponty,
da Patočka a Henry...) che si sono via via passati il testimone di una
corsa e di un discorso che si snoda e fluisce da più di un secolo. Sono,
infine, quelle di tutti noi che abbiamo condiviso, liberamente e in
«assoluta povertà», l’esperienza dei seminari da cui è nato questo
libro. Una partitura polifonica e poliglotta4, un “ricercare” attraverso cui la fenomenologia tenterà, ancora una volta, di interrogarsi, di
mettersi in questione; di rispondere di se stessa e dei suoi passaggi
di confine (primo fra tutti il proprio, come vedremo); delle sue dislocazioni e slogature e, perfino, della sua irresponsabilità: del suo non
poter rispondere, del suo non sapere che cos’è.
Un profilo, dicevo, “da subito incerto e tuttavia riconoscibile”,
e aggiungerei: via via più sfumato e indefinito, ma anche via via
più inconfondibile. Credo che, se ci dessimo la pazienza di guardar
bene le cose nei testi dei filosofi che ne hanno fatto la storia, non
troveremmo della fenomenologia e della parola “fenomenologia” due
definizioni in tutto e per tutto coincidenti. E voglio ricordare, a questo proposito, un episodio famoso e discretamente emblematico. Il
dissidio filosofico tra Husserl e Heidegger si manifestò per la prima
volta, almeno in modo esplicito, quando i due giù grandi maestri di
quella “nuova” disciplina si trovarono a dover rispondere proprio alla
domanda: che cos’è la fenomenologia?; e cioè – correva l’anno 1927
– a redigere, a quattro mani o a due voci, la voce “Fenomenologia”
per l’Enciclopedia Britannica. Eppure, erano proprio quelli i tempi in
cui si andava configurando quell’incerto profilo che doveva fare della
fenomenologia qualcosa di riconoscibile per le generazioni future,
fino a noi.
«Che cos’è la fenomenologia?», dunque. Questa domanda figura
ora prudentemente tra quelle «zampette d’oca» (Gänsefüβchen, come
si dice nel linguaggio della tipografia tedesca) che Paul Celan preferiva considerare piuttosto come «orecchiette di lepre» (Hasenöhrchen):
4
gli indici di citazione5. E, in effetti, è una citazione. O – come avrei
dovuto dir meglio, dato che me ne sono accorto solo dopo – lo era. E
non una citazione soltanto: una citazione multipla, seriale (in quanti
testi di quanti autori si tendono, all’ascolto di quella domanda, le
orecchiette di lepre di Paul Celan...). Meglio ancora, una serie di
ricorrenze di frase senza un’origine prima, senza una fonte e un fonte
(la cerimonia del battesimo husserliano che ho ricordato più su non
c’è mai stata: era soltanto una promessa). Così che a dispetto delle
tante definizioni che se ne sono tentate, “fenomenologia” è uno pseudo-sostantivato, un substantivus bastardo, che non “può stare a sé”,
che non può stare in sé. È forse un caso che uno dei motivi più frequenti delle ricerche fenomenologiche sia la critica o la decostruzione
dei concetti di «sostanza» e di «presenza»? È un caso quell’insistito
ricorso alla metaforica del «cammino», del «passo indietro» o della
«domanda a ritroso», del viaggio alla volta dell’origine o del fondo:
per ritrovarsi in un senza-fondo o in un luogo dove non ci sono che
tracce di cancellazione, tracce di tracce?
La domanda: «Che cos’è la fenomenologia?» compare in incipit
(ma è solo un esempio tra molti) alla Fenomenologia della percezione
di Maurice Merleau-Ponty (1945); un’opera che, insieme ai primi
scritti di Jean-Paul Sartre e Emmanuel Levinas, si è rivelata decisiva
per l’“esportazione” e l’“appropriazione” della fenomenologia in terra francese (terra che a tutt’oggi ne è probabilmente la più ricca in
eredità e la più feconda in studi). Bene, a quella domanda MerleauPonty faceva seguire parole piuttosto sconsolate. Queste: «Può sembrare strano che si debba ancora porre tale questione mezzo secolo
dopo i primi lavori di Husserl»; pure – aggiungeva – essa è «lungi
dall’essere risolta». E, mettendosi nei panni del «lettore frettoloso»,
si chiedeva «se una filosofia che non giunge a definirsi merita tutto il
rumore che si fa intorno a essa o se non si tratta piuttosto di un mito
o di una moda» (MERLEAU-PONTY 1945, p. 15 e 16).
Una filosofia che non giunge a definirsi...
Per addentrarci nella storia di questo imbarazzo (sempre che non
sia, non diventi o non sia diventata una moda), richiamerò tra un
istante un altro testo di Merleau-Ponty: questa volta dal saggio Il
filosofo e la sua ombra (1956) contenuto nella raccolta Segni.
5
Il «filosofo» che appare in questo titolo è, lo ricordo, il padre, il
maestro riconosciuto della fenomenologia; mentre “la sua ombra”
– quell’ombra che, nelle parole che ho citato all’inizio di questa Introduzione, Husserl scorgeva già al suo fianco – è il suo “non pensato”
(suo e non suo, dunque): un’ombra che convoca, durante la stessa passeggiata, anche l’allievo più grande, Martin Heidegger. Per Heidegger, infatti, il «non pensato» è il «dono» più grande del pensiero,
dato che appunto ci dà da pensare. Ed era con questo atteggiamento
di ascolto che, per lui, la fenomenologia doveva porsi nei confronti
della tradizione filosofica: senza a sua volta essere, propriamente, una
tradizione, una corrente o un indirizzo filosofico. Un parassitismo
forse? Di sicuro generoso. Più ermetica che ermeneutica. Origine
senza origine, fondazione o fondamento. Eredità senza testamenti.
Questa espressione la rubo a un aforisma testamentario di René
Chair (Notre héritage n’est précédé d’aucun testament), citato da Hannah
Arendt in Tra passato e futuro per indicare la «lacuna» (il presente,
l’origine infondata, l’istante irresponsabile e senza tradizione di una
scelta, di una decisione) in cui si trova ogni erede (ARENDT 1961,
p. 25). E ora, finalmente, posso compiere il richiamo annunciato:
«La tradizione è oblio delle origini, diceva l’ultimo Husserl» (MERLEAU-PONTY 1960, p. 211) e sottoscriveva Merleau-Ponty, citando
«il filosofo» che nella Crisi si affaticava per risalire alla sorgente di
quella ragione occidentale che giaceva sepolta sotto le stratificazioni
obiettivistiche e naturalistiche dei saperi «regionali»; sottoscriveva
le parole del «filosofo», senza però perdere d’occhio «la sua ombra»,
che, in quegli stessi anni, si avventurava nei crepuscoli aurorali dell’(oblio dell’) essere.
Ma è soprattutto sul tema dell’epoché – sul suo carattere interminabile: fatale per un’origine che non ha origine o si origina da sé – che
si concentrano, nel passo che citerò tra poco, le domande di MerleauPonty. L’epoché o la riduzione (non soffermiamoci per il momento su
queste sottili distinzioni) era, secondo Husserl, quell’esercizio decisivo che consisteva nel «mettere tra parentesi» (o tra virgolette) ogni
tesi relativa a una «realtà in sé»; per ricollocarsi all’origine e aprire
in tal modo la via alle descrizioni fenomenologiche. Per mezzo della
riduzione, scriveva Husserl, la fenomenologia pratica la disciplina di
6
un «abbandono» o di una «perdita» del mondo (Weltverlorenheit), al
fine però di ritrovarlo nel dominio di senso di un’autocoscienza universale (HUSSERL 1950a, p. 172).
Una delle formulazioni più chiare (anche se problematiche6) di
questa procedura di messa «fuori causa» o «fuori gioco» è quella che
Husserl ci fornisce nelle sue Lezioni sul tempo; dove osserva come,
per eseguire un’«analisi fenomenologica del tempo», occorra mettere
in atto «la totale esclusione di supposizioni, affermazioni, convinzioni quali che siano relative al tempo obiettivo»:
Come la cosa reale, il mondo reale, non è un dato fenomenologico,
così non lo è neppure il tempo mondano, il tempo reale, il tempo della natura nel senso delle scienze della natura, né quello della
stessa psicologia in quanto scienza naturale dello psichico (HUSSERL
1966a, p. 44).
Ed è proprio questa possibilità – che cioè la riduzione riporti
compiutamente la fine al suo inizio o guadagni l’inizio della sua fine
– che Merleau-Ponty vuole mettere in questione, insieme con e contro
Husserl, quando scrive:
Consideriamo il tema della riduzione fenomenologica, che, come
sappiamo, non ha mai cessato di essere per Husserl una possibilità
enigmatica, e sulla quale egli è sempre ritornato. Dire che Husserl
non è riuscito a consolidare le basi della fenomenologia significherebbe fraintendere ciò che egli cercava. I problemi della riduzione
non sono per lui un preliminare o una prefazione: sono l’inizio della
ricerca e, in un certo senso, l’intera ricerca, perché questa è, come
egli ha detto, un continuo inizio (MERLEAU-PONTY 1960, p. 213).
«Il più grande insegnamento della riduzione è l’impossibilità di
una riduzione completa» (MERLEAU-PONTY 1945, p. 23), diceva anche Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione, riaffermando e
tradendo («scegliendo», come avrebbero detto Heidegger e Derrida)
un certo lascito fenomenologico, contaminando eredità husserliane
e heideggeriane (e queste eredità con altre ancora: Hegel, Bergson,
Nietzsche, Marx, Freud...). E in questo gioco – sempre ai limiti del
7
suo stesso «fuorigioco» – di un’epoché che si epochizza da se stessa (di
una «sospensione» che si auto-sospende, si sfinisce e non la finisce
di finire) si trattava per lui di «ricollocare» lo sguardo costitutivamente strabico, la diplopia del filosofo (che allo stesso tempo guarda
all’essere e all’ente: all’ente nell’essere e all’essere attraverso l’ente) in
quel «c’è» o «si dà» (il y a) preliminare, che non era propriamente
per lui (se la questione del “proprio” avesse qui un senso) né il «c’è»
(es gibt) di Heidegger né la «datità» (Gegebenheit) di Husserl; essendo piuttosto un essere «grezzo» (brut), «selvaggio» o di «latenza»:
quello stesso che non si accontentava mai di «interrogare», con il suo
pennello, Paul Cézanne7.
E oggi? Che ne è oggi di quell’eredità senza disposizioni testamentarie? Oggi che, in più, quel «mezzo secolo» di cui (e da cui)
parlava Merleau-Ponty, non soltanto si è fatto intero ma è ormai scivolato alle nostre spalle?
Prima di avventurarci nel tentativo di rispondere a questa domanda, voglio dare la parola a Levinas, citandolo nuovamente dalla
prima pagina di un testo che ha per titolo Riflessioni sulla “tecnica”
fenomenologica (1959). Questa pagina inizia con una frase che – facendo eco a Husserl («il sogno è finito») – ci apparirà sulle prime ancor
più scoraggiante. Eccola: «La filosofia non è diventata una scienza
rigorosa…».
Levinas vuole qui subito chiarire come l’ambizione di Husserl (di
cui cita in trasparenza il titolo di un’opera del 1911, La filosofia come
scienza rigorosa, appunto) di rifondare sulle «fondamenta sicure» della
fenomenologia l’intero sapere scientifico (anzi l’intera conoscenza) sia
fallita. E in fondo non c’interessa più. Di questo fallimento tuttavia
– ci sarà detto tra un istante – resta qualcosa, una sorta di «tecnica»:
parola che, fin nel titolo del suo saggio, Levinas scrive tra le virgolette di un’epoché fenomenologica.
La filosofia non è diventata una scienza rigorosa, perseguita da un
gruppo di ricercatori, e capace di pervenire a dei risultati definitivi.
Molto probabilmente, la filosofia si rifiuta a queste modalità della
vita spirituale. Ma alcune delle speranze husserliane si sono realizzate. La fenomenologia unisce alcuni filosofi, ma non nello stesso modo
8
in cui il kantismo univa i kantiani o lo spinozismo gli spinoziani. I
fenomenologi non si ricollegano ad alcune tesi enunciate formalmente da Husserl, né si dedicano esclusivamente all’esegesi o alla storia
dei suoi scritti […]. Il loro accordo consiste nel fatto di affrontare le
questioni in un determinato modo, e non invece nel fatto di aderire a
un certo numero di proposizioni date. Presentando la fenomenologia
husserliana come un metodo ci limiteremmo a insistere su un luogo
comune. Ma non è questo il nostro obiettivo (LEVINAS 1949, p. 125).
«I fenomenologi non si ricollegano ad alcune tesi», scrive Levinas.
La fenomenologia non si rifà ad assiomi, a tesi o a ipotesi, a posizioni o proposizioni che ne definiscano il campo e ne costituiscano
l’architettura. Al contrario: tesi o posizioni sono ciò che essa mira a
mettere «fuori gioco», a «decostruire» e a «distruggere», come dicevano Heidegger e Husserl. Se dunque la fenomenologia non si lascia
riconoscere e non si dà a conoscere a partire da «un certo numero di
proposizioni date», se il suo profilo non emerge dal riconoscimento
di «alcune tesi», che cos’è, allora? È forse un «metodo»? È questa la
seconda questione posta dal testo.
Che la fenomenologia costituisca un «metodo» è, ci dice Levinas,
«un luogo comune». Il che significa che si tratta di una cosa tanto
genericamente indubitabile (ogni disciplina comporta un metodo e
in qualche senso lo è) quanto imprecisa e inconsistente. Lo vedremo
tra non molto. Prima, però, ritorniamo a una questione rimasta in
sospeso: la questione dell’“oggi” (oggi, dopo il naufragio del sogno
di Husserl... e di molti altri).
Anche questa domanda ha una storia fenomenologica. È ancora
una volta, e ancora una volta l’ho scoperto dopo, una citazione. Si
trova in un breve testo di Martin Heidegger scritto nel 1963 e intitolato Il mio cammino di pensiero nella fenomenologia. E qui sentiremo
risuonare note ancora più desolate di quelle che abbiamo ascoltato
dai testi di Merleau-Ponty e Levinas.
Questo scritto, insolitamente quasi autobiografico, narra per
grandi stazioni alcune delle tappe del «cammino di pensiero» percorso da Heidegger «nella» fenomenologia, e dalla fenomenologia
nel cammino di pensiero di Martin Heidegger. A differenza di quan9
to ho fatto con Merleau-Ponty e Levinas, non cito questa volta le
prime frasi, bensì l’ultimo capoverso del testo, che inizia proprio con
la domanda: «E oggi?».
«E oggi?», si chiedeva Heidegger nel 1963. E, ricalcando e invertendo l’ordine husserliano degli inizi e della fine, rispondeva così:
L’epoca della filosofia fenomenologica sembra essere finita. La si ritiene già come qualcosa di passato, che può essere caratterizzato solo
storiograficamente accanto ad altri indirizzi filosofici. Ma la fenomenologia in ciò che le è proprio non è affatto un indirizzo filosofico. Essa è la possibilità del pensiero – possibilità che si modifica
a tempo debito e solo perciò permane come tale – di corrispondere
all’appello di ciò che si dà a pensare (dem Anspruch des zu Denkenden).
Se la fenomenologia è così esperita e salvaguardata, allora può sparire come voce filosofica a favore della cosa del pensiero (der Sache des
Denkens), la cui manifestatività (Offenbarkeit) resta un arcano (Geheimnis) (HEIDEGGER 2007, pp. 196-197).
In explicit a queste parole, Heidegger ha poi aggiunto un’Appendice 1969, che cito per intero:
Nel senso dell’ultimo paragrafo già si dice in Essere e tempo (1927), p.
38: “L’essenziale per essa (per la fenomenologia) non sta nell’essere
reale come ‘corrente’ filosofica. Più in alto della realtà si trova la
possibilità. La comprensione della fenomenologia consiste esclusivamente nell’afferramento di essa come possibilità” (HEIDEGGER 2007,
p. 197).
Di queste formulazioni heideggeriane voglio qui sottolineare due
aspetti. Il primo: la fenomenologia non è un «indirizzo» filosofico
(come tale suscettibile di «essere caratterizzato solo storiograficamente») ma una «possibilità del pensiero» la cui «comprensione»
consiste «esclusivamente» nell’afferrare (Ergreifen) questa stessa possibilità. Il secondo: la possibilità di pensiero in cui consiste «permane» solo se di tempo in tempo («a tempo debito», scrive Heidegger)
«si modifica».
Soffermiamoci sul primo aspetto. Se la fenomenologia non è un
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indirizzo filosofico, se non è un metodo ma una possibilità, quale è il
suo titolo o il suo principio?
Questo principio, come scriveva Heidegger negli anni venti, è
quello
secondo il quale si considerano e si elaborano gli oggetti filosofici
così come essi si mostrano. È dunque la tendenza a incontrare le
cose stesse, a metterle allo scoperto di fronte ai preconcetti, ai coprimenti tradizionali e ai problemi posti troppo in fretta e carichi
di pregiudizi. La tendenza autentica alla fenomenologia è: alle cose
stesse (HEIDEGGER 1976b, pp. 23-24).
Alle o verso le cose stesse! (zu den Sachen selbst!) era il motto dell’insegnamento filosofico di Husserl che Heidegger ha fatto suo a
modo suo – come vedremo, e come capiterà a tutti i filosofi che si
sono ispirati al «principio» della fenomenologia. Quel titolo di Husserl, dopotutto, non è che l’insegna che accompagna l’impresa stessa
della filosofia. E in questo senso, come precisa Heidegger, «non è una
novità, bensì una delle molte ovvietà presenti nella filosofia».
Senza dimenticare che le ovvietà sono quanto di più problematico
ci sia (lo dicevano sia Husserl che Heidegger), le ultime formulazioni
che ho citato ci istruiscono sul fatto che la fenomenologia è qualcosa
che si apprende e si comprende solo se si pratica o si fa, solo praticandola e facendola (eundo assequi, come scrive Heidegger dottamente in
latino nella raccolta di scritti In cammino verso il linguaggio: HEIDEGGER
1985a, p. 135). È, insomma, un modo radicale di fare esperienza.
Come per Husserl, anche per Heidegger (almeno all’inizio o
di principio), il motto “alle cose stesse!” definisce la fenomenologia come quel gesto o quell’atteggiamento di pensiero che mira a
apophainesthai ta phainomena: a «lasciar vedere da se stesso ciò che si
manifesta, così come si manifesta da se stesso», come leggiamo in
Essere e tempo (HEIDEGGER 1977, p. 50). Per la fenomenologia, il «fenomeno» non è un insieme di sensazioni comunque accolte o raccolte. Le sensazioni annunciano qualcosa e il fenomeno è appunto quella
cosa, la «cosa stessa», appunto, nel «come» del suo darsi. Un esempio
un po’ didascalico: noi non udiamo o vediamo sensazioni, noi – ora
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– sentiamo il cadere delle ghiande sulla vela del tetto, udiamo il tuono nel cielo e il picchiettare della pioggia, la sirena dell’ambulanza
che sfreccia in via Nomentana, il cellulare che squilla nell’aula affollata…). Naturalmente, resta da capire quale sia la via o lo sguardo
– e se ve ne sia uno – in grado di donarci il fenomeno in questa sua
«datità assoluta», come diceva Husserl.
Per introdurci nel secondo aspetto toccato nella precedente citazione heideggeriana (la questione delle modificazioni e del loro «a
tempo debito»), comincerò col dare la parola a un filosofo e a un’opera a noi molto vicini. Nella sua Fenomenologia materiale (1990), Michel Henry scriveva:
la «cosa» della fenomenologia (o del «pensiero»). Con una precisazione importante, che consegue alla riformulazione heideggeriana della
«manifestatività» come a-letheia (come dis-velamento, non-ascosità
o il-latenza). E cioè che – come Heidegger diceva del resto già in
Essere e tempo – la «cosa» che la fenomenologia deve «lasciar vedere» è
«qualcosa che innanzitutto e per lo più non si manifesta» (HEIDEGGER
1977, pp. 50-51). Physis kryptesthai philei, diceva Eraclito: la natura
– e cioè l’essere, come “traduce” Heidegger – ama nascondersi.
Nel ripercorrere il suo cammino nella fenomenologia, Heidegger
ci racconta come, mentre si affaticava con i suoi studenti sulle Ricerche logiche di Husserl, ebbe il «presentimento» che
Il rinnovamento della fenomenologia non è possibile oggi che a una
condizione: a condizione che la questione che la determina interamente, e che è la ragion d’essere della filosofia, sia essa stessa rinnovata. Non allargata, corretta, emendata, ancor meno abbandonata
per un’altra, ma radicalizzata in maniera tale che ciò da cui tutto
dipende se ne trovi sconvolto e che, a causa sua, tutto in effetti sia
cambiato (HENRY 1990, p. 61).
quello che per la fenomenologia degli atti di coscienza si compie
come l’auto-manifestarsi dei fenomeni è pensato in modo ancora più
originario da Aristotele e dal pensiero dell’esserci greco nel suo complesso come Aletheia, come la non-ascosità (Unverborgenheit) dell’essente-presente (des Anwesenden), come il suo disvelarsi (Entbergung),
il suo mostrarsi (sich-Zeigen). Ciò che le ricerche fenomenologiche
hanno riscoperto come l’atteggiamento fondamentale del pensiero si
mostra come il tratto fondamentale del pensiero greco, se non addirittura della filosofia come tale (HEIDEGGER 2007, p. 194).
Qual è, per Henry, la «questione» che determina interamente
la fenomenologia? Se qui la sua risposta resta pur sempre quella di
Husserl e di Heidegger (la «manifestatività» o la «fenomenalità»
stessa dei fenomeni, il «modo della loro donazione»), per Henry tutto sta nella via da seguire per raggiungere quel «darsi» delle cose
stesse; una via che egli intende radicalizzare sia rispetto alla prospettiva husserliana (che, attraverso le varie riduzioni, doveva condurre all’auto-manifestarsi dei fenomeni a una coscienza), sia rispetto a
Heidegger, che pensava di attingerlo lungo il cammino che doveva
condurre alla «comprensione dell’essere» (HEIDEGGER 1975, p. 19).
Percorrendo questo cammino – ricordiamolo – Heidegger ritroverà nell’aletheia di Aristotele e dei Greci un «luogo» di interrogazione ancora più profondo e più nativo di quelli aperti dalla filosofia
fenomenologica del maestro; e nell’ontologia, o meglio nel pensiero dell’essere, la possibilità di cogliere quel manifestarsi originario,
quella datità assoluta o quello es gibt che non ha mai smesso di essere
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Se per Husserl il gesto inaugurale della fenomenologia consisteva
nel «ridurre» l’atteggiamento naturalistico e obiettivistico dei saperi
tecno-scientifici per ritrovare al suo fondo (o disseppellire nella sua
origine dal «mondo-della-vita» e dalle sintesi passive e pre-categoriali) quello sguardo fenomenologico originario che apriva alla «vita
trascendentale» e ai «vissuti» (Erlebnisse) nei quali le oggettività e
le idealità si costituiscono come «correlati intenzionali» di una coscienza; per Heidegger la riduzione o l’epoché (una parola che scomparirà ben presto dal suo lessico, o si ritradurrà nel senso delle «epoche»
di una certa «storia dell’essere» come storia del suo stesso «oblio»)
consisteva piuttosto – come ci dice egli stesso – nel «distogliere» lo
sguardo fenomenologico dal «coglimento dell’ente» per volgerlo alla
«comprensione dell’essere» (HEIDEGGER, 1975, p. 19). Un orientamento o un disorientamento in cui l’«intenzionalità» husserliana si
riformula e si risolve interamente in «temporalità»: non però come
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«flusso temporale» di vissuti dati a un «ego» o a una coscienza, ma
come ciò che carattereizza da parte a parte l’«in-essere» (l’essere-nelmondo) «proprio» di quell’ente (l’esserci) la cui «essenza» non è che
«esistenza», trascendenza, ekstasis, apertura all’essere e alla «differenza» essere-ente. Da qui il suo programma di «decostruzione» e
«oltrepassamento» della metafisica umanistica e soggettivistica.
Se per Merleau-Ponty la riduzione fenomenologica – in quanto
compito infinito o “analisi interminabile” – apre all’orizzonte di un
«c’è preliminare» che ricorda e richiama tanto il «mondo-della-vita»
(la Lebenswelt) di Husserl quanto l’«essere-nel-mondo» (In-der-Weltsein) di Heidegger (ma non è né una cosa né l’altra); apre cioè a quella
«carne» del visibile «foderata» di «invisibile» in cui il mio corpo
come «senziente» (quel «punto-zero», come lo definiva Husserl, di
ogni mio orientamento nello spazio, di ogni affezione e percezione,
di ogni agire e patire) e le cose (in quanto «sentite») formano, non
tanto una «correlazione» (intenzione-intenzionato, noesi-noema, secondo la terminologia husserliana), quanto piuttosto un plesso, un
«chiasma», una «reversibilità» (quella stessa che Husserl aveva magistralmente indagato nel secondo volume delle Idee, e che MerleauPonty ripete qui a modo suo); per Michel Henry una riduzione compiuta fino in fondo (e cioè una apertura più originaria del campo della
«manifestatività» dei fenomeni) ci conduce – al di qua non soltanto
delle sintesi passive e dell’ultimo lembo dell’intenzionalità estatica
husserliana, ma anche della donazione d’essere, dell’es gibt Sein («si
dà essere») di Heidegger – alla pura «immanenza» della vita patica e
inestatica (che, alla fine, costituisce per lui l’unica trascendenza autenticamente pura: il mistero dell’Incarnazione).
Un’impostazione rispetto a cui – controfirmando in modo originale nozioni husserliane e heideggeriane – Jean-Luc Nancy prenderà
nettamente le distanze; dato che a suo giudizio – dissolvendo ogni
«estasi» (come limite allo scavo e al reperimento di un’immanenza assoluta e assolutamente sentita) – l’«immediazione» e il «pathos-con»
di Henry non possono che perdere di vista proprio ciò che intendono
attingere in modo originario: e cioè quella «fenomenologia della comunità» di cui Michel Henry voleva mostrare il sorgere immanente
– al di qua sia della relazione trascendente ego/alter ego di Husserl sia
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dell’«essere-con» dell’esserci estatico di Heidegger. In quanto suppone una costituzione singolare/plurale, il «cum» della comunità
di Nancy, come del resto già l’«essere-assieme» di Hannah Arendt
(ARENDT 1958, p. 127 sgg.), non si pensa senza limite, distinzione,
trascendenza e – alla fine – «estasi» (NANCY 1986, p. 25 sgg).
E in questa storia di fedeltà infedeli o di infedeltà fedeli, vorrei
ricordare, sulla linea della questione dell’«essere-assieme» e della
socialità umana, la conversione del paradigma onto-fenomenologico
operata dalla filosofia di Levinas. Qui il fenomeno o l’es gibt originario
non sarà più quello dell’essere né della carne del mondo, non sarà più
quello dei vissuti trascendentali di coscienza né della vita nella sua
immediazione patica – ma: di «altri». Che non si darà come «datità»
o «donazione» – e quindi non si darà affatto – ma come «appello».
Altri, per Levinas, non è un «fenomeno», ma l’«enigma» di un volto
che non vedo e che mi chiama nella singolarità e unicità del mio
nome. Eppure...
Eppure, anche questa parodia muove – come Levinas ha sempre
riconosciuto – da intonazioni husserliane. Anche quest’ultima iperbole – che piega la fenomenologia all’«altrimenti» (all’«altrimenti
che essere»: niente di meno); che ne riscrive la prosa («fuori») del
mondo, fino a offrirsi come un’alternativa alla fenomenologia o come
una «fenomenologia alternativa» (come l’ha definita Paul Ricoeur)
– ha le sue radici – radicalizzate o sradicate – nel «problema dell’esperienza dell’estraneo» e della «costituzione dell’alter ego», a cui
Husserl aveva dedicato le formulazioni più nuove e più audaci contenute nelle conferenze parigine del 1929 che hanno dato origine al
suo testo delle Meditazioni cartesiane (la cui prima edizione, lo ricordo, è proprio quella curata e tradotta in francese da Gabrielle Peiffer
e Emmanuel Levinas e pubblicata a Parigi nel 1931).
Fenomenologia alternativa... forse la fenomenologia non è mai stata
altro – e dall’inizio: era questo il sogno del «filosofo»? Un’alternativa
all’obiettivismo e agli irrigidimenti concettuali della metafisica ma
anche e, anzi, prima di tutto e soprattutto a se stessa, di se stessa:
un’auto-sospensione di sé e delle sue chiusure iscritta nei suoi statuti
e istituti più profondi. Rileggendo Levinas giusto nel momento dell’Addio, Derrida lo nota proprio a proposito della questione dell’altro
15
(e, tutt’uno con questa, del tempo). È qui in causa un «fuori causa»
estremo: in Levinas, certo, ma già anche in Husserl («senza che egli
ne prendesse atto», precisa Derrida); un’«interruzione della fenomenologia da parte di se stessa»:
un’epoché che, ancor più e ancor prima di essere un’epoché fenomenologica, è un’epoché della fenomenologia. [...] La fenomenologia
impone a se stessa una simile interruzione. La fenomenologia si interrompe da se stessa. [...] L’interruzione non si impone alla fenomenologia come per decreto. Essa si produce nel corso stesso della descrizione
fenomenologica, seguendo un’analisi intenzionale fedele al proprio
movimento, al proprio stile e alle proprie norme (DERRIDA 1997a,
pp. 114-116).
Quanto a Heidegger, sappiamo, che da un certo momento in poi
del suo percorso di decostruzione della metafisica, egli aveva cominciato a scrivere Sein (essere) «sotto barratura» (e a traino di quella
“parola” – essendole in debito di costituzione – ogni altra si rendeva
leggibile tra le grate di una croce). Ma l’opera del fantasma inquieto di un’epoché (l’uno e l’altra, forse, non sono che una stessa cosa)
annunciava anche per lui la stazione di discesa di quel viaggio che,
partito alla volta dell’essere, si interromperà o sospenderà con il suo
«congedo».
Due gesti, quelli che ho qui richiamato, da cui – dalla propria lettura e dalla sua riscrittura, insieme fedeli e infedeli: l’uno per l’altro –
prende avvio la «decostruzione» di Derrida. Riprendendo una parola
d’ordine di Heidegger, Derrida la fa parlare infatti con un’intenzione
diversa; e cioè – detto alla buona – non tanto in vista di un processo
di ripensamento-rimemorazione (Andenken) della verità del «logos»
filosofico smarrito negli equivoci della «ratio» metafisica, quanto
piuttosto come una messa in questione del «logocentrismo» che la
domina. Una traguardo in cui – come Derrida ci dice Sulla parola
– l’eredità fenomenologica husserliana (in quanto ci invita a «disfare
le sedimentazioni speculative» che pesano sulle nozioni e sui concetti
che ci troviamo a usare: compresi quelli della stessa eredità fenomenologica!) resta un’irrinunciabile «risorsa della decostruzione»:
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Husserl è per me colui che mi ha insegnato una tecnica, un metodo,
una disciplina, colui che non mi ha mai abbandonato. Anche nei
momenti in cui ho creduto di dover interrogare certi presupposti di
Husserl, ho cercato di farlo restando fedele alla disciplina fenomenologica. Le cose naturalmente si sono mosse, è una storia molto lunga,
ma è sempre dall’interno della lettura di Husserl che ho cercato di
trarre le risorse per questioni di rimando [question en retour] a Husserl
(DERRIDA 1999b, p. 99).
E a conferma di quanto ci ha appena dichiarato, si può notare
come l’espressione question en retour (impiegata in questo passo in un
senso tanto fedele, relativamente a una certa «risonanza postale ed
epistolare» dell’originale, quanto assolutamente infedele in relazione
agli esiti husserliani) sia la traduzione (e lo spergiuro) effettuata dallo stesso Derrida, nella sua Introduzione all’Appendice III della Crisi
(DERRIDA 1962, p. 99), della nozione husserliana di Rückfrage: quella
domanda di ripetizione o riattualizzazione dell’inizio alla quale Husserl affidava le risorse di una storia fenomenologica capace riesumare
il senso d’origine e il fine filosofico sepolti sotto l’obiettivismo e il
naturalismo dominante nei saperi scientifici regionali.
E, conferma ulteriore, sempre Sulla Parola, Derrida ci consegna
quest’altra frase:
l’avventura della fenomenologia non è certamente terminata, e le
domande che le si potranno indirizzare fanno parte della sua storia
(DERRIDA 1999b, p. 105).
Dato che siamo in vista della fine, cerchiamo di compiere un ultimo passaggio. Ponendo che sia la prima (e per noi è stato così), la
domanda sul “che cosa” porta sempre con sé quelle sull’origine e sul
“luogo”, sul dove e sul da-dove.
Seguendo Heidegger, lasciamo pure «sparire» la fenomenologia
come «voce filosofica» – nella speranza e nella promessa che, alla fine
del nostro viaggio, potremo dirci di averla «esperita e salvaguardata» almeno un po’ – e apriamo il breve scritto intitolato Che cos’è la
filosofia? (1956).
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Ci chiediamo: che cos’è la filosofia? Abbiamo già pronunciato a sufficienza la parola filosofia, ma se non utilizziamo più questa parola
come un termine scontato, e se invece ascoltiamo la parola «filosofia» a partire dalla sua origine, allora, essa suona philosophia. A questo punto, la parola «filosofia» parla greco. […] La parola philosophia
ci dice che la filosofia è qualcosa che innanzitutto determina l’esistenza del mondo greco [die Existenz des Griechentums]. Non solo. La
philosophia determina anche l’intimo fondamento della nostra storia
europea occidentale (HEIDEGGER 1956, p. 13).
La parola philosophia «ci convoca nella storia dell’origine greca
della filosofia». E non è greca soltanto la parola philosophia, e cioè
«l’oggetto della nostra domanda»; greco è anche «il modo in cui la
domanda è posta». Greca è la domanda che chiede: che cosa è questo?; che mette in questione il tì estin, l’essenza, l’esser cosa della cosa.
Doppia assegnazione: di un “che cosa” a un “dove” e di un “dove” a
un “che cosa”.
In relazione a questo tema, si dovrebbe aprire una discussione interminabile: cosa che qui non potrò certo fare. Voglio tuttavia almeno accennare al fatto che anche Husserl, alla metà degli anni Trenta
(quando la rottura con l’allievo era ormai definitivamente consumata), si muoveva in un ambito di questioni per molti aspetti prossime
a quelle che Heidegger ci ha qui presentato (e sulle quali si affaticava
da gran tempo); e, cioè – ma questa è una differenza o specificità
husserliana – nel bisogno di riattivare, al di qua di ogni «irrazionalismo» o «razionalismo» ingenuo, quella ragione di origine greca, che
l’Europa stava allora smarrendo.
Nella conferenza tenuta a Vienna nel maggio del 1935 col titolo
La filosofia nella crisi dell’umanità europea (inclusa poi nel testo della
Crisi), Husserl scriveva parole che ancora oggi ci danno da pensare:
la premessa di questa comprensione è che si riesca innanzitutto a cogliere il nucleo essenziale e centrale del fenomeno “Europa”. Per penetrare il groviglio della “crisi” attuale, era indispensabile elaborare
il concetto Europa in quanto teleologia storica di fini razionali infiniti;
era indispensabile mostrare come il mondo europeo sia nato da idee
razionali, cioè dallo spirito della filosofia. La crisi potè così rivelarsi
18
come un apparente fallimento del razionalismo. Ma la causa del fallimento di una cultura razionale sta – come abbiamo detto – non nell’essenza del razionalismo stesso ma soltanto nella sua manifestazione
esteriore, nel suo decadere a “naturalismo” e “obbiettivismo”. La crisi
dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa,
nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la
caduta nell’ostilità dello spirito e nella barbarie, oppure la rinascita
dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della
ragione capace di superare definitivamente il naturalismo (HUSSERL
1954, p. 358).
Origine greca della filosofia e origine filosofica dell’Europa. Origine della ragione come ragione europea. Chi potrebbe dubitarne?
C’è tuttavia almeno da chiedersi se comprendiamo davvero “che
cosa” diciamo quando diciamo “Grecia” o “Europa”. Di che cosa, di
quali “luoghi”, di quali geo-idealità stiamo parlando? Siamo proprio
sicuri che stiamo parlando di qualcosa? Quale sarebbe, qui, il tì estin?
Di fronte a queste essenze o a queste (pericolose) identità, la fenomenologia non si mostra qui tanto pigra quanto il discorso naturalistico, quanto la metafisica obiettivistica che essa vuole sospendere, decostruire e oltrepassare con un ritorno alle origini? Ma d’altra parte:
non sarà ancora una volta nella filosofia e nelle sue origini e tradizioni
greco-europee (anche se penso sarebbe un grave errore restringersi a
questo) che potremo sperare di trovare le risorse per mettere in questione nozioni, presupposizioni, pregiudizi così poco pensati?
È per questo motivo che mi piace mettere a confronto ciò che
Heidegger e Husserl ci hanno appena detto con alcune formulazioni
di Derrida contenute nel discorso pronunciato all’UNESCO il 23
maggio 1991, e pubblicato nel 1997 sotto il titolo Il diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico.
Piuttosto che dalla domanda sul «che cosa» («che cos’è la filosofia?»), Derrida inizia dalla questione del «dove» (ou). Dove ha luogo,
dove ha avuto luogo quella “cosa” che continuiamo a chiamare “filosofia”? Con questa domanda, per un verso assolutamente canonica,
Derrida vuole al tempo stesso mettere in questione proprio questo
“verso”; e cioè la questione stessa dell’origine e del luogo, del dare e
dell’aver luogo: per esempio, proprio della filosofia. E con ciò «sposta19
re», interrompere o sospendere lo schema lineare della sua «assegnazione» a un solo idioma o a un unico rizoma, «alla sua origine o alla
sua memoria greco-europea» (DERRIDA 1997c, p. 35).
«De-limitare» un’assegnazione (e perciò anche una «destinazione») non significa certo negare un’eredità, una memoria, un linguaggio. Come dimostra tra l’altro il fatto – lo vedremo tra un istante
– che è ancora una volta a un certo parlar greco della filosofia che
Derrida si affida per compiere quest’opera di delimitazione e di decostruzione.
Promuovere un certo «diritto cosmopolitico» alla filosofia non significa «sottrarre la filosofia alla lingua e a ciò che per sempre la lega
all’idioma»; non significa assecondare «un pensiero filosofico astrattamente universale e senza inerenza al corpo dell’idioma». Significa
al contrario
metterlo in opera in maniera ogni volta originale all’interno di una
molteplicità non finita di idiomi che producano eventi filosofici che
non siano né particolaristici e intraducibili né astrattamente trasparenti e univoci nell’elemento di una universalità astratta (DERRIDA
1997c, p. 39-40).
E un esempio di questa messa in opera si può scorgere proprio
nel fatto che, per compiere una decostruzione dello schema dell’assegnazione a un luogo e a un’origine semplice (e perciò anche all’opposizione «usurata» tra eurocentrismo e antieurocentrismo), Derrida
ricorre a una parola greca e a un idioma platonico: una parola, chora,
che dice in certo modo il «luogo»: non però come luogo naturale (topos) ma piuttosto come tratto, contrada, spaziatura, differenza.
Una parola il cui discorso (quello che la prende di mira e la fa parlare) «non procede dal logos naturale o legittimo, ma piuttosto da un
ragionamento ibrido, bastardo (logismo notho)» (DERRIDA 1993a, p.
46), come diceva Platone nel Timeo (scrivendo contro se stesso?). Una
parola, chora, attraverso cui Derrida ripete – spostandone però una
certa mira onto-logica (ma anche topo-logica, geo-grafica, geo-logica
e geo-politica) – quel dare-luogo, quella Gegebenheit o quell’es gibt
che, come condizione dell’offerta della cosa o del venire dell’evento,
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la fenomenologia non ha mai smesso di interrogare. Questo spostamento, Derrida ce lo indica così:
La filosofia non è mai stata lo svolgimento responsabile di un’unica
assegnazione originaria, legata ad un’unica lingua o al nome di un
solo popolo. La filosofia non ha una sola memoria. Sotto il suo nome
greco e nella sua memoria europea, è sempre stata bastarda, ibrida,
innestata, multilineare, poliglotta, e noi dobbiamo adattare la nostra
pratica della storia della filosofia, della storia e della filosofia, a questa
realtà, che fu anche una chance, e che resta più che mai una chance.
Quello che dico qui della filosofia, può dirsi ugualmente, per le stesse ragioni, del diritto e della democrazia (DERRIDA 1997c, p. 37).
In che cosa consiste questa chance o questa «altra via» che, per
Derrida, non ci rinchiude nella «dialettica essenzialmente culturale, coloniale o neocoloniale, dell’appropriazione e dell’alienazione»
(DERRIDA 1997c, p. 36)?
Consiste nel fatto – lo dirò con le poche parole che mi restano
– che questo modo di interrogare il «dove» della filosofia, se per un
verso è ancora un discorso sull’origine, se per un verso resta nell’orizzonte di un discorso sull’orizzonte, sulla possibilità e sulle condizioni
di possibilità, per l’altro verso ne inquieta le implicazioni genealogiche e teleologiche con la sua fenomenologia impossibile. A un’origine non semplice risponde infatti una donatività non assicurata.
Anche se dà o fa spazio, chora non dà essere; e – in quanto eccede, per
questo suo non-nulla, il lessico del dono e della proprietà, dell’essere
e del nulla – non ritorna semplicemente a una modalità dell’es gibt o
dell’Ereignis. Fenomenologia impossibile, fenomenologia dell’impossibile: perché solo l’impossibile accade; e accade – se accade – solo
cadendo fuori della possibilità, dell’«io posso» e del (suo) potere.
Questo modo di interrogare ci richiama a una certa non-originarietà
o non-preliminarità dell’interrogare (della domanda della filosofia); a
una inanticipabilità dell’evento, dell’avvenire e del venire dell’altro8.
Questo modo di interrogare ci riconduce quindi, di nuovo, alla questione del «dove». Dove siamo? Dove siamo noi?
«Ma noi chi?»9.
A queste domande non sappiamo rispondere. Esse tuttavia ci
21
chiamano e ci mettono in causa. Chiamano e mettono in causa ognuno di «noi».
So bene che con queste considerazioni non ho per nulla risposto alla
domanda su che cosa sia la fenomenologia. E forse, anche per questo,
ci vorrà un altro corso o un seminario. Non ho risposto. Ma come poter rispondere, come poterne rispondere? Come assumersi la responsabilità di definire un’“avventura” (come l’ha chiamata Derrida) che
non si apre e non accade se non a patto di dislocarsi continuamente,
di mettersi continuamente in discussione? E questo non è forse vero
già in Husserl che, di fronte a questioni come l’altro e il tempo, è
stato il primo a tradire, a spergiurare quello che lui stesso definiva
“il principio dei principi” (l’evidenza)? Già quindi a partire da colui che ne viene generalmente considerato come il padre fondatore
– ma la paternità, come dice Joyce, non è forse una legal fiction? – la
fenomenologia non ha mai cessato di ereditare se stessa, di ereditarsi,
di costituirsi come tradizione rompendo ogni volta con la sua stessa
tradizione. Ed è in questo senso che possiamo dire, ancora con Derrida, che la sua avventura non è finita10.
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Come però succede nei riti di imposizione del nome, la scelta proviene di frequente da una certa eredità di famiglia. Nel corso sulla logica tenuto nel semestre invernale 1925-26, Heidegger osservava: «L’espressione fenomenologia non
è un’invenzione di Husserl, ma è molto più antica, risalendo al tempo dell’Illuminismo; anche Kant la usa qualche volta; l’espressione è divenuta famosa grazie
all’opera hegeliana intitolata Fenomenologia dello spirito. Abitualmente si dice che
la fenomenologia odierna non abbia nulla a che fare con quella hegeliana. Le cose
non sono così semplici. La fenomenologia odierna ha, per esprimerci con una certa cautela, molto a che fare con Hegel, non con la fenomenologia, ma con ciò che
Hegel indicava come logica. Tale logica può essere identificata, con certe riserve,
con l’odierna ricerca fenomenologica» (HEIDEGGER 1976b, pp. 23-24). Diversa
la ricostruzione genealogica contenuta nel libro a tre voci La fenomenologia, dove
pure gli autori ricordano una certa protostoria illuninistica della parola “fenomenologia”; oltre a ricostruire in modo analitico la genesi del pensiero di Husserl
nel campo degli studi di psicologia descrittiva e delle ricerche logico-matematiche del tardo Ottocento. Cfr. COSTA-FRANZINI-SPINICCI 2002, pp. 5-36 e oltre.
La nascita, soprattutto milanese, di una scuola fenomenologica italiana è ben documentata, nel testo e attraverso i riferimenti bibliografici, in COSTA-FRANZINI-
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SPINICCI 2002 (specie pp. 252-258). Gli autori sono del resto eredi e continuatori
di quella scuola illustrata da filosofi come Antonio Banfi, Enzo Paci, Sofia Vanni
Rovighi, Giovanni Piana... Una storia della diffusione della fenenomenologia in
Europa richiederebbe una ricerca a parte.
L’espressione «fraseggio» – con cui Levinas intende indicare, a me sembra, la cellula melodica, e forse anche il ritmo, l’andamento, l’ispirazione e la respirazione
del discorso della fenomenologia – si trova in LEVINAS 1949, p. 125. È quasi superfluo sottolineare il carattere non soltanto selettivo ma in gran parte arbitrario
e in qualche caso poco ortodosso della collezione di lemmi fenomenologici che
compongono questo libro, e – cosa che in qualche parte ne è un riflesso – il poco
spazio concesso ad autori come Eugen Fink, Jean-Paul Sartre, Paul Ricoeur e
tanti, tanti altri...
Agli effetti di polifonia o polilalia si possono accostare anche le variazioni sul
tema di alcune voci: psyche/anima, physis/natura. Anche se meno espliciti, i raddoppiamenti sono però molti di più.
P. Celan, Der Meridian; tr. it. a cura di G. Bevilacqua in La verità della poesia. Il
meridiano e altre prose, Einaudi, Torino 1993, p. 20.
Sulle difficoltà di questa «riduzione» (già intravista da Husserl proprio nelle sue
Lezioni) o su quelle contenute nel tentativo speculare (caratteristico di Essere e
tempo di Heidegger) di «derivare» il tempo obiettivo dalla temporalità fenomenologica hanno posto l’accento, in diversi luoghi, sia Merleau-Ponty che Derrida. Ma è stato Paul Ricoeur, con i suoi tre volumi di Tempo e racconto, a dedicare
alle «aporie del tempo» la riflessione più grande. Cfr. RICOEUR 1983, RICOEUR
1984 e RICOUER 1985.
Cfr., tra i numerosissimi contributi dedicati dall’autore alle opere di MerleauPonty, M. Carbone, La visibilité de l’invisible. Merleau-Ponty entre Cézanne et Proust,
Georg Olms Verlag, Hildesheim 2001.
E si vede quanto, su entrambi i punti (la non-preliminarietà dell’interrogazione e l’inanticipabilità dell’evento), questo modo di interrogazione sia marcato
e smarcato da quello di Heidegger. Dell’Ereignis come «evento appropriante»
Heidegger non mancava mai di sottolineare – proprio come nell’«ex-appropriazione» di Derrida – il complementare movimento «dispropriante» (dell’Enteignis). E tuttavia in lui – lo dico senza poterlo qui argomentare – il ritorno al
proprio (all’essere, al pensiero o alla loro identità) resta il tratto decisivo. Anche
se non ha origine in se stessa, ma in un certo «ascolto» e in una certa pietas del
pensare, l’origine della domanda e della questione non è mai, per Heidegger,
nell’altro. La domanda non è mai la domanda dell’altro.
La domanda: «Ma noi chi?» conclude il saggio di Derrida Fini dell’uomo; ed è l’ultima di una serie di questioni aperte di cui voglio citare il contesto più prossimo:
«Dobbiamo intendere la vigilia [veille] come la guardia montata nei pressi della
casa o come il risveglio [éveil] al giorno che viene, del quale siamo alla vigilia?
C’è un’economia della vigilia? Noi siamo forse tra queste due vigilie che sono
anche due fini dell’uomo. Mai noi chi? (DERRIDA 1972a, p. 185).
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FERRARIO 2006, p. 263. Riscritta in occasione della pubblicazione, questa Introduzione riproduce a grandi linee quella da me tenuta il 9 marzo 2006 all’inaugurazione del seminario che ha dato origine al presente libro.
ALTERITÀ
di Fabio Schiappa
1. Estraneità e privacy
Nel corso della storia della fenomenologia l’interrogazione intorno all’alter ego è apparsa come una decostruzione incessante dei
confini teoretici ed etici, condotta in nome di un intreccio insolubile
tra le norme egologiche da una parte e l’etica della responsabilità
(la «giustizia assoluta» o il «diritto originario») dall’altra. Le diverse prospettive fenomenologiche sul tema dell’alterità testimoniano
di una ricorrente difficoltà a fissare margini netti tra un territorio e
l’altro e di un’ambiguità di fondo degli elementi in essi contenuti.
Come scrive Jacques Derrida in Violenza e metafisica: «Questo significa non solo che l’etica non si dissolve nella fenomenologia, né vi si
sottomette; essa vi trova il suo senso proprio, la sua libertà e la sua
radicalità» (DERRIDA 1967b, p. 153). Il destino dell’analisi che si
avventura lungo questi sentieri consiste nel rendere manifesta una
duplice impossibilità: quella dell’ego d’essere meramente «originario» e «trascendentale» e quella da parte dell’alterità di promuovere
un primato etico assoluto e scisso da ogni vincolo. Le questioni del
mondo, della comunità intersoggettiva e dell’alterità trattate nella
V Meditazione cartesiana, fanno da cornice alla preoccupazione di af24
25
fermare ciò che potremmo chiamare “normalità”. In Husserl l’altro
è «normale» perché è saldamente ancorato all’ego. Uso il termine
“normale” perché considero il vincolo tra l’Altro e l’Io come una
forma d’istituzione di norme o come un processo di codificazione. La
costituzione dell’Altro si sviluppa attraverso un continuo legiferare
da parte dell’ego che esporta e impone il suo senso. L’Io produce norme, è sempre un “principio di normalizzazione”. L’Altro resta nell’eco-nomia, cioè nella legge dell’oikos (della casa), e per molti aspetti
lo possiamo collocare in una zona che potremmo definire “l’interno
dell’esterno” dell’ego. Ripercorriamo quindi, per prima cosa, le fasi
più significative della costituzione fenomenologica dell’alter ego così
come Husserl le indica nella V Meditazione.
Il fine indiscutibile a cui mira Husserl è quello di determinare il
senso intenzionale che dà corpo all’alterità. La necessità imposta dallo
scopo a cui tende tutta la ricerca fenomenologia risulta essere quella
di giungere all’evidenza apodittica e alla purezza trascendentale dell’intenzionalità riferita all’estraneo. Nel caso specifico dell’estraneità,
tuttavia, appare subito chiaro che questi requisiti metodologici fanno difetto. L’Altro si delinea da subito come una zona d’ombra. Non
è un caso che Husserl, prima di ogni riduzione, cataloghi la sfera dell’estraneità mondana come ambito trascendentalmente secondario e
non originario. Il discrimine fondamentale è rappresentato dal piano
dell’«autodatità» inclusa in ciascuna esperienza originaria. Esiste, a
detta di Husserl, un momento esperienziale in cui l’ego si autopercepisce trascendentalmente come ego sum. Tale momento rappresenta
un’evidenza apodittica di cui fanno parte la vita universale dell’Io e
l’autocostituzione dei suoi Erlebnisse. Questo piano è il nocciolo duro
dell’analisi, è il centro di comando da cui si dirama la vita intenzionale dell’Io e la sua opera di dispensazione o donazione di senso
(Sinngebung). Al suo interno l’Io è «corpo animato» (Leib), una “dimora” in cui governa, amministra e detta legge. L’intenzionalità che
caratterizza l’estraneo è invece indiretta. Il darsi dell’estraneo non è
né completo né evidente come invece lo è, almeno idealiter, l’autodatità dell’ego sum. In pratica: mentre per l’ego gli atti di coscienza che
esplicano un’esperienza corrispondono e si identificano coi momenti
essenziali della coscienza stessa (cioè coi momenti autocoscienziali),
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nel caso dell’Altro, gli atti coscienziali non garantiscono una datità
conclusa e presente, ma si strutturano sulla base di un’intenzionalità
aperta o «indiretta». Secondo Husserl la forma regina d’intenzionalità indiretta è quella delle sintesi passive. Più precisamente, nel caso
dell’alterità, Husserl parla d’empatia o enteropatia (Einfühlung). Non
potendo avere l’Altro in «carne ed ossa» (leibhaftig), immediatamente
presente all’ego, l’Altro è ricostruito sia attraverso sintesi successive
che non si esauriscono mai, sia sulla base di un senso derivato dalla
sfera egologica originaria. Tanto l’alterità quanto il presente puntuale rappresentano i punti più problematici e al contempo più fecondi
dell’indagine fenomenologia. Proprio perché non si dà alterità nel
presente puntuale (bensì solo attraverso un’operazione di ricostituzione), tale presenza dell’Altro sarà sempre una presenza secondaria,
cioè una com-presenza. Questo discorso vale sia per la «percezione»
dell’estraneo sia per la sua «presentazione». Nel primo caso, l’Altro si «ap-percepisce» sulla base di una trasposizione percettiva che
proviene dal mio corpo, dall’autoappercezione del mio corpo; nel secondo caso, proprio in quanto non si può avere presenza diretta dell’esteriorità, essa è resa com-presente. All’ego non si dà mai alterità
da sola, ma sempre in «accoppiamento analogico» con l’ego, quindi
sempre all’interno di un’unità di somiglianza. Il processo di ricostruzione dell’alterità, sia nel momento della percezione sia in quello della presentazione, non potendo passare attraverso un’intuizione pura,
si realizza per mezzo di un’attività sintetica in cui è implicato un duplice lavoro di riempimento e di svuotamento intenzionale. L’alterità
rappresenta per l’ego un orizzonte vuoto. L’orizzontalità dell’Altro è
il frutto del senso intenzionale derivato dal processo di codificazione
dell’ego sum. Sarà quest’ultimo a fornire il fondamento e il quadro
dell’attività sintetica. In altri termini, lo svuotamento e il riempimento intenzionali avvengono dietro la regia del senso intenzionale
fornito dall’ego sum. L’alter ego non è mai pienamente raggiunto; ad
essere raggiunta, attraverso un incessante e indefinito meccanismo di
conferme, sarà una sempre provvisoria rappresentazione di esso:
Considerando l’esperienza dell’estraneo, è chiaro che il processo di
riempimento e verifica non può avere successo che mediante nuo27
ve appresentazioni trascorrenti in concordanza sintetica e secondo
il modo in cui le appresentazioni debbono il loro valore d’essere al
nesso di motivazioni che ha sempre le sue presentazioni appartentive, per quanto mutevoli (HUSSERL 1950a, p. 134).
In questo frangente è all’opera la sintesi passiva. Quando un oggetto non ci è dato «in carne e ossa» attraverso una datità da subito
evidente esso viene appercepito o «appresentato» all’interno di un
processo conoscitivo come un’«approssimazione fluente» (HUSSERL
1966b, p. 53). Nel caso dell’alter ego:
Il carattere d’essere dell’estraneo si fonda su questo processo in cui
l’originalmente irraggiungibile è raggiunto confermativamente
[…] Esso è dunque pensabile solo come analogo dell’appartentività.
Ha luogo necessariamente, in virtù della sua costituzione di senso,
come modificazione intenzionale del mio io che è stato il primo a
oggettivarsi, cioè del mio mondo primordiale. L’altro ha fenomenologicamente luogo come modificazione di me stesso (HUSSERL
1950a, p. 135).
Occorre notare come il senso intenzionale che funge da quadro
ha il suo primato non in quanto contenuto significativo o discorsivo,
bensì in quanto senso cronologicamente precedente e formalmente
più puro rispetto al «senso alter ego». Ciò vuol dire che la differenza
tra ego e alter ego non è una differenza contenutistica. Essa risiede
nella distanza cronologico-formale che intercorre nel darsi dei vissuti
intenzionali:
Ma l’esplicazione è sempre originale quando sul piano dell’esperienza originale di sé dispiega l’oggetto esperito stesso e lo porta al
livello di quell’autodatità che in questo caso è quanto di più originario possa pensarsi […] in assoluta evidenza apodittica emergono
solo, mediante l’autoesplicazione, le forme universali di struttura
in cui io sono come ego […] Tra queste stanno […] i modi d’essere
sotto forma di una certa vita universale in generale o sotto forma di
costante autocostituzione dei suoi Erlebnisse propri come momenti
temporali entro il tempo universale (HUSSERL 1950a, p. 126).
28
Ad essere problematico è il modo in cui l’ego coglie lo scarto, la
distanza tra l’autodatità dei vissuti che lo qualifica come ego sum puro
e il modo in cui si esplicano i vissuti relativi all’alter ego. La distanza
formale si coglie solo se si ammette già da subito una pre-sintesi,
un quasi-quadro all’interno del quale l’alterità è già evocata (forse
in maniera spettrale) e posta in relazione all’Io. È quindi del tutto
plausibile sostenere, come scrive Edoardo Ferrario, che: «L’altro […]
è già in me; è in me prima di me o del “me”. Quindi non è veramente
in me» (FERRARIO 2004, p. 104). È legittimo sostenere altresì che il
quadro sintetico non è posto ai margini dell’ego, ma è assai profondo,
tanto profondo da contaminare la sfera appartentiva (Eigenheitsphäre)
dell’ego puro. Potremmo considerarlo non soltanto come orizzonte
esperienziale ma anche come “verticalità abissale” posta nel cuore
dell’Io. Siamo quindi di fronte ad un doppio movimento: lo sforzo
d’allontanamento dall’Altro coincide con il tentativo d’adeguamento
dell’Altro all’Io. Cito Derrida dal saggio L’ospitalità:
più si codifica, più si traspone in linguaggio cifrato, più si produce
la iterabilità operativa che rende accessibile il segreto da proteggere. Posso nascondere una lettera solo separandomene e dunque abbandonandola all’esterno […] rendendola un documento accessibile
nello spazio in cui viene collocata (DERRIDA 1997b, p. 76).
Ciò è possibile soltanto attraverso una “tecnica mediatica”, ossia
per mezzo di una formalizzazione il cui codice è lo strumento che
pone in essere la separazione, ma anche ciò che, una volta decifrato,
consente l’acceso a ciò da cui ci siamo separati. Il doppio movimento
che abbiamo illustrato non avrebbe alcuno spazio senza ammettere
quella “porosità” costitutiva dell’Io che ritorna sempre, sin dal principio, ad inficiarne la purezza; ritorna prepotentemente alla ribalta
ancor prima della costituzione della “roccaforte” appartentiva dell’ego
sum (e dell’«io posso»), prima della forma e del senso e della legge.
Scrive ancora Derrida:
per costituire lo spazio di una dimora abitabile e di una privacy,
occorre anche un’apertura, una porta e delle finestre, occorre lasciare
29
libero un passaggio per lo straniero […] La monade della privacy
deve essere ospitale per essere ipse, il sé a casa propria, la privacy abitabile nel rapporto del sé con il sé (DERRIDA 1997b, p. 74).
La “porosità” dell’Io rivendica per sé il primato e il ruolo di punto
di partenza di ogni analisi intorno alla tematica ego/alter-ego.
2. «Approssimare il prossimo»: il flusso dei vissuti tra «spazio liscio» e
«spazio striato»
Come abbiamo visto, la problematicità della purezza della sfera
appartentiva non riguarda solamente il concepimento dello scarto
formale tra l’ego e alter ego, ma coinvolge anche la temporalità. Il
presupposto fenomenologico dell’«evidenza apodittica» necessita
della presenza pura come «essere in carne ed ossa» dell’ego. Husserl
deve dare conto della presenza piena e originaria all’interno della
quale devono trovare posto, nello stesso momento puntuale, l’Io e
il Sé, coscienza e autocoscienza. E questo è un compito cui la fenomenologia non può assolvere: alle sue ricognizioni sfuggirà sempre
l’origine semplice dell’ego, dell’Altro e del tempo. Secondo quanto
affermato da Husserl in Per la fenomenologia della coscienza interna del
tempo, l’unità coscienziale che determina un’identità o una simultaneità precede sempre la costituzione temporale dell’ora o dell’adesso,
dell’ad ipsum tempus (HUSSERL 1966a). L’unicità del punto in cui si dà
simultaneità o identità deriva dall’omogeneità formale caratterizzante un determinato strato del flusso coscienziale. Solo grazie a questa
«omogeneità di carattere» è possibile definire come simultanea o
identica una determinata frazione temporale:
Tutti i momenti originari appartenenti a uno strato hanno lo stesso
carattere coscienziale che è essenzialmente costitutivo del rispettivo
“ora”: è lo stesso per tutti i contenuti costituiti, la comunanza del
carattere costituisce la simultaneità, l’“esser-nello-stesso-ora” (HUSSERL 1966a, p. 140).
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Viceversa, però, l’omogeneità di una parte del flusso di coscienza è
tale solo all’interno di un continuum, di uno scorrere incessante in cui
il collegamento tra molteplici vissuti permette una differenziazione
tra essi. Per questo motivo Husserl ammette che non si dà simultaneità senza successione e differenziazione temporale:
non c’è simultaneità senza successione temporale, né successione
temporale senza simultaneità, cosicché simultaneità e successione
temporale debbono costituirsi correlativamente e inseparabilmente
l’una dall’altra (HUSSERL 1966a, p. 105).
L’identità pura e la presenza pura sono dunque illusioni. L’autodatità dei vissuti che qualifica la sfera appartentiva non può fare a
meno di una differenziazione e di una complessità preliminari. Come
osserva a questo proposito Derrida: «se il presente della presenza a
sé non è semplice, se si costituisce in una sintesi originaria e irriducibile, allora tutta l’argomentazione di Husserl è minacciata nel suo
principio» (DERRIDA 1967c, p. 98). Abbiamo visto come in Husserl
la possibilità dell’evidenza apodittica nella sfera egologica è indissociabile dall’omogeneità dello strato temporale a cui appartiene. La
contestazione di Derrida muove dal fatto che non si dà simultaneità,
e quindi evidenza egologica, se non si ammette anche una certa discontinuità temporale nel flusso di coscienza. Tuttavia l’opposizione
tra omogeneità ed eterogeneità viene fatta apparire da Derrida come
una postulazione teorica mai raggiungibile di fatto. Si tratta di una
convinzione che non appartiene al solo Derrida.
Ne Il liscio e lo striato, la relazione tra continuità e prossimità irriducibile dell’eterogeneo è tematizzata da Deleuze e Guattari fuori
d’ogni schema di tipo fenomenologico. Secondo la prospettiva espressa nel testo, le analisi volte a descrivere il continuo e il discontinuo
rientrano nel novero delle descrizioni dei «sistemi complessi» e non
di certo in quello delle coppie oppositive semplici. Le indagini condotte in questo ambito non possono fare a meno di tutta una fisica
della flussione che mette da parte il linguaggio fenomenologico e
«l’intuizionismo della filosofia della luce». La meccanica del flusso è
sempre una meccanica dello «scarto minimo», cioè di una differenza
31
non ancora misurabile1. Per questa ragione Deleuze e Guattari inseriscono il flusso nel novero degli spazi lisci. Le caratteristiche fondamentali di uno spazio liscio rispetto allo striato, è quello di essere
uno spazio non-metrico, direzionale, ma non dimensionale, in cui la
traccia di una direzione coincide con lo spazio su cui essa è tracciata;
è uno spazio d’eventi e d’ecceità e non d’oggetti; è lo spazio del prossimo e non della lontananza; è lo spazio del collegamento, del “tra”
(DELEUZE-GUATTARI 1980, pp. 702-708). Lo spazio liscio non ha punti, ma passa tra i punti, non ha quindi figure e bordi e non ha nomi
(proprio come nelle Lezioni sul tempo di Husserl «vengono meno» i
nomi e le parole per definire la flussione continua dei vissuti). Sino
a questo punto le definizioni dello spazio liscio non entrano in contraddizione con le caratteristiche del flusso di coscienza husserliano.
Nel testo, tuttavia, sono continue le raccomandazioni ai lettori volte
a non sottovalutare il «coefficiente di trasformazione» implicito nel
rapporto tra i due tipi di spazio. In sostanza: secondo Deleuze e Guattari, la continuità propria dello spazio liscio implica già una certa
forma di striatura. L’atto di «approssimare il prossimo» è ciò grazie a
cui possiamo pensare il continuum del flusso e dello spazio liscio. Non
c’è continuità del flusso temporale senza l’atto di «approssimare il
prossimo» e quindi senza l’atto di striare del liscio. L’opposizione tra
liscio e striato, tra flusso e spazio identificativo-metrico non esiste se
non in astratto. In pratica, infatti, tra liscio e striato non c’è soluzione
di continuità, i due spazi sono fusi tra loro e danno origine, invece,
a rapporti complessi (DELEUZE-GUATTARI 1980, p. 698). Rompendo
inoltre con la tradizione intuizionista e con la tropologia implicata
nella metafisica della luce, Deleuze e Guattari descrivono l’atto di
«approssimare il prossimo» facendo leva su un concetto misto, ambivalente: l’haptique. Il neologismo serve a coniugare le virtù ottiche
con quelle tattili. Deleuze e Guattari parlano anche di «occhio digitale». Il motivo di ciò sta nel fatto che le caratteristiche dello spazio
contaminativo tra liscio e striato richiede delle qualità propriamente
tattili: ad esempio quella di agire progressivamente senza esaurire in
uno sguardo d’insieme lo spazio davanti a noi, di non ridurlo, dunque, ad una prospettiva monadologica (DELEUZE-GUATTARI 1980, pp.
721-722). Derrida sottoscrive e rilancia in Le toucher. Jean-Luc Nancy
32
le posizioni espresse da Deleuze e Guattari, soprattutto per affermare
di nuovo l’impossibilità di un’immediatezza originaria dell’Io e dell’Altro e per elevare a «legge strutturale» la «contaminazione» (DERRIDA 2000, p. 144). In conclusione, ogni flussione è presoggettiva,
ma nello stesso tempo metrica, e non riguarda la vista ma il tatto.
3. La «scrittura funeraria»
Alla critica dell’«intuizionismo fenomenologico», condotta attraverso l’ipotesi continuista, si può associare la decostruzione derridiana della corporalità «posizionale» di Husserl. In definitiva le due
prospettive di Derrida si completano e s’implicano reciprocamente.
Anche in quest’ultimo caso, infatti, il principio della «contaminazione» e il ruolo giocato dall’eterogeneità dell’Altro sono determinanti.
Precedentemente abbiamo visto che Husserl definisce l’ego e il
Leib come il nucleo monadico e il «grado zero» della spazialità. In
entrambe le definizioni prevale un concetto «posizionale» dell’Io
che, secondo Derrida, entra in contraddizione con un certo residuo
eteronomico sempre riemergente nelle argomentazioni di Husserl.
L’alternativa prospettata da Derrida fa leva nuovamente su un tipo
di «contaminazione» tra ego e alter ego. Si tratta dell’inglobamento
reciproco dei due termini in uno spazio unico, non sintetico, problematico, il cui statuto logico è difficile da definire. L’ipotesi di
Derrida è infatti quella di una «scrittura funeraria» in grado di sovvertire le opposizioni classiche e di scardinare l’opposizione semplice
dentro/fuori a favore di una soluzione che rifiuti ogni priorità logica
e cronologica e che, contestualmente, fornisca una valida alternativa
ai concetti di ipseità e di alterità. Questi ultimi sono considerati
da Derrida come effetti di una certa «elaborazione del lutto altrui»,
come il risultato della torsione conseguente alla costituzione di una
«memoria luttuosa». Ribaltando completamente la posizione di
Heidegger sull’essere-per-la-morte altrui, considerata dal filosofo tedesco come un’esperienza impossibile per il Dasein, Derrida afferma,
invece, come sia proprio la possibilità di pensare la morte dell’Altro
33
a determinare la piega in cui consiste ogni forma di coscienza. Sarebbe il ricordo dell’Altro a fornirci l’unico modo di avvicinarlo, anche
quando è ancora in vita. Soltanto il «saperlo mortale» mi consente di
incontrarlo, o meglio, d’incontrare la sua maschera mortuaria proprio perché non c’è modo diretto d’approcciarlo:
La parola e la scrittura funerarie non sopraggiungono dopo la morte,
ma piuttosto travagliano la vita nella forma di ciò che chiamiamo
autobiografia. E tutto ciò avviene tra finzione e verità […] La morte,
se ve ne è, intendo dire se accade o non accade che una volta, all’altro
o a sé stessi, è il momento in cui non si pone più altra scelta […] che
tra la memoria e l’allucinazione. Se la morte accade all’altro e ci accade tramite l’altro, l’amico non è più se non in noi, tra di noi […] Ma
noi non siamo mai noi stessi, e tra di noi, identici a noi, un “io (moi)”
non è mai in sé stesso, identico a sé stesso; questa riflessione speculare […] non compare mai prima di una tale possibilità del lutto […]
il self, il sé stesso non compare se non in questa allegoria luttuosa
[…] perfino prima che la morte dell’altro sopraggiunga effettivamente, come si dice, nella “realtà” (DERRIDA 1988, pp. 36-41).
Questo ripiegamento produttivo non riguarda solo l’esperienza
della morte di un’alterità esterna all’Io, ma precede ogni interiorità
e ogni esteriorità. Si tratta dell’atto costitutivo dell’Io e dell’Altro.
Per tale ragione è più corretto parlare della morte dell’Altro che Io
stesso sono. La finzione, paradossalmente originaria e costitutiva, di
una «voce d’oltretomba», che ci consente l’accesso ad ogni self o ad
ogni Selbst come alterità in me prima di me stesso, è possibile solo se
si ammette una memoria produttiva disancorata da ogni soggettività
preliminarmente posta. Derrida c’invita a pensare a una «regione
presoggettiva», fuori della temporalità lineare, in cui l’apparente
impossibilità dell’esperienza della morte altrui coincide con ciò che
la rende possibile, cioè, con l’elaborazione del lutto. Il movimento
d’andata e ritorno che si genera, dischiude lo spazio interno ed esterno e dispone l’Io e l’Altro. E, così facendo, rende possibile l’autoetero-affezione. Il processo d’identificazione di ciascuna componente
della coppia semplice Io/Altro non può fare a meno della figura senza
immagine, della maschera senza volto sempre riemergente dai mar34
gini indecidibili della «scrittura funeraria». L’origine contesa dall’ego e dall’alter ego è, dunque, quest’origine spuria e differenziale.
Senza il processo speculare e riflessivo così determinato, l’Io sarebbe
cieco e muto, non potrebbe raccontarsi; e nulla potrebbe porsi. La
possibilità di una «posizionalità», ma anche di un’ecceità o di un
evento (quali l’ego e l’alter ego) si danno solo attraverso il racconto,
cioè attraverso l’istanza supplementare, protesica e grammatologica.
Non c’è evento senza racconto. Le due possibilità, infatti, sono reciprocamente essenziali. La «scrittura funeraria» inaugura la «logica
del supplemento» che, per Derrida, è implicata in ciascuno spazio
contaminativo.
Nell’invention de l’autre derridiana si rendono visibili due aspetti
caratteristici della sua prospettiva: quello più strettamente legato ai
temi grammatologici della traccia e della lingua; quello strutturato sulla relazione etica con l’Altro, aspetto che si è andato sempre
più rafforzando nel corso degli anni e che rappresenta un momento di vicinanza con la filosofia di Levinas. La «scrittura funeraria»
di Memorie per Paul de Man è solo un esempio della prima componente, quella grammatologica, deputata alla complessa costituzione
dell’alterità. In definitiva quella proposta da Derrida in Memorie per
Paul de Man vuole essere una riformulazione dell’Erinnerung, una
rilettura della «memoria interiorizzante». In questo caso, però, il
meccanismo d’interiorizzazione è costitutivo sia dell’interiorità sia
dell’esteriorità, cioè dell’alterità. Ciò significa che l’atto dell’interiorizzazione opera inizialmente senza un interno e un esterno. La
«memoria luttuosa» rientra quindi nella nutrita schiera dei concetti «indecidibili» insieme al «Sì», dice Derrida, pronunciato da
Molly Bloom alla fine del celebre monologo che chiude l’Ulisse di
Joyce (DERRIDA 1987b, p. 73)2. È un «Sì» muto, un «atto non attivo» (DERRIDA 1988, p. 34) eppure incondizionato, che c’impegna
da subito. Si tratta dell’origine spuria d’ogni coscienza. La distanza
maggiore tra Derrida e Levinas si coglie proprio nel modo diverso
di articolare la contraddizione ego/alter ego alla figura del «Sì», cioè
alla traccia linguistica.
35
4. L’alterità in Levinas e la critica di Violenza e metafisica
A questo punto è opportuno misurare brevemente lo scarto che
la filosofia di Emmanuel Levinas ha significato rispetto alla prospettiva «posizionale» di Husserl e saggiare anche la differenza rispetto
all’«ipotesi contaminativa» proposta da Derrida. Anche per Levinas
la tematizzazione dell’alterità o dell’esteriorità deve essere in grado
di superare sia la logica oppositiva sia la sintesi dialettica. Per poter
far ciò, occorre sollecitare il contesto normativo dell’Io monadico,
individuando in esso le crepe che fanno presagire un «evento incalcolabile» e immediato. Solo una filosofia in grado di tener conto
di quest’immediatezza, che sarà anche impossibilità di codificare e
legiferare, potrà assurgere ad alternativa originale della «metafisica
dell’alterità». Evitando ogni tipo d’astrazione, che renderebbe l’altro
puro ideale o mera irrealtà, Levinas parla invece di uno spazio concreto e condiviso tra i due soggetti in questione. Il concreto manifestarsi nella realtà della radicale alterità dell’altro è il volto. Esso non
è né un’idea né un concetto né tanto meno un segno. Se per segno
si intende la capacità di rinvio da parte di qualcosa, allora il volto è
proprio ciò che non rimanda a nulla se non a sé stesso. Il volto d’Altri
è incodificabile perché autoreferenziale e quindi unico e irripetibile.
Nel mondo il cui despota è l’Io, il volto, secondo Levinas, irrompe
mettendo in discussione la su autorità:
La nozione di volto, alla quale faremo ricorso in tutta questa opera,
apre altre prospettive: ci porta verso una nozione di senso anteriore
alla mia Sinngebung e, quindi, indipendente dalla mia iniziativa e dal
mio potere (LEVINAS 1961, p. 49).
Il momento dell’Io, che (con Husserl) Levinas aveva definito come
«spazio del proprio», rispetto a cui il mondo si delinea come «ciò
che è a portata di mano» dell’Io, viene fatto seguire da un nuovo
momento: l’avvento dell’Altro. Il volto d’Altri appare esprimendo
un mistero o un «enigma» al centro della visione, un’assenza nel
cuore della presenza. Il senso di questo mistero sta proprio nel non
avere un significato afferrabile. Il senso che si costituisce nel cuore
36
della Sinngebung, di cui l’Io è fautore, è sempre il frutto di una contestualizzazione, cioè di una relazione padroneggiata dall’Io. In seguito
all’irruzione del volto si determina l’impossibilità di creare un contesto e quindi di costituire un dominio conoscitivo ed esistenziale.
L’Altro è il “fuori misura”, il “fuorilegge”: è l’“incontenibile” che
spezza ogni contesto di luminosità fenomenologica, ogni recinto conoscitivo; e spinge l’Io al di là dei margini, verso luoghi inaccessibili
alla luce intenzionale:
Il volto è significazione e significazione senza contesto […] E ogni
significazione, nel senso usuale del termine, è relativa ad un contesto: il senso di qualcosa sta nella relazione a qualcos’altro. Qui invece, il volto è soltanto per sé. Tu, sei tu. In questo senso si può dire
che il volto non è “visto”. Esso è ciò che non può divenire un contenuto afferrabile dal pensiero: è l’incontenibile, ti conduce al di là. È
in questo senso che la significazione del volto lo fa uscire dall’essere
come correlativo di un sapere (LEVINAS 1982c, pp. 99-100).
Si può affermare che, per Levinas, la «realtà» del volto è nel mondo, ma non è del mondo.
Una prima conseguenza diretta di questa teoria è la rivisitazione
del concetto di totalità intesa metafisicamente come essere. L’Unicità del volto è di gran lunga maggiore del tutto, della totalità come
essere. In quanto unico, l’Altro non partecipa ad alcun genere. Ogni
analogia si dissolve e concetti come quelli di comunità o d’umanità
divengono problematici. Levinas ammette solo l’etica come possibile
campo di relazione con l’Altro. L’abisso scavato dall’alterità radicale
del volto è il vuoto, la kenosis nel cui fondo è possibile che risuoni la
domanda, l’appello silente. La lacerazione diviene dunque la condizione di possibilità di una risposta, cioè di una responsabilità. Chi
risponde dell’altro è responsabile nei suoi confronti. La responsabilità sarà dunque la forma stessa di relazione con l’Altro, una relazione
che è radicalmente etica.
In Violenza e metafisica Derrida rimprovera Levinas di aver rifiutato
la contaminazione tra l’Io e l’Altro in nome di un’asimmetria che
precede ogni possibile discorso e non si lascia formalizzare, racconta37
re, dire. Derrida arriverà a parlare di «empirismo» levinasiano come
di una particolare «rassegnazione del concetto, degli a-priori e degli
orizzonti trascendentali del linguaggio» (DERRIDA 1967b, p. 191).
L’alterità espressa nel faccia a faccia, non è ammissibile per Derrida
perché anche il «radicalmente Altro» non è mai puro, ma sempre
inscritto in un mondo e in un linguaggio. La differenza pura è quella
impura, è cioè l’atto del differenziarsi della differenza. Atto, quest’ultimo, che è tipicamente grammatologico. Senza ammettere la narrazione auto-etero-biografica non è immaginabile la radicale differenza
dell’Altro e quindi la costruzione di un’etica della responsabilità. La
contestazione contenuta in Violenza e metafisica non verte solamente
sulla presunta purezza dell’alterità levinasiana. Connesso all’«ipotesi
contaminativa» proposta da Derrida, c’è un secondo aspetto che consiste nella critica della presunta non violenza della relazione etica.
La cifra decostruttiva del volto dell’Altro sta proprio nella capacità
d’infrangere i contesti normativi del mondo, del linguaggio, dello
Stato ecc. La natura della relazione etica non è affatto pacifica:
C’è una violenza trascendentale e pre-etica, una dissimmetria (in
generale) la cui archia è lo stesso e che permette ulteriormente la
dissimmetria inversa, la non-violenza etica di cui Levinas parla. In
effetti, o non c’è che lo stesso ed esso non può nemmeno più manifestarsi e essere detto, e neppure esercitare la violenza (infinità o
finitezza pure); oppure ci sono lo stesso e l’altro, e allora l’altro non
può essere l’altro – dello stesso – se non essendo lo stesso (di sé: ego)
e lo stesso non può essere lo stesso (di sé: ego) se non essendo l’altro dell’altro: alter ego […] Questa violenza trascendentale che non
procede da una risoluzione o da una libertà etica, da una certa maniera
di accostare o oltrepassare l’altro, instaura in effetti, la necessità di
accedere al senso dell’altro […] l’altro […] questa necessità a cui
nessun discorso può sfuggire fin dalla sua più giovane origine, questa necessità è la violenza stessa, o meglio l’origine trascendentale di
una violenza irriducibile […] è la violenza come origine del senso e del
discorso nel regno della finitezza (DERRIDA 1967b, pp. 162-163).
Il dover-essere espresso dall’etica della responsabilità o dell’ospitalità non esiste al di fuori di un processo più o meno violento di de38
strutturazione dell’orizzonte ontologico: gli orizzonti trascendentali
della realtà, del diritto, della lingua, infatti, sono bruscamente sospesi nel faccia a faccia con l’Altro. L’etica non sarebbe incondizionata
se non dovesse pervenire a una certa effettività e concretezza, se cioè
non avesse come prerogativa del proprio dover-essere il contravvenire alle regole. Proprio perché al di sopra di ogni codice e di ogni
norma, l’Altro, per definizione, è «fuorilegge» (DERRIDA 1997b, p.
55)3. Così concepita la relazione etica trova nel mondo, nel diritto e
nella lingua il suo margine esterno, cioè un luogo di appartenenza
contestato ma sempre essenziale. I due momenti, quello ontologico
e quello etico, si danno insieme e fuori del tempo. Non c’è, quindi,
prima il costituirsi di qualcosa come la coscienza e poi la sua apertura
all’esterno, all’Altro, in un atto successivo d’ospitalità. L’ospitalità è
già la verità della coscienza, cioè il riconoscersi come se stessa, il suo
identificarsi nel differimento di sé, nell’elaborazione del lutto proprio
e dell’Altro. La coscienza si scrive, è una scrittura all’opera. Derrida
parla d’«intimation» (DERRIDA 1988, p. 45), traduzione libera e suggestiva del termine hegeliano Erinnerung, che condensa il significato
dell’ordine, dell’ingiunzione etica ma anche quello dell’intimità del
di dentro, della coscienza più intima.
5. Fenomenologia e ospitalità metafilosofica
Le obiezioni sollevate in Violenza e metafisica verranno riproposte
in En ce moment même dans cet ouvrage me voici (DERRIDA 1998), testo
in cui, tuttavia, la posizione critica di Derrida viene stemperata dalla constatazione che lo sforzo filosofico di Levinas è sempre teso a
una riscrittura continua dei suoi assunti. Ciò significa che in questo
lavoro continuo di costruzione e di decostruzione del suo pensiero
Levinas guadagna una certa ospitalità metafilosofica e pre-etica ancor
prima che questa sia espressa concretamente in una teoria filosofica.
In pratica, il tentativo di ripensare le proprie posizioni, soprattutto
in Altrimenti che essere (LEVINAS 1974), riproduce le dinamiche grammatologica ed etica in cui l’apertura all’Altro (la comunità filosofica,
il mondo, il linguaggio ecc.) dà luogo a una autobiografia e a una
39
filosofia. Derrida la considera come una forma produttiva d’elaborazione del lutto, ma anche come una caratteristica strutturale del metodo fenomenologico di Levinas. Se Altrimenti che essere rappresenta
perfettamente questa auto-etero-biografia, ciò significa che Levinas
ha concesso, nel corso del tempo, sempre maggiore importanza al
concetto di traccia intesa come espressione del rinvio etico all’alterità. Ma la tendenza a lasciare il margine bianco dopo il testo, il margine di un’ospitalità allo stesso tempo filosofica e metafilosofica non è solo
una virtù dell’opera levinasiana; è, al contrario, il tratto pertinente
della fenomenologia tutta:
infedele a sé per fedeltà “all’analisi intenzionale” che Levinas rivendicherà sempre. Questa fedeltà che rende infedeli è il rispetto della
coscienza di- come ospitalità (DERRIDA 1997a, p. 116).
1
Una certa interruzione della fenomenologia da parte di sé stessa si
era già imposta a Husserl, senza che egli ne prendesse atto − è vero
−, come una sorta di necessità etica, quando si era dovuto rinunciare
al principio dei principi dell’intuizione originaria o della presentazione in persona, in “carne e ossa”. Che sia stato necessari farlo,
nelle Meditazioni cartesiane, a proposito dell’altro, di un alter ego che
non si dà mai se non per analogia appresentativa, rimanendo quindi
radicalmente separato […] ecco ciò che non è insignificante né per
la fenomenologia husserliana né per il discorso di Levinas sulla trascendenza dell’altro-discorso che, a modo suo, deriva anche da tale
interruzione (DERRIDA 1997a, p. 115).
Tuttavia, l’ipotesi d’interruzione “netta” del campo fenomenologico non appare del tutto esaustiva. Derrida considera l’origine di
quest’interruzione in termini di «contaminazione» degli ambiti teoretico ed etico e la considera come l’evento metafilosofico fondante il
metodo fenomenologico:
L’interruzione non si impone alla fenomenologia come per decreto.
Essa si produce nel corso stesso della descrizione fenomenologica,
seguendo un’analisi intenzionale fedele al proprio movimento, al
proprio stile e alle proprie norme. L’interruzione si decide in nome
dell’etica, come interruzione di sé attraverso sé. Interruzione di sé
per mezzo di una fenomenologia che in tal modo si arrende essa stessa alla propria necessità, alla propria legge, laddove quest’ultima le
comanda di interrompere la tematizzazione, e quindi di essere anche
40
2
Deleuze e Guattari sottolineano come il concetto di flusso, inteso come spazio
non omogeneo, come spazio dell’avvenimento, dell’ecceità, dei vortici, delle catastrofi, sia un’acquisizione dei Greci e, in particolar modo, di Democrito. Il
carattere dello spazio che contiene gli atomi resterebbe inevitabilemente omogeneo senza l’introduzione del clinamen, cioè, senza l’introduzione dello «scarto
minimo differenziale» in grado di garantire l’irruzione dell’eterogeneità: «Già
i Greci passavano da uno spazio striato verticalmente, dall’alto al basso, a uno
spazio centrato, dalle relazioni simmetriche e reversibili in tutte le direzioni,
cioè striato in ogni senso in modo da costituire un’omogeneità […] La striatura
così costituita ha i suoi limiti: non soltanto quando si fa intervenire l’infinito, in
grande e in piccolo, ma anche quando si considerano più di due corpi (“il problema dei tre corpi”). Cerchiamo di spiegare […] come lo spazio sfugga ai limiti
della sua striatura. A un polo vi sfugge grazie all’inclinazione, cioè attraverso lo
scarto minimo […] All’altro polo vi sfugge grazie alla spirale o al vortice, cioè a
una figura per cui tutti i punti dello spazio sono simultaneamente occupati […]
lo spazio liscio è costituito dall’angolo minimo, che devia dalla verticale e dal
vortice, che eccede la striatura. La forza del libro di M. Serres consiste nel avere
mostrato il legame tra il clinamen come elemento differenziale generatore e la
formazione dei vortici e delle turbolenze […] infatti l’atomo antico, da Democrito a Lucrezio, non è mai stato separabile da un’idraulica o da una teoria generalizzata delle flussioni e dei flussi. Non si comprende nulla dell’atomo antico se
non ci si accorge che ha per proprietà lo scorrere e il fluire» (DELEUZE-GUATTARI
1980, p. 717).
Per Derrida Joyce abbatte definitivamente la barriera eretta tra la voce che parla
nell’intimità di ciascuno e il suo scriversi: «e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere
ancora sì e allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per
prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì
dissi sì voglio Sì» (J. Joyce, Ulisse, Mondadori 2000, p. 741). Perché si possa dire
«sì» bisogna «dire sì al sì». Il «sì» deve potersi mantenere e preservare all’interno di una memoria che è già impegno scritto. Lo stesso principio vale anche per
ogni alterità e ipseità, in altri termini per poter dire “sé” occorre dire “sé” (alter
ego) al “sé” (ego). Si costituisce così un meccanismo di ripetizione macchinica
che Derrida definisce «grammofonico». La sua caratteristica più originale sta nel
ripetere a priori e al di là di ogni reale intenzione affermativa il «sì» o il “sé”.
41
3
Il «Sì» di Molly perché possa essere autentico e schietto deve potersi reiterare,
riprodursi meccanicamente e, pertanto, corrompersi, privarsi d’ogni purezza: «Il
sì dell’affermazione […] deve immediatamente e a priori confermare la promessa
e promettere la conferma. Questa ripetizione essenziale è però ossessivamente
abitata da un’intrinseca minaccia, dal parassitismo del telefono interiore che
ne è il doppio mimetico-meccanico, la parodia continua […] già sentiamo la
grammofonia che incide la scrittura anche nella voce più viva. La riproduce a
priori, in assenza di qualsiasi presenza intenzionale dell’affermatore e dell’affermatrice. Certo questa grammofonia risponde al sogno di una riproduzione che
tuteli, come sua verità il sì vivo, archiviato nella sua più viva voce […] La macchina riproduce il vivo, live, lo duplica con un automa […] tra la parola “sì”, la
parola “voce” e la parola “grammofono”, in una sequenza che dice il desiderio
di memoria, il desiderio come memoria del desiderio e desiderio di memoria»
(DERRIDA 1987b, pp. 74-75).
Qui Derrida ha analizzato con finezza la figura dello Straniero all’interno del Sofista di Platone, mettendo in luce l’intreccio antinomico di cui abbiamo parlato.
Nel dialogo platonico lo straniero è colui che chiede ospitalità e allo stesso tempo
si fa portavoce di una tesi sovversiva e irriguardosa: il parricidio di Parmenide.
Egli si permette di discutere il re, il capo della famiglia a cui chiede accoglienza;
osa contestare l’autorità del padrone della casa alla cui porta ha bussato. Egli è il
rappresentante di un’istanza etica e per questo fuori dei patti e del diritto positivo. D’altro canto, già Benveniste aveva rimarcato come nella lingua greca xenos
(lo straniero) abbia lo stesso etimo del termine xenia (patto, codice).
ANIMA
di Francesco Mischitelli
Ma se con integre membra [l’anima] s’è staccata ed è fuggita via,
sì da non lasciare alcuna parte di sé nel corpo,
donde mai i cadaveri, quando la carne è già putrida, danno vita
a vermi, e come mai una sì gran folla di esseri viventi,
senza ossa e senza sangue, brulica su per gli arti tumefatti?
Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 717-721
Ho cominciato con dei versi. Dei versi fatti di parole per introdurre un problema che potrebbe coincidere con quello della distinzione tra verso e parola, tra animale e uomo.
Anima è parola latina, prima di esser spirito, è aria, soffio, vento,
fiato, respiro.
Per Aristotele l’anima (psyche) «è come il principio degli esseri
viventi», come scrive al principio, all’inizio del De anima, «ma è difficilissimo da ogni parte e sotto ogni punto di vista raggiungere una
qualche certezza intorno ad essa»1.
Subito ha che fare con più parti, con più punti di vista… A
seguire, nel testo, sono presentate le idee di Anassagora, di Democrito, di Platone, vari punti di vista che convergono in una «de42
43
finizione mediante tre caratteri: movimento, sensazione, incorporeità»2.
Il movimento e la sensazione riportano al corpo.
«Né l’anima esiste senza un corpo né è essa un corpo»3, piuttosto
sembra essere entelechia, atto di un corpo e non definibile in sé, se
non a partire dalla descrizione delle facoltà delle quali è principio:
nutritiva o vegetativa, sensitiva, pensante.
Sotto ogni punto di vista e da ogni parte: l’anima di Aristotele è un’anima tripartita; quella del cavallo di Aristotele consta di
due parti; l’anima dell’erba del prato non può far altro che crescere e decrescere. Tutte queste forme d’anima sono mosse dallo stesso
motore: l’appetito. Solo l’anima di Aristotele può porsi il problema
della distinzione dei caratteri, delle facoltà, degli elementi, perché
solo l’anima di Aristotele ha la parte con la quale conosce, pensa e si
riconosce, ha una parte, che però è separata, l’unica indipendente dal
corpo: questa parte si chiama intelletto, già, si chiama, è l’intelletto
che si pensa e si chiama, può pensare se stesso.
Se perciò si deve proporre una definizione comune a ogni specie di
anima, sarà l’entelechia prima di un corpo naturale munito di organi. Per questo non s’ha da cercare se l’anima e il corpo sono uno,
come non lo si fa per la cera e la impronta e, in una parola, per la materia di ciascuna cosa e ciò di cui è materia: l’uno e l’essere, infatti, si
dicono in più significati, ma quello fondamentale è l’entelechia4.
Più in là: «il corpo è ciò che è in potenza, ma come l’occhio è pupilla e vista, così nel nostro caso l’animale è anima e corpo»5.
Gli animali, dunque, hanno l’anima, sono anima, ma anche corpo
ed è da questo che si deve partire.
L’analisi del corpo prende le mosse dagli organi e dai sensi, con
particolare attenzione all’indagine del senso del tatto, l’unico con il
quale i sensibili sono sentiti insieme al mezzo e non tramite l’azione
che il mezzo esercita su di noi, come ad esempio per l’occhio e la
vista. Questo vuol dire che la facoltà tattile ha un mezzo: la carne…
il corpo insomma.
44
Sono passati secoli e ancora ci si arrovella attorno all’idea del
corpo, attorno all’idea e al corpo.
Husserl dà un’idea e una mano in proposito. Estraggo da Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica:
Palpandomi la mano sinistra ho manifestazioni tattili, vale a dire:
non ho soltanto sensazioni, ma percepisco e ho manifestazioni di una
mano morbida, liscia, conformata così e così. Le sensazioni di movimento, che svolgono una funzione indicativa, e le sue sensazioni
tattili rappresentanti, che vengono obiettivate sulla cosa “mano sinistra” e trasformate in caratteristiche note, appartengono alla mano
destra. Ma palpando la mano sinistra trovo anche in essa serie di
sensazioni tattili, che vengono “localizzate” in essa, ma non sono
costitutive di proprietà. Se parlo della cosa fisica “mano sinistra”,
faccio astrazione da queste sensazioni. Se le prendo in considerazione, la cosa non si arricchisce, bensì diventa corpo vivo, ha sensazioni
(HUSSERL 1952a, p. 147).
Ecco come si costituisce il corpo vivo come senziente o latore delle
sensazioni localizzate secondo il percorso fenomenologico di Husserl.
Attraverso questo corpo vivo, così costituito, si avrà la costituzione della realtà psichica.
Tutto comincia con un corpo che tocca un corpo, lo stesso corpo.
Ci si tocca.
«Io ho tutte le cose di fronte a me, le cose sono tutte là, a eccezione di una sola, appunto del corpo vivo, che è sempre qui» (HUSSERL
1952a, p. 160).
Ad eccezione di una cosa sola, che non è solo una cosa e non è
solo una, è corpo, una cosa, ma vivo, corpo vivo, ovvero più cose
nella stessa cosa: anima e corpo.
Nell’esperienza, nella sfera della costituzione originaria, è data originariamente la pluralità delle cose nello spazio e nel tempo, e ciò
in multiformi esperienze; inoltre sono dati originariamente animali
e tra questi gli uomini (esseri viventi “razionali”): non come un assemblaggio di dati separati, bensì come unità duali, unità che possono essere distinte in due strati, unità di cose e soggetti provvisti
di una vita psichica (HUSSERL 1952a, p. 164).
45
Il pensiero espresso è simile a quello di Aristotele, che, più in là,
viene anche citato in merito alla questione della psiche e del suo dove
sta? La risposta sta sempre nel legame tra anima e corpo. Infatti, se
si muove un che di mobile, anche ciò che gli è legato si muove con
esso, in questo caso si muove il corpo e con esso l’anima e l’unità di
anima e corpo.
L’attrinuzione di un Leib (corpo vivo, corpo proprio, corpo animato), pur se costituito in maniera «curiosamente incompiuta» (HUSSERL 1952a, p. 161); movimenti nello spazio circostante – movimenti di avvicinamento e allontanamento, di oscillazione tra qui e là – la
localizzazione delle sensazioni attraverso i sensi, sono cose che, per
analogia e empatia, vengono trasferite ai corpi vivi estranei, ai soggetti estranei, agli altri animali.
In quanto noi, rendendoli oggetti di empatia, li cogliamo come analoghi del nostro sé, il loro luogo ci è dato come un qui, rispetto al
quale tutto il resto è un là […] Con questa realtà io pongo un analogo del mio io e del mio mondo circostante, cioè un secondo io con
i suoi elementi soggettivi, con i suoi dati sensoriali, con le mutevoli
manifestazioni che sono sue e con le cose che attraverso queste manifestazioni si manifestano (HUSSERL 1952a, p. 170).
Prendendo il posto dell’altro, cambiando punto di vista, cambiando faccia, cambiando muso, cambierei anche la mia prospettiva, ma
la manifestazione della realtà sarebbe comunque differente da quella
dell’altro e dipendente dai differenti vissuti. L’empatia e l’appresentazione ci dicono che, guardando dagli occhi di un altro, si vedrebbero comunque degli altri che vedono e, questa constatazione
rende reale l’intera vita e l’intero essere della psiche e li rende una
specie di unità della manifestazione, un che di identico attraverso
una molteplicità di manifestazioni e di strati localizzati in esse, che
si uniscono sotto forma di disposizioni (HUSSERL 1952a, p. 170).
La cosa si è fatta complicata. Ho citato questi passi per mettere
in luce più cose:
46
1. innanzitutto la rilevanza del tatto, del contatto, della messa in
contatto dei corpi e delle anime e delle anime coi corpi;
2. poi la possibilità dell’analogia e dell’empatia (non si dimentichi che Aristotele scriveva che il simile si conosce con il simile e che
Derrida avvicinava similis a simul, facendo notare quanto simili siano
queste parole latine… non si dimentichi e si pensi alle simili mani
che si toccano simultaneamente) a partire dal contatto, dalla relatività
dei punti di vista, dalla sostituibilità dei punti e delle viste;
3. infine più cose, ovvero, per mettere in luce più cose: la pluralità
e l’intreccio di soggetti messi in campo.
A tal proposito vorrei tornare su un periodo citato:
Nell’esperienza, nella sfera della costituzione originaria, è data originariamente la pluralità delle cose nello spazio e nel tempo, e ciò
in multiformi esperienze; inoltre sono dati originariamente animali
e tra questi gli uomini (esseri viventi “razionali”): non come un assemblaggio di dati separati, bensì come unità duali, unità che possono essere distinte in due strati, unità di cose e soggetti provvisti
di una vita psichica (HUSSERL 1952a, p. 164).
Anime e animali. Sono dati animali e, tra questi, uomini. Se si
pone l’insieme A: esseri viventi animali, si ha la possibilità di dividerlo
in altri sottoinsiemi: cani, gatti, vermi e, tra questi, gli uomini. La
rilevanza di questo tra è infinita, è un tra che traccia la possibilità di
dividere all’infinito l’insieme iniziale o, meglio, l’insieme che si è
deciso essere quello iniziale. Si sarebbe potuto prendere in considerazione l’insieme essere viventi e, poi, tracciare una linea di divisione
tra animali e non, creando due unità distinte delle quali una che racchiude nel suo cerchio astratto altre unità, «unità che possono essere
distinte in due strati [o unità?], unità di cose e soggetti provvisti di
una vita psichica» (HUSSERL 1952a, p. 164).
Uomini e animali. Il dire uomo e il dire animale. È un problema
di insiemi e di eteronomie.
«Sulla base del qui dell’altro [dal punto di vista di un elemento
nell’insieme altro cioè non me] io posso considerare anche il mio corpo
vivo come un oggetto della natura» (HUSSERL 1952a, p. 170).
47
Se si discute di insiemi e sottoinsiemi, si parla di parti e punti.
Di nuovo Aristotele e l’anima: «è difficilissimo da ogni parte e
sotto ogni punto di vista raggiungere una qualche certezza intorno
ad essa»6.
Giorgio Agamben, nel libro L’aperto, fa notare
il dispositivo strategico per eccellenza del pensiero di Aristotele.
Esso consiste nel riformulare ogni domanda sul che cos’è? come una
domanda su attraverso che cosa qualcosa appartiene a qualcos’altro? Chiedere perché un certo essere è detto vivente, significa cercare il fondamento attraverso cui il vivere appartiene a questo essere. Occorre,
cioè, che fra i vari modi in cui il vivere si dice, uno si separi dagli
altri e vada a fondo, per diventare il principio attraverso cui la vita
può essere attribuita a un certo essere (AGAMBEN 2002, p. 22).
In altre parole, Aristotele non definisce affatto cosa sia la vita ma,
di fronte ad un campionario di viventi con vite differenti, sceglie il
massimo comune divisore, ritaglia cioè da quest’insieme eterogeneo quel
qualcosa di comune a tutti, estrapola quella x che tutti gli elementi
dell’insieme esseri viventi possiedono. E così: tutti gli esseri viventi
hanno la vita, cioè ogni elemento dell’insieme esseri viventi è, anch’esso,
un insieme (unità duale: in o negli Husserl) di vita e non vita, anima
e corpo… questi elementi (che sono anche insiemi, che sono anche io)
sono divisibili per la vita, possono essere scissi e privati della vita…
Si può, infatti, dividere ancora.
Prendo l’umano. Posso tagliarne una mano. Tra l’insieme me senza
mano e l’insieme mano senza me, uno è sottoinsieme dell’insieme esseri
viventi, a meno che, quel meno me, quel senza me della mano senza
me, non implichi un non senza vita. Allora, me senza mano è divisibile
ancora. Bisogna cercare quel qualcosa che mi de-finisce come in vita,
quel qualcosa che mi fa finire nell’insieme in vita. Questo qualcosa è
ovviamente la vita. Ma, quale vita? Già, perché anche la vita è divisibile. Tre parti. Fra queste, quella che va a fondo, quella della quale
non si può essere privati senza uscire dall’insieme in vita, senza uscire
dalla vita, è l’anima vegetativa.
Anima e corpo. Uomo e animale. Problemi di insiemi.
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Che cos’è l’uomo, se esso è sempre il luogo – e, insieme, il risultato – di divisioni e cesure incessanti? Lavorare su queste divisioni,
chiedersi in che modo – nell’uomo – l’uomo è stato separato dal
non-uomo e l’animale dall’umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani. E,
forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende,
in qualche misura, da quella più oscura che ci separa dall’animale
(AGAMBEN 2002, p. 24).
E ancora:
ancora una volta lo scioglimento del mysterium coniunctionis da cui si è
prodotto l’umano passa attraverso un inaudito approfondimento del
mistero pratico-politico della separazione (AGAMBEN 2002, p. 95).
Provo a riassumere quello che penso dica Agamben nel testo citato: l’uomo, l’aperto, definisce se stesso, si dice uomo, fa lavorare
la macchina antropologica (l’immaginaria macchina che fa l’uomo) includendo ed escludendo di volta in volta dall’insieme uomo il nonuomo. Ciò è avvenuto animalizzando l’uomo, definendo uno spazio
proprio per zingari, schiavi, stranieri. Questo luogo dell’uomo non
più o non ancora uomo, luogo dell’uomo già o non ancora animale, è
un luogo definito, ridefinito, ritagliato all’interno dell’uomo e incluso o escluso dall’insieme che così si costituisce: l’insieme uomo.
Ma, così definito, l’insieme uomo risulta essere abbastanza indefinito, o da ridefinire di volta in volta, decidendone i contenuti e,
eventualmente, tagliando fuori qualche ebreo, qualche zingaro, qualche ebreo zingaro.
Il centro dell’insieme uomo, quindi, non può che apparire come
un centro d’indifferenza a partire dal quale si articolino le varie differenze: uomo, donna, animale…
Ma, questa «zona è come ogni spazio di eccezione, perfettamente
vuota, e il veramente umano che dovrebbe avvenirvi è soltanto il
luogo di una decisione incessantemente aggiornata, in cui le cesure
e la loro riarticolazione sono sempre di nuovo dis-locate e spostate»
(AGAMBEN 2002, p. 43).
La zona d’indifferenza è raggiunta tramite lo stesso procedimento
49
che ci fa decidere di mettere a fondamento l’anima nutritiva, quella
le cui differenze specifiche sono presenti in tutti gli esseri viventi,
differenze che diventano indifferenti.
E, forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche misura, da quella più oscura che ci separa dall’animale
(AGAMBEN 2002, p. 24)
Prima di analizzare questa grande sfera dove siamo accanto e congiunti col divino, si dovrebbe indagare quello spazio che, tra la sfera
dell’uomo e quella dell’animale, si scopre essere sì vuoto ma comunque attraversato da mostri: uomini - animali, animali - uomini, sirene,
angeli senza dio ma con ali di uccello, uomini lupo, uomini che nella
vicinanza di un “in bocca al lupo” si ritrovano a parlare col lupo.
L’immagine di un uomo che parla con un lupo può servire ad introdurre il problema del linguaggio, della noia e della differenza che
sembra caratterizzare e definire l’uomo come l’unico essere in grado
di caratterizzare e definire.
Parlo di Heidegger. E lo faccio seguendo l’analisi de I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine.
Triplice tesi: «la pietra è senza mondo»; «l’animale è povero di
mondo»; «l’uomo è formatore di mondo».
L’animale non coglie l’«ente in quanto ente»: il suo rapporto col
disinibitore, con l’ambiente, è un rapporto di stordimento e assorbimento. L’animale si comporta in un ambiente, ma mai in un mondo.
Stordimento dell’animale significa dunque: essenziale sottrazione
di ogni percezione di qualcosa in quanto qualcosa […] l’animale si
trova sospeso tra se stesso e l’ambiente, senza poter sperimentare in
quanto ente né l’uno né l’altro. E tuttavia, questo non-avere la rivelabilità dell’ente è, in quanto sottrazione della rivelabilità, nello stesso
tempo un essere assorbito da… (HEIDEGGER 1983a, pp. 360-1).
L’uomo, attraverso la noia profonda – tonalità emotiva con la quale ci si approccia alle cose come a qualcosa che nulla ha da offrirci
– si trova vicino alla condizione dell’animale, cioè senza possibilità di
relazione con un mondo che è oramai vuoto e indifferente.
50
Ma l’uomo può fare un passo in più e passare dall’essere lasciato
vuoto, all’essere lasciato in sospeso fra possibilità.
È, insomma, una mancanza a dar vita all’origine stessa della potenza, a dar vita alla differenza fra uomo e animale, a dar vita alla
possibilità dell’uomo di fare il possibile, di fare il mondo.
Ancora un centro di indifferenza come condizione delle differenze, un centro dove convivono e con-muoiono vita e morte, vermi e
carcasse.
Questa volta, però, il centro di indifferenza non è lo stesso per
tutti i viventi e tutte le vite.
Il centro di indifferenza è la differenza dell’uomo.
Quando diciamo che la lucertola sta sulla lastra di roccia, dovremmo
cancellare la parola “lastra di roccia”, per indicare che ciò su cui essa
giace le è dato in qualche modo, ma tuttavia non le è noto in quanto lastra di roccia. La cancellazione non significa soltanto: qualcos’altro,
preso come qualcos’altro, bensì: niente affatto accessibile in quanto
ente (HEIDEGGER 1983a, p. 257).
Agamben mette in dubbio la tesi di Heidegger della distinzione
tra ambiente animale e mondo dell’uomo col fatto che, come sperimentato per una zecca sopravvissuta per diciotto anni in un laboratorio e quindi privata dell’ambiente e della relazione con esso,
l’animale «può sospendere la relazione immediata col suo ambiente,
senza per questo cessare di essere un animale, né diventare umano»
(AGAMBEN 2002, p. 74).
Per aggiungere dinamica e far emergere l’altra faccia della complessità potrei citare Battiato: «le lucertole attraversano la strada,
com’è diverso e uguale il loro mondo dal mio»7, e indagare le ragioni
di quell’apparente contraddittorietà innescata dalla congiunzione tra
il diverso e l’uguale.
Credo che siano le stesse intenzioni a farmi aprire L’animale che
dunque sono di J. Derrida e trovarmi gettato in una interminabile
corsa all’uomo.
Prima però, vorrei richiamare alcuni passi di un testo derridiano
precedente:
51
Resta che il pensiero dell’essere, il pensiero della verità dell’essere
in nome del quale Heidegger de-limita l’umanesimo e la metafisica,
resta un pensiero dell’uomo […] L’humanitas rimane l’esigenza di un
simile pensiero, perché l’humanismus è questo: è meditare e curarsi
che l’uomo sia umano e non non-umano.[…] Dobbiamo intendere
la vigilia come la guardia montata nei pressi della casa o come il
risveglio al giorno che viene, del quale siamo alla vigilia? Noi siamo
forse tra queste due vigilie che sono anche due fini dell’uomo. Ma
noi chi? (DERRIDA 1972a, pp. 176-185).
Ecco, dunque, Derrida che legge e commenta Heidegger:
L’animale non sa lasciar essere, lasciare essere la cosa come è. Ha sempre
un rapporto di utilità, di messa in prospettiva, non lascia che la cosa
sia quello che è, che appaia tale senza un tubo stretto di pulsioni, di
desiderio. Una delle questioni che allora si pongono è di sapere se
l’uomo lo fa. […] La strategia in questione consisterebbe nel moltiplicare l’in quanto tale e, invece di rendere semplicemente la parola
all’animale, o dare all’animale ciò di cui in qualche modo l’uomo lo
priva, nel segnalare che anche l’uomo ne è in qualche modo privato,
una privazione che non è una privazione, e che non c’è un in quanto
tale puro e semplice (DERRIDA 2006, pp. 220-222).
Si riesce a cogliere le lucertole in quanto lucertole senza l’empatia
che mette in gioco sempre un qualcos’altro? È possibile coglierle
senza vestirle, senza investirle di significati che non le appartengono?
Si può percorrere la strada senza investirle, senza farle sparire dalla
nostra strada o senza farle diventare parte della nostra strada?
Attraversare. Senza essere o non essere, appartenenze o privazioni,
senza vestiti da indossare, lacrime da versare e versi da parlare…
attraversare… dentro e fuori… come la vita, come l’anima e come il
respiro… dentro e fuori…
C’è sempre una lucertola che sfugge al controllo dell’ingegnere
che costruisce la strada.
C’è sempre una lucertola che sfugge al controllo del pensatore che
pensa la strada.
L’attraversamento della lucertola che sfugge fa sfuggire l’idea
52
stessa di strada, non permette la completa definizione di strada; la
strada rimane curiosamente incompiuta, come il corpo vivo di Husserl:
attraversato dall’aria, dai vermi, dal cibo, da ciò che sfugge, da tutto
il resto che sta e non sta, dalla vita che viene e dalla vita che va.
Tra il dentro e il fuori.
L’uomo del testo di Derrida è un uomo che non sta.
Il suo je suis è – anche – un io seguo. Il problema dell’essere dell’uomo, del chi sono, corrisponde a quello del seguire le tracce, dell’inseguimento, della persecuzione, della seduzione, che è un condurre a
sé, un farsi seguire.
Mi trovo gettato in una interminabile corsa all’uomo.
In una caccia al concetto di uomo che, invece di includere ed
escludere, cacciare e scacciare proprietà, differenze, animali, cose per
definire l’uomo, lo farà retrocedere fino a quella stessa zona di indeterminatezza descritta da Agamben.
Derrida si interroga sui limiti della classificazione che, seguendo
la linea cartesiana8 e kantiana9, vuole l’uomo caratterizzato in maniera specifica, e quindi separato dagli animali, dal linguaggio, dal
pensiero e dall’autodeittica, dal potere cioè, di far riferimento a sé,
di indicarsi e dire io - io sono. Il problema è sempre quella terza parte
che solo l’uomo ha, l’intelletto che si chiama intelletto e lo dice con
parole e non con versi.
Ma chi chiama parola la parola e verso il verso?
Ma, da una parte, non è assolutamente certo che questa autodeittica
non sia all’opera, in forme multiple, evidentemente, in ogni sistema
genetico in generale, dal momento che ogni elemento della scrittura genetica deve identificare se stesso, marcarsi secondo una certa
riflessibilità, per acquistare significato nella catena genetica. […]
I fenomeni di esibizione narcisistica nella seduzione o nella guerra
sessuale, il “seguimi che ti seguo” che si sviluppa sotto forma di
colori, di musica, di apparati, di parate e erezioni di tutti i tipi, chi
può negare che questi derivino da una autodeittica? (DERRIDA 2006,
p. 144).
D’altra parte
53
si tratta anche di interrogarsi sull’assioma che permette di accordare
puramente e semplicemente all’uomo o all’animale ragionevole ciò
che di cui si dice dopo che l’animale tout court sarebbe privo. Se
l’autoposizione, l’autotelia autodimostrativa dell’io implicasse l’io
come un altro e dovesse accogliere in sé qualche etero - affezione
irriducibile, allora questa autotelia dell’io non sarebbe né pura né
rigorosa; non sarebbe in grado di dar luogo a una delimitazione semplice e lineare tra l’uomo e l’animale (DERRIDA 2006, p. 144).
In altre parole, Derrida suggerisce due questioni che, convergendo verso quel medesimo centro di indifferenza e non permettendo
di definire in maniera conclusiva l’uomo, rendono instabile e non lineare l’eventuale confine con l’altro dall’uomo, sia esso Dio, animale,
verme, cosa o androide.
In altre parole, infatti, cosa impedisce di pensare altre parole, parole altre o altro dalla parola – gesti, sguardi, versi, segni, tracce che
rimandino comunque al sé? L’altra questione è la questione dell’altro:
e se non ci fosse un sé, ma solo un incessante gioco di posizione tra
me e l’altro, una continua scissione dell’io che costituisce il soggetto
come intersoggettività o, piuttosto, come un insieme di “io e l’altro”
con il polo di attrazione che sempre si sposta tra me e l’altro? Questo
uomo sarebbe allora anche altro: uomo e animale, uomo-animale,
animale-uomo.
Ecco perché la corsa all’uomo è una corsa interminabile. Questo
uomo che vuole rispondere alla domanda “chi sono” corre su un terreno insicuro, sul confine tra uomo e non-uomo.
Corre in equilibrio sulla lama del rasoio, pronto a spingere da una
parte o dall’altra della lama ciò che non appartiene all’uomo, ciò che
non fa parte dell’insieme uomo, ciò che deve decidere non avere le caratteristiche essenziali dell’uomo. Quest’uomo deve decidere, tagliare e ritagliare col rasoio fino ad arrivare al massimo comune divisore,
a quella x che definisce come umani tutti coloro che la possiedono.
È un lavoro senza termine. Come riconoscere l’uomo?
Blade runner dà da pensare. Ma gli androidi sognano pecore elettriche?10 .
Differenze ed addizioni. Anima tripartita, sottrazione dell’in54
telletto: ecco l’animale; anima tripartita, addizione dell’inorganico
meccanico: ecco l’androide.
Se l’uomo di un futuro pieno di robot, ma povero di animali, (un
mondo povero di animali, mi sembra più verosimile dell’inversa tesi di
Heidegger) sogna il corpo vivo di una pecora, l’elettrico androide
cosa sogna?
Il film rappresenta una caccia all’androide che, d’altro verso, è una
caccia all’uomo.
Chi è l’uomo?
Blade runner… si corre sulla lama e a correre è una lama, un uomolama, che, come ogni lama è un qualcosa che taglia, recide, divide e
definisce, ma che può essere anch’esso diviso.
Il cacciatore di androidi riconosce (e uccide) l’altro per conoscere
se stesso.
Una caccia interminabile.
Chi è l’uomo e chi l’androide? L’unica differenza è l’affezione, il
sentimento e il conseguente movimento delle ciglia, dello sguardo.
Ma come definire l’uomo a partire da una differenza di percezione,
di vissuti quando, come ci dice Husserl, la differenza dei vissuti è
proprio ciò che gli esseri viventi hanno in comune?
È lo stesso androide a ritagliarsi uno spazio di autonomia rispetto
agli umani, un proprio, un io distinto da un voi che, guarda caso, passa attraverso lo sguardo, la vista e i casi della vita, casi differenti: «ho
visto cose che voi umani non potreste neanche immaginarvi».
Sembra di sentir parlare un “animale razionale” che prende le distanze dall’“animale con due parti di anima” a partire dalla propria
capacità di prendere le distanze, di astrarre, di immaginare.
Si diventa uomini, tirandosi fuori dall’insieme più vasto, quello
degli animali, dividendo, tagliando le mani, tagliando le code, tagliando le corde, tirando fuori, astraendo, immaginandosi fuori, dicendosi fuori, chiamandosi fuori: chiamandosi uomini.
E questi uomini che si chiamano uomini, sono chiamati anche
Adamo e chiamano anche altri, danno il nome agli animali.
È come se il gatto si ricordasse, come se mi ricordasse, senza dire parola, il terribile racconto della Genesi. Chi è nato per primo, prima
55
dei nomi? Chi ha visto arrivare l’altro in questi luoghi all’inizio del
tempo? Chi è stato il primo occupante e quindi il padrone? Chi è il
sottomesso? Chi è il despota dall’inizio del tempo? […] La tristezza, il lutto, la malinconia della natura o dell’animalità trarrebbero
dunque origine, secondo Benjamin, appunto da tale mutismo, ma
anche, e per questo, da quella ferita senza nome, che consiste nell’aver ricevuto il nome. […] Chi riceve un nome si sente mortale o
morente, proprio perché il nome dovrebbe salvarlo, chiamarlo assicurandogli la sopravvivenza. Essere chiamato, sentirsi chiamato per
nome, ricevere un nome per la prima volta, è forse sapersi mortali e
anche sentirsi morire (DERRIDA 2006, pp. 56-58).
Derrida che, ci tiene a dirlo, non è Benjamin, non intende seguire
questo cammino di tristezza che prende le mosse dal peccato originale, da Prometeo, o comunque da una qualche mancanza che farebbe
dell’uomo un essere superiore, e di una superiorità incondizionata e
sacrificale.
C’è troppo sangue e troppa tristezza. Ci sono anche troppe parole
e troppi nomi. Troppi uomini che danno nomi:
vi dico essi, ciò che essi chiamano un animale, per sottolineare che io mi
sono sempre segretamente tirato fuori da quel mondo e che tutta la
mia storia, tutta la genealogia delle mie questioni, in verità tutto
ciò che io sono, penso, scrivo, traccio e anche cancello, mi sembra
nascere dal tirarmi fuori e credo che sia stato incoraggiato da questo
sentimento di elezione (DERRIDA 2006, p. 104).
Derrida si tira fuori, si chiama fuori dal gruppo di quelli che chiamano animale, si chiama fuori dal gruppo di quelli che chiamano e
definiscono in modo netto.
Si chiama fuori, si chiama, si chiama Derrida e sa che il problema
di nominare rimane, nonostante la violenza del chiamare e le ferite
del descrivere e ritagliare.
Derrida si inventa una parola: «animot».
Grazie alla chimera di questo nome singolare, l’animot, posso collegare in un unico corpo verbale tre parti eterogenee. 1. Vorrei far
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sentire nel singolare il plurale di animaux: non esiste l’Animale al
singolare generale. […]Bisognerebbe piuttosto analizzate una molteplicità di limiti e di strutture eterogenee: tra i non-umani, e separati da questi, c’è un’immensa molteplicità di altri esseri viventi che
non è possibile in alcun modo omogeneizzare, se non con violenza e
con interessato disconoscimento, nella categoria di ciò che si chiama
animale o animalità in generale […]La confusione di tutti gli esseri
viventi non umani nella categoria comune e generale dell’animale
[…] è anche un crimine: non un crimine contro l’animalità, appunto, ma contro gli animali, degli animali. 2. Il suffisso “mot”, in
animot, dovrebbe riportarci alla parola e a quella parola chiamata
nome. Ci apre all’esperienza referenziale della cosa in quanto tale,
come ciò che essa è nella sua essenza, e quindi a quel punto per il
quale si è sempre voluto far passare il limite, l’unico e indivisibile
limite che separerebbe l’uomo dall’animale, vale a dire la parola, il
linguaggio nominale della parola, la voce che nomina, e che nomina
la cosa in quanto tale, come essa appare nel suo essere. 3. Non si
tratta di rendere la parola agli animali, ma forse di accedere a un
pensiero, per quanto chimerico e fantasioso, che pensa l’essenza del
nome e della parola in maniera diversa da quella di una privazione
(DERRIDA 2006, pp. 89-90).
Questo pensiero che pensa nomi senza rattristarsi, è un pensiero
che gioca e si diverte con i nomi, li sostituisce, li mischia, dà i nomi
e poi li cambia, se li riprende, non si arresta col porre un termine,
una parola; subito chiama in causa altro, altre parole, altre differenze, altre divisioni, altri animali, altre mani, altre appercezioni, altre
anime, altre vite, altri vermi, altro e altro ancora.
Non ci sono limiti indivisibili tra l’uomo e l’animale, tra l’anima
e il corpo. Non c’è certezza.
Se c’è, sono più d’una (ancora quest’altro che torna), certezze che
«è difficilissimo da ogni parte e sotto ogni punto di vista raggiungere»11.
Derrida si chiama fuori e, per poter comunque chiamare, sceglie
di saltellare incessantemente fra gli insiemi, tra le parole definite, fra
l’uomo e l’animale, su quella lama del rasoio, pronto ad accogliere
in questo precario equilibrio più cose possibili, più possibili, e, tra
questi, anche gli impossibili.
57
Più parole, più significati nella stessa parola, più parole nella stessa parola, più non-parole nella stessa parola.
Più anime nella stessa anima.
«Posso collegare in un unico corpo verbale tre parti eterogenee»
(DERRIDA 2006, p. 89).
Posso collegare tre anime in un unico corpo vivo.
Posso collegare in un’unica mente tre parole, o tre versi, che non
sono lamenti.
Derrida parlava di sistemi genetici dicendo che «ogni elemento
della scrittura genetica deve identificare se stesso, marcarsi secondo una certa riflessibilità, per acquistare significato nella catena genetica» (DERRIDA 2006, p. 144), ma anche che «se l’autoposizione,
l’autotelia autodimostrativa dell’io implicasse l’io come un altro e
dovesse accogliere in sé qualche etero-affezione irriducibile, allora
questa autotelia dell’io non sarebbe né pura né rigorosa» (DERRIDA
2006, p. 144).
C’è, insomma, uno scarto tra l’uno identico a se stesso, che si ripete e si riproduce a catena e qualche altro, qualche cosa di estraneo
che sempre si introduce nell’uno e nella catena.
Ancora un dentro-fuori: un fuori che entra in un dentro a far la
differenza, ovvero a rimettere in moto l’insieme, in un moto non
lineare tra dentro e fuori.
Questo qualcosa che viene da fuori, questo straniero che pone la
questione e fa cambiare idea, è la differenza: alcuni la chiamano libero arbitrio, altri (la) chiamano altro, io mi tiro fuori e chiamo dentro
un amico.
Mi dica che il gene non ha controllo diretto su quello che fa. L’uomo, staccato da evoluzione genetica, ha la libertà di andare contro la
vita, e quindi contro la via, che è catena, del gene: può suicidarsi o
decidere di non riprodursi…
Il cervello è sfuggito al gene, si è staccato dalle costrizione del
gene…
È possibile che il gene stia al cervello come l’uomo sta alla macchina…
Il gene è un’entità fisica che racchiude e dà (dentro-fuori) informazioni.
58
Tutto ciò che esiste racchiude informazioni – atomi che si legano
e slegano – ma queste informazioni solitamente sono esclusivamente
quelle necessarie per mantenere così come sono le cose esistenti.
Nel gene, in un piccolo spazio, è concentrata tanta informazione
che codifica oggetti più complicati di se stesso. Questo vuol dire che
c’è una sproporzione, che c’è la possibilità di creare cose più complesse di se stessi partendo dal se stesso.
Questo vuol dire che si può fare, che si può fare altro, perché c’è
dell’altro già nel se stesso e che quest’altro può venir fuori, può anche
tirarsi fuori per poi tornare dentro, nello stesso insieme-dentro, o in
un altro. Così, dentro fuori, condizionati e condizionanti, come l’aria
che respiriamo, anch’essa condizionata, come l’anima che siamo.
Grazie alla sproporzione e alla presenza di quest’altro me dentro
di me, grazie al miscuglio di queste parti eterogenee all’interno del
corpo verbale e a questa zona di indifferenza, possono venir fuori
tutti gli altri.
Tra questi altri, il mio cervello.
Dal gene al cervello. Il gene, con sproporzione di informazioni,
con più informazioni di quelle sufficienti per ripetersi uguale, fa venir fuori un cervello.
Questo cervello è anch’esso un concentrato di informazioni complesse, tra esse alcune inutili alla sopravvivenza dell’animale che le
possiede. Dal cervello saltano fuori nomi, cose, città, animali, macchine, robot.
Come il cervello è un’estensione del gene, così il braccio meccanico è un’estensione del cervello.
Come il cervello può sfuggire al gene e decidere per l’altro, così il
robot con cervello potrebbe sfuggire al controllo del cervello.
I governati sfuggono al controllo dei governanti.
C’è sempre una lucertola non prevista a mettere in dubbio l’insieme-strada, il concetto di strada. Le implicazioni politiche del non
prevedere la possibilità di non prevedere la lucertola, o del prevedere
l’impossibilità di non prevedere, sono immense.
Se si decide di governare con sicurezza, di decidere con fermezza,
bisogna cominciare a correre sulla lama.
Una corsa interminabile sulla linea di confine per tracciare una
59
frontiera, una linea, che sempre sarà cancellabile. Serve tanta polizia,
tanto fiato e poca anima.
Servono tanti nomi.
Sembra un gioco nel quale, se sei nominato, risulti imprigionato.
Per prendere il ladro, bisogna prima definirlo tale: dargli il nome
di ladro.
In questo gioco, da una parte, c’è chi si nasconde alla definizione,
chi sfugge al nome, per rimanere “curiosamente incompiuto” e “da
ogni parte e sotto ogni punto di vista” senza certezze; dall’altra parte
chi chiama, definisce, marca un confine, fa la legge.
Se si vuole allora interrompere il gioco e arrestare la «macchina antropologica», si deve tornare all’intersezione delle due parti, a
quello spazio di indifferenza e libertà, dentro e fuori: a quella tana
dove convivono gli uomini e gli animali senza nomi o dai nomi infiniti.
AVVENIMENTO
di Stefano Maschietti
Introduzione
Aristotele, Dell’anima, in Opere, Laterza, Bari 1998, p. 99.
Idem, p. 109.
3
Idem, p. 133.
4
Idem, p. 128.
5
Idem,p. 129.
6
Aristotele, Dell’anima, op. cit., p. 99.
7
F. Battiato, dall’album Giubbe Rosse.
8
Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Laterza, Bari 1954, pp. 28, 29, 56, 80,
81, 83, 86, 87, 88.
9
Cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, Adelphi, Milano 2001, pp. 394 e segg.
10
Cfr. P. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma 2000. Libro
dal quale nel 1982 R. Scott ha tratto il film Blade runner.
11
Aristotele, Dell’anima, op. cit., p. 99.
1
2
60
Tratterò dell’evento e sosterrò, rispetto al sé-parlante, quindi rispetto al sé-dicente-io, il suo essere niente, il suo essere improprio, risultato e precipitato di un’impossibile riflessione dell’io (1). Alluderò al potere l’evento, nello spazio psicosomatico, quindi nella forma
dell’altro nel sé, emozionare l’animo e dare espressione differita alla
vita interiore (2). Infine nel diritto, nell’intervento del terzo oltre l’altro ed il proprio io, individuerò la più intensa performazione politico-linguistica dell’evento sovrano (3).
In alcuni passi insisterò sull’aspetto distruttivo intrinseco all’antinomica dell’evento, alluderò al suo quantum indeterminante il dato
della realtà mondana. Se quindi un centrale sviluppo tematico sarà
quello della liquidazione della realtà esteriore (2.1), al termine del
contributo farò riferimento alla testimonianza politica intesa come
esperienza limite di reazione, interiore ed esteriore al contempo, ai
tentativi estremi di amministrare la liquidazione del fenomeno stesso
dell’umanità, tentativi che hanno segnato e segnano tuttora il nostro
tempo (3.1).
61
È stato più volte ricordato, nel corso di questi seminari, che la
fenomenologia più che una tradizione, o un movimento, può esser
detta un’avventura. Ci si è così tuffati nelle onde dell’avvenimento.
Avventura, avvenimento, ventura: il trinomio non richiede delucidazioni. Se di avventura si tratta, che sia affiancata a quella dei pirati,
coloro che cercano fortuna per mari aperti, indefiniti ed aporetici. Lo
ha scritto proprio Carl Schmitt, ma non a caso io credo: «Il termine
pirata deriva dal greco peiran, che significa provare, tentare, osare»1.
Un pirata è in ognuno di noi, in quanto la vita è sempre fuori norma e si rivela nell’eccezione, nello smisurato, nel mare aperto
dell’aporia. Quando l’aria che ci circonda in una terra troppo stretta
nel giogo di asfissianti consuetudini non basta più a vivere, ci mettiamo in mare aperto, verso nuovi lidi. Diventiamo degli irregolari
in cerca, pirati, senza poter più rientrare nella terra delle leggi patrie.
Qualsiasi strategia torna opportuna al più mirabile tra i mortali, in
acqua siamo in balia del bisogno di verità. Ma prima ancora di essere
(stati) stanziali, eravamo stati nomadi, prima ancora di coltivare e
dare forma ad una terra i nostri antenati erano stati altrettanto irregolari, transeunti ed erranti, smisuratamente liberi e desiderosi di
conquista.
Tra terra e cielo, l’inafferrabile e ambiguo fuoco della libertà ha
sempre spinto in mare aperto a cercare un nuovo principio d’ordine,
oppure lo stesso principio di ciò che è, di ciò che accade ed emerge
all’evidenza, di ciò che approda. Oggi siamo tutti, volenti o nolenti,
in acqua, nello spazio-onda di internet, che è l’infrastruttura della
nostra epoca, nella quale la sovranità e l’onniscenza di Dio galeggeranno accanto a quella delle innumerevoli e incontrollabili voci dei
suoi popoli e della loro anarchia internautica.
1. L’accadimento del sé: quest’io non è un io.
Siamo legati a doppio filo all’avvenimento, ma è impossibile che
l’evento cada nella nostra rete concettuale. Dell’evento, dell’accidentale non c’è scienza e non c’è norma, dice Aristotele. È un’infinita,
ondulata e sofisticata serie di nomi: l’accidente è prossimo al non
62
essere. L’evento è allora un postulato inevitabile della teoria fenomenologica, ma irriducibile alla sua costruzione concettuale. Preme sul
suo margine e solo a patto di una contraddizione potrebbe esservi incluso. «Se non fosse così, tutto sarebbe di necessità. Di conseguenza
la materia dovrà essere la causa dell’accidente, perché essa può essere
in modo diverso da come è per lo più»2. La natura, la dis-misura, la
maternità irregolare dell’avvenimento sono da sempre, ancor prima
che la riflessione fenomenologica costituisca il territorio di una scienza rigorosa, antinomiche ed irriducibili, fluide.
L’evento è, secondo l’essere (physei), accadimento dell’impossibile,
ed esprime, secondo il linguaggio (logo), la contraddizione performativa, il dire che fa essere i vuoti di senso: l’evento enuncia il novum e
significa l’altro, il signi-ficato. L’evento è l’incontro con l’altro in sé
stessi, è lo scontro con sé stessi intesi come altri da sé. L’evento, in
quanto enunciato ed atto linguistico-soggettivo, accade nell’io, nella vaghezza del suo spazio intimo, e ne rivela la corporea porosità:
l’evento è l’aporia di ogni tentativo di esprimere l’io in una definizione riflessiva.
Ci si incontra ed infrange in sé stessi, già solo dicendo “io”, il
pronome che nell’enunciato “io sono” non coincide con l’atto e con
l’esserci dell’enunciazione, perché il pronome è linguisticamente e
formalmente dato al sé enunciante, fluttua tra l’altro dell’io e l’io proprio, non è mai assolutamente nuovo. È il linguaggio parlato da altri ad essersi impresso in noi e a dire “io” attraverso il sé: la lingua
madre si è infiltrata nel sé, lo ha funzionalmente insediato in diverse
persone, e solo attraverso un suo atto può dirsi l’“io” e depositarsi il
sé. Tale pro-nome, che si sostituisce al nome proprio del sé, al luogo
da esso occupato, è un fascio di possibili e intercambiabili significazioni. L’io, come ogni altra particella elementare della materia
fluida degli eventi cosmici dall’io stesso osservati, tende ad accadere
e a trovarsi, tende ad esserci e ad assumere una posizione, tende ad
essere-durante e a perdurare, tende quindi ad eccedere e negare ogni
propria positività, tende ad eccedere e a risultare antitetico, antimaterico, spirito, flatus vocis.
Dovrebbe allora risultare più concreto il principio per cui lo individuum est ineffabile a meno di non dirlo attraverso il nome proprio.
63
Ma anche il nome proprio, il nome dato in famiglia al singolo o il
soprannome conferito da un gruppo allo spirito di un suo esponente,
comunica e mette in comune il proprium, l’essenziale, lo rappresenta
e ne differisce il senso specifico, lo forma e ne espropria l’esclusività,
la divide, la disindividua e la scinde.
La prima impressione che si riceve di sé stessi è spesso sofferenza
inesprimibile, è un morso inarticolato del pianto o un urlo indistinto, è differimento e rimozione nel carattere della propria radicale diversità: è disdetto e contraddetto dolore intimo, lacerazione.
Nel postulare un’originaria impressione (Urimpression) comunque
irriducibile al dirsi dell’“io”, alla differente espressione dell’analoga
impressione, indichiamo e fissiamo il limite dell’impossibile incontro riflessivo con noi stessi e con ciò che ci è strutturalmente anteriore e ci caratterizza, la lingua madre. Essa è la vivente materia prima
in cui prendono forma e si caratterizzano il dire dell’io e la sua molteplice espressività, la sua polivoca recettività.
L’incontro è con altro, diciamo. Così alludiamo ad altri, e ci illudiamo soprattutto di poter incontrare finalmente il novum. Ma in
quest’altro pronome indefinito, in questo apriori linguistico-materiale indichiamo e riscontriamo di nuovo l’insesprimibile scarto linguistico tra il significato grammaticale e formale del deittico, ed il
senso performato e subito disdetto dalla stessa parola “altro”, il riflesso speculare e logico dell’“io”, accaduto e rifluito nella medesima
rete concettuale.
Sé stesso, l’altro: medesimo differire enunciativo, ennesima aporetica sofferenza. In quanto sia detto e significato, l’“altro”, anch’esso
fascio di possibili significazioni, è incontrato ed in-ventato, è imbrigliato e imbrogliato nella rete del linguaggio, che è altra anche
dall’“altro”, oltre che dal medesimo3. L’“altro” è il postulato, è l’accidentale teorico, è il ri-chiesto così come, d’altro canto, è l’altro a provocare la riflessione del sé nell’enunciato: “(io) ci sono”.
2. Emozioni: il movimento dell’altro nel sé.
In quanto abbiamo detto che l’avvenimento del sé si situa nello
64
scarto, nel lasco temporale intercorrente tra l’impressione preverbale
(la ricezione della lingua madre) e il differito atto espressivo che ne
conseguirà dicendo noi “io”, possiamo indicare nelle emozioni i primi incontri-scontri con l’irrapresentabilità e l’ineffabilità dell’altro
in noi.
Le emozioni sono i cosiddetti moti dell’anima, di ciò che per definizione (tendenzialmente autocontraddittoria si badi) diremmo
in grado di attivare e muovere altro (il corpo), senza da altro essere
mossa e reificata. Ma le neolatine emozioni (o tonalità emotive), le
tedesche e già musicali Stimmungen, le voci interiori che si patiscono e
con le quali ci si dà del “tu”, appunto ci si smuove, sono pro-vocate
(hervor-gerufen) dall’altro in noi.
L’altro non fa e non produce niente di determinante per il moto
dell’anima, che altrimenti sarebbe moto naturale, effettuato. Eppure
altri provoca in noi, con la sua inquietante presenza che diviene, nel
corso di inafferrabili e differite esperienze, traccia, impronta e rappresentazione interiore, altri provoca in noi impercettibili quanto
intensi moti di attrazione e repulsione.
Tra gli altri e noi “cala il freddo”, oppure “si scatena un moto di
muta e intensa attrazione”. Attraverso questi riferimenti a sensazioni
avvertite dal corpo in quotidiane situazioni esteriori, e attraverso la
loro rielaborazione metaforica, diamo espressione a quel processo di
interiorizzazione delle più inafferrabili percezioni soggettive, la cui
prima scaturigine un pensatore radicale come Cartesio non è un caso
si sentisse costretto ad attribuire ad inafferrabili e non meglio localizzabili (poiché inestesi) spiriti animali4.
L’altro non effettua niente di naturale, ma è naturale che provochi
in noi una movenza preverbale, un gesto di cui esso è il terminale e il
bersaglio, mentre noi stessi non ne siamo compiutamente i soggetti
intenzionali ed attivi. Perché alla movenza emotiva ed al gesto che ne
esprime l’inafferrabile impressione sorgiva, noi siamo in gran parte
soggetti: la sopportiamo, la subiamo e la soffriamo, da essa differiti e
attraversati, da tale movenza gestuale.
Il gesto emotivo sta alla relativa e supposta sua pro-vocazione interiore, nello stesso rapporto differenziale e temporal-discorsivo in
cui l’espressione linguistica sta alla coimplicata sua impressione pre65
verbale (vorsprachliche Urimpression). Tale impressione è ciò che inevitabilmente finiamo per presupporre se chiamiamo quella segnica,
appunto, un’espressione della vita. In questo duplice scarto discorsivo
(emozione/gesto, impressione/espressione), nella relativa movenza
e differenza temporale indichiamo, con la stessa tenue perplessità
di Cratilo e Zenone, il lasco dell’evento, di cui mirabile e arcano è
l’inizio, lo scatto, il salto o la scintilla, inestricabile la componente
passiva da quella attiva.
2.1. Il ricettacolo globale ed il corpo informatico.
Lo Zeitspielraum dell’evento, il lasco del suo gioco esproriante
(enteignend) ed estraniante lo nominiamo ricettacolo-corpo. Il corporicettacolo non è solo la sinergia dei nostri organi sensibili e vitali,
non è solo i circuiti delle membra psico-fisiche con le quali percepiamo gli accadimenti esteriori e interiorizziamo le relative rappresentazioni segniche, perché dilatabilissime sono le circostanze e le
protesi del “qui ed ora” in cui, eccedendo la nostra presa, l’altro si
insedia ed accade in noi, innanzi tutto e soprattutto disincarnandosi.
L’altro non deve essere immediatamente corporeo per intrigarci e
provocarci interiormente. Persino quando si infrastruttura negli automatismi sociali ed intraoggettivi, l’altro c’è, incombe. Ci incontra ed
accade, ad esempio nei cyberspazi ormai onniavvolgenti della telefonia mobile e nelle sfere di quell’accelleratore del disallontanamento e
dell’evento mediatico che è diventato internet: il corpo informatico e
riproduttivo del globo immaginale, l’archivio onnicomprensivo con
periferiche volte alla tendenziale sincronizzazione e messa a disposizione di tutti i riproducibili eventi e di tutte le connesse tele-patìe
ed interazioni che da essi possono venir scatenate.
Internet formerà, colonizzerà e digitalizzerà persino il tatto forse, e
quando, tra breve, l’intero spazio terrestre e satellitare saranno stati
cablati o coperti da un compatibile campo elettromagnetico, non si
darà più luogo dell’orbe terracqueo e della regione atmosferica da cui
non sarà possibile dire, in cosiddetta presa diretta, “tu” ad un “io”
66
all’altro capo della connessione. Forse sarà possibile toccare a distanza, ed ogni sistema-corpo, integralmente on-line, sarà il terminale di
un’illimitata rete informatica, sarà membro di un’infrastruttura diradantesi in tutte le direzioni a velocità impercettibili. Ogni rappresentante della cosiddetta soggettività, ogni monade spirituale sarà
virtualmente tutta in tutte le altre, e nel pianeta che ha sognato per
secoli una metafisica della luce e fantasticato di un’armonia prestabilita, ogni particella corpuscolare di sé emessa da un “io” si porterà
intorno a velocità e frenesie sempre più prossime a quella accecante e
massificante della luce stessa.
Abbiamo parlato di una liquidità dell’evento e abbiamo in qualche modo alluso alla sua dinamica ondulare e quasi acquatica, liquidante ogni possibile individuazione e posizione del sé, del tu e
dell’io, indeterminante ogni loro localizzazione. Ma anche tutto ciò
che oggi accade nella sfera civile, quella delle istituzioni impersonali
e ulteriori al dialogo del tu e dell’io, anche tutto ciò accade a cavallo delle onde telematiche: persino gli arcana imperii cavalcano onde
elettromagnetiche, danno la caccia a pirati informatici e possono a
loro volta da questi essere intercettati via internet.
In liquidazione, on-line sono il capitale e buona parte del lavoro,
il progettista e il suo ingegnere esecutivo, l’anarchico e il difensore
dell’ordine costituito, il cospiratore, il terrorista e il loro spione, lo
scrittore e il suo lettore, il libro e il libro-testo scritto dal suo stesso lettore. Da questa inarrestabile immersione nel cyberspazio non
sappiamo ancora come verranno fluidificati lo scenario e il territorio
mondiale, sebbene gran parte dei loro ordini, a partire dai concetti
stessi di proprietà, di personalità privata e di intimità, risulteranno
da internet in buona parte mutati e messi in liquidazione.
Internet realizzerà a livello delle entitità fisicamente percepibili e
riproducibili nello spazio acustico e visivo della fisica classica, deterministica, effetti analoghi a quelli che un accelleratore di particelle
può realizzare nella strutture delle “realtà” subatomiche, riuscendo
ad esempio a far percorrere a ritroso la linea del tempo ad una particella5. L’accellerazione prodotta nei processi di produzione di messaggi-file e delle relative immagini-copia, accumulerà, oltre a tante
facilitazioni ed opportunità, un’inquietante sorta di brodo primor67
diale telematico, nel quale in molti casi, ad esempio nelle tecniche di
apprendimento didattico, non sarà più permesso e utile distinguere
tra la fonte e la destinazione di un’informazione.
Ogni evento mediatico in rete uscirà, irradiandosi isotropicamente in ogni dove, non già come prodotto originale, bensì come riprodotto, in un vago formato che renderà inutile e non permetterà,
se non per un lasso effimero di tempo, distinguere tra l’autore e il
soggetto di un messaggio da una parte, e il suo destinatario e fruitore dall’altra. Diverremo sempre di più autori di messaggi scritti
da non si sa chi. Il ciclo di produzione e consumo di un messaggio
sarà a tal punto liquidato dalla sincronizzante velocità della rete, che
verrà messa sotto scacco anche la mera possibilità economica di sostentamento durevole e garantito di ciò che noi ancora chiamiamo la
creatività e la originalità, vale a dire i tratti più profondi e corposi
della stessa personalità soggettiva.
Proviamo a riassumere. L’essere di ciò che accade e nominiamo avvenimento non è rappresentabile, se non a patto di una contraddizione performativa, nello spazio semantico in cui precipita, si sopporta e
soffre il suo sedimento, il suo peso semantico (1). Se infatti il soggetto
dell’azione prevedibile e consueta è intenzionale, il soggetto in cui accade e attraverso cui si rappresenta ed esprime l’invisibile novum dell’evento, è di necessità disdetto e smentito (2). La sua azione-passione
è una conversione di senso, una metànoia, la rete e il ricettacolo delle
cui circostanze è come se rinascesse a vita nuova, è come se fosse creata ex nihilo dalla gratuità di ciò che accade così, contraddicendosi.
Il modello antropologico e metafisico alla luce del quale pensare
e rappresentare l’evento è, quale che sia la nostra disposizione religiosa, quello dell’attimo e della Grazia ricreatrice e rinnovatrice
dell’Essere, oppure, se lo vogliamo dire con un minimo di laicità ed
una certa dose di pessimismo, quella della donna-Fortuna cieca e delle connesse avversità, che travolgono anche la più maschia e tenace
virtù politica6.
L’enunciato, l’evento linguistico, è creatore di senso, e rinnovandolo di continuo significa e dà forma all’altro, l’altro che noi stessi
siamo e a cui tocca parlare ed esprimere le proprie impressioni nati68
ve, il carattere ricevuto nella lingua. Attraverso il dono della lingua
madre e la sedimentata interiorizzazione in essa di secoli di storia,
l’altro non è più solo buia ed inespressa sentina, ricettacolo o mormorio musicale, il suo sguardo non è più solo sentinella di interiori
fragilità, ma è divenuto corpo appropriato (übereignet), ha ereditato
una vivente responsabilità.
Il dire mostra, manifesta e forma l’altro, lo ricrea e non solo rappresenta. Con tutti i suoi sistemi di simboli, di finzioni, di funzioni
ed artifici, il linguaggio è azione simbolica, è azione significativa: è
significazione. Quello dell’azione simbolico-rappresentativa è, a ben
vedere la cosa, un quasi ossimoro. L’azione fa essere, la mimesi ri-fa
essere, ri-presenta. Pensiamo ad esempio al quasi ossimoro del gioco agonistico. Il gioco è temporanea sospensione convenzionale della
quotidiana operosità, è azione simbolica e regolata. Ma in quanto è
anche agonistico, il gioco è dramma, quindi azione e incontro-scontro. Spesso imita i momenti più vitali e crudi dell’agire reale: la quasi
fusione dei corpi nell’atto sessuale, la quasi devastazione dei corpi
dell’istinto bellico. Il linguaggio ed il suo discorrere nel tempo creano, fondano e distruggono il corpo sociale.
Il linguaggio è, nella sua eventuale creatività, il diaframma della
nostra stessa esperienza del tempo. È infatti attraverso una distinzione tra segni e rappresentazioni che riusciamo ad articolare l’atto della
“presentificazione” e a parlare, del momento ora esperito e vissuto,
come di un “presente del presente”, quindi di un momento il cui autentico ed (in)attuale contenuto è sempre e costantemente differito.
Ma il contenuto reale del presente vissuto nella rappresentazione
dello stesso presente, è differito in direzione del futuro o in quella del
passato? Una questione indecidibile questa, visto che i momenti del
passato e del futuro sono strettamente intrecciati e fusi nella struttura differenziale dell’atto linguistico che li presentifica.
Se infatti, ad esempio, la ritenzione del passato non si può configurare in termini di sua semplice riproduzione riflessiva, è inevitabile ammettere che tra il dato autentico del passato e la sua ritenzione
attualizzante si situi lo scarto di un novum esperenziale, irriducibile al
mero dato del passato e al potersi dare di questo in immagine-copia
69
attraverso la ritenzione. L’enunciato che esprime e articola l’atto della
ritensione è allora già proteso verso un novum irriducibile al passato
differito nell’esperienza vissuta, è un atto creativo aprente il futuro e
non solo riproduttivo del cosiddetto passato. Non si dà quindi soluzione di continuità, nell’esperienza vissuta del passato, tra presente,
passato e futuro.
Ma lo stesso si dà e vige nell’esperienza della “protenzione”, attraverso la quale si anticipa in una rappresentazione il dato di un futuro
sempre differito nel suo autentico momento. Cos’è infatti la rappresentazione anticipante, che solo può rendere articolabile l’atto della
protenzione, se non un residuo del momento passato che si continua
e fluisce nell’onda differenziale del tempo stesso, la quale né nella
figura di una linea, né quella di un circolo può essere rappresentata?
È il tempo una spirale implosiva ed esplosiva al contempo?
Nel linguaggio prendono corpo tutte le contraddizioni performative che consentono di definire i dati della realtà esperita, la loro possibile misurazione spaziotemporale e la loro evenutale idealizzazione
intersoggettiva e istituzionale.
Rappresentazione del tempo storico e creatività linguistica si rivelano infatti come i due tratti essenziali di quell’infrastruttura fondamentale della vita sociale che è il diritto, il precipitato dell’evento
storico della sovranità e della sua articolazione e costituzione linguistico-politica. Cerchiamo di vedere come e perché.
3. Linguaggio, diritto, sovranità.
Parliamo sovente di seconda natura dell’homo faber et ludens, alludendo così all’ethos, alla cultura e al linguaggio, la mirabile protesi
dell’animale bipede implume. Parliamo di una seconda, succedanea
natura, che avrebbe fatto quindi seguito all’infanzia delle passioni
più livide e ferine della vita associata, a quel teorico ed inattingibile
stato di natura, in cui erano caoticamente fusi e non disgiungibili (ed
in cui potrebbero ognora precipitare) i corpi dell’azione conflittuale:
come nella terribile visione di Rubens, il disegno della Battaglia di
Anghiari, succedaneo di quello dissoltosi di Leonardo.
70
Il passaggio dall’ipotetico stato di natura ad una prima, riscontrabile, forma di convivenza civile, questo passaggio è avvenuto a patto
di un’irrappresentabile e violenta concentrazione del potere uniformante e omologante, a costo di un’inenarrabile, o meglio, di una non
conciliante e sofferta passionalità.
L’evento storico della sovranità, la fase costituente di ogni ordine politico-giuridico, può ben illustrarci il parallelismo che crediamo
sia riscontrabile, tra l’evento linguistico ed il nesso differenziale impressione/espressione da una parte, ed il divino atto del creare e del
distruggere dall’altra.
Cos’è il diritto dal punto di vista linguistico? È probabilmente
la forma più compiuta e sistematica di impiego performativo del
discorrere linguistico. L’auctoritas è l’evento pragmatico-semantico
qua talis, è il linguaggio che si massifica, si reifica e fa essere una
situazione. La produzione giuridica accentrata è la capacità di realizzare eventi e di istituire rapporti attraverso la lingua: è la capacità di
imporre un ordine, di nominare e definire una realtà sociale altrimenti
inarticolata e disorgonica, e ciò attraverso un codice di finzioni.
L’archetipo linguistico dell’azione giuridica, dell’istituzione, è
compiutamente esemplificato nel performativo e creativo fiat biblico, l’imperativo passivo di terza persona, attraverso la cui pronuncia
viene prodotto e sancito il vincolo tra i soggetti di e a un ordine.
Attraverso quest’atto imperativo, simbolicamente patito da un
terzo (“siano la repubblica ed i suoi corpi sociali, siano i diritti di
cittadinanza, sia la tal pena per tal comportamento”), attraverso quest’atto è inventato e personificato l’irriducibile altro-noi-stessi, altro
altrimenti invertebrato naturale. Così sono classificati e tecnicamente
uniformati i nostri possibili e appropriati comportamenti, sulla base
di quel nesso di imputabilità ed intercambiabilità, che istituisce ed
individua i soggetti giuridicamente passibili di pena o risarcimento,
nel caso di dinamiche illecite loro ascrivibili. Cuique suum: sulla base
di questa postulata omologabilità delle diversità umane si genera e
prende linguisticamente forma la consuetudine ed il corpo proprio
di ciascuno di noi.
Siamo abituati, specie nell’epoca della nostra Europa declinante e
ridottasi oramai nei meandri politici di un pacifismo sterile ed ipo71
crita, a contrapporre l’etica iperbolica del dono e del riconciliante
perdono, all’economia delle transazioni politico-sociali, basate sul
doppio vincolo dell’interesse e del valore di scambio. Siamo, grazie
anche ad una certa lettura di Derrida, portati a cogliere nell’impossibilità (messianica) del dono e del perdono le nature più autentiche
dell’evento. Io vorrei provare, invece, a sottolineare come un certo
ambiguo evento del dono sia alla radice della stessa costituzione delle
transazioni economico-giuridica e socio-politica.
Cos’è il diritto, nella sua realtà?7 È definizione formale della stessa realtà sociale. Nella tecnica giuridica l’unica sostanza è la forma,
nient’altro. È la forma che discrimina, tra gli innumerevoli comportamenti e le loro infinite possibili coimplicazioni, il lecito dall’illecito, il consentito dal non consentito. Il diritto è, teoricamente, un
piramidale Stufenbau, nel quale ogni norma ha valore e può essere
efficace, solo se prodotta sulla base di una norma ad essa sovraordinata
e definiente la sue stesse modalità di esecuzione. Queste, a loro volta,
definiscono e danno forma ad un’ennesima norma subordinata, tutti
e tre i poteri, legislativo, esecutivo e giudicante, non essendo che tre
momenti gerarchizzati della stessa divisione sociale del lavoro giuridico, della produzione del diritto e dell’autorappresentazione di un
corpo politico.
L’ideale della machina machinarum, dello stato, sarebbe quello della compiuta automazione tecnica e della deducibilità diretta tra i
diversi gradi di questo lavoro, ma tutti sappiamo che la rete-catena giuridica è infrastrutturata di operatori e funzionari, i ghosts in
the machine che, con le loro frequentissime e (in)salutari decisioni,
sciolgono e/o accrescono le ambiguità formali della legge, scavano
e deviano il solco della pratica consuetudinaria, sempre opinabile,
riformabile e, ahi noi, corruttibile. Danno una terza dimensione alla
catena giuridica, ed una quarta, indeterminabile, alla piramide stessa
del diritto. È l’evento della quotidiana e anonima riproduzione della norma, della debita ricreazione dello stato di diritto funzionante,
meccanorganico, dotato di animal spirits, imprenditoriali, sociali o
culturali che essi siano.
Ogni norma è quindi efficace solo in quanto sia stata resa valida
72
da una definizione formale, ma questo principio della subordinazione
dell’efficacia e della realtà della norma, alla validità calcolabile della
sua forma, questo assioma vale sono in linea di principio, e non vale
a tutti livelli dello Stufenbau. Non vale, soprattutto, nel suo vertice
fondamentale, non vale per la sua differita fase costituente, differita
e rimossa con la rituale entrata in vigore della legge fondamentale,
del dispositivo costituzionale. La costituzione è il supremo definitore
dei modi di produzione delle leggi, è l’insindacabile autolimitatore
dell’onnipotente potere sovrano, che nella teorica illimitatezza delle
sue origini costituenti sarebbe con Bodin (e Hobbes) paragonabile ad
un’immagine di Dio (mortale) in terra.
I cosiddetti diritti soggettivi, cosa ne dica la nostra retorica della
libertà, non sono che il riflesso di doveri congiunti, non sono quindi
un dato della nuda vita o, ancor più ingenuamente, un fondamento del “diritto”. I diritti di libertà scaturiscono da una paradossale
e gratuita autodecapitazione del potere sovrano, da una dibattuta
autolimitazione del suo teorico e onnipervasivo potere di vita e di
morte sull’altro (in) se stesso, sull’intero corpo della cosiddetta cittadinanza.
Oggi che specifiche questioni di manipolabilità e di umiliazione
della vita occupano il centro delle nostre attenzioni, rischiamo di
dimenticare o di non voler più ricordare che ogni potere, non solo
quello moderno posthobbesiano – si pensi solo al Tucidide tradotto
da Hobbes – ogni potere è, per definizione, biopolitico. Rischiamo
di omettere di dire che il potere e la sua fase storicamente costituente
non sono altro che lo scarto rivoluzionario in cui l’eccedenza indefinibile del vivere si risolve in un particolare e amministrabile ordine
rappresentativo. Ciò non giustifica il potere, semmai aliena lo stato
di diritto da qualsiasi pretesa istituzione, attraverso la sua ragione,
di una vera giustizia. La vita, la qualsiasi vita dell’altro che noi stessi
siamo, è costretta nei margini del diritto e nella sua sovrana invenzione, a ri-nascere, ed è sottoposta alle ambiguità protettive di una
pubblica salvaguardia. Potrebbe essere altrimenti?
La Grundnorm del kelseniano Stufenbau giuridico, diversamente da
come sostenuto in una fluviale corrente di studi alquanto ripetitiva,
non è un fondamento trascendentale dell’ordine giuridico. Non è un
73
principio di sua garanzia ontologica o di sua coerenza naturale. La
Grundnorm è un semplice e modesto criterio euristico-empirico in
mano all’osservatore del sistema normativo, osservatore non legislatore, solo interessato ad indicare l’equivoco momento della sua prima
origine positiva.
La Grundnorm è l’unica possibile proposizione constativa all’interno del codice interamente e violentemente performativo del diritto. Non serve a costituire un ordine, il quale potrebbe sussistere,
funzionare e camminare sulle sue gambe anche quando nessun suo
osservatore si preoccupasse di individuarne l’innafferrabile momento
d’inizio.
La Grundnorm constata e testimonia che il fondamento di un ordine, l’ipotetico suo primo momento istitutivo, ricostruibile solo a
posteriori, rispose al principio (non fondante) per cui una prima norma fu valida, si badi, solo se sia risultato efficace il processo in cui
un’avanguardia particolare di uomini, difendendolo con la forza dalle
resistenze e dalle reazioni di chi si opponeva a tale rivoluzione, impose ad un corpo sociale un habitus giuridico, uniformandolo alla
maestà della legge.
Ecco il contraddittorio chiasma dell’evento della sovranità. Un ordine è valido e formalmente esplicitabile solo e solo in quanto sia
risultato efficace, non potendo essere stato in alcun modo, sulla base
di alcuna preesistente norma, validabile il violento processo della sua
creazione-istituzione. Nella legge fondamentale il rapporto di validità ed efficacia risulta quindi invertito, rivoluzionato e contraddetto, rispetto a quanto constatiamo nella legislazione ordinaria, nella
quale l’efficacia è assiomaticamente subordinata alla validità formale
della legge. Ed è per questo che l’evento sovranamente costituente
lo nominiamo indecidibile creazione, la contraddizione performativa
attraverso la quale prende linguisticamente forma l’invenzione della
cittadinanza, della persona e della sua rispettabile alterità e dignità
rispetto al potere.
La vita soffre il potere della vita associata in corpo politico, in
comunità tecnicamente definibile ed amministrabile. Non potrebbe
esser altrimenti, visto che il potere istituisce particolari regole di vita
74
associata e differisce la vita nella personificazione giuridica, mentre
la vita si rivela nascondendosi e annidandosi nelle irregolarità, nelle
eccezioni. La vita tende ad un’aporetica condizione di nuda indefinizione, che tecnicamente significa, però, l’esposizione al rischio della
sua (messianica?) autoddissoluzione. Ed anche questo è, tragicamente, evento, evento bio-politico.
Lo sappiamo e non occorre ripetercelo: il nostro tempo, quello
soprattutto della finis Europae, è caratterizzato da un’incontenibile
serie di barbarizzazioni della vita, di violazione del suo diritto alla
diversità, etno-linguistica ma anche socio-culturale. E tale dramma
diviene tanto più una responsabilità per i testimoni di questi orrori,
quanto più pochi di noi credano ancora, oggi, all’idea di un’unità
comune al genere umano. Cerchiamo di vedere perché.
3.1. Diritti umani? Umanità e testimonianza politica
Soffermiamoci sull’aspetto più paradossale dell’intera questione.
L’unità del genere umano è la nozione che tacitamente presupponiamo ogni qual volta elaboriamo un argomento in difesa dei diritti
dell’uomo. Ciononostante, questa ipotizzata unità è quanto di più
implicitamente messo in questione e disdetto, proprio nella formulazione più acuta, di cui oggi disponiamo, del diritto alla vita, del
diritto alla biodiversità e alla sua fattiva salvaguardia. È questo il
principio, formulato tra i primi da Hannah Arendt sulla scorta della
lezione di Karl Jaspers, della naturale diversità delle genti e delle
persone umane.
Le genti sono indirettamente, solo indirettamente si badi, nello
sguardo cioè dei testimoni dei processi e dei drammi storici esse riguardanti, accomunate e paradossalmente omologate da questa diversità radicale, da questa eterogeneità. Si tratta di un’eterogeneità costituente le individualità associate in nazioni e giuridicamente differite
in entità politiche e stati-nazione, ma anche si tratta di un assioma
decostituente, a ben vedere, ogni nostra pretesa tutela delle genti
basata su di un’immacolata idea della comunità di genere umano.
La diversità delle genti è il dono della pluralità dell’essere storico.
75
Ma richiamarla in termini di diritto e non solo di crudo e nudo dato
di fatto, è come voler assumere un farmaco analgesico, è come giocare
con una formula ironica, con un antidoto retorico. La diversità è in
realtà l’incancellabile quanto indelebile macchia del genere umano,
così come la vita, nella sua incostanza ed irregolarità, è l’indecifrabile
e aporetica macchia del diritto, e ne fa cadere l’amministrazione nei
dilemmi del potere, del potere aggressivo come di quello difensivo,
visto che, per difendere la vita offesa, bisogna argomentare contro ed
aggredire ex jure chi offende questa vita indifesa.
La categoria della diversità, fintanto che sia solo invocata a reclamare un preteso diritto alla difesa di una vittima, è inutile come una
preghiera, è disdetta e lacerata dalla situazione a cui dovrebbe essere
applicata per discriminare e decidere chi siano, nella situazione di
emergenza e di orrore, la vittima ed il carnefice. Proviamo a vedere
perché questo sia il punto cruciale e più problematico di ogni recente
svolta della nostra triste storia.
Ha scritto Jaspers di una responsabilità o «colpa metafisica», direi iperbolica, oltreppassante la responsabilità morale e politica per
azioni da me commesse per conservarmi o impormi su altri. È la responsabilità di chi è solo testimone, non partecipe del misfatto e non
attivo quindi, mero spettatore della violenza commessa da altri su
un terzo8. Chi è solo testimone della violenza patita da terzi, è chi in
linea di principio non avrebbe bisogno di agire e reagire per sottrarsi
agli effetti di questa stessa violenza. Gli basterebbe continuare per la
propria strada.
La responsabilità metafisica implica allora, a ben vedere, un gioco
di nostra, simulata e performativa sostituzione simbolica a terzi. È
come se dalla voce muta del sofferente, che sta per soccombere sotto i
colpi dell’aggressore e sta per venir completamente meno, potesse
levarsi un paradossale imperativo, una preghiera: “fammi essere ancora, lasciami vivere agendo tu, inter-vieni e salva-guardami! O sarai
colpevole del carnefice, suo complice”.
È solo il testimone, però, a poter rivolgere a (l’altro) sé stesso
tale improprio imperativo. La vittima, nella situazione di naufragio
psichico e di violenza estremi, non ha nessuna capacità imperativa e
impositiva su chi è testimone dell’evento. Non sarebbe altrimenti
76
una vittima, ma un vitale attore del gioco bellico. Tale imperativo
è allora paradossale, il testimone se lo può e deve rivolgere contro,
quasi fingendo che sia la vittima o il suo colpevolizzante spettro a
rivolgergli una muta preghiera. La posta in gioco dell’intero scenario
sarebbe altrimenti facilmente svalutabile e ovviabile, perché al testimone torna sempre opportuno accordarsi tacitamente col carnefice,
per prevenire suoi probabili furori bellici. E il primo termine di ogni
implicito accordo è il silenzio sul misfatto. È il modo più economico
e lineare per siglare una tregua.
La preghiera che il testimone si rivolge interiormente in forma
di imperativo è quindi un tragico paradosso. Il testimone è come
sdoppiato, e l’immagine più altra e più lontana di sé stesso, autorappresentazione più inafferrabile e per ciò stesso la più dignitosa ed
ardua da toccare, la “voce della coscienza” che il senso di un’impossibile giustizia, si esprime infatti attraverso un enunciato provocatorio,
dettato in forma di imperativo supplice, paradossale, visto che chi
supplica in realtà non potrebbe esercitare un verosimile potere.
È il testimone a rivolgersi, in forma di silenziosa preghiera, questo supplice imperativo, a rivolgerselo contro ed interiormente, perché il testimone non è mai oculare. Solo un ingenuo potrebbe infatti
credere che il testimone non sia come costretto a dover fingere interiormente di vedere il volto implorante della vittima, a doverlo
immaginare, a dover quasi ricreare la sua incapacità di articolare il
dolore, a ricrearla nella provocazione e nella voce della propria cattiva coscienza. È solo così che accade e può essere rilevata una colpa, è
solo così che si può cadere nella rete della responsabilità, fingendosi
il mistero della nascita e della sua prima, sofferta quanto inarticolata,
espressione.
Il testimone delle forme più tragiche di persecuzione e di violenza, a ben vedere, mai potrà aggangiare il senso della supplica agli occhi
muti della vittima, perché l’autentico carnefice è colui che ha saputo
mascherare il volto e i pezzi della vittima, o ha saputo esporli nella
vetrina di una certa, di una propria rispettabilità. Non sono solo
Theresienstadt o, più recentemente, Srebreniza a Kigali a dirci la
beffa delle buone maniere addolcite da diplomatiche promesse e da
stucchevoli buone intenzioni e connessi giri di valzer.
77
A tale situazione in cui è data la condizione di una responsabilità
metafisica ed iperbolica dei testimoni, una responsabilità senza referenti visibili, una responsabilità fondata su ciò che è ri-spettabile
proprio perché osceno, cioè invisibile e fuori scena, Arendt ha aggiunto una decisiva definizione del crimine di «genocidio». Il «genocidio», la volontà di annientare la radice nativa della diversità, è
crimine contro l’umanità, di cui il popolo colpito rappresenta, agli
occhi dei testimoni ora coinvolti nel danno, solo il corpo del reato9.
La restante umanità, quella testimone e attrice-spettatrice indiretta delle violenze, deve quindi decidere che ruolo giocare in tale
fattispecie di reato, se il ruolo del solo testimone, complice implicito
dell’offesa, o se quello del vero sconfitto, che interviene a cercar di sgominare e annientare il carnefice.
A far diradare l’ambigua realtà dell’intera situazione e dell’oscuro
e invisibile scenario genocida, che non permette mai di cogliere in
flagrante il colpevole e cogliere l’evidenza della sua mattanza, è solo il
deciso e decisivo intervento dell’ex-testimone. Ogni testimone della
violenza politica di massa è sempre un ex-spettatore, è sempre in ritardo ed in differita rispetto alla pretenziosa velleità di attestare l’evidenza della carneficina. L’ex-testimone, il soggetto, l’attore in differita,
non può invocare alcuna clausola di salvaguardia: è sempre e solo in
ritardo quando deve smascherare vittima e carnefice, e non può non
correre il rischio che la sua reazione, in nome di un diritto male interpretato, o addirittura inventato e millantato, possa intervenire, imperativamente, a fare del preteso carnefice un’altra vittima dell’intervento
stesso, e a dare alla storia tutt’altro carattere, tutt’altra impronta.
Tale è la situazione di rischio estremo, privo di garanzie giuridiche
se non labili, privo di credenziali di legittimità se non arrischiate, del
cosiddetto intervento umanitario. Tale intervento si realizza, se vuole
essere un atto politico e non un mero atto di fede o una preghiera
ipocrita, sempre e solo attraverso la guerra o la sua minaccia, una
guerra che comincia già nel momento in cui il monitoraggio di una
situazione e la sua difficile decifrazione deve tentare ed osare, usando
l’astuzia delle spie e la strategia fuori norma dei pirati, deve osare assegnare un volto ed una responsabilità tanto al carnefice quanto alla
vittima di un genocidio.
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È questo un atto osceno, che le nostre prevenzioni ireniche e pacifiste vorrebbero sempre ritardare, un atto che si compie e consuma
fuori scena. Perché l’intervento umanitario si fonda sì su un atto di
fede, il cui argomento è appunto inapparente, ma vorrebbe poi, blasfemo, tradursi in realtà, non vorrebbe sostanziare solo una pubblica
ed ipocrita preghiera, ma farsi intervento, sgominare il reo e riscoprire il velo di una giustizia possibile nel volto dei sopravvissuti, nella
salvaguardia della loro diversità. Ed è così che la politica, e proprio
quella più alta e nobilmente atteggiata, non può che fondarsi sulla
colpa e tradursi nella responsabilità dei propri errori, perché l’intervento politico si compie in modo colpevole, si macchia di delitti ed
è pronto a dare e a darsi la morte pensando, forse a torto, di poter
risparmiare qualche vita.
L’alternativa a tutto questa è la nostra paralisi pacifista, l’ipocrisia
di chi è sempre altrove, sempre dalla parte del bene e mai col torto,
è la situazione di chi gli eventi storici nemmeno in ritardo o in differita riesce a viverli, perché avrebbe la pretesa di viverli a ritroso,
attraverso una moviola ricostruttiva delle oggettive responsabilità,
quasi la storia fosse un carosello di eventi che sfila ordinato davanti ai nostri immacolati occhi, come in un aggraziato girotondo per
educande.
3.2. Avvenire e caduta della filosofia
Ecco, ho cercato di alludere a cosa intorno a noi, al nostro oriente
più prossimo. Invochiamo una democrazia a venire e spesso, ripetendo il titolo divenuto anche slogan (grido di battaglia) delle “politiche
dell’amicizia”, non ci accorgiamo di immunizzare proprio il singolare ed inafferabile nesso socratico che si dà ed insiste tra democrazia,
diritto e filosofia.
La filosofia è una forma di ostilità con sé stessi, perché scava le
voragini del proprio diritto, e nel suo tenersi al margine degli insondabili presupposti dello stato, dello status qaestionis, deve anche non
volendo concedere e accordare a quest’ultimo di definire la cittadinanza
e la condizione filosofica della stessa, deve lasciargli aprire un varco e
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un porto di accesso alla pirateria della critica. Senza cittadinanza non
c’è possibilità di critica, di argomentazione, di eresia, di scelta.
La filosofia è antidoto, di cui solo la politica può però, errando beninteso, contraddire la dose. Altrimenti la filosofia, di per sé un’onda, una marea avvolgente, tenderebbe ad un’assiomatica “degnità”,
troppo aperta, indefinita e vera per essere politicamente realizzabile.
E a noi europei la realizzabilità pare divenuta cosa storicamente ed
esteticamente noiosa, da mediocri.
Guardiamo al di là, ad un lontano oriente, ad un futuro impossibile e spesso antipolitico, invocando una “democrazia a venire”. Ma
la democrazia, forma flessuosa di organizzazione dei poteri giuridici,
è la smentita dell’avvento ed è il regime stesso dell’inter-vento, della
crisi e della responsabile discrezionalità ancor prima che della critica.
Il suo (anti)corpo filosofico dovrebbe quindi renderla desta circa i
limiti intrinseci al suo fondamento apparentemente più qualificante:
la pluralità, la diversità.
Io credo che oggi reclamiamo ad alta voce forme di pluralità senza esclusioni, perché non ci è più grato riconoscere che, così come
quello della diversità è omologante, altrettanto il paradigma retorico
della pluralità è tra i più selettivi concetti di cui disponga questo
nostro mondo. La pluralità senza margini e senza misura è infatti un
orribile vacuo verbale, e si traduce non in accoglienza, bensì in una
spettrale e desertica piattezza. Il modello della pluralità, se si dà, si
dà solo sulla base di una pregiudiziale quanto inevitabile esclusione
di ciò che non si accorda con il selezionato tipo di pluralità. Non ce
n’è altro o di altro tipo, è la tipizzazione stessa ad essere selettiva.
Senza tipo non c’è organizzazione della vita, e dove c’è selezione e
particolarità, la si dà anche una qualche dose e forma di esclusione e
di possibile inimicizia, là si annidano il problema e l’aporia del lavoro di autocritica filosofica del diritto. Senza selettività, prospettiva,
obiettivi mirati e definizione tecnica della (sua) vita, non ci sarà mai
democrazia a venire, e troppe vittime della violenza continueranno
a passar sotto il fuoco coperto da onorevoli, omertose e retoriche autorappresentazioni filantropiche. La democrazia è, ahi noi, colpa, è
intervento selettivo e “particulare”, è inter-essata. La democrazia non
è a venire, ma sempre sul punto, inafferrabile, di inter-venire. È il re80
gime dell’errore, dell’andar vagando, empirici, pirati, ed il suo ritmo
è anche quello schumpeteriano della distruzione creativa.
Siamo oggi in attesa, subiamo il moto ondoso di una ridefinizione
globale degli equilibri politici. Siamo in ansia che in una terra di cedri e limoni possa presto accendersi un incendio. Cosa farà chi sogna
e crede che intorno a Gerusalemme possa sorgere una metropoli di
diritto internazionale in cui inaugurare una facoltà di teologia parlante diverse lingue? Continuerà a delegare ad altri occidentali l’onere di uno scomodo arbitrato politico-militare, per biasimarne poi gli
errori e gli interessi messi in gioco, o deciderà che solo mettendosi
in gioco, intervenendo ed interponendosi tra forze di fratricida odio,
potrà forse aiutare a far rifiorire una ginestra di tolleranza?
È nella situazione vissuta da Socrate che noi avvertiamo da sempre
l’irresolubile e indifferibile tensione tra ordine politico e giustizia.
Per Socrate non sono il solo vivere e il sopravviversi da tener nel più
alto conto, bensì il vivere tendendo al bene (Crit. 48 b 5-6), a quell’ideale giustizia inconciliabile con le regole dello stato di diritto e
con le ragioni della politica, che da sempre amministrano e sedano il
nostro vivere, ne fanno comunque un sopravvivere soffocato da inevitabili conformismi e da tendenze livellanti.
Chi tende alla giustizia e ad un valore di verità non può non
esporsi al rischio dell’eresia e alla pena di morte inflitta da quello
stesso ordine di cui è stato partecipe attore e critico formatore. L’inconciliabilità di diritto e giustizia fa sì che, di fronte a chi pronunci
un argomento a favore dell’irrappresentabile giustizia, si scatena di
necessità un conflitto. Argomenti pro veritate e ragioni del diritto
non possono non farsi paradossalmente, gli uni e le altre, reciproca
ingiustizia.
Socrate è nel giusto quando racconta che la spinta a filosofare e a
cercare le ragioni della verità non è frutto di una decisione soggettiva. Gli è stata imposta, suggerita dal dio stesso che è in noi e parla
come l’altro parla in noi, pro-vocandoci (Apol. 31 c9-d4). E di fronte
a tale provocazione, che diviene poi professione, non c’è possibilità di
patteggiamento, già con sé stessi e con la parte civile e addomesticata
di sé stessi non ce n’è (Apol. 29 d 3-5). Si è come costretti e filosofare
81
e non si può credere di poter riguadagnare la libertà e l’innocenza
rinunciando all’argomentazione pro veritate e lasciando la città in cui
siamo nati, in cui abbiamo appreso la parola e il diritto-dovere alla
cittadinanza critico-filosofica.
Siamo in debito con il demone che si agita altrove-dentro di noi,
siamo in balia del bisogno di verità, in cerca, pirati. Nessun porto è
sicuro, l’inospitalità ci accomuna al porto, a qualsiasi porto, perché
anche il pirata non è uno spettro gradevole da accogliere. Socrate sa
che per tendere al divino che si agita in noi e ha invaso le porosità
del nostro corpo, non possiamo non esporci a morte certa. Se per
viltà scegliesse di sopravvivere, Socrate sarebbe indegno della verità,
quindi un morto in vita. Ma scegliendo di seguire il comando del
dio e rendersi capace di verità, Socrate perde sé stesso, perché la vita
è di norma inadeguata a cogliere la verità, e solo sottraendosi alla
presa del proprio respiro alla vita è dato, in un attimo di impossibile
sospensione mistica, d’intuire la verità.
Socrate, nella cui esperienza la giustizia si rivela indefinibile, considera più degna la morte ricevuta in nome della verità testimoniata,
che la morte data in nome della difesa delle instabili leggi della città.
Si tratta dei due volti della stessa verità e della stessa morte, la prima
non può mostrarsi se non sottraendosi, nell’attimo decisivo, alla presa della seconda, ed è per questo che in ognuno di noi, alla fine dei
conti, è il cittadino Socrate che avrà ucciso l’omonimo e irriducibile
testimone di verità e giustizia. Questo è l’unica libertà che ci è dato
vivere, e non conosce pacifici approdi.
C’è allora anche una punta d’ingenuità e di unilateralità ad interpretare il reclamo di Socrate (Apol. 30 d3-e1) individuando nell’uccisione del filosofo un torto e una ferita inferti al dono stesso mandato
dal dio alla città (teou dosin), dono ed invio cui ne seguiranno altri.
Ingenuo è credere che filosofare sia ingenuo, innocuo e innocente. Il
filosofare è un dono sempre velenoso e non è privo di macchia e di
colpa, perché nel suo tentativo di allargare i margini e la portata di
verità dello stato di diritto, dello status quaestionis, li corrode ed indefinisce, li inonda con l’illusione di un’indefinibile verità. La città non
può allora non elaborare un antidoto al dono della filosofia, e se è vero
che la città non sarà mai abitata da autentici cavalli di razza, è certo
82
che il filosofo mai altrimenti che come miserabile tafano potrà apparire agli occhi del cittadino benpensante che è in ognuno di noi.
Se l’ingiustizia per Socrate è l’offesa portata all’innocente, che è
però sempre altro da ciò che noi stessi siamo in quanto cittadini responsabili e rispettabili, allora l’ingiustizia non è definibile se non
a costo di violare l’irrappresentabilità stessa dell’innocenza e della
vera giustizia. L’altro in noi è uno spirito selvatico e pirata, volatile
e senza peso. Per quanti sforzi noi facciamo di definirne il volto, è
solo attraverso un habitus o uno status giuridico che ci riusciamo, tuffandoci nell’agone politico e macchiando la sua e la nostra innocenza
quindi. L’altro in noi è sempre in stato di sofferenza: solo nei termini
di un’assurda preghiera formulata con le parole di un imperativo
supplice possiamo fingerci interiormente la sua provocazione e il suo
comando, il nostro essere in sua balia, spinti a filosofore e a difendere
chi soffre, per salvaguardare la flebile voce della verità.
Se quindi già con Socrate, che ha posto la questione nella forma
più alta e nobilitante, la giustizia risulta indefinibile, non resta che
prendere coscienza della necessità di definire l’ingiustizia solo via
negationis vel exclusionis, smentendone colpevolmente l’irrappresentabilità e definendola per esclusione, attraverso una tipo di reato.
La responsabilizzazione del testimone dell’invisibile e osceno
spettacolo di morte che prende forma nel genocidio e si incarna in
un corpo del reato, il popolo attraverso il quale è offesa l’intera umanità, quella vera e autentica, quella (im)propria e abitante l’altrove
demoniaco-interiore del testimone stesso, tale responsabilizzazione
è l’unica via che abbiamo per definire la giustizia e rappresentarci
l’oscenità dell’ingiustizia. È una via non filosofica o solo parafilosofica, è una via politica e militante, che dissolve qualsiasi pretesa di
costituire un osservatore non interno al sistema di osservazione degli
eventi e non già sempre coinvolto nella loro travolgente dinamica.
È una via che fa della colpa militante l’unica via laica di uscita dalla
impercorribile e fondamentalista via del bene e del male.
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C. Schmitt, Il nomos della terra: nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano 2003, p. 21. Non so se Derrida, a cui in queste pagine
farò alcuni indiretti riferimenti, si sia misurato con questa tesi e con l’opera che
la ospita. Il suo interesse sembra andato prevalentemente all’opposizione intensiva «amico/nemico» (specie in DERRIDA 1994, in part. nei saggi L’ami revenant
e De l’hostilité absolue. La cause de la philosophie et le spectre du politique, cfr. p. 102
e sgg.). Sulla serie «hospes, hostis, hostage, host, guest, ghost, holy ghost e Geist», cfr.
anche DERRIDA 2004, p. 53, con riferimento, in contesto heideggeriano e in
tema di «impossibile perire», al nesso tra il greco «peraô», «aporia», e il latino
«pereo», «perire» (p. 8 e p. 28), cui faccio allusione, con aggiunta di altri termini
derivati, in alcuni passi del mio contributo.
Metaph. VI, 2, 1026 b 2 – 1027 a 13 (trad. it. di G. Reale).
Cfr. DERRIDA 1998, pp. 11-61: p. 23, su «invention de l’autre dans le même»; p.
35: «la décostruction est inventive» e sgg. (anche su «venir, inventer [erfinden-],
trouver, se trouver»); p. 47: «inventer, c’est produire l’itérabilité et la machine à
reproduire, la simulation et le simulacre» (cui alludo più avanti).
Per un possibile sviluppo di queste tematiche si tengano presenti gli studi di RICOEUR 2001, in part. dal terzo al quinto (pp. 89 sgg.) e la letteratura lì citata.
Cfr. su questo singolare aspetto F. Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano
2006, pp. 212-215, il quale sostiene la necessità paradossale di pensare l’intera
struttura della realtà subatomica non tanto in termini di particelle identificabili,
quanto in termini di energia, movimento ed eventualità non localizzabili, ma
solo “tendenti ad essere”, “tendenti quindi ad accadere” in un campo o in uno
spettro di probabilità sempre e solo virtuali.
Non è questa la sede per approfondire questa cruciale ed inaggirabile aporia. Chi
scrive ha cercato in altra sede di svolgerne un’analisi. Visto che il mio contesto di
lavoro è stato quello heideggeriano, mi limito a fornire delle indicazioni testuali
ad esso relative. Quanto alla situazione aporetica della Grazia, un rilevante documento risulta alla lettura di HEIDEGGER 1976a, pp. 81-85, dove, tra le altre cose,
la “Ver-antwortung” è come tematizzata nei termini di un’iperbolica “remissione”
(Überantwortung) all’appello silenzioso e preverbale dell’Essere. Cfr. anche HEIDEGGER 1998, § 57, 23: «Herrschaft ist die cheris des Seyns als des Seyns».
Circa lo Zeit-spiel-raum, definito da Heidegger «originaria unità», cfr. HEIDEGGER 1997, § 31, pp. 101-102: «l’inafferrabile ricchezza, che si essenzializza internamente [innig-wesend], dello Inzwischen, il quale, senza fondo, fonda [ab-gründig gründet] ogni vicinanza e lontananza, ogni rifiuto come ogni donazione, ogni
velamento come ogni radura, e che né compete all’uomo come creatura della
rappresentazione di questo, né altrimenti all’essente come cornice dell’apparizione di questo».
L’indecidibilità dell’evento è così, da Heidegger, contraddittoriamente rappresentata: «L’essere stesso è la decisione – non un distinto di contro ad un essente per
una distinzione rappresentativa che si aggiunge, una distinzione oggettivante
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7
8
9
e livellante i distinti. L’essere de-cide – come evento-proprio [Er-eignis] nell’evento-appropriazione [Er-eignung] dell’uomo e degli dei […] Questo eventoappropriazione fa scatuire il contenzioso [Streit] di mondo e terra nella lotta [Erstreitung] –, nel quale contenzioso soltanto riluce l’Aperto – dove l’essente ricade
in sé stesso e acquista un peso [Gewicht. C.vo di Heidegger]». Cfr. HEIDEGGER
1993b, p. 43; quindi: «La Lichtung è abisso in quanto fondamento [Ab-grund als
Grund], è il negativo dell’intero essente e, in questo modo, il più rilevante [das
Gewichtigste] in quanto mai “presente”» (p. 45).
Circa infine, il nesso donazione-evento e nullità, cfr. Cf. HEIDEGGER 1997, § 78,
pp. 293-294: «Il nulla non è né negazione dell’essente, né quella dell’enticità
[Seiendheit], né è “privazione” dell’essere, la spoliazione [Beraubung], che sarebbe
contemporaneamente annientamento. Piuttosto il Nulla è il primo e più alto dono
[Geschenk] dell’essere, che questo come evento [Ereignis] con se stesso e in quanto
se stesso dona nella radura dell’origine come abisso [in die Lichtung des Ur-sprungs
als Ab-grund]». Per un’analisi di questi brani e delle relative questioni mi permetto di rinviare a MASCHIETTI 2005, pp. 164-87.
Il mio riferimento è H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi,
Torino 2000, §§ 28-31.
Cfr. K. Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania,
R. Cortina, Milano 1996. 1996, pp. 73-74.
Cfr. H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 274-75 dell’Epilogo e, nel capitolo prove e testimonianze, le pagine finali, in part. pp. 237-40.
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COMUNITÀ
di Michele Spanò
Volevo scrivere una poesia intitolata: il Comunismo.
Ma qualcos’altro vi si è sovrapposto.
Giovanni Giudici
1. «La presenza di un problema oscuro»
Per iniziare: una lunga citazione e una excusatio non petita. Così
Husserl nelle Meditazioni cartesiane:
Quel che si costituisce come prima cosa sotto forma di comunità e
che è fondamento di tutte le altre formazioni intersoggetive di comunità è la
comunanza della natura insieme alla comunanza del corpo organico
estraneo e dell’io psicofisico estraneo che fa coppia con il mio io psicofisico proprio. Dato che la soggettività estranea sorge per rappresentazione entro la cerchia chiusa dell’essenzialità propria della mia
soggettività […] si potrebbe a tutta prima scorgere qui la presenza di
un problema oscuro, quello del modo in cui deve venire a effettuarsi
una formazione di comunità in generale, anzi sotto la forma originaria di un mondo esistente in comunità (HUSSERL 1950a, p. 140).
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Certamente si potrebbe trattare di un buon abbrivio per un contributo intorno alla comunità e alla fenomenologia. E tuttavia – ecco
le scuse non richieste – non sarà Husserl il nostro protagonista né le
sue categorie a farci da guida. A questa scelta senz’altro opinabile
concorrono più motivi. Le competenze da un lato, e dall’altro la convinzione che Husserl appartenga a un altro tempo della riflessione
sulla comunità. Proprio quello che qui si vorrebbe provare a sovvertire attraverso una ripartenza.
La comunità – nell’ipotesi di sequenza che questo seminario ha
deciso di indagare – si segnala come un corpo estraneo. Si tratta, in
effetti, di un oggetto teorico mai tematizzato come tale in quello che
abbiamo imparato a riconoscere come un canone fenomenologico.
Tanto che sarebbe solo uno specioso dovere di filologia a costringermi al setaccio delle eventuali occorrenze del tema, anche laddove non
si mostrino che inessenziali affinità nominali.
A mio avviso, questa sola presa d’atto ci consegna già una cospicua dote di riflessioni. Le elenco alla rinfusa, proponendomi di
ordinarle poi:
1. Il fatto che non sia mai tematizzata suggerisce qualcosa circa la
comunità, forse circa il suo statuto di intematizzabile. Alluderebbe,
quindi, all’essenza propria della comunità. Un’essenza propria che, per
intematizzabile che si mostri, si rivelerebbe una esistenza impropria.
Ecco allora il primo traguardo: la comunità è assenza di un’essenza.
2. Tale assenza ci obbliga a una più attenta ricognizione dei rapporti che annodano fenomenologia, politica e religione e, di rimando, al generico privilegio che gli autori della fenomenologia hanno
finito col riservare all’etica.
Nulla di nuovo, per la verità. La fenomenologia – al limite. La
comunità – come già l’alter ego e il corpo – ripropone la questione
del bordo, del limite o delle condizioni della fenomenologia. Laddove
l’evidenza diviene impossibile da attingere, rimangono indecidibili
aporie e complessi nodi. Non mi pare un cattivo servizio reso alla fenomenologia riconoscerne i limiti e misurarne le impasses. Al contrario.
Mi propongo, perciò, di seguire la comunità – secondo un metodo
forzatamente indiziario – come una traccia, un calco, un negativo
attraverso il canone fenomenologico. Il carattere negativo o difettivo
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non risulterà casuale, al contrario, il suo riconoscimento costituirà
il primo necessario passaggio al fine di schizzare una sia pur incerta
fisionomia della comunità.
Una ricognizione etimologica offre la via all’indagine. Comunità
da cum-munitas: nel cum – legame impossibile e altresì irrecusabile
– ne va di un munus, dono particolarissimo, dono donato e debito
contratto, a un tempo. Grazia e prodigalità descrivono un quadro in
cui non v’è spazio alcuno per proprietà, appropriazione e padroneggiamento, destinati spesso a risolversi nell’inverso – e ben più economico – regime dell’immunitas (cfr. ESPOSITO 1998; ESPOSITO 2002).
Ma andiamo con ordine. È nella logica della proprietà che va riconosciuto il maggiore attrito per un pensiero della comunità in grado
di accedere al suo impensato; proprietà o sostanza che sia, la comunità è stata pensata – da comunitarismi, comunismi, etiche della comunicazione – al pari di un “che”, un ente o una cosa, di addizionale
che si aggiunge, assomma, integra a un soggetto definito, il quale,
proprio in grazia di tale appropriazione, si ridefinisce come un soggetto trasformato, un più soggetto. Tanto che proprietà e comunità
sembrano irrevocabilmente destinati – anche nei più diversi incroci
– a ritrovarsi stretti in un nodo solo.
La cum-munitas, al contrario, ci parla di un legame in perdita: difetto che affetta, contagio che si propaga, mancanza che pulsa, debito
che insiste. Comunità di chi non ha nulla in comune, se non, al limite, il nulla stesso. Ciò a dire che la comunità, per sé, non è nulla.
È o c’è come la relazione che spazia i soggetti esponendoli e, così,
destituendoli anche delle caratteristiche che, appunto, ne facevano
dei soggetti: identità, proprietà, appartenenza.
Impossibile a questo punto che si diano condizioni di identificazione, non c’è, infatti, una cosa, una causa, una sostanza o un’essenza
che abbia il potere agglutinante di costituire soggetti. Di più, non ci
sono più neanche soggetti, dal momento che nulla – se non il nulla
in quanto tale – li costituisce come tali. Ecco che la comunità non
può più presentare la sua faccia affermativa, non avendo più nulla da
riempire, ma, piuttosto, essa viene a configurarsi come quello scarto
o taglio che incide i soggetti e li relaziona nella pura esteriorità o
improprietà costitutiva.
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È evidente che qui, in questo dono dell’esposizione, in questo
approssimarsi dei soggetti al proprio bordo, al proprio nulla in comune, dimora anche l’estremo pericolo: la morte. Se il dono è quello
dell’esposizione, ossia della vita, è la comune finitezza a stringere il
nodo e a dettare le misure del rapporto, ma, soprattutto, a istituire il
pharmakon del dono stesso: l’immunizzazione, in altre parole.
Quest’ultima, infatti, verrebbe a costituirsi come il dispositivo
principe della filosofia politica, in grado di recuperare gli eccessi e le
eccedenze di un dono intrattabile e di normalizzare soggetti che più
non rispondono alle logiche disciplinari e di controllo. L’esenzione
del debito è il prezzo che si paga nel passaggio dal comune all’individuo, dove questo si definisce proprio come il soggetto immune
dalla relazione, e le garanzie, diciamo pure i diritti, di cui è titolare,
sono esattamente ciò che lo svincola da quel più profondo vincolo
che aveva la forma del dono con altri, del rapporto o della ferita che,
esponendolo, ad altro lo consegnava.
La filosofia sembra essersi impegnata nel tentativo di chiudere i
conti con la comunità attraverso un sacrificio del cum, in cui la relazione è immolata sull’altare della sopravvivenza, in un rito scandito
da quello che Carl Schmitt aveva definito il cogito ergo sum del pensiero politico: protego ergo obligo. La convivenza è barattata con la sopravvivenza e il sacrificio è contrabbandato come sicurezza. È attraverso
questo movimento che individui irrelati sopravvivono alla relazione
che hanno sacrificato: immuni dal comune.
La fenomenologia non è, in questo quadro, esente da colpe. Perché, se è vero che in quanto vado dicendo è un fenomenologo della
statura di Jean-Luc Nancy a farmi da guida, è in Martin Heidegger
che dobbiamo riconoscere uno dei pensatori più ambigui della comunità. Da un lato, egli è stato il primo a scorgere le relazioni pericolosissime tra il nulla e la cosa, così da permettere, finalmente, uno
sguardo sulla comunità sgravato da pesanti ipoteche organicistiche
e sostanzialistiche; d’altro canto, è lo stesso filosofo che – per tacere
delle sue concrete prese di posizione politiche – dopo aver posto il
“con” in una posizione centrale nel quadro della sua ontologia, ne ha
poi occultato le tracce.
Mi propongo adesso di rintracciare quel che resta del “con” in Hei89
degger attraverso la lettura critica di Jean-Luc Nancy, mettendo poi
la proposta di quest’ultimo sotto il fuoco di fila delle critiche mossegli da Jacques Derrida che spero risulteranno utili, da ultimo, a mostrare come la comunità costituisca un problema urgente per noi.
2. Heidegger: Con, Si, Popolo
In Essere e tempo l’esserci comporta la proprietà costitutiva di essere
anche con-essere (Mitsein) o con-esserci (Mitdasein). Questi ultimi sono,
o dovrebbero essere, insieme co-essenziali e co-originari rispetto all’esserci (Dasein) (cfr. HEIDEGGER 1977, pp. 145-157), tuttavia, come
ha rilevato Nancy, Heidegger risulterà molto poco conseguente con
queste premesse, una volta intento a svolgere l’analitica esistenziale. Il Dasein ha da essere il suo proprio Da, aprendosi, quindi, alla
possibilità dell’esposizione. Possibilità che si traduce nella singolare capacità di mettere al mondo il mondo attraverso un’apertura di
senso.
Essenziale al Dasein è, però, il Mitsein, l’essenzialità di tale “con”
è compresa da Heidegger tra due estremi tesi a segnalarne la peculiarità: da un lato, è un “con” che non viene a coincidere con una
collezione o raccolta di cose, dall’altro, è esposto e, quasi fatalmente,
destinato a precipitare nella nozione di popolo come ciò che è in grado di storicizzare il Dasein stesso. La “posta” (enjeu), lo si capisce, è
altissima: «a partire da Essere e tempo appare chiaro come la co-esistenza
costituisca un experimentum crucis del nostro pensiero» (NANCY 2003,
p. 63).
Nancy prova a far cortocircuitare il silenzio di Heidegger circa
un Da plurale, un Da di molti Dasein, ricavandone tre modi possibili del comune o del “con”: la pura esteriorità della prossimità, la
pura interiorità di una proprietà comune, dunque collettiva e, infine,
«il comune come condivisione delle proprietà». Ecco che per Nancy
la posta in gioco subisce un’immediata traduzione politica: perché
Heidegger ha sempre ignorato questa terza figura del comune? E,
soprattutto, qual è il riflesso politico, il “regime” cui questi modi del
comune sembrano alludere? Il primo modo del “con” è quello demo90
cratico, il secondo quello totalitario. Tra il si e il popolo, tra la persona
e la comunità, il “con” è stato finora eccettuato ed espulso, finendo col
perdere l’essenzialità che, pure, gli era stata assegnata.
Questa la tipica – ma, contestualmente, dittatoriale – dispersione
del “con” nella dimensione del Si:
Questo essere-assieme dissolve completamente il singolo Esserci nel
modo d’essere “degli altri”, sicché gli altri dileguano ancora di più
nella loro particolarità e determinatezza. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua autentica dittatura. […]
Il Si, che non è un Esserci determinato ma tutti (anche se non come
somma), decreta il modo di essere della quotidianità (HEIDEGGER
1977, pp. 158-159).
E questo, invece, il ben più glorioso destino del “con” nella modalizzazione del Popolo:
Ma se l’Esserci, carico di destino, in quanto essere-nel-mondo, esiste
sempre e per essenza come con-essere con gli altri, il suo accadere è
un con-accadere che si costituisce come destino-comune. Con questo
termine intendiamo l’accadere della comunità, del popolo (HEIDEGGER 1977, p. 453).
Il proprio del “con” è definito da Heidegger come l’aver cura (Fürsorge), variamente declinabile nella forma di un prendersi cura al posto
di, o, altrimenti, nella capacità di porre l’altro nella sua propria cura.
Ma, si chiede Nancy, a proposito di questa seconda forma, come è
possibile che «il proprio sia restituito al proprio a partire da un’esteriorità»? Ne va, è evidente, di spazio, di quello che Nancy definisce il
«tra noi»; anche quest’ultimo, però, si configura attraverso tensioni
di campo concettuale che il testo heideggeriano non aiuta a risolvere
e non restituisce del tutto: occupazione e sostituibilità da un lato,
copropriazione e autenticità dall’altro.
Qui di nuovo è questione di un comune: di una cosa comune nel
primo regime di significato, di una causa comune nel secondo. Prima di affrontare lo spinoso problema del popolo, Nancy chiama in
causa la morte come il momento di massima confusione tra proprio
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e comune, e insieme di massima tensione dell’esistenza sul bordo
dell’esposizione.
La rottura dell’isolamento è data, per Heidegger, solo dall’accesso
a una storia e, quindi, a un destino. È sempre il “con” a renderlo possibile, rendendo attingibile, oltre il si, una dimensione del proprio:
il popolo. Tanto nel caso del si quanto in quello del popolo il “con”
precede e succede l’individuo: anonimato o comunità che sia, il risultato è lo stesso. Nancy definisce queste modalizzazioni del “con”,
l’una impossibile, l’altra iper-possibile; entrambe, è questo il punto,
obliterano il con-esserci. Un’esatta topologia del là mostra, invece, che
questo non può esplicarsi se non attraverso l’inclusione di infiniti
altri là. Né contiguità né con-fusione quanto com-posizione.
La complessa natura dell’intreccio e del contatto che il “con” ha il
potere di esibire delude e insieme eccede le logiche che sostengono i
“regimi” del si e del popolo: sta qui la reale co-originarietà tra co-esistere ed esistente. L’insidia del popolo, tuttavia, è ritornante e pronta
a inquietare anche altri testi heideggeriani: da un lato, attraverso il
persistente riaffacciarsi della nozione di destino e destinazione, alla
quale andrebbe contrapposta quella di esposizione, di co-esposizione,
di esposizione al “con”, in grado, si presume, di sovvertire il regime
di senso retto da una logica del sacrificio e del mito; d’altro canto, si
tratta anche di pensare a un “con” che non precipiti in una comunità,
che non si sovradetermini in un destino, ma si esponga unicamente
a se stesso.
3. Ancora Heidegger: il nulla della cosa
Sacrificio, offerta, cosa, nulla. Questa “treccia” ci accompagna su
un’altra scena heideggeriana. La scena di La cosa (Das Ding). In questa conferenza del 1950 Heidegger affronta – con stile vertiginoso –
questioni di tale complessità che mi astengo anche solo dall’evocare.
Quel che mi interessa conservare del testo è esattamente il rapporto
o la relazione che si istituisce tra la cosa e il nulla. Meglio: Heidegger dice qualcosa della comunità quando evoca il «nulla della cosa».
Se la domanda di partenza suona: «che cos’è una cosa?» (HEIDEGGER
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2000a, p. 110) molteplici sono le risposte da scartare. La cosa, innanzitutto, non è un oggetto. La sua «cosalità» non si mostra nel suo
essere oggetto presentato e rappresentato e, tampoco, nel suo essere
prodotto proveniente da una produzione.
Quale, allora, l’essenza di una cosa, di una brocca per esempio? Il
vuoto, risponde Heidegger; «questo nulla nella brocca» (HEIDEGGER
2000a, p. 112) è ciò in cui la brocca “consiste”. Come per la comunità, la cosa ha per essenza un’assenza, un vuoto, un meno o una
mancanza. Il fraintendimento dell’approccio scientista sta nel non
riconoscere questo vuoto e nell’impulso a colmarlo attraverso un’adeguata rappresentazione. Non cogliere il nulla della cosa, questo sì,
equivale ad annichilirla. Proprio a questo modo dell’annichilimento
– di un nulla che annulla il nulla della cosa – si contrappone un
diverso modo di preservare il nulla che la cosa, la comunità, è. È il
modo dell’offerta, o, potremmo anche dire, del munus, del dono:
Il duplice contenere del vuoto si fonda sul versare. In quanto tale il
contenere è propriamente ciò che esso è. Ma versare dalla brocca è
offrire (Schenken). Nell’offerta del versare si dispiega il contenere del
recipiente. Il contenere ha bisogno del vuoto come del contenente. L’essenza del vuoto contenente è raccolta nell’offrire (HEIDEGGER
2000a, p. 114).
Un vuoto che spartisce, un nulla che dona la spartizione. Il munus,
in altre parole, è la relazione del niente in comune. Un legame assai
bislacco che sembra slegare nel momento in cui annoda, che approssima nella lontananza, che è infimo o intimo nella misura in cui è
infinito. Ma è certamente questa la misura per i «mortali», gli esseri
finiti, le esistenze plurali e irripetibili che, esponendosi al nulla, compaiono.
Dicevo dei «mortali», l’espressione heideggeriana che, nella conferenza, si accompagna ai «divini». Non è mia intenzione, come ho
detto, affrontare la questione. Tuttavia non mi sembra del tutto ozioso segnalare come per Heidegger il versare come offerta (Geschenk)
– ciò che calma la sete dei mortali – acquisti il suo modo essenziale e
autentico quando diviene offerta agli dei. Offerta che, però, si muta
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in un «sacrificare» (HEIDEGGER 2000a, p. 115). Mi sembra che si possa scorgere – in questo passaggio dall’offerta al sacrificio – lo stesso
riprodursi del ribaltamento della communitas nell’immunitas: i mortali
– nell’incapacità di sostenere l’abisso, il nulla del loro legame – sacrificano il munus ai divini, riattivando così la logica di uno scambio, di
un’economia e di una dialettica che, per un attimo, il nulla della brocca e il suo munifico potere di dissetare sembravano aver spezzato.
Evidentemente, oltre Heidegger, la comunità ha continuato a
inquietare il pensiero ed essa si è, puntualmente, ripresentata sulla scena. Il più delle volte, però, i difensori della comunità, ormai
completamente stretti dal dispositivo immunitario, hanno finito per
riproporre unicamente quella visione affermativa, piena, riempitiva
di comunità, che è solo lo specchio del sacrificio immunitario. Si
tratta di una risposta incapace di accettare quel nulla, quella cosa,
che si rivela essere il cuore osceno del legame, e che costringe e piega
anche pensatori grandissimi ad antropologizzare, teleologizzare e sostanzializzare variamente la comunità. Questa costrizione, del resto,
ha il potere di mostrare come la condizione si presenti nelle forme di
un’aporia: un pensiero conseguente della comunità come si preserva,
tutela e garantisce dalla fascinazione dal niente che la costituisce, senza capitolare, nuovamente, di fronte al paradigma immunitario?
4. Cummunitas
La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, ben aldiquà di tutti
i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile. Anche se la società è meno comunitaria possibile, non è possibile che nel deserto sociale non ci sia, infima o addirittura inaccessibile,
comunità. Noi non possiamo non com-parire. Soltanto, al limite, la
massa fascista tende ad annientare la comunità nel delirio di una comunione incarnata. E analogamente il campo di concentramento – e
di sterminio, il campo di concentramento dello sterminio – è, nella
sua essenza, volontà di distruggere la comunità. Ma mai, nemmeno
nel campo di concentramento, la comunità cessa completamente di
resistere a questa volontà. Essa è in un certo senso la resistenza stessa,
la resistenza all’immanenza (NANCY 1986, pp. 78-79).
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Questo, se così si può dire, è il risultato guadagnato dalle ricerche
di Jean-Luc Nancy. Ed è proprio questa decostruzione della comunità che abbiamo adesso intenzione di ricostruire.
Il pensiero della comunità ha da sempre avuto come orizzonte una
comunità umana: comunità di uomini produttori della loro propria
essenza sotto forma di comunità. O anche: l’opera della comunità è la
sua propria essenza. Immanenza dell’uomo all’uomo, della comunità
alla comunità, questa forma di profondo essenzialismo ha informato
di sé ogni pensiero della comunità.
Rispondenti alle logiche simmetriche di una vuota immanenza,
comunità e individuo, sono atomi di pensiero che, perché un mondo
possa darsi, richiedono un clinamen che li intrecci e li faccia incontrare. La metafisica ha continuamente mancato il tema della comunità
perché da sempre incapace di pensare l’essere come rapporto. Metafisica della chiusura e dell’assoluto essa implica comunque – nella
forma di un’assolutezza dell’assoluto – quel rapporto che cerca di
oscurare. Ma la comunità, che è rapporto, torna a spezzare questa
logica, mostrandone le aporie costitutive e mettendone a nudo il
principio. Attraverso Bataille, Nancy ha introdotto la figura della
lacerazione (déchirure) – una delle infinite maschere della différance?
– in grado di imporre un rapporto all’assoluto, ossia di produrre uno
scarto nell’immanenza, che passerebbe tra questo e la assoluta totalità degli enti.
Attraverso questo taglio e questa ferita è l’essere stesso che si definisce come comunità. Ek-sistenza o estasi come ciò che impedisce la
speculare chiusura immanente dell’individuo e della collettività: «La
comunità, o l’essere estatico dell’essere stesso? Questa sarebbe la questione»
(NANCY 1986, p. 23).
L’essere si configura, attraverso la riflessione di Bataille e Heidegger, come trasgressione, estasi ed effrazione dell’immanenza propria
tanto all’individuo che alla totalità. Si potrebbe anche suggerire che
è la singolarità a meglio interpretare quest’estasi. La singolarità ha
la peculiare capacità di non rappresentarsi nella figura cristallizzata
del soggetto, quanto di costituirsi come ciò che non risponde né di
un individualità propria né di una totalità collettiva. Eppure, sembra
sostenere Nancy, la singolarità è stata da sempre oscurata e omessa
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dal pensiero della comunità, così come gli spazi della sua emergenza
– arte, letteratura – spesso marginalizzati dal pensiero filosofico. Ripensare la comunità vorrà anche dire ritornare su tali questioni e rendersi capaci di afferrarne le implicazioni che assieme le stringono.
È probabilmente in Rousseau che si riconoscerà il primo pensatore
moderno della comunità, il primo, cioè, che ha pensato la società in
rapporto con la comunità nei termini di uno scarto e di una nostalgia.
È questo paradigma, nella sua estrema semplicità, ad aver informato
di sé ogni pensiero della società/comunità, in cui quest’ultima si profila quale anteriorità superata epperò sempre vagheggiata, da sempre
perduta ed eventualmente destinata a riproporsi o ricostituirsi. Età
dell’oro improntata a organiche armonie, la comunità è soprattutto
la condizione che permette ai suoi membri di riconoscersi in quanto attori, certo plurali, della spartizione di una comune essenza che
consente l’identificazione in una comunità riconoscibile come la propria. Questa «coscienza della perdita» sembrerebbe costituirsi come
la Stimmung del pensiero occidentale, tanto che Nancy la rintraccia
nel suo cuore profondo: la comunità cristiana. La comunità che è qui
in gioco è pensata nelle forme della comunione. È così che il pensiero
cristiano della comunità si sarebbe rivelato come il tentativo, inane
anche perché incapace di vedere nel movimento del ritrarsi il proprio
del divino, di fornire attraverso una presunta essenza della comunità
un supplemento immanente al vuoto lasciato dal Dio ritratto.
Nancy non mostra alcuna fiducia nelle tesi di Ferdinand Tönnies:
la società non rileva alcuna comunità, dal momento che quest’ultima, come tale, non ha mai avuto luogo. La comunità non è perduta,
perché, ancora, non è accaduta. È doveroso, quindi, mutare l’ordine
dei fattori e prendere atto che è proprio la società a consegnarci il
tema della comunità, come ciò che è ancora da pensare, dacché, evidentemente, la comunità perduta non è altro che una produzione
fantasmatica e, come tale, pronta a dissolversi alla prova di un pensiero libero da inquietudini.
Tuttavia, è proprio sulla questione della perdita che bisogna insistere per approssimare la comunità. Infatti, per Nancy, è esattamente
tale perdita della o, forse meglio, nella comunità ciò che la costituisce. L’immanenza è, lo abbiamo visto, ciò che nega ogni comunità,
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ed essa assume la sua forma eminente con la morte. Attraverso figure
mitiche, perlomeno nel campo della letteratura, come la morte degli
amanti o il suicidio, si riconferma e dunque si rafforza una comunità
intesa come «comunione nell’immanenza».
La morte ha certamente luogo in uno spazio comune, ma è, come
tale, sempre e unicamente singolare. La morte non è più alta comunione con un’essenza né origine variamente obliata della comunità, è
solo il bordo singolare della finitezza e come tale non può garantire
alcun fondo comune a esperienze politiche, che vedono nel sacrificio
il momento capace di rinsaldare o, addirittura, inverare tale comune
appartenenza. La morte quindi ha un modo molto più sottile e insieme profondo di rivelare la comunità e di esibire la sua intimità con
essa. È nella morte singolare, nel sottrarsi all’immanenza dei suoi
membri – ossia nella perdita – che la comunità si mostra.
La morte ha sempre, e forse qui più che mai, l’oneroso compito di
smentire ogni metafisica soggettivista, essa, infatti, non destina ad
alcuna comunione collettiva, ma espone ogni singolo alla/nella sua
finitezza, indica come i “membri” di una comunità non sono “soggetti” perché finiti, singolari, mortali o morenti. Ciò che ordina la
comunità non è quindi un rimandare ad altro, o ad Altro, che stringe
e vincola i soggetti, quanto la loro stessa mortalità che, d’un colpo, li
destituisce finanche della loro qualità/proprietà di soggetti. La morte
è intraducibile in altro da sé: non c’è sostanza che la contenga, concetto che la definisca, poiché eccede ogni opera o lavoro – oeuvre –che
se ne voglia fare. Questa stessa impossibilità di opera, questo sciopero o questa inoperosità, è ciò che definisce la comunità.
La comunità si presenta allora nella forma della sua stessa impossibilità. La morte come morte d’altri mette sempre il soggetto di
fronte alla sua radicale improprietà, alla sua impossibilità di immanenza a sé. Insomma, la comunità, nella morte o come morte, espone
i soggetti all’impossibilità della loro costituzione, alla loro dipendenza da altri e, infine, alla loro irrecusabile finitezza. Ciò vuol dire,
ed è bene sottolinearlo con forza, che, ogni volta che ci si riferisce a
questa morte o alla morte d’altri, con essa si allude, sempre e comunque, anche alla nascita. La comunità è infatti lo spazio di esposizione
dell’essere finito degli esseri finiti: esposti alle nascite e alle morti,
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proprie e degli altri, irripetibile la prima, insuperabile la seconda.
Gli esseri singolari di cui qui ne va – che per mera semplicità espositiva continuiamo a designare come “membri” di una comunità – non
sono soggetti autonomi che, presenti ciascuno a se stesso, si relazionano nel modo della spartizione, dove questa può avere, volta a volta, un
diverso oggetto spartibile; ciò che piuttosto occorre pensare è come sia
la spartizione stessa a costituire – nelle forme eccentriche di un portare
alla presenza, che non potrà mai coincidere con una presenza piena
e, meno che mai, con una rappresentazione – le esistenze singolari. La
spartizione li spazia e così, nel suo puntuale crearli allo spazio, li rende
altri tanto a stessi che alle altre esistenze. Questa dinamica combinata
di spaziatura e alterazione, che definisce il luogo comune delle esistenze singolari – la comunità – impedisce, per motivi strutturali, ogni
possibile fusione e ogni riaggregazione soggettivante.
La comunità viene a configurarsi come il luogo dell’esposizione
delle esistenze finite o, addirittura, come la loro stessa esposizione.
Questo è possibile dal momento che la comunità permette a ogni esistenza di essere fuori di sé, di percepirsi come nascente, morente alla
presenza d’altri e non già perché essa si costituisca come un soggetto
più potente e dunque capace di questa proiezione, ma, più semplicemente, perché si definisce come il luogo di tale apertura, incontro
ed esposizione.
Comunità finita e comunità della finitezza. Finitezza che non si
esperisce se non con altri. La singolarità, che è sinonimo della finitezza, detta nuove modulazioni al principium individuationis.
La singolarità, suggerisce Nancy, non risponde affatto di tale logica, anzi, si costituisce come assoluta alternativa a ogni logica. Non
è un’operazione né un processo, dunque non ha effetti o prodotti,
ma è nascita, ossia evento incalcolabile, che, infinite volte, apre alla
finitezza singolare, la espone. La nascita, appunto, altro non è che
un’apertura, un taglio, una messa al mondo che non fa aggio su alcuna sostanzialità o fondamento, ma che si esibisce nella pura esteriorità, spazialità ed esposizione.
Nancy, di contro all’Abgrund (abisso), usa l’espressione Ungrund
– la nascita è il finito come infondato, consegnato a uno spazio plurale. Uno spazio che si apre in grazia delle singolarissime aperture che,
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loro per sé, le singolarità sono. Questa logica dell’apparire e del comparire mostra con forza come la singolarità non possa richiamare una
sostanza predata da cui essa sorgerebbe e di cui poi, eventualmente,
potrebbe lamentare nostalgia e come, di converso, essa non possa
destinarsi a una chiusura successiva che la risolva o redima. Questa
dinamica non deve però essere letta in una chiave di autosufficienza
o, peggio, di autoconsistenza, giacché apparire è sempre comparire,
venire alla presenza di altre esistenze singolari.
Il dato politico che va tratto è quello per cui non esiste singolarità
a meno di un’altra. La condizione ontologica implica, senza scarti,
una condizione di socialità originaria. Anche questa volta, però, tale
socialità va intesa non al modo aristotelico e, per dir così, attributivo
o avventizio: l’uomo come animale politico non ha, come tale, molto a che vedere con la finitezza che lo espone, dalla nascita, ad altri
fino a designarne lo statuto ontologico nei termini di una singolare
pluralità.
In questo quadro ogni comunione – nelle sue possibili declinazioni fusionali, totalizzanti o dialettiche – è destinata a sciogliersi in una
singolare comunicazione. La comparizione sarebbe il modo eminente
della comunicazione tra esistenze singolari esposte, la loro disposizione – che coincide con l’esistenza – ha il modo della localizzazione, ciò
che, infatti, indica la presenza di un’esistenza è la sua esteriorità, il
fuori cui è esposta. Tale fuori viene a coincidere con un’altra esposizione, ossia con l’esposizione, o con il fuori, di un’altra esistenza. Nancy
sintetizza tale esporsi reciproco e, da un punto di vista dinamico,
potenzialmente inesauribile, come un appello, da lui considerato condizione di possibilità di ogni atto linguistico. La comparizione – questo modo particolare della comunicazione – non è però un legame
che verrebbe a istituirsi tra diversi soggetti e, dunque, li porrebbe in
relazione. Ciò che essa è, è la relazione stessa né istituita né posta ma
esposta, la comparizione è lo stesso tra che spazia le esistenze singolari, come afferma perentoriamente Nancy: «toi partage moi».
Il ritmo della comunità le è assegnato da un triplice “lutto” che
ne scandisce il tempo: la morte d’altri, la mia nascita e la mia morte.
Questo lutto da elaborare non si concretizza però in nessun tessuto
comune, ma è ciò a cui sempre sono esposte le esistenze singolari,
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che, disponendosi, definiscono i confini a geometria variabile della
comunità. Tali confini, propriamente, non possono essere nemmeno
tracciati, giacché essi coincidono, variabilmente, con i punti di tangenza dei bordi esterni delle singolarità esposte.
È adesso maturo il tempo per comprendere quale sia il motivo
per cui Nancy collochi la comunità nel dominio di ciò che Maurice
Blanchot aveva evocato con il nome di désoeuvrement. La comunità
non è qualcosa da fare, da costituire o da produrre, non è oggetto
né soggetto, essa è piuttosto qualcosa – uno spazio o una condizione
– di cui facciamo esperienza e che, ogni volta, ci permette l’esperienza stessa. La comunità non è un’opera da fare: non è l’opera dei suoi
membri né questi, del resto, sono opera sua. La comunicazione delle
esistenze singolari – che altro non è che il loro modo d’essere – è quanto
ha il potere di revocare ogni regime dell’opera.
La comunità, dunque, né perduta né da costruire, c’è – «est donnée avec l’être et comme l’être» («è data con l’essere e come l’essere»). È questa un’affermazione di grandissimo impegno filosofico
ma, soprattutto, io credo, politico. Con ciò Nancy intende rilevare
come forme della politica che si sono date nella storia, totalitarismi,
dittature e barbarie, sono state il tentativo di sopprimere la comunità, di farne scempio e spergiuro e, quindi, di ricusare l’esposizione a
cui, ontologicamente, siamo abbandonati. Ontologia politica al massimo grado, questa di Nancy, che gli fa vedere il campo di concentramento o, forse meglio, la logica concentrazionaria, come l’inverso
esatto della comunità. Quest’ultima mostra il suo volto resistente,
affermativo nell’opporsi strenuamente alla logica dell’immanenza,
che ha finito, troppo spesso, per risolversi nel carnaio. Comunità è
trascendenza, dice Nancy, non nell’ordine del sacro, ma nell’ordine
finito della resistenza, a ogni politica di morte, di confusione, di opera e di immanenza.
5. Nancy e Derrida: comunità, immunità, biopolitica (?)
A quest’altezza del problema formulo la domanda – che è poi
la fondamentale critica – che Jacques Derrida ha mosso al pensiero
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di Nancy. Perché comunità? Ossia: perché far uso di un linguaggio
compromesso con la tradizione, perché rischiare di civettare con posizioni da cui si vuol marcare tutta la propria distanza? È una questione di gusto, come lo stesso Derrida ha suggerito:
Ebbene, di fronte a tutti questi grandi concetti filosofici della tradizione, che Jean-Luc riformula in maniera incomparabile, io ho
sempre avuto la reazione di fuggire, come se al primo contatto, solamente a nominare questi concetti, mi trovassi, come la mosca, con
le zampe invischiate: prigioniero, paralizzato, ostaggio, intrappolato
da un programma. […] C’è dunque qui una fonte di stupore per
quanto riguarda la nostra differenza di approccio, l’approccio del
miele o delle tentazioni, della ghiottoneria (gourmandise) o della nutrizione filosofica1.
Evidentemente – oltre la gourmandise – dovrà trattarsi anche di
sostanza. Sarebbe senz’altro una pretesa esorbitante quella di provare,
in questa sede, ad istituire un parallelo tra i due. Tuttavia possiamo
farci guidare dalle domande così come dalle critiche di Derrida al
fine di formulare nuovamente la questione.
Derrida si è sempre accuratamente sottratto alla presa del linguaggio di tradizione metafisica. Ha preferito lavorare sulla novità
dei concetti, attraverso formule inedite, che imponevano ripensamenti, ma che soprattutto garantivano nuovo pensiero. Quel che è
certo è che non ha mai parlato di comunità se non per rubricarla
tra quei concetti filosofico-politici che hanno fatto il loro tempo. Uso
volutamente questa espressione dal momento che sono convinto che
proprio il tempo sia un indicatore del diverso approccio alla comunità di Nancy e Derrida.
Il primo è prontissimo a non parlare più di democrazia, ma si impegna strenuamente in un corpo a corpo con la comunità, facendone
un “tema” attualissimo. Il secondo mostra tutto il materialissimo
ancoraggio storico e politico che si è posato sul concetto di comunità
e che, fatalmente e forse fortunatamente, lo consegna al passato. È
però pronto a scommettere sulla democrazia. Ma non già su questa
– quella di adesso. Derrida scommette sull’a-venire. Dunque, anche,
su una democrazia a-venire.
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E allora, certamente, questi saranno traguardi da segnare: Nancy
pensa il politico eminentemente nella sua forma spaziale, Derrida
nella sua forma temporale. Il primo riconosce massima urgenza al
tema della comunità, pur avendolo fatto slittare, attraverso progressivi raffinamenti semantici, nella nozione di essere-con; il secondo
rifiuta la comunità e insiste sulla democrazia non nascondendosi,
d’altro canto, il quasi speculare fardello storico che a tale parola si
accompagna. Entrambi, sebbene con movenze diverse, hanno però
bordeggiato il tema dell’immunità, che, come ho cercato di mostrare
più sopra, costituisce il risvolto o il doppio della comunità.
Derrida concede spazio all’immunità in una nota al suo Fede e
sapere:
L’immune (immunis) è affrancato da incarico, servizio, imposta, obbligo […] Questa franchigia o questa esenzione sono state trasferite
subito nei campi del diritto costituzionale o internazionale […] È
soprattutto nel campo della biologia che il lessico dell’immunità ha
sviluppato la sua autorità. La reazione immunitaria protegge l’indennità del corpo proprio producendo degli anticorpi contro gli antigeni estranei (DERRIDA 1995a, p. 48).
Derrida sta cioè cercando di estrarre una formula dell’immunità che, all’epoca dello scritto, considera in rapporti di strettissima
parentela con la comunità tanto da proporre il conio di «auto-coimmunità». È da rilevare come Derrida riconosca proprio nel munus
e nel suo paradossale rovesciamento la comune radice di comunità
e immunità e, ciò che è ancora più rilevante, si dedichi immediatamente a sottolineare la rilevanza dei processi autoimmunitari, riconoscendone quelle che chiama «virtù positive».
Quella che Derrida chiama una «logica generale dell’autoimmunizzazione» si dispiega finalmente in Stati canaglia. Derrida stesso ci
assicura che quello che stiamo battendo è un buon sentiero, quando
rende esplicita la segreta continuità con le ricerche meno recenti:
Avevo provato a formalizzare la legge generale del processo autoimmunitario che sto descrivendo in Fede e sapere, testo che parlava di
una “democrazia a venire” come di un concetto che eccede la sfera
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del giuridico-politico e che, dall’esterno e dall’interno, si articola
con essa. La formalizzazione della legge autoimmunitaria si compiva allora in particolare intorno alla questione della comunità come
auto-co-immunità (dal momento che il comune della comunità ha
in comune con l’immune lo stesso incarico – munus). […]. Ora, il
processo autoimmunitario che stiamo esaminando nella democrazia,
consiste sempre in un rinvio (DERRIDA 2003b, pp. 61-62).
In questo testo, tuttavia, tale logica perde il riferimento diretto
ad una comunità per rivelarsi quale interna logica della democrazia.
Ancora una volta, cioè, Derrida è portato a trascurare il nostro tema
privilegiando la questione della democrazia e tuttavia questa volta
non senza rimescolare le carte. Separare l’immunità dalla comunità
per utilizzare il paradigma immunitario a guisa di «legge generale»
vuol dire, infatti, chiamare in causa il rapporto tra vita e politica.
Assumo che Derrida, in Stati canaglia, utilizzi il concetto senza
concetto di democrazia al modo in cui, fino adesso, noi abbiamo parlato di comunità. Potrei portare molteplici esempi, ma ne basti uno:
una democrazia senza concetto, […] una democrazia sprovvista di
stessità e di ipseità, […] una democrazia il cui concetto resta libero,
senza presa, a ruota libera, nel libero gioco della propria indeterminazione, […] questa cosa o questa causa che ha il nome di democrazia e che non è mai propriamente ciò che essa è, mai se stessa. È
il senso proprio, il senso stesso dello stesso, è il se stesso, lo stesso,
il propriamente stesso del se stesso, che manca alla democrazia. La
democrazia, e l’ideale stesso della democrazia, si definiscono attraverso questa mancanza del proprio e dello stesso (DERRIDA 2003b,
pp. 62-63).
La democrazia, secondo Derrida, incorporerebbe nella forma più
completa la legge generale dell’autoimmunizzazione che, una volta
di più, sembra riproporre le note figure derridiane dell’aporia, del
doppio vincolo e della stessa différance:
questa democrazia, come invio del rinvio, rinvia alla différance. Ma
non solo alla différance come proroga e figura della deviazione, via
103
traversa, aggiornamento nell’economia dello stesso. Infatti, ne va
anche, e nello stesso gesto […] della différance come rinvio all’altro,
ossia come esperienza innegabile […] dell’alterità dell’altro (DERRIDA 2003b, p. 65).
Nel duplice rinvio – «una fatalità autoimmunitaria inscritta direttamente nella democrazia» – nel più sofisticato gioco di invii, rinvii,
torsioni, ritorsioni, giri e giravolte la democrazia mostra la duplicità,
la tensione delle dicotomie che la strutturano e, da ultimo, il male
che, per il suo bene, essa è capace di farsi.
La democrazia – e gli esempi, ancora una volta, non mancano – rivela così l’intera gamma di possibilità offerte dal dispositivo autoimmunitario: quelle più esemplari attraverso cui essa si autosospende
al fine di garantirsi, in un’eco dello stato d’eccezione schmittiano, in
cui autoprotezione e autodistruzione finiscono per sovrapporsi, ma
anche, quelle che abbiamo già chiamato le «virtù positive», quelle
che mescolano lo stesso e il differente, sbriciolando il primo e sfarinandolo nella disseminazione, aprendo alla possibilità dell’ibrido, del
contagio e dell’intruso. Qui, chiaramente, si ripropone la pato-logica
dell’autoimmunità, la stessa che, credo, costringe lo stesso Derrida a
chiamare in causa la vita e quindi, forse, di nuovo la comunità.
Non sorprende quindi scoprire che per Derrida è solo «a condizione di pensare altrimenti la vita, e la forza di vita» (DERRIDA
2003b, p. 59), che si può cogliere l’internità dell’autoimmunitario
al democratico. Anzi, quest’ultimo è stato evocato proprio in virtù
di una questione più urgente: quella «della vita e del vivente, della
vita e della morte, la-vita-la-morte» (DERRIDA 2003b, p. 178). È così
lo stesso Derrida a ricondurci verso la scena concettuale dalla quale
avevamo preso le mosse. La scena in cui, ancora una volta, dominano
il pericolo, la minaccia da un lato, e la salvezza, la salute dall’altro.
Il campo di queste estreme tensioni – che Derrida, nelle forme dell’autoimmunità, ha segnalato come il luogo impossibile della democrazia – è la comunità. La topografia non può che mancare una
topologia incerta e vertiginosa. Ma è proprio laddove vita e morte si
confondono, laddove tutta una biopolitica è da pensare, è lì, forse, che
ci scambiamo il nostro munus, lì, nel rischio del cum.
104
1
(DERRIDA-NANCY 2004, pp. 165-200); «Eh bien, devant tout ces grands concepts
philosophiques de la tradition, que Jean-Luc retraite de façon incomparable,
moi, j’ai toujours eu le réflexe de fuir, comme si j’allais, au premier contact,
à nommer seulement ces concepts, me trouver, comme la mouche, le pattes engluées: captif, paralysé, otage, piégé par un programme. […] Il y a donc là une
source de émerveillement quant à notre différence d’approche, à l’approche du
miel ou des tentations, de la gourmandise ou de la nutrition philosophique». In
mancanza di un’edizione italiana del testo la traduzione del passo citato è stata
fatta da A. Caroni.
105
CORPO
di Monica Serrano
Il corpo, il mio corpo, il corpo sempre mio è il grande presente dell’avventura fenomenologica. Analizzerò alcuni luoghi decisivi
della ricerca fenomenologica sulla corporeità, attraversando il pensiero di Husserl, di Heidegger e di Levinas, al fine di toccare i nodi che
mi sembrano più fruttuosi, capaci tuttora di dire qualcosa di nuovo
su una parola così intima come la corporeità.
La fenomenologia ha un grande merito e invita a una pratica singolare: assumere l’esercizio di sprofondamento radicale nel più intimo e perseverare nella sua ripetizione per accedere al vero. La ricerca
fenomenologica insegna la cura continua che lascia apparire il più
intimo, il mettersi in ascolto di questa intimità. Suo sapere è sapere
essere in ascolto senza discorsi già fatti, pregiudizi né impersonali o
confusi brusii. Sua attualità è l’esortazione a darmi ogni volta nuda
all’incontro con ciò che mi si rivolge. E se il corpo è fenomeno primo
dell’essere-relazione, il più evidente, più intimo e tangibile, la fenomenologia non può che iniziare ascoltando il corpo.
Il corpo si mostra innanzitutto come luogo del più proprio: il
corpo che ho, il mio corpo, il corpo proprio sono tutte definizioni di
quel Leib su cui la fenomenologia non si stanca di lavorare. Eppure,
proprio nel luogo della miità (Jemeinigkeit) più indiscussa, si fa spazio
106
un paradigma che, insieme a quello del proprio e dell’appropriazione, ha inscritto nella sua piega costitutiva una sua espropriazione,
un essere altro, altro da ciò che sono, voglio e posso essere. Al di
qua della volontà e del potere individuale corpo è factum dell’essere
in relazione, o meglio è il fatto dell’essere-relazione dell’esistente. E
il pensiero filosofico sulla corporeità è in quanto rincorre, ripercorre
ogni volta, ripete (movimento del wieder- proprio della filosofia) l’intimità di questa relazione. Dire “io sono il mio corpo” significa già
trovarsi al di là della cifra della proprietà perché nello stesso tempo
in cui si definisce il sé incarnato come primo proprio (penso alla V
Meditazione cartesiana di Husserl) questa incarnazione ha già scavalcato il privilegio della coscienza di dare senso a ogni cosa, il privilegio
ovvero di essere limpida forza intenzionate e formatrice di mondo.
Ripercorro i tre momenti dell’analisi husserliana, heideggeriana e
levinasiana della corporeità offrendo tre paradigmi-guida: avere corpo,
essere corpo, dare corpo.
1. Avere corpo
Quello che emerge più chiaramente dalla fenomenologia genetica
e costitutiva di Husserl è innanzitutto il corpo che ho, che possiedo,
su cui ho potere. Per mezzo del mio corpo, io posso sentire ed esperire me stessa e l’altro da me, posso muovermi, posso intenzionare e
agire. Nella V Meditazione Cartesiana è scritto:
Tra i corpi di questa natura io trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico (Körper),
ma corpo proprio vivente (Leib), oggetto unico entro il mio strato
astrattivo di mondo […] Questo corpo è la sola e unica cosa in cui io
direttamente governo e impero (HUSSERL 1950a, p. 119).
Husserl dichiara di trovare il corpo grazie all’esercizio di una sospensione radicale, l’epochè tematica, all’interno di uno strato di «natura appartentiva» (eigenheitliche Natur). Già da ora si intravede un
problema fondamentale: se l’ego trascendentalmente ridotto è la fon107
te di ogni essere attuale e possibile, come può tale soggettività pura
e costituente trovare qualcosa di costituito, di dato come lo sono dei
corpi e in primo luogo il suo corpo? Più che il luogo di una originaria
costituzione egoica, il punto di partenza dell’analisi husserliana viene a essere il terreno di un incontro con un non appartentivo nell’appartentivo, incontro antecedente ogni propria e libera costituzione.
Ciò che voleva essere ridotto si ritrova ancora implicito al centro del
momento epocale più stringente come condizione incondizionata di
ogni condizionare, intenzionare, significare della coscienza trascendentale.
Nella dimensione pre-costitutiva e pre-oggettiva di una elementare natura, in una sorta di nebulosa vivente si fa quindi avanti un
corpo, il mio corpo, unico oggetto che non sia propriamente oggetto.
Questo (non) oggetto è la sola e unica cosa in cui io direttamente,
senza intermediari né ritardi, senza indicazioni né segnali esteriori,
governo e impero. Possiamo meglio tradurre i termini tedeschi shalte
und walte con “faccio e disfaccio a mio piacimento”: il corpo è ciò
attraverso cui posso fare e disfare ogni cosa a mio piacimento. L’ego
fenomenologicamente ridotto ha quindi un corpo come quella cosa
su cui e attraverso cui può potere.
In secondo luogo il corpo nella sua peculiarità unica, corpo proprio
vivente e non mera cosa inerte estesa nello spazio (Körper), è insieme
il Null-punkt, il punto zero dell’esperienza sensibile, e lo Hier-punkt,
il qui della posizione a partire dal quale ha inizio l’orientamento e la
spazializzazione. Questo corpo che è ben altro da una res extensa nello
spazio geometrico misurabile, non vive nello spazio ma fa spazio,
dà forma e conforma lo spazio nel modo di una Ausbreitung, nozione
meravigliosa che indica una sorta di diffusione e propagazione di un
raggio vivente intorno al mio corpo e solo grazie a questo. Come Leib
sono sorgente originante l’intorno. Il mio corpo mi si dà quindi come
condizione di ogni esperienza sensibile e di ogni agire orientato. Circa il punto che definisce il Leib come condizione dell’esperienza sensibile ecco una breve citazione da Idee II:
Un soggetto che fosse provvisto di soli occhi non potrebbe avere un
corpo proprio in grado di manifestarsi (HUSSERL 1952a, p. 152).
108
Un soggetto senza corpo, senza una pelle sensibile, senza la capacità di agire e patire come carne e con l’unica possibilità di vedere, di
mettere a distanza, di scrutare e controllare solo da lontano, sarebbe
un fantasma. Un soggetto senza corpo, quindi, non sarebbe affatto
un soggetto leibhaftig (“in carne e ossa”), ma una produzione della
fantasia a cui non è dato alcun riempimento intuitivo corrispondente. Come si costituisce allora un soggetto «in carne e ossa»? Come
l’ego husserliano si riconosce propriamente vivente? La costituzione
del soggetto «in carne e ossa», cui la fenomenologia mira è offerta
dall’esperienza del contatto. Ancor più radicalmente: senza il senso
del tatto non apparirebbe, non verrebbe affatto a manifestarsi alcun
corpo proprio.
La priorità del contatto nella costituzione del Leib è chiarissima
negli scritti husserliani e viene assunta a più riprese con revisioni
più o meno significative tanto da Heidegger (che tuttavia non
mi sembra apportare nulla di nuovo a questo riguardo), quanto
da Merleau-Ponty, Levinas e Derrida. Proprio quest’ultimo in Le
toucher afferma a chiare lettere: solo attraverso il toccare io posso
dire «c’est moi» (DERRIDA 2000, p. 202), questo sono io, proprio
questo qui io lo sono o, per dirla con Levinas, eccomi, sono io,
sono questo io che è pronto a rispondere, responsabilità ed elezione dell’unico.
Perché il tatto diventa così determinante nella comprensione
della corporeità, ben più importante del senso della vista che pure
sembra padroneggiare fin dall’inizio all’interno della fenomenologia
come logos dell’apparire, del darsi alla luce, del giungere alla vista?
È il tatto l’unico senso ad assicurare in modo peculiare la reversibilità
di senziente e sentito, agente e agito, azione e passione, intenzione
e affezione. Quando con la mia mano destra, scrive Husserl, tocco
la mia mano sinistra mi accorgo immediatamente che la mano toccante si scopre anche toccata dall’altra mano, e così la mano toccata
ha la capacità di toccare la mano che la tocca. Il toccante si ritrova
allora toccato, il toccato toccante. Questa sorprendente reversibilità (sorprendente nel senso letterale del termine, perché l’esperienza
improvvisa della passività del sé agente sorprende sempre) dà luogo
per sua ripetizione e conferme successive alla costituzione del corpo
109
proprio. Nell’intreccio di attività e passività nel permeabile della
mia pelle, e non altrove, si identifica e si riconosce il soggetto in
carne e ossa.
Ora, il paradigma husserliano della corporeità che a prima vista
sembra aderire pienamente alle categorie dell’avere e del potere, torna in realtà a offrire significative aperture per ulteriori letture che qui
accenno solamente: se è vero che il soggetto incarnato si costituisce
per intreccio di attività senziente ed esperienza di passività, l’io posso
non sbarra più la strada davanti a un pensiero in ascolto dell’io non
posso, dell’io sorpreso nel suo esser toccato, affetto, accarezzato o ferito dall’altro da sé.
E di questo altro che mi sorprende si sono scritti fiumi di parole:
rispetto a Husserl, noto solo come in Le toucher Derrida approfondisca la questione della proprietà fino a metterla in crisi, dichiarando
l’esigenza di un altro, di un altro che non sia solo l’altra mia mano,
la mia mano sempre mia resasi altra nel contatto di me con me, ma
piuttosto di un altro radicalmente esteriore, estraneo o straniero, di
uno straniero che si fa avanti in uno spazio già aperto prima della
costituzione del mio corpo che vorrebbe disegnare lo spazio a partire
da sé per Ausbreitung (diffusione) e costituire per questa via un mondo comune. Prima del mondo comune c’è l’estraneità dell’altro che
viene – e solo con questa venuta inattesa, nella dia-tensione di un
incontro mi si dà mondo. È quindi lo straniero, un qualche sconosciuto straniero, che irrompendo in tutta la sua presenza mi offre il
mondo nello stesso tempo in cui spezza l’illusione della costituzione
egoica di mondo.
Chiudendo questi brevi cenni critici mi chiedo se già nel Leib
husserliano non ci sia in realtà tutta la potenza di un pensiero sulla
soglia della coscienza, sulle sue risorse come sui suoi limiti. A partire
da Husserl, infatti, sono individuabili chiari indizi di ciò che a proposito della coscienza interna del tempo egli stesso chiama sprofondamento: sprofondamento verso l’altro dalla mira intenzionale, dalla
lucidità della sintesi attiva e dalla Sinngebung (“donazione di senso”)
di quel nucleo di presentazione originale che è l’Ego puro. L’io posso
husserliano disegna continuamente i suoi limiti e porta a un sapere
del non potere quanto a un non poter sapere della coscienza. Ed è qui
110
che la consistenza del corpo trova respiro e prende parola invitando
la fenomenologia a un linguaggio nuovo.
2. Essere corpo
È innanzitutto il linguaggio a cambiare radicalmente da Husserl
a Heidegger. La corporeità è intesa da Heidegger non più come interna al paradigma dell’avere, ma come costitutiva della trama ontologica dell’esistenza: io sono-corpo. Il Leib si fa verbo, leiben, azione e
passione dell’essere corpo.
Scorrendo i vastissimi passi heideggeriani a proposito ci si accorge
di come non si lasci mai ciò che nel Seminario di Eraclito (1966) è definito fenomeno oscuro e profondo, il più semplice e per questo il più
difficile, quel sempre da-pensare che è il corpo. Se Sartre contesta alla
scrittura di Essere e tempo l’assenza totale di una tematizzazione della corporeità proprio quando la filosofia dell’esistenza fa sue nozioni
quali fattività, trovarsi in situazione, gettatezza e spazialità del Dasein, è vero tuttavia che i testi heideggeriani testimoniano un costante affacciarsi del fenomeno corpo dai Prolegomeni alla storia del concetto
di tempo (1925) ai Beiträge zur Philosophie (1935) fino ai seminari degli
anni ’60 e ’70 quali i Seminari di Zollikon, i Seminari di Zähringen, il
Seminario di Eraclito e quello di Le Thor. Ecco per iniziare un passo dal
primo libro del Nietzsche:
Non abbiamo un corpo allo stesso modo in cui teniamo in tasca un
coltellino; il corpo in carne e ossa che siamo non è nemmeno un corpo fisico che semplicemente ci accompagna […] Noi non abbiamo
un corpo ma siamo-corpi. Una indisposizione di stomaco può calare
un’ombra su tutte le cose (HEIDEGGER 1996-97, p. 107).
È qui in primo luogo riproposta la distinzione husserliana tra Leib
e Körper: mentre il Körper è qualcosa di fisico che portiamo con noi, che
ci accompagna ma non dice di noi stessi e del nostro esistere, il Leib è,
riprendendo la stessa definizione dell’esserci, ciò che noi stessi sempre
siamo. Di più: una indisposizione di stomaco può calare un’ombra
111
su tutte le cose, scrive Heidegger. Un mal di stomaco può trasformare il nostro modo di essere-nel-mondo, la nostra stessa Stimmung,
disposizione affettiva, tonalità costitutivamente patica dell’abitazione
di mondo. Il corpo dice, forma e conforma quindi lo In-der-Welt-sein.
Nella svolta al paradigma dell’essere che Heidegger tenta il corpo va
ad assumere senza mezzi termini lo statuto ontologico dell’esistere; il
mio corpo che è-corpo dice la stessa articolazione temporale dell’essere dell’esserci: è gettatezza nel suo essere radicalmente situato in un
orizzonte già aperto, è esser-presso nel suo continuo assorbimento in
ciò a cui si rapporta, è insieme ek-stasi nel suo slancio oltre la mera materialità del corpo fisico. Eppure: siamo forse qui arrivati all’apice dell’ascolto e del corrispondere, del poter dire e pensare il (mio) corpo?
Non direi. Analizzando i luoghi più significativi dei testi heideggeriani a riguardo non vi scorgo affatto un ripensamento della
Seinsverständnis (“comprensione dell’essere”) a partire dal corpo leibhaftig. La carnalità dell’esistenza resta a mio avviso muta e sospesa,
non ha la forza di svolgersi e rivoluzionare dall’interno l’ontologia
fenomenologica heideggeriana. Critici quali Didier Franck1 e Francoise Courtine rafforzano questo giudizio, il giudizio cioè di una
finale inconsistenza del fenomeno corpo nonostante le continue citazioni, le continue dichiarazioni, le lezioni intere che Heidegger
ha dedicato al Leib discutendo a Zollikon con medici e psicologi. Il
Dasein di Heidegger resta primariamente un comprendente o precomprendente l’essere, un ente che abita estaticamente il mondo, un
progettante che decide di sé, insomma, senza mal di stomaco che lo
possa disturbare. Il mal di stomaco, quando si dà, sembra darsi sulla base di un primario intangibile e disincarnato essere-nel-mondo,
primarietà impossibile davvero anche solo a immaginarsi (come fa il
Chi heideggeriano ad avere mal di stomaco non avendo stomaco?).
La stessa differenza ontico-ontologica non ci aiuta molto a pensare il
corpo al quale, come per schizofrenia, viene conferito tutto lo spessore ontologico in alcuni passi e poi brutalmente tolto o neutralizzato
in altri che nel pensiero heideggeriano restano decisivi.
Nei Seminari di Zollikon c’è l’unico disegno (tratto esteriore, tangibile, quindi correggibile e contaminabile) del Dasein che Heidegger abbia mai tracciato:
112
Il disegno mostra come l’esserci che è-corpo (leibt) sia ontologicamente uno slancio in un orizzonte dato, un essere oltre sé entro
qualcosa di segnato e inciso prima del darsi del corpo, traiettoria e
non corpo in carne e ossa. Di nuovo, è l’esistente che si apre al mondo
senza né un mal di denti che lo possa stonare, né un mondo esteriore
che tocchi la sua pelle. Il carattere estatico resta schiacciante: corpo
è l’esser via da sé (Weg-sein), via dalla propria materialità, pesantezza,
permeabilità. La questione è ancora più chiara quando Heidegger
parla dei limiti del corpo-che-sono: dove è il mio corpo? Dove termina il corpo sempre-mio? Il mio corpo, replica davanti a un pubblico di medici e psichiatri a Zollikon, non è mai qui. Il mio corpo
è sempre là. Quando Talete passeggiando attinse alle risposte ultime
della filosofia e cadde nel pozzo, egli era finalmente nella pienezza di
se stesso, così trasportato dal pensiero da dimenticare il suo corpo.
Replicando a questa lettura Greisch2 coglie nell’intera ermeneutica
fenomenologica di Heidegger una grave dimenticanza (Versäumnis)
del fenomeno corpo. Talete è infatti l’uomo scisso tra il suo pensare
e il corpo materiale.
Per questa via, a forza di contestare l’idea del corpo come un semplice Körper senza vita si fa della vita del Leib un che di completamente disincarnato, ancora una volta un’entità eterea e spirituale.
Come osserva Derrida in Dello Spirito (DERRIDA 1987a): cacciato dal
pensiero radicale che vuole essere la fenomenologia, la parola Geist
torna ad abitare la filosofia di Heidegger cambiando solo di veste.
Torna a dispetto della decostruzione della dicotomia classica somapsiche, corpo-anima che il suo pensiero esige.
113
Dove corrono, dicevo, i confini del Leib? Dove hanno luogo i
confini del mio corpo? Non certo sulla punta delle mie dita o sulla
superficie della mia pelle, ma piuttosto nell’orizzonte d’essere (Seinshorizont) in cui io soggiorno, nell’ampiezza del raggio di azione
(Reichweite) del mio soggiorno estatico. Il corpo che sono è tutto
incluso all’interno dell’orizzonte precompreso, familiare, appropriabile dell’orizzonte in cui soggiorno. Mi chiedo allora se il paradigma
ontologico della corporeità in Heidegger non ricada infine, ancor
più pericolosamente che in Husserl, all’interno della categoria dell’avere, del possesso, della previsione e del dominio del sé su se stesso e sull’altro. Quest’affermazione che trovo nei Seminari di Zollikon,
proprio quel testo che più di altri ha centrato la domanda sul Leib,
suona inquietante:
Nella comprensione dell’essere non accade alcun essere-corpo (kein
leiben) (HEIDEGGER 1987a, p. 259).
La possibilità di uno statuto ontologico del corpo è data, quanto sottratta. Luce Irigaray (IRIGARAY 1983) nota come Heidegger in
questo passo tralasci e lasci una volta per tutte il più semplice della
physis, ciò che si fa da sé, il senza perché ogni volta eccedente il registro della comprensione e che pure io, vivendo, sono.
originaria o anarchica rispetto alla comprensione ontologica; corpo
è permeabilità, vulnerabilità, offerta fino alla ferita. In testi come Il
tempo e l’altro (LEVINAS 1979), Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger
(LEVINAS 1949), Totalità e infinito (LEVINAS 1961) e Altrimenti che essere
(LEVINAS 1974) Levinas torna costantemente sulla nozione di corpo
e credo sia l’unico ad avvicinarsi a quella fenomenologia materiale
che Michel Henry (HENRY 1990) contesta a Husserl di aver mancato.
Levinas è chiarissimo quando scrive in Totalità e infinito:
Il Dasein di Heidegger non ha mai fame (LEVINAS 1961, p. 136).
Dall’estasi del progetto ci troviamo inchiodati all’immanenza
del bisogno. Dire che la posizione della soggettività è sempre la sua
esposizione significa stare nella materialità del corpo come primo per
l’altro. Io ho bisogno di, vivo di cibo, aria, acqua, passeggiate al sole,
contatto, affetto. Ho sempre e fin dall’inizio bisogno di altro per
essere quello che sono. Dal vivere economico in cui prende forma
il primo per l’altro, trascendenza immanente che mi lega all’altro
da me che entra in me e mi nutre, al risveglio etico del desiderio di
Altri, desiderio e tensione infinita della relazione intersoggettiva che
mi costituisce come ipseità. Accedo all’elaborazione levinasiana della
corporeità a conclusione di questo intervento citando come terreno
per una discussione un passo che si trova ancora una volta in Totalità
e infinito:
3. Dare corpo
Arrivo infine alla risposta di Emmanuel Levinas che contesta fortemente la Seinsverständnis (“comprensione dell’essere”) heideggeriana e il non accadere del corpo all’interno di un paradigma ontologico
rivelatosi disincarnato e neutro. Corpo è per Levinas testimonianza
di carne e sangue dell’altro in me. Propongo allora come terzo paradigma-guida quello della corporeità come es-posizione e donazione del
proprio.
Ogni posizione dell’esistente è insieme una es-posizione di sé all’altro, segno dell’esteriorità del sé nella sua più sincera presentazione. Corpo è sensibilità e la sensibilità è prima ragione, ragione pre114
Il corpo è una continua contestazione del privilegio della coscienza di
“dare senso” a ogni cosa. Esso vive in quanto è questa contestazione.
Il mondo in cui vivo […] è condizionamento e anteriorità. Il mondo
che costituisco mi nutre e mi impregna (LEVINAS 1961, p. 130).
Il riferimento a Husserl è qui evidente: qualcosa contesta il potere
della coscienza a intenzionare il mondo, c’è qualcosa che increspa
l’ordine di una fenomenologia trascendentale che vuole essere genetica e costitutiva, che contrasta e ostacola l’io posso nel suo dare senso
a ogni cosa, nella sua continua operazione di Sinngebung. Il corpo è
in quanto incarna questa contestazione del privilegio coscienziale;
115
penso agli innumerevoli fenomeni in cui il corpo si dà come altro dal
potere della coscienza e si manifesta come l’oltre del mio determinato progetto di essere. Oltre o al di qua, profondamente eteronomo
da quello che decido di essere, da come voglio apparire. L’esempio
della vergogna, preso in esame anche da Heidegger ma sviluppato
in tutt’altra direzione, è significativo: più io voglio nascondermi per
qualche motivo, più la mia pelle espone il mio imbarazzo, più vorrei
desolidarizzarmi dal mio corpo e sparire, più il corpo mostra malgrado me questa mia non volontà di apparire. Malgrado me mi ritrovo
ad essere nuda dinnanzi agli altri proprio nel momento in cui vorrei
nascondermi.
Fenomeni corporei della non-volontà e dell’impossibilità della
decisione del soggetto sono la malattia o più in generale la sofferenza
del corpo, verso la quale Levinas scrive pagine dense. Nella malattia
il mio corpo diviene esemplarmente altro da me in me. Abita in
esso una vita che vive contro di me e tuttavia solo attraverso me. Il
corpo malato è non solo l’assolutamente altro, ma è ciò in cui vive il
nemico della mia vita. Qualcosa di alieno prolifera dall’interno per
la mia distruzione. Ma qualcosa di alieno prolifera anche in tutt’altre
esperienze, come nel desiderio e nell’eros: corpo è il centro di affetti e attrazioni fisiche (comunemente le chiamiamo anche attrazioni
chimiche, nate cioè dall’accordo di particelle elementari del corpo
che mi compongono prima di ogni sintesi coscienziale), di intuizioni
e presentimenti, di quel «sentire a pelle» che attesta la sensibilità
come prima ragione.
Ragione sempre rigorosamente sessuate e storicamente determinate; solo in quanto ogni volta differentemente corpo di uomo o di
donna, di giovane o di vecchio, di cittadino o di esule il corpo è nelle
sue differenziazioni seme dell’infinito in me. Dato il corpo, questo
mio concreto e determinato e ultramateriale corpo, mi è data la partecipazione alla vita stessa che si fa prima che un “io” venga pronunciato. Io-corpo: il dono di essere unico e insieme più di uno m’è
dato in consegna. Uno, due, tre – Altrimenti che essere è un testo che
cerca disperatamente, ossessivamente il linguaggio del corpo materno – questa pluralità, tale incontrollabile proliferazione del proprio
diviene il cuore del discorso filosofico; ancora, questo incalcolabile
116
decentramento, sdoppiamento o raddoppiamento del sé, questa alterazione interna alla soggettività è il tratto più profondo del pensiero
di Levinas: soggetto è chi non può essere mai assolutamente solo e
identico a se stesso senza tradirsi.
Il tempo e lo spazio si danno solo a partire da questo scardinamento dell’identico, dal suo smascheramento e dalla rivoluzione che lo
travolge. Levinas è qui vicinissimo a quanto Eugene Minkowski3, psichiatra e umile lettore di Husserl, ha scritto circa trent’anni prima:
Essere due, o meglio essere a due rappresenta un carattere ben più
basilare, più fondamentale che il fatto di essere un uno tutto solo
e uguale a sé, facile a perdersi così facilmente, a volatilizzarsi nella
nebulosa dell’universo. […] L’esistenza dell’uno non diventa consistente se non sostenuta e nutrita dal secondo. “Il me e l’altro” è un
dato ben più primitivo che “l’io” tutto solo che in fondo non significa un bel niente (MINKOWSKI 1999, pp. 182-183).
Toccante-toccato: la coppia che Husserl ha portato all’attenzione
circa il Leib prende forma non più nella riflessività egoica ma prima
di tutto nella relazione interumana. E non può essere altrimenti: uno
sconosciuto, una sconosciuta, due sconosciuti mi mettono al mondo,
mi nutrono e si prendono cura della mia vita, di questo nuovo altro
che ha appena preso posto, di una vita separata e distinta che tuttavia dipende completamente dalla relazione; una vita – la vita – che
non è nulla, che non sarebbe affatto senza questa continua, tenerissima, difficile religio intersoggettiva. Minkowski parla di comunione,
la definisce profonda, intima, punto-origine di ogni consistenza di
mondo. Il mondo nasce a partire da questa prima consistenza di corpi, il tempo è l’attesa del nutrimento e della carezza che non arriva
più in sincronia come con il cordone prima della nascita, della luce,
del mondo. E lo spazio è la presa di coscienza di questa separatezza,
di una distanza tra me e l’altro, di un intervallo, di un vuoto. In
termini levinasiani, allora, ecco la diacronia dell’intersoggettività e
l’apertura del mondo grazie ad Altri.
Grazie ad Altri – il mondo. Il mondo in cui vivo è condizionamento e anteriorità, scrive Levinas. Il mondo in cui vivo è traccia
117
di quel primo condizionamento e di quell’anarchica anteriorità che
mi legano ad Altri e mi fanno essere chi sono. Il mondo in cui vivo
non è univocamente un luogo che costituisco e che significo grazie
all’attività del mio ego cogito, è piuttosto composto da e con altri,
eco della mia esposizione ad Altri. O meglio, mondo è ciò che offerto da Altri continua a darmi forma e mi condiziona nel mio intenzionare, agire, essere. Altri avviene e si fa strada due volte prima,
dunque, della mia possibilità di costituzione: prima del mondo, del
mio rapporto al mondo e persino prima del mio rapporto al corpo
che sono. Il soggetto costituente si scopre anarchicamente costituito,
nutrito, impregnato, segnato; diventa ciò che è essendo per l’altro.
L’inversione sempre possibile dell’io costituente in costituito è radicale e arriva insieme all’impossibilità di prevederlo. In seno a questa
impossibilità si apre il senso: do senso solo in quanto consegnato a
un senso. Diacronicamente, soggetto è colui al quale il tempo viene
dato attraverso una dualità inscritta nel segreto del corpo ed è pronto
a rispondere ogni volta a questo debito non sottoscritto: è pronto a
donare – donare corpo, parola, mondo. Intenzionato e quindi intenzionante, bisognoso e materiale, per questo estatico e trascendente.
Credo che solo in questa emersione senza fine della legge dell’altro – volto o contatto senza presa visiva, imperativo o carezza, afasia
della pelle o linguaggio – sia possibile una scrittura che sia fedele al
discorrere del corpo.
1
2
3
D. Franck, Chair et corps. Sur la phénoménologie de Husserl (FRANCK 1981); cfr. dello
stesso autore, Heidegger e il problema dello spazio (FRANCK 1986).
J. Greisch, Das Leibphänomen: ein Versäumnis von Sein und Zeit, (GREISCH 1992); cfr.
dello stesso autore Le limites de la chair (GREISCH 1999).
Insieme a Ludwig Binswanger, Eugéne Minkowski rappresenta un caso significativo di quella felice collaborazione tra fenomenologia e scienze della psyche che
costituisce un importante e attualissimo filone di studi, rinnovato anche dalle
recenti ricerche nel campo delle neuroscienze – un titolo per tutti è la raccolta
curata da M. Cappuccio: Neurofenomenologia (CAPPUCCIO 2006). Le premesse teoriche e gli esiti analitici presenti nelle loro opere sono però ben distinti. Analizziamoli dunque partitamente, anche se in breve.
Le ricerche di Binswanger traggono origine dal tentativo di ripensare alcuni
118
aspetti della psichiatria e della psicanalisi di Freud alla luce delle analisi fenomenologiche. A influenzare il suo originale percorso di riflessione sono inizialmente
le nozioni di «intenzionalità» e «riduzione» come è descritto in Sulla fenomenologia (BINSWANGER 1955) e – più in generale – il tentativo husserliano di rifondare
la psicologia a partire dai risultati dell’indagine fenomenologica. Ben presto
divenne però decisiva per Binswanger la lettura di Essere e tempo di Heidegger.
Questo fortunato incontro, costituisce la base effettiva su cui Binswanger elaborò la sua nuova metodologia psichiatrica, la Daseinsanalyse: un «fraintendimento
produttivo» – come egli stesso la definisce – dell’ontologia heideggeriana. Alla
base di questo indirizzo opera l’idea di utilizzare gli «esistenziali» di Heidegger
come strumenti di innovazione contro l’«obiettivismo» delle scienze naturali:
un “utilizzo” che non si risolve mai in semplice trasposizione. Consapevole della
distanza che separa la propria analitica esistenziale da quella orientata in senso
ontologico da Heidegger, Binswanger assegna alla Daseinsanalyse il compito di studiare le configurazioni ontiche dell’«essere-nel-mondo» dell’uomo, privilegiando
le nozioni di Mit-Welt (con-mondo) e di Mit-Da-Sein (con-esserci). Seguendo un
metodo fenomenologico che mira a cogliere in modo più originario e a descrivere “dal vivo” le manifestazioni morbose (al di fuori della banale opposizione salute-malattia), Binswanger descrive i «progetti» del malato come forme di esistenza «mancata». Con Melanconia e mania. Studi fenomenologici (BINSWANGER 1960)
Binswanger torna in qualche modo alle origini husserliane, avvertendo la necessità di comprendere altrimenti (e in senso «genetico») le strutture dell’«esserenel-mondo». Importanti contributi agli studi sulla mania e sulla malinconia
sono offerti in questo senso per Binswanger dalle Lezioni di Husserl sul tempo
e dalle ricerche sull’alter ego contenute nelle Meditazione cartesiane. Tra le opere
principali della felice contaminazione tra fenomenologia e psichiatria operata da
Binswanger vanno ricordate Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia (BINSWANGER
1965) e la raccolta Per un’antropologia fenomenologica (BINSWANGER 1955).
Rimasto sempre fedele alla Wesensschau husserliana, Minkowski rintraccia le
strutture «eidetiche» della vita cosiddetta “normale” attraverso un incessante e
davvero singolare esercizio di «epoché»: la possibilità di una radicale riduzione
che metta «fuori gioco» l’ovvio e il precostituito è offerta a Minkowski dall’osservazione dal vivo (leibhaftig, come diceva Husserl) di processi morbosi che
fanno emergere tragicamente e con una forza dirompente queste stesse strutture.
Il patologico – ci dice Minkowski ne Il tempo vissuto (MINKOWSKI 1933), uno
dei suoi testi capitali – mette in rilievo fenomeni che per la poca distanza che
li separa dalla cosiddetta “vita normale” passerebbero inosservati o sarebbero
considerati del tutto ovvi. Più che una applicazione teorica rigorosa, l’attività di
Minkowski si caratterizza come una pratica costante del “metodo” fenomenologico, da cui emergono in modo complementare lo statuto generale della fenomenologia (intesa come attività di una coscienza diretta ai fenomeni e alle essenze
che strutturano la vita) e il valore terapeutico di nozioni nate dall’intersezione tra
fenomenologia e psichiatria. La sua vuole essere una psicologia del patologico,
119
dove l’aspetto «patico» e la sofferenza diventano prolungamenti insieme deformati e rivelatori di aspetti fondamentali della vita, costituiti diversamente a partire però dalle stesse strutture: uno sforzo di penetrazione fenomenologica che – come
voleva Husserl – inizia sempre da capo e – dal rifiuto di ciò che appare ovvio e
scontato – recupera la trama fittissima e densa di significato della sofferenza e
della malattia. Oltre a Il tempo vissuto del 1933, vanno ricordati gli altri testi che
compongono la triade minkowskiana: La Schizofrenia (MINKOWSKI 1927), Verso
una cosmologia (MINKOWSKI 1999) e Trattato di psicopatologia (MINKOWSKI 1966),
un manifesto rivolto «ai filosofi di domani».
DIFFERENZA
di Maddalena Lucarelli
Aprendo il Robert, uno dei più accreditati dizionari francesi, alla
voce différence (differenza) troviamo scritto: «Caractère ou ensemble
des caractères qui distingue une chose d’une autre, un être d’un autre
être; relation d’altérité entre ces choses, entre ces êtres»1. Non è di
questa “differenza” che si tratterà in queste pagine, ma del suo uso
rivisto e rivisitato ad opera di Jacques Derrida, che proprio per distanziarsene si è visto costretto al conio di un nuovo termine, quello
di différance.
Il neografismo derridiano différance è creato tramite «un modesto
intervento grafico», come dichiara il suo autore aprendo la conferenza programmatica ad essa dedicata, una sorta di grosso errore d’ortografia, cioè la sostituzione nella parola francese «différence» di una
A muta al posto della seconda e. Tale stratagemma crea due termini
praticamente omofoni.
La A della différance è un espediente non semplicemente, ma puramente grafico, nel senso che si legge e si scrive, ma non si intende
senza l’ausilio del gramma, cioè del segno scritto. Essa quindi si inscrive perfettamente nelle critiche derridiane al privilegio della voce
e al fonocentrismo occidentale2.
La A della différance si manifesta tramite un marchio muto, un
120
121
monumento tacito, una Piramide come la chiama Derrida, volendosi
riferire così a un passo dell’Enciclopedia in cui Hegel paragona il corpo del segno a una piramide egizia, a un monumento funerario che
custodisce e tesaurizza l’anima del faraone.
La A della différance, che in carattere maiuscolo somiglia persino
ad una piramide, è silenziosa e discreta come una tomba. Ma il suo
silenzio può funzionare solo all’interno del sistema di una scrittura
fonetica, il che equivale a dire all’interno della lingua e della grammatica a essa legate. Malgrado ciò tale A sta proprio a ricordare che
non esiste una scrittura puramente e rigorosamente fonetica. In linea
di principio nessuna scrittura fonetica può funzionare senza accogliere in sé segni non fonetici, come ad esempio punteggiatura e
spaziamento. E se non esiste scrittura puramente fonetica è perché
non esiste phoné puramente fonetica.
La différance si colloca proprio in questo strano spazio tra la parola
e la scrittura. Essa resiste all’opposizione fondativa in filosofia tra
sensibile e intellegibile e le resiste perché la sopporta.
La différance essendo ciò che rende possibile la presentazione dell’essente presente, non si presenta mai come tale, non si concede mai
al presente. La sua A non può essere esposta perché non si può esporre
che ciò che può divenir presente, che può mostrarsi, presentarsi come
un presente.
La différance quindi non è, non esiste, non è un essente-presente;
non ha né esistenza né essenza. Essa non è solo irriducibile a ogni riappropriazione ontologica o teologica, ma la eccede, aprendo lo spazio
all’interno del quale la filosofia produce il suo sistema e la sua storia.
Il concetto di gioco – della différance – sta al di là di questa opposizione, esso annuncia alla vigilia della filosofia e al di là di essa,
l’unità del caso e della necessità in un calcolo senza fine (DERRIDA
1972a, p. 33).
Con essa viene rimessa in discussione la richiesta di un inizio di
diritto, di un punto di partenza assoluto, di un principio. «La problematica della scrittura – scrive Derrida ne La différance – si apre
con la messa in questione del valore di arché» (DERRIDA 1972a, p.
122
33). Questo per mostrare una volta di più quanto l’efficacia della
différance non sia teleologica, a tal punto che nella catena concettuale
in cui si sviluppa, una catena che in realtà non avrà mai comandato,
essa si dovrà prestare ad essere rilevata3 un giorno, ad essere cioè addirittura sostituita.
È per tali caratteristiche che sarà difficile tentare una ricostruzione
teorica che ne definisca esaustivamente i confini. Inizieremo perciò a
tracciarli partendo dalla tematica del linguaggio e della scrittura là
dove il gioco della différance è già naturalmente istallato.
1. Un’analisi semantica
Per comprendere il movimento che anima la différance converrà,
perciò, iniziare con una sua analisi semantica, malgrado essa «non sia
alla lettera né una parola né un concetto», e tentare di comprenderne
il perché.
Innanzitutto la A della différance permette a Derrida di sottolineare il carattere spazio-temporale del termine. Serve cioè a compensare una perdita di significato che il verbo francese differir (differire)
avrebbe subito rispetto al suo antenato latino differre. Quest’ultimo
infatti rimandava sia al differire come produzione delle differenze,
sia a queste ultime come ai suoi risultati.
Infatti la A della différance è tratta dal participio presente del verbo differir: différant (differente), che rinvia direttamente all’azione
del differire nel corso del suo svolgimento, prima ancora che esso
abbia costituito le differenze o che si sia costituito in differenti.
Si capisce quindi come Derrida voglia sottolineare, grazie a questo neografismo, lo stesso movimento di differimento che genera i
differenti o le differenze. È per questo che essa ha due accezioni:
1. Nella prima accezione l’atto del differire comporta il rinviare
alla dimensione temporale, «l’azione di rimandare a più tardi, di
tener conto del tempo» (DERRIDA 1972a, p. 35), del ritardo, della
dilazione. Differire in tal senso è temporeggiamento, cioè: ricorrere alla
mediazione temporale.
2. Nella seconda accezione invece differire è essere discernibile,
123
esser altro, non essere identico, significato, questo, arricchito dall’alterità come dissomiglianza o come polemica. In questo senso bisogna
che si produca necessariamente tra gli elementi un intervallo, una
distanza. Differire in tal senso è spaziamento: occorre cioè una mediazione spaziale.
Dal tentativo di far emergere questa doppia accezione spaziotemporale di differire (doppia accezione che in italiano la parola
differenza mantiene senza bisogno di modificazioni), trae origine la
sostituzione di questa A muta.
La parola différence (con la e) non ha mai potuto rinviare né al differire come temporeggiamento né al dissidio [différend] come polemos.
È questa perdita di senso che la parola différance (con la a) dovrebbe
– economicamente – compensare (DERRIDA 1972a, p. 35).
La différance è quindi l’unione dialettica del sostantivo e del verbo, dell’esito e del movimento temporale che lo ha prodotto. Essa è
l’origine strutturata e differente delle differenze. In una concettualità
classica si potrebbe dire che essa è la causalità costituente, produttrice e originaria, il processo di scissione di cui le differenze sarebbero i
prodotti. Ma è proprio tale concettualità classica che la différance vorrebbe rimettere in discussione, o meglio mettere in decostruzione.
La différance non è quindi né semplicemente attiva né semplicemente passiva; richiama piuttosto nel suo doppio senso una “voce
media”, «che la filosofia, costituendosi in questa repressione, ha cominciato a distribuire in voce attiva e voce passiva» (DERRIDA 1972a,
pp. 35-36).
Ora è tramite la tematica del segno e della scrittura che Derrida
darà una prima spiegazione del movimento della différance. Infatti la
messa in questione dell’idea di significazione classica fa apparire una
différance “originaria”, che però rimette subito in discussione,
a. il valore di questa originarietà, come di archia e telos in generale
b. l’autorità della presenza.
In questo modo essa interroga il limite che ha delimitato il nostro
modo di pensare e che ci costringe a formare il senso dell’essere come
presenza o assenza.
124
Infatti il rapporto di significazione è retto da una differenziazione
interna tra il significato (l’eidos) e il significante, la sua esteriorizzazione sensibile o materiale. Alla base di questa visione c’è l’idea che
il segno «si metta al posto della cosa stessa, della cosa presente». Si
significa, cioè si passa per la mediazione o la deviazione del segno,
quando non è possibile mostrare la cosa stessa, cioè il presente, l’essente presente. «Il segno – quindi – sarebbe una presenza differita»
(DERRIDA 1972a, p. 36).
La significazione in tal senso è la différance di temporaggiamento.
Il segno non è pensabile che a partire dalla presenza che esso differisce e in vista della presenza differita di cui ci si vuole riappropriare e
a cui si tende. La sostituzione della cosa stessa operata dal segno è secondaria e provvisoria. Ma un tale presupposto implicherebbe che ci
si possa riappropriare in qualche modo dell’eidos da cui si deriverebbe
il segno. «Il processo del segno ha una storia, la significazione è anzi
la storia compresa: tra una presenza originale e la sua riappropriazione
circolare in una presenza finale» (DERRIDA 1972a, p. 108).
È mettendo in questione questo carattere di secondarietà provvisoria del segno che si può far apparire la différance originaria e contemporaneamente rimettere in discussione il valore di questa originarietà; dare cioè la giusta rilevanza alla différance, che come spaziamento esteriorizza l’eidos del segno nella scrittura. È in tal senso che
la différance non è una parola, o quantomeno non è una parola come
le altre.
Il sistema linguistico, come insegna il padre della linguistica moderna Ferdinande de Saussure ai cui studi Derrida si rifà, è retto solamente da differenze interne che sussistono senza termini positivi.
La doppia caratteristica che egli riconosce al segno, il fatto che sia
arbitrario e differenziale, affetta la faccia del significante quanto quella
del significato. Gli elementi della significazione funzionano quindi,
solo grazie alla rete di opposizioni che li distinguono e li relazionano
gli uni agli altri. Nella lingua non vi sono che differenze.
Il concetto di significato quindi non è mai presente a se stesso, in
una presenza sufficiente che rinvierebbe solo a se stessa. Ogni concetto è inscritto in un gioco sistematico di differenze dagli altri concetti, ai quali inevitabilmente si trova a rimandare.
125
Questo gioco è la différance, che smette di essere un semplice concetto per essere la possibilità della concettualità. Per la stessa ragione,
la différance, che non è un concetto, non è una semplice parola, cioè
qualcosa che ci si possa rappresentare come l’unità calma e presente
di un concetto o di una fonia.
Per Derrida si può dire che la differenza di cui parla Saussure è già
la différance, così come lui la intende. Questa infatti è il movimento
secondo il quale la lingua, o ogni sistema di rinvii in generale, si
costituisce in un sistema di differenze. Senza che ciò voglia dire che
essa pre-esista alle differenze stesse «in un presente semplice, in sé
immodificato e in-differente». Essa è il gioco che produce le differenze, per mezzo di quella che non è semplicemente un’attività, bensì
«l’origine non piena, non semplice […] delle differenze. Il nome di
origine non le si confà dunque più» (DERRIDA 1972a, p. 39).
Per questo le differenze non sono effetti dell’attività di un soggetto o di una sostanza, di un ente che sfugga al gioco della différance,
sono come un “effetto senza causa”, una traccia, suggerisce Derrida,
«che non è un effetto più di quanto non abbia una causa» (DERRIDA
1972a, p. 39). Non c’è presenza prima dell’istaurarsi della differenza
semiologica e fuori di essa. Ogni elemento (che sia il significato o il
significante) si definisce grazie a ciò che esso non è, grazie all’altro da
sé. La sua presenza prende forma solo grazie all’assenza che la definisce. Il gramma raccoglie in sé la traccia dell’altro da sé.
La différance è l’origine strutturata e differente delle differenze,
perciò è ciò che fa sì che il movimento della significazione sia possibile, a condizione che ogni elemento “presente” si rapporti all’altro
da sé, conservando in sé il marchio dell’elemento passato e lasciandosi già solcare dal marchio del suo rapporto con l’elemento futuro.
Ora, perché il presente sia se stesso è necessario che un intervallo
lo separi da ciò che non è tale, ma questo intervallo che lo costituisce
«deve al tempo stesso dividere il presente in se stesso, spartendo così
insieme al presente, tutto ciò che si può pensare a partire da esso, cioè
ogni ente e in particolare la sostanza o il soggetto» (DERRIDA 1972a,
p. 40). Il presente è così scheggiato da una non-presenza ineludibile.
È questa costituzione del presente, come sintesi originaria e irriducibilmente non semplice, quindi non-originaria, di tracce di
126
ritenzioni e protensioni che Derrida chiama différance… ma anche
archi-traccia, archi-scrittura. Questa differenza è nello stesso tempo
spaziamento e temporeggiamento.
Il tempo e lo spazio infatti vanno compresi a partire dal loro processo oppositivo, solo grazie al quale possono darsi; in tal senso il
temporeggiamento è quel movimento in cui lo spazio si fa tempo,
mentre lo spaziamento è il processo in cui il tempo si fa spazio. I relati
dileguano nella relazione differenziale che li pone in essere: dietro il
tempo e lo spazio opera una scrittura maggiore (o una différance preoriginaria) che traccia i confini, gli spazi e i tempi del loro accadere.
Le differenze non riposano su nulla, non hanno il fondamento in
loro stesse, ma trovano piuttosto l’origine della loro sussistenza nella
opposizione differenziale che in esse è occultata. Ma allo stesso tempo
questo movimento che traccia l’economia del reciproco opporsi delle
differenze, non accade altrove rispetto a esse, perché è solamente nelle differenze che si manifesta la différance.
2. Dalla dialettica alla différance
Il movimento della différance è una elaborazione della dialettica
della temporalità, cioè della sintesi di tracce ritenzionali e protensionali nella formazione del presente, che nella sua tesi di laurea, Il
problema della genesi nella filosofia di Husserl, Derrida aveva individuato
come motore della fenomenologia, meglio: come motore della dialettizzazione che avrebbe risolto le impasses in cui Husserl, a suo dire,
si dibatteva.
Ora, che in entrambi i casi vengano messe in campo le stesse risorse concettuali, è Derrida stesso a metterlo in evidenza quando,
scrivendo l’Avvertenza per la pubblicazione del testo quarant’anni
dopo la sua stesura, egli vi rinviene:
una complicazione originaria dell’origine, […] una contaminazione
originaria del semplice, […] uno scarto inaugurale che nessuna analisi preliminare potrebbe presentare, rendere presente nel suo fenomeno
o ridurre alla puntualità istantanea, identica a sé, dell’elemento. […]
127
Una legge della contaminazione differenziale impone la propria logica da un capo all’altro del libro (DERRIDA 1990, p. 51).
no riconoscere un ruolo costituente. Un tale movimento irriducibile
lavora dall’interno tutte le analisi fenomenologiche.
Questa legge della contaminazione differenziale nasce dai tentativi derridiani di istallarsi all’interno dello spazio che separa la fondazione ultima del sapere, tentata dalla fenomenologia husserliana,
e le concrete analisi fenomenologiche, che contraddicono queste tendenze fondazionali.
È in questo spazio, dettato dalla duplicità di fondo della filosofia
husserliana, che Derrida vuol far lavorare una dialettica “originaria”
e “ininterrotta”, che genererebbe tutte le opposizioni classiche della
metafisica e conseguentemente della fenomenologia.
Questa idea di dialettica (almeno nel suo nucleo essenziale) diverrà poi la différance; malgrado il termine “dialettica” abbia finito
per scomparire totalmente, o addirittura per designare «ciò senza
cui o lontano da cui bisognerà pensare la différance, il supplemento
d’origine e la traccia» (DERRIDA 1990, pp. 51-52). Il movimento della différance si propone infatti di ferire la logica opposizionale della
dialettica, smarcando così la sua conflittualità da quella della contraddizione hegeliana4.
Ora, il punto in cui la dialettica agisce all’interno della fenomenologia è il rapporto tra genesi materiale e struttura ideale. La genesi
materiale delle idealità non è un limite di cui fare a meno, ma costituisce la condizione stessa di possibilità della genesi. E la dialettica è lo
strumento che, valorizzando il ruolo del negativo, di ciò che viene (se
vogliamo, freudianamente) rimosso, mette in evidenza questa risorsa.
Quindi invece di attestarsi su di una contraddittorietà poco fruttuosa tra storia e struttura, Derrida vuole, dialettizzandole, mostrarne l’intima complementarità. Ma questa non è che una esplicitazione
dei risultati delle concrete analisi fenomenologiche husserliane: perché la ricerca di idealità pure, che giustifichino una filosofia prima e
una fondazione ultima del sapere, è contraddetta all’interno della fenomenologia trascendentale dalle descrizioni inerenti il movimento
di temporalizzazione e della costituzione della soggettività.
È per questo motivo che la non-presenza, il non-ora e l’altro, lungi
dall’essere costituiti da una soggettività che li precederebbe, si vedo-
Nel più profondo di ciò che lega insieme questi due momenti decisivi della descrizione, una non-presenza irriducibile si vede riconoscere un valore costitutivo, e con essa una non-vita o una non-presenza
o una non-appartenenza a sé del presente vivente, una mai sradicabile non-originarietà (DERRIDA 1967c, p. 35).
128
È proprio il tema della genesi che inquieta Husserl secondo Derrida, è l’impossibilità di eliminare radicalmente, riducendolo, il lato
materiale nella formazione dell’ideale. Sarà solo andando avanti con
l’analisi, che Husserl si scontrerà con la necessità di riconsiderare
il ruolo della temporalità nella costituzione dei dati sensibili, delle
strutture e dell’io.
Il fondamento assoluto stesso deve essere descritto nella sua apparizione genetica; implicando il proprio passato, implicandosi nel proprio passato, esso non deve ridurvisi né essere dipendente nel senso
in cui si dice che una conclusione dipende dalle proprie premesse o
che un effetto dipende da una causa. Qui è l’effetto che costituisce il
senso della causa come tale (DERRIDA 1990, p. 65).
Si tratta di cogliere questa dialettica originaria, questa contaminazione necessaria del semplice, al di là delle opposizioni seconde che
da essa si generano, e in cui ricadono le metafiche classiche. A tal fine
il miglior modo per individuarla è porre al centro della riflessione le
analisi sulla costituzione della temporalità, la sintesi che genera il
presente puntuale, perché le modificazioni necessarie al suo generarsi
lo condizionano lacerandolo, fessurandolo5. Il presente infatti è scisso
al suo interno in ritenzione, presente impressionale (che è dato intuitivamente) e protensione. Ogni adesso che passa, quindi, non sparisce
nella coscienza, ma viene conservato ritenzionalmente. Questa sarà la
condizione di possibilità di ogni apparire, perché senza una ritenzione minimale nessuna differenza, né alcun senso, potrebbe darsi.
Così la presenza deve scendere a patti con la non-presenza, col suo
altro, perché solo in questo modo risulta pensabile. La necessità della
129
ritenzione, scrive Derrida, «distrugge radicalmente ogni possibilità
di identità a sé nella semplicità» (DERRIDA 1967c, p. 101). Sarà questa dialettica o sintesi originaria del tempo, che è anche una dialettica dell’origine con la non-origine, a mostrarci il movimento della
différance, un movimento che è una passività quanto un’attività, perché questa stessa distinzione dipende dalla possibilità del pensiero
che essa apre.
Ora, se è vero che questa dialettica viene rinvenuta nelle concrete
analisi fenomenologiche, è vero altresì che per Derrida Husserl non
si staccherà mai del tutto da una descrizione che parta da un adesso
puntuale. Ogni adesso si lega ritenzionalmente a un momento passato e protensionalmente a un momento futuro, ma questo movimento
ha comunque un punto sorgente, un punto nel quale i suoi modi
di decorso temporale hanno un inizio. Perché qualcosa possa essere una ritenzione, deve prima essere stata una impressione. Quindi
nonostante l’articolazione nella descrizione della temporalità, questa
manterrebbe in Husserl un centro insostituibile, cioè il momento
impressionale. Ma se a ogni ora presente sono connessi gli ora passati,
ogni momento non è isolabile, pena la perdita di senso, allora nelle
descrizioni fenomenologiche, lungi da essere descritto il semplice
presente, è il gioco della presenza e dell’assenza che viene descritto:
Il presente originario e costituente non è dunque assoluto che nella
sua continuità con un non-presente che è nello stesso tempo costituito prima di esso, con esso, e in esso. La sintesi originaria è
appunto quella del costituito e del costituente, del presente e del
non-presente (DERRIDA 1990, p. 155).
Questo non farebbe altro che confermare quindi che l’ora, l’origine,
l’inizio necessitano di un supplemento. Il supplemento è necessario alla
presenza affinché essa si possa manifestare. Il presente può dunque
essere presente solo mostrando come viene lavorato dalla non-presenza, diviene presente grazie al lavoro della ritenzione, appare come
presente sullo sfondo della sua discontinuità col momento anteriore,
«non inaugura che nella tradizione; non crea che perché ha un eredità
storica» (DERRIDA 1990, p. 156).
130
La ritenzione non è un dato puro, che defluisce semplicemente,
ma un dato che trovandosi in un processo di modificazione, non può
costitutivamente essere recuperato nella sua purezza, perché non l’ha
mai avuta. Il dato originario non è strutturalmente recuperabile, è
originariamente impuro perché a priori temporale. È il ritardo ad
essere originario.
Di questa articolazione nella formazione del presente Derrida
vuol sottolineare l’unitarietà della fase, cioè la necessità – oltre che
della ritenzione – della protensione, perché la sua struttura si dimostra fondamentale per la formazione e la chiarificazione della forma.
La protensione è infatti una tendenza anticipatrice, che non proviene
dall’io, ma lo indirizza. La forma non è una donazione di senso data
da un atto del soggetto già costituito e con un illimitato potere costitutivo, ma dai fenomeni stessi; per questo Derrida potrà scrivere
nella Grammatologia che «la différance è la formazione della forma»
(DERRIDA 1967a, p. 94) 6. In tal senso la différance è l’origine non
piena, non semplice, che produce una struttura in virtù di un ritardo
originario. Non vi sono forme che preesistano all’opposizione, è la
forma stessa che prende corpo a ritardo: ogni termine è costituito secondo l’opposizione o la differenza che gli dà forma. Niente sussiste
prima del lavoro della différance, anche la forma non è data per essere
riempita, ma si genera a partire da una sintesi originaria.
Riassumendo, quindi, si può dire che: il contenuto del futuro è
offerto dal passato, ma il passato viene determinato dalle direzioni
anticipatrici delle protensioni; questa dialettica della temporalità
non può che essere originaria, una contaminazione necessaria all’apparire di ogni senso. Questo, quindi, non sarà mai semplice, semplicemente presente, o un passato che è stato presente, come un senso
che era presente all’origine prima del lavoro della différance. «Tutto
comincia con la diade», non vi è un origine assoluta del senso, perché
non vi è senso che a partire dalla différance e dal suo lavoro di diversificazione e differimento:
La traccia non è solamente la sparizione dell’origine, qui essa vuol
dire che […] l’origine non è affatto scomparsa, che essa non è mai stata costituita che, come effetto retroattivo, da una non-origine, la trac131
cia, che diviene così l’origine dell’origine (DERRIDA 1967a, p. 92).
Quindi quello che Derrida fa emergere dalle analisi husserliane
è che il presente, che tradizionalmente è servito come punto di riferimento per pensare il tempo, perde il suo privilegio, perché esso si
costituisce come tale solo in quanto scende a patti con la non-presenza. A questo movimento che è una dialettica o una contaminazione
originaria, si rifarà il gioco della différance.
Ora, le analisi husserliane sulla temporalità ruotano ovviamente
intorno ad una interrogazione costante sul soggetto trascendentale
che di questa costituzione del tempo dovrebbe essere pienamente
padrone. Ma il soggetto non è scindibile dal flusso temporale e viceversa. I due momenti si dialettizzano a loro volta. È per questo che
già nella sua tesi di laurea Derrida scrive:
la soggettività non è l’attributo analiticamente legato all’essere del
tempo; la temporalità non è neppure il carattere o, al massimo, l’essenza della soggettività. Si tratta al contrario di una sintesi ontologica a priori e nello stesso tempo dialettica. La soggettività è il tempo
che si auto-temporalizza. Il tempo è la soggettività che si auto-realizza come soggettività (DERRIDA 1990, pp. 158).
Questa dialettica non è riducibile in nessun modo ad un identità,
come non è a posteriori un arricchimento empirico o una presa di
coscienza ideale, perché:
nell’identità assoluta del soggetto con se stesso la dialettica temporale costituisce a priori l’alterità. Il soggetto appare originariamente
come tensione del Medesimo e dell’Altro. […] Il fondamento ultimo dell’oggettività della coscienza intenzionale non è l’intimità
dell’“Io” a se stesso ma il Tempo o l’Altro, queste due forme di esistenza irriducibili a un’essenza, estranea al soggetto teorico, sempre
costituite prima di esso, ma al medesimo tempo sole condizioni di
possibilità di una costituzione di sé e di un apparizione di sé a sé
(DERRIDA 1990, p. 158).
L’errore di Husserl starebbe dunque nel non tematizzare esplici132
tamente questa dialettica, rimanendo così in un’oscillazione confusa
risultante dal fatto che la dialettica è derivata e costruita a un livello
secondario e non primario e costituente.
Ma se siamo sempre costretti a partire dal costituito che dobbiamo cogliere e accettare passivamente ed è questa una legge a priori,
allora dobbiamo chiederci, secondo Derrida, se questa necessità non
sia legata alla costituzione trascendentale stessa. Il discorso filosofico
appare segnato così da questa necessità: nulla può essere designato
o definito senza postulare il suo opposto assoluto. In questo motivo
dialettico deve stare il compimento e la presa di coscienza della filosofia: nell’assumere tale segnatezza non più velatamente, ma indefinitivamente.
Nella temporalizzazione originaria e nel movimento di rapporto all’altro, come sono effettivamente descritti da Husserl, la nonpresentazione è altrettanto originaria della presentazione. È per tale
motivo che un pensiero della traccia, o della différance, non potrà mai
rompere con una fenomenologia trascendentale più di quanto non
potrà mai ridurvisi.
3. La traccia come effetto a ritardo
Le nozioni derridiane di traccia e di différance rimandano alla non
ripresentabilità di un’origine incontaminata, di un elemento primo,
puro e stabile7.
L’impossibilità di rianimare l’evidenza di una presenza originaria,
ci autorizza a chiamare traccia ciò che non si lascia riassumere nella
semplicità del presente, perché sempre lacerato da una fessura. Questa ci rimanda a un passato assoluto, «a un passato che non si può più
comprendere nella forma della presenza modificata, come un presente-passato» (DERRIDA 1967a, p. 98), un passato ripresentificabile.
Tale sparizione dell’origine, spinge Derrida a parlare addirittura
di archi-traccia, per sottrarla alla determinazione classica di origine
come presenza. Ma un tale concetto distrugge il suo stesso nome non
appena lo si pronuncia, perché «se tutto comincia con la traccia, non
c’è traccia originaria» (DERRIDA 1967a, p. 93).
133
Questo ci dovrebbe portare a rimettere in discussione gli stessi
concetti, e quindi i nomi di presente, di passato e di avvenire (che si
uniscono nella sintesi inscindibile della temporalizzazione), perché
il concetto classico di tempo non può descrivere adeguatamente la
struttura della traccia.
Quindi decostruire la semplicità del presente non vuol dire solamente tener conto «di una dialettica della protensione e della ritenzione che si istallerebbe nel cuore del presente invece di farglielo
abbracciare» (DERRIDA 1967a, p. 99). Non si tratta di complicare la
struttura del tempo conservandogli però la sua successività fondamentale, perché una tale complicazione, che divide originariamente
il presente vivente, è già descritta da Husserl8. Questi però si attiene
alla descrizione di un modello lineare, oggettivo, mondano. Il modello di tale successione impedirebbe che:
per un effetto di ritardo inammissibile per la coscienza, una esperienza sia determinata nel suo presente stesso, da un presente che
non lo avrebbe preceduto immediatamente ma che gli sarebbe largamente “anteriore” (DERRIDA 1967a, p. 99).
Questo tipo di temporalità, con il suo effetto a ritardo (Nachträglich) è invece quello a cui fa riferimento Freud nel descrivere la
struttura dell’inconscio, per leggere le cui tracce il linguaggio della
presenza è inadeguato. Questa alterità irriducibile rispetto a qualsiasi modo della presenza «si marca in degli effetti irriducibili di post
festum, di ritardo» (DERRIDA 1972a, p. 49).
Ed è proprio la struttura del ritardo che vieta di risolvere la temporalizzazione in una semplice complicazione dialettica del presente
come sintesi originaria che costantemente riconduce a sé le tracce
ritenzionali e le aperture protensionali. L’alterità dell’inconscio ci
mette in relazione con «un passato che non è mai stato presente», per
usare un espressione di Emmanuel Levinas, e che non lo sarà mai.
Il concetto di traccia è dunque incommensurabile rispetto a quello
di ritenzione, di divenir passato rispetto a ciò che è presente. Non si
può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente (DERRIDA 1972a, p. 49).
134
L’idea è resa molto bene nella descrizione delle riserve che vengono costituite per differire il dolore ed il trauma conseguente. Non è
detto che una percezione sia nel momento stesso traumatica, ma lo
può diventare con un effetto a ritardo, seguendo quindi una temporalità che risulta essere altalenante e periodica. Ma questa modalità
di funzionamento non vale solo per il differimento di tracce pericolose per il mantenimento dell’economia della vita, «è il ritardo che è
originario», come scrive Derrida nel saggio Freud e la scena della scrittura (DERRIDA 1967b, p. 263). L’intemporalità dell’inconscio è determinata dalla sua contrapposizione ad un concetto corrente o volgare di tempo. Le tracce, in quanto memoria, non sono recuperabili
come semplice presenza, ma solo come differenti le une dalle altre.
È la différance a essere originaria. «È la non origine che è originaria»
(DERRIDA 1967b, p. 263).
4. Différance vs differenza ontologica
Il privilegio del presente è per Derrida «l’etere della metafisica,
l’elemento stesso del nostro pensiero in quanto esso è irretito nella
lingua della metafisica» (DERRIDA 1972a, p. 44).
Da Parmenide fino ad Husserl, il privilegio del presente non è mai
stato messo in questione. Non ha potuto esserlo. Esso è l’evidenza
stessa e nessun pensiero sembra possibile al di fuori di questo elemento. La non-presenza è sempre pensata nella forma della presenza
(DERRIDA 1972a, p. 64).
I limiti di un tale pensiero possono essere sollecitati solo seguendo la meditazione heideggeriana, perché è stato prima di tutti Heidegger ad aver osservato che il tempo ha sempre svolto un ruolo di
criterio ontologico nella distinzione delle diverse regioni dell’ente.
Come scrive Heidegger stesso nel sesto paragrafo di Essere e tempo:
«L’ente è concepito nel suo essere come presenzialità, cioè compreso
in riferimento ad un determinato modo del tempo, il presente» (HEIDEGGER 1977, p. 39).
135
La maniera di determinare l’essere dell’ente come presenza è solidale con la visione logocentrica del pensiero. Ma tale logocentrismo
non essendo del tutto assente per Derrida dal pensiero heideggeriano
lo trattiene ancora nella filosofia della presenza, cioè nella filosofia.
«Ciò vorrebbe forse dire che non si esce dall’epoca di cui si può designare la chiusura» (DERRIDA 1967a, p. 31).
Quindi, anche se il tentativo di decostruire la determinazione
dell’essere come presenza, la validità atemporale di strutture e significati, possono essere interpretati e compresi solamente seguendo
la scia della meditazione heideggeriana, Derrida non mancherà di
distanziarsene; scrive infatti ne La différance:
tra la differenza come temporeggiamento-temporalizzazione, che
non si può pensare più nell’orizzonte del presente, e ciò che Heidegger dice in Essere e tempo della temporalizzazione come orizzonte trascendentale della questione dell’essere, che va liberato dal dominio
metafisico del presente e dell’ora, la comunicazione è stretta, anche se
non esaustiva e irriducibilmente necessaria (DERRIDA 1972a, p. 37).
In questa presa di distanza si può leggere l’insegnamento husserliano. Mentre per Heidegger «Il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica è l’avvenire» (HEIDEGGER 1977, p. 391), per
Derrida, nel privilegio dell’anticipazione, della dimensione del futuro
«rischiamo di cancellare l’irriducibilità del qui-da-sempre e quella passività fondamentale che si chiama tempo» (DERRIDA 1967a, p. 98).
In tal senso il grande vantaggio delle analisi husserliane sulla
temporalità é quello di mettere in evidenza l’unità profonda di quella fase che riunisce in sé le tre estasi temporali: ritenzione, presente
impressionale e protensione9. Perché nella ricerca heideggeriana di
una temporalità autentica e originaria da contrapporre a quella inautentica di derivazione aristotelica, per Derrida si riprodurrebbero le
gerarchie metafisiche classiche. Heidegger non ha mai potuto pensare altro che il concetto di tempo volgare, quello di Aristotele e di
Hegel, cioè il tempo spazializzato e pensato secondo il concetto della
stigmè, perché è impossibile pensare il tempo altrimenti che sotto
forma dello spazio10.
136
In questo modo egli si è precluso la possibilità di pensare in maniera diversa la spazialità come esteriorità, la traccia così come si sforza di pensarla Derrida, come ciò che non appartiene completamente e
indefinitivamente al logos: delle tracce spaziali che tendono ad essere
irriducibili al modello dell’essere come presenza piena, che quindi
si oppongono al raccoglimento del futuro e del passato nel presente.
«Richiamandoci alla differenza dell’essere dall’ente come differenza
della presenza dal presente» (DERRIDA 1972a, p. 52), Heidegger ci
ha mostrato lo sprofondare di quello che la metafisica ha obliato: la
traccia stessa della differenza dell’essere dall’ente.
Ma poiché l’essere non è mai stato pensato se non dissimulato
nell’ente, «la différance, in una certa e ben strana maniera, è più “vecchia” della differenza ontologica o della verità dell’essere. È a questa
età che la si può chiamare gioco della traccia». Un gioco che non appartiene più all’orizzonte dell’essere, ma che sostiene e forma i bordi
del suo senso, «gioco della traccia o della différance che non ha senso
e che non è» (DERRIDA 1972a, p. 51).
Quindi bisogna anzitutto pensare fin in fondo la domanda sul senso dell’essere heideggeriana, per porsi nella posizione da cui si possa
riconoscere la différance come origine sotto barratura della stessa differenza ontologica. Essere e ente sarebbero derivati dalla différance:
La differenza ontico-ontologica ed il suo fondamento nella “trascendenza del Da-sein” non sarebbero assolutamente originari. La différance tuot court sarebbe più originaria, ma non si potrebbe chiamarla
più origine o fondamento, poiché queste nozioni appartengono essenzialmente alla storia dell’ontoteologia, cioè al sistema funzionante come cancellazione della differenza (DERRIDA 1967a, p. 44).
Per questo avevamo cominciato affermando che non c’è essenza
della différance, di essa non ci si può appropriare grazie al suo nome o
al suo apparire, perché è ciò che minaccia la possibilità di appropriazione dell’apparire stesso, dell’apparire della cosa stessa.
Quindi anche se essa rimane un nome metafisico a tutti gli effetti, (così come lo sono tutti i nomi che può ricevere nella nostra
lingua) la différance prova a fare un passo al di là dell’epoca metafisica
137
chiusa dall’interrogazione heideggeriana. È per questo che in particolare quando ci troviamo a definire la différance come differenza
della presenza dal presente, oppure dell’essere dall’ente, rimaniamo
irretiti nel linguaggio metafisico. Nella ricerca del nome unico e della parola propria, Derrida vede il pensiero di Heidegger trattenersi
ancora all’interno della metafisica. Il pensiero della traccia prova a
suggerire uno sviluppo diverso per decostruirlo fin dove è possibile.
Uno sviluppo che pone in questione «l’alleanza della parola e dell’essere nella parola unica, nel nome finalmente proprio» (DERRIDA
1972a, p. 57).
«Più vecchia dell’essere stesso» essa «non ha nome alcuno nella
nostra lingua» e non ha in maniera definitiva neanche il nome di différance, che pur non è un nome e che si disarticola «incessantemente
in una catena di sostituzioni in différance» (DERRIDA 1972a, p. 56).
La différance è il gioco che permette e fonda gli effetti nominali, per
questo motivo non c’è nome proprio per essa. Il suo scopo è «mettere
in questione il nome del nome. Non ci sarà nome unico fosse anche
il nome dell’essere» (DERRIDA 1972a, p. 57).
1
2
3
4
«Carattere o insieme di caratteri che distingue una cosa dall’altra, un essere da un altro
essere; relazione d’alterità tra queste cose, tra questi esseri» (T. d. a.). Si è scelto di
riportare la definizione francese, motivo che apparirà sempre più chiaro nel corso della spiegazione, perché il termine italiano mantiene quasi completamente
l’ambiguità che Derrida vuol riconquistare alla différance.
Critiche che si esplicano in prima battuta a partire dalla fenomenologia husserliana con La voce e il Fenomeno (Derrida 1967c), e successivamente si estendono in
Della Grammatologia (Derrida 1967a) a tutta la storia della filosofica e non solo.
Con il verbo francese relever (rilevare, rilevata, rilevamento) Derrida propone di
tradurre e traduce il movimento dell’Aufhebung hegeliana. Rilevata «cioè ad un
tempo – scrive nel saggio Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel
– elevata e soppressa, diciamo rilevata dalle proprie funzioni, nel senso in cui si
può essere ad un tempo elevati a e rilevati dalle proprie funzioni, sostituiti con
una sorta di promozione da ciò che segue e rileva. In questo senso il segno è il
rilevamento dell’intuizione sensibile-spaziale» (DERRIDA 1972a, p. 129).
Tale critica della dialettica hegeliana non è estesa al pensiero e alla scrittura
hegeliana tout court. L’eredità che Derrida raccoglie da Hegel è profonda e ben
evidente all’interno della sua speculazione filosofica, quanto ambivalente. Sul
138
piano della logica e della filosofia da essa conseguente «Hegel – afferma Derrida
in Posizioni – avrà sempre ragione», ma è proprio sui bordi del suo pensiero e al
di là dei suoi margini, sul «resto del sapere assoluto» che Derrida tenta una fruttuosa decostruzione della scrittura hegeliana, «perché la sua scrittura produce
un sovrappiù rispetto al contenuto filosofico che eccede il suo stesso voler-dire»
(Derrida 1972b, p. 92). Cfr. Timpano e Il pozzo e la piramide (in DERRIDA 1972a)
e Glas (DERRIDA 1974).
5
In Della Grammatologia Derrida, per indicare allo stesso tempo la differenza e
l’articolazione, propone la parola brisure, fenditura e, citando il Robert, scrive: «Parte fessa, rotta. Cfr. breccia, rottura, frattura, faglia, spacco, frammento.
– Articolazione a cerniera di due parti di un opera di falegnameria, di serramenteria. La fenditura di un imposta. Cfr. giunto» (DERRIDA 1967a, p. 97)
6
Mostrando con ciò l’unità del percorso che da Il problema della genesi conduce a
Della Grammatologia.
7
«La traccia è infatti l’origine assoluta del senso in generale. Il che equivale a dire, ancora
una volta, che non c’è origine assoluta del senso in generale. La traccia è la différance che
apre l’apparire e la significazione» (DERRIDA 1967a, p. 97).
8
«L’adesso B sarebbe in quanto tale costituito dalla ritenzione dell’adesso A e dalla
protensione dell’adesso C; malgrado tutto il gioco che ne seguirebbe, per il fatto
che ciascuno di questi tre adesso riproduce in sé questa struttura, il modello
della successione impedirebbe che, per esempio, un adesso X prenda il posto
dell’adesso A» (DERRIDA 1967a, p. 99).
9
M. Ferraris sostiene in A mano, troppo a mano: «Accade così che il pensatore della
presenza par excellence, Husserl, si trovi suo malgrado ad accordare, secondo una
lettura immanente quale è quella tentata da Derrida, un credito ben più largo di
quanto non vorrebbe alla non-presenza e persino alla scrittura» (FERRARIS 1991,
p. XII).
10
Sempre M. Ferraris nello stesso artico, poco sopra, sostiene: «Perché questa alla
fine è l’ipotesi di Derrida su Heidegger: la filosofia heideggeriana della differenza si muove per l’essenziale entro i canoni dell’essere pensato come presenza, di
cui la differenza non sarebbe che una modificazione determinata. Il logocentrismo, infatti, non vuol dire altro che pensare l’essere sotto la forma della presenza,
e del presente che si attualizza nella parola; rispetto a ciò sarà vano e incoerente
reclamare come fa Heidegger l’esigenza di pensare l’esser che non l’essere dell’ente, dal momento che la struttura generale della presenza viene interamente
confermata» (FERRARIS 1991, p. XI).
139
EMPATIA
di Giulia Tossici
Introduzione
L’empatia è, stando alla definizione husserliana, la «teoria trascendentale dell’esperienza dell’estraneo», vale a dire il modo in cui si
realizza e si struttura l’incontro di un ego con un alter ego. Ma ego
significa necessariamente e unicamente il soggetto “io-uomo”? Solo
gli uomini dunque empatizzano? Certamente no. E non soltanto per
l’evidenza empirica delle relazioni empatiche tra animali o tra animali e uomini, ma soprattutto per il fatto che con “soggettività” si
intende l’unità inscindibile di corpo vivo e psyche, una definizione di
“io” (contenuta in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica di Husserl) che accomuna tanto gli uomini quanto gli animali. I processi empatici quindi chiamano in causa non soltanto l’uomo ma anche una larga fetta della popolazione animale, seppure però
con modalità che variano in funzione del grado evolutivo di ciascuna
specie. Ma a cosa deve, l’empatia, il privilegio di poter assurgere a
«teoria trascendentale dell’esperienza dell’estraneo»? Perché, in altre
parole, l’incontro con l’altro, il nostro relazionarci con lui assume
sempre la forma di un’empatizzazione? L’esigenza di fare necessariamente ricorso all’empatia trae origine dalla peculiarità unica di quel
140
corpo vivente di alludere, esprimere, dar a intendere una psichicità
senza che però essa si manifesti e si offra mai “in carne e ossa”. L’inaccessibilità della vita psichica dell’altro, in cui si sostanzia la sua irriducibile alterità e trascendenza, rende perciò impraticabile un’esperienza diretta, immediata e originale dei suoi vissuti costringendomi
a ricercare un accesso indiretto, cioè mediato dalla sola cosa che dell’altro mi si offre in percezione: il suo corpo. Dato che infatti non mi
è possibile vivere ciò che vive l’altro, sentire quello che sente lui,
pensare i suoi pensieri, patire le sue passioni ecc., e cioè procurarmi
un’esperienza percettiva di ciò che inerisce alla sua interiorità, dovrò
intenzionare tutto questo indirettamente, ossia a partire dalle manifestazioni esteriori del suo corpo che esprimono e in cui, per così dire,
si incarnano quei vissuti. Empatia, corpo e psyche costituiscono perciò,
come vedremo, un trinomio inscindibile. Del resto, il rinvio al corpo
è contenuto nel termine stesso “empatia”, che, discendendo dal verbo
greco en-pathein, si configura come una forma di pathos, di sensibilità, un sentire e un soffrire, che in quanto tale, appartiene, si inscrive,
si radica in una corporeità vivente e animata. Resta ancora da chiarire però quale sia la natura di questo sentire: esso è declinato qui nel
senso più originario di affettività, nel senso che l’empatia si configura
come una relazione eminentemente affettiva, in cui cioè sono in gioco le emozioni proprie e dell’altro. Infatti l’interpretazione empatica
non è un’operazione di carattere intellettuale, l’esito cioè di una fredda inferenza logica o, per usare una metafora, qualcosa di simile alla
soluzione di un difficile rebus enigmistico. I processi interpretativi
tipici dell’empatia hanno una natura essenzialmente emozionale, cioè
richiedono la capacità di immedesimarsi nell’altro e di sperimentare
dentro di sé quello che si immagina provi, senta, viva lui. È questo il
senso profondo del «fare come se io fossi l’altro», una formula che
assai felicemente descrive ciò che accade quando si empatizza. Di
fronte all’altro, quindi, io non mi pongo come un osservatore neutro
ed esterno o un investigatore alla ricerca di indizi e tracce. Non si
tratta cioè tanto di decifrare, decriptare, indovinare o inferire i vissuti altrui a partire dall’osservazione delle sue manifestazioni corporee
ma di riprodurre dentro di me la sua espressione, il suo sorriso ad
esempio, sperimentarlo e riviverlo in prima persona chiedendomi −
141
anche se non in forma di questione, di domanda − quale vissuto in
me si assocerebbe a quel sorriso, se gioia, euforia, compiacenza ecc.
Significa dunque come domandarmi: «se io avessi quel tipo di sguardo, se muovessi le mani in quel modo, se la mia voce avesse quel
tono, cosa proverei?». Comprendere perciò la natura di quell’en che
specifica la modalità peculiare di pathein in gioco nell’empatia è dunque assolutamente necessario per sgombrare il campo da quegli equivoci e fraintendimenti sulla natura dell’immedesimazione empatica
che hanno da sempre contraddistinto la sua storia. Il dentro cui fa riferimento l’empatia, infatti, non ha nulla a che vedere col destinatario delle nostre empatizzazioni, con l’altro nel quale e con il quale ci
si immedesima, ma si riferisce unicamente all’empatizzante, cioè all’io che per empatizzare deve far vivere o ri-vivere, risuonare dentro
di sé le espressioni appresentanti colte nel corpo dell’altro. Perciò mettersi al posto dell’altro, collocarsi dal suo punto di vista, vestire i suoi
panni non significa tanto spostare il mio qui nel suo là, ma il suo là
nel mio qui, cioè far entrare l’altro dentro di me, assumere internamente il suo punto di vista, accogliere la sua espressione1, ospitare il
suo volto, i suoi occhi, la sua voce, il suo sorriso, i suoi gesti nella mia
interiorità e, grazie alle risonanze che così si producono in me, associare, per esempio, al suo sorriso la mia gioia. Perciò non soltanto
l’empatia non pretende in nessun modo di entrare nell’altro e nei suoi
vissuti, violandone l’intimità e l’alterità, ma anzi, rispetta, vive e si
alimenta della sua trascendenza, in quanto non esisterebbe e non
avrebbe alcun senso se la vita psichica dell’altro mi fosse direttamente e originalmente accessibile. Allo stesso modo neanche il radicamento dell’immedesimazione empatica in un’analogia tra me e l’altro
− quella «comunanza di genere» che ha destato spesso in molti preoccupazioni e perplessità − rappresenta una reale minaccia − o peggio
un tentativo di neutralizzazione dell’alterità e della trascendenza assolute d’altri − a meno di dimenticare l’importanza del riconoscimento della differenza tra il sé e l’altro ai fini del «fare come se io
fossi l’altro». Analogia e differenza, infatti, sono entrambe condizioni indispensabili di quel come se su cui si fonda l’empatia e che costituisce il limen, la linea di demarcazione tra immedesimazione e identificazione. Infatti, se empatizzando dimenticassi che il vissuto di
142
gioia, prodottosi in me in seguito alla riproduzione interna dell’espressione altrui, appartiene di diritto al suo sorriso e non al mio, se
lo attribuissi a me stesso e non all’altro, se rimuovessi dunque il carattere finzionale di quel come se, avrebbe luogo allora un vero e proprio contagio emozionale che trasformerebbe l’empatia in una forma
di simpatia (dal greco syn-pathein, “sentire/soffrire con”), un’adesione
cioè talmente profonda con l’altro da soffrire per ciò di cui soffre lui,
sentire quello che sente lui, odiare ciò che odia lui ecc. Allora sì che
con questa identificazione verrebbe violata la trascendenza e l’irriducibile alterità dell’altro, nel segno di un’impossibile e rovinosa fusione. L’attribuzione all’altro del vissuto riprodotto, la consapevolezza
della nostra reciproca differenziazione e il carattere immaginativo
delle operazioni empatiche marcano dunque il confine, sottile ma
decisivo, tra empatia e contagio, immedesimazione e identificazione,
e si legano strettamente al riconoscimento della mia e altrui psichicità. Se infatti il possesso di una vita psichica, rendendoci delle soggettività piene, ci accomuna, nel contempo è anche all’origine di ciò
che ci differenzia e ci separa: l’altro, infatti, proprio in quanto soggettività come me è irriducibilmente altro da me, perché inaccessibile
nella sua vita psichica che trascende e trascenderà sempre la mia sfera
di esperienza originale. Infine l’empatia, intrecciandosi strettamente
col corpo vivo e con la psyche, si correla anche a quell’“io”, a quella
soggettività che emerge dalla loro unità. Ma questo significa forse
sostenere che, affinché si dia empatia − dunque prima di essa, come
sua condizione inaugurale − devono darsi due soggettività, cioè due
“io” compiutamente realizzati, già costituiti, fondati ciascuno per sé
(o, magari peggio, una, cioè la sfera dell’estraneo, fondata a partire
nella sfera egologica) che poi, soltanto in seguito, entrano in relazione
tra loro? L’obiettivo e lo scopo principale di questa voce è quello di
mostrare quanto questa visione, profondamente radicata nella nostra
tradizione filosofica, sia in realtà fondata su quello che è stato definito
nel corso di questo seminario, con un conio assai felice, un fondamento infondato, cioè sul supposto privilegio dell’ego. Recuperando infatti da Idee II la distinzione, da intendersi però soltanto come un’astrazione indispensabile ai fini della descrizione fenomenologica, tra corpo vivo e psyche, cercherò di mostrare come il riconoscimento della
143
mia e altrui psichicità avvenga correlativamente all’interno della relazione empatica. Soltanto da questo momento, vale a dire sulla base
di quella strana ed enigmatica associazione che lega alla sua espressione, al suo sorriso e al suo corpo, il mio vissuto, la mia gioia e la mia
psyche, si costituisce l’unità di corpo e psyche, nasce cioè la soggettività, i cui destini futuri, del resto, cioè i suoi processi di sviluppo e
definizione, resteranno sempre intimamente e indissolubilmente legati alla relazione/alle relazioni con l’altro/gli altri. Il percorso che
tenterò quindi ora di delineare vedrà intrecciarsi riflessioni propriamente filosofiche, fenomenologiche e non, con contributi di natura
molto diversa, cioè teorie psicoanalitiche e recenti scoperte avvenute
in ambito neurobiologico, nella speranza di riuscire a dar vita ad un
dialogo che si riveli fecondo e soprattutto stimolante.
1. Le pre-condizioni dell’empatia: la reversibilità originaria e la distinzione
con Altri
L’empatia, in quanto relazione radicata nel e insieme rivolta, diretta a un corpo vivo, richiede che preliminarmente ego e alter ego si
siano costituiti come corporeità viventi e animate. Come vedremo,
infatti, sostenere che la soggettività egologica non è un’entità chiusa
in se stessa, autarchica e autosufficiente nel suo costituirsi, definirsi
e evolversi, non significa affatto postulare una condizione di originaria indifferenziazione tra il sé e l’altro, come se, dunque, l’io non
fosse che una tabula rasa su cui l’alterità inscrive i suoi caratteri. Se
pensiamo che il neonato, sin dai primissimi istanti della sua vita, è
dotato di una serie di stupefacenti capacità che hanno tutta l’aria di
essere innate (o perlomeno di avere un’origine pre-natale, intrauterina2) non possiamo fare a meno di ammettere che l’io, ben prima
di riconoscersi come tale grazie alle e nelle sue relazioni, sperimenti
una molteplicità di sensazioni, emozioni, vissuti, ecc., acquistando
inoltre in tempi brevissimi una discreta padronanza del suo corpo
inteso come corpo vivo distinto dagli altri. Nel loro libro, intitolato
Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del Sé, Peter Fonagy e
collaboratori sostengono:
144
La ricerca contemporanea ha messo in crisi la credenza tradizionale
nello stato iniziale di indifferenziazione, scoprendo una serie di fonti oggettive di informazione e corrispondenti meccanismi innati di
identificazione che forniscono la percezione diretta del “sé ecologico”
(Butterworth, 1995; Neisser, 1988) come entità oggettiva differenziata che si muove nello spazio tra altri oggetti fisici. […] Insomma,
c’è un’evidenza convergente che i dispositivi innati di elaborazione
delle informazione durante i primi sei mesi di vita consentono ai
bambini di rappresentarsi il proprio sé corporeo come oggetto differenziato nello spazio che può dar luogo a un’azione ed esercitare un
effetto causale sul suo ambiente3.
La descrizione del “sé corporeo” contenuta in questo passo ha
un’affinità davvero notevole con l’esposizione dei caratteri essenziali dell’io-psicofisico, il Leibkörper, elaborata da Husserl nella Quinta
Meditazione ma, più approfonditamente, in Idee II. Secondo Husserl,
infatti, il corpo vivo si costituisce a partire dalla scoperta della reversibilità originaria, cioè quella peculiarità unica del mio corpo, emersa primariamente nell’esperienza del contatto, di essere allo stesso
tempo un oggetto sentito e un organo senziente, una cosa che, come
le altre cose, viene percepita e ciò che al tempo stesso però percepisce. In virtù di questa reversibilità, perciò, il mio corpo si configura come un campo di localizzazione, cioè un centro di sensazioni che,
inerendo sempre a un punto della mia somaticità, sono radicate e
localizzate nel mio corpo. Queste sensazioni sono le mie sensazioni,
o meglio le sensazioni del mio corpo (un genitivo a sua volta reversibile, cioè soggettivo e oggettivo insieme) e dunque differiscono da
quelle che fanno riferimento e appartengono all’oggetto sentito, in
uno sdoppiamento che mi permette di percepire la distinzione tra
il mio corpo e ciò che mi circonda. All’interno di questo “mondo”,
poi, io mi costituisco come un polo di orientazione, cioè quel qui assoluto che, facendomi guadagnare la mia localizzazione nello spazio,
diventa il «punto zero» dei miei orientamenti. È infatti a partire
dal mio corpo, cioè in funzione e in relazione alla sua localizzazione,
che le cose mi si manifestano e mutano nei loro modi di apparizione
(l’esser-vicino o lontano, a destra o a sinistra, di fronte o accanto, infatti
è sempre relativo al mio qui). All’interno di questo spazio, infine, il
145
mio corpo emerge come organo liberamente mobile, ovvero un qui che io
posso spostare e muovere a mio piacimento e su cui dunque scopro di
avere un potere causale praticamente illimitato tanto da poter essere
considerato come «la sola e unica cosa in cui io direttamente governo
e impero» (HUSSERL 1950a, p. 119), ma anche la sola e unica cosa
da cui io non posso mai né separarmi né allontanarmi. Mettendoli
a confronto, tanto il “sé corporeo/ecologico” quanto l’io-psicofisico
husserliano sono corpi che si percepiscono con l’immediatezza di un
sentire irriflesso, come entità differenziate che si muovono nello spazio e agiscono in e su di esso, in virtù del proprio senso di agenzia
e efficacia causale. Perciò − se questa costituzione solipsistica coglie
nel segno − l’ego accede alla relazione con l’altro grazie, da un lato,
alla capacità di differenziare il proprio corpo dal suo e, dall’altro, a
un patrimonio personale di sensazioni localizzate che costituiscono
la base hyletica della psyche, la “materia della coscienza”, cioè quello
strato che rappresenta il “sottofondo” dell’attività psichica propriamente detta. Perché la mia psichicità, però, possa esplicarsi pienamente e riconoscersi è necessario incontrare l’altro e relazionarmi con
lui. Il capitolo dedicato, in Idee II, alla costituzione del corpo vivo si
chiude infatti così:
Ma nell’esperienza solipsistica noi non raggiungiamo mai la datità
di noi stessi quali cose nello spazio simili a tutte le altre (una datità
che tuttavia c’è, evidentemente, nella nostra esperienza fattuale), e
non perveniamo all’oggetto naturale “uomo” (essere animale) […]
Per giungere a ciò dobbiamo imboccare un’altra strada: dobbiamo
andare al di là del nostro soggetto e rivolgere la nostra attenzione
agli altri esseri animali che incontriamo nel mondo esterno (HUSSERL
1952a, p. 163, corsivo mio).
2. Le pre-condizioni dell’empatia: l’accoppiamento originario e l’analogia
con Altri
Ciò che infatti emerge dalla lettura di Idee II è che la mia autoesperienza solipsistica, pur conducendomi alla scoperta del mio cor146
po vivo e della sua differenziazione rispetto agli altri corpi presenti
con e attorno a me nel mondo, non mi mette però ancora in grado di
cogliere la somiglianza tra me e gli altri esseri animali, senza la quale
però nessuna empatizzazione potrebbe aver luogo. Dunque, perché
si apra l’empatia è necessario passare attraverso l’«accoppiamento
originario», ovvero quella sintesi passiva di associazione che viene
tematizzata da Husserl nelle Meditazioni Cartesiane. Si tratta cioè di
un’unità di somiglianza tra il mio corpo e quello dell’altro che precede e rende possibile la relazione empatica e che rivela come «l’ego
e l’alter ego sono dati pur sempre e necessariamente in un accoppiamento originario» (HUSSERL 1950a, p. 132). Quel darsi pur sempre e
necessariamente insieme di ego e alter ego, l’originarietà cioè di un
tale accoppiamento, getta una luce diversa su un aspetto molto controverso e dibattuto della Quinta Meditazione, vale a dire sul come si
debba interpretare il carattere preliminare di quella riduzione alla
«sfera appartentiva» ed egologica, che Husserl chiama «epoché tematica», con cui si apre la meditazione. In effetti, si corre spesso il
rischio di travisare la Quinta Meditazione se non si tiene conto del
fatto che, quando si parla di riduzione tematica di ogni intenzionalità rivolta all’estraneo, di preliminare definizione di una sfera appartentiva all’interno della quale poi ha luogo la costituzione dell’altro
(dunque di un’apparente antecedenza della sfera egologica rispetto
a quella dell’estraneo), queste operazioni non descrivono la genesi
temporale della costituzione d’Altri, cioè non si pongono su un piano
di ricostruzione genetica, ma sono motivate dalle esigenze proprie
della descrizione fenomenologica. Non è che, quindi, l’ego goda di
un privilegio di originarietà nei confronti dell’alter ego o dell’accoppiamento. L’altro, infatti, è una sfera originale tanto quanto la mia, e
l’originarietà dell’accoppiamento sta a indicare che, al di là di tutte
le varie tappe costituenti individuate dalla descrizione fenomenologica, l’ego e alter ego sono dati sempre e necessariamente insieme
in un’unità di somiglianza come “io” unitari; e che soltanto in via
astrattiva possono venire distinti e scissi in corpo somatico-materiale
(Körper), corpo vivo animato (Leib), io-psicofisico (Leibkörper) e io-psichico (unità di corpo vivo e psyche, cioè io-uomo)4 e ordinati secondo
i relativi rapporti di anteriorità e posteriorità istituiti dalla descrizio147
ne. Ora, uno degli aspetti più interessanti dell’unità di somiglianza
descritta dall’accoppiamento originario è il carattere passivo della
sintesi associativa che la istituisce. Tale passività fa dell’incontro con
l’altro non tanto una scelta quanto qualcosa che avviene, mi accade e come ogni evento probabilmente mi sorprende e mi spiazza.
Laura Boella, nella sua recente pubblicazione dedicata interamente
all’empatia, parla infatti di questo incontro come di un irrompere e lo
descrive così:
L’emozione dell’incontro è questo: lo sconvolgimento, lo stupore, la sorpresa derivanti dal nascere di una ricerca destata dall’apparizione dell’altro.
[…] Vivere l’emozione dell’incontro vuol dire scoprirsi d’un colpo
dentro la relazione (BOELLA 2006, p. 32).
Ogni volta che rifletto sull’accoppiamento originario e sulla gettatezza che v’è implicata, mi viene in mente l’immagine della coppia
più originaria che si possa pensare, ovvero la diade madre-bambino:
una relazione in cui l’aspirante neonato si trova coinvolto ancor prima di nascere, vale a dire in quella dimensione di quasi-esistenza
(un “quasi” che però non è un “non”) costituita dalla vita prenatale.
Il bambino infatti non sceglie di venire al mondo ma viene messo al
mondo e sin dai primordi della sua esistenza fetale si trova già sempre
in relazione con la madre, in un rapporto primariamente corporeo e
di costitutiva (sebbene non totale) interdipendenza e passività. Al di
là delle suggestioni che quest’immagine evoca, essa però racchiude
in sé tutti i tratti salienti dell’accoppiamento originario: la natura
passiva di un’associazione tra corpi vivi coinvolti, loro malgrado, in
un inestricabile (e interdipendente) intreccio intenzionale che istituisce tra loro un’unità di somiglianza di carattere corporeo: ancora
il corpo, dunque, nel suo nesso con l’empatia. Dopo avergli affidato
il compito di garantire la distinzione, ora gli chiediamo di istituire
anche l’analogia con l’altro. Ma di quale accezione di corporeità stiamo parlando? Il fatto curioso è che il protagonista tanto della reversibilità originaria quanto dell’accoppiamento (parimenti originario),
è sempre il corpo vivo e la sua animazione. Infatti, c’è da domandarsi:
quali sono le omogeneità/affinità che, emergendo nella sintesi passi148
va di associazione tra il mio corpo e quello dell’altro, fondano l’unità
di somiglianza dell’accoppiamento? Prendiamo due uomini: i loro
corpi sono appaiati, essi non sono ancora consapevoli della propria e
altrui psichicità e dunque non riconoscendosi come io-uomo, come
veri e propri soggetti, restano ancora soltanto due semplici io-psicofisici, Leibkörper, corpi vivi. Sarà il Körper a dettare legge o il Leib?
Sarà la percezione che quell’altro di fronte a me ha due occhi, un
naso, due braccia e due gambe ecc., che mi convincerà della nostra
somiglianza? Ma ipotizziamo ora che un bambino, molto piccolo,
che non ha mai visto un animale in vita sua, e che, sempre in linea
del tutto teorica, non ha ancora consapevolezza della propria psichicità, incontri per la prima volta un cane. Se dovesse limitarsi alle
caratteristiche meramente somatiche di quel corpo che è associato
con lui, dubito che potrebbe rinvenire molte somiglianze. Ma allora
perché ci è possibile empatizzare con gli animali? Evidentemente, a
dettare le regole in questa associazione non è affatto il Körper, ma il
Leib. O meglio le somiglianze che due corpi vivi e accoppiati percepiscono come necessarie e sufficienti per istituire tra loro una certa
analogia non hanno a che fare tanto con la materialità quanto con
la Leiblichkeit di quegli io-psicofisici, cioè con l’animazione da parte
di una psyche che traspare e emerge attraverso la loro espressività
corporea. Il cane è dunque riconosciuto come simile a noi non per la
sua struttura fisica ma perché si muove, abbaia, scodinzola, orienta
la testa, per il suo sguardo vivo, etc. Forse per questo, invece, risulta
molto più difficile empatizzare, ad esempio, con una tartaruga o con
un pesce: la loro espressività corporea infatti non lascia presagire alla
stessa maniera una qualche forma di psichicità5.
3. Corpo vivo e psyche
L’analisi delle pre-condizioni dell’empatia, vale a dire la distinzione tra me e l’altro guadagnata grazie alla reversibilità originaria e,
nel contempo, la percezione di una certa analogia tra di noi emersa
nell’accoppiamento originario, ha rivelato come in entrambi i processi sia implicato e coinvolto il corpo (inteso come io-psicofisico).
149
Si potrebbe dire, perciò, che è il nostro corpo a renderci simili ma
anche a distinguerci l’uno dall’altro, o meglio, che è attraverso il nostro Leibkörper che noi ci scopriamo tanto accomunati quanto separati
dall’altro. E qui torniamo a domandarci: ciò in quanto Körper, vale a
dire in quanto corpo somatico-materiale, o in quanto Leib, cioè corpo vivente e animato? La risposta è sempre la stessa e in entrambi i
processi, sia nella reversibilità originaria in cui è la localizzazione del
corpo vivo a farmi percepire la sua distinzione dagli altri corpi che lo
circondano, sia nell’accoppiamento, dove stavolta è l’espressività del
corpo vivo dell’altro a costituire la cifra comune tra di noi. Localizzazione e espressività sono dunque le caratteristiche basilari, sono ciò
che contraddistingue l’aspetto vivente, proprio e animato della mia
corporeità dalla sua materialità e somaticità e, più in generale, gli
esseri dotati di anima da quelli animati. Ed è proprio l’animazione da
parte di una psyche ciò che sottende alla localizzazione e espressività
del corpo vivo6: infatti, io sono un centro di sensazioni localizzate,
un polo di orientazione e un organo liberamente mobile in quanto
c’è una psyche che muove e anima il mio corpo; allo stesso modo, le
espressioni facciali, vocali, mimiche, gestuali, i suoi movimenti nello
spazio, ecc. sono tutte manifestazioni di una psyche che si segnala, si
esprime attraverso di esse, cioè si incarna in quel corpo inscrivendo i
suoi vissuti in quel volto, in quelle mani, in quella voce, in un corpo
che quindi, così facendo, offre alla psyche un’incarnazione. L’intreccio tra psyche e corpo vivo è decisamente inestricabile: il corpo vivo
rimanda, esprime ed è animato dalla psyche; la psyche si esprime, si
incarna, si radica nel corpo vivo. Psyche e corpo vivo non sono realtà
separabili: dovunque il corpo vada, si muova, si sposti esso è porta
con sé ed è accompagnato dalla psyche; anzi, è la psyche ad animare
e rendere possibile qualsiasi movimento o spostamento di un corpo.
Viceversa, la psyche è dov’è il corpo, essa si trova sempre in quel qui
dove si situa il corpo, la psyche infatti è nel corpo, da esso non può
separarsi. Dovremmo concludere dunque che, in virtù di questa inseparabilità e di questo reciproco intrecciarsi, una volta guadagnato il
corpo vivo, nel solipsismo della reversibilità originaria, allora è data
anche la sua psichicità? Bastano dunque le mie sensazioni localizzate,
il mio senso di efficacia causale nel mondo come agente corporeo, i
150
miei mutamenti di orientazione per definirmi “io”, soggettività in
senso pieno? Se così fosse, una volta costituitasi la reciproca somiglianza tra i nostri corpi vivi nell’accoppiamento originario, sarei io
nel corso delle mie empatizzazioni ad attribuire analogicamente il
senso di io-uomo all’altro, cioè a trasferire il mio senso di soggettività, guadagnata solipsisticamente, sull’estraneo che incontro e che ha
un corpo vivo simile al mio. La relazione empatica, perciò, non scalfirebbe in alcun modo la vita autarchica e autosufficiente dell’ego,
fondato unicamente in se stesso. Perciò, tutto si gioca su questa sottile e astrattiva distinzione tra corpo vivo come latore di psichicità
e io-uomo come unità pienamente realizzata di corpo vivo e psyche.
Husserl, in Idee II, mostra infatti come le due caratteristiche peculiari
del corpo vivo che lo intrecciano alla psyche, cioè la localizzazione e
l’espressività, non siano di per sé sufficienti a spiegare la costituzione
nell’ego del senso di io-uomo. A questo scopo propone due tesi distinte le quali però, nonostante l’apparente contrasto, si richiamano
vicendevolmente.
4. Autopercezione e riflessione su di sé: l’essere oggetto-per-me
La prima tesi si concentra su quello strato di sensazioni localizzate
che emergono nella costituzione solipsistica del corpo vivo. Questo
sottofondo psichico è costituito da proprietà che non essendo state il
frutto di un’attività intenzionale dell’io non rientrano nella categoria
dei “dati egologici”, ma sono piuttosto delle pre-datità, cioè degli
elementi che l’io ha trovato in sé senza averli costituiti, di cui è entrato in possesso, per così dire, suo malgrado. Dunque una materia
che è quanto di più originario e primitivo ci possa essere, che ha colpito, affettato e si è inscritta nell’io prima che si costituissero i suoi
stessi apparati intenzionali, non soltanto attivi ma anche passivi, una
dimensione esperienziale (se di esperienza si può già parlare) anteriore alla stessa costituzione dell’io come soggetto dell’intenzionalità.
Ma se a questo livello di proto-esperienza un io intenzionale, che è il
«soggettivo in senso originario e autentico», ancora non c’è, queste
pre-datità possono dirsi soggettive soltanto come essere per il soggetto,
151
cioè in quanto materiale a disposizione dell’io, hyle su cui opererà
il soggetto dell’intenzionalità una volta che si sia costituito. In altre
parole, tutte quelle sensazioni che il corpo vivo scopre e esperisce
nella reversibilità originaria sono dei vissuti unicamente vissuti, cioè
qualcosa che l’io ha, vive, ma di cui non sa nulla, non è cosciente e
dunque non può ancora riconoscere come suoi. Nel loro “essere per
un soggetto” tale compagine rimanda perciò ad un livello di esperienza soggettiva per così dire irriflesso, ad un soggetto non ancora
cosciente di sé e delle sue sensazioni, un io in nuce che non ha ancora
guadagnato se stesso e il suo statuto di soggettività7. È necessario
che si apra la riflessione dell’io su di sé, cioè l’autopercezione, perché il
soggetto, facendosi oggetto, sappia di questa vita irriflessa, identificandosi così come l’unico e identico io a cui fanno riferimento quelle
«multiformi azioni e passioni» vissute (si direbbe, inconsciamente)
e quel «multiforme possesso» che l’io ha senza sapere di averlo. L’iouomo, dunque, non emerge nell’immediatezza della reversibilità originaria, con i suoi correlati di sensazioni, libere cinestesi e azioni
dall’elevato grado di efficacia causale sull’ambiente circostante. Egli,
piuttosto deve “imparare a conoscersi”, come scrive Husserl in un
passo dall’inusuale carica emotiva che potrebbe far parte benissimo
di un qualunque articolo o libro di uno psicoanalista o psicologo
dello sviluppo:
Un uomo non si “conosce”, non “sa” che cos’è; impara a conoscersi. L’esperienza di sé, l’appercezione di sé si amplia costantemente.
L’“imparare a conoscersi” è la stessa cosa dello sviluppo della percezione di sé, della costituzione del “Sé” e quest’ultima si compie unitamente allo sviluppo del soggetto stesso. Ma che dire allora di un
supposto inizio? All’inizio dell’esperienza non c’è ancora un “Sé” costituito, dato, disponibile come un oggetto (HUSSERL 1952a, p. 253).
Sebbene quindi l’io che emerge solipsisticamente dalla reversibilità originaria abbia un patrimonio di psichicità, di vissuti che gli
derivano dal suo “sé corporeo”, è necessario però che attraverso la
riflessione su di sé e sui propri contenuti psichici diventi consapevole
di questo possesso, cioè si attribuisca i propri vissuti in quanto sta152
ti psichici. Soltanto in questo modo infatti il soggetto, diventando
cosciente della propria psichicità, si può costituire come io-uomo,
unità (consapevole) di corpo vivo e psyche.
5. Oggettualizzazione del sé nella relazione empatica: l’essere oggetto-perl’altro
Tutto questo però non è ancora sufficiente per collegare la definizione e scoperta dell’io-uomo alla relazione con l’altro. Occorre perciò
chiedersi: alla soggettività, per costituirsi e svilupparsi, basta la sola
riflessione di sé su di sé, la percezione di sé ancora una volta interna
alla sfera d’esperienza egologica? In questa riflessione, in cui io, oggettualizzandomi, mi conosco ri-conoscendomi, davvero «non rientra nulla della rappresentazione del mio modo di apparire dal punto
di vista di un là, dal punto di vista di un altro (HUSSERL 1952a, p.
251)»? Anche questa, infatti, è una forma di oggettualizzazione del
sé, legata però alla relazione empatica, che Husserl propone accanto
all’autopercezione riflessiva come sorgente del riconoscimento di me
stesso come io-uomo. Accanto o prima? Nell’immedesimazione empatica, io, mettendomi al posto dell’altro, comprendo che quel corpo
che per me è un là, è per l’altro il suo qui e, di converso, che il mio
qui è per lui un là. Grazie a questa realizzazione io riesco a vedermi
dal punto di vista dell’altro, del suo qui, come mi vede lui, dunque
come un là, un oggetto. Sulla base di questa seconda tesi, perciò, è
l’estraneo il primo a oggettivarsi e a essere riconosciuto come io-uomo; l’ego
invece diviene oggetto per se stesso e si attribuisce il carattere di
io-uomo soltanto mediatamente e secondariamente, cioè in quanto
oggetto per l’altro, là per il suo qui8. Ma allora, si chiede Husserl,
mettendo in relazione tra loro queste due diverse forme di oggettualizzazione del sé, quella esterna, che richiede l’altro e l’empatia, e
quella interna ottenuta mediante l’autopercezione riflessiva su di me
«Che cosa viene prima? La formazione dell’appercezione induttiva
del genere personale degli altri oppure del mio? (HUSSERL 1952a,
p. 250, in nota)». In altre parole, siamo sicuri che l’oggettualizzazione interna regga da sola, senza doversi appoggiare o senza dover
153
fare riferimento all’oggettualizzazione esterna? Prima di poter essere
oggetto per me non devo forse percepirmi come oggetto per l’altro? È
qui che si mostra il grande problema dell’autopercezione di sé come
origine prima e autosufficiente della costituzione di me stesso come
io-uomo. L’autopercezione da sola, infatti, non è in grado di spiegare
come avvenga il passaggio dalla vita irriflessa della coscienza alla
riflessione. Come accade infatti che ad un certo punto il mio qui, che
vive nell’irriflessione, diventi un oggetto di riflessione, un tema per
il soggetto, dunque un là per se stesso? Cos’è che dischiude e rende
possibile la conversione riflessiva? L’autopercezione non ci offre una
spiegazione ma ci dice soltanto che questo avviene. E del resto, come
potrebbe farlo? In quanto auto-percezione essa non può che rimanere
circoscritta alla vita egologica e il problema è esattamente questo:
qui emerge chiaramente il fatto che l’ego non basta a se stesso, in
quanto non è possibile rinvenire nella sua sfera privata di esperienza
ciò che apre e rende possibile la sua oggettualizzazione interna. Si
rende perciò necessario “un passaggio all’esterno”, una fuoriuscita
dell’io dalla propria sfera egologica o meglio, come vedremo, l’ingresso dell’altro in questa stessa sfera, l’accoglienza di Altri in me. In
altre parole, io divento un là per me, mi oggettualizzo soltanto quando, immedesimandomi empaticamente con l’altro, scopro di essere
non solo un qui ma anche e insieme un là per l’altro, un là per quel
qui che è a sua volta l’estraneo. Soltanto dopo essermi riconosciuto
come un là per l’altro, e dunque un oggetto per lui, io posso diventare
oggetto per me, un possibile tema di autoriflessione. Ciò significa che
la relazione empatica, l’incontro con l’altro, è il luogo originario non
soltanto della comprensione degli altri come soggettività ma soprattutto di me stesso come io in senso pieno, come ipseità, come unità
inscindibile di corpo vivo e psyche. Husserl sembra intuire e in un
certo senso predelineare questa centralità dell’oggettualizzazione del
mio sé a partire dal punto di vista dell’altro, cioè a partire dal modo
in cui l’altro mi vede, con tutte le conseguenze per la soggettività
che ne derivano; egli però si limita a porre il problema, a segnalare
che una qualche relazione, un gioco reciproco, tra la riflessione di sé su
di sé e il riconoscimento di me stesso come oggetto per l’altro deve
pur esserci, senza tuttavia indagarla ulteriormente9. L’esplicazione di
154
questo legame, quindi, costituirà il contenuto delle prossime pagine
di questo intervento.
6. L’immedesimazione empatica: un processo unitario ma composito
Per capire il nesso che lega l’essere oggetto-per-me all’essere oggettoper-l’altro, cioè la riflessione su di sé all’osservazione di se stessi a partire dal punto di vista dell’altro (che definiremo “rispecchiamento”)
occorre sgomberare il campo da un equivoco fondamentale relativo
all’immedesimazione empatica e a quel “dentro” cui accennavamo
all’inizio. Quando si descrive l’immedesimazione nei termini di appresentazione analogica, cioè di trasposizione appercettiva di senso,
si fa riferimento a un trasferimento del mio qui nel là dove è l’altro.
Si dice cioè: non potendo avere un’esperienza diretta e originale del
vissuto dell’altro, io, avvalendomi degli indizi offerti dal suo corpo,
ad esempio il suo sorriso, e forte dell’analogia tra il mio corpo e il
suo, recupero dentro di me il senso di gioia e lo attribuisco all’altro,
cioè lo trasferisco sul suo corpo, proietto il mio qui nel suo là. Ma
questa proiezione non è che l’esito finale di un processo decisamente
più lungo e laborioso che è scaturito in realtà da un’introiezione, vale
a dire non da un trasferimento del mio qui nel suo là quanto del suo
là nel mio qui. Ciò che mi si dà all’inizio infatti è l’espressione dell’altro, la manifestazione corporea di un vissuto x, a me ignoto. Dato
che questo vissuto non mi è dato “in presenza”, io dovrò lavorare
unicamente su quell’espressione, cioè dovrò chiedermi: “Se io avessi
quel sorriso, se quell’espressione fosse mia, se fossi io a sorridere, se
quel sorriso appartenesse al mio corpo, cosa proverei?”. Queste riformulazioni, lungi dall’essere semplici ripetizioni, vogliono mostrare
la conversione che si compie nell’immedesimazione empatica, nel
“mettersi al posto dell’altro”. Non è che primariamente io mi collochi nel là, dove è l’altro, entri nel suo corpo e così giunga a penetrare
nella sua interiorità che per definizione mi è inaccessibile. Piuttosto,
per comprendere quel vissuto che rifiuta di offrirsi alla mia percezione non posso che affidarmi all’unica cosa che invece si dà “in carne e
ossa” e che esprime, manifesta, incarna quel vissuto stesso: l’espres155
sione corporea, vale a dire quel sorriso, quel gesto di stizza, quell’occhiolino, quell’indicazione colla mano ecc. L’unico modo, perciò, di
intenzionare indirettamente il vissuto che sottende quell’espressione
è, immedesimandomi con l’altro, fare come se la sua espressione fosse
mia, il suo corpo fosse il mio, quel sorriso appartenesse alla mia corporeità. Vale a dire, riprodurre al mio interno quell’espressione, riviverla dentro di me, aprire la mia interiorità all’altro, ospitarvi il suo
sorriso. A quel punto, avendo sperimentato e riprodotto l’espressione
dell’altro dentro di me potrò rifletterci sopra cercando di collegarla
e connetterla con un mio vissuto, ossia con il vissuto che in me corrisponderebbe, mettiamo, al sorridere. Riproduzione e elaborazione
riflessiva, perciò, avvengono al mio interno, nel mio qui e soltanto
alla fine di questi processi, quando avrò recuperato il vissuto corrispondente all’espressione riprodotta, potrò trasferirlo sull’altro, su
quel là a cui dunque verrà attribuita, per esempio, la mia gioia. Una
schematizzazione dell’intero processo può essere la seguente:
sorriso
sorriso
Vissuto/Psiche
asso
c
ana iazion
log e
ica
x
gioia
attribuzione
Alter
Ego
riproduzione
Espressione/Corpo vivo
elaborazione riflessiva
termine
medio
unità di somiglianza
Dunque l’immedesimazione empatica, il “fare come se io fossi
l’altro” è un processo unitario che contiene però in sé differenti operazioni: il primo movimento, la riproduzione dell’espressione dell’altro, va dal fuori al dentro, porta cioè dentro di sé, ospita e riproduce
il sorriso colto nel volto dell’altro. A partire da questa introiezione
dell’altro-in-me si produce la mia oggettualizzazione in quanto là
per l’altro, e sorge anche l’esigenza di procedere a un’elaborazione
della sua espressione che deve essere collegata ad un mio vissuto.
Ecco come nasce quell’associazione tra il suo sorriso e la mia gioia che,
156
non essendo (né potendo essere!) immediata, presuppone l’analogia
tra il mio corpo e quello dell’altro e perciò la somiglianza tra le mie
espressioni e le sue. L’inferenza sottesa a questa associazione può essere riassunta così:
a. Se l’ego e l’altro hanno espressioni simili (tra cui il sorriso, il
pianto, ecc);
b. e se l’ego quando sorride prova gioia;
c. allora, quando sorride, l’altro prova gioia.
Il termine medio di questa inferenza, ciò che permette di associare all’altro un vissuto che è mio, è costituito perciò dalla mia espressione supposta come simile e, più in generale, dal mio corpo vivo che
costituisce un’unità di somiglianza col suo. Ora, questa associazione
ha due conseguenze fondamentali, intrecciate e interconnesse l’una
all’altra. Da una parte essa dà inizio alla riflessione sui miei contenuti
psichici, dato che la semplice riproduzione interna, la simulazione
di quell’espressione non basta: a un sorriso possono corrispondere
diversi vissuti. Ciò mi costringe ad avviare una riflessione su me stesso, a differenziare le varie emozioni che fino a quel momento erano
puramente vissute, agite, sentite, sperimentate irriflessivamente, a
renderle oggetto di auto-percezione, a “dare loro un nome” e a fare
di me stesso un oggetto-per-me. È così che si spiega come sia possibile che quella che abbiamo definito come oggettualizzazione esterna
comporti e dia origine all’oggettualizzazione interna e che dunque io
diventi oggetto-per-me soltanto quando scopro di essere oggetto-per-l’altro. La riflessione su di sé, l’auto-percezione avviene infatti sulla base
del rispecchiamento dei miei vissuti, delle mie emozioni nell’altroin-me, ovvero quando la mia gioia riempie il suo sorriso, il mio vissuto
colma la sua espressione, la mia psyche forma un’unità inscindibile
col suo corpo vivo. In altre parole, è in questa associazione che riconosco, o meglio conosco davvero per la prima volta, la mia gioia, i miei
vissuti e la mia psichicità; quando cioè essi si mostrano, si rendono
visibili nell’espressione dell’altro, si riflettono e si rispecchiano, per
così dire, in quel volto, in quegli occhi, in quel corpo riprodotto in
me. Io apprendo cosa sia la mia gioia quando essa, in questa associazione, riempie il suo sorriso, la sua espressione, quando dunque io la
vedo nei suoi occhi, la vedo rispecchiata e riflessa nel suo volto. Ri157
flessione e rispecchiamento sono interconnessi: nel senso che l’altro,
fungendo per così dire da specchio riflettente, riflette i miei vissuti,
me li restituisce e, così facendo, me li mostra per la prima volta, li
rende visibili, ne fa degli oggetti-per-me. La riflessione scaturisce perciò dal rispecchiamento di me stesso nell’altro, cioè dall’osservazione
di ciò che io sono a partire da quel polo di osservazione interno che
è costituito dall’altro-in-me; io mi vedo nei suoi occhi e attraverso i
suoi occhi, cioè mi vedo come mi vedrebbe lui dal suo qui, dal suo
punto di vista; e così osservo, scopro, conosco per la prima volta,
divento cosciente e consapevole dei miei vissuti che escono quindi
dall’irriflessività del vivere e diventano un mio possesso cosciente.
Ora che è stato chiarito quel gioco reciproco cui fa menzione Husserl in
Idee II tra l’essere oggetto-per-l’altro e l’essere oggetto-per-me, l’intreccio e
l’interdipendenza, cioè tra rispecchiamento a partire dal punto di vista dell’altro e riflessione e percezione di sé, ora, dicevo, apparirà più
comprensibile l’invito husserliano a considerare la psichicità come
un qualcosa che può svilupparsi, portarsi a coscienza e riconoscersi
soltanto all’interno della relazione intersoggettiva, attraverso cioè la
«vita psichica appresentata» dell’altro10. Da tutto ciò emerge come
l’associazione tra il suo sorriso e la mia gioia abbia come prima conseguenza quella di farmi conoscere la mia gioia, rendermi cosciente
della mia psichicità dunque costituirmi davvero e pienamente come
un io-uomo, una soggettività vera e propria. Ma non è tutto. A quel
punto infatti può avere luogo anche l’attribuzione all’altro dell’unità
di senso emersa nell’associazione (l’unità cioè tra espressione/vissuto
espresso, sorriso/gioia), la trasposizione della mia gioia su di lui, il
trasferimento del mio qui nel suo là, il movimento proiettivo dal
dentro al fuori grazie al quale l’altro si costituisce come unità di corpo
vivo e psyche e perciò come io-uomo, soggettività a propria volta.
In realtà, si vede benissimo come sia impossibile stabilire un prius
e un post, una condizione e un condizionato, una causa e un effetto
in questa costituzione; è davvero un gioco reciproco, un co-definirsi
del proprio attraverso il non-proprio e viceversa, un continuo e alternante movimento tra dentro e fuori, interiorità e esteriorità, proprio
e non proprio, somiglianza e differenza, analogia e alterità, introiezione e
proiezione. Questo gioco, simile a un’altalena o un tiro alla fune, spo158
sta e ridefinisce di continuo i confini, alterna momenti di accoglienza
dell’altro in me e di slancio in avanti, in fuori, verso di lui, in un
movimento che è il movimento della relazione e dell’immaginazione
che tale relazione anima e dirige.
7. L’empatia e il lavoro dell’immaginazione
Tutte le operazioni interne al fare come se io fossi l’altro, infatti, hanno
una natura immaginativa: dalla ri-produzione interna dell’espressione
altrui che consiste nella formazione di un immagine interna dell’altro,
una sua figurazione immaginativa (e non potrebbe essere altrimenti
data la natura finzionale dell’immedesimazione), all’associazione tra
l’espressione riprodotta e i miei vissuti che, essendo vincolata alla
possibilità di procedere alla suscitazione e presentificazione del vissuto stesso, cioè al suo recupero, alla sua ri-produzione, ri-petizione
e ri-presentazione, non potrebbe aver luogo senza l’immaginazione,
cioè senza la capacità di «rendere presente ciò che è assente» e dunque
di rendere possibile ogni riattivazione presentificante. Infine, anche
l’attribuzione all’altro dell’unità associativa ottenuta, la proiezione
cioè sull’estraneo della mia gioia, richiede l’attività immaginativa
grazie alla quale soltanto si possono realizzare queste trasposizioni e
questi trasferimenti. Perciò tutti i processi coinvolti nella relazione
empatica sono il risultato dello sforzo e del lavoro dell’immaginazione
che si configura quindi come il vero e proprio fondamento del mettersi
al posto dell’altro. Si tratta di un legame che non è certo una scoperta
della fenomenologia dato che si trova già chiaramente delineato nella
nozione kantiana di senso comune all’interno della Critica della facoltà di
giudizio, che è «l’idea di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione ha riguardo (a priori) nel pensiero al modo rappresentativo di ogni
altro»11. Il senso comune infatti è la capacità nel giudicare di mettersi
al posto di ciascun altro, di tener conto del punto di vista della pluralità degli uomini, sulla base perciò di una specie di empatizzazione
collettiva in cui il singolo, a partire dalla privatezza del proprio sentire, immedesimandosi in tutti gli altri, fa risuonare dentro di sé il
sentire comune ad ogni uomo e accoglie perciò in sé l’umanità stessa.
159
Nel luogo, dunque, più solitario che si possa immaginare, all’interno
cioè dello stato d’animo soggettivo da cui scaturisce ogni giudizio,
pensiero e conoscenza, nell’interiorità dunque del soggetto e nella
privatezza del suo sentire e sentirsi, risuona l’eco di tutta l’umanità.
Il senso comune, infatti, è nel medesimo tempo un sentire privato, in
quanto radicato nella mia interiorità, prodotto cioè dal libero gioco delle mie facoltà conoscitive (intelletto e immaginazione) e un
sentire comunitario12 e intersoggettivo dato che rinvia a quel sostrato
soprasensibile dell’umanità che costituisce il fondamento di ogni essere umano. Di questo sostrato, però, non possiamo avere un’esperienza diretta e piena ma soltanto un presentimento, una percezione
interna, un presagire questa comunanza in un sentire analogico che è
mediato e offerto dal lavoro dell’immaginazione. L’unica manifestazione e traduzione possibile, nel mondo e nel soggetto, dell’idea di
umanità ha dunque la forma di un sentimento, un senso sui generis in
cui dimensione privata e pubblica, interiorità e comunità si incontrano. La fenomenologia husserliana, radicando il sentire egologico
nel corpo vivo, ci insegna che questo fondamento che accomuna gli
uomini facendone dei veri e propri soggetti e che però nel contempo
istituisce la loro reciproca trascendenza, è costituito dalla psichicità
dell’uomo, da quell’interiorità che rifiuta di offrirsi “in carne e ossa”.
Essa non si dà ma si esprime attraverso il corpo vivo, cioè si manifesta
nelle espressioni corporee dell’altro (e degli altri) apprese e riprodotte
dall’immaginazione all’interno della soggettività. L’immaginazione,
quindi, svolge lo stesso ruolo di mediazione tanto in Husserl (che
pure usava spesso l’espressione fantasia) quanto in Kant, in virtù della sua capacità di offrire al soggetto ciò che sfugge ad ogni presentazione e di far risuonare al suo interno l’altro uomo o gli altri uomini
che dunque con i loro punti di vista entrano in gioco nel riflettere,
pensare, giudicare, agire soggettivo. Il nesso molto stretto che, tanto
nella filosofia critica, quanto nella fenomenologia husserliana si istituisce tra l’immaginazione, la riflessione a partire dal punto di vista
degli altri e la soggettività, permette di pensare ad un ego costitutivamente in-relazione-con-gli-altri-uomini, cioè alterato e abitato
nella propria interiorità da Altri. Una teoria dell’empatia, da intendersi in maniera assai ampia come lo studio della struttura stessa
160
delle nostre relazioni, guadagna dunque un ruolo di primo piano nel
contesto delle analisi che concernono la costituzione, lo sviluppo e
l’evoluzione della soggettività umana. È infatti attraverso la relazione
empatica che io imparo a conoscermi progressivamente e gradualmente
a partire da come mi vedono gli altri, o meglio a partire da come “mi
vedo visto”, mi “vedo considerato” dagli altri-in-me, cioè da tutta
quella serie di punti di vista altrui interiorizzati nel corso delle mie
relazioni. Ovviamente, l’altro-in-me non è l’altro in quanto tale, l’altro la cui essenza, la cui psyche, interiorità, i cui pensieri e punti di
vista non mi sono e non mi saranno mai accessibili; quanto piuttosto
l’altro riprodotto al mio interno, l’altro immaginato. La costituzione e
definizione del sé, dell’ipseità, è quindi un processo che si dipana nel
tempo, anzi, che non finisce mai, perché ogni interazione o relazione
significativa comporterà l’aggiunta in me di un’altra voce interna e
dunque la nascita di una nuova rappresentazione di me stesso (con
delle inevitabili ripercussioni e modificazioni degli assetti precedenti
e delle configurazioni preesistenti); ciascuna di queste voci, una volta
datesi e radicatesi al mio interno, diventa parte integrante del mio sé,
costituendo cioè dei poli di osservazione interni che possono essere
modificati ma mai cancellati o completamente neutralizzati. Comunque sia, il nostro sé, dalla sua stessa comparsa e costituzione fino a
tutto il suo lungo processo di sviluppo e maturazione ha sempre a che
fare con questi molteplici altri-in-me, questa pluralità di voci interne
con cui il sé è sempre in relazione dialettica, in un’attività estremamente dinamica volta essenzialmente all’integrazione, coordinazione
e armonizzazione delle differenti versioni di se stesso che ciascuna di
queste voci offre e delinea, in un’unica, o perlomeno sufficientemente
coesa e unitaria, versione di sé.
8. Il sentire dell’empatia: affettività e emozione
Una trattazione del concetto di empatia che si concluda senza far
riferimento alla natura essenzialmente emozionale dei vissuti in gioco e al carattere affettivo della relazione stessa, rischierebbe però di
farci perdere tutta la ricchezza del pathein empatico. L’affettività è il
161
modo in cui il mio corpo vivo, nell’accoppiamento originario, si trova ad aver incontrato il corpo dell’altro. Quel corpo non si annuncia,
non è atteso ma piuttosto si impone, arriva, accade e comparendomi
davanti tutto ad un tratto fa sì che io mi ritrovi d’improvviso affetto, affezionato, colpito intensamente, gettato nella relazione. Questa
affezione si mantiene tuttavia ancora nell’ambito della passività, cioè
di quella sintesi associativa in virtù della quale ego e alter ego si
trovano d’un colpo accoppiati; un’associazione dunque tra corpi vivi,
una relazione intercorporea ma non ancora intersoggettiva. L’evento
dell’incontro col corpo dell’altro suscitando, però, sconvolgimento,
sorpresa, turbamento, sommovimento dell’animo pone le condizioni
perché si generi e venga messa in moto l’emozione, quel flusso di
vissuti interiori che, sempre presente, accompagna silenziosamente
ogni attività psichica e rappresenta, secondo la neurobiologia, l’energia che «dirige, organizza, amplifica e modula l’attività cognitiva, e
a sua volta costituisce l’esperienza e l’espressione di tale attività»13. Le
emozioni, perciò, in quanto flusso energetico, contengono, trasportano, esprimono le informazioni proprie di ciascun vissuto e dunque
sono alla base dell’intera attività mentale, costituendo cioè il “fattore
animante” della psyche e del corpo (animato a propria volta dalla
psyche). Il significato stesso di “emozione” rinvia del resto ad un
sommovimento dell’animo, un turbamento interno che animando l’interiorità del soggetto lo spinge ad uscire fuori sé, qualcosa che scuotendolo fortemente lo s-muove, lo mette in movimento, cioè lo induce
a ex-movere, ad andare al di fuori, a dislocarsi, ad allontanarsi da me.
Un movimento verso il fuori che però non è mai autarchico quanto
piuttosto originatosi sempre in relazione a qualcos’altro, ad un evento
che colpendo il soggetto, affezionandolo per l’appunto, ha provocato
in lui il sommovimento stesso. La doppia valenza passiva e attiva
dell’emozione, la sua capacità cioè di coniugare affezione e spontaneità, di accogliere e ricevere quanto di trasferirsi e dislocarsi, insomma quel movimento oscillante tra il dentro e il fuori, l’interiorità e
l’esteriorità, ecc… dà origine al movimento immaginativo. Quando
incontro il corpo vivo dell’altro, cioè esso mi affetta, mi colpisce, mi
trasmette un’emozione che viene veicolata dalla sua stessa corporeità
il cui carattere fondamentale (assieme alla localizzazione) è difatti
162
l’espressività, ossia la capacità, l’attitudine, potremmo dire anche la
vocazione a manifestare i vissuti psichici, dunque le emozioni, attraverso le espressioni facciali, vocali, gestuali ecc. Ma questa emozione
non è un che di percepibile direttamente e soprattutto di afferrabile
“in carne e ossa”: essa infatti costituisce l’essenza stessa di quella psichicità che è a fondamento della trascendenza assoluta di ciascuna
soggettività originale. L’unico modo in cui si dà, si manifesta è attraverso e nel medium dell’espressione corporea, da cui l’emozione non
è scindibile: il vissuto emotivo, infatti, è completamente fuso con il
corpo vivo che lo veicola. Perciò non c’è modo di scavalcare il corpo,
né ha senso ricercare un “filo diretto” tra le mie emozioni e quelle
dell’altro. Piuttosto, data l’inaccessibilità percettiva dei vissuti emozionali, non c’è altra facoltà che possa procedere alla loro traduzione
all’infuori dell’immaginazione. Traduzione che tuttavia è intraducibile nella sua integralità: l’emozione infatti esprime molto più di
quello che possa venire compreso14. La relazione empatica, perciò, si
configura come una relazione primariamente ed essenzialmente affettiva nel duplice senso dell’affezione originaria da parte del corpo dell’altro che prima di tutto mi emoziona, accadendo senza annunciarsi,
e perciò mi spiazza, mi smuove, mi altera e mi turba; d’altra parte,
provocando in me un sommovimento, questa affettività presenta anche un lato attivo, cioè mette in moto una serie di processi immaginativi che animano la mia interiorità, risvegliano le mie emozioni, le
portano a coscienza e, vivificando il mio animo, generano vita mentale in tutte le sue forme: sensazioni, passioni, sentimenti, pensieri
ecc. Dunque, la soggettività impara a conoscersi e a riconoscersi e
gradualmente si struttura attraverso il lavoro dell’immaginazione
che è, essenzialmente, riflessione sui suoi vissuti psichici e dunque
sul flusso emozionale che li definisce. Per questo si potrebbe dire che
l’attività fondamentale di una psyche, il compito in cui essa si trova
perennemente impegnata, è ciò che la psicoanalisi definisce “regolazione affettiva” o “modulazione delle emozioni”, ossia quella regolazione dei flussi di energia e informazioni all’interno del cervello
che ha conseguenze determinanti per il futuro della psyche stessa15.
L’essenza delle emozioni, infatti, consiste nel creare collegamenti e
connessioni interne ed è proprio in virtù di questa loro natura rela163
zionale e relazionante che la regolazione affettiva, cioè la modulazione del flusso emozionale, si rivela come il vero e proprio motore di
tutti i processi di integrazione e organizzazione della mente e dunque la linfa vitale dello sviluppo e della crescita del sé. Sostenere che
le emozioni hanno una natura relazionale non significa però soltanto
che esse, nella loro attività, producono collegamenti e connessioni
interne ma anche e soprattutto che sono sempre in collegamento e
connessione con altro, cioè sono messe in moto, animate, risvegliate
da altro e da Altri. Perciò, tutto l’insieme di quegli Altri che nel corso di una vita incontriamo nel mondo e poi continuiamo a incontrare
al nostro interno, come Altri-in-me, “sommuovendoci”, animano la
nostra interiorità, cioè mettono in moto le nostre emozioni che a loro
volta costituiscono il “fattore animante” della nostra vita psichica.
L’interiorità, nonostante la sua assoluta privatezza, è dunque il luogo
più affollato che ci sia, una piazza animata da un’umanità composita,
variegata e multiforme di altri-in-me e di sé-per-gli-altri, cioè di sé
riflessi e rispecchiati dagli altri-in-me, rappresentazioni del sé dal
punto di vista, dall’angolatura, dal polo di osservazione, dal “come
mi vedrebbero”, dal come io vengo visto e dunque risulto essere agli
occhi di tutti quegli altri-in-me e perciò di tutta quell’umanità che,
accolta nella mia interiorità nel corso delle mie relazioni, l’ha alterata
e ha alterato, costituito, modificato, definito e aperto il mio sé a tante
e corrispondenti possibilità di vita. Empatia perciò non è soltanto
la capacità e l’esperienza del pensare dal punto di vista dell’altro ma
anche e soprattutto del pensarsi a partire dal punto di vista di tutti
gli altri che, incontrati nelle nostre relazioni, hanno preso ad avere
un significato, in primis emotivo, nella nostra vita. Ma pensarsi differentemente, pensarsi in un altro modo significa anche aprirsi a delle
nuove possibilità non solo di pensiero ma propriamente di esistenza,
la nostra esistenza e dunque costituisce il primo passo per cambiarla
davvero. L’accoglienza nella mia interiorità dell’altro uomo e del suo
punto di vista, del suo modo di vedere il mondo e di vedere anche me
stesso (l’ospitante), fa sì che il guardarsi dentro, il riflettere su se stessi, l’operazione cioè che da sempre mi restituisce me stesso e la mia
identità, significhi ora qualcosa di più, voglia dire cioè incontrarsi e
confrontarsi con l’altro-da-me, gli altri-da-me, l’umanità stessa.
164
Postilla
Vorrei concludere riportando alcuni brani di un’intervista che,
il 12 novembre 2006, ho avuto il piacere di ascoltare durante una
puntata del programma serale di Fabio Fazio “Che tempo che fa?”.
L’intervistato era un famoso scrittore israeliano, David Grossman,
impegnato da anni a dare il suo contributo alla costruzione della pace
in Medio Oriente. Credo che la sua testimonianza di vita mostri nell’effettività del vivere stesso l’importanza per l’io, il soggetto, l’uomo di ciò che in queste pagine è stato chiamato “immedesimazione
empatica”.
Io non sono un giornalista, se dipendesse da me mi chiuderei a casa
a scrivere solo romanzi ma la realtà che mi circonda supera ogni immaginazione, penetra nei recessi più profondi della mia anima e talvolta
scrivere un articolo è per me il solo modo di capire, di interpretare,
di sopravvivere al quotidiano.
Interrogato da Fazio in merito a queste parole tratte da uno dei
suoi libri, Grossman risponde: «Lei mi chiede se la realtà esterna non
interferisca con la realtà del nostro essere più intimo, beh, l’unico
modo per sopravvivere a questa realtà esterna è quello di scrivere perché è facilissimo restringere troppo la propria anima, la propria visione ed
essere soggiogati dalla realtà esterna. Ebbene, quando io scrivo lì mi
sembra davvero di respirare a pieni polmoni senza parafrasare ciò che
dice l’esercito o i media… sono me stesso». «Quindi» dice allora Fazio
«paradossalmente si ottiene l’apertura al resto del mondo proteggendosi in un
bolla e guardando poco fuori ma guardando all’interno?». E Grossman:
«Io credo davvero che se uno si guardi dentro, davvero si possa trovare tutta
l’umanità». Infatti, fare lo scrittore significa poter «essere chiunque e in
qualunque posto» perché «se scrivo di un bimbo divento un bimbo, se
scrivo di una donna divento una donna. Sa, noi praticamente quasi
non ci conosciamo reciprocamente, siamo così protetti dall’interiorità di un
altro essere umano… allora, quando scrivo, questo movimento è completamente contraddittorio, cioè voglio davvero conoscere l’altro, voglio davvero capire cosa significa essere un altro essere umano, voglio
165
essere esposto completamente all’interiorità, non c’è nessun altro modo
che io conosca che mi permette davvero di entrare dentro la pelle non
solo metaforicamente di un altro essere umano». Ma questo movimento
empatico, attraverso il quale lo scrittore Grossman accoglie al suo
interno altri esseri umani, si rivela vitale anche per l’uomo Grossman
da sempre immerso in un mondo dominato dalla guerra, dalla violenza e dalla paura. Un mondo in cui si finisce per pensare «di essere
costretti da una specie di decreto divino di vivere in questa realtà
orribile» e che «sia l’unica vita quella di vivere sotto la minaccia
della spada e morire a causa della spada». Così, dimentichi dell’esistenza stessa di alternative (di cui non ci si ricorda più!), si diventa
“vittime” perché «se tu non credi nella possibilità di cambiare la tua
realtà allora tu sei vittima di questa realtà». Il vero pericolo, dunque
«è non più chi occuperà chi, ma piuttosto il fatto che stiamo davvero
rinunciando piano piano, scemando in una qualità della vita che non ci
appartiene più in tutte le dimensioni, [una vita che] è stata proprio
rubata dalla paura e [in cui] tutto davvero si restringe, la mente, l’anima,
il cervello».
1
2
L’eco levinasiana di questa frase non passerà certo inosservata. Mi riferisco a Totalità e Infinito dove Levinas scrive: «Andare incontro ad Altri nel discorso significa
accogliere la sua espressione nella quale egli va continuamente al di là dell’idea
che un pensiero potrebbe portarne con sé. Significa dunque ricevere da Altri al di
là delle capacità dell’Io; ciò che significa esattamente: avere l’idea dell’infinito»
(LEVINAS 1961, p. 49). Al di là delle incolmabili differenze di prospettive, non
c’è dubbio che lo psichismo e l’altro-in-me di Levinas costituiscano per questo
lavoro un polo dialettico primario, un interlocutore privilegiato soprattutto per
ciò che riguarda l’appello a non dimenticare, quando si parli di qualunque forma
di relazione con l’altro, l’importanza della sua assoluta trascendenza e irriducibile alterità.
In relazione alle capacità di apprendimento del neonato pre-natali, mi sembra
significativo riportare l’esito di un curioso esperimento compiuto da De Casper
e Spence (1986) su alcune donne all’ultimo trimestre di gravidanza: «Le donne
leggevano ad alta voce al loro bambino una storia del Dottor Seuss, Il gatto nel
cappello, per quindici ore complessive di lettura. Alla nascita i bambini mostravano di preferire l’audiocassetta in cui la madre leggeva la storia che avevano
ascoltato nell’utero alla registrazione di un’altra storia del Dottor Seuss, Il re, i
166
3
4
5
topi e gli uomini. I neonati esposti alla voce della madre nel corso della gravidanza, alla nascita sono in grado di distinguere anche piccole differenze nel ritmo,
nell’intonazione, nella frequenza e nelle componenti fonetiche del linguaggio»
tratto da B. Beebe, F. M. Lachmann, Infant Research e trattamento degli adulti,
Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 62.
P. Fonagy, G. Gergely, E. L. Jurist, M. Target, Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.
E infatti, quando nel § 55 delle Meditazioni Husserl si chiede: «Tutte e due le
sfere primordinali, la mia cioè, che per me come ego è la sfera originale, e la
sua, che mi è data come appresentazione, non sono forse separate da un abisso che io non posso superare, poiché ciò significherebbe che io dovrei ottenere
un’esperienza originale e non un’appresentazione dell’altro come tale?» (HUSSERL 1950a, p. 140); offre poi la seguente risposta: «Tuttavia, l’enigma sorge
solo quando ambedue le sfere originali vengono tenute distinte; invece questa
distinzione presuppone che l’esperienza dell’estraneo abbia già fatto l’opera sua.
Poiché non è qui in questione la genesi temporale di quella specie di esperienza
che si fonda su di un’anteriore esperienza di sé, la soluzione non ci può esser data
che da un’esatta esplicazione dell’intenzionalità effettivamente ravvisabile nell’esperienza dell’estraneo e dalla dimostrazione delle motivazioni essenzialmente
implicite nell’intenzionalità» (HUSSERL 1950a, pp. 140-141).
Mi limito a segnalare qui alcuni importanti studi neurobiologici che suggeriscono come non basti il semplice movimento corporeo, in qualità di indice di
animazione psichica, a fondare la somiglianza del mio corpo col corpo dell’altro,
ma sia necessaria la percezione di un atto motorio finalizzato ad uno scopo, cioè
la percezione di una certa intenzionalità sottesa ai comportamenti altrui. Si tratta dei cosiddetti neuroni-specchio, scoperti nel corso degli anni ’90 da un gruppo
di ricercatori italiani e rinvenuti inizialmente nelle scimmie e in seguito anche
negli esseri umani (vedi G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2006). L’eccezionalità di questi neuroni consiste nel
fatto che la loro attivazione ha luogo non soltanto quando un individuo compie
una determinata azione, cioè un movimento finalizzato ad uno scopo, ma anche,
e sorprendentemente, quando a compiere quell’azione è un’altra persona. Dunque, la semplice osservazione di un’azione (dal carattere intenzionale) compiuta
da altri, la sua semplice percezione, produce automaticamente e inevitabilmente
una simulazione interna di quella stessa azione, in virtù della quale il comportamento dell’altro e l’intenzione che lo muove divengono immediatamente
comprensibili per l’osservatore. Cosa implica tutto questo per l’empatia? Appare
ormai certo che il meccanismo simulatorio “specchio” sia alla base dei processi
empatici più originari e primitivi ma, d’altro canto, tale simulazione, avendo
una natura passiva, automatica e pre-riflessiva, sembrerebbe più adatta a descrivere i processi caratteristici dell’accoppiamento originario, cioè a spiegare l’istituzione dell’unità di somiglianza tra il mio corpo e il corpo dell’altro, che non a
risolvere o ricomprendere in sé l’intero spettro dei fenomeni empatici.
167
Husserl in Idee II definisce la psyche «il fattore animante» del corpo vivo e
connette questa proprietà alla datità intersoggettiva di quel corpo: «Per essere
obiettivamente esperibile, lo spirito deve essere il fattore animante di un corpo
vivo obiettivo (ma non necessariamente, a priori, di un corpo vivo materiale)»
(Husserl 1952a, p. 100).
7
Husserl descrive così questa vita irriflessa: «L’io che si costituisce nella riflessione
rimanda a un altro io: originariamente io non sono propriamente un’unità derivante dall’esperienza associativa e attiva […] Io sono il soggetto della mia vita e
vivendo il soggetto si sviluppa: primariamente esso non esperisce se stesso, bensì
costituisce oggetti naturali, cose di valore, strumenti, ecc […] L’io non è originariamente, in virtù dell’esperienza – nel senso di un’appercezione associativa in
cui si costituiscono le molteplicità del suo contesto, bensì in virtù della vita (è
quello che è, non per l’io, bensì: è l’io)» (HUSSERL 1952a, p. 253).
8
L’argomentazione prende le mosse dall’unità di espressione corporea/vissuto
espresso che emerge nelle appresentazioni empatiche e fonda il riconoscimento
nell’altro dell’unità inscindibile di corpo vivo e psyche, cioè l’attribuzione all’altro prima che a me del senso di io-uomo. Solo in seguito, in virtù dell’analogia
tra noi, tale unità può essere trasposta sull’io. In Idee II si legge: «Per quanto
riguarda me stesso, a un’apprensione dell’uomo (in senso spirituale), pervengo
attraverso la comprensione degli altri […] Appunto così io li comprendo come
uomini che mi apprendono in modo analogo a quello in cui io li apprendo, come
uomo sociale, come unità di comprensione di corpo vivo e spirito. In ciò sta
un’identificazione tra l’io che io trovo attraverso l’inspectio diretta (l’io che io ho
di fronte al mio corpo vivo) e l’io che io sono nelle rappresentazioni che gli altri
hanno di me, ecc.» (HUSSERL 1952a, pp. 243-244).
9
La conclusione a cui arriva Husserl credo sia contenuta in questa nota: «Un segmento di appercezione induttiva concernente me stesso deriva dall’esperienza
degli altri in quanto somatologici. Bisogna quindi considerare seriamente in che
modo l’io svolga un suo ruolo di polo e in che modo si costituisca un “potere”
ben definito […] Gioco reciproco dell’osservazione di altri e di autosservazione,
poi progressivo ampliamento dell’appercezione induttiva» (HUSSERL 1952a, p.
251, in nota). Husserl ammette che l’autosservazione di sé e l’osservazione della
vita psichica appresentata dell’altro, da cui discende la mia oggettualizzazione a
partire dal suo qui, sono in un gioco reciproco tale che un segmento dell’appercezione che io ho di me stesso derivi dall’esperienza dell’altro e dunque coinvolga
l’empatia.
10
Il riferimento è a un passo di Idee II in cui Husserl afferma: «Ma nell’atteggiamento dell’“esperienza di sé”, non potrebbe venirmi in mente di far seriamente
rientrare, di “introiettare” nel mio corpo vivo tutta la mia psichicità, il mio
io, i miei atti, le mie apparizioni e i loro dati sensoriali, ecc. E così non si può
neppure lontanamente parlare del fatto che nell’autoesperienza solipsistica io
ritrovi come una realtà tutto ciò che di me è soggettivo insieme col mio corpo
vivo dato percettivamente, nella forma di una percezione, sebbene il mio corpo
6
168
vivo costituisca per molti versi un’unità con la mia soggettività. Soltanto con
l’entropatia, col costante dirigersi delle osservazioni dell’esperienza verso la vita
psichica appresentata insieme col corpo vivo estraneo, e sempre presa obiettivamente insieme col corpo vivo, si costituisce la conchiusa unità uomo, un’unità
che poi io traspongo su me stesso» (HUSSERL 1952a, p. 169).
11
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, p. 130.
12
Il riferimento qui è ad H. Arendt, Teoria del giudizio politico, Il Nuovo Melangolo,
Genova 2005.
13
Dodge (1991) da D. J. Siegel, La mente relazionale, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2001, p. 123 (corsivo mio).
14
La rappresentazione immaginativa che tenta questa traduzione avrà perciò un
carattere molto simile a quello delle idee estetiche kantiane, così come sono definite nella Critica della facoltà di giudizio (I. Kant, op. cit., pag. 149).
15
Per un approfondimento della questione rimando alla già citata opera di Siegel,
La mente relazionale.
169
EPOCHÉ
di Giorgia Bordoni
1. L’epoché tra innovazione e tradizione
La condizione necessaria e preliminare perché la fenomenologia
possa sorgere è un particolare gesto metodologico che le permette di
divergere dai precedenti atteggiamenti di pensiero, e di tradurre in
atto la sua esigenza di costituirsi come filosofia radicale. Questo gesto
dovrebbe consentire di riformulare le leggi del conoscere a partire da
un fondamento assoluto di senso, una sfera interna di coscienza ove
le cose esterne vengono a darsi in una intuizione evidente. Si tratta
di un movimento di sospensione, di una manovra tesa a guadagnare
un campo inedito di indagine, una sfera originaria di evidenze nella quale si scoprono le condizioni trascendentali del senso. Questa
manovra è l’epoché o riduzione fenomenologica. È l’istante in cui si
concentra, e da cui scaturisce, quella rivoluzionaria presa di posizione nei confronti della filosofia tradizionale e che impone al «filosofo
principiante» un ricominciamento su basi rigorose.
Epoché è un termine di origine greca che designa una interruzione,
una cessazione, una fermata. Husserl la presenta come quel lavoro
ineludibile, inaggirabile, che segna la possibilità stessa di una scienza realmente descrittiva in grado di circoscrivere il terreno sul quale
170
muovere le proprie analisi. La riduzione fenomenologica, nelle fasi
graduali nelle quali realizza interamente il suo compito, provvede
a interrompere, a «metter fuori gioco», a «mettere tra parentesi»
(HUSSERL 1950c) tutte le abitualità del conoscere (il già dato, il “fuori” del mondo obiettivo rispetto al soggetto conoscente, la trascendenza), a sospendere la validità delle sedimentazioni della tradizione
che hanno fondato l’obiettività in modo ingenuo fin nei suoi presupposti genetici. Husserl muove alla volta della confutazione di questi
pregiudizi, delle superstizioni che ostacolano la nascita di una gnoseologia universale e radicale: una “messa fuori causa” progressiva.
L’epoché non è però un annientamento, che azzera o distrugge, bensì
la temporanea applicazione di un “indice di nullità” che traduce la
profonda aspirazione della fenomenologia: la volontà di mirare, aldi-qua delle “superstizioni del fatto”, ad una zona di conoscenze di
assoluta e indubitabile evidenza. Fine dell’epoché è quel rovesciamento che approda alla vita di coscienza di un soggetto trascendentale
che non è più un “pezzo di mondo” (nemmeno come psyche), ma un
ego costituito dai suoi vissuti (Erlebnisse) nel quale, e al quale, le cose
del mondo, ridotte a fenomeni di coscienza, si offrono come modificazioni dell’intenzionalità: il mondo delle ovvietà è così reso fenomeno del «polo fungente apodittico della costituzione del senso» (l’ego),
dal quale esso riceve la sua legittimità e il suo valore.
Certo, la fenomenologia guadagna il proprio principio “dalla” e
“nella” storia della filosofia, soprattutto moderna; e ciò proprio in
virtù del lavoro di quell’epoché già precedentemente tentato da Cartesio, che tuttavia non aveva ancora raggiunto quel radicalismo che
invece troviamo in Husserl. L’epoché segna così al tempo stesso, nel
movimento fenomenologico, un’interruzione e un ripresa della tradizione; possiamo dire: la storia della sua preparazione. Con questa
espressione intendo il lento dispiegamento della fenomenologia stessa (o, per meglio dire, della sua urgenza in seno ad una crisi interna
alle scienze), che la liberi come vera filosofia universale, originantesi
nella struttura essenziale della soggettività trascendentale. Il testo
a cui farò prevalentemente riferimento è l’ultima opera pubblicata
da Husserl: La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale
(1935-37).
171
In quest’opera Husserl affronta la questione della «necessità storica» della riduzione. Il sapere ereditato dalla tradizione filosofica
emerge proprio nel punto in cui l’impasse delle scienze positive raggiunge il livello estremo, quello della crisi dell’umanità europea.
Una situazione che può essere superata solo con il gesto risolutivo
e definitivo di un filosofo che si «ritragga in se stesso» e «distrugga
tutte le scienze ritenute fino ad ora valide per poi ricostruirle». Lo
strumento di questo «pensatore delle origini ultime del senso» è
l’epoché, che ribalta, mettendole in questione, le radici stesse di quel
fraintendimento di senso che si è depositato sulle scienze. Si è manifestata una perdita dell’«inizio teleologico» con cui si era aperta la
filosofia greca, quale pensiero inteso come ricerca della ragione universale. L’epoché sarà allora il punto d’arrivo di un’«insita teleologia
nel divenire della filosofia» (HUSSERL 1954, p. 99).
2. Piccola storia pre-fenomenologica dell’epoché
Come atto d’esordio della fenomenologia, l’epoché, almeno nella
Krisis, si rivela come il termine di un lungo processo storico lungo il
quale l’esigenza di una filosofia radicale finisce per imporsi. Fra tutte
le trattazioni, nelle quali Husserl percorre i sostanziali compiti del
fenomenologo e le modalità in cui la fenomenologia si muove, questo
suo ultimo e incompiuto lavoro è forse quello in cui più chiaramente
è assegnato all’epoché un posto peculiare nello sviluppo del pensiero.
Essa determina il punto culminante di un susseguirsi di speculazioni
che l’hanno preparata gradualmente pur non “centrandola” mai. Il
nuovo rigore, che Husserl impone nell’approccio ai fenomeni della
coscienza, sorge da un’emergenza e da un compito, � da un “dovere”,
cui metodologie come quelle di Cartesio e di Kant non erano riuscite
ad adempiere.
Già in un testo programmatico del 1911, La filosofia come scienza
rigorosa, Husserl aveva denunciato la crisi dell’umanità del suo tempo nei termini di una «indigenza spirituale» generata dalla scienza e
che solo la scienza stessa poteva obliterare.
172
L’indigenza spirituale del nostro tempo è diventata in effetti insostenibile. Fosse soltanto la mancanza di chiarezza teoretica sul senso della realtà ricercata nelle scienze della natura e dello spirito a
turbare la nostra tranquillità […]. In realtà noi soffriamo della più
radicale necessità di vivere, una necessità che non si arresta in nessun
punto della nostra vita […]. Ma soltanto la scienza può superare in
modo definitivo l’indigenza che da lei proviene […]. Una scienza
radicale, che proceda dal basso poggiando su fondamenta sicure e
seguendo il metodo più rigoroso, vale a dire la fenomenologia (HUSSERL 1987, pp. 97-102).
La lotta fra le differenti visioni del mondo (Weltanschauungen) rendeva cieche le scienze positive a quell’esigenza di una rifondazione
che pure, come tale, si faceva strada al loro interno; le impostazioni
di matrice storicista e naturalista sulla conoscenza dovevano essere
depurate dall’infondatezza dei loro pregiudizi e ricostruite su di un
fondamento (Grund) inedito. L’appello per una rifondazione puntava lo sguardo su quella stessa crisi dello spirito europeo intorno a
cui Husserl lavorerà ancora soprattutto nell’opera del 1935. Il vero
filosofo si pone al principio del senso, vuole ricominciare daccapo
risalendo, attraverso l’epoché, a una zona che preceda ontologicamente
il senso e lo ricostituisca. Ci si intenda su questo punto: con l’espressione «filosofo principiante» qui non ci si richiama ad una presunta
inesperienza del ricercatore o alla grossolanità della suo procedere
speculativo, ma a un’«essenziale solitudine» e a un’«auto-riduzione»
che il pensatore deve operare innanzitutto su se stesso. Solo in tal
modo allora gli sarà possibile accedere a quella zona d’assoluta scaturigine dell’essere, come Husserl ricordava nell’introduzione alle sue
Meditazioni cartesiane (1929).
Ogni filosofo principiante conosce il meraviglioso processo di pensiero contenuto nelle Meditazioni […]. Quest’idea mira ad una completa riforma della filosofia per farne una scienza con fondamento
assoluto, il che implica, per Cartesio, una riforma corrispondente in
tutte le scienze. Infatti queste non sono altro per lui che membra inseparabili della scienza universale, la filosofia […]. Ma alle scienze,
così come si sono storicamente formate, manca una tale autenticità,
173
quella della fondazione totale e ultima su intuizioni (Einsichten) assolute, al di là delle quali non è possibile risalire […]. In primo luogo
chiunque voglia diventare seriamente filosofo, deve, una volta nella
sua vita, ritrarsi in se stesso e cercare dentro di se di distruggere tutte
le scienze ritenute fino all’ora valide e di ricostruirle […]. Da che
io ho deciso di vivere nel raggiungimento di questo fine, decisione
che sola mi può portare al divenire filosofico, ho scelto con ciò stesso
di iniziare dalla assoluta povertà di conoscenze (HUSSERL 1950a, pp.
37-38).
La riduzione fenomenologica è una “questione personale” del filosofo, un scelta di vita che anela a un radicalismo profondo, in direzione del suolo originario delle essenze. Ma quali sono i passaggi che
hanno condotto alla nascita della fenomenologia? E come si muove
l’epoché nella sua astensione dal saputo? Cosa resta dal gesto di questa
sospensione?
A partire dalla filosofia moderna Husserl ravvisa l’inarrestabile
travisamento che le scienze positive hanno fatto subire all’idea greca
della filosofia come ragione universale. Ciò ha causato la conseguente
capitolazione dei problemi ultimi e supremi della metafisica proprio
ad opera dello stesso metodo che avrebbe dovuto conferire scientificità al sapere. Alle scienze positive resta nascosto il loro fondamento,
esse perdono di vista il senso della filosofia «in quanto movimento
storico della rivelazione della ragione universale, innata come tale
nell’umanità». La fenomenologia raccoglie questa «ragione» sul limite estremo del suo occultamento. Il fenomenologo, infatti, dovrà
assumersi la responsabilità di diventare un «funzionario dell’umanità» e di rispondere all’onere etico di una rifondazione della filosofia
e di una ricomprensione del suo compito proprio nei termini di una
missione, di un ideale da raggiungere.
Le scienze moderne cominciarono a franare, secondo Husserl, a
partire dalla rivoluzione scientifica di Galileo, che già accarezzava
l’idea di una philosophia perennis, di una scienza universale inconfutabile. Galileo inaugurava la speculazione moderna inquadrando la natura in una struttura di funzionamento a carattere causale: un mondo
di corpi circoscritto ove vigeva la concatenazione conchiusa di causaeffetto in cui ogni avvenimento poteva essere determinato in sede
174
preliminare dallo scienziato. Questa concezione di una natura scientificamente razionale aprì l’epoca del pensiero moderno iscrivendolo
nella volontà direttrice di costruire una scienza universale. Galileo
dava nuove coordinate al mondo, lo rendeva valido in sé e per sé.
Con Cartesio questa impostazione si definì nel senso di un razionalismo dualistico. C’era un mondo esterno, una concrezione obiettiva di corpi in sé reale, una causalità conoscibile col metodo scientifico, esistenza dalla quale era impossibile prescindere. E poi, al fianco
di questo mondo, Cartesio ne considerava uno più interno: la natura
psichica, lo spazio intimo del soggetto, un modo d’essere che dal
mondo si separa. L’una di fronte all’altra sussistevano due istanze: la
res cogitans (la cosa pensante) e la res extensa (il mondo esterno-esteso pensato). Il dualismo cartesiano costituisce al tempo stesso una
svolta rispetto al passato e il pungolo dal quale si dipanerà il duello
peculiare dello spirito filosofico moderno: quello tra i due atteggiamenti dell’obiettivismo da una parte e del trascendentalismo dall’altra. Uno scontro, questo, che prelude alla trasformazione dell’obiettivismo fisicalistico nel soggettivismo trascendentale: da Cartesio a
Kant. Husserl considera questi due pensatori come i rappresentanti
dei due grandi rivolgimenti storici che prepararono l’epoché nel suo
stadio embrionale, nell’attesa che questa venisse a far ricominciare il
processo conoscitivo su nuove basi. Se, difatti, la finalità dell’obiettivismo riguardava il perseguimento della verità obiettiva di un mondo ovvio, razionale e valido senza condizioni, il trascendentalismo,
invece, porrà come primus della costituzione, fondamento della stessa
obiettività del mondo, la soggettività; lungi dal restare un’esteriorità
data e non bisognosa di giustificazione razionale, la mondanità dovrà
allora veder sorgere il suo senso d’essere e la sua validità dalla sfera
interna delle formazioni di un soggetto.
Cartesio, proprio a causa del suo dualismo, è dunque il precursore
della lotta secolare fra i due orientamenti e, al tempo stesso, la prima voce a riconoscere l’esigenza di fondare la validità delle ovvietà
scientifiche. Nelle sue Meditazioni metafisiche sottolinea come le conoscenze obiettive non siano in grado di esibire una legittimità fondata
su basi apodittiche e fuor di dubbio. Il razionalismo cartesiano mette
in atto una “primitiva” epoché che opera su tutte le verità delle scienze
175
tramandate e pone il problema stesso della validità o meno delle loro
acquisizioni. L’epoché scettica di matrice cartesiana impone in definitiva l’astensione dal giudizio sull’esistenza del mondo stesso. Ciò che
resta dall’operazione riduttiva di Cartesio è la sfera a partire dalla
quale era stata operata l’epoché: il mio ego che lavora in tutt’uno col
dubbio, che critica e che sospende. Il cogito è l’evidenza immediata,
la necessità che resta immune dal processo metodologico del dubbio.
L’ego di Cartesio, che resta intatto nella sua evidenza, è il terreno ove
il mondo (cogitatum) viene esperito in apparizioni (cogitationes). Pronunciandosi sul lavoro di Cartesio, Husserl afferma:
La sola cosa che il meditante mantiene come esistente in modo indubitabile, tale che non potrebbe essere cancellato anche se il mondo
non esistesse, è se medesimo come ego puro delle sue cogitationes.
L’ego così “ridotto” compie ora una specie di processo filosofico solipsistico. Esso cerca apoditticamente una via sicura per la quale nella
sua pura interiorità possa includersi un’esteriorità oggettiva […].
Tutti i ragionamenti vengono condotti, come debbono, in base a
principi che sono immanenti al puro ego, che gli sono innati (HUSSERL 1950a, p. 39).
Tuttavia nel radicalismo di Cartesio si annidava un errore sostanziale e precisamente nel modo di “intendere” il cogito: una «mens sive
animus sive intellectus».
È questo purtroppo quel che capita a Cartesio in quella svolta del suo
pensiero che potrebbe sembrare insignificante ma è piena di insidie
e che fa dell’ego la substantia cogitans, la mens sive animus separata,
punto di partenza di ragionamenti di ordine causale: la svolta, per
dirla in breve, per la quale egli è divenuto il padre di quel controsenso che è il realismo trascendentale (HUSSERL 1950a, p.57).
La falsa profondità della riduzione cartesiana consisteva, per Husserl, nella persistenza della nozione di sostanza (res) nell’idea di ego:
da quella rudimentale epoché affiorava una “cosa pensante”. Cartesio
si limitava a scoprire una cosa-io, una sfera di immanenza psichica
ben lontana dall’immanenza egologica di Husserl. Questi farà della
176
sua coscienza trascendentale il «punto d’Archimede» per l’esordio di
un autentico pensare. Il «realismo trascendentale» di Cartesio, che
è in realtà un «obiettivismo fondato soggettivamente», in nulla ha
scalfito l’oggettività del mondo che sta davanti al cogito, a un ego che,
sebbene demondanizzato dall’epoché, resta ancora un pezzo di mondo,
e non ne può costituire il fondamento. La tendenza di questo ego verso
il suo correlato oggettuale si muoveva, sì, verso un’obiettività a partire dall’ego indubitabile, ma in un movimento che usciva fuori dall’ego
stesso; in qualche modo elaborava il mondo più che costituirlo.
Un secondo grande rivolgimento segnalato da Husserl fa capo a
Kant. Figlio di quell’indirizzo filosofico, che da Cartesio si mosse
attraverso Malebranche, Spinoza e Leibniz, questi ne spezzò la continuità in un risveglio veicolato dallo studio di Hume. Kant prese atto
della demolizione che l’empirismo inglese aveva operato sull’obiettivismo fisicalistico cartesiano, ma si mantenne poi ugualmente distante
sia dal razionalismo che dall’empirismo, generando la nuova figura
del soggettivismo trascendentale. In Kant «la scienza obiettiva si
distingue dalla sua teoria filosofica», che si svolge esclusivamente nel
soggetto. Sorge così un io-stesso che si muove concretamente verso
il grado di radicalità necessario alle possibilità del conoscere, allo
spazio delle strutture di una soggettività che presieda alla conoscenza
apodittica, razionale e universale.
Se la scienza naturale si era proposta come un ramo della filosofia,
della scienza ultima dell’essere, e se con la sua razionalità aveva creduto di poter conoscere, al di là della soggettività delle facoltà conoscitive, l’essente in sé, ora, per Kant, la scienza obiettiva, in quanto
operazione che permane nella soggettività, si distingue dalla sua teoria filosofica, la quale in quanto teoria di una operazione che si svolge
necessariamente nella soggettività, e perciò in quanto teoria della
possibilità e della portata della conoscenza, esplicita l’ingenuità della presunta filosofia razionale della natura-in-sé […]. Kant, reagendo al
positivismo di Hume – così come egli lo intende – abbozza una grande filosofia sistematica, scientifica in un modo nuovo, in cui il ritorno
cartesiano alla soggettività della coscienza si ripresenta nella forma
di un soggettivismo trascendentale (HUSSERL 1954, p. 123).
177
La filosofia trascendentale comincia ad auto-comprendersi dopo
Cartesio attorno alla vita di una soggettività che diventa sempre più
concretamente costitutiva di esteriorità. Husserl realizzerà un soggettivismo trascendentale radicale, forgiando una sfera di coscienza
completamente depurata da ogni residuo psicologistico, «soggettività
conoscitiva quale sede originaria di ogni formazione obiettiva di senso e di
validità d’essere».
Anche se dovessi riuscire […] a suscitare con la trattazione che segue
la convinzione che una filosofia trascendentale è tanto più autentica
quanto più essa adempie alla sua vocazione di filosofia, quanto più
è radicale, e che essa giunge infine a un’esistenza vera e reale, al suo
inizio reale e vero, soltanto quando il filosofo è riuscito a raggiungere una chiara comprensione di sé in quanto soggettività originariamente
e sorgivamente fungente, dobbiamo tuttavia riconoscere d’altra parte
che la filosofia di Kant è su questa strada […]. Analogamente a ciò
che già avveniva in Kant, non si ritiene che l’evidenza del metodo scientifico-positivo sia un inganno e che le sue realizzazioni siano soltanto
apparenti, bensì che questa evidenza è un problema; che il mondo
delle scienze obiettive si basa su un fondamento soggettivo profondamente nascosto e mai indagato (HUSSERL 1954, pp. 126-127).
Kant quindi si era messo in direzione di quella filosofia come
scienza rigorosa che solo con l’epoché di Husserl avrebbe raggiunto
il suo rivolgimento ultimo. Più precisamente, nella sua Critica della
ragione pura Kant identificava lo schematismo trascendentale come
quella struttura del soggetto nella quale si organizzano le impressioni sensibili sulla griglia delle forme pure dell’intuizione (che sono
anche intuizioni formali): gli a-priori formali di spazio e tempo.
Nell’evoluzione del suo pensiero Husserl esprimerà la necessità di
operare una riduzione che risalga “al-di-qua” degli a-priori kantiani,
descrivendo la costituzione di una temporalità interna a un soggetto
trascendentale puro, di un tempo della coscienza che fluisca con ritmi
e modi diversi da quello mondano e aristotelico, dal tempo dell’orologio, dal tempo del mondo oggettivo-ovvio che è ancora il tempo
di Kant. Il tempo dell’ego husserliano sarà “l’a-priori dell’a-priori” di
Kant, la genesi di un tempo del mondo dal quale derivi ogni spazia178
lizzazione. La fenomenologia liberava, per così dire, il soggetto kantiano dai suoi equipaggiamenti trascendentali. Abbandonando un ego
che dallo spazio e dal tempo faceva partire un processo deduttivo di
conoscenza del mondo, Husserl approda a una coscienza che sia sede
genetica di tutte le costituzioni mondane, di un mondo che, dopo
l’epoché, può essere conosciuto in modo intuitivo e finalmente eidetico.
Il metodo deduttivo, che Kant veicolava come retaggio dell’empirismo, era inadeguato al compito di un filosofo trascendentale che volesse realmente pervenire a una visione d’essenza “delle cose stesse”.
3. La fenomenologia dell’epoché fenomenologica
Il lungo processo storico illuminato dai due «precursori inconsapevoli» (Cartesio e Kant) conduce al sorgere della fenomenologia. Ma
come si dispiega l’epoché nella realizzazione totale del suo metodo? Secondo passi graduali. Una “prima” epoché della fenomenologia prevede
la riemersione dal mondo del pregiudizio obiettivistico fino al sostrato
pre-scientifico del mondo-della-vita: una sfera mondana in cui la soggettività vive da sempre e che costituisce la base per tutte le idealizzazioni fisico-matematiche del mondo creato a-posteriori dalle scienze.
Questo spazio, che Husserl colloca nel dominio del meramente «soggettivo-relativo» (HUSSERL 1954, p. 168) è il correlato della nostra
soggettività ed è quella struttura universale a-priori antecedente l’apriori universale di un mondo oggettivo. Qui risiede il fondamento
delle verità scientifiche che devono, in un primo momento, essere poste “fuori causa”, neutralizzate in una sospensione del giudizio su di
esse. Non si pone neppure il problema della validità o meno di quelle
costruzioni, ma esse vengono messe tra parentesi. Husserl inizia col
dirigere uno sguardo “all’indietro” sul terreno del mondo-della-vita
che da sempre ci circonda, terreno delle evidenze originarie.
Il contrasto tra l’elemento soggettivo del mondo-della-vita e del
mondo “obiettivo” e “vero” sta semplicemente in questo: che quest’ultimo è una sustruzione teoretico-logica, la sustruzione di qualche cosa che di principio non è percettibile, di principio non esperi179
bile nel suo essere proprio, mentre l’elemento soggettivo del mondo-della-vita si distingue ovunque e in qualsiasi cosa proprio per la
sua esperibilità. Il mondo-della-vita è il regno di evidenze originarie
(HUSSERL 1954, p. 156).
Proprio nella particolare esperibilità del mondo-della-vita, nel
suo offrirsi in modo evidente, sono già presenti quelle fonti occulte
che garantiscono all’obiettività, che ancora non può darsi nell’esperienza originaria, la sua stessa evidenza.
L’obiettività, in se stessa, non è, appunto, esperibile; e del resto se
ne rendono conto anche gli scienziati quando, contraddicendo i loro
confusi discorsi empiristici, interpretano l’obiettività come qualcosa
di metafisicamente trascendente. […] Naturalmente le “schematizzazioni intuitive” (Veranschaulichungen) di idee, per esempio nei modelli della matematica e delle scienze naturali, non sono intuizioni
dell’obiettività stessa, bensì intuizioni che rientrano nel mondo-della-vita e che sono in grado di facilitare la concezione degli ideali
obiettivi in questione (HUSSERL 1954, p. 157).
L’epoché non annienta il mondo scientifico-obiettivo salvando quello
della vita, non distrugge la sua esistenza assieme a quella di tutti i suoi
scienziati, ma lo coglie come piano comune delle quotidiane occupazioni, delle stesse indagini scientifiche; risale al mondo inteso in senso ingenuamente naturalistico, extra-scientifico. Una volta, però, riguadagnato
lo spazio che precede le scienze, ad Husserl si presenta l’improrogabilità
di una svolta ancora più radicale, di una riduzione più profonda.
Certo noi non sappiamo ancora come il mondo-della-vita possa diventare un tema del tutto indipendente, completamente autonomo,
come debba poter rendere possibili gli enunciati scientifici, i quali, in quanto tali, anche se in modo diverso da quello delle nostre
scienze, devono avere una loro “obiettività”, una validità necessaria
puramente metodica, che noi, come chiunque altro, possiamo verificare appunto metodicamente. Qui cominciamo in senso assoluto,
non possediamo alcuna logica che possa ritenersi normativa, non
possiamo interrogare che noi stessi (HUSSERL 1954, p. 162).
180
L’esigenza di proseguire l’epoché scaturisce dallo stesso metodo che
scopre il campo di indagine oggetto della fenomenologia. Il mondo-della-vita, il residuo della prima riduzione, può essere indagato
secondo due posizioni dello sguardo fenomenologico: da un lato, un
atteggiamento naturale che si indirizza sulle cose, sugli oggetti del
vivere; dall’altro il focus sulla zona originaria del senso del mondo.
È quest’ultimo a preparare la definitiva epoché. Si tratta di un mutamento di interesse e direzione che rovescia l’attenzione verso il mondo interno della coscienza. Qui l’oggetto d’analisi non è il mondo
già dato delle cose, ma il “come” degli oggetti dati nella coscienza
(i fenomeni). Si deve pertanto risalire, in un’ultima svolta rigorosa,
alla “seconda” riduzione, quella che mette realmente “fuori gioco”
anche il mondo-della-vita; nel senso che questo subisce, senza essere
negato, una radicale modificazione. Si deve così svelare quella soggettività trascendentale-universale, ego concreto e genesi di tutte le
formazioni di senso, che opera al di qua sia del mondo obiettivo sia
di quello circostante ingenuo-naturale (mondo-della-vita).
E procediamo in questi studi fino a raggiungere l’evidenza a cui
miravamo, cioè che la coscienza stessa ha il suo essere proprio che non viene
toccato nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori
circuito. Essa quindi rimane come “residuo fenomenologico”, come una
regione dell’essere per principio peculiare che può di fatto diventare
il campo della nuova scienza – della fenomenologia. Soltanto grazie
a questa evidenza l’epoché “fenomenologica” meriterà veramente il
suo nome, e il suo consapevole compimento risulterà come l’operazione necessaria che ci rende accessibile la coscienza “pura” e quindi
l’intera regione fenomenologica (HUSSERL 1950c, pp. 76-77).
Questa seconda epoché, chiamata propriamente “trascendentale”, si
articola ancora su due gradi di differente esclusività: in primo luogo
nello spostamento dal mondo-della-vita alla vita di una coscienza
pura, e poi nel passaggio da questa zona al suo stesso livello appartentivo, dove ogni rilievo del vedere fenomenologico, che non abbia
per tema la pura «sfera del proprio» (Eigenheit), venga posto anch’esso
fuori gioco. Si tratta della riduzione fenomenologico-trascendentale
e della sua successiva radicalizzazione in epoché “tematica” (quest’ulti181
ma depura l’ego dai residui delle attenzioni e delle acquisizioni ancora
volte all’estraneo).
Questa riduzione, che ha raggiunto la sfera pura dei vissuti dell’ego, è l’«epoché universale assolutamente peculiare». In tal modo la
fenomenologia, affiorata dalla storia della filosofia tradizionale come
un’indagine infinita e inesauribile, continua ora nel flusso egologico
sul quale fissa lo sguardo, quella dimensione basale a partire dalla quale
va a formarsi la realtà e la validità di un mondo. Con l’epoché fenomenologico-trascendentale il filosofo si pone al principio, alla radice
del senso, ritrova il regno dei dati puri di coscienza da cui cresce una
gnoseologia delle essenze che, facendo del mondo un indice trascendentale dell’ego o meglio un «polisistema della soggettività trascendentale», lo riconquista in modo definitivo nella regione di assoluta
certezza dell’ego. L’epoché universale fa persino dell’ovvietà un problema, ne ricerca un fondamento che sia finalmente certo. Se la filosofia
trascendentale di Kant restava imbrigliata nei limiti di una soggettività ancora psichica e alle prese col mondo-della-vita, Husserl fa ora,
della disponibilità di quel mondo sempre a portata di mano, il primo
cruccio del fenomenologo e il primo ostacolo di ingenuità da superare attraverso l’epoché. Se la prima interessava il passaggio al mondodella-vita da quello delle scienze (mantenendo ancora una psiche alle
prese con un mondo ad essa correlato), lo slancio della seconda riduzione si orienta alla coscienza di cui quel mondo «a portata di mano»
è fenomeno. In tal modo l’epoché riporta il sapere nella sua vera sfera
di competenza: la descrizione dei vissuti di un soggetto puro.
Mi sembra qui importante ricordare, per inciso, che secondo Husserl solo l’idealismo di Hegel era riuscito ad afferrare la «soggettività
in quanto soggettività», restando tuttavia vincolato a presupposti
oggettivi che gli impedivano di portare l’interrogazione su un soggetto concreto, attuale, trascendentale. Lo stesso Husserl avvicina al
suo concetto di riduzione il termine hegeliano di Aufhebung (rilevamento, superamento che conserva ciò che nega). Mentre però il processo di auto-dispiegamento dello spirito (Geist) hegeliano “rilevava”
e inglobava man mano le forme che negava superandole nell’autocomprensione del sé, il procedimento di Husserl inverte la direzione
e approda a un soggetto differente. Sebbene vi sia una sospensione
182
che non annienta ma conserva il pensato, che lo «mette fuori causa»
per poi riguadagnarlo nella consapevolezza del suo senso originario,
l’epoché fenomenologica si muove per così dire all’indietro verso le
origini. L’innovazione dell’avventura fenomenologica, di questa forma autentica di razionalismo, adempie al compito che l’uomo porta
con sé nella responsabilità sostanziale del suo stesso essere: «Un’autocomprensione quale essere nell’essere-chiamato a una vita nell’apoditticità» (HUSSERL 1954).
È infine necessario approfondire il problema particolare di una riduzione che penetra in una sfera ulteriore nella dimensione già ridotta della coscienza trascendentale pura: l’epoché tematica, di cui Husserl ci offre una trattazione dettagliata nella quinta delle Meditazioni
cartesiane. Con questa riduzione tematica io opero un determinato e
determinante ripiegamento del mio stesso ego nella sfera più propria
della sua vita di coscienza, escludendo da essa il mondo comune ad
altri soggetti conoscitivi; il tema di questa sospensione concerne tutta la compagine di intenzionalità rivolte all’altro e tutte le influenze
che l’estraneo può esercitare su di me.
Si tratta ora della costituzione trascendentale e perciò del senso trascendentale dei soggetti esterni e, per conseguenza ulteriore, di una
storia universale del senso che, emanando dall’interno, rende per
me possibile in assoluta originarietà il mondo oggettivo; pertanto
il senso della soggettività estranea, del quale qui si fa questione,
non può essere ancora quello dell’essere oggettivo e mondano degli
altri. Per procedere rettamente, bisogna adempiere ad una prima
esigenza metodologica, quella di compiere una specie singolare di
epoché tematica, al di dentro della sfera trascendentale dell’universalità. Noi escludiamo innanzitutto dal campo tematico tutto ciò
che ora è dubitabile, cioè noi facciamo astrazione da tutti i prodotti
costitutivi dell’intenzionalità riferita mediatamente o immediatamente
alla soggettività estranea e delimitiamo dapprima l’intero contesto di
quell’intenzionalità, attuale o potenziale, in cui l’ego si costituisce
nel suo essere proprio e costituisce le unità sintetiche da essa inseparabili e per ciò stesso attribuite alla sua proprietà. […] Nell’atteggiamento naturale della mondanità io trovo distinti sotto forma
di contrapposizione, me e gli altri. Se astraggo dagli altri, intesi in
183
senso usuale, io rimango solo. Ma una tale astrazione non è radicale,
un tale essere-solo non altera per nulla il senso naturale e mondano
dell’“essere esperibile per ognuno”, senso che affetta anche l’io (inteso in maniera naturale) e che non andrebbe perduto anche se una
pestilenza universale non dovesse lasciare esistere che me soltanto.
Nell’atteggiamento trascendentale […] il mio io – cioè l’io di me
che medito – preso nella sua proprietà trascendentale, non è invece
ridotto a un mero fenomeno correlato, come un comune uomo-io
entro il fenomeno intero che è il mondo. Si tratta piuttosto di una
struttura essenziale della costituzione universale, in cui l’ego trascendentale vive come costitutivo di un mondo oggettivo (HUSSERL 1950a,
p. 116-117).
Astraendo da ciò che non è propriamente mio, raggiungo quella
che Husserl chiama una «coltre di senso grezzo» all’interno della mia
soggettività trascendentale, un lido di primordiale appartentività in
cui nessun vissuto di coscienza si rivolge all’esistenza di un altro
uomo. L’epoché tematica mi lascia in un “solipsismo radicale”, nella
pura ed esclusiva fonte del senso. L’io originario (Ur-ich) permane
come il residuo assoluto dell’estrema riduzione, in una «singolare
solitudine filosofica» dalla quale sempre ripartire per la costituzione
del mondo1. Il ricominciamento radicale di Husserl ha raggiunto il
suo inizio irrisalibile nella natura appartentiva (eigenheitliche Natur)
dell’io, sostrato unitario del mondo. Tale nebulosa di esperienza primordiale si rivelerà essere in Husserl animata dal primo “oggetto”
che l’ego ridotto incontra nella sua natura appartentiva, la protesi
sensibile della sua apprensione del mondo: il corpo proprio o corpo
vivente (Leib). Non la semplice carcassa fisica (Körper), ma un complesso che vive ed esperisce, solo grazie al quale l’ego depurato, coincidente con tutto il volume di questo corpo vivo, può avere vissuti
di oggetti. Il mio corpo è il luogo d’origine della spazialità, il qui rispetto alle cose che sono là; esperito come primo dalla mia coscienza,
è al tempo stesso esperiente, toccante-toccato. Nello spazio del corpo
proprio, questo oggetto-soggetto di un mondo, io scopro una preoriginaria restanza d’altri. Senza scendere nelle dinamiche che regolano l’esperienza dell’estraneo, accenno solo al fatto che nel corpo si
dà quella che Husserl definisce «appresentazione analogica», ovvero
184
l’ego avverte la presenza dell’altro fin nel suo dominio appartentivo,
in un originario appaiamento (Paarung) al principio dell’obiettività.
L’esperienza dell’altro, che è come me «punto zero della spazialità»,
mi sarà possibile solo per empatia (entropatia, Einfühlung), una modalità di apprensione in cui non posso avere l’oggetto in carne ed
ossa, in cui questo oggetto peculiare (l’altro) non si offre mai alla mia
intuizione, originaliter, ma mi sfugge sempre. Perché una tale esperienza, sebbene incompleta (empatica e analogica), sia comunque
pensabile, è necessario che io trovi l’altro già nella sfera del proprio.
In quella “rocca chiusa”, che l’epoché aveva rilevato nel suo ultimo
rivolgimento, mi ritrovo faccia a faccia con l’altro.
L’epoché si ferma davanti al paradosso dell’altro. Se da un lato l’intersoggettività, come scambio di esperienze in una comunità di ego
universalmente ridotti, è centrale in Husserl allo scopo di riguadagnare il mondo obiettivo su basi nuove, dall’altro il mondo prima del
mondo, quello dell’ego di ognuno che prepara la spazialità mondana
intersoggettiva è un mondo già duale (ego e alter-ego), ove l’altro resta
la riserva senza la quale non si potrebbe dare né un naturale mondodella-vita né uno obiettivo delle scienze. La fenomenologia sembra
arrestarsi così di fronte al suo limite, a un’origine altra dall’essere di
un ego. Quella coscienza, come zona apodittica del senso, che l’epoché
aveva sgrossato da tutte le interferenze, si trova infine già da sempre
inquietata da un altro, invalidata proprio nella sua pretesa di assolutezza, di chiarezza nei confronti di se stessa. Husserl definisce l’alterità dell’alter ego come il «senso limite» (HUSSERL 1950a, p.164)
dell’esperienza di un ego ridotto tematicamente. Al limite della fenomenologia, l’altro uomo che affiora nel cuore della coscienza monadica resta una scoria an-archica che l’epoché non può “rilevare”. La potrà,
forse, solo agire; trasformando se stessa.
4. La fenomenologia fa epoché di se stessa. E. Levinas e J. Derrida
Al punto in cui le analisi di Husserl devono fermarsi, davanti alla
perplessità dell’altro, la fenomenologia si vede togliere il primato di
scienza del fondamento assoluto. E la riduzione deve ormai muoversi
185
proprio dall’inquietudine dell’altro. L’epoché è certo un gesto personale del filosofo, un ricominciamento che si esercita prima di tutto
su se stessi. Ma davanti all’emersione dell’altro che mina la saldezza
dell’ego trascendentale, fondo abissale di cui mi sfugge l’origine e di
cui «ci mancano i nomi» (come Husserl afferma nelle sue lezioni sul
tempo), l’epoché non può che volgere lo sguardo oltre la soggettività
husserliana e la sua ontologia fenomenologica. Fra i pensatori che
hanno raccolto le implicazioni più radicali dell’epoché vorrei segnalare Emmanuel Levinas e Jacques Derrida. Il testo che prendo a riferimento è l’Addio a Emmanuel Levinas (1997), dove si intrecciano i
contributi di entrambi per una nuova idea dell’epoché. A partire dalla
quinta delle Meditazione cartesiane di Husserl, si apre la torsione di
una «fenomenologia che interrompe se stessa proprio in nome della
fedeltà a se stessa» di fronte all’estraneo, all’altro uomo, ma anche
all’Altro assoluto.
Una certa interruzione della fenomenologia da parte di se stessa si
era già imposta ad Husserl, senza che egli ne prendesse atto – è vero
– come una sorta di necessità etica, quando si era dovuto rinunciare al
principio dei principi dell’intuizione originaria o della presentazione
in persona, “in carne ed ossa”. Che sia stato necessario farlo, nelle Meditazioni cartesiane, a proposito dell’altro, di un alter ego che non si dà
mai se non per analogia rappresentativa, rimanendo quindi radicalmente separato, inaccessibile alla percezione originaria, ecco ciò che
non è insignificante né per la fenomenologia husserliana, né per il discorso di Levinas sulla trascendenza dell’altro – discorso che, a modo
suo, deriva anche da tale interruzione (DERRIDA 1997a, p. 115).
L’estraneo spezza l’Uno solo della monade nel duale dell’appaiamento all’origine. Levinas indica un percorso alternativo per la riduzione: un’epoché per la trascendenza dell’altro nel proprio e il riconoscimento che il “proprio” ha la sua origine in “altro”. Una riduzione
all’etica.
Come scrive Derrida, in Levinas la presenza dell’altro nell’ego è
la traccia di un’incombenza pre-originaria, l’impronta senza origine
(an-archica) nella quale l’ego si è da sempre risvegliato ancor prima
di ogni “sintesi” intenzionale. La coscienza intenzionale in Levinas
186
non è più dunque quella della filosofia trascendentale, non vi è un ego
autonomo e certo di se stesso che si apre all’intuizione di fenomeni,
ma siamo di fronte a una passività ospitale. Se l’altro non mi si offre
all’intuizione, allora mi precede in un tempo immemorabile e io posso solo inseguirlo nel ritardo di un “contrattempo” irrecuperabile,
come se l’altro mi avesse sempre anticipato di un passo. La traccia è
«un passato che non è mai stato e non può essere vissuto nella forma
originaria o modificata della presenza». L’altro, in quanto ha lasciato
traccia di sé, scuote il primato del presente vivente dell’ego. È questa
diacronia irreversibile dell’altro che fa la cifra dell’epoché di Levinas.
La responsabilità etica a cui altri mi obbliga come mia origine toglie
all’ego la sua stabilità e la riduce a «soggezione d’altri». La responsabilità etica è assunta «malgrado sé» da questa nuova coscienza, che
Levinas dice «urgenza di una destinazione che porta all’altro». Prima
di essere intenzionalità, essa è esposizione al dovere di risposta, esposizione fino alla deportazione.
Quando ridefinisce completamente la soggettività intenzionale,
quando ne sottomette la soggezione all’idea di infinito nel finito,
Levinas moltiplica a suo modo delle proposizioni nelle quali un
nome ridefinisce un nome. […] Ad esempio: “Essa [l’intenzionalità,
la coscienza-di] è l’attenzione alla parola o accoglienza del volto,
ospitalità e non tematizzazione” (DERRIDA 1997a, p. 83-84).
Il volto dell’altro in me è appello di fronte a cui non posso né fuggire né farmi sostituire. Devo rispondere di lui, della sua mortalità,
della sua violabilità. Il suo volto mi sovrasta in una dismisura che
è quella dell’infinito nel finito; e mentre mi chiama dall’alto della sua separazione radicale, mi riguarda da una prossimità che mi
costituisce tanto fondamentalmente, da non potermene sottrarre in
alcun modo. L’altro «già prima di ogni passato» mi rende insonne
nella continua veglia a cui obbliga e indebita la mia coscienza, interrompe il controllo di me, mi rapisce all’ascolto e all’ospitalità come
mia condizione genetica e in questo appello scandisce il tempo. La
soggettività concreta di Husserl risente di questa eccedenza, ne è
traumatizzata e ridotta «all’accusativo», alla condizione di ostaggio.
187
La responsabilità per altri non sarà, come afferma Levinas, un «accidente del soggetto» (LEVINAS 1974, p. 140) ma un «Eccomi» che
risponde dal profondo della sua essenza.
Viceversa, non si capirebbe nulla dell’ospitalità senza illuminarla
con una fenomenologia dell’intenzionalità, una fenomenologia che
rinuncia addirittura, laddove è necessario, alla tematizzazione. Ecco
una mutazione, un salto, un’eterogeneità radicale ma discreta e paradossale che l’etica dell’ospitalità introduce nella fenomenologia.
Levinas la interpreta anche come una singolare interruzione, una sospensione o un’epoché che, ancor più e ancor prima di essere un’epoché
fenomenologica, è un’epoché della fenomenologia. […] La fenomenologia impone a se stessa una simile interruzione. La fenomenologia si
interrompe da se stessa. Questa interruzione di sé attraverso sé […] è il
discorso etico […] L’interruzione non si impone alla fenomenologia
come per decreto. Essa si produce nel corso stesso della descrizione
fenomenologica […]. L’interruzione si decide in nome dell’etica […].
Interruzione di sé per mezzo di una fenomenologia che in tal modo
si arrende essa stessa alla propria necessità, alla propria legge, laddove quest’ultima le comanda di interrompere la tematizzazione, e
quindi di essere anche infedele a sé per fedeltà a sé, per quella fedeltà
“all’analisi intenzionale” che Levinas rivendicherà sempre (DERRIDA
1997a, p. 114-116).
L’epoché di Levinas mette in questione il soggetto e il terreno delle
analisi fenomenologiche, supera l’ontologia della presenza husserliana
in direzione di un’etica del dialogo nella “dissimmetria” del faccia a faccia, istituisce un rapporto in cui l’altro mi ha da sempre eletto in modo
esclusivo e in cui da sempre mi ossessiona, perseguitandomi, ancor
prima dell’accoglienza che potrei o vorrei riservargli. Con la sospensione
operata da Levinas non mi resta più la libertà di scelta dell’ospitalità,
sono espropriato fin nella mia dimora dall’appello dell’altro.
La manovra di Derrida sembrerebbe muoversi proprio a partire
dal dualismo del rapporto etico di Levinas. Nel suo Adieu Derrida
sottolinea come il rapporto etico, nel dialogo asimmetrico tra Medesimo e Altro, sia una relazione esclusiva che tiene fuori la dimensione
plurale della comunità e della polis. Già Levinas indicava l’emersione
188
dello spazio politico solo con l’arrivo del terzo, frattura del faccia a
faccia tra Medesimo e Altro. Ed è proprio con la questione del terzo
che Derrida tenta di aggirare il rischio di una violenza etica. Levinas
aveva colto uno statuto di cooriginarietà tra Altro e terzo precisamente designando per terzo l’assoluta illeità di Dio, la «gloria dell’infinito» che si traccia nel volto d’Altri «obbligandomi alla bontà». Ma
se la traccia per Levinas è anzitutto sensibilità, in Derrida rimanda
a un’incisione ed è nella sua sostanza scrittura. O forse inscrizione,
testimonianza. Derrida indica una persistenza tracciata in modo immemoriale dal terzo, che non è necessariamente l’altro uomo, né necessariamente Dio. Può essere l’evento di un’alterità assoluta e indefinibile, che non posso neanche rapportare ad una dismisura verso la
quale sono in debito (come per Levinas), e il cui incontro mi è impossibile. Derrida propone una specie di epoché al di qua del piano etico,
in una dimensione che preceda sia il terzo sia l’Altro: una sfera in cui
un’alterità innominabile mi viene incontro senza che la si possa vedere arrivare o che si abbia la certezza (quasi messianica) del suo arrivo.
Ecco che forse la traccia diviene la fenditura fra i lembi della quale un
evento può avvenire, l’apertura a un non-incontro improvviso. Non
può giungere a manifestazione, come vorrebbe Husserl per le datità
di una coscienza ridotta, né può essere l’inquietudine che mi trascina
fuori di me, ingiunzione del volto d’altri verso la responsabilità: in
Derrida le mie “intenzioni” si muovono nel deserto e nel buio. Chi
viene? Cosa? Ma soprattutto, verrà? L’Altro di Derrida è uno spettro
(revenant) che è già da sempre passato, e per questo può ritornare avenire in ogni momento, ma soprattutto in ogni forma. Abbiamo
con l’Altro un rapporto fantasmatico, come con un inattuale che risorge dal sottosuolo del tempo comune e che riconosco solo perché mi
ha da sempre inciso, toccato, riportato a una dimensione del tempo
di cui non conservo memoria. È una eterogeneità che non posso definire,
a cui «non si dà il nome». Non è questa una radicalizzazione al di
qua dell’etica duale di Levinas e della sua esclusività, nel rischio della
venuta di un terzo che avverto come imprevedibile e che mi chiama
alla scelta, in un incontro che resta sempre a-venire?
La modalità, con la quale credo che questa particolare epoché si
faccia spazio, mi sembra essere il gesto della decostruzione; lo stesso
189
Derrida conferma la profonda affinità tra le due nozioni. Più che una
sospensione, però, la decostruzione è una destituzione di stabilità che
disarticola, sgrana letteralmente i testi della tradizione e ne rivela il
fondo impensato, prigioniero delle orditure serrate di ogni sistema.
Il movimento decostruttivo è, come l’epoché, un gesto voluto dal filosofo per liberare quell’alterità terza che muove la struttura chiusa e la
fa vacillare dal di dentro, ma è anche una spinta che faccia emergere
il fondo oscuro dei testi della storia della filosofia. È necessario che
l’inattuale rilevi il suo stato di potenzialità in un moto che lasci l’origine aperta nella differenza. La decostruzione si pone come arma «contro l’idea stessa di sistema filosofico», contro le sue pretese di assoluta
giustificazione, di controllo e di chiusura. Lungi dall’appropriarsi di
una struttura d’origine dell’obiettività (Husserl), e dallo scoprire una
soggezione pre-ontologica sul piano etico (Levinas), Derrida elide
l’origine in forza di una differenza pre-originaria.
Per concludere, mi interessa lasciare a questa interrogazione sulla
riduzione fenomenologica ancora una restanza; e sembra proprio che
nell’economia dell’epoché “avanzi” costantemente un resto. Questa agitazione nell’epoché e dell’epoché è una scommessa che la fenomenologia
fa con se stessa. Ne Il gusto del segreto, Derrida confessava:
Eccomi disarmato, bisogna ricominciare daccapo, ci si deve esporre
alla novità, alla sorpresa; davvero mi sento un principiante assoluto, ingenuo perché devo far fronte alla sorpresa che viene dall’altro
(DERRIDA-FERRARIS 1997, p. 62).
L’epoché si ripropone, tornando trasformata sempre alla volta del
principio, come condizione di un pensiero che aspiri a ricominciare
ogni volta da capo.
1
Le parole con cui Husserl chiude le Meditazioni Cartesiane sono: «La scienza
positiva è scienza dell’abbandono al mondo. Si deve prima perdere il mondo
mediante l’epoché per riottenerlo poi con l’autoriflessione universale. Noli foras ire,
dice Agostino, in interiore homine habitat veritas» (HUSSERL 1950a, p. 172).
190
ESISTENZA
di Camilla Croce
Soprattutto là dove l’uomo si è smarrito nella
sua ascesa verso la soggettività, la discesa è più
difficile e pericolosa della salita. La discesa
conduce nella povertà dell’e-sistenza dell’homo
humanus. Nell’e-sistenza viene abbandonato
l’ambito dell’homo animalis della metafisica.
HEIDEGGER 1976a, p. 304.
1. La provocazione dell’esistenza
L’esistenza irrompe nel lessico della fenomenologia mettendone
in discussione il principio fondamentale “alle cose stesse”. La “cosa”
verso cui Husserl dirigeva la fenomenologia, secondo Heidegger, rimane vittima di un’impostazione soggettivista. Andare verso le cose
stesse significa, per Husserl, rivolgere lo sguardo al regno dei fenomeni, nel quale le esperienze viventi soggettive, Erlebnisse, diventano accessibili come presenti per noi nella coscienza, ci appaiono. Il
fenomeno, nella definizione husserliana, ha il suo carattere essenziale
nell’essere coscienza-di. Fenomeno è il nome dell’interfaccia rivolto
191
a noi di ciò che appare tra realtà esterna e coscienza, e si costituisce
come un interregno del quale l’intenzionalità pretende di esaurire la
trama, proponendosi come sua struttura ultima. La fenomenologia
husserliana è, di conseguenza, interamente fondata sulla soggettività
trascendentale. 1491), Essa si definisce come, «scienza a priori, che
si propone di fornire l’organon dei principi relativi ad una filosofia
rigorosamente scientifica» (CRISTIN 1999, p.149)1, e si costituisce,
quindi, come filosofia prima, rimanendo vincolata all’orizzonte di
senso costituito dall’articolazione della struttura intenzionale della
coscienza, rimanendo dunque «nell’alveo del pensiero moderno».
Nella misura in cui le “cose stesse” nominano, per Husserl, ciò
di cui si ha coscienza, l’orizzonte di senso della fenomenologia si
dispiega a partire dall’aver coscienza-di. La “cosa stessa” husserliana
sarà allora la coscienza. È principalmente contro la coscienza, e il suo
ruolo di fondamento, che si scaglia la critica di Heidegger in forza
della considerazione dell’esistenza in quanto fenomeno. La coscienza,
assunta come “cosa stessa”, non può essere l’accesso privilegiato al regno dei fenomeni, poiché, mantenendo l’io che ha coscienza-di, come
soggettività, il fenomeno viene determinato solo in quanto oggetto
di conoscenza. La struttura intenzionale della coscienza pone a priori
le condizioni alle quali il fenomeno ci appare. In breve Husserl, ponendo la coscienza come la “cosa stessa”, inciampa nello stesso ostacolo della metafisica moderna: la problematica della relazione soggetto /oggetto. Non appena poi, la coscienza husserliana, fa dell’io
ho coscienza-di, lo stesso oggetto da conoscere, essa si ricostituisce
al suo interno negli stessi termini della problematica che intendeva
risolvere, scissa e aperta ad una ferita difficilmente sanabile, quella
tra realtà esterna e coscienza. La coscienza, nella sua struttura intenzionale, rimane articolazione della relazione oppositiva soggetto
/oggetto, senza mettere in discussione la relazione stessa. Ponendo,
come oggetto di conoscenza, l’aver-coscienza-di, la coscienza si scopre dominata da un a priori che le impedisce di abbandonare l’intenzionalità, anche nel momento in cui essa le si rivela come l’ostacolo
più grande per comprendere l’esistenza.
Per la teoria dell’intenzionalità, l’esistenza, è l’essere in atto del
pensiero in quanto relazione, di conseguenza, tra l’esistere e il giu192
dizio d’esistenza, non vi è molta differenza, se non per l’essere in atto,
che viene però rapidamente ricondotto alla struttura intenzionale
della coscienza.
Lo sguardo fenomenologico husserliano, secondo Heidegger, rimane incastrato nel mito della teoria capace del puro sguardo eidetico, e, seppur scoprendo la condivisione d’essenza che vi è tra pensare
ed esistere, finisce con il sovrapporli, occultando l’ambito comune nel
quale sono immersi, la trascendenza dell’esserci, a partire dalla quale
sarà possibile invece per Heidegger metterne in luce le differenze. È
vero, perciò, come sostiene Levinas, che la teoria dell’intenzionalità
di Husserl ha avuto il merito di far scoprire, al pensiero, l’esistenza,
arrivando a sostenere la loro identificazione, ma è anche vero che,
rimanendo nell’intenzionalità, il privilegio della teoria impediva di
andare oltre alla mera descrizione dell’esistenza, non raccogliendo la
provocazione che, l’identificazione di pensiero ed esistenza, portava con sé. Identificare il pensiero con l’esistenza significava, infatti,
pretendere di ridurre l’esistenza all’intenzionalità: come il pensiero
era attività della soggettività trascendentale, così l’esistenza doveva,
secondo la fenomenalità ammessa da Husserl, dispiegarsi come trama intenzionale. L’esistenza, invece, in quanto fenomeno, costringe
il pensiero ad entrare in un ambito più originario dell’intenzionalità,
nella misura in cui, l’ambito originario del pensiero stesso non si dischiude a partire dal trascendere delle cose davanti alla soggettività,
che pensandole, le restituisce alla relazione al mondo, ma a partire da
qualcosa che precede questo dispositivo soggettivo-trascendentale.
Quello che irrompe nel fenomeno dell’esistenza, è la trascendenza
stessa come ambito più originario dell’intenzionalità. Il pensiero è
possibile, secondo Heidegger, solo in quanto appartenendo all’esserci, è trascendenza: non sono le cose a trascendere davanti alla soggettività che le incontra, e che poi dunque si fa carico di reintrodurle
nell’oggettività che costituisce; ma sono io stesso che trascendo le
cose che mi si fanno incontro, e così facendo, le penso.
Cos’è successo? L’esistenza, come fenomeno, ha promosso un più
originario emergere del fenomeno stesso. Questa emersione provoca
la stessa fenomenologia, esigendo una radicalizzazione di ciò che essa
intendeva con fenomeno, e quindi una ridiscussione del principio
193
“alle cose stesse”. Seguendo la strada husserliana, Heidegger incontra
nell’esistenza un fenomeno capace di vanificare il lavoro dell’epoché,
con la quale si procede sì ad una distinzione dei vissuti dalla corrente, e nei vissuti stessi della hyle dalla morfé, ma si tralascia di porre la
domanda sulla legittimità della coscienza posta a fondamento della
conoscenza.
L’esistenza revoca il ruolo della coscienza: essa si manifesta come
ciò, che sottraendosi ad ogni epoché, si schiude da sé e ci costringe a
mettere in discussione il punto d’osservazione a partire dal quale
possiamo dire che essa ci appare. Con l’esistenza, vale a dire, Heidegger mette in discussione la fenomenologia husserliana: ne sradica
il fondamento, radicalizzandone la struttura ultima, abbandonando
ogni primato della teoria. Dal momento che il fenomeno, grazie
all’esistenza, è stato messo in luce come ciò che si dischiude da sé,
può ancora lo sguardo fenomenologico rivolgersi alle cose stesse? E
che cosa significherà andare verso le cose stesse quando a ben vedere
sono le cose che, dischiudendosi, ci si fanno incontro? Il carattere
originario del fenomeno esistenza ha il potere di mettere in crisi il
fondamento su cui riposava la scientificità della fenomenologia: neutralizzando il nucleo generativo (coscienza) dell’orizzonte di visione
nel quale essa si muove, l’esistenza mette in discussione il primato
della teoria, che ne legittimava lo statuto scientifico attraverso un
metodo genetico.
A partire dall’analitica dell’esistenza, Heidegger ribalta l’ambito
della fenomenologia, in virtù della scoperta della trascendenza come
dimensione più originaria dell’intenzionalità, e le riconosce una potenzialità ancora più ricca, capace anche di liberarla dalla necessità
di una legittimazione scientifica. Non essendo più lo sguardo che
deve rivolgersi alle cose, ma le cose stesse che ci si fanno incontro nel
dischiudersi da sé, il compito della fenomenologia diviene
quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza
e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio
tema (HEIDEGGER 1977, p. 189).
194
Il fenomeno dell’esistenza inaugura dunque la fenomenologia radicale di Heidegger. L’indagine sull’esistenza deve incominciare con la
discussione di ciò che in questo concetto è stato tramandato, non solo
per rigore interpretativo, ma perché, la radicalizzazione della fenomenologia, ha permesso a Heidegger di scorgere la genesi esistenziale
della metafisica stessa. La discussione ri-collocante – Er-örterung – heideggeriana della tradizione è sempre orientata dal metodo fenomenologico-ermeneutico che in Essere e tempo si annuncia nel programma
della distruzione della storia dell’ontologia. Distruzione, che non vuole dire annientamento, ma invece liberazione delle possibilità rimosse
nel passato, esigendo, quindi, dal pensiero l’ascolto di ciò che ha orientato i concetti della metafisica, l’orizzonte di senso nel quale essi sono
stati pensati. Lo scopo è quello di analizzare il fenomeno dell’esistenza,
mantenendosi in un atteggiamento capace di promuovere l’emersione
della sua struttura ontologica, senza anticiparla in una teoria.
Il concetto d’esistenza è stato cristallizzato dalla metafisica nella coppia existentia/essentia. Con existentia ed essentia la metafisica ha
parlato dell’essere dell’ente. L’essentia era incaricata di dire il quid
dell’ente, il che cosa, mentre l’existentia diceva il suo essere. L’existentia dunque, custodisce, nel suo concetto, il senso generale d’essere, il
ciò-rispetto-a-cui, la metafisica ha definito il quid, l’essentia, dell’ente. Affermare l’esistenza di un ente con la metafisica, vuol dire affermare il suo quid, il “che cosa” essa è. Il “che cosa” è il darsi dell’ente
come disponibile all’esserci, in quanto presenza: l’essere dell’ente
come presenza è, quindi, ciò che si pone di fronte all’esserci allorché
questo ne afferma l’esistenza, orientando di conseguenza anche lo
sguardo verso il suo “che è”. Nonostante ci sia, nella metafisica, la
distinzione tra i due modi di darsi dell’ente, il “che cosa” dal “che è”,
l’existentia, ossia l’essere dell’ente, è coperta dall’essentia, dal quid, e
in questo modo, dal quid determinata in quanto sussistenza dell’ente
disponibile all’uomo nella presenza.
Ciò che si evince, dall’analisi del concetto metafisico di existentia, è
l’orizzonte di senso dell’essere che si è imposto attraverso il concetto
metafisico dell’esistenza: l’essere è stato compreso come presenza, per
cui l’esistenza si è auto-compresa come sussistenza. Alla domanda sul
fondamento dell’esistenza la metafisica ha risposto con l’essentia, con
195
la presenza dell’ente nel suo “che cosa è”, determinando l’equivalenza
tra esistenza e realtà sussistente. Quella distinzione tra il “che cosa” e
il “che è”, che la metafisica non indaga, ma ci tramanda nella forma
dell’oblio, ci lascia vedere come, già nel primo inizio, la filosofia si è
costituita come oblio della differenza tra essere ed ente, della differenza ontologica. Perciò, la comprensione interpretante dei concetti
metafisici di essentia ed existentia, deve condurci a scoprire, nella metafisica in quanto oblio della differenza, l’ambito a partire dal quale
la differenza è stata obliata, tramandandosi a noi nella forma di una
concrezione di ciò che è originariamente distinto, essere ed ente. Dato
che, la prospettiva dell’ontologia, indagava l’essere a partire dall’essere dell’ente, al pensiero si apre la possibilità di raccogliere, recuperando la comprensione dell’essere della metafisica, un’indicazione
fondamentale dell’ingiunzione iniziale dell’essere che ha disposto
l’esistenza dell’esserci. In altri termini, scoprendo quale era l’orizzonte di senso, che orientava il domandare dell’inizio, si offre al pensiero
la possibilità di cogliere quale atteggiamento esistenziale caratterizzava l’esserci. Nell’identificare l’esistenza con la realtà sussistente,
l’esserci si scopre in rapporto con la totalità dell’ente nel modo della
Vorhandenheit («semplice presenza», o «mera presenza sottomano»,
come è stata resa in italiano l’espressione di Heidegger).
Ora lo scopo di Essere e tempo è quello di distinguere i concetti
di esistenza e realtà, in modo tale da svelare esistenza e realtà nella
loro potenzialità non metafisica. Sulla base dell’indicazione ricavata
dalla distruzione della coppia metafisica essentia/existentia, è innanzitutto chiaro che l’essere dell’ente è stato considerato come presenza,
come l’esser qui dell’ente. Nel caso dell’esistenza dell’esserci, questo
significa che il paradigma dominante interpretativo è stato: l’essentia è la ragione d’essere, il fondamento, dell’existentia. L’essentia, il
fondamento dell’uomo, attraverso varie tappe della storia dell’ontologia, finisce per consegnarsi a noi come ragione, quindi l’uomo
è, per la metafisica, animal rationale: l’esistenza dell’uomo si distingue da quella dell’animale solo in virtù della ragione. Il fondamento
dell’esistenza è la ragione. L’ultimissima tappa di questa linea del
pensiero occidentale, che vuole la coscienza come nucleo irriducibile
dell’esistenza umana, non sposta di molto questa visione delle cose.
196
A questo punto però Heidegger interviene in modo decisivo, iniziando con il ribaltare il paradigma della metafisica: egli sostiene che
l’essenza dell’esserci è l’esistenza stessa. La trascendenza, non essendo
più caratteristica del modo di essere dell’ente intramondano incontrato dall’esserci, è il modo di essere dell’esserci stesso, che trascende
l’ente, perché questo è sempre con-scoperto, nel mondo, dal Dasein
esistente in modo fattizio. L’esserci esiste in quanto trascendenza,
dunque comprende l’essere, nel senso che ne è comunque coinvolto,
dunque la sua essenza è l’esistenza stessa, in quanto essere-nel-mondo. Solo perché l’esserci esiste come essere-nel-mondo, la coscienza
intenzionale si può rapportare ad esso in quanto intentio. Questo è
l’assunto di Essere e tempo:
l’esserci, piuttosto, a causa di un modo di essere che gli è proprio,
tende a comprendere il proprio essere in base all’ente a cui costantemente e innanzi tutto si rapporta per essenza, cioè in base al “mondo” (HEIDEGGER 1977, p. 28).
Ma cosa significa questo riguardo all’esistenza? Come, l’intenzionalità, comprende l’essere dell’ente che io stesso sempre sono, l’essere
dell’esserci? In forza della scoperta dell’originarietà della trascendenza rispetto all’intenzionalità, Heidegger, chiedendo come, all’esserci
che si rapporta intenzionalmente all’ente, appartiene la comprensione dell’essere, risponde:
all’intenzionalità come rapporto con l’ente appartiene sempre una
comprensione dell’essere di quell’ente a cui l’intentio si rapporta. Ormai
è chiaro che una tale comprensione dell’essere dell’ente si ricollega
alla comprensione del mondo, la quale è il presupposto dell’esperienza di
un ente intramondano. Ma nella misura in cui la comprensione del
mondo –giacchè l’essere-nel-mondo costituisce una determinazione
dell’esserci- è al tempo stesso una comprensione-di-se-stesso da parte
dell’esserci, la comprensione dell’essere che appartiene all’intenzionalità abbraccia tanto l’essere dell’esserci quanto l’essere dell’ente intramondano non conforme all’esserci (HEIDEGGER 1975, p. 167).
In qualche modo, quindi, l’intenzionalità rimane incastrata in
197
una prospettiva capace sì, di stringere insieme esserci e mondo, ma
nella forma di un rapporto direzionato, intenzionato, dall’esserci.
Da questo risulta, che il fenomeno dell’esistenza dell’esserci rimane
intrappolato nel concetto di sussistenza, l’esserci è incontrato come
ente; l’essere dell’esserci non si distingue perciò dall’essere dell’ente,
e quindi segue una conclusione importante riguardo alla comprensione dell’essere che appartiene all’intenzionalità:
che questa comprensione dell’essere che abbraccia in certo modo
ogni ente è anzitutto indifferenziata; noi diciamo comunemente che
tutto ciò che in qualche modo incontriamo è essente, senza differenziarlo rispetto ai suoi modi determinati di essere. La comprensione
dell’essere è indifferenziata ma costantemente differenziabile (HEIDEGGER 1975, pag. 167).
Il compito che Heidegger assume nell’analitica esistenziale è appunto la differenziazione nella comprensione tra l’essere dell’esserci
e l’essere dell’ente, la distinzione tra esistenza e realtà, a partire dal
primato ontico-ontologico dell’esserci, in quanto egli è l’ente nel cui
essere ne va dell’essere stesso. Per differenziare tra essere dell’ente ed
essere dell’esserci, l’esserci deve porsi in un ambito pre-intenzionale,
deve svolgere l’indagine fenomenologica sulla sua costituzione ontologica stando nella trascendenza. Così facendo l’andamento dell’analisi fenomenologica cambia radicalmente direzione rispetto a quella
husserliana, e si ritrova a muoversi nel circolo della comprensione
interpretante, come «espressione della pre-struttura propria dell’esserci». Svelare il fenomeno dell’esistenza significa quindi in Heidegger “mirare alla discussione” di ciò che la costituisce, prima di ogni
struttura, rimanendo attenti al fatto che l’esistenza in sé è un «affare
ontico» dell’esserci, ma la sua costituzione è ontologica.
Nel passo citato Heidegger dice inoltre che la differenziazione è
«costantemente» possibile. Ciò significa che l’analitica esistenziale è
sempre accessibile all’esserci, ancora prima dell’acquisizione del metodo fenomenologico, poiché con essa, accade un’apertura originaria
dell’esserci, nella quale le stesse domande, e quindi anche gli stessi
concetti, della metafisica, sono rintracciabili nella loro genesi: si apre
198
una dimensione di comprensione della genesi esistenziale della metafisica stessa. La fenomenologia quindi ha un ruolo fondamentale
in quanto metodo, ma non può costituirsi come risposta ultima al
problema che l’esistenza presenta, essa deve
offrire all’Esserci stesso la possibilità della sua apertura originaria e far
sì che esso si interpreti da se stesso. Essa [fenomenologia] segue questa
apertura solo per trasferire sul piano concettuale esistenziale il contenuto fenomenico di ciò che risulta aperto (HEIDEGGER 1977, p. 173).
2. L’Essere «costantemente differenziabile»
La comprensione nella quale si muove l’analitica esistenziale è il
comprendersi, già sempre in atto, di colui che interpreta: l’esserci si
auto-comprende nell’afferrare la sua trascendenza ed è in tale afferrare
che vi è anche la (ultima) chance di una nuova comprensione dell’essere.
L’esistenza è il fenomeno della retrocessione dell’esserci alla trascendenza, verso l’ambito dell’originaria co-appartenenza d’essere ed esserci. L’esserci esiste comprendendo l’essere. Esistendo, egli è sempre già
“fuori di sé”, presso il mondo. L’esser-nel-mondo dell’esserci costituisce già di per sé una pre-comprensione dell’essere, dunque l’analitica
dell’esistenza è scandita dal circolo ermeneutico per il quale, il «trasferimento sul piano concettuale del contenuto fenomenico di ciò che
risulta aperto», implica un progetto di senso rispetto alla pre-comprensione dell’essere: questo è il primario progettarsi dell’esistenza
stessa. L’indagine di “senso” sull’esistenza s’incarica quindi di mettere
in luce, nel progetto primario dell’esistenza, ciò che distingue l’esistenza dalla realtà. Il senso dell’esistenza, il ciò-rispetto-a-cui essa si
costituisce, sarà ciò che è per essenza altro dalla realtà: la possibilità.
Se esistere significa esser-avanti-a-sé-nel-mondo, allora si tratta di
recuperare il momento in cui l’essere-avanti-a-sé estatico si manifesta come “possibile” prima di contrapporsi all’ente come sussistente.
Dove cercare questa manifestazione originaria del possibile? Nell’esserci, nella sua peculiare modalità d’essere, ovvero nell’esistenza.
L’esistenza, che si dischiude come l’ambito pre-fenomenologico dove
199
scorgere la genesi esistenziale della filosofia, arriva a comprendere
allora la fenomenologia «nell’afferramento di essa come possibilità».
La posta messa in gioco dall’analitica esistenziale è la comprensione
della possibilità come più alta della realtà. La possibilità è ciò in cui
è raccolto e custodito il senso dell’essere che ancora non è stato pensato, ciò che è da-pensare. Il passato ci parla allora, comunicandoci ciò
che è rimasto in potenza ed è stato custodito nella possibilità, solo
non appena l’esserci scopre l’esistenza come la possibilità del possibile, ed in questa anche il “già stato” e il “non ancora” d’ogni epoca.
La necessità a cui risponde la discussione sulla costituzione ontologica dell’esserci è innanzitutto, l’approfondimento della struttura
estatica della temporalità, del suo nesso non con la coscienza, bensì
con l’esserci, allo scopo di non lasciar fuori la storia; nell’esistenza
quindi ne va anche della storia. Per questo allora l’esistenza dell’esserci, considerata per lo più e innanzitutto nella sua quotidianità media dominata dal tempo dell’ora, deve dimostrare come, il pensiero
che si mantiene vincolato dalla prospettiva del qui ed ora, sia destinato a mancare la comprensione del fenomeno dell’esistenza storica.
La scommessa heideggeriana che nell’esistenza punta ad una nuova
comprensione dell’essere, ovvero alla comprensione della possibilità
della possibilità, è mirata principalmente a destituire il primato della presenza che domina il pensiero occidentale.
L’esistenza è l’essere avanti-a-sé-nel-mondo. A partire da questa
costituzione ontologica, l’esserci nella quotidianità si muove nell’orizzonte di senso costituito dalla temporalità non originaria, Zeitlichkeit, dominata dall’estasi della presenza; ma, nell’esserci medio,
continua ad essere costantemente accessibile l’esistenza, che, più originaria, custodisce in sé l’accesso alla temporalità originaria, Temporalität, la cui estasi dominante è il futuro.
Nella misura in cui 1. «il progetto primario della comprensione
dell’essere» ovvero l’esistenza, «“dà” senso»; e visto che 2. al problema del senso dell’essere si accede attraverso la modalità originaria di
essere dell’esserci, ovvero nel suo esistere; e che 3. l’esser avanti-a-sénel-mondo si comprende come essere-sempre-mio dell’esserci attraverso l’anticipazione di sé come un tutto nell’essere-per-la-morte; allora 4. l’auto-comprensione dell’esserci, ovvero la comprensione del
200
suo essere, e quindi dell’Essere, è orientata dall’estasi dell’ad-venire,
dal futuro, come anticipazione (della morte).
Da tutto ciò è evidente il ruolo centrale dell’esistenza nel primo
Heidegger, ma anche dopo, dato che essa è il dove Essere e tempo, nella svolta a Tempo ed Essere, si devono raggiungere reciprocamente. Il
carattere fenomenico della temporalità originaria, ovvero del Tempo
dell’essere, si manifesta come il “progettato” del progetto primario
dell’esistenza, non prima e soprattutto mai senza. Il rapporto tra il
progettato e il progetto si costituisce come unità degli esistenziali
dell’esserci, fenomeno originario della Cura; il senso della Cura, ovvero il ciò-rispetto-a-cui essa si costituisce, è l’insieme dei momenti
che hanno rivelato nell’esistenza il carattere fenomenico della temporalità originaria, l’ad-sé-in, l’indietro-verso, e il venire-incontro-del.
I fenomeni dell’ad, retro, presso, rivelano la temporalità come l’ekstatikon puro e semplice. La temporalità è l’originario “fuori di sé”, in sé
e per sé. Perciò noi chiamiamo i fenomeni esaminati sotto i titoli di
avvenire, esser-stato e presente, le estasi della temporalità. La temporalità non è prima di tutto un ente che poi esce fuori di sé; la sua
natura essenziale è la temporalizzazione nell’unità delle estasi (HEIDEGGER 1977, p. 390).
L’esistenza ha un ruolo decisivo: svelare il carattere estatico-orizzontale dell’essere. Nel comprendere, sua determinazione fondamentale, essa si costituisce come progetto primario rispetto al tempo inteso come «auto-progetto puro e semplice». La temporalità estatica
è allora ciò che rende possibile l’essere dell’ente che esiste come un se
stesso, e dunque anche ciò che rende possibile, all’esserci, afferrare la
distinzione tra la comprensione dell’essere e il rapporto all’ente, ossia
ciò a partire da cui si può accedere a quel costantemente differenziabile
nel quale ne va della nuova comprensione dell’essere. La “differenza
ontologica” è già una comprensione concettuale di ciò di cui consta
il progetto primario dell’esistenza; nel progetto l’esserci non elabora l’essere in concetti ontologici, ma, temporalizzandosi, distende
il carattere estatico-trascendentale dell’essere. Il nesso tra esistenza
ed estasi non è né casuale né insignificante, al contrario, esso è la
201
comprensione del primato ontico-ontologico dell’esserci, sul quale si
basa il progetto dell’ontologia fondamentale.
L’espressione ‘estatico’ non ha nulla a che fare con stati di estasi o
simile. La comune espressione greca ekstatikon significa l’uscire-fuori-di sé. Essa si ricollega al termine ‘esistenza’. Attraverso il carattere
estatico noi interpretiamo l’esistenza e questa, considerata dal punto
di vista ontologico, è l’unità dell’esser-fuori-di-sé pervenente-a-sé,
rinvenente-su-di-sé e presentificante. La temporalità determinata
estaticamente è la condizione della struttura ontologica dell’esserci
(HEIDEGGER 1975, pp. 255-256).
La temporalità estatica è dunque condizione dell’esistenza. Esistere, ovvero temporalizzarsi estaticamente, significa sempre comprendere l’essere e rapportarsi all’ente. Questa distinzione precede
la differenza ontologica e, in quanto comprensione pre-ontologica
dell’essere, è fenomeno comune del temporalizzarsi dell’esserci e
della temporalità dell’essere. Si potrebbe parlare dell’esistenza come
l’ambito a partire dal quale temporalità dell’essere e temporalità ordinaria si coappartengono nella forma di una disgiunzione reciproca, come l’ambito nel quale il tempo ci svela una doppia “natura”
diacronica/sincronica, doppia faccia di uno stesso tempo originario
finito. L’esserci allora si comprende rispetto alla temporalità estatica,
disteso tra un non-esser-più e il non-esser-ancora, in modo tale che la
modalità del suo esser-ci (qui ed ora), il fatto che egli, in quanto esistente, sia sempre presente a se stesso, coincida con il disvelamento
dell’ente che egli stesso è. Coincidendo con il suo disvelamento, l’esserci perviene a sé solo come al luogo della distinzione tra il suo nonessere-più e il suo non-essere-ancora, egli si comprende in quanto
“l’incluso” di due modalità mai attuali, ma questa “inclusione”, che è
allo stesso tempo una “esclusione” nella misura in cui egli esiste fuori
di sé-nel-mondo, lo mostra coinvolto essenzialmente nella distinzione originaria tra ente ed essere, nella quale l’esistente, senza saperlo,
si muove già da sempre. Nell’esistenza il carattere indifferenziato
dell’essere nella comprensione quotidiana dell’ente è costantemente
differenziabile:
202
l’esserci, in quanto esiste, comprende l’essere e si rapporta all’ente.
La distinzione tra essere ed ente, anche se non se ne possiede una
consapevolezza esplicita, “ci” è latente nell’esserci e nella sua esistenza. La distinzione “ci” è, vale a dire ha il modo d’essere dell’esserci,
appartiene all’esistenza. Esistenza significa all’incirca “essere in atto
di questa distinzione”. Solo l’anima che può compiere una tale distinzione non è più l’anima di una bestia, ma è l’anima di un uomo.
La distinzione fra essere ed ente è temporalizzata nella temporalizzazione
della temporalità (HEIDEGGER 1975, p. 306).
Se l’esistenza è “l’essere in atto” della distinzione pre-ontologica
di essere ed ente, allora si capisce meglio come essa sia anche l’ambito nel quale pensare la stessa svolta, incaricata di portare a pensare
l’Essere dall’essere. Nella misura in cui l’esistenza ci rivela la doppia “natura” del tempo, e questo si è rivelato essere l’orizzonte di
comprensione dell’essere, l’esistenza offre al pensiero la possibilità
di orientarsi in un duplice modo. Vi è dunque nell’esistenza una
«possibilità essenzialmente duplice di oggettivare ciò che è dato»
(HEIDEGGER 1975, p. 306): la prima è l’oggettivazione dell’ente, fondamento delle scienze positive; la seconda l’oggettivazione dell’essere, «in quanto esso si è già svelato in qualche modo». La temporalità
dell’esserci, l’esistenza, attua già sempre questa distinzione, anche
nella forma dell’indifferenza nella quotidianità dell’esserci. Nella
misura in cui la distinzione è tra comprensione dell’essere e rapporto
all’ente, essa dovrà manifestarsi, se anche come latenza, in un sottile
distinguersi all’interno della costituzione ontologica dell’esser-ci tra
comprensione, o coinvolgimento, e rapporto. Nella comprensione
dell’essere propria dell’esistenza, ciò che dovrà essere chiarito, non
è tanto l’afferramento concettuale dell’essere da parte dell’esserci,
quanto l’esser sempre afferrato dell’esserci da parte dell’essere, a partire dal quale gli è possibile rapportarsi all’ente. L’indagine conduce
allora verso ciò che rende possibile la possibilità, verso l’a priori dell’esistenza, che l’uomo, dimenticando, ha lasciato cristallizzarsi nella
differenza ontologica. Con l’a priori dell’esistenza, si vuole indicare
il radicale cambio di prospettiva che deve avvenire nell’esistenza,
capace di ri-volgere lo sguardo, o l’ascolto, non più all’ente, ma all’essere. Heidegger qui pone la questione dell’essere nei termini di
203
una «connessione dell’a priori con la Temporalità dell’essere», poiché
altrimenti egli vede la questione dell’essere di nuovo destinata a cadere nell’oblio, acquietandosi nella convinzione che «l’a priori, quasi
lucus a non lucendo, non ha niente a che fare col tempo» (HEIDEGGER
1975, p. 306).
L’essere costantemente differenziabile che offre una nuova comprensione dell’essere, risulta essere, da quello che abbiamo visto, il
movimento stesso di temporalizzazione dell’esserci, egli esistendo,
è la distinzione pre-ontologica in actus. Non è “l’atto di”, ma «distinzione in atto». Questa differenza è decisiva. Infatti, se l’esserci
avesse nelle proprie facoltà quella di compiere l’atto di distinzione,
allora l’esistenza perderebbe quel carattere estatico-orizzontale, poiché l’atto compiuto consapevolmente sarebbe una verticalizzazione
della trascendenza in un residuo soggettivista del Dasein, la volontà.
Invece, il Dasein, esistendo, è tale «distinzione in atto», ovvero egli
si muove innanzitutto e per lo più nell’in-distinzione dei molteplici
significati dell’essere, in-distinzione a partire dalla quale egli non
differenzia il suo essere dall’essere dell’ente intramondano. L’in-distinzione in cui si muove è temporalmente determinata in quanto
estasi della presenza, e, sulla base della temporalità dell’esserci, si
mostra come il fenomeno “dell’incluso originario della temporalità
autentica”, un terzo (dato ma mai afferrabile in quanto tale) che è
condizione, ontico-ontologica di passato e futuro. L’esistenza dell’esserci è perciò la sovrapposizione di condizione e condizionato, essa
rappresenta l’accesso immerwieder possibile dell’esserci al suo non-essere-ancora e al suo non-essere-più, questa oscillazione nella presenza
è manifestata dall’oscillazione costitutiva dell’esserci tra il suo essere-presso e il suo essere-via, a partire dalla quale la presenza a sé
dell’esserci si rivela essere una vicinanza illusoria a se stessi. L’esserci,
nella misura in cui è già un soggetto che si pensa, esistendo ha accesso alla sua possibilità più propria solo rinunciando a pensarsi come
soggetto. L’esistenza è il punto dal quale comprendere la differenza
ontologica come fenomeno positivo, nel senso di oggettivabile, della
originaria coappartenenza di essere ed esserci.
Bisogna ora definire l’essere costantemente differenziabile che si
dispiega nell’analitica esistenziale. Heidegger, per fare ciò, sottoli204
nea nell’esistenza il movimento d’esposizione al Tempo dell’essere,
scrivendo Ek-sistenz, al fine di distinguere, nell’in-distinzione preontologica, questa dal Dasein. L’Ek-sistenz dice l’avere-da-essere dell’esserci, mentre il Dasein il poter-essere la sua possibilità più propria. L’esistenza è aver-da-essere, ovvero il fenomeno originario della
coappartenza di essere ed esserci, a partire dal quale l’esserci può
decidersi per la sua possibilità più propria, ossia può decidersi per
se stesso. Questo significa che essa dischiude l’ambito originario nel
quale l’esistente si scopre costituito dalla neutra esposizione all’essere. Solo in quanto l’esistenza, per così dire, “consegna” un avere-daessere all’esserci, egli schiude la possibilità di poter-essere. Esistenza, in quanto aver-da-essere, è allora la possibilità della possibilità,
quello che Heidegger ha chiamato anche «a priori dell’essere»; mentre l’esserci, in quanto poter-essere, è la possibilità dei molteplici
possibili. Nello scrivere Ek-sistenz, Heidegger tenta un linguaggio
capace di mantenere in sé le due direzioni viste a partire dalla doppia
“natura” della temporalità. Da una parte, infatti, la parola è diretta
filiazione del linguaggio della metafisica, existentia, dall’altra però il
trattino ne rivela l’estasi. Diversi interpreti hanno notato che usando
la parola Dasein, Heidegger usa lo stesso termine che Kant usava per
esistenza. Dal momento che l’esistenza in Heidegger è, come abbiamo visto, anche in quanto “fatto”, sempre un uscire fuori di sé, allora, il rapporto a Kant è sensato, poiché egli pensa un soggetto che,
uscendo fuori di sé, costituisce la condizione a priori del mondo, tale
per cui poi non vive nella necessità di tornare a sé per riconoscere il
mondo, come per esempio invece era per Hegel. L’esistenza in Kant
sembra allora mantenere la frattura tra io e mondo nella forma di una
differenza che riposa in se stessa, che non chiede di essere superata.
Heidegger, distinguendo Dasein ed Ek-sistenz, pone le condizioni tali
per cui, il Dasein, grazie al carattere neutrale che gli viene dall’esistenza, è assimilato alla differenza ontologica nel momento stesso in
cui la concettualizza ontologicamente (egli userà anche il termine
Zwischenfall nel quale l’assimilazione è violenta prevaricazione dell’essere sull’esserci), mentre l’esistenza è la neutralità di uno «spazio
di tempo» (Zeitraum), nel quale ci è estaticamente aperta la possibilità della possibilità. Ciò che va compreso in questa “gerarchia” di fe205
nomeni, è l’impossibilità di raggiungere l’esistenza, come fenomeno
originario, dalla prospettiva della differenza ontologica, come se la
differenza fosse in sé “traccia” dell’origine. Così facendo l’esistenza
non è compresa nella sua portata pre-ontologica, nella quale solo l’essere è differenziabile, in virtù di una manifestazione più originaria
dell’in-differenza, quella stessa in-differenza che nella quotidianità
contraddistingue la comprensione dell’essere.
Del resto se l’Ek-sistenz cor-risponde al fenomeno del Tempo dell’essere, allora l’aver-da-essere che essa temporalizza come possibilità,
non può non essere neutro, nel senso che esso è essenzialmente privo
di qualsiasi determinazione temporale all’infuori dell’ad-venire, del
futuro. Essa non è mai l’“ora”, ma sempre il “non ancora”, che pone
l’esserci fuori del tempo-ora determinandolo come poter-essere-davanti-sé, ovvero come l’Aperto dove comprendere la sua trascendenza. La
trascendenza è afferrata come la necessità dell’esistenza per la manifestazione dell’essere. Il primato ontico-ontologico dell’esserci si scopre
anche “bifronte”: condizione dell’esserci per accedere alla questione
dell’Essere, e condizione necessaria all’Essere in generale per essere. Se l’Essere infatti, è compreso come ciò che nel suo movimento
essenziale si ritrae, allora esso presuppone un darsi, all’esserci, per
il quale essenzialmente si ritrae nella forma della sottrazione (di sé)
che l’esserci raggiunge nell’essere-per-la-morte. L’ad-venire è l’estasi
trainante del fenomeno del Tempo originario nell’esserci, perché è la
dis-tensione massima del rapporto di appartenenza e disgiunzione
reciproca che intercorre tra esistenza e Dasein, ossia tra comprensione
dell’essere dell’esserci e rapporto all’ente dell’esserci. A partire dal
futuro, dalla possibilità sempre reale della propria morte, l’esserci
comprende il proprio poter-essere (ossia il rapporto all’ente che egli
stesso sempre è) in quanto finitezza, e il proprio aver-da-essere (ossia
la comprensione dell’essere nel quale sempre è coinvolto) come finito.
La comprensione dell’essere come essenzialmente finito è il pre-supposto (presente nella pre-comprensione) dell’inversione di posto tra
realtà e possibilità, che svela l’altezza della seconda rispetto alla prima. La possibilità è compresa nell’essere-per-la-morte come l’indifferente possibilità della possibilità, dove tutto rimane in potenza, ma
proprio in tale anticipazione a prima vista vuota, improvvisamente
206
questa indifferente possibilità formale si fa la più concreta e certa di
tutte, fonte stessa della realtà. È in quanto si presenta come concreta,
reale ed inevitabile che diviene anche possibilità insuperabile della trascendenza, mostrandosi nell’essenza finita, dell’esserci quanto
dell’Essere, come il Nulla, das Selbe infatti sono Essere e Nulla. La
realtà può essere stata interpretata dalla metafisica come sussistenza
solo perché esistere significa tenersi nella possibilità in quanto tale,
sospendere continuamente, anticipandolo, il possibile che, determinandosi, si depositerà come concrezione nel reale. Quindi, riassumendo, l’essere costantemente differenziabile si delinea a partire dall’esistenza dell’esserci, essa è sempre contemporaneamente comprensione
dell’essere e rapporto all’ente, rispettivamente avere-da-essere e poter-essere. Nell’aver-da-essere, Ek-sistenz, l’esserci comprende l’essere
come il “non” tra essere ed ente, ossia nel loro originario disgiungersi
che, obliato, andrà a cristallizzarsi come differenza ontologica; nel
poter-essere, Dasein, egli comprende il “non” dell’ente, il suo stesso
non-esser-più ente nella certezza della morte, e fa quindi esperienza
dell’essere a partire dall’essente, arrivando a comprendere il Nulla
come lo stesso dell’Essere. La differenziazione dell’essere e la sua unità essenziale sono possibili solo a partire dalla temporalità estatica
dell’Ek-sistenz, anche se poi la sua analitica, ontologia fondamentale,
si rivelerà insufficiente come punto d’appoggio dal quale compiere il
passaggio da Essere e Tempo a Tempo e Essere. Qui è impossibile approfondire di più i motivi di questa impasse, resta comunque importante
notare, e ricordare, come ciò che l’esistenza ha dischiuso continui a
lavorare, in modo taciuto per lo più, quasi come un sottosuolo, anche
dopo nel pensiero heideggeriano, quando esso si deciderà ad essere
pensiero dell’essere recidendo e disdicendo il “chi” filosofante. Nella misura in cui però tale Aperto è mantenuto, l’indicazione di tale mantenimento è ancora una volta contenuta all’inizio di Essere e tempo:
l’interpretazione dell’Esserci […] deve svelare l’Esserci nel suo indifferente innanzi tutto e per lo più. Questa indifferenza della quotidianità dell’Esserci non è nulla, ma un carattere fenomenico positivo di questo ente. […] Nell’introduzione abbiamo già accennato a
come l’analitica esistenziale dell’Esserci implichi anche un compito
207
la cui urgenza è a malapena inferiore a quella dell’essere stesso: lo
scoprimento dello a priori che rende possibile la discussione filosofica
del seguente problema: “Che cos’è l’uomo?” (HEIDEGGER 1977, pp.
62-64).
3. Decidersi
L’esserci esposto, ovvero esistente, nell’anticipazione della propria
morte, è sovra-ex-posto, impressionato, dall’accelerazione improvvisa della velocità della temporalità estatica rispetto a quella ordinaria, tanto da lasciar trasparire, per la durata di un attimo, la sua
stessa essenza come taglio dell’essere nell’essere. L’anticipazione della morte non costituisce un’ipotetica sorgente di luce trascendente
lo svolgersi dell’esistenza; ma nell’attimo in cui accade, consegna il
senso dell’Ek-sistenz che abbiamo determinato, a partire dal quale
il progetto orienta nella fatticità il Dasein. In questo attimo l’esserci si svela a se stesso come vero. L’attimo, Augenblick, è in realtà il
temporalizzarsi dell’esistenza come decisione, ovvero il momento in
cui l’esserci e-sistendo dischiude il rapporto con il possibile. La decisione è introdotta in Essere e tempo attraverso il rapporto essenziale
dell’esserci all’apertura e alla verità, e sembra essere il “luogo” nel
quale l’esistenza può essere propria o impropria. Dico sembra perché in realtà l’esistenza, proprio in quanto luogo a partire dal quale
queste due modalità sono possibili, rivelerà la loro opposizione falsa.
L’esistenza è la distinzione in atto, pre-ontologica, tra comprensione
dell’essere e rapporto all’ente, che allude all’essere costantemente differenziabile. L’ambito così aperto/deciso è lo schiudimento dell’ente
che noi stessi siamo, ovvero dell’uomo, come condizione stessa del
giudizio apofantico. Nel giudizio apofantico la funzione fondamentale dell’asserzione è il suo essere-vero.
L’essere vero come disvelare risulta un modo di essere dell’esserci
stesso, della sua esistenza. […] Esistendo l’esserci comprende qualcosa come il proprio mondo, e insieme all’apertura del suo mondo
è per contempo per sé svelato a se stesso. […] Proprio perché all’essenza dell’esserci appartengono una tale apertura di se stesso e, in
208
uno con essa, l’esser-scoperto dell’ente intramondano, noi possiamo
affermare: l’esserci esiste nella verità, cioè nell’esser-disvelato di se
stesso e dell’ente a cui si rapporta (HEIDEGGER 1975, p. 207).
Dunque la distinzione in atto tra comprensione dell’essere e rapporto all’ente è il modo di essere della verità, poiché la verità non sussiste, ma esiste. Per questo Levinas può scrivere che Essere e tempo tratta «dell’evento ontologico della verità che l’uomo è». L’esistenza di
Heidegger ha quindi molto più che a fare con la verità dell’essere, che
con una sospetta discriminazione tra esistenza propria e impropria. La
verità dell’essere si configura come aletheia, ovvero come compresenza
di svelamento e velamento dell’essere, auto-nascondimento dell’essere e auto-schiudimento del venire alla presenza. L’evento ontologico
della verità è l’uomo come essere-nel-mondo con gli altri. Nella verità, in quanto evento ontologico, l’esserci comprende l’essere attraverso l’analitica esistenziale mettendo a tema la sua finitezza.
La neutralità che abbiamo visto emergere dall’esistenza è raccolta
anche da J-L. Nancy che, in un piccolo saggio intitolato La decisione di esistenza, cerca di mettere a fuoco il compito a cui essa invita
il pensiero. Per Nancy l’esistenza consegna all’esserci l’incarico di
rendere transitivo il verbo esistere. L’esistenza porta, o trans-porta,
all’esserci, essendo «distinzione in atto», il compito di comprendersi
esclusivamente in base al suo esistere, ovvero rispetto a nient’altro
all’infuori dell’essenza inessenziale che lo costituisce. Egli è quindi
incaricato semplicemente di esistere, proprio perché l’esistenza, come
sua essenza, non è nessun attributo o proprietà, ma è l’esserci che
ha-da-essere: l’esistenza non è, ma ha. Essa non ha essenza, perché è
sospesa, è l’esserci che è solo come trascendenza. In questo aver-daessere si decide il rapporto alla decisione:
l’esistenza è questo: l’essere determinato all’indeterminazione, in
modo tale che, per essere ciò che è, deve decider(si). Decidendo(si)
esso si apre le proprie possibilità- ma non le apre e non vi si apre,
se non mediante quella possibilità più propria che è precisamente la
sua decisione. […] Non è un’auto-apertura, ma una onto-apertura o
meglio: l’auto- è nel modo dell’onto-, esiste anch’esso nel modo del
si (NANCY 1981, pp. 80-81).
209
L’esistenza è la trascendenza dell’esserci nella quale la distinzione
tra ente ed essere è «latente nell’esistenza dell’esserci». L’onto-apertura nominata da Nancy è proprio la distinzione in atto che costituisce la decisione d’esistenza, ovvero quella prima e inevitabile traspropriazione dell’esistenza nella quotidianità del si nella quale vi è
“latente” una pre-comprensione dell’essere, che permette a all’esserci
di appropriarsi, di “diventare” se stesso. L’esistenza è più un preludio
all’Ereignis, appropriazione/traspropriazione di uomo e essere/tempo,
che un residuo metafisico soggettivista, a partire dal quale è poi facile parlare di “decisionismo” in Heidegger, giustificando così un’altra
decisione /scelta che consegna all’oblio il motivo del fallimento e
dell’abbandono del primato dell’analitica esistenziale.
Il fallimento dell’ontologia fondamentale, infatti, alla luce di
ciò che si dice dell’esistenza, riemerge in tutta la sua urgenza e rappresenta il primo passo imprescindibile della trasformazione, mai
conquistata come definitiva ma sempre di nuovo da ri-fare, della
soggettività in esserci, una sorta di avvio alla metamorfosi che deve
portare l’esserci a divenire mortale. La decisione allora entra in atto
proprio quando il pensiero si decide per l’esperienza fondamentale
di abbandonarsi all’improprietà nella quale, innanzitutto e per lo
più, esistiamo: questo è il gesto filosofico stesso con cui s’inaugura
il progetto dell’ontologia fondamentale di Essere e tempo. In questa
decisione, che in sostanza altro non è che il lasciarsi coinvolgere dalla
domanda fondamentale della metafisica, «perché in generale qualcosa e non piuttosto nulla?» l’esistenza è assunta, e così decisa, come
l’in-differenza di una dislocazione nel mondo con gli altri, sulla base
della quale solo possiamo tornare a noi e agli altri, «solo sulla base di
questa trasposizione preliminare noi possiamo ritornare alle cose e a
noi stessi». Decidendoci a pensare, iniziando a filosofare, senza metterci a priori nelle mani un metodo, ma risvegliando il thaumazein
dell’essere al mondo, corrispondiamo a quel neutro aver-da-essere del
nostro e-sistere.
Nel 1928, in una fresca auto-interpretazione di Essere e tempo, Heidegger redige dodici tesi sul problema della trascendenza aperto in
quel lavoro, dedicando una particolare attenzione al carattere neutro
del Dasein, che affronta esplicitamente solo nelle prime sei tesi, e
210
che poi però riprende per precisare altri punti fino alla dodicesima.
Riporto la terza e parte della quarta tesi:
3. La neutralità non è la nullità di un’astrazione, quanto piuttosto la
potenza dell’origine, che porta in sé l’intrinseca possibilità di ogni
umanità fattizia concreta.
4. Questo neutrale Dasein non è mai l’esistente; il Dasein esiste ogni
volta solo nella sua concrezione fattizia. Ma è vero che il neutrale
Dasein è la fonte originaria dell’intrinseca possibilità, che sgorga in
ogni esistere e possibilizza intrinsecamente l’esistenza (HEIDEGGER
1978, p. 172).
La neutralità è la fonte del divenire possibile del con-essere-nelmondo, una volta “deciso” ad esistere, l’esistente può appropriarsi o
“lasciarsi stare” nella traspropriazione, ma l’eventuale non decidersi
non lo determina come inautentico. La neutralità dell’aver-da-esser
dell’e-sistere convoca alla decisione solo nella misura in cui esige dall’esserci l’accettazione lucida e sobria della condizione umana, il dato
di fatto di essere-nel-mondo privi di un fondamento stabile sul quale
edificare la comunità. Semmai quindi, nella decisione, ne va del lasciarsi andare dell’esserci al quotidiano e dell’assumersi il rischio di
perdersi nel livellamento del si, nella chiacchiera, consapevoli che in
esso in fondo risiede anche la possibilità di innescare la retrocessione
che sola porta l’in-essenzialità dell’esistenza a manifestarsi, innanzitutto come dato ontico-esistentivo. Queste considerazioni, insieme
ad altre che qui è impossibile argomentare, portano nella riflessione
di Nancy a proporre la lettura di un’etica originaria in Essere e tempo.
Se vi è, infatti, una neutralità dell’esistere che fa sì che esistere e decidere coincidano nell’«esistenza che vi decide in quanto pensiero»
allora esistere «in questo senso transitivo significherebbe: far avvenire, lasciar avvenire, avanti a sé, la possibilità di essere (sé)» anche
degli altri, ossia nel con-essere, lasciare che l’altro si appropri o si
tras-propri accettando anche la sua improprietà come sua esistenza
propria. Lasciare avvenire l’altro, e il sé, esige da noi la decostruzione
della soggettività comune che ha dominato l’occidente, aprendo la
comunità al possibile spazio dell’intonarsi reciproco sul proprio a
partire dall’improprio. Qui si gioca l’abbandono definitivo di ogni
211
performatività dell’agire incaricato di edificare una morale: nella scoperta dell’essenza in-essenziale dell’esserci nella quale abita la possibilità del “pensiero essenziale che è agire”, e dove quindi si annuncia
un’etica possibile solo in quanto riferita all’esistenza, proprio a quel
suo carattere neutro per lo più ci inquieta e spaventandoci ci allontana da quella «povertà dell’e-sistenza dell’homo humanus».
1
Il testo citato offre una parziale traduzione di HUSSERL 1962.
FANTASIA
di Antonio Lucci
Sono irritato dallo spettro che mi perseguita nella fantasia.
E.Husserl, Idee II
1. Premessa
Ci si può chiedere perché mai solo in una discussione filosofica o
filologica venga fatto di considerare che tra subiectum e hypokeimenon,
o tra essentia e ousìa, la traduzione sia imperfetta e le nozioni non si
ricoprano senza residui, mentre anche nel parlare più comune si distingue l’immaginazione dalla fantasia (FERRARIS 1996, p. 7)1.
Una citazione per giustificarsi. Maurizio Ferraris, in apertura al
suo trattato sull’immaginazione, difende la presa di posizione teorica
che lo spinge ad identificare fantasia e immaginazione sulla scorta di
numerose ricerche filologiche e linguistiche. O meglio lascia intendere che questa coppia di concetti andrebbero trattati insieme, come
se fossero uno, se solo «uno dei contendenti, la fantasia, tra Otto e
Novecento, non venisse consegnata senza scampo all’ambito del puramente irreale» (FERRARIS 1996, p. 12)2.
Quello di cui parla Ferraris è il problema che mi si è manifestato
212
213
al momento di cominciare una ricerca sull’uso terminologico e concettuale del termine fantasia in Husserl e sulla distinzione tra questo
e il concetto di immaginazione. La soluzione che Ferraris propone è
quella di identificare sostanzialmente i due concetti, per poi spostare
l’attenzione sull’immaginazione, riprendendo la fantasia solo dove
ritiene più opportuno per operare i necessari distinguo.
A tale soluzione vorrei affiancarne una seconda, che ha guidato il
mio lavoro, e che consiste nel tratteggiare le peculiarità della fantasia ristrettamente all’ambito di alcuni passi husserliani, tentando di
porre in relazione questa Proteusartigkeit («facoltà proteiforme», come
la definisce Husserl stesso) non tanto con l’immaginazione, quanto
con il fenomeno e il fantasma, entrambi appartenenti, come cercherò di
mostrare, alla medesima famiglia concettuale.
Tale scelta si basa sulla distinzione tra immaginazione e fantasia
che, come dice Ferraris, «è relativamente costante, ma non è coerente» (FERRARIS 1996, p. 7) e in campo fenomenologico è, se possibile,
ancor più problematica, in quanto entrambi i termini porteranno
con sé un bagaglio di polemiche e di interpretazioni divergenti tra i
vari esponenti di spicco di tale corrente filosofica3.
Basti pensare che l’interpretazione heideggeriana di Kant, punto
di rottura col maestro Husserl, è in gran parte incentrata proprio sull’analisi dell’immaginazione, e sul ruolo che questa assume nella prima
edizione della Critica della ragion pura rispetto alla seconda edizione.
Purtroppo, data la vastità dei temi che la problematica della fantasia stessa si trova a sollevare, ho ritenuto necessario sottoporre ad
una sorta di epoché il tema dell’immaginazione, per non fare ad esso
torto con una trattazione che, per forza di cose, sarebbe stata soltanto
accennata e quindi sommaria4.
2. Fenomeno(logia), manifestazione, fantasma, apparenza
Vorrei richiamare, per entrare nel vivo della tematica della fantasia, la trattazione che fa Heidegger in Essere e tempo (al par. 7 sez.
A) del termine phainomenon (dal verbo phainomai), premettendo che,
data la vastità delle argomentazioni trattate nel testo heideggeriano,
mi riferirò strettamente alla sezione del paragrafo in questione, senza
allargare la portata dell’analisi ad altri luoghi dell’opera.
Heidegger usa tre espressioni tedesche per tradurre phainomenon:
1. Phänomen, che indica il significato «autentico», primario, originario, di phainomenon, ed è da definirsi come «ciò-che-si-manifesta-in-sé-stesso» (poco più avanti è definito anche come «un modo
particolare di incontrare qualcosa»);
2. Schein, che si può rendere con «parvenza». Per Heidegger tale
significato è fondato su quello originario di Phänomen (inteso come
«ciò-che-si-manifesta-in-sé-stesso»), ma assume la forma «privativa» di «possibilità che l’ente si manifesti come ciò che esso in sé
stesso non è»;
3. Erscheinung reso con «apparenza», anch’esso per Heidegger si
fonda sul significato originario di Phänomen sopra indicato. È questo
il termine la cui definizione dà più problemi a Heidegger (probabilmente per la pesante eredità che porta con sé, in quanto è il termine
usato da Kant per definire ciò che quest’ultimo chiama «fenomeno»).
Come tenterò di mostrare il suo significato in questo paragrafo non
è univoco, bensì molteplice. Esso è l’annunciarsi di qualcosa che non
si manifesta mediante qualcosa che si manifesta (possibile solo sul
fondamento del manifestarsi di qualcosa). A partire da ciò Heidegger
segnala tale molteplicità di significati del termine:
a. L’apparire nel senso dell’annunciarsi come non manifestarsi.
b. L’annunciante che nel suo manifestarsi indica qualcosa di nonmanifestantesi.
c. Il fenomeno come automanifestazione (dunque nel suo senso “originario”).
d. Il prodotto di qualcosa mai manifestabile per essenza.
Thunder,First Apparition, an Armed Head 5
Dopo le chiarificazioni iniziali, riprendendo un motto husserliano, «alle cose stesse!».
214
A partire da quest’ultimo significato Erscheinung assume il significato di «semplice apparenza» in cui l’annunciante manifesta sé stesso
in modo tale che, in quanto emanazione di ciò che annuncia, si vela
215
costantemente in sé stesso. Qui l’Erscheinung trapassa nello Schein,
nella parvenza. Secondo Heidegger, Kant usa il termine Erscheinung
in questa duplice significazione per indicare, da una parte ciò che si
manifesta nell’intuizione empirica, dall’altra l’annunciante emanazione di qualcosa che nell’apparenza si nasconde.
Come appare subito evidente, la filiazione di Phainomai è più che
mai incerta, complessa, continuamente cangiante.
Ciò che vorrei evidenziare è come a tutti i termini trattati, pur
nelle loro differenze specifiche (enormi dal punto di vista teoretico),
siano comuni almeno due aspetti fondamentali: il carattere di manifestatività e il riferimento ad un qualcosa che si manifesta.
Sono questi i caratteri derivati da Phainomai che, a mio parere
vanno tenuti presenti anche rispetto alla caratterizzazione del termine fantasia (nell’accezione che intendo evidenziare in questa sede).
Poiché questi sono allo stesso tempo i tratti comuni a un altro termine che desidero lasciare sempre collegato alla fantasia, e che appartiene alla stessa famiglia semantica: il fantasma.
Per una chiarificazione etimologica lascio la parola a Jacques
Derrida: «Le produzioni “fantasmatiche” (fantasme), lo “spettro” e il
“fantasma” (fantôme) hanno un riferimento etimologico alla visibilità,
all’apparire alla luce» (DERRIDA-ROUDINESCO 2001, p. 219, n. 30).
Concludendo invito quindi, alla luce delle due linee guida della
manifestatività e del riferimento a qualcosa che si manifesta, a pensare come
collegati i concetti di fenomeno, fenomenologia, fantasia, fantasma.
3. La fantasia di Husserl (considerazioni preliminari)6
Thunder. Second Apparition, a Bloody Child7
Vorrei cominciare a parlare della fantasia in Husserl premettendo
che cercherò un filo rosso tra tre opere: Per la fenomenologia della coscienza
interna del tempo, Idee I, II e III. Questo per evidenziare in particolare:
1. Il legame fantasia/temporalità che (in polemica con Brentano)
struttura la riflessione di Husserl a partire dal primo decennio del
’900.
216
2. Il rimando tra la nozione di neutralizzazione e quella di fantasia
in Idee I.
3. La connessione della tematica della fantasia col problema LeibKörper in Idee II.
4. La ripresa del ruolo della fantasia in Idee III.
4. La trattazione della fantasia in Per la fenomenologia della coscienza
interna del tempo
La prima sezione di tale testo consiste nella trascrizione (a cura di
Edith Stein) di un corso di Husserl del 19058. Innanzitutto si può
cominciare col rilevare che tutta la sezione I (par 3-6) è composta
dalla critica alla concezione della temporalità in Brentano (che fu
maestro di Husserl).
Il discrimine tra i due è, a mio parere, proprio il ruolo della fantasia.
Per Brentano, dice Husserl, data una sensazione (per esempio un
suono), scomparso lo stimolo che la produce, questa genera da sé una
rappresentazione simile dotata di una connotazione temporale determinata che si altera progressivamente (dando perciò la sensazione
della successione).
Lo stimolo produce dunque il contenuto di sensazione presente
(se dilegua uno dilegua anche l’altro). La sensazione si fabbrica una
rappresentazione di fantasia di uguale (o quasi) contenuto arricchita
del carattere della temporalità. A questo punto il ruolo della fantasia diventa produttivo. Tale rappresentazione di fantasia infatti ne
genera un’altra che a sua volta si aggancia alla prima, e così via. Sulla
base del passato la fantasia costruisce anche la rappresentazione del
futuro. Questa teoria è detta da Brentano «teoria dell’associazione
originaria».
Husserl conclude l’esposizione della teoria del tempo di Brentano
ricordando che per questi le specie temporali di passato e futuro non
definiscono, ma alterano gli elementi delle rappresentazioni sensibili
con cui si legano. Invece il presente non altera (ma neppure definisce).
Il par. 6 della sez. I espone le critiche di Husserl a Brentano.
217
Esse sono incentrate, per la maggior parte sul ruolo della fantasia. La
critica di Husserl parte proprio dalla base della concezione brentaniana del tempo, ossia dalla «teoria dell’associazione originaria». Per
Husserl Brentano non distingue tra percezione di tempo e fantasia di
tempo, riducendo la prima alla percezione dell’“ora” attuale, mentre
la seconda è vista all’origine di tutte le altre rappresentazioni temporali (ritenute invece da Husserl notevolmente differenti tra loro)9.
Citando Husserl:
Se l’intuizione originaria del tempo è un prodotto della fantasia, che
cosa distingue allora questa fantasia di temporale da quella in cui è
consaputo un temporale anteriormente passato, il quale dunque non
rientra nella sfera dell’associazione originaria, non è saldato in una
coscienza con la percezione istantanea, ma lo era stato con la percezione passata? (HUSSERL 1966a, p. 54).
Da tale critica la concezione brentaniana dell’«associazione originaria» sembra essere minata alla base. Le critiche successive di Husserl si fondano proprio su questa prima, proseguendo la critica della
fantasia in Brentano, e sono riconducibili alle seguenti due istanze:
L’esser presente di un A nella coscienza, con in più l’annessione di un
nuovo momento [che è un momento di fantasia], e chiamiamolo pure
momento del passato, non basta a spiegare la coscienza trascendente
“A è passato” […] Assai dubbio è anche il tentativo di trattare qualcosa di passato come un non effettivo, un non esistente. Un momento
psichico [di fantasia] aggiunto non può certo fare irrealtà, eliminare
un esistente presente (HUSSERL 1966a, pp. 55-56, corsivi miei).
Il perché di queste violente critiche di Husserl alla concezione
della fantasia di Brentano è evidentemente legato al ruolo del tutto
differente che gli attribuisce in questo luogo.
Per Husserl (in questo testo) la fantasia, pur se collegata ai processi
costitutivi della temporalità, non è (né tanto meno crea) un processo
temporale. Anzi è spesso usata da Husserl come termine di paragone
(in negativo) per evidenziare le peculiarità delle fasi temporali.
Essa (per esempio nel par. 17) ci dà quasi (e questo quasi è il nucleo
218
fondamentale dell’argomentazione) la coscienza dell’atto, ma non la
dà mai nel modo della presentazione, ma sempre in quello della presentificazione (dunque non originariamente). E, proprio accostata
alla presentificazione del ricordo secondario, serve a distinguere questo dalla ritenzione. Mentre la ritenzione la dà nell’originale:
Presentificazione è l’opposto di atto offerente nell’originale, nessuna
rappresentazione può “scaturire” da essa. In altri termini, la fantasia
non è una coscienza che possa porre una qualche obbiettività […]
come dato in sé stesso. Non dare nell’originale è proprio l’essenza
della fantasia” (HUSSERL 1966a, p. 78).
Poco sotto Husserl porrà la paradossale situazione per cui la fantasia non può ricavare da sé stessa neanche il proprio concetto, infatti
per la produzione di questo è necessaria una percezione che la fantasia
non può dare.
Se nel par. 19 Husserl usava la fantasia appaiata alla rimemorazione per evidenziare le peculiarità di questa rispetto alla ritenzione,
egli dedica tutto il par. 23 a separare rimemorazione e fantasia.
Il discrimine è ricondotto al fatto che, se nella rimemorazione
l’“ora” riprodotto è posto, ed in relazione sia con l’“ora” attuale che
con la sfera del campo temporale originario (a cui l’ora riprodotto
appartiene), nella fantasia non è data alcuna posizione dell’“ora” riprodotto, né alcuna coincidenza di esso con un passato.
La problematica ambiguità della nozione di fantasia in questo testo traspare anche dal fatto che tutta l’Appendice II dell’opera in
questione è dedicata proprio alla «Presentificazione e fantasia. Impressione e immaginazione». Qui si dice:
Quando si dice fantasia, e precisamente fantasia di un oggetto, tutti
sanno che l’oggetto appare in una apparizione e che questa apparizione è di quelle che presentificano, non di quelle che presentano.
[…] Ogni presentificazione intuitiva di qualcosa d’oggettuale lo
rappresenta fantasticamente. Essa «contiene» una apparizione fantastica di questo qualcosa (HUSSERL 1966a, p. 126).
In seguito Husserl definisce l’apparizione di fantasia come una
219
«modificazione (modificazione presentificante) della corrispondente
apparizione percettiva» (HUSSERL 1966a, p. 126); anche se «ovviamente, non in base ai modi qualitativi, alle modalità della presa di
posizione che, anzi, restano fuori causa» (HUSSERL 1966a, p. 127).
Husserl continua:
Chiamiamo l’apparizione percettiva, […] apparenza (Apparenz) […]
d’altra parte dobbiamo anche distinguere tra “apparenza” impressionale ( “apparenza” di sensazione) e “apparenza” immaginativa la quale
ultima, dal canto suo, può essere contenuto di un ricordo, di un’illusione entro un ricordo, e simili (HUSSERL 1966a, p. 127)10.
Ritengo sia importante riportare per intero la conclusione dell’appendice:
Quindi, ogni “coscienza” ha o il carattere della “sensazione” o quello
del “fantasma”. Ogni coscienza, ogni “sensazione” nel senso più lato
del termine, è appunto qualcosa di “percepibile” e “rappresentabile”, rispettivamente, qualcosa di ricordabile, in ogni maniera esperibile. Abbiamo però, sempre di nuovo, una coscienza che ha il suo
possibile corrispettivo nel “fantasma” (HUSSERL 1966a, p. 128).
Questa considerazione (enigmatica in sé e nei confronti delle precedenti affermazioni fatte da Husserl) consente di poter affermare
che la problematica della fantasia resta, in questo testo, aperta, aleggiante, “senza patria” (heimatlos), fantasmatica.
5. Fantasia e neutralizzazione in Idee I
Nel primo volume di Idee il problema della fantasia viene collegato a quello della modificazione di neutralità (o neutralizzazione).
Mi riferirò in particolare ai par. 111 e 112, perché in essi è possibile
tracciare una linea di continuità con le affermazioni conclusive dall’Appendice II alle lezioni del 1905 di cui ho trattato poco sopra.
Qui Husserl, parlando della fantasia come di «una modificazione di
neutralità che, nonostante sia di tipo particolare, ha un significato
220
universale ed è applicabile a tutti i vissuti» (HUSSERL 1950c, p. 272),
riprende l’affermazione secondo la quale «abbiamo però, sempre di
nuovo, una coscienza che ha il suo possibile corrispettivo nel fantasma» (HUSSERL 1966a, p. 128), specificando però che questa «deve
essere distinta in questo contesto dalla modificazione generale di
neutralità con le sue molteplici formazioni corrispondenti a tutte
le specie di posizione» (HUSSERL 1950c, p. 272). Anche in questo
caso Husserl si comporta nei confronti della fantasia come aveva fatto precedentemente: essa viene usata come termine di paragone per
chiarificare determinati concetti (qui quello di neutralizzazione), ma
viene privata di una definizione, oserei dire di uno statuto proprio,
di una sua ipseità.
Più avanti la fantasia viene definita come «modificazione di neutralità dei ricordi della coscienza originaria di un vissuto», come «ricordo
neutralizzato». Qui si può vedere un cambiamento rilevante rispetto
alle lezioni del 1905 sul tempo.
È inoltre interessante rilevare come Husserl definisca il concetto di neutralizzazione mediante un esempio descrittivo della celebre
incisione del Dürer Il cavaliere, la morte, il diavolo. Per descrivere la
modificazione di neutralità Husserl difatti prima definisce:
1. la cosa “calcografia” (correlato della percezione);
2. le linee nere che manifestano le piccole figure senza colore (oggetto
della coscienza percettiva);
3. per poi giungere alla neutralizzazione (in questo caso della percezione), che egli definisce:
La coscienza dell’“immagine” che procura e rende possibile la raffigurazione (cioè la coscienza delle piccole figure grigie, in cui grazie alle noesi fondate si “presenta in maniera raffigurativa”, in virtù
della somiglianza, un’altra cosa) […] Questo obiectum-immagine che
raffigura qualcos’altro non sta dinnanzi a noi né come esistente né come
non esistente né in qualunque altra modalità posizionale; o piuttosto, è
dato alla coscienza come esistente, ma come esistente-per-così-dire,
sottoposto alla modificazione di neutralità dell’essere. […] Lo stesso
vale anche per ciò che è raffigurato, se noi ci manteniamo in un atteggiamento puramente estetico e lo prendiamo come “mera immagine”,
senza imprimergli il marchio dell’essere o del non essere, dell’esse221
re-possibile o dell’essere-congetturabile, ecc. Ma ciò non significa,
come è evidente, alcuna privazione, bensì una modificazione, quella
appunto della neutralizzazione (HUSSERL 1950c, p. 274).
Qui dunque la neutralizzazione è definita in un legame con la fantasia, in una sospensione (potremmo chiamarla una particolare epoché) della credenza nella modalità posizionale di ciò che è raffigurato.
In un movimento che, come ho sottolineato, è compiuto più volte,
Husserl fa seguire a un paragrafo in cui la fantasia è accostata a una
particolare modalità (nelle lezioni sul tempo, per esempio, quella riproduttiva, qui invece si tratta della neutralizzazione), un altro in cui
essa viene separata da ciò a cui precedentemente era stata avvicinata.
Il paragrafo successivo (112) comincia infatti proprio col sottolineare
la differenza fondamentale che vi è tra neutralizzazione e modificazione di fantasia, riconducendola alla iterabilità della seconda e alla
non-iterabilità della prima.
Husserl poi ribadisce una convinzione che gli è propria fin dagli
anni che precedono il corso del 1905:
Si dovrebbe innanzitutto comprendere che qui siamo in presenza di
una differenza che concerne la coscienza, che quindi il fantasma non è
un dato di sensazione illanguidito, ma è per sua essenza fantasia del
corrispondente dato di sensazione; inoltre, che questo “di” non può
derivare da nessuna, per quanto copiosa, estenuazione dell’intensità,
della pienezza di contenuto, ecc., del corrispondente dato di sensazione (HUSSERL 1950c, p. 275).
Husserl conclude questa trattazione della fantasia (nonché del suo
rapporto con la modificazione di neutralità in Idee I) con una frase che
lascia stupiti, e che, a mio parere, lascia aperti molti interrogativi:
«C’è qui un baratro che l’io puro può superare solo nella forma essenzialmente nuova dell’agire realizzatore e della creazione» (HUSSERL
1950c, p. 275).
Credo che questa frase lasci adito a una molteplicità di interpretazioni, e che metta in gioco una porzione importante delle considerazioni fin qui fatte sulla fantasia. Di che baratro si tratta? Di che
«agire realizzatore» parla Husserl?
222
Non si può forse parlare di un richiamo husserliano alla praxis
dell’agire storico, in quanto ritengo che tale tematica appartenga a
un periodo posteriore a quello di Idee, e anche perché qui Husserl
parla ancora di “io puro”… ma allora di quale agire si tratta? Forse
che la creazione propria della fantasia possa permettere (grazie alla
infinità della sua iterabilità) di superare il baratro che inibisce la modificazione di neutralità (rinchiusa nell’obbligatorietà del passaggio
dalla fantasia alla corrispondente percezione), verso l’ideale di una
fenomenologia più vicina all’eidetico? Ciò potrebbe esser effettuato
grazie al fantastico?
Ovviamente questa è solo una proposta interpretativa, che lascia
aperte tutte le vie che questo difficile passaggio husserliano rende
percorribili.
Per avvalorare la mia ipotesi mi sia solo permesso di riportare un
passo di Derrida, in cui si parla di immaginazione, ma in cui credo
che egli si riferisca a tale termine con l’ambiguità che lo denota in
Husserl, il quale a volte lo lega (come ho accennato in apertura) fino
alla fusione e alla confusione al termine fantasia:
L’accesso all’origine dell’idealità sensibile, prodotto dell’immaginazione, esigerebbe dunque anche una tematizzazione diretta dell’immaginazione come tale. Ora, quest’ultima, il cui ruolo operatorio è
nondimeno così decisivo, non sembra essere mai stata sufficientemente interrogata da Husserl. Essa conserva uno statuto ambiguo:
potere riproduttivo derivato e fondato, da un lato, essa è, dall’altro,
la manifestazione di una libertà teoretica radicale. Essa fa sorgere
in particolare l’esemplarità del fatto e libera il senso del fatto dalla
attualità del fatto. Presentata nella Krisis come una facoltà omogenea alla sensibilità, essa è simultaneamente ciò che strappa l’idealità
morfologica alla pura realtà sensibile. È cominciando col tematizzare
direttamente l’immaginazione come un vissuto originale nella sua situazione, con l’ausilio dell’immaginazione come strumento operatorio
di ogni eidetica, è descrivendo liberamente le condizioni fenomenologiche della finzione, dunque del metodo fenomenologico, che la
breccia sartriana ha così profondamente squilibrato, poi sconvolto
il paesaggio della fenomenologia husserliana e abbandonato il suo
orizzonte (DERRIDA 1962, p. 184, n. 185).
223
6. La fantasia, il corpo proprio, lo spettro
Per avvalorare la tesi espressa precedentemente, evidenziando
come venga sviluppata nella serie di scritti che sono andati a comporre il secondo volume di Idee, ritengo sia opportuno partire dal par.
10 di tale opera (che non a caso si intitola Cose, fantasmi dello spazio e
dati di sensazione).
Qui Husserl parla del mero fantasma spaziale visivo come di una
pura forma riempita di colore priva di qualsiasi relazione coi dati tattili, sensoriali e della “materialità” (ossia con le determinatezze di
ordine reale-causale). Husserl per fare un esempio di fantasma parla
di oggetti spaziali che non sono cose. La frase successiva di Husserl
sembrerebbe avvalorare l’ipotesi che ho paventato alla fine del paragrafo precedente:
L’analisi ci porta sempre più indietro, e alla fine ci troviamo di fronte
a oggetti sensoriali in un altro senso, a oggetti che stanno alla base di
tutti gli oggetti spaziali e quindi anche di tutti gli oggetti-cose che
rientrano nella realtà materiale (ciò, naturalmente, in senso costitutivo), e che ci rimandano a loro volta a certe sintesi ultime; sintesi
però che vengono prima di qualsiasi tesi (HUSSERL 1952a, p. 26).
Le sintesi a cui rimanda Husserl ritengo siano quelle che verranno
trattate nelle Lezioni sulla sintesi passiva11. Il fantasma, il prodotto
della fantasia, sembra essere qui il punto più alto raggiungibile dalla
riduzione all’eideticità del campo materiale, punto oltre il quale vi
è una sorta di trapasso (e sarebbe interessante cercare quanto vi sia di
dialettico in questo trapasso) nella costituzione più originaria propria
di quelle sintesi ultime che vengono prima di qualsiasi tesi.
Husserl, al termine del paragrafo accenna poi alla ulteriore riconducibilità di tali oggettualità ad oggetti primitivi, ossia quelli che si
costituiscono nella coscienza originaria del tempo, senza approfondire l’affermazione12.
Ciò che mi preme sottolineare ulteriormente qui è come sia aumentata notevolmente l’importanza della fantasia nella dinamica del
discorso husserliano, e come ciò sia coinciso con un lieve slittamento
224
semantico che porta a parlare sempre più di fantasmi. Ma l’ambiguità
che era propria della trattazione della fantasia è portata con sé anche
dal fantasma. Esso è indicato da Husserl al contempo come:
1. mera illusione di cosa
2. schema sensoriale necessario alla datità di una cosa qualsiasi, che
però non ci permette di pronunciarci sulla sua realtà.
Su tale seconda accezione intendo soffermarmi per evidenziare
l’importanza che ha raggiunto nel pensiero husserliano (mi riferisco
in particolare al cap. II par. 15-16 di HUSSERL 1952a). Citando Husserl stesso:
Ma anche qui è chiaro che non si dà nulla che non possa darsi come
un puro “fantasma”. Anche i fantasmi (nel senso illustrato di una
pura datità priva dello strato di apprensione della materialità) possono essere fantasmi che si muovono, che si deformano, che si modificano qualitativamente, nel colore, nella lucidità, nel suono, ecc.
Anche qui dunque la materialità può essere co-appresa e tuttavia
non data. A questo punto dobbiamo espressamente sottolineare che
il concetto di schema (di fantasma) non si limita affatto ad una sfera
sensoriale (HUSSERL 1952a, p. 42).
Come si può ben vedere l’affermazione con cui si apre la citazione
di Husserl rende paradigmatico il ruolo del fantasma, che poco più
avanti (in una sorta di riproposizione del cartesiano dubbio iperbolico)
verrà dichiarato indiscernibile da una cosa materiale.
Le veci del Dio cartesiano verranno in Husserl prese in carico dalla coerenza con l’orizzonte materiale (che manca al fantasma) e con le
circostanze, la cui apprensione, unita a quella del fantasma-schema,
ci dà la proprietà stessa.
È da sottolineare come Husserl appena oltre utilizzi per descrivere
il modo in cui lo schema (dunque il fantasma) si rapporta ad una proprietà reale l’espressione originäre Bekundung (annunciarsi originario).
Le analisi del celebre capitolo III di Idee II sono dedicate al corpo
proprio ed alla distinzione tra corpo vivo (Leib) e mero corpo (Körper). Ma
non essendo questo il luogo per approfondire queste problematiche
di tale importanza per tutto il proseguo della fenomenologia, mi li225
mito a riportare due citazioni, funzionali a questa indagine sulla fantasia. Richiamando le parole di Husserl tenterò di evidenziare come
sia costitutivo l’inserimento della fantasia nell’ambito della psyche,
e necessariamente il suo collegamento al corpo proprio:
È noto che la psiche dipende dal corpo vivo e perciò dalla natura fisica e dalle sue numerose relazioni. Innanzitutto, questa dipendenza
sussiste per quanto riguarda le sensazioni […] inoltre anche per le
relative riproduzioni; l’intera vita di coscienza è investita da questa dipendenza, già per il fatto che ovunque le sensazioni e le riproduzioni
di sensazioni (fantasmi) svolgono un certo ruolo. Non è necessario
considerare qui la misura in cui la dipendenza, al di là di questa
mediazione, entra in linea di conto per i multiformi fenomeni di
coscienza; in ogni modo, per la vita psichica, esistono ampie dipendenze “fisiologiche” che in certo modo investono tutti i processi di
coscienza (HUSSERL 1952a, p. 138).
Come appare evidente da questa citazione lo psichico tutto, che
qui evidentemente assieme alla fantasia coincide con il coscienziale,
è ricondotto alla problematica del Leib. Occorre rilevare che però qui
si torna a parlare di fantasmi, intendendo con ciò riproduzioni di sensazioni (e non più schemi, come poco prima). Come in Idee II la fantasia,
trasformatasi in fantasma, resta perciò aleggiante, poco definita, fantasmatica nella sua stessa essenza.
Vorrei chiudere la trattazione del fantasma-fantasia in Idee II riportando una argomentazione che Husserl indica come riprova della
necessità dell’interdipendenza fisico-psichico, che ha del curioso nella scelta dell’esempio, e che al contempo può considerarsi come paradigmatica di un passaggio che tenterò di descrivere e osservare più
avanti: quello dal fantasma allo spettro (allo spirito, al revenant, ma
vedremo che in quest’ultimo caso il passaggio sarà più problematico
di quanto non si immagini) operato da Derrida.
Riportiamo qui di seguito le parti fondamentali dell’argomentazione husserliana:
Persino lo spettro ha necessariamente un corpo vivo spettrale. Certamente, quest’ultimo non è una cosa reale e materiale, la materialità
226
che si manifesta è un inganno, ma proprio per questo è un inganno
anche la sua psiche e lo spettro nel suo insieme. […] Ma questa necessità è soltanto di ordine empirico. In sé sarebbe pensabile il caso
(e in questo modo avremmo un vero spettro) di un essere psichico
reale per quanto privo di un corpo vivo materiale, […] uno spettro
è caratterizzato dal fatto che il suo corpo vivo è un puro “fantasma
spaziale”, privo di qualsiasi proprietà materiale […] Un soggetto
psichico è sì pensabile come privo di un corpo vivo materiale, […]
ma che non è pensabile privo di un corpo vivo in generale. Se l’essere
psichico dev’essere, se deve poter avere un’esistenza obiettiva, devono
essere soddisfatte le condizioni di possibilità di una datità intersoggettiva
(HUSSERL 1952a, pp. 98-100).
Rilevo infine che una nota a tali considerazioni dello stesso Husserl parla dell’importanza (spesso trascurata) della voce (prima che
dell’immagine visiva) nella costituzione dell’alter. Ci si potrebbe
allora interrogare (come fa Derrida ad esempio in Spettri di Marx)
sul ruolo della voce nell’apparizione spettrale, sull’importanza del
messaggio dello spettro, che lo spettro sempre porta, o ri-porta (si
pensi allo spettro del padre che compare ad Amleto chiedendo vendetta).
7. Fantasia, fantasia “distruttrice”, finzione immaginativa in Idee III
Desidererei concludere la trattazione della fantasia in Husserl
con alcune considerazioni presenti in Idee III, volte a mostrare come
anche qui il concetto di fantasia non sia assolutamente definito, anzi
designi realtà opposte, meritando il nome di «facoltà proteiforme»
che Husserl gli aveva affibbiato nel periodo precedente le lezioni del
1905.
Nel par. 7 Husserl presenta la possibilità di spingere ai limiti la
fantasia quasi con una vena di orrore: «Procedendo in questo modo,
liberamente, la fantasia produce incredibili aborti, mostri, folli spettri delle cose che irridono a tutte le leggi della fisica e della chimica»
(HUSSERL 1952b, p. 406). Per poi tentare una “riappacificazione” con
la fantasia notando che, comunque: «Il sistema delle parti della no227
stra fantasia mantiene sempre certe regole» (HUSSERL 1952b, p. 406).
Eppure i timori di Husserl permangono:
Se procediamo con un eccesso di libertà, se non rispettiamo la relazione essenziale delle proprietà reali con le circostanze reali, se non
facciamo in modo che la nostra fantasia ordini le sue formazioni
in modo tale da consentire il mantenimento di questa relazione, la
cosa si scompone in una molteplicità di fantasmi (schemi sensibili)
in molteplicità che si sviluppano esattamente nel modo in cui non
possono e non devono svilupparsi quelle molteplicità che costituiscono le cose reali. […] Se la fantasia, valicando tutti gli argini fa
deflagrare questi ordini, non soltanto trasforma un singolo schema
in un “mero fantasma”: l’intero mondo diventa un flusso di meri
fantasmi e quindi non è più natura (HUSSERL 1952b, pp. 406-407,
corsivo mio).
Per poi (sembrerebbe) placarsi:
Anche per il mondo dei meri fantasmi vale la dottrina pura del tempo e la geometria pura; ma questo mondo è privo di qualsiasi fisica.
[…] Abbandoniamo ora questo mondo di fantasmi. Mettiamo un
freno alla nostra fantasia (HUSSERL 1952b, p. 407).
Poche pagine più avanti Husserl parlerà di variazione fantastica,
indicando come questa non debba spacciarsi per la distruttrice del
mondo, perché essa crea sempre un mondo, sia pure secondo infinite
possibilità. Ciò a condizione (imprescindibile) che sia tenuta ferma
almeno una percezione iniziale e la sua legittimità. Addirittura egli
arriverà ad affermare:
In linea di principio le fantasie intuitive possono servirgli [al fenomenologo] quanto le percezioni ed è nella natura della cosa il fatto
che il suo pensiero essenziale sia guidato in larghissima misura dalla fantasia. Soltanto la fantasia, per la sua libertà di riplasmazione,
gli fornisce la possibilità, a lui come a qualsiasi indagatore delle
essenze, di percorrere liberamente onnilateralmente, l’infinita molteplicità di possibilità, qui di possibilità di vissuti (di intravedere
in modo evidente le generalità che obbediscono a leggi essenziali
228
e di affrontare problemi come quelli della costituzione del reale in
generale). D’altra parte, però, la fantasia offre i ben noti svantaggi.
Anche quando è chiara non ha una consistenza durevole, perde ben
presto la sua pienezza, scade nell’indistinto e nell’oscuro. […] Se la
fantasia si rifiuta di farci questo piacere, di fornirci intuizioni chiare,
noi otteniamo l’intuizione mediante la percezione e rendiamo così
possibile una fantasia viva, liberamente riplasmante, che alla percezione si rifà (HUSSERL 1952b, pp. 426-427).
Quindi l’importante ruolo della finzione immaginativa è definito in
rapporto a una percezione iniziale che funziona come punto fermo,
da cui poi partire per raggiungere un grado superiore di eideticità
grazie a una progressiva variazione.
È questa la pacificante conclusione sulla fantasia a cui arriva Husserl in Idee III.
Eppure qui ritengo vi sia la necessità di fare un passo indietro.
Perché Husserl parla di aborti, mostri, folli spettri? Cos’è che lo spaventa così tanto?
A mio parere è una possibilità intrinseca alla fantasia stessa, e di
fronte cui Husserl ha deviato, timidamente, o meglio, con orrore, lo
sguardo fenomenologico: la possibilità di una fantasia senza aggancio
percettivo, che non si possa trasformare tranquillamente in finzione
ri-plasmatrice (il potere della fantasia viene annientato dal ri-).
Husserl rileva la necessità di abbandonare questo mondo di fantasmi,
di mettere un freno alla fantasia. Perché? Perché abbandonare quella
che, forse, è la possibilità più propria della fantasia, ossia di plasmare
liberamente dall’aggancio percettivo?
Forse siamo di fronte a uno di quei punti in cui la fenomenologia
incontra le problematiche psicanalitiche, e con esse i propri limiti?
Lascio, come è necessario in questi casi, la questione aperta, o
meglio, en retour.
E lascio anche Husserl, per concludere con la proposta di Derrida,
che su tale questione diverge vistosamente dal maestro della fenomenologia, avendo attraversato gran parte della propria vita filosofica (e
forse non solo) senza indietreggiare di fronte allo stretto “contatto
con i fantasmi”.
229
8. Il fantasma e la campana a morto
Thunder. Third apparition, a Child crowned, with a tree in his hand 13
L’opera in cui è affrontata in modo più capillare la questione del
fantasma è senz’altro Spettri di Marx; ma, prima di occuparci di questo
scritto del 1993, vorrei focalizzare l’attenzione su un testo anteriore:
Glas (che uscì in Francia nel 1974), per evidenziare come questa tematica fosse già presente da tempo nel pensiero filosofico di Derrida.
Nella sua sperimentazione (sia a livello formale, sia a livello argomentativo) quest’opera tratta di una vasta gamma di problematiche a partire dagli spunti offerti da due autori come Jean Genet e
Hegel14. Ovviamente non è possibile neanche accennarle in questa
sede, ma vorrei comunque riportare alcuni stralci dell’argomentazione derridiana, ed in particolare il punto del testo in cui si parla
dell’immacolata concezione (IC), del Sapere Assoluto, e della verità.
L’interlocutore qui è Hegel.
Il concetto corrente di “fantasma” può, con una qualche pertinenza, dominare il discorso? Quello è infatti determinato da questo, a
partire dal discorso. Per esempio, sarebbe fantasmatico l’effetto di
dominio prodotto dalla determinazione della differenza nell’opposizione (e fino al valore del dominio stesso), della differenza sessuale
nell’opposizione sessuale di cui ogni termine si assicurerebbe dominazione e autonomia assoluta nell’IC: l’effetto-il figlio (piuttosto
che la figlia) mi ritorna completamente solo. Il fallimento di un tale
desiderio di ritorno a sé, sopra il circolo della doppia verginità, sarebbe questo il limite del fantasma, che determina il fantasma come
tale, al termine della fenomenologia dello spirito. Il fantasma è il
fenomeno. I nomi lo indicano (DERRIDA 1974, p. 1018).
Già qui il fantasma è carico di rimandi a molte delle problematiche che occuperanno la riflessione derridiana successiva, tra le quali
emergono:
1. Il rapporto discorso-fantasma, nel quale il secondo si struttura a partire dal primo, diventandone così il luogo (infestato, hanté,
haunted) di manifestazione
230
2. Il legame fantasmatico che struttura la differenza sessuale e il
legame che unisce questa col desiderio.
3. Il rapporto che c’è nella religione (in particolare, qui, quella
cristiana) con la sessualità, e lo sfondo di rimozione che struttura
questo rapporto.
4. L’analogia, qui spinta addirittura fino all’identità, tra fantasma
e fenomeno. Qui si parla di una fantasmaticità legata inscindibilmente al concetto di manifestazione e fenomenologia, come avevamo
tentato di evidenziare all’inizio, a partire da Heidegger.
È quindi rilevante notare come in questo testo, per Derrida, vi sia
uno stretto rapporto tra le problematiche più complesse della filosofia
(nel caso esaminato quella hegeliana) e il fantasma. Anche se esso, a
questo livello della riflessione derridiana, non ha ancora raggiunto il
valore teoretico che gli sarà riconosciuto in seguito (e forse è per questo che è ancora più emblematico di una realtà sfumata, aleggiante e
spaventosa), possiede già tutti i caratteri riconducibili a quel concetto
corrente di fantasma a cui Derrida si richiama all’inizio della citazione
sopra riportata. Poco più avanti (ma terrei a sottolineare che questa
frase è da considerarsi solo a livello di spunto, perché strettamente
collegata a un contesto che qui non si può riportare) Derrida scriverà:
«La verità è il fantasma stesso» (DERRIDA 1974, p. 1022). È evidente
come non si possa sottovalutare l’importanza di questa frase all’interno dello sviluppo del pensiero derridiano (anche se qui riferita ad
un contesto specifico).
Le considerazioni svolte possono essere una buona introduzione al
modo in cui la problematica del fantasma è affrontata in Spettri di
Marx, nonostante l’inevitabile rammarico dovuto alla consapevolezza
che questi brevi accenni non rendono giustizia a un’opera come Glas.
9. Il fantasma, lo spettro, lo spirito, il revenant
In Spettri di Marx il discorso sullo spettro struttura tutta la riflessione derridiana. La posta in gioco è tra Marx e Amleto, dunque non
strettamente fenomenologica. Eppure ritengo che lo spettro, come
231
ultima metamorfosi della fantasia, giochi un ruolo di un’importanza
fondamentale proprio a partire dal retaggio fenomenologico che lo
accompagna, inscritto nell’uguaglianza fantasma=fenomeno.
Innanzitutto vorrei rilevare che in quest’opera: fantasma, concetto di fantasma, di spettro, di revenant, vengono spesso appaiati,
fusi, diffusi, effusi, confusi, in catene semantico-concettuali che non
presentano grosse differenziazioni tra questi termini che, nel loro
alone costitutivamente indefinito, sfumano l’uno nell’altro15. Eppure, come tenterò di mostrare, già qui è presente germinalmente una
distinzione che diverrà molto importante per Derrida legandosi alle
riflessioni sulla responsabilità e sulla giustizia.
Procedendo per ordine vorrei indicare quali sono i rapporti che
strutturano la presenza fantasmatica all’interno del testo in questione: uno di questi è sicuramente quello con la techne, l’altro, al primo
strettamente collegato, è con la politica.
Derrida parla di uno spazio «tecno-tele-discorsivo-iconico-mediatico» che non è né presente né assente, bensì spettralizza, rientrando
non in una ontologia ma in una hantologie intesa come qualcosa che
trasforma ciò che interpreta. Dunque è proprio dei media il non basarsi su qualcosa di oggettivo per riferirlo, ma di trasformare ciò che
riportano, al limite, di ribaltarlo.
La verità non è quella dei fatti, ma quella della televisione: «La
verità è il fantasma stesso» (DERRIDA 1974, p. 1022).
Il medium spettrale della televisione ci ossessiona con i suoi fantasmi, tanto più reali quanto più colorati. È curioso che Husserl,
quando parla di fantasmi percettivi parla sempre del fantasma del
colore rosso. Sorge automaticamente il ricordo del racconto La maschera della morte rossa, che poi è quella di tutti i fantasmi che vengono
sbattuti dai giornali, tele-giornali, tecno-giornali, ogni momento in
prima pagina. La nostra giornata è popolata di questi spettri di colore rosso sangue, a cui non facciamo neanche più caso. Ed è indicativo
che Derrida parli di un non sfuggire a una responsabilità nella stessa
pagina di queste riflessioni16.
Il secondo aspetto dello spettro che vorrei qui analizzare, tra i tanti, è quello legato all’evento. Ne vorrei parlare riguardo alla polemica
che Derrida conduce nei confronti di Fukuyama.
232
Quest’ultimo parla di una “buona novella” dello stato liberale
che, realizzatasi in potenza come idea, aspetta solo la sua empirica
onnicomprensiva attuazione. Parla di uno stato assoluto e perfetto
già realizzato perché realizzato in potenza. Derrida non ci sta. Non
accetta la buona novella di questo presunto quinto evangelista. E a
mio parere giustamente.
Nel momento in cui certuni osano neo-evangelizzare in nome di un
ideale di una democrazia liberale finalmente pervenuta a se stessa
come all’ideale della storia umana, bisogna proprio gridare che mai,
nella storia della terra e dell’umanità, la violenza, l’ineguaglianza,
l’esclusione, la miseria, e dunque l’oppressione economica, hanno
coinvolto tanti esseri umani (DERRIDA 1993b, p. 110).
In opposizione alla neo-evangelizzazione del capitalismo liberale Derrida propone una riflessione «a partire da un nuovo pensiero
o da una nuova esperienza dell’evento, o da un’altra logica del suo
rapporto al fantomatico» (DERRIDA 1993b, p. 91). Solo pensando in
maniera nuova l’evento (e Derrida lo sottrae addirittura al messianismo che lo struttura in quanto evento, parlando di un messianico senza
messianismo) ci si può portare al di là di una logica capitalistico-postapocalittica alla Fukuyama, ma non alla Kojève (di cui Fukuyama si
dichiara discepolo, secondo molti interpreti a torto). E il pensiero di
un nuovo evento potrà strutturarsi proprio a partire da uno spettro che
si è emancipato dalla metafisica, dall’ontologia e dalla fenomenologia, in quanto non più fantasma (-fenomeno), ma solo revenant.
Per concludere vorrei lasciare la parola alla voce (in dialogo) dello
stesso Derrida:
Mi sembra sempre più importante questa distinzione fra spettro e fantasma da un lato e revenant dall’altro. Così come le produzioni “fantasmatiche” (fantasme), lo “spettro” e il “fantasma” (fantôme) hanno un
riferimento etimologico alla visibilità, all’apparire alla luce. Essi sembrano supporre, in tal senso, un orizzonte sul cui sfondo vedendo venire
ciò che viene o ritorna (revient), la sorpresa, l’imprevedibilità dell’evento si trovano ad essere annientati, organizzati, sospese o affievolite.
L’evento, invece, avviene proprio là dove non si dà orizzonte e in quel
233
luogo in cui – giungendo su di noi verticalmente, da molto in alto,
da dietro o da sotto – esso sfugge al dominio del nostro sguardo così
come a quello di una percezione conscia. […] Il revenant, al contrario,
viene e ritorna (revient) – ed è proprio la singolarità in quanto tale che
implica la ripetizione – come il “chi” di un evento libero da orizzonti.
Come la morte (DERRIDA-ROUDINESCO 2001, p. 219, n. 30).
1
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5
6
7
8
9
Rimando al testo di Ferraris per un’esposizione generale sul tema dell’immaginazione (si veda il primo paragrafo per quanto riguarda la in-distinzione immaginazione-fantasia), e in particolare per la panoramica storico-filosofica sul
problema (seppure non particolarmente attenta al campo fenomenologico) oltre
che per la ricca bibliografia. Per quanto riguarda l’immaginazione (ed i suoi
rapporti con la fantasia) in ambito strettamente fenomenologico (husserliano)
rimando a GHIRON 2001.
Questa citazione è stata leggermente modificata.
Tra gli altri si vedano in particolare RICOEUR 1973, SARTRE 1936 e SARTRE 1940.
In tale contesto si inserisce anche la mancata trattazione del tema della fantasia
nelle Ricerche Logiche, riguardo alle quali si pone il problema della traduzione
del termine Einbildung proprio con fantasia (anche se, propriamente, sarebbe da
riferire all’immaginazione). Per alcune pregnanti riflessioni sull’immaginazione
nelle Ricerche Logiche rimando a BIONDI 1999.
W. Shakespeare, Macbeth, in W. Shakespeare, Tragedie, Mondadori, Milano 1976,
p. 970.
Intendo spendere ancora qualche parola sui motivi che mi hanno spinto a non
affrontare l’importante volume HUSSERL 1980 dedicato ai problemi di cui mi
sto occupando in questa sede. Essi sono principalmente due: il primo legato alla
grande quantità di testi raccolti nel volume che richiederebbe di conseguenza
uno studio talmente denso e specifico da non poter essere sufficientemente riportato in un tale contesto; il secondo dovuto all’impossibilità di evidenziare un
percorso cronologico (come invece è possibile fare per le opere edite) nella mole
di appunti raccolti ed elaborati da Husserl nel corso di più di un trentennio,
spesso soggetti a modifiche e revisioni nel corso degli anni. Per una trattazione
approfondita di tale testo in rapporto al problema dell’immagine (e dell’immaginazione) rimando al bel testo CALÌ 2002.
W. Shakespeare, Macbeth, op. cit., p. 970.
Anche se fu poi soggetto a numerose revisioni e modifiche (forse ad opera della
Stein stessa, del cui lavoro Husserl, peraltro, si dichiarò non soddisfatto) e pubblicato nel 1928 da Heidegger.
Per Husserl la percezione adeguata dell’oggetto temporale è l’atto composto da coscienza d’“ora” e coscienza ritenzionale.
234
Mi permetto di richiamare qui il discorso di Heidegger riportato in apertura sui
termini Phänomen, Schein, Erscheinung.
11
Husserl parla di riplasmazione fantastica (subito prima di un accenno a una certa
riplasmazione passiva) anche nell’Appendice XII (HUSSERL 1952a, p. 327), il riferimento però è oscuro e a mala pena accennato, ritengo comunque opportuno
citarlo per un eventuale approfondimento del rapporto tra fantasia e passività.
12
Per la trattazione di questa problematica rimando alla sez. III del già citato
HUSSERL 1966a.
13
W. Shakespeare, Macbeth, op. cit., p. 972.
14
Quest’opera “scorre” su due colonne parallele che si ergono l’una contro l’altra
e l’una con l’altra, richiamandosi reciprocamente come in un gioco di specchi:
la prima, sul lato sinistro, su Hegel, e la seconda, su quello destro, su Genet.
Indipendenti eppure inscindibili le due argomentazioni danno vita ad un libro
che non ha letteralmente “né capo né coda”, dato che non comincia né finisce, e
la cui portata innovativa risulta evidente già sul piano del gramma (vedi DERRIDA 1974).
15
Si veda DERRIDA 1993b, p. 115.
16
Si veda DERRIDA 1993b, p. 69.
10
235
FONDAMENTO
di Alessandro Iorio
Il tema di questo intervento deve anzitutto rendere una spiegazione sul titolo. L’argomento qui in questione non è un fondamento
qualunque e, ben lungi dall’essere una fondazione, si rivelerà addirittura la sua radicale rimozione. Il fondamento si trasformerà ben
presto in uno sfondamento, in un arretramento che, anziché costruire
su di un fondo, insistentemente lo cerca.
Dunque, innanzitutto il titolo. Fondamento è la traduzione tanto
corretta quanto inadeguata del tedesco Grund. Questa parola può
significare tanto legittimamente fondo, base o fondamento quanto pure
suolo o fondale o ben diversamente ragione, causa o motivo. Eppure, per
l’argomento di questa voce della fenomenologia, bisognerà tentare
di mantenere uniti questi significati, lasciando che l’uno contamini
un poco di sé anche tutti gli altri. Questo fondo che fa da base è un
fondamento che fonda rendendo ragioni, adducendo i motivi per cui
qualcosa è. Lo si potrebbe definire una ragione/fondamento, quanto
pure un più che “fondato motivo” per parlare di esso. Ma senza indugiare oltre è senz’altro meglio chiamare subito in causa i due interlocutori di questa relazione, due filosofi che parlano la stessa lingua di
Grund e che, quand’anche in una maniera più implicita che esplicita,
hanno fatto di questo termine una delle trame conduttrici per la loro
236
riflessione: si tratta di Husserl e di Heidegger, e il nostro sforzo sarà
tenerli assieme nelle trame di un confronto che, seppure nella realtà
delle loro esistenze assunse presto i termini di uno scontro e poi di
una rottura, qui si tenterà a tutti costi di rimarginare in un dialogo,
in uno scambio che avvicendò due pensieri sul terreno dello stesso
fondo, sul Grund di questo stesso problema.
La tematica di questo fondo o fondamento, o meglio di questo
fondo che presto si rivelerà uno sfondamento, non è in verità mai stata
argomentata da Husserl. Benché entrambi, sia Husserl sia Heidegger,
si occuparono ininterrottamente di questioni fondamentali, di problematiche riguardanti la ricerca di un fondamento per il pensiero, fu
solo Heidegger che dedicò in maniera esplicita approfondite trattazioni alla parola Grund. In particolare Grund divenne il titolo di due
pubblicazioni che, a distanza di quasi trent’anni l’una dall’altra, dimostrano con quale insistenza si sia presentato e ripresentato l’assillo di
questo tema. Mi riferisco a Vom Wesen des Grundes, apparso nel 1929 in
occasione del settantesimo compleanno di Edmund Husserl e tradotto
in italiano Dell’essenza del fondamento, e a Der Satz vom Grund, pubblicato nel 1957 e contenente il testo integrale di un corso semestrale
svolto all’università di Friburgo unito a quello di una conferenza tenuta successivamente prima a Brema e poi a Vienna, che in traduzione
italiana suona Il principio di ragione. Quest’ultimo testo, recuperando
i temi già contenuti nel saggio del 1929, si incentra specificamente
sull’enunciato del principio metafisico fondamentale formulato per la
prima volta da Leibniz nei termini: Nihil est sine ratione.
Il modo in cui Heidegger traduce questo enunciato – niente è senza
Grund – dà inizio a una ricerca che scava il fondo di questa parola,
che insegue il Grund di questo fondo fin dentro il cuore della metafisica. Grund diventa fondamento stesso del pensiero, in tutte le
modalità in cui questo si è dato attraverso i secoli e nelle tante lingue
diverse in cui ha parlato la filosofia occidentale dai Greci a Kant, dal
latino di Cicerone alla poesia mistica del diciassettesimo secolo, fino
alla filosofia poetante di Hölderlin. Ma senza perderci negli abissi di
questa parola – che Heidegger non si stanca di tradurre e ritradurre
come hypokeimenon, logos, arché, subiectum, ratio, principium, causa e infine perché? (Warum), ragione (Vernunft) e calcolo – ai fini della nostra
237
relazione sarà più pertinente, e in verità ancora più compromettente, approdare direttamente al termine con cui lo stesso Heidegger
sceglie di “tradurre” Grund, rubando a questo fondamento qualsiasi
fondo, trasformando lo stesso movimento del fondare in un abissale
precipitare.
Il primo passo compiuto da Heidegger è domandarsi quale sia il
fondamento di questo principio di ragione, ovvero quale sia il Grund,
la ragione di questo Grund. Il principio di ragione non è un principio
che enunci qualcosa sull’essenza del suo Grund. Il principio di ragione dice semplicemente che nihil est sine ratione, niente è senza Grund;
cosa sia questo Grund, però, resta ancora del tutto indeterminato.
Di cosa dunque parla il principio di ragione? Heidegger capovolge
l’enunciato del principio nella sua formula positiva: omne ens habet
rationem, ogni ente ha un Grund. A questo punto il principio assume
il carattere di un asserto sull’ente, assegnando all’ente in quanto tale
un Grund, fondo o ragione che sia. Se niente è senza ragione, allora
è valida anche la reciproca, ossia tutto ha una ragione, tutto ha un
Grund. Ma qual è il Grund di questo tutto, qual è la ragione dell’ente, il suo sostegno e fondamento? Senza ancora dire niente sull’essenza di questo Grund, ora il principio di ragione ci porge una vantaggiosa indicazione sulla direzione in cui cercare. Si tratta di scavare
al fondo dell’ente, sondare il suo fondamento, ricercarne un’origine
e in definitiva una ragione. Nella metamorfosi a cui Heidegger ha
sottoposto l’enunciato canonico del principio (nihil est sine ratione),
le due negazioni (nihil e sine), si sono escluse vicendevolmente, lasciando emergere la forma positiva omne ens habet rationem. Ma, ora, se
mantenessimo il principio nella sua forma tradizionale, rimuovendo
però questo nihil e questo sine, ci troveremmo di fronte a una strana
assonanza: “est”, terza persona singolare del verbo essere, colliderebbe
con “ratione”. Il passo successivo è per Heidegger tanto immediato
quanto sorprendente:
Essere e Grund si coappartengono. Dalla sua coappartenenza all’essere in quanto essere, Grund riceve la sua essenza. Viceversa, è dall’essenza di Grund che l’essere domina in quanto essere. Grund ed
essere (“sono”) lo Stesso, ma non l’identico, come già indica la diffe238
renza fra i termini “essere” e “Grund”. L’essere “è” nella sua essenza:
Grund. Per questo l’essere non può avere ancora un ulteriore Grund
che dovrebbe fondarlo. Quindi Grund rimane lontano dall’essere.
Grund resta via [ab] dall’essere. Nel senso di un tale rimanere via
[Ab-bleiben] di Grund dall’essere, l’essere “è” l’abisso [Ab-Grund]. In
quanto l’essere come tale è in sé fondante, rimane esso stesso senza
fondo [grundlos] (HEIDEGGER 1997a, p. 94).
La coappartenenza di essere e Grund lascia rieccheggiare Grund
in una pericolosa e fatale assonanza. La ragione che ogni ente ha, la
ragione per cui ogni ente è, suona ora come essere. Essere e Grund sono
lo stesso. Ma l’essere, in quanto ragione dell’ente, resta proprio per
questo senza ragione, grundlos, immotivato e infondato. Fintanto che
l’essere fonda, fintanto che l’essere è il fondamento, non può di per
sé avere alcun fondamento. L’essere, proprio in quanto Grund, resta
necessariamente senza Grund. L’essere, quale fondo (Grund) dell’ente,
è in verità proprio la rimozione di qualsiasi fondo, un abisso (AbGrund) in cui si perde qualunque fondazione. Il termine Abgrund,
abisso, contiene in sé il senso di questa rimozione: il prefisso ab, posta
di fronte a Grund esprime appunto il gesto di uno scalzamento, di
un mandare via il fondo. Ab-Grund dovrebbe propriamente risuonare
in italiano come via-il-fondo. E proprio nel momento in cui Grund
sembrava avesse trovato la sua essenza, il senso di questa parola si è
capovolto nel suo opposto: ogni fondo si è trasformato nell’impossibilità di raggiungerlo.
Con tutto questo, però, Heidegger è ben lungi dal voler contestare la validità del principio di ragione. Quello che apparentemente
potrebbe sembrare un suo radicale rinnegamento, vuole ora diventare
il suo più alto riconoscimento. Che nihil est sine ratione, che “niente è
senza Grund” resta un enunciato pienamente valido e anzi acquisisce
solo adesso una validità che nell’asserzione di Leibniz non sarebbe
mai raggiungibile. Che Grund sia diventato un Abgrund, che il fondamento dell’ente si sia da ultimo rivelato il suo abisso non significa
ancora che l’ente resti infondato; che una ragione sia irragionevole
non toglie che essa resti una ragione. Omne ens habet rationem: ogni
ente ha una ragione, quand’anche e ancor più se questa ragione si
239
rivela ora un abisso. L’abissalità di una ragione, in verità nulla toglie
alla sua ragionevolezza: un fondo scalzato via, non è per questo ancora nullo. Grund, tutt’altro che niente, è invece essere. La ragione di
questo Grund, ben lungi dall’essere irragionevole, è invero talmente
profonda, radicata e sprofondata nel suo fondo, da farsi abissale – incommensurabile e irraggiungibile per qualsiasi ragione.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con la fenomenologia? Come
entra Leibniz in quel confronto tra Husserl e Heidegger che dovrebbe intessere la trama di questo intervento? Davvero, Leibniz non
c’entra assolutamente nulla. Ma il movimento con cui, attraverso il
principio di ragione, ci siamo avvicinati al fondamento, il precipizio
che abbiamo spalancato proprio mettendo piede sul fondo di questo
Grund, sull’abisso di questo fondamento, servirà a scandire il ritmo
di tutto il percorso che adesso ci apprestiamo a compiere, percorso
che dovrà veramente assomigliare alla vertigine di una caduta.
Abbiamo già menzionato il fatto curioso che Husserl non ci ha
lasciato alcuno scritto che tematizzi in maniera diretta il problema
del fondamento. E si potrebbe quasi dire che Husserl non abbia mai
posto il fondamento come una domanda. Eppure Husserl, e mai nessuno come lui, in tutta la sua sterminata produzione filosofica non ha
mai fatto altro che parlare di fondamento. Non c’è altra intenzione,
dietro l’intero suo sforzo di pensiero, che quello di fondare. Dai primi tentativi, fin su ai tardi scritti della maturità, e addirittura oltre,
fino alle opere mai scritte e lasciate come compito postumo per i suoi
allievi, non si fa necessità d’altro che di una fondazione. Il nome che
Husserl diede a questa fondazione è quello ormai a tutti noto, ormai
inscindibilmente legato alla storia del pensiero nel ventesimo secolo,
di “fenomenologia”.
La nascita della scienza fenomenologica viene fatta comunemente
risalire al 1901, anno di pubblicazione delle Logische Untersuchungen,
Ricerche logiche. L’ambizioso progetto dispiegato in quest’opera è
quello di istituire un fondamento per la filosofia, o meglio ancora,
una filosofia del fondamento. Quello che per Husserl diverrà il compito di tutta la vita, gettare le basi per una forma di sapere che potesse fondare l’universalità delle conoscenze umane su una certezza
apodittica, è in quest’opera ancora sul limitare dell’orizzonte, ancora
240
da raggiungere e da ricercare. Eppure, sin dalle prime pagine, è immediatamente chiaro cosa egli avesse in mente con il concetto di
scienza:
La conoscenza scientifica è come tale conoscenza a partire da Grund.
Conoscere il Grund di qualcosa significa scorgere fin dentro la necessità [die Notwendigkeit… einsehen] del suo essere in questo o quel
modo (HUSSERL 1975, p. 238).
La fenomenologia trovò la ragione della sua nascita, e invero proprio il suo Grund, il suo terreno di ricerca, nell’essere scienza di questo Grund, scienza fondamentale. In questo passo Husserl però dice
ben altro: dichiara che non c’è scienza se non a partire da Grund.
Dunque è nell’essenza stessa del conoscere il suo fondarsi su Grund,
e anzi, di più, è l’essenza stessa del sapere quella di essere Grund, di
cercare e dare ragioni, di fare fondo, di dare fondamento. Ogni sapere
è Grund e Heidegger ci ha appena insegnato quanto lieve sia il passaggio tra il fondare e lo sfondare. E ancora maggiore sarà il pericolo
di uno sfondamento, il rischio di spalancare abissi proprio là dove si
vorrebbe costruire, se il sapere in questione, ben lungi dall’essere un
sapere qualunque, voglia presentarsi come sapere di ogni sapere, e
dunque come fondamento di tutti i fondamenti. Ma qui, ancor prima di procedere oltre, sarà utile chiarire meglio cosa intenda Husserl
per Grund e in che senso la sua fenomenologia possa essere intesa
come una fondazione. «Conoscere il Grund», dice Husserl, «significa scorgere fin dentro la necessità». Due notevoli corrispondenze
emergono subito in questo passaggio: quella di conoscere con scorgere
dentro, e quella di Grund con necessità. Quasi una sonda che si immerga negli oggetti che incontra, il sapere è diventato un vedere che penetra dentro, un occhio che si immerge nel fondo della necessità per
svelarne la sua intima ragione, il Grund abissale in cui è intessuta.
Nondimeno questo non dice ancora niente su quale sia la necessità
di questo Grund, né in cosa consista il Grund di questa necessità. Ora
però, se Grund è già di per sé conoscenza, ricerca della necessità per
cui una cosa è, allora questa necessità sarà inevitabilmente la stessa
ragione che spinge lo sguardo a penetrare negli oggetti che incontra,
241
il movimento di un sapere che fonda solo nel senso di uno scavo, di
una ricerca che fa della sua necessità un fondamento ancora da raggiungere. Come a dire, questo Grund fa necessità proprio nell’atto
del suo sondare e il movimento della fenomenologia che qui si avvia
non sarà dunque quello di una fondazione nel senso di un’istituzione,
dell’edificazione monumentale di una scienza di tutte le scienze, ma,
al contrario, il senso della sua fondazione si avvicinerà più a quello
di un’endoscopia, di un vedere dentro che sia discesa negli abissi del
fondamento.
Eppure, quello che venne anticipatamente presagito nelle Ricerche
Logiche dovette ancora attendere molto tempo prima di potersi rivelare come il vero destino della fenomenologia. Frattanto, ma già oltre
un decennio dopo, Husserl diede alle stampe quella che rimase di lì
in poi la sua opera “fondamentale”, la realizzazione di un fondamento
che ancora rimane il più solido pilastro della fenomenologia tutta: il
primo libro delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. La purezza menzionata nel titolo, una purezza raddoppiata
in una fenomenologia che vuole essere due volte se stessa, e fenomenologia e filosofia fenomenologica, mostra, ancor prima di sollevare una
pagina, il suo vero peccato d’origine. Quasi pretesa di un’immacolata
concezione, generazione assolutamente pura e mai contaminata da
altro, mai partorita dall’altro, la fenomenologia pretende di essere
un fondamento che fondi anche se stesso, una ragione che non vuole
sentire ragioni perché afferma di contenerle già tutte dentro di sé.
Eppure, nel medesimo gesto in cui si eleva a fondamento inconcusso
dalla certezza incontrovertibile, essa lascia dietro di sé, o forse sotto, un
fondo sporco che non dovrebbe mai entrare nella sua istituzione, uno
sfondo, però, che presto o tardi finirà inevitabilmente per contagiare
tutta la sua struttura.
Se poi il mio cogito si muove esclusivamente nei mondi relativi a questi
nuovi atteggiamenti, in tal caso il mondo naturale non viene preso
in considerazione, e pur costituendo lo sfondo [Hintergrund] dei miei
atti di coscienza non è per nulla l’orizzonte in cui si inserisce il mondo
aritmetico (HUSSERL 1950c, p. 65).
242
I «nuovi atteggiamenti» di cui si parla sono quelli, come il calcolare aritmetico, che credono di poter prescindere dal mondo naturale.
Già qui, in verità, si sta ponendo un raddoppiamento, o forse una
duplicazione illimitata. Il mondo non è più uno. Esiste il mondo
materiale ed esiste ad esempio quello aritmetico: ma allora, perché
no, anche quello geometrico e senz’altro quello filosofico. Potremmo
arrivare a distinguere tra mondi interni e mondi esterni, ma qui la
distinzione è di ben altra portata. Si sta tracciando una differenza tra
«orizzonte» e «sfondo». C’è qualcosa che circoscrive i miei atti di
coscienza e c’è qualcosa che li precede. C’è un margine visivo a tutte
le mie possibilità razionali e c’è un retro oscuro da cui si staccano.
L’orizzonte è sempre posto di fronte a me, sempre nella direzione
verso cui sono in cammino, sempre scopo da raggiungere e obiettivo
della mia intenzionalità. Lo sfondo resta invece continuamente dietro di me, sfumato alle mie spalle, già pronto a essere dimenticato,
provenienza da cui mi allontano, origine abbandonata ancor prima di
essere mai stata lasciata. L’orizzonte è la mira di tutti i miei sguardi,
il desiderio verso cui tendo, l’indice di ogni attenzione. E mentre
l’orizzonte è il luogo stesso della luce, il primo e ultimo punto in
cui scorgiamo il sole, lo sfondo resta sempre celato nell’ombra di un
abbandono, nell’oblio di una dimenticanza. Ma tale sfondo deve inevitabilmente fare da “fondo”. Se l’orizzonte resta sempre il margine
lontano ogni ora visto ma mai toccato, lo sfondo aderisce invece alle
nostre spalle, preme sotto i nostri piedi, è il fondo buio da cui si leva
ogni sguardo verso il sole. Esso è un fondo che resta sempre dietro
(Hinter-grund), che non possiamo mai porre di fronte, mai incontrare
con lo sguardo, mai tentare di afferrare: perché già da sempre esso ci
ha preso sopra di sé.
Risulta con ciò impossibile fondare senza essere fondati. Per porsi
come scienza del fondamento la fenomenologia dovette necessariamente distinguere tra un fondo scuro su cui poggiare immancabilmente i piedi e un fondamento luminoso da erigere sulla linea di luce
dell’orizzonte. Essa vide il suo sorgere proprio nel momento in cui
circoscrisse la validità d’essere di ciò che è alla sfera conchiusa della
coscienza, alla superficie delimitata dell’io. Cogito ergo sum: non c’è
altro essere che non sia quello del cogito, altra validità se non quella
243
fondata e stabilita dalla coscienza. Ci vorrà Heidegger per dimostrare
come questa coscienza, che crede di poter fondare tutto sul sicuro
possesso del cogito, nasconda in verità nella sua presunta fondatezza la
più insidiosa delle infondatezze, un’infondatezza che, ben lungi dall’essere la profondità di un abisso, è soltanto la superficie inconsistente di una tela tesa a coprire lo sfondo. Era il 1925 quando Heidegger
tenne all’università di Marburgo un corso di lezioni che lo portò a
sospettare in maniera diretta il fondamento della fenomenologia e,
con esso, tutto il pensiero in quanto tale:
Ci chiederemo: in questa elaborazione del campo tematico della fenomenologia rappresentato dall’intenzionalità, è posta la questione
sull’essere di questa regione, sull’essere della coscienza, ovvero cosa significa qui in generale essere quando si dice che la sfera della coscienza
è una sfera e una regione di essere assoluto? Cosa significa qui essere
assoluto? Cosa significa essere, quando si parla dell’essere del mondo
trascendente, della realtà delle cose? (HEIDEGGER 1979a, p. 127).
L’ambito sicuro della fenomenologia, la sua regione immacolata,
la purezza del suo dominio, la sfera perfetta che non tollera alcuna
infiltrazione dal mondo e che si chiude al mondo nell’assoluta cecità della sua autosufficienza, rivela ora, sotto l’occhio perforante di
Heidegger, una minuscola quanto pericolosissima crepa. Dire con
Heidegger “essere”, foss’anche l’essere blindato della coscienza, significherà sempre nominare l’inquietudine irrisolvibile di un’interrogazione, l’imprendibilità di un fondo che non si farà mai toccare,
che non si lascerà mai raggiungere e né tantomeno delimitare. Quella
che Husserl aveva sempre considerato e sempre considerò l’irremovibile certezza di un cogito che dichiara d’essere senza aver bisogno
d’altro se non di se stesso, quello che Husserl considerò sempre come
il più infrangibile di tutti i fondamenti su cui si possa edificare un
sapere, è adesso fatto vibrare dal tremito di una semplice e innocentissima domanda, di quell’unica piccola domanda a cui Husserl aveva
dimenticato di trovare una risposta: ma cos’è, poi, in generale essere?
Sappiamo invece cosa comporti per Heidegger porsi una simile
domanda. La domanda dell’essere è molto semplicemente la Grund244
frage, domanda di fondo o forse, ancora meglio, il fondo posto come
domanda. In un altro corso di lezioni, di ben dieci anni più tardo,
quando ormai Heidegger occupava a Friburgo la cattedra che era
stata di Husserl, l’andamento del pensiero diventa quello di un’interrogare che senza più esitazioni si volge all’essenza stessa di questo
Grund per porla radicalmente come problema:
Il domandare mira al Grund dell’essente in quanto è essente. Cercare il Grund significa approfondire [ergründen]. Tutto ciò che viene
posto in questione si rapporta a Grund. Solo che, per il fatto dello
stesso domandare, rimane incerto se Grund sia veramente fondante,
se realizzi la fondazione, se sia un fondamento originario [Ur-grund];
ovvero se Grund rifiuti la fondazione, se sia abisso [Ab-grund]; o se,
infine, non sia né una cosa né l’altra, ma presenti solo un’apparenza,
forse necessaria, di fondazione, costituendo così solo un non-fondo
[Un-grund] (HEIDEGGER 1983b, pp. 14-15).
La domanda fondamentale, la domanda che interroga l’essere dell’ente, che si chiede perché mai qualcosa sia piuttosto che il nulla, è
diventata la domanda stessa di Grund, la domanda che chiede cosa
mai sia Grund. E la risposta richiesta ancora sfugge, manca, non si
trova. Grund stesso trema, vacilla – è sparito. L’ente intero, la solidità di ciò che è, rischia di restare senza ragione alcuna, rischia di
rimanere del tutto insensato, infondato. Grund: cos’è Grund? Cos’è il
fondo che regge? Di quale consistenza è la fondazione? La questione
ha assunto una portata inimmaginabile per una mera esigenza di
fondare il pensiero. La fondazione che qui si dibatte non concerne più
semplicemente la fondazione di una scienza, foss’anche una scienza
universale come la fenomenologia. Il fondo di cui si parla, il fondamento che qui si cerca è il Grund stesso dell’ente, la ragione di ciò
che è, il fondo dell’essere – l’abisso di ogni domanda. Ma appunto:
fondo o abisso, o forse né l’uno né l’altro, ma solo insensatezza e
demenza, cieca follia senza ragione, inconsulto cianciare senza fine e
senza fondo?
L’essenza stessa di Grund, il fondo stesso di quella domanda che
non vuole sentire risposta, che non riesce ad accontentarsi di nessuna
risposta, è ora messa in discussione. Heidegger si domanda se Grund
245
possa ancora definirsi il nome dell’origine, la parola che nomina la
provenienza stessa, il fondo originario (Ur-grund) dell’essere; o se invece ci si trovi oramai solamente di fronte all’abisso del nulla, alla
voragine che scalza via ogni fondo (Ab-grund) nella vertigine del suo
precipizio. Da ultimo deve persino affiorare il sospetto se Grund non
sia poi nient’altro che solo un’apparenza di fondo, soltanto la vana illusione di una scienza che voglia credere a ogni costo nella fondatezza
del suo dire. Fondare rischia di trasformarsi nella beffa di un fondo di
cartone, nell’inconsistenza (Un-grund) di uno sfondo che non sia mai
più profondo dello scenario di un teatro.
È per questo, appunto, che la domanda assume tutto il suo risalto. Proprio per il fatto che questo domandare si pone di fronte all’essente nella sua totalità, senza potervisi peraltro sottrarre, accade
che ciò che viene domandato si ripercuota indietro sul domandare
stesso. Perché il perché? Su che cosa si fonda la stessa domanda del
perché, domanda che si studia di porre l’essente nella sua totalità
sul suo proprio Grund? Forse anche questo “perché” rappresenta, a
sua volta, solo un domandare di Grund in quanto primo piano [Vordergrund], sicché quel che si cerca come fondante è sempre ancora
l’essente? (HEIDEGGER 1983b, p. 16).
Il movimento del domandare sta lentamente assumendo nuovi
connotati. La domanda stessa del perché l’ente? ha rischiato di cadere
in una vana insensatezza, nel delirio di un chiedere che si rincorre
senza più riuscire a trovare la sua direzione. A tal punto che ora
l’unica direzione percorribile è rimasta la direzione dell’origine, la
direzione da cui proviene questo perché? con cui l’ente si scuote nello
stupore della sua origine, nel prodigio inenarrabile del suo essere,
nello sbigottimento per la meraviglia immotivabile che qualcosa è
anziché il nulla. Perché l’ente? E perché questo perché? Perché la
domanda?
Ciò che non bisogna lasciar cadere è proprio il perché?, il quesito
che richiede il Grund, la domanda che invoca il motivo, pretende la
ragione, fruga nel fondo perduto per cui ogni cosa è. La domanda
resterà ancora vincolata all’ente e rischierà sempre di trasformare il
Grund che si cerca nella superficialità di una facciata – in un Vorder246
grund – se ancora non si osa valicare l’ente in direzione di questo perché?, se non si chiede infine il suo segreto Grund, la sua provenienza
dimenticata. L’intenzione della domanda, la sua intenzionalità, oserei
dire, non va più direzionata all’ente ma direttamente al suo perché, a
ciò che precede l’ente, a ciò che lo anticipa e che lo fonda. In questo
movimento la domanda viene forzatamente ripiegata dietro di sè,
eppure non su se stessa, ma ribattuta invece ancora più «indietro»,
risospinta verso quel perché? da cui è stata sempre preceduta, che l’ha
già anticipata, che l’ha sempre sorpresa di un passo. Un passo indietro, un passo che previene il domandare nello stupore del suo punto
interrogativo, nell’insensatezza di una domanda che richiede ogni
senso, che smuove nell’abisso del suo fondo la sensatezza di tutto ciò
che è. Solo in tal modo può essere valicato quel pericolo di rimanere
serrati nel mezzo dell’ente, vincolati e incatenati a una presenza che
rifiuta caparbiamente di farsi trascendere e che conosce la piattezza
di un solo genere di Grund: quello della facciata, del primo piano e
della superficie immancabilmente intatta. La domanda della domanda, il suo ritrarsi indietro verso il perché?, il suo rincorrere ciò che
già da sempre le è sfuggito, reclama ora di sfondare ogni facciata, di
strappare qualsiasi telo e di sprofondare, inabissarsi giù nel retro, nel
sottosuolo dell’autentico Grund. Niente costituisce insidia più grande che la pericolosa illusione di un fondo-prima-del-fondo, di quel
Vorder-Grund che rischiava ogn’ora di lasciarci sempre e solo davanti
al fondamento. Senza aver osato neppure una volta scendere più a
fondo, esso ci lasciava addormentati nel conforto e nella parvenza di
una superficie che celava, proprio in una rassicurante tangibilità, solo
l’infondatezza (Un-grund) della sua base.
Con questi testi del 1935 Heidegger si era ormai spostato definitivamente fuori dalla fenomenologia. Il suo pensiero aveva da tempo
intrapreso quella sfida che passerà sotto il nome di ontologia, di quel
domandare che tenterà per la prima volta di porsi faccia a faccia con
l’abissalità di questo Grund, origine dimenticata di tutto il pensiero
occidentale, fondo sepolto negli strati di una storia che solo da ultimo aveva preso il nome di fenomenologia. Ma anche Husserl non
rimase fermo dov’era, sospeso sulla superficie di quella coscienza così
paurosa di sporcarsi, così timorosa di toccare il fondo e così pronta a
247
spacciare sé per questo fondo. Proprio nel momento in cui Heidegger
si allontanava sempre più da Husserl, e mentre i rapporti tra i due
si incrinavano irrimediabilmente fino a precipitare verso la rottura
definitiva, anche la fenomenologia iniziò a scavare, e proprio in quel
fondo che era fin lì rimasto immacolato. Nel 1925, lo stesso anno in
cui Heidegger teneva le sue lezioni a Marburgo e sospettava la fondatezza della coscienza, Husserl svolse per la terza volta un corso sulla
logica genetica con sorprendenti ampliamenti, inoltrandosi per un
sentiero che lo avrebbe condotto nei più oscuri recessi della coscienza
fenomenologica; se non addirittura oltre.
In ogni presente vivente universalmente abbracciato con lo sguardo
abbiamo naturalmente un certo rilievo di osservazione, un rilievo di
avvertibilità e di attenzione. Si distinguono qui dunque lo sfondo
[Hintergrund] e il primo piano [Vordergrund]. Il primo piano è l’elemento tematico in senso più ampio. L’avvertibilità di grado zero ha
luogo quando si dà una vivacità eventualmente osservabile dell’aver
coscienza, ma che non suscita nell’io una particolare tendenza alla
risposta, non si spinge avanti fino al polo dell’io (HUSSERL 1966b,
p. 224).
L’osservazione dell’io staglia ogni percepito nella luce della visione. Questo emergere dall’oscurità, questo porsi in rilievo dal fondo
nero della notte accade però in due prospettive differenti. Esistono
infatti due diversi modi in cui si materializza il fondo, due diverse
modalità in cui l’osservazione va a fondo. Il fondo può essere davanti
a noi, tema palese e manifesto della nostra attenzione oppure restare
soltanto avvertito, notato di sfuggita, aguzzato con la coda dell’occhio e lasciato con trascuratezza dietro di noi. Grund può essere Vorder-grund oppure Hinter-grund, facciata o sfondo. E se, certamente,
l’osservazione sembra garantire un eterno primato della facciata, una
priorità a tutto ciò che direttamente si impone nella franchezza del
faccia a faccia, in questo caso invece ciò che conta è quanto da sempre
è rimasto indietro, colto solo con la coda dell’occhio, e anzi proprio
nel retro dell’occhio – e che da lì ha tinto di sé tutta la retina.
Lo sfondo si trova nel punto zero della percezione, è la macchia
cieca nel centro del fondo dell’occhio. Questa macchia che tutti chia248
mano cieca giura invece di aver visto qualcosa. In verità essa non
vede, ma sa che qualcosa si cela proprio di fronte a lei, qualcosa che
nessun’altro sa che ci sia, qualcosa che senza passare per il primo
piano è impercettibilmente scivolato sullo sfondo, e che aspetta solo
un movimento impercettibile dell’occhio per farsi originariamente
visibile. In questo movimento di scomparsa e di rinnovata comparsa,
lo stesso Vordergrund rivela, suo malgrado, una inconfessabile provenienza dallo sfondo, un’origine dal retro di quell’Hintergrund che
ostinatamente preme per venire avanti. La tematicità del primo piano è infatti quel proscenio su cui il soggetto pone l’oggetto lungo
una polarità che parte dall’io e a esso si contrappone. Finché, però,
l’oggetto resta sullo sfondo, fin quando non è ancora propriamente
oggetto, la percezione resta senza risposta e il dialogo è soltanto un
monologo. L’io scorge senza vedere e non sa che cosa ha scorto. Il suo
presente, la vita nella sua presenza, la vivacità delle sue molteplici e
sempre cangianti impressioni precipita anticipatamente nello sfondo
di un passato che non torna ma arriva sempre per primo. L’attenzione
può tematizzare soltanto ciò che già è stato notato una volta, può
portare in primo piano solo quanto era già sommerso e affondato
nello sfondo. La vita di questo presente sboccia allora miracolosamente dalla tomba del proprio passato. E davvero questo presente
conserva addosso il cattivo odore di un morto: quando per la prima
volta un trascorso che non è mai stato presente si fa strada dalle tenebre dello sfondo ed emerge nella luminosità del primo piano, allora
la percezione acquista la macabra vivacità di un presente vivente, di
una presenza fresca di parto eppure già postuma, appena nata dalle
spoglie della sua stessa salma.
Secondo quanto detto, appartiene inoltre ad ogni presente uno sfondo [Hintergrund] o sottosuolo [Untergrund] di non vivacità [Unlebendigkeit], di inefficacia affettiva (lo zero) (HUSSERL 1966b, p. 226).
Ci si sta lentamente spostando ai margini dell’orizzonte, si sta
arretrando nelle nebbie sempre più fitte della lontananza. Prima che
la fenomenologia scompaia del tutto, prima che non ci siano più
fenomeni da vedere né oggetti da afferrare, Husserl deve riconoscere
249
che è ormai svanita qualsiasi differenza tra retro-fondo e sotto-fondo,
tra Hinter-grund e Unter-grund. Lo sfondo è precipitato in un privo di
fondo, l’orizzonte è stato capovolto, risucchiato negli oscuri recessi
della terra. Al di sotto di ogni fondo, più profondo dello sfondo,
Grund è ormai dappertutto quanto da nessuna parte, perduto in ogni
luogo e in ogni tempo. Davanti dietro e sotto, prima dopo e mai
adesso, nel fondo di ogni fondo, la presenza del fondamento si nega
in qualsiasi direzione. Come si scelga di procedere, il fondo fugge in
una corsa che dal retro si è fatta improvvisamente avanti a tutto, dal
passato ha trascinato il presente fin oltre i margini dell’avvenire e da
lì è infine precipitato nell’abisso della sua insondabile profondità.
Senza vita (Unlebendigkeit) ma non ancora morto – o forse non più
morto perché ancora vivo – sopravvissuto alla sua stessa morte, Grund
è l’eterna mancanza di presente, lo scaturire della vita dalla sua mancanza, l’affezione originaria di un vuoto carico di tutto.
È la coscienza stessa che oramai si trova inabissata, sprofondata,
precipitata nel suo sottosuolo. Nella tenebra di un passato che non
passa e da cui continuano ad affiorare frammenti di futuro, l’io si
trova definitivamente perduto. La sua vita, la vita nel suo presente,
è solo la facciata dietro cui si cela la voragine del tempo. Quello che
Husserl chiama a più riprese in questi anni «presente vivente» (lebendige Gegenwart), il flusso dei vissuti in cui si articola e si scompone
la temporalità, è in verità solo l’orrido prodigio di un morto vivente,
di un presente riesumato dalle nebbie del proprio passato. L’enigma
di questo passato è quello di una presenza, quello dei vissuti intenzionali di un io assoluto che all’improvviso si è scoperto infondato,
tagliato via dalle proprie radici, gettato perdutamente al di là di
ogni origine. Sin dal suo primo ingresso, sin da quel primo vagito
liberatorio del cogito-sum, e sin dalla quella prima ingenua credenza
nel mondo che ci sta davanti, l’io si è trovato decentrato, posticipato
in una direzione che non era la sua, o meglio, che era già sua ancor
prima che potesse deciderla. La percezione, la presa di posizione in
uno spazio percepito, lo stesso indirizzarsi a oggetti, il tendere-verso
dell’intenzionalità fenomenologica deve tutto confessarsi come un
movimento radicalmente patito, subito. Non è in verità l’io che nella
libera scelta della decisione si indirizza alla cosa che gli sorge di fron250
te, ma è invero lui stesso già da sempre indirizzato, intenzionato verso l’oggetto. Ogni presa di posizione, ogni movimento intenzionale
dell’io deve distinguere tra sé e ciò che in lui risulta già intenzionato,
già depositato sul fondo di una credenza passiva; patita, subita ancor
prima di aprire gli occhi sul mondo.
E quante volte bisognerà aprire gli occhi, in quante direzioni
bisogna ancora volgerli? Basterebbe forse tenere ancora le palpebre
abbbassate e scrutare ciò che non si può vedere, osservare ciò che si
vede ancor prima di vedere.
Se si penetra più a fondo, si comprende che, a partire da qui, si può
accedere alla teoria universale della genesi di una soggettività pura,
in primo luogo per ciò che concerne i sottostrati della pura passività.
L’analisi fenomenologico-essenziale della coscienza che costituisce
l’oggettività temporale ci ha condotti ai principi elementari della
legalità della genesi che domina la vita soggettiva (HUSSERL 1966b,
p. 170).
Quello che Husserl sta qui mettendo in atto, nella ricerca di
un’origine del tempo e di una costituzione primordiale del dato di
coscienza, è una discesa negli antri della terra. Da scienza del fenomeno e della luce, da pensiero della superficie, della clara et distincta
perceptio, dell’apparizione inconfutabile sotto il sole, la fenomenologia
si sta ora lentamente trasformando in una geologia degli abissi. Quasi
volesse portare luce dove luce non ce n’è, il faro della scienza si trova
ora sprofondato nei primordi stessi della luce, nell’origine archetipa
della presenza, nel passato mai trascorso di ogni avvenire. Penetrando sempre più a fondo, discendendo sempre più giù, precipitando
nei più bui recessi della coscienza, la fenomenologia diventa ora una
scienza genetica, un pensiero della genesi, un’analitica dell’origine.
La ricerca di un fondo, che sembrava essersi arenata e consolidata
sul saldo terreno della coscienza, ha ora riavviato il suo movimento. Non è più sufficiente soffermarsi alla descrizione delle modalità
con cui gli oggetti si costituiscono nella perfetta sfera dell’io, ma si
avverte la necessità di penetrare nelle trame più interne di questo
io, nella genesi primordiale della stessa soggettività. Questo fondo
oscuro, inaccessibile e nondimeno ineludibile, questo mistero della
251
costituzione che reclama un’illuminazione proprio nel momento in
cui la nega, è un fondo che non può mai essere scorto, mai preso di
mira, mai intenzionato né capito: esso può soltanto essere patito. Non
è il tema di una nostra percezione, né l’oggetto di una qualche ritenzione, né tantomeno l’incidenza lontana di una nostra aspettativa.
Esso è tanto vicino da non poter essere visto, tanto immanente da non
poter essere preso, così incombente da potersi solo subire. Nel retro
stesso dell’occhio, nell’articolazione interna della mano, nella notte
che precede sempre il giorno, prima del prima, prima di ogni primo
posto: qualsiasi atto, azione o presa attiva della soggettività – intrapresa o già compresa – si trova scavalcata, sorpassata, inabissata nel
fondo cavo della luce, in quella grotta dove ogni sguardo si declina al
passivo, dove l’occhio può vedere solo fintanto che sia già avvistato.
In una fuga di specchi in cui ogni sguardo rimanda a un altro
sguardo, in cui ogni occhio è guardato nel fondo di un altro occhio,
la passività si ritrae in una stratificazione inesauribile. Strato sotto
strato, in una fuga geologica del fondo nel fondo del suo stesso fondo,
la coscienza si trova infine negata, ritratta, sperduta nella ricerca di
un’origine che sia per la prima volta prima. Origine che in quanto
patita e subita non mai potrà essere la prima, ma che sarà sempre
costretta a rivolgersi indietro nell’ennesima origine della sua origine,
nella retrocessione interminabile della sua genesi.
l’operare della passività, nel suo gradino più basso, l’operare della
passività iletica consiste nel dare vita sempre di nuovo a un campo
di oggettualità pre-date e, in seguito, eventualmente date. Ciò che si
costituisce si costituisce per l’io, e deve infine costituirsi un mondo
circostante pienamente reale [voll-wirkliche Umwelt] nel quale l’io
viva ed agisca e dal quale sia d’altro canto costantemente motivato. Ciò che è coscienzialmente costituito è presente per l’io solo in
quanto lo affetta. Un qualsiasi quid costituito è pre-dato se esercita
uno stimolo affettivo, è dato se l’io ha apportato allo stimolo uno
sviluppo, in quanto si è rivolto ad esso portandogli attenzione e afferrandolo (HUSSERL 1966b, p. 219).
Il regno della passività dischiude una datità più originaria di ogni
dato, una terra in cui ciò che è dato alla coscienza precede il suo
252
stesso darsi. Nel gradino più basso di questa discesa all’origine – e finalmente origine del mondo – la passività è diventata affezione della
materia bruta, della hyle primordiale di cui è composto il mondo. In
questo stadio antecedente tutto, in questo tempo prima del tempo di
una genesi che precede persino la genesi biblica, l’io si trova gettato in
un campo di oggetti che lo hanno da sempre preceduto, che gli sono
stati dati, e anzi pre-dati, consegnati ancor prima che lui fosse qua,
ancor prima che ci fosse. Nella passività di questa materia originaria,
di questo magma primigenio da cui si plasmano gli oggetti, l’io è
da sempre immerso, affondato, impantanato. Come in un involucro
che lo avvolga dall’esterno e che appartenga nondimeno alla sua più
segreta intimità, come in una placenta da cui non si è ancora liberato, l’io si trova invischiato, accerchiato, sopraffatto da questo mondo
che gli corre intorno, da questa madre Um-welt che lo affetta da ogni
parte, che lo accoglie nel dono di uno spazio consegnato ancor prima
di essergli mai stato «dato», prima ancora dello stesso gesto del dare:
donato originariamente, «pre-dato», ricevuto con il primo vagito,
ereditato ancor prima di aprire gli occhi.
Questo io, che Husserl si ostinerà per tutta la vita a chiamare
puro, non ha ormai più niente di pulito. Affettato, contaminato dal
mondo sin dal suo primo respiro, penetrato da questa membrana
bagnata che lo circonda, l’io si ritrova già sempre infiltrato dall’estraneo. L’estraneità è anzi diventata la sua affezione originaria, la radice
stessa del suo agire. Il mondo circostante, così pesantemente, ineludibilmente reale, finisce per determinare la determinazione stessa.
La coscienza è diventata passività da parte a parte, essa subisce soltanto, patisce persino la propria azione: una voll-wirkliche Umwelt,
una placenta gonfia di realtà, contiene e al tempo stesso riempie la
soggettività. Tutto ciò che si costituisce all’interno dell’io è ora rivelato come un’autentica infezione: ciò che nasce dentro viene tutto
dall’esterno. Non c’è più niente di proprio nella sfera del proprio,
ogni appropriazione appare ora un’infrazione. L’io si determina come
massima e totale esposizione a tutte le affezioni esterne, come una
membrana desiderosa di essere violata, come un corpo che cerchi la
contaminazione prima di ogni cosa. Il mondo «dato» per la coscienza, il mondo oggettivo che sorge davanti ai suoi occhi e che si offre
253
al suo campo di azione, al suo prendere e al suo creare è soltanto lo
sviluppo di un’affezione più originaria, soltanto la propagazione di
un’infiltrazione già avvenuta. Ciò che lo ha sempre inevitabilmente
preceduto è invece qualcosa di pre-dato, un’infezione contratta ancor
prima della nascita. Un «mondo circostante» in cui l’io è affondato,
in cui si stratifica la memoria prenatale della coscienza, ha già contaminato il feto, si è già infiltrato nelle trame del pensiero come suo
nutrimento. La passività non può far altro che ricevere da fuori tutto
quello che protegge nel suo ventre, non può far altro che accettare da
altri quanto vuole fare proprio.
Ricezione incondizionata, utero che invoca un seme, terra generatrice solo in quanto seminata, depositata, sedimentata, la coscienza
ha scoperto il segreto della genesi in un’apertura senza più confini,
nell’allargamento infinito a tutto quanto sia altro da lei. La nascita
della soggettività si trova ora concepita, anzi inseminata dalla stessa
oggettualità, da un oggetto che, ancor prima di ergersi nella fredda
distanza di uno sguardo, ha già contaminato il suo interno e si è
riscaldato nel calore delle sue viscere. In questi recessi dell’affezione
è venuto alla luce un nuovo soggetto fenomenologico, costituitosi
proprio da quanto aveva finora soltanto saputo fuggire: accerchiato,
pressato e sin dall’inizio penetrato da tutto quello che è restato in
ombra sullo sfondo, celato nelle nebbie di un’oscura provenienza.
Non ho bisogno di dire che a tutte queste considerazioni che stiamo conducendo può anche essere dato un titolo famoso: quello di
“inconscio” [Unbewusste]. Si tratta quindi di una fenomenologia di
questo cosiddetto inconscio (HUSSERL 1966b, p. 211).
Dal passo che Husserl osa qui compiere, la fenomenologia non potrà più retrocedere. Quello che in queste parole accade, è una fatale e
pericolosa effrazione di ogni orizzonte. Il linguaggio della coscienza,
declinato al passivo, ora dice il suo contrario: Unbewusste – non saputo, non voluto, senza consapevolezza alcuna. L’occhio fosforescente
della fenomenologia si è infine fatto cieco, bruciato dalla sua stessa
luce si è definitivamente chiuso, ritratto negli abissi del suo interno,
precipitato nella tenebra della sua provenienza. Da qui in poi la fe254
nomenologia sarà radicalmente altro. Come un Edipo che si acceca
per aver voluto ad ogni costo vedere ciò che mai sarebbe stato lecito
vedere, per aver scoperto ciò che non sarebbe mai dovuto essere scoperto, così la scienza della coscienza assoluta si è adesso fatta scienza
di ciò che mai potrà diventare conscio, scienza stessa della sua propria
incoscienza. Il fondo dell’origine è un fondo così buio che mai potrà
farsi visibile, mai potrà accedere a un qualsiasi genere di rivelazione.
Rifiuto stesso della presenza proprio perché sua unica provenienza, la
costituzione della soggettività è l’ultimo atto di una tragedia per soli
ciechi: ultimo proprio perché primo, perché l’ultimo fondo da raggiungere, fondo che non si potrà mai raggiungere; e tragico proprio
perché irraggiungibile, irraggiungibilmente lontano da ogni mano
che brancola nel buio. Lo stesso Husserl non sarà forse mai pienamente conscio del significato di questo inconscio, mai consapevole fino in
fondo della mancanza originaria di cui osò contagiare la sua scienza
delle essenze assolute. Come un’insonnia incurabile che brucia il suo
tormento nel cuore della notte, la passività è il risveglio a un mondo
che non è ancora scienza, che non è coscienza, e che forse non è neppure fenomenologia; il risveglio a quel mondo che ci circonda nelle
ombre della nostra esperienza quotidiana, il ridestarsi a un fondo che
ci sostiene e ci soccorre ogni volta il sapere fallisce il suo balzo.
Resterebbe, infine, da domandarsi cosa ne sia stato di Grund in
tutto questo. Diventato retro-fondo e poi un sotto-fondo, si è ora
perso nelle concrezioni di un suolo in cui lo stesso soggetto è rimasto
stratificato. O forse, al contrario, è proprio questo soggetto a essere
ormai diventato suolo, fondo e abisso, un soggetto che non ha davvero più niente a che fare con la superficie luminosa della coscienza
e che, anzi, parla ormai la lingua arcana dell’inconscio. Ritornando
al testo di Heidegger con cui eravamo partiti, varrebbe ora la pena
ascoltare la traduzione che lui stesso ci ha dato di questo soggetto,
tanto per il termine greco, quanto per quello latino:
Ma che cosa vuol dire soggetto? Il latino subiectum e il greco hypokeimenon significano: ciò che giace a fondo [zu Grunde], ciò che soggiace
in quanto Grund (HEIDEGGER 1997a, pp. 25-26).
255
INTENZIONALITÀ
di Federico Boccaccini
1. Introduzione
Supponiamo ora di non sapere nulla sulla fenomenologia – o di
sapere quel poco che tutti noi sappiamo – e di sospendere qualsiasi
giudizio o affermazione che ci porterebbe ad una definizione strettamente formale della nozione di intenzionalità. Concentriamoci come
punto di partenza su ciò che ognuno di noi intende quando usa tale
nozione e mettiamo da parte per il momento ciò che hanno detto i
filosofi. Qualsiasi cosa si intenda per intenzionalità, sappiamo dall’uso
che ne facciamo che questo termine ci parla di qualcosa che è in relazione con il nostro pensare – di fatto ciò che pensiamo – e che tale
relazione dunque disegna il nostro orizzonte di apprendimento del
mondo e di rovescio lascia che il mondo ci appaia. Tale campo è ampio quanto è ampia l’esperienza che possiamo fare in esso e dunque,
detto per inciso, ne misura anche i limiti. I limiti dell’intenzionalità
sono anche i limiti del mondo, almeno del nostro mondo. Possiamo
fare dunque una prima distinzione che ci aiuterà ad addentrarci in
queste ricerche. Quando parliamo di intenzionalità del pensiero stiamo
affermando due cose: la prima è che si pensa qualcosa, la seconda è che
qualcosa esiste, fosse anche solo come oggetto di pensiero. Se l’inten256
zionalità è la «guida trascendentale» che ci introduce alla vita della
coscienza, come riconosce ancora il tardo Husserl nelle Cartesianische
Meditationen (HUSSERL 1950a, p. 78), allora questa nozione è ciò che
dovrebbe caratterizzare la fenomenologia come stile filosofico e stabilirne dunque i criteri per la propria definizione. Un atteggiamento
fenomenologico dovrebbe essere tale se soddisfa tali criteri; uno di
natura cognitiva, il quale è chiamato a rispondere alla domanda del
tipo: che cosa è che si pensa?, l’altro di natura ontologica, chiamato a
rispondere alla domanda: che cosa esiste? Ma i due piani si intrecciano
ulteriormente, quando veniamo a porci la questione se ciò che si pensa debba esistere o se invece possiamo riferirci con il pensiero anche
ad entità non esistenti, come ad esempio i pensieri stessi1.
Introdurrò il problema dell’intenzionalità come problema fenomenologico, presentando il suo background storico e i problemi di
contestualizzazione, accennando in conclusione alla interpretazione
husserliana del problema, non potendo qui trattare in modo sufficiente, per l’ampiezza che richiederebbe, la descrizione di come tale
tema viene sviluppato nella sola opera husserliana.
2. Qual è il problema?
In un famoso dialogo, Socrate chiede a Teeteto se chi pensa non
deve forse pensare qualcosa. «Necessariamente», risponde Teeteto.
«E chi pensa qualcosa, chiede ancora Socrate, non deve pensare qualcosa di reale?» Teeteto ci pensa un secondo e poi risponde: «Così
sembra» (Teet.189a). Ecco dunque il nostro problema, che ho presentato scegliendo una citazione nobile e alta (quanto forse infedele).
Chi pensa, pensa qualcosa. Il qualcosa pensato è qualcosa di reale.
Possiamo distinguere le due tesi: la prima tesi afferma che (A) il pensare ha sempre un qualcosa per oggetto. La seconda tesi afferma che
(B) tale oggetto è sempre reale. Dunque ci troviamo di fronte, ad una
primo sguardo, una tesi di filosofia della mente e una tesi ontologica.
La questione è, come vedremo, che non è del tutto evidente che il
contenuto delle due affermazioni sia necessariamente vero, né che vi sia
un rapporto di dipendenza tra le due affermazioni. Si può accettare A
257
e rifiutare B. Si possono rifiutare entrambe. Alla nozione di intenzionalità dunque sono legate quello di essere, la nozione di verità, quella
di giudizio, la nozione di realtà e non da ultimo il ruolo svolto dalla percezione nell’intrecciare tra loro tali concetti. Nel 1874, Franz
Brentano (1838-1917) pubblica la Psicologia dal punto di vista empirico. Come è noto, egli reintrodusse nella storia della filosofia dopo
una lunga pausa la nozione di intenzionalità, anche se egli non usa
il sostantivo Intentionalität, ma parla prevalentemente di intentionale
Beziehung e di intentionale Inexistenz. Brentano offre al lettore, grazie
alla nozione di intenzionalità, una determinazione positiva degli atti
mentali, ma è anche quella per la quale trova più difficoltà a scegliere
le parole migliori e anche quella che avrà più fortuna nelle citazioni
e più ancora fraintendimenti:
Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioevali chiamarono l’in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di
un oggetto[die intenzionale Inexistenz (auch wohl mentale)], e che noi,
anche se con espressione non del tutto priva di ambiguità, vorremmo definire il riferimento ad un contenuto [die Beziehung auf einen
Inhalt], la direzione verso un obietto (che non va inteso come una
realtà) [die Richtung auf ein Objekt (worunter hier nicht eine Realität zu
verstehen ist)], ovvero l’oggettività immanente [die immanente Gegenständlichkeit]. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come
oggetto, anche se non ciascuno nello stesso modo. Nella presentazione qualcosa è presentato, nel giudizio qualcosa viene o accettato
o rifiutato, nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio odiato, nel
desiderio desiderato ecc. (BRENTANO 1973, pp. 154-155).
Dobbiamo notare che Brentano, il quale si rendeva pienamente
conto della difficoltà che la scelta di un termine imponeva, parla di
mentale Inexistenz e non di Existenz. Il punto del problema è proprio
in questo essere-in, dove il suffisso non va letto come privativo ma
come locativo. Esso indica una posizione d’oggetto. Non basta dire,
come spesso si fa, che gli oggetti intenzionali sono oggetti mentali o
che sono qualcosa di oggettivo solo per la mente. Se così fosse sarebbe stato sufficiente parlare di intenzionale Existenz e avremmo avuto
solo una differenza modale d’esistenza per l’oggetto, preso o come
258
reale (effettivo) o come intenzionale. Brentano al contrario parla di
un riferimento che ha una in-esistenza intenzionale. Il che non vuol
dire che c’è qualcosa che esiste in modo intenzionale, il che comporterebbe di creare una categoria a parte per tali oggetti moltiplicando
le entità, ma che gli atti mentali sono tali perché possono contenere o
dirigersi-verso qualcosa, sia che questo qualcosa (etwas) sia esistente o
meno. A differenza di ciò che molti credono e scrivono, il centauro
o l’unicorno non sono oggetti intenzionali ma sono semplicemente
degli oggetti inesistenti. Perché esso sia un oggetto intenzionale,
io devo pensare al centauro o parlarne. Se io non penso all’oggetto
inesistente esso non ha alcuna in-esistenza intenzionale. Esso rimane
qualcosa che non esiste. Per spiegare cosa egli intenda con intenzionale Inexistenz, Brentano ci dà tre definizioni:
1. Die Beziehung auf einen Inhalt.
2. Die Richtung auf ein Objekt.
3. Die immanente Gegenständlichkeit.
Queste parole non si riferiscono precisamente alla stessa cosa. Termini come Inhalt, Objekt e Gegenständlichkeit hanno evidentemente
una coloritura ontologica, mentre Beziehung auf e Richtung auf sembrerebbero suggerire una natura semantica dell’intenzionalità. Come
interpretare dunque questo passo? Dipende da come si intende la
relazione intenzionale, se come parte dell’atto o come direzione verso
qualcosa.
3. La relazione intenzionale
La definizione ci profila due tipi di caratterizzazioni: da una parte
ciò che riguarda l’inesistenza intenzionale come un essere-in, dall’altra
il riferimento ad contenuto o la direzione verso un oggetto. Tenendo presente questo punto vorrei sgomberare il campo da un altro
fraintendimento su una certa immagine dell’intenzionalità. Gli atti
mentali sono atti di relazione tra noi e il mondo. Potremmo dire, con
John McDowell, che è un «having the world in view»2. Spesso viene
così schematizzata tale relazione:
259
Sogg. --- Rappresentazione o entità intenzionale --- Mondo
Secondo questo schema le cose del mondo in quanto esperite vengono assunte in noi intenzionalmente. Cioè in-esistono intenzionalmente nella nostra mente. In questo caso, la rappresentazione come
medio tra l’interno e l’esterno di colui che pensa si sovrappone all’oggetto immanente, divenendo indistinguibili e facendo dell’intenzionalità la capacità di formare rappresentazioni (JACOB 2004).
Ma ciò farebbe di Brentano un rappresentazionalista e credo che ciò
vada rifiutato. Altrimenti si assumerebbe che per Brentano noi non
esperiamo mai le cose stesse, ma solo delle rappresentazioni delle
cose. In questo caso le oggettità immanenti sarebbero né più né meno
che delle immagini mentali. Che il nostro riferimento intenzionale
sia diretto ad una rappresentazione e non alla cosa è un’idea che non
si può far sostenere a Brentano, e anche se alcune sue parole restano ambigue, come quella di oggetto immanente, l’analisi testuale e
soprattutto gli ultimi scritti chiariscono la sua posizione antirappresentazionalista3.
L’idea che ci sarebbero delle proprietà della mente espresse da predicati come bello, buono o vero e dunque che l’intenzionalità esprimerebbe il modo in cui la soggettività si rapporta alle cose, non è
sostenibile. Questo per la ragione secondo cui un predicato come
vero, non è una proprietà dell’oggetto ma del giudizio. È un giudizio
ad essere vero o falso, non un oggetto. Sono i sentimenti e le azioni ad
essere buone o cattive, giuste o ingiuste, non gli oggetti del sentire o
delle nostre azioni. Si deve impostare lo schema in un altro modo:
come Contenuto
Atto ------------ Obietto}
come Oggetto
Non si deve confondere intenzionale con soggettivo. È vero che
l’intenzionalità concerne il soggetto, ma secondo Brentano è una legge psicologica universale l’affermare che chi pensa, pensa qualcosa,
dunque essa è oggettiva tanto quanto una legge della fisica, cioè valida per qualsiasi fenomeno mentale noi descriviamo, e alla quale ogni
260
fenomeno di questo genere deve sottostare. Come giustamente osserva Peter Simons, Brentano non impiega la nozione di intenzionalità
per designare delle entità mentali o psichiche in generale ma come
criterio per distinguere i fenomeni tra fisici e psichici (SIMONS 1992a,
p. 19). Gli esempi di fenomeni mentali fatti da Brentano sono: udire un suono, vedere un oggetto colorato, sentire caldo o freddo, e
anche tutti gli atti dell’immaginazione. Per i fenomeni fisici sono:
un colore, una figura, un paesaggio che vedo, una nota che ascolto,
il caldo, il freddo, un odore, come anche le immagini che appaiono
nell’immaginazione. Se intendiamo un fenomeno come già qualcosa
di mentale allora come tale può essere fatto oggetto di indagine psicologica, tuttavia le immagini e le sensazioni non possono riferirsi a
qualcosa. L’immagine del centauro, come anche le qualità secondarie,
non sono dei fenomeni psichici ma fisici perché tanto il centauro immaginato quanto il freddo sentito non hanno la facoltà di riferirsi a
nulla, poiché non vi è un oggetto effettivo a cui essi possono tendere
(nel senso latino di intendere). Dunque, secondo una certa interpretazione, essi sono contenuti reali dell’atto e come tali essi vivono come
parti dell’atto (Cfr. SMITH 1988, pp. 75-88). Poiché una parte non
può essere diversa dall’intero che la contiene, dobbiamo concludere che i fenomeni fisici sono fenomeni mentali non intenzionali?4.
Anche se questa interpretazione ha punti di riscontro nei testi, gli
esiti di panpsichismo a cui conduce non possono essere attribuiti a
Brentano5. Per Brentano la distinzione tra le due classi di fenomeni
fa perno sulla distinzione reale tra atto e oggetto. Tutti gli esempi dati
sono presentazioni (Vorstellungen) sensibili o di fantasia; ma, scrive il
filosofo, «per presentazione non intendo qui ciò che viene presentato,
ma l’atto di presentare» (BRENTANO 1973, p. 144-145). Seguiremo
qui dunque una semplice analisi descrittiva degli atti. Possiamo ora
fissare un punto, dicendo che gli atti mentali si qualificano per:
A. Ciò che hanno in comune.
B. Le classi principali in cui ricadono.
Per ciò che comporta (A) possiamo trovare sei elementi in comune
a tutti gli atti: gli atti mentali includono le parti individualizzanti in modo simile a quello in cui le differenze logiche includono i
generi; sono privi di locazione ed estensione spaziale; sono privi di
261
colore; presentano tutti una relazione intenzionale (intenzionale Beziehung); hanno una relazione primaria e una secondaria; una relazione secondaria è una presentare o un giudicare o un credere il quale
è semplicemente assertorio. Per quel che concerne (B) le classi principali in cui ricadono sono due: atti fondamentali e atti sovrapposti.
Dobbiamo sottolineare come i fenomeni mentali presentino un certo
carattere strutturale. Ora Brentano non afferma più di questo, tuttavia
se tiriamo le conseguenze delle sue analisi possiamo concludere che
l’atto, ogni atto mentale, si presenta per differenze modali, cioè per
modi differenti di riferimento ad un certo oggetto. Possiamo ora illuminare un punto non di poca importanza se buona parte della sua
scuola lo ha assunto come basilare: un atto isolato come entità singola non esiste. Un atto è un’unità strutturata. Ciò significa che un atto
è sempre in relazione a. Tenendo in considerazione i punti A e B come
i caratteri di qualcosa che si presenta in modo unitario, dobbiamo
descrivere questa relazione come tripartita:
1. Come relazione d’oggetto. Un atto ha sempre e necessariamente
un Objekt di riferimento. È una relazione interna all’atto, per questo
Brentano definisce l’obietto come interno all’atto. Questa è la relazione intenzionale propriamente detta. Brentano parla in questo caso
di obietto primario, possiamo definirla anche “relazione primaria”.
2. Come relazione di riflessione. Un atto ha sempre se stesso come oggetto. Brentano definisce questo caso come obietto secondario, possiamo definirla anche “relazione secondaria” o coscienza di un atto.
Atto di atto. Ciò implica che per Brentano non esistono atti non
coscienti di sé. L’atto presenta sempre una curvatura verso se stesso. Anch’essa è una relazione interna, ma a differenza della relazione
primaria qui l’obietto è sempre certo ed evidente come appare alla
percezione interna6.
3. Come relazione di struttura. Un atto è sempre in relazione ad altri
atti. Ad esempio un atto di presentazione è la base di ogni atto di
giudizio o di amore e odio. Nessun atto è elemento isolato del sistema. Tale relazione è esterna all’atto. Questo nucleo è l’oggetto della
psicologia descrittiva, ma è anche il riferimento per ogni relazione e
costituzione degli atti. Spesso i critici si sono fermati alla sola teoria
del doppio riferimento, dimenticando il terzo elemento ossia il ca262
rattere strutturale dell’atto mentale, di cui vorrei invece sottolineare
l’importanza, il quale viene in luce con maggior forza nelle lezioni
tenute da Brentano a Vienna tra il 1887 e il 1891 (BRENTANO 1982).
Il problema che Brentano affronta nel secondo libro della Psicolo7
gia è quella della natura della differenza tra l’atto di presentazione e
quella del giudizio, e tra queste due e la terza classe dove egli unifica
il sentimento e la volontà. Tratteremo solo delle prime due. Tale
problema, come già abbiamo avuto occasione di accennare, farà da
base per le ulteriori riflessioni di Twardowski, Meinong ed Husserl.
La linea di pensiero che si vuole sviluppare concerne il problema
dell’essenza del giudizio. Esso è il tema centrale su cui si confrontano i primi fenomenologi e in cui viene rifiutata con decisione una
versione psicologista del giudizio8. Iniziamo col ricordare che i fenomeni psichici si distinguono in tre grandi classi: la presentazione
(Vorstellung), il giudizio (Urteil) e i moti d’animo (Gemütsbewegung).
Nella prima classe rientrano le presentazioni fantastiche e il pensare
concetti generali. Nella seconda il ricordo, l’aspettazione, la deduzione, l’opinione, il dubbio. Sono moti dell’animo la gioia, la paura,
la tristezza, il dolore, che vengono raccolti sotto le due categorie di
amore e odio. Il principio di classificazione nella prima fase della riflessione brentaniana è fissato nella differenza di riferimento dell’attività psichica all’oggetto immanente, o detto in altre parole, nella
differenza modale della sua esistenza intenzionale. Successivamente
la differenza tra presentazione e giudizio sarà dettata dalle differenze
dei modi delle presentazione. Nelle parole dell’autore tale differenza
in questo momento è espressa come segue: «la differenza più profonda, in cui qualcosa è per essi oggettuale istituisce di nuovo tra esse le
differenze di classe per eccellenza» (BRENTANO1979a, p. 41).
Siamo in presenza di due modi completamente diversi di pensare
qualcosa. Ma non dobbiamo commettere l’errore di scambiare questa
differenza come differenza di obietto. Non è il contenuto ad essere
diverso nella presentazione e poi nel giudizio. Infatti alcuni hanno
creduto che la differenza sia da cercare o negli oggetti pensati o nella
compiutezza con cui essi vengono pensati. In questo ultimo caso si
crederà che la differenza consista nell’intensità dell’atto. Presentare
sarebbe un pensare con minore intensità un oggetto, un pensiero
263
debole che si fortifica passando nel giudizio che categorizza l’oggetto
nel suo esser vero. In questo caso più che affermare la differenza tra
i due atti si vuole cercare la continuità e fare della presentazione un
giudizio imperfetto e del giudizio una presentazione portata a compimento. Questa visione è rifiutata da Brentano poiché non salva la
differenza intrinseca tra i due atti. Passiamo allora alla prima ipotesi,
la differenza come differenza di contenuto. In questo caso si vorrebbe
interpretare il giudizio come una presentazione complessa e la presentazione come un giudizio semplice. Questo punto è di enorme
importanza. Brentano asserendo la separazione unilaterale tra questi
due atti fondamentali sta attaccando l’opinione, ben consolidata dalla tradizione associazionista, secondo cui il giudizio sia un collegare
o separare concetti. Ma non solo. La teoria del giudizio standard sostiene che un giudizio si esprime nella forma S è P, ossia nel collegare
un termine soggetto ad un termine predicato mediante il segno della
copula. O nel collegare o separare diverse note caratteristiche che noi
ci presentiamo. Brentano rigetta l’idea che l’essenza di un giudizio
sia nel collegare o nel separare note caratteristiche, anche se ciò si
verifica effettivamente da un punto di vista psicologico. Tuttavia anche una singola nota può essere riconosciuta o rifiutata. Ma il merito,
secondo l’autore, di aver nettamente scisso i due atti come momenti
in sé, va riconosciuto a J. Stuart Mill che, nel System of Logic (1843),
più di ogni altro ha chiarito la differenza precipua tra i due atti mentali. Secondo Mill nel giudizio quale asserzione v’è una differenza
sopra ogni altra forma di discorso poiché nell’affermare o nel negare
qualcosa non ci si presenta alla mente solo un certo stato di cose, ma
si anche è portati a credere in esso in quanto noi crediamo che quel
certo ordine di idee sia un fatto effettivamente reale. Pensare qualcosa e credere che questo qualcosa sia vero sono sostanzialmente due
cose distinte.
4. Twardowski e la distinzione tra Atto e Oggetto
Sulla distinzione tra atto e oggetto, portiamo come esempio
l’opera che Kazimierz Twardowski (1866-1938) pubblicò nel 1894,
264
Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen9. Tale opera è la
tesi con cui ottenne a Vienna la venia legendi, che fu letta e assimilata tanto dalla scuola austriaca quanto dalla scuola filosofica polacca
di cui divenne la pietra angolare10. Twardowski prende avvio dalla
tesi brentaniana che ogni atto si riferisce, per mezzo della relazione
intenzionale, ad un oggetto immanente. Accade che con il termine
presentazione, ci si riferisca a volte all’atto e a volte a ciò che è presentato nell’atto, cioè il contenuto della presentazione. Ma questo
determina equivocazione servendosi delle due nozioni come se avessero il medesimo senso. Alois Höfler nella sua Logik (1890), scritta in
collaborazione con Meinong, richiama l’attenzione su due punti: a)
ciò che noi chiamiamo contenuto è interno al soggetto tanto quanto
l’atto che lo presenta e b) la parola oggetto (Gegenstand o Objekt) è usata
in un duplice senso: sia per determinare qualcosa in sé a cui il nostro
atto si rivolge, sia per indicare qualcosa in noi, un’immagine mentale, un segno del contenuto. Nel presentarci un oggetto, verso il
quale l’atto si dirige, fa la sua comparsa anche un secondo elemento,
e cioè il contenuto della presentazione che è «egualmente presentato
ma in un senso diverso rispetto all’oggetto»11. Essi sono presentati ma
non sono nello stesso senso «qualcosa di presentato». Un senso ha se
riferito all’oggetto e un senso se riferito al contenuto. Per designare
questa differenza Twardowski si richiama ai lavori di Anton Marty
(1847-1914), all’analogia tra atti mentali e linguaggio. L’analogia è
tra presentazione e nome. Il nome è un termine categorematico, non
richiede di per sé di essere completato da alcunché di altro. Per chiarire fa un esempio. Si dice che un pittore dipinge un quadro, anche
se in realtà dipinge un paesaggio. La medesima attività del pittore
si rivolge a due oggetti ma il risultato è uno solo: il quadro dipinto. Anche il paesaggio è dipinto, ma non è un paesaggio. Il quadro
dipinto e il paesaggio dipinto sono la stessa cosa. La parola dipinto
svolge un doppio ruolo. Il che significa che l’oggetto presente in una
presentazione non è un oggetto reale, ma solo un oggetto presentato.
Quanto al contenuto esso è determinato da “presentato” tanto quanto un quadro dipinto è determinato da “dipinto”. Questa distinzione
è basata sulla distinzione brentaniana tra aggettivi determinanti e
modificanti. Ad esempio in un amico lontano, l’aggettivo è deter265
minante, in un falso amico è modificante, un amico falso non è un
amico. Il paesaggio è l’oggetto primario della sua attività pittorica,
il quadro l’oggetto secondario. Quindi l’oggetto della presentazione
è l’obietto primario della coscienza, mentre il contenuto per mezzo
del quale l’oggetto è presentato è l’obietto secondario. Diremo quindi che il contenuto è nella presentazione e l’oggetto è presente per
mezzo del contenuto.
Il filosofo boemo Bernard Bolzano (1781-1848), sostenne che vi
possono essere rappresentazioni senza oggetto (così come Frege sosteneva che ci sono sensi senza riferimento). L’importanza di Twardowski
sta nell’aver introdotto la teoria della trascendenza dell’oggetto e nell’aver fissato la nozione di intenzionalità dell’oggetto, oltre al fatto
di aver messo a confronto sul problema delle rappresentazioni vuote
le tesi opposte dei due più significativi filosofi dell’impero austriaco.
In Twardowski confluiscono questi due autori, Brentano e Bolzano,
la cui influenza sarà decisiva per Husserl. Sarà utile sottolineare che
secondo Twardowski abbiamo due tipi di giudizio: i giudizi esistenziali e i giudizi di relazione (non esistenziali) – Verhältnis – nel senso
di giudizi categorici. Tali giudizi corrispondono alla struttura delle
proposizioni. Secondo Bolzano, ad esempio, nella proposizione A è
b, dobbiamo interpretare A come un oggetto singolare e b come
una proprietà. La predicazione esprime una relazione tra un oggetto
e le sue proprietà, che si traduce in Ab, Ac, Ad… Da un punto di
vista ontologico, abbiamo che esistono sostanze e ciò che dipende
dalle sostanze (proprietà). Twardowski accetta la tesi brentaniana sui
giudizi esistenziali ma rifiuta la tesi del maestro sulla trasformazione
di tutti i giudizi categorici in esistenziali. Egli li interpreta come
giudizi di relazione in senso bolzaniano. A questo punto è chiara la
trasformazione: il contenuto è la sussistenza di una relazione, ciò che
comporta l’esistenza dell’oggetto in questione mentre l’oggetto del
giudizio è la relazione stessa. Per cui: A è b → oggetto: la relazione
tra A e b; contenuto: l’esistenza di questa relazione; A non è b → oggetto: la relazione tra A e b; contenuto: la non esistenza di relazione
tra A e b. L’esistenza dell’oggetto si mostra dall’analisi del contenuto
della proposizione e ne dipende. È evidente l’eredità leibniziana nella
rilevanza che acquista la nozione di relazione Si deve tener conto di
266
questo passaggio per comprendere lo sviluppo del problema dell’intenzionalità nelle Ricerche Logiche di Husserl.
5. Intenzionalità, Satz e Sachverhalt. Marty, Stumpf e i Contenuti di Giudizio
Secondo una concezione di tipo aristotelico la struttura logica di
un giudizio ricalcherebbe la struttura metafisica di relazione tra una
sostanza e i suoi accidenti. Il predicato appartiene al soggetto logico
come un attributo inerisce ad una sostanza. Questo può venir esemplificato dalla proposizione “l’albero è verde”. La parola “albero” indica una sostanza. Tale parola occupa la posizione logica di soggetto.
La parola “verde”, con la quale si indica un attributo della sostanza, è
un predicato del soggetto. La funzione logica della copula è nel connettere i due elementi in una proposizione. La verità della proposizione sta nel suo riflettere uno stato di cose esterno alla proposizione,
secondo una teoria della verità come corrispondenza. La verità sarebbe sorretta dalla predicazione, la quale è un atto categoriale. L’essenza
di un giudizio sarebbe nel riunire in un atto di sintesi cose differenti
e farcele cogliere in una unità, unità esibita per mezzo dell’asserzione. Gli oggetti semplici ed omogenei sarebbero intuiti come entità
singolari, i composti ed eterogenei sarebbero colti per mezzo di un
atto di sintesi appercettiva, la quale estenderebbe la nostra conoscenza del mondo esterno e con essa anche la possibilità di cadere
in errore. Secondo l’idea di Brentano la semplicità e la complessità
sono invece qualità che appartengono tanto alla presentazione che al
giudizio. Possiamo infatti avere presentazioni semplici o composte e
di conseguenza giudizi semplici o composti.
Atti
Semplici
Composti
Presentazioni
Albero
Albero verde
Giudizi
Albero é
Albero verde é
267
In generale possiamo ricondurre i termini al problema kantiano
dell’unità del giudizio. La questione è ripresa da Russell con maggior vigore. Russell sposta l’asse d’attenzione su come concepire le
relazioni12. Dell’unità della proposizione quello che c’è da capire è se
le relazioni sono interne o esterne ai loro termini. Inoltre c’è il fatto
che le proposizioni sono oggettive e indipendenti dal loro valore di
verità. I filosofi affermano che un enunciato vero sarà vero perché
si riferisce a qualcosa che lo rende vero13. Con questo “qualcosa” si
intendono delle entità. In generale, il problema consiste nel fatto
che una proposizione vera richiede dei criteri ai quali dobbiamo fare
appello per dire che lo sia veramente. Se affermiamo che un enunciato è vero, dobbiamo anche chiarire a quali criteri ci richiamiamo
per affermare ciò. In genere, questi criteri fanno appello a delle entità esterne alla mente a cui facciamo riferimento per far dipendere
il valore di verità. Per quel che concerne lo stato di cose il concetto
è parzialmente introdotto da Brentano, il quale usa la nozione di
Urteilsinhalt, ma viene poi modificato da Carl Stumpf (1848-1936),
nelle sue lezioni di logica ad Halle del 1888, preferendogli il termine Sachverhalt14. L’uso originario come “contenuto di giudizio” fu
ripreso da Marty, che lo utilizzò largamente nei suoi scritti dandogli
però una forte coloritura ontologica come ente a sé. Ne nacque una
forte polemica con il maestro, il quale non aveva mai autorizzato
questa interpretazione. Tuttavia, è vero che l’ambiguità del concetto
in cui Brentano l’aveva concepito lasciava spazio a equivoci. Husserl
preferirà la versione, dalla forte coloritura ontologica, di Stumpf. Per
capire l’importanza di questa nozione per la fenomenologia possiamo
leggere il § 6 dei Prolegomeni a una logica pura dedicato alla possibilità e legittimità di una logica come dottrina della scienza. Husserl è
dell’idea che il sapere è fondato sul giudizio, ma non basta comporre
un giudizio. Infatti «non ogni giudizio corretto, non ogni posizione o valutazione conforme a verità di uno stato di cose è un sapere
dell’essere o del non essere di questo stato» (HUSSERL 1975, p. 32).
Husserl intende dire che occorre un criterio esterno che mostri che
la proposizione conforme ad uno stato di cose è vera perché si possa
dire di avere scienza. Questo criterio è, come per Brentano, l’evidenza.
L’idea è che nel sapere noi possediamo la verità come oggetto di un
268
giudizio corretto. Io posso dire, ad esempio, che c’è un gatto sulla
tavola, e questa proposizione può essere vera, nel senso che di fatto
c’è un gatto sulla tavola, ma questo stato di cose è indipendente dal
mio giudizio e dunque non è evidente la relazione tra il mio giudizio
e questo stato di cose. La connessione si fa evidente se, ad esempio, io
vedo il gatto sulla tavola. Ora abbiamo la chiara certezza che sia ciò
che abbiamo assunto, e che non sia ciò che abbiamo respinto, lo stato
di cose che la tavola sia sgombra da gatti15.
Husserl afferma che «il contrassegno più pieno della giustezza del
giudizio è l’evidenza: per noi esso vale come immediato avvedersi
della verità stessa» (HUSSERL 1975, p. 33). Il sapere è l’evidenza del
fatto che un certo stato di cose sussiste o non sussiste, ad esempio
se S è o non è P. Ciò che dobbiamo avere, precisa Husserl, per avere
scienza è «un nesso sistematico in senso teoretico», questo nesso è
una connessione evidente tra stati di cose. A differenza del suo allievo, Brentano non accetterà, nella sua ultima ontologia, enti come
gli stati di cose e altri oggetti solo intenzionali. Benché anche la
teoria della verità di Brentano sia basata sulla nozione di evidenza,
da cui quella di Husserl deriva, la sua posizione si può fissare in ciò
che chiamerei nominalismo descrittivo, cioè l’eliminazione di qualsiasi
tipo di entità che non siano le cose, distinguendo tra un senso di
essere autentico e uno inautentico: tali entità come gli stati di cose
sono dette tali solo in senso inautentico, essi sono solo in quanto sono
contenuti di atti, solo in quanto hanno un riferimento intenzionale,
ma non hanno un essere.
Dunque la verità va fondata secondo un criterio interno, e tale
criterio è una relazione di evidenza tra la materia della presentazione
e l’atto di giudizio. È ciò che Brentano, con parole cartesiane, chiama
ammettere o rifiutare qualcosa. È il fatto che una proposizione sia
evidente a renderla vera, non una qualche entità.
6. Intenzionalità e Giudizio
La critica alla predicazione nella forma S è P viene confermata
dalla percezione. Secondo Brentano infatti:
269
Una percezione non consiste nel collegamento di un concetto di soggetto e uno di predicato, ovvero del fatto che essa si riferisca ad un
tale collegamento, nel senso che l’oggetto di una percezione interna
non è altro che un fenomeno psichico, e l’oggetto di una percezione
esterna non è altro che un fenomeno fisico: un suono, un odore e
simili (BRENTANO 1979a, p. 55, corsivo mio).
Il concetto di esistenza secondo alcuni non può derivare dall’esperienza, per questo motivo dall’analisi delle idee innate dovremmo
sottoporre a verifica il concetto. La risposta di Brentano è semplice:
il concetto di esistenza deriva dall’esperienza interna e si ottiene solo
riguardo al giudizio. Sbaglia chi crede che la predicazione appartenga
all’essenza del giudizio. L’errore sta nel ritenere, in una affermazione
del tipo “A è”, l’essere come predicato reale del soggetto. Dobbiamo
invertire il nostro sguardo. “A” non è il soggetto ma l’oggetto della
nostra percezione e come tale viene assunto, nel caso di una affermazione, o rigettato nel caso di una negazione. Ciò che viene assunto o
negato è l’oggetto A stesso, secondo uno stato di cose. La peculiarità
del giudizio va cercata nella sua specificità nel riferimento ad un
contenuto. Dunque l’essenza del giudizio non è nella predicazione,
che è un fatto di espressione linguistica, ma nella posizione dell’oggetto. Ma cosa vuol dire questo? Fra le pagine del testo di Brentano
questo punto scivola via. Si è voluto leggere in esso solo l’importanza
della teoria della trasformazione di tutte le proposizioni categoriche
in proposizioni esistenziali. Cosa già scoperta da Leibniz, ma ancora
inedita quando Brentano scrisse la sua opera. Ma questa è una lettura
superficiale. A ben guardare in gioco ci sono nozioni di più difficile
agevolezza. Tale complessità, insita nella riforma brentaniana della
struttura predicativa della logica classica, venne intuita da Husserl il
quale la riprese e l’ampliò nelle Ricerche Logiche, ma la fece così propria da sfigurarne il volto, tanto che diventò poi difficile ritrovarne
tra le pieghe la traccia brentaniana.
Nell’estate del 1927 Heidegger tenne un seminario a Marburgo.
Il seminario venne poi pubblicato solo nel 1975 nella Gesamtausgabe.
Il volume venne intitolato: I problemi fondamentali della fenomenologia. Non è compito della nostra analisi stabilire se i problemi del270
la fenomenologia siano quelli da lui indicati. Né vogliamo spiegare
Brentano parafrasandolo con Heidegger. Ma Heidegger ha affrontato
un punto difficile e non trascurabile in pagine sorprendentemente
chiare e soprattutto ha mantenuto con lucidità il filo della tradizione,
tanto che possiamo senza sforzo ritrovare nelle sue riflessioni tutta
l’eredità di Brentano sul problema dell’intenzionalità, comprese le
sue oscurità. Ad esempio il triplice rapporto tra posizione dell’oggetto intenzionale nell’atto di giudizio, la percezione e il concetto di
esistenza. A tal proposito Brentano, come Heidegger che lo segue,
chiama in causa Kant.
Kant aveva affermato che l’essere è posizione, l’esistenza è posizione assoluta. Nelle pagine della Critica della ragion pura dedicate
all’argomento ontologico Kant ha sostenuto che l’essere in una proposizione esistenziale, proposizione del tipo Dio è, «non è un predicato reale, ossia non è un concetto di qualcosa che possa aggiungersi
al concetto della cosa». «È» – osserva Kant – «semplicemente la
posizione della cosa o di certe determinazioni in se stesse». Tuttavia
Kant commette l’errore, secondo Brentano, di ascrivere tale proposizione tra quelle sintetiche, dove la funzione della copula non sarebbe
però in questo caso quella di collegare due concetti ma di mettere
direttamente l’oggetto in riferimento al mio concetto. Dunque Kant espone due tesi:
a. L’essere non è un predicato reale.
b. Le proposizioni esistenziali sono proposizioni sintetiche di tipo
particolare.
La tesi (a) è accettata da Brentano, la (b) respinta. Concentriamoci sulla prima. Dobbiamo riconoscere a Heidegger il merito di aver
chiarito che al centro della tesi kantiana va situata la definizione del
concetto di realtà. Affermare che qualcosa è non significa affermare
che esista effettivamente, ma significa affermare che esso è reale. Ora,
secondo Kant l’esistenza non appartiene affatto alle determinazioni di
un concetto. Reale (Realität), concetto che Kant aveva già utilizzato
nella categoria della qualità in rapporto alla sensazione, sta qui a significare ciò che appartiene ad una res. Per res non dobbiamo intendere una cosa esistente ma qualcosa che può essere pensato. Il concetto
di realtà, osserva Heidegger nelle sue lezioni, è sinonimo al concetto
271
platonico di idea, come ciò che viene afferrato di un ente quando si
domanda che cosa è, il tì esti. La risposta a tale domanda ci da la res,
la cosa o Sache, come la chiama anche Brentano. In una asserzione del
tipo “A è” non viene affermato che A esiste ma viene posto l’oggetto
in relazione all’intelletto, la semplice posizione. Se voglio affermarne
l’esistenza devo connettere l’oggetto con la percezione. Nel primo
caso si ha una sintesi predicativa, nel secondo caso una sintesi esistenziale. Quest’ultima è la posizione assoluta. «Quando poniamo l’esistenza» – osserva Heidegger – dobbiamo uscire dal concetto» (HEIDEGGER 1975, p. 37). Da qui la seconda tesi kantiana, accettata da
Heidegger ma rifiutata da Brentano. La relazione di sintesi che Kant
intende è una relazione che va ad aggiungersi alla cosa concependola
secondo una facoltà conoscitiva, secondo la percezione. La percezione
è la posizione assoluta della cosa. Essa fornisce la materia al concetto.
Ora questo vuol dire che sono io, con una facoltà soggettiva, ad aggiungere qualcosa alla Sache, alla sua realtà, e questo qualcosa è il mio
pensiero della cosa (Ding). Ma cosa vuol dire questo?
Evidentemente una sola cosa: sostenere che la percezione insita nel
soggetto, come suo atteggiamento, si aggiunge alla cosa, in un rapporto che coglie e accoglie questa cosa “in e per se stessa”. La cosa
viene posta nella relazione conoscitiva (HEIDEGGER 1975, p. 42).
Il reale, conclude Heidegger, viene legittimato come effettivo.
Secondo Brentano non vi è traccia di sintesi nelle proposizioni esistenziali, essi sono giudizi tetici. Brentano critica anche Tommaso su
questo punto. Anch’egli aveva interpretato le proposizioni esistenziali come giudizi categorici, i quali mettevano in relazione la nostra
presentazione con il suo oggetto. La posizione di Brentano è radicale:
non solo le proposizioni esistenziali non sono proposizioni categoriche, ma tutte le proposizioni categoriche non sono sintetiche. Il che
vuol dire che giudicare non è un atto sintetico, e dunque che non si
conosce per mezzo della sintesi del giudizio. E aggiunge che ogni
proposizione categorica può essere trasformata in una proposizione
esistenziale e quindi che l’essenza del giudizio non è nell’io congiungo
ma nell’io pongo. Giudicare quindi è un atto tetico.
272
7. Husserl e gli oggetti intenzionali
È la coppia noesi-noema che nel vocabolario di Husserl si è più
soliti associare al tema dell’intenzionalità. Essa fa la sua comparsa
nel libro I delle Idee nel 1913, sezione terza, dove ricopre un ruolo
centrale, come problematica dell’intenzionalità sotto la denominazione di «strutture noetico-noematiche» (HUSSERL 1950c, § 87-127,
pp. 222-316). Con noesi Husserl intende l’azione del pensare e con
noema il correlato oggettivo sul quale è diretta l’azione del pensiero. È una trasformazione della coppia brentaniana atto-oggetto nella
nuova formulazione trascendentale della fenomenologia. Ancora nel
periodo della Krisis rinviene, ancora dentro il contesto dell’epoché, nel
«paradosso dell’oggetto intenzionale», come egli definisce l’oggetto
immanente, la via privilegiata di accesso alla fenomenologia16. Ma
se vogliamo capire di cosa si parla quando parliamo di tali strutture
dobbiamo fare un passo indietro. Il concetto di Inexistenz viene preso
da Husserl e risituato nel capitolo terzo della Filosofia dell’aritmetica
(1891). Qui possiamo trovare tale concetto impegnato in un rapporto diretto con concetti ontologico-materiali. Dobbiamo attendere lo
scritto del 1894 Oggetti intenzionali (HUSSERL 1979, p. 90 sgg.), il
quale è una risposta al libro di Twardowski, per trovare le tracce di
un rapporto tra l’intenzionalità e i concetti ontologico-formali, cioè
concetti come stato di cose o oggetto, dove incontriamo per la prima
volta la difficoltà posta per il raddoppiamento tra l’esistenza degli
oggetti intenzionali e la trascendenza degli oggetti sia ideali che
reali. Questo problema sarà il nucleo centrale delle Ricerche Logiche.
Segnaliamo schematicamente qui due punti:
1. Il problema di atti mentali privi di riferimento, o anche detto
il problema delle rappresentazioni vuote17.
2. La questione delle differenti modalità di riferimento all’oggetto, in quanto dato come presente e in quanto assente nel rinvio.
In generale, il problema di descrizione degli oggetti intenzionali
concerne il pensiero del non-esistente. Abbiamo tre posizioni possibili: a) non è possibile pensare qualcosa che non è (gli stati intenzionali hanno relazione solo con cose reale, tesi sostenuta dal tardo
Brentano); b) è possibile pensare qualcosa che non è, a condizione
273
di sostenere l’esistenza di oggetti intenzionali; c) è possibile, senza
condizioni, pensare qualcosa che non è, poiché gli stati intenzionali
non hanno relazioni con le cose reali – questa è precisamente la posizione di Husserl. Husserl fa l’esempio bolzaniano di quadrato rotondo come presentazione senza oggetto. Abbiamo, secondo lo schema
noto, una presentazione di un oggetto e una proposizione o giudizio
che si riferisce ad uno stato di cose. Una presentazione ha sempre
un oggetto per riferimento, dunque la negazione non si manifesta a
questo livello. Ciò vuol dire che una espressione di questo tipo ha un
senso che io, nell’atto successivo di giudizio, non riconosco. È solo
nel giudizio che l’affermazione e la negazione si manifestano. Una
proposizione non valida presenta uno stato di cose negativo. Il contenuto (Gehalt) di una presentazione non viene toccato dall’esistenza
dell’oggetto. Posso immaginare un centauro indipendentemente dal
fatto se esso sia o non sia. Ma, come abbiamo già detto, non dobbiamo confondere il contenuto con l’immagine di un oggetto. Presentare non vuol dire farsi l’immagine di qualcosa. Quando ci rappresentiamo qualcosa non ci rappresentiamo l’immagine della cosa, ma la
cosa stessa. Non udiamo la rappresentazione di un suono, ma il suono
stesso. Il contenuto presenta o sta in rappresentanza di qualcosa; non
è ciò che noi intendiamo; per mezzo di esso ci siamo rappresentati
un certo oggetto. Ogni presentazione ha un oggetto. Husserl chiama
questo avere «esistenza intenzionale». Husserl critica in Twardowski
l’inutile raddoppiamento. L’oggetto immanente non può essere altro
che l’oggetto reale, ove rappresentazione corrisponda a verità. Nella
presentazione l’oggetto è presentato, nel giudizio è affermato come
esistente. Non ci sono due oggetti: uno intenzionale e uno reale. Ma
un solo oggetto, a cui ci si riferisce in modi differenti.
8. L’intenzionalità nelle Ricerche Logiche
Veniamo ora alle Ricerche Logiche (1900-1901, I ed.; 1913, II ed.
priva della VI ricerca ripubblicata nel 1921; 1922, III ed.). L’idea
che mi interessa presentare è quella di configurare l’intenzionalità
in Husserl sotto lo schema della prima ricerca e, sostanzialmente,
274
fondarlo sulla distinzione tra Sinn e Bedeutung e sul concetto di «atti
di riempimento». L’idea è che la questione dell’intenzionalità è resa a
partire dall’analisi della teoria della significazione18. Afferma Husserl
nell’introduzione alla prima ricerca quello che io credo sia il nucleo
dell’intero lavoro del filosofo:
il fatto che ogni attività di pensiero e del conoscere sia diretta su
oggetti oppure su stati di cose, che essa può cogliere in modo tale che
il loro “essere in sé” si manifesti come unità identificabile nella molteplicità degli atti reali o possibili del pensiero, ovvero degli atti significanti; inoltre il fatto che ad ogni pensiero sia propria una forma,
sottoposta a leggi ideali che definiscono in generale l’obiettività o
l’idealità della conoscenza – tutto ciò solleva continuamente questi
interrogativi: in che modo dobbiamo intendere il fatto che l’“in sé”
dell’obiettività giunge a “rappresentazione” anzi ad “apprensione”
nella conoscenza, ridiventando così soggettivo (HUSSERL 1975, pp.
273-274).
Abbiamo tre strati del segno: il fenomeno fisico dell’espressione
(voce o scrittura); l’atto significante (fenomeno mentale); l’atto di
riempimento (fenomeno mentale).
Dobbiamo distinguere l’espressione stessa (cioè l’atto) da ciò che
esprime come proprio significato (l’oggetto). Un’espressione, in virtù degli atti, intende qualcosa riferendosi ad una oggettualità. Questa oggettualità è presente in modo attuale o presentificata (il che
vuol dire immaginata nella fantasia). Il riferimento all’oggettualità è
realizzato quando c’è riempimento intuitivo. Ma può rimanere priva
di intuizione. Quindi resta fondamentale la distinzione tra intenzioni significanti intuitivamente vuote e piene. Su questa base bisogna
distinguere due generi di atti: (a) essenziali all’espressione e (b) di
riempimento di significato
Per quanto riguarda (a) Husserl parla anche di atti conferitori di
senso o intenzioni significanti. Quando abbiamo presenti i tre elementi abbiamo un’unità di senso. Ora, ed è questo uno dei punti più
difficili, a tale proposito possiamo parlare di idealità del significato.
Cioè dobbiamo passare dalla relazione reale degli atti alla relazione
ideale dei loro contenuti o oggetti (Cfr. HUSSERL 1984a, § 11, pp.
275
309-312), ossia all’idealità del rapporto tra espressione e significato.
Ogni espressione non dice solo qualcosa, ma dice qualcosa su qualcosa, cioè ha un significato e si riferisce anche a oggetti. Abbiamo
una distinzione analoga tra la Vorstellung e l’Ausdruck: come la rappresentazione ha un contenuto e un oggetto, così l’espressione un
significato e un riferimento. E arriviamo ora al nesso ideale tra Sinn e
Bedeutung (§ 13). Non si può parlare di due aspetti dell’espressione,
l’essenza dell’espressione risiede esclusivamente nel significato, non
è essenziale all’espressione il riferimento. Ad esempio: il vincitore di
Jena e lo sconfitto di Waterloo, espressioni con senso diverso ma stesso
riferimento, o Bucefalo è un cavallo e questo ronzino è un cavallo, stesso
senso ma diverso riferimento e, cosa che introduce Husserl, nel caso
in cui affermiamo che a > b e b < a, tali espressioni hanno sensi e
riferimenti diversi ma esprimono la stessa situazione (Sachlage). L’oggetto si costituisce come dato in certi atti quando l’espressione si
riferisce all’oggetto dato in una denominazione attuale cioè quando
l’intenzione significante si riempie sulla base dell’intuizione corrispondente. Si può parlare allora di una coincidenza tra significato e
riempimento. Anche negli atti di riempimento è necessario distinguere tra contenuto e oggetto. Quindi abbiamo:
singoli rossi, sono momenti d’atto. Ogni singolo rosso, insieme ad altri
momenti (particolari astratti) appartengono ad un oggetto, mentre il
rosso in specie non esiste nell’oggetto né, meno che mai, nel nostro
pensiero. Allora i significati formano una classe di concetti intesi
quali oggetti generali. L’idealità dei significati è un caso particolare
dell’idealità della specie in generale. Abbiamo anche in questo caso
un raddoppiamento: un significato presenta una specie ed è a sua
volta una specie. Cioè il significato come atto (il presentare una specie) e il significato come oggetto (la specie stessa). Il problema della
relazione tra atto e oggetto a questo livello è evidente, la specie rossa
in cui ricadono tutti i rossi non è rossa. L’idea di Husserl è che il rosso
in specie è fondato sul rosso intuito individualmente, ma che tutte le
singole intuizioni del rosso non ci danno la specie rossa, che essendo
una nuova datità (oggettità) chiede una nuova forma di apprensione.
Ci deve essere un nesso di fondazione tra la presentazione intuitiva di
questo rosso e quella non-intuitiva della specie rossa (il rosso). A
questo punto abbiamo la nozione di generalità: l’idea generale di
rosso non è l’idea del rosso, essa è l’idea di ciò che viene posseduto da
ogni rosso. Husserl distingue tre forme di generalità:
a) UN ROSSO -- b) TUTTI I ROSSI -- c) IL ROSSO IN GENERALE
Atto
Contenuto
Oggetto
Atti d’espressione
Sinn
Bedeutung (oggetto
intenzionale)
Atti di riempimento
Relativo al
significato
Oggetto percepito
La struttura ideale dell’atto conferisce significato; abbiamo quindi un significato riempiente o idea. Noi cogliamo l’essenza del significato nel suo “contenuto”, che rappresenta una unità intenzionale.
Husserl introduce a questo punto la nozione di identità della specie,
con una analogia. Il significato si trova rispetto ai singoli atti del
significare come il rosso in specie sta ai singoli rossi di uno stesso rosso.
La specie può, come unità ideale, abbracciare la molteplicità disparata delle singolarità individuali. Le intenzioni significanti, come i
276
UN ROSSO è una generalità singolare. Il concetto rosso, la cui
funzione logica è quella di predicato, non appartiene direttamente
all’atto. TUTTI I ROSSI è una generalità universale, ossia una generalità logica che può essere espressa nella forma della quantificazione,
essa appartiene all’atto. IL ROSSO IN GENERALE è la generalità in
specie, o universale astratto (rossità, triangolarità) ottenuta per idealizzazione. Non può essere esemplificata, ma appare in espressioni
del tipo questo rosso è più rosso di quello.
Salteremo il rapporto tra intenzionalità e grammatica a cui è dedicata la quarta ricerca e l’analisi ontologica formale dei momenti nella teoria generale dell’intero e della parte nella terza ricerca,
per concentrarci sulla quinta e, infine, sulla sesta. La quinta ricerca è consacrata all’intenzionalità. In particolare, viene presentata
la questione del problema dello statuto dell’oggetto intenzionale e
277
viene criticata la nozione di Vorstellung in Brentano. A differenza di
Brentano, Husserl sostiene che non tutti gli atti siano intenzionali.
Ad esempio le sensazioni e le complessioni di sensazioni (HUSSERL
1984a, p. 160). Vi sono dunque degli elementi della coscienza che
possono essere intra-intenzionali. La dottrina della sensazione è una
parte abbastanza controversa, in quanto anche Brentano, a partitre
da una polemica con Lotze, ne aveva ampiamente discusso. Possiamo
dire che, per quel che riguarda Husserl, le sensazioni costituiscono
la “materia” dell’atto intenzionale e sono il solo contenuto reale nella
pura immanenza, ciò che Husserl chiama «materia intenzionale».
Vi sono parti dell’oggetto dato dalla sensazione le quali possono non
essere intenzionate dall’intero, ossia non sono in sé degli oggetti intenzionali. Essa suppone la trascendenza dell’oggetto del riferimento
intenzionale. Vi sarebbe, dunque, uno psichico non intenzionale ed
è, nella terminologia di Husserl, un vissuto.
Nessuno chiamerà essere psichico un essere reale (real) che sia privo
di tali vissuti [vissuti intenzionali], per esempio, che abbia in sé soltanto contenuti quali sono i vissuti sensoriali, senza essere in grado
di interpretarli come oggetti o in qualche modo portare a rappresentazione degli oggetti per loro mezzo [sie gegenständlich zu interpretieren oder sonstwi durch sie Gegenstände vorstellig zu machen] – quindi
senza essere in grado di riferirsi ad essi in atti ulteriori, di giudicarli,
di gioire di essi e provare pena, di amarli, di odiarli, di desiderarli o
detestarli (HUSSERL 1984b, p. 157).
L’intenzionalità non definisce più la divisione tra fenomeno mentale e fisico, come in Brentano. Ciò che costituisce il senso ora è il
rapporto diretto all’oggetto. Cosa è dunque l’intenzionalità?
L’intenzionalità non è una relazione tra l’io e un oggetto, ma è divenuta una relazione che è essa stessa un oggetto. Un oggetto di tipo
particolare: un atto. Dobbiamo qui fare attenzione alla riscrittura
operata da Husserl tra la prima edizione e la seconda edizione delle
Ricerche Logiche. Nell’interpretazione dell’idealismo trascendentale
fenomenologico viene ad essere sostituito «non-effettività dell’oggetto» con «idealità dell’oggetto». C’è coincidenza invece nella prima e nella seconda edizione tra «oggetto reale effettivo» e «oggetto
278
intenzionale». Riferimento e oggetto si sovrappongono perfettamente. Questa differenza non è di poco conto poiché divide un’interpretazione realista della fenomenologia (contro anche l’interpretazione
stessa che dà di se stesso Husserl) da una interpretazione idealista in
senso trascendentale.
Tuttavia dire che l’oggetto intenzionale coincida con l’oggetto
reale non significa dire che sono la stessa cosa. Cosa distingue il riferimento dall’oggetto? Questo è, tra gli altri, un problema posto
nella sesta ricerca. Il problema è in generale quello della conoscenza
e della verità, che abbiamo già toccato parlando del rapporto tra intenzionalità e giudizio e che è presente in tutta la produzione della
scuola brentaniana. In Husserl, esso viene presentato nei termini di
rapporto tra intuizione e significazione. In questo senso il cerchio si
chiude, con una curvatura che va dalla sesta ricerca alla prima. Nel
§ 39 Husserl illustra la sua teoria della verità come coincidenza, che
egli chiama, con termine brentaniano, evidenza. Troviamo in essa il
ruolo dell’intuizione e la riabilitazione, contro Brentano, dell’esser
vero come essere in senso proprio. Qui abbiamo l’introduzione della nozione di «intuizione categoriale». L’intuizione categoriale è ciò
che ci dà gli stati di cose. È stato acquisito che il significato delle
espressioni sia insito nell’essenza intenzionale degli atti corrispondenti. Ma quali generi di atti sono in grado di esercitare una funzione
significativa? Tutti o solo alcuni atti sono da porre su questo piano?
Si richiama qui il problema tra intenzione significante (Bedeutungsintention) e riempimento di significato (Bedeutungserfüllung). O come,
con altre parole dal sapore kantiano di cui fa uso Husserl, tra concetto
(Begriff) o pensiero (Gedanke) e l’intuizione corrispondente. Ogni volta
che un’intenzione rappresentazionale ottiene il proprio riempimento
ultimo per mezzo della percezione idealmente compiuta – ricordiamo che gli atti intuitivi hanno una pienezza di gradi, ma mai completa, e sono dati dall’immaginazione e che solo gli atti percettivi
raggiungono la pienezza completa e ci danno “la cosa stessa” – si
produce allora l’autentica adequatio rei et intellectus; l’oggettualità è
effettivamente “presente” o “data” proprio così come è stata intenzionata o pensata. L’intellectus è l’intenzione intellettuale, quella del
significato. La res ci è data dall’atto percettivo nei suoi adombramen279
ti. La percezione è una atto posizionale, o tetico, come si esprimeva
Brentano. Dunque tale atto non è conoscitivo e non è predicativo.
Questo è un punto che si deve sottolineare con forza, poiché spesso
la percezione viene scomposta e analizzata secondo un’analisi predicativa, come se vi fosse un rispecchiamento tra la forma logica delle
proposizioni e la nostra percezione del mondo. Secondo Husserl, a
differenza della logica classica aristotelica, dove a forme linguistiche
(nomi, proposizioni, ottative etc.) corrispondono atti (presentazioni, giudizi, desideri) secondo un modello di denominazione, per la
logica fenomenologica gli atti sono (costituiscono) oggetti, non li
nominano solo. Gli atti del presentare espressi dai nomi (enunciati,
etc.) sono atti che conferiscono il senso ma non sono significati. Le
intuizioni interne si rivolgono riflessivamente su questi atti. I veri
significati delle espressioni discusse richiedono gli atti oggettivanti. Se
nella quinta ricerca l’oggetto intenzionale viene fatto coincidere con
il riferimento (significato), ed è questo il punto di novità, nella sesta,
il significato viene posto in relazione all’oggetto reale, introducendo
il problema della sintesi tra piano dell’idealità e piano dell’effettività,
introducendo il nesso con la verità e la sua duplice direzione, tramite
l’intuizione, sia verso il sensibile, che ci dà la posizione dell’oggetto,
sia verso il categoriale, che ci dà gli stati di cose.
1
A differenza di quanto spesso si crede, l’eredità dell’empirismo non è riassunta
tanto nel principio secondo cui la conoscenza deve derivare esclusivamente dall’esperienza, principio che probabilmente nessuno avrebbe difficoltà ad accettare, compreso Kant, ma nel sostenere che vi sia una separazione inconciliabile
tra il pensato e il dato, o detto altrimenti, tra relations of ideas e matters of fact.
Anche per Kant la nostra conoscenza è limitata all’ambito dell’esperienza, essa
non sorpassa mai i limiti dell’intuizione sensibile. Ma il punto controverso, che
Hume rifiuterebbe, sta nella possibilità delle nostre rappresentazioni (date dai
sensi) di riferirsi ad una unità oggettiva, la quale può essere solo pensata. Ora,
se tutte le nostre rappresentazioni vengono riferite dall’intelletto ad un oggetto,
e essendo le apparenze nient’altro che rappresentazioni, l’intelletto le riferisce
ad un qualcosa. Ma cosa è questo qualcosa? Questo qualcosa, per Kant, non è
altro che l’oggetto trascendentale, l’oggetto cui riferisco l’apparenza in generale
ossia l’idea completamente indeterminata di un qualcosa in generale (KrV, A
280
2
3
4
5
253). Questo è il significato di questo qualcosa di cui non sappiamo niente. Le
condizioni, le regole o forme non possono essere date, ma solo pensate, esse non
sono né oggetti logici né sensibili. Esse sono dunque oggettualità trascendentali,
ossia qualcosa senza di cui alcun oggetto reale o razionale potrebbe essere pensato, il tempo e lo spazio, i quali costituiscono la forma degli oggetti a priori e la
materia degli oggetti a posteriori. La loro realitas objectiva riposa proprio sul fatto
che, senza di loro, alcun oggetto può essere pensato. Questa è la strategia kantiana per spiegare come le idee possono essere riferite a qualcosa fuori del soggetto.
Tuttavia, come ricaviamo il concetto di qualcosa? L’indeterminatezza di questo
concetto richiede l’analisi degli usi del concetto di essere e la sua corretta applicazione, che sono precisamente il soggetto della Dissertazione del 1862 di Franz
Brentano (BRENTANO 1960). Se si afferma che la filosofia brentaniana all’inizio
del XX secolo ha rinnovato la filosofia tedesca, emancipandola dal kantismo e
dall’idealismo, cosa che credo abbia un senso profondo, bisogna anche impegnarsi a spiegare in cosa consiste questa emancipazione. La questione dell’intenzionalità, nella ripresa della nozione aristotelica di atto, introduce esattamente questo
tema, portando il concetto moderno di rappresentazione alla sua crisi.
J. McDowell, Having the World in View: Sellars Kant and the Intentionality (The
Woodbridge Lectures, 1997), in «Journal of Philosophy», 95/1998, pp. 431-90.
Il 17 marzo del 1905 Brentano scrive una lettera ad Anton Marty che viene
solitamente indicata come documento del punto di svolta del suo pensiero verso
la fase reista. L’antefatto è questo. Brentano aveva inviato al V Congresso Internazionale di Psicologia di Roma una comunicazione dal titolo Von der psychologischen Analyse der Tonqualitaten (in BRENTANO 1979b pp. 93-103), su cui si
erano scagliate le osservazioni critiche di Alois Höfler, allievo di Meinong, che
muovevano proprio dalla teoria dell’oggetto immanente. Critiche che vengono
riferite da Marty allo stesso Brentano per via epistolare. Brentano si difende
chiarendo la sua posizione in modo deciso e scrive a Marty: «io non ho mai sostenuto che l’oggetto immanente si identifichi con l’“oggetto rappresentato”. La
presentazione ha “la cosa”, non la “cosa presentata” per oggetto. La presentazione
di un cavallo, ad esempio, non ha un “cavallo presentato” ma “un cavallo” quale
oggetto immanente (l’unico da chiamarsi propriamente tale)» (BRENTANO 1966,
pp. 119-121). Tuttavia nonostante la chiarificazione successiva di Brentano la
natura ambigua dell’oggetto intenzionale fu raccolta da molti.
In questo senso, il fenomeno fisico come parte del fenomeno mentale è una tesi
che appartiene a W. Wundt. La distinzione tra psichico e fisico in questo filosofo
è solo de dicto ma non de facto, mera conseguenza di una riflessione. Dunque secondo Wundt, ogni fenomeno naturale può essere soggetto ad indagine psicologica, unificando la rappresentazione con l’oggetto rappresentato.
Questa interpretazione si deve a R. M. Chisholm, il quale ha interpretato letteralmente il contenuto dell’atto come una qualcosa dell’atto stesso, giustificato
dal fatto che Brentano stesso indica come proprio modello l’inerenza nell’atto della forma priva della materia come presente nell’atto stesso, di chiara ori-
281
gine aristotelica. Il punto è controverso. Per l’interpretazione ontologica, cfr.
CHISHOLM 1967, pp. 1-23 e CHISHOLM 1978, pp. 197-210, per una interpretazione semantica dell’intenzionalità, AQUILA 1977.
6
Dan Zahavi critica la nozione di riflessione in Brentano come una versione della
teoria lockiana della riflessione, che Zahavi chiama una «reflection theory of
self-awareness» (ZAHAVI 1998, pp. 127-168), interpretando in questo senso la
awareness dell’oggetto secondario come un atto riflessivo in senso forte il quale
avverrebbe successivamente alla self-awareness, cadendo in un circolo nel tentativo di spiegare il fenomeno della riflessività, e dunque tale nozione non sarebbe
accettabile. Il punto non può essere qui approfondito, tuttavia credo si possa interpretare la riflessività della percezione interna in Brentano in senso debole, ossia
tenendo conto della possibilità di riferirci ad oggetti senza ancorare in modo forte tali atti alla possibilità di pensare che stiamo pensando. In questo senso parlo
di una riflessività debole poiché la consapevolezza dei nostri atti mentali si innesta
sulla coscienza di questi atti senza che vi sia necessariamente autocoscienza della
coscienza degli atti, il che comporterebbe effettivamente un regresso all’infinito,
che d’altra parte Brentano stesso ha cercato di evitare. Per questo innesto debole
della coscienza sugli atti, ho preso suggerimento dal lavoro di H. N. Castañeda
sul riferimento dell’Io (CASTAÑEDA 1989) e da FERRARIN 1992, pp. 111-152.
7
I primi due volumi furono pubblicati nel 1874. Nel 1911 viene ripubblicato
il solo secondo volume a cura di O. Kraus, con l’aggiunta di 11 appendici. Il
volume avrà il titolo Von der Klassifikation der psychischen Phänomene. Una terza
edizione, sempre a cura di Kraus, del 1925, avrà in aggiunta ulteriori materiali
del periodo più tardo, provenienti dal Nachlass.
8
Hermann Lotze è il primo a mostrare nella sua Logik una chiara prese di posizione antipsicologista. Cfr. MELANDRI 1990.
9
K. Twardowski, Contenuto e oggetto, Bollati e Boringhieri, Torino 1988.
10
Il pensiero di Brentano ha esercitato una durevole influenza sulla filosofia in
Polonia, soprattutto grazie all’insegnamento di Twardowski, discepolo di Brentano e lui stesso fondatore di una importante scuola filosofica. Su questo punto
DAMBSKA 1978, pp. 117-130, e SIMONS 1992b; Sull’eredità brentaniana vedi
SMITH 1994, in particolare il cap. 6, dedicato a Twardowski e il cap. 7 dedicato
a Kotarbinski, e BENOIST 1997.
11
K. Twardowski, Contenuto e oggetto, p. 63, corsivo mio.
12
Russell fu influenzato da Bradley, che a sua volta fu influenzato da Hegel. Da
qui le origini kantiane del problema. Sull’influenza dell’idealismo tedesco nella
formazione della prima filosofia analitica vedi P. Hylton, Russell, Idealism and the
Emergency of Analytic Philosophy, Clarendon Press, Oxford 1990.
13
La questione è riassunta sotto la nozione di Truth-makers; il luogo classico di
riferimento è MULLIGAN 1984, pp. 287-321; per una introduzione generale alla
questione, BENOIST 2006.
14
Autobiografia intellettuale, in C. Stumpf, Psicologia e metafisica. Sull’analiticità dell’esperienza interna, Ponte alle Grazie, Firenze 1992, p. 48.
282
Ovviamente questo è un esempio ingenuo, poiché è evidente che il problema
dello scetticismo che qui fa da sfondo alla questione è ben più complesso. I sensi
non possono testimoniare per le idee, infatti il mio vedere il gatto sul tavolo non
può essere un criterio sufficiente per dire che l’idea che c’è un gatto sul tavolo
corrisponde ad uno stato di cose.
16
In HUSSERL 1954 § 70, pp. 261-264. Per ciò che riguarda Husserl si deve aggiungere che la sua ricerca sarà orientata su due punti che purtroppo in Brentano
rimangono solo accennati: 1) lo status degli oggetti di coscienza, in relazione
con l’oggettività del Ding e con l’oggettività ideale; 2) il rapporto tra il soggetto
e la sfera dei significati; logica e genesi di senso delle categorie e noeticità dell’attività della coscienza. Cfr. BENOIST 1997.
17
Per una seria introduzione al problema delle rappresentazioni senza oggetto,
BENOIST 2001b.
18
Per questo tipo di interpretazione vedi BENOIST 2001a.
15
283
due aspetti sono connessi; […] In generale nel pensiero moderno,
e in particolare in Levinas stesso, è da una certa concezione della
soggettività che si perviene – quando vi si perviene – al problema
ontologico, e non viceversa (OLIVETTI 1992, p. 73).
IPSEITÀ
di Alessandro Caroni
Premessa
Questo studio si ripropone di misurarsi con l’enorme importanza
che il tema dell’ipseità ricopre all’interno della fenomenologia. Nel
tentativo di svolgere questo vasto compito si è deciso di indagare
principalmente l’analisi della soggettività presente all’interno dell’ultima fase della filosofia di Emmanuel Levinas. Tale scelta è dettata
non solo dal percorso di studi che colui che scrive ha compiuto, ma
anche e soprattutto dal peso specifico che la questione del soggetto
riveste nel pensiero levinasiano1. Per cercare allora di supportare questa affermazione vorrei aprire questo lavoro con una citazione, che
allo stesso tempo vuole essere anche una dedica, tratta da Analogia
del soggetto di Marco Maria Olivetti, dove è scritto:
Autrement qu’être è un titolo – e un motto – che non esaurisce la
provocazione e il significato del pensiero di Levinas per la filosofia
d’oggi; esso lascia, se non da parte, quanto meno nell’implicito un
aspetto fondamentale della proposta levinasiana. Non meno che rispetto all’ontologia, infatti, Levinas prende le distanze rispetto alla
soggettività della tradizione filosofica occidentale. È evidente che i
284
Alla luce di questa precisa premessa si può iniziare ora a descrivere attraverso quale percorso Levinas giunge a mettere in discussione il soggetto teorizzato dalla tradizione filosofica occidentale. La
struttura soggettiva è infatti un dato problematico la cui risoluzione orienta il movimento della riflessione levinasiana. Non si tratta
dell’unico “motore” di questo pensiero, tuttavia è indubbiamente
un punto d’osservazione privilegiato dal quale poterlo esaminare. A
dimostrazione di ciò si può notare come in Dall’esistenza all’esistente
(testo pubblicato nel 1947) la dimensione soggettiva è definita come
«l’impossibilità di disfarsi di se stessi» (LEVINAS 1947, p. 80); in Autrement qu’être (1974) la medesima “zona” è descritta come un essere
«ingombrato» o «ostruito da sé» che è «sostituzione all’altro» (LEVINAS 1974, p. 138). Nell’arco che s’inscrive tra questi due momenti
non muta dunque la “rappresentazione” dell’interiorità del soggetto,
bensì la sua interpretazione: dall’insensatezza si giunge a una sua intrinseca significazione.
Prima di concludere questa premessa, come aiuto per orientarsi
in questo studio, si vorrebbe qui anticipare le principali caratteristiche tramite cui, nella fase finale del suo pensiero, Levinas descrive la
soggettività:
1. passiva e in-intenzionale;
2. dis-eguale;
3. vegliante.
1. La passività
La prima questione che s’intende qui affrontare è la passività che
secondo Levinas costituisce il soggetto. Si cercherà di affrontare questo problema partendo anzitutto dalla descrizione levinasiana della
dimensione soggettiva, per passare poi a un confronto con Husserl
285
proprio sul tema dell’intenzionalità. In tal senso può risultare utile
prendere le mosse direttamente dal testo levinasiano:
Si tratta di pensare la possibilità di uno sradicamento dall’essenza.
Per andare dove? Per andare verso quale regione? Per attenersi a
quale piano ontologico? Ma lo sradicamento dall’essenza contesta
il privilegio della questione: dove? Esso significa il non-luogo. L’essenza pretende di ricoprire e di recuperare ogni ec-cezione; la negatività, la nientificazione e già, dopo Platone, il non-essere che “in un
certo senso è”. Bisognerà perciò mostrare che l’eccezione dell’“altro
dell’essere”, al di là del non-essere, significa la soggettività o l’umanità, il se stesso che respinge le annessioni dell’essenza (LEVINAS 1974,
pp. 11-12, primo corsivo mio).
Così scrive Levinas in Autrement qu’être descrivendo il soggetto
come assenza di luogo. Esso segnala in tal senso un’eccedenza e questa incontenibilità risiede nell’intimità dell’io (nel se stesso). L’interiorità non è da ritenersi allora come uno stabile raccoglimento dell’esistente, ma come uno “spazio” che non coincide con sé. L’interiorità è
dunque il non-luogo in cui s’inoltra l’analisi levinasiana poiché in
essa si percepisce un’anomalia, ovvero una «stra-ordinaria ricorrenza
del pronominale e del riflessivo» (LEVINAS 1974, p. 11).
Può essere notato allora come in Autrement qu’être l’apparizione del
soggetto nell’esistenza segnali la questione per eccellenza e non un dato
di fatto da cui iniziare un percorso. Levinas (che sin dai primi passi della sua produzione si era opposto a una subordinazione dell’“esistente”
alla luce dell’essere) giunge in quest’opera ad abbandonare il termine
ente (sul quale peserebbe ancora il sospetto di “modulare l’essere”) per
passare esclusivamente alla soggettivazione. Nel suo resistere a qualsiasi
ontologizzazione la soggettività infatti mette già in discussione il privilegio filosofico dell’essere. In essa palpita una singolarità che non è
un momento del concetto e in quanto tale rappresenta una domanda
persistente. Il fatto innanzitutto che l’intelligibilità si faccia interrogazione è dunque già il segno di una questione2. Ciò comporta e consente
di sorprendere un “chi guarda” poiché vi è sempre un riferimento del
pensiero a se stesso. Nel “domandarsi” o nell’“interrogarsi” c’è un rinvio al nodo annodato in cui consiste la soggettività.
286
Per Levinas affrontare questa straordinaria specificità della soggettività vuol dire allora distinguere preliminarmente la «quis-sità
del chi» dalla «quiddità ontologica del che cosa» (LEVINAS 1974, p.
30). Vi è il rischio infatti che la ricerca del chi si riduca a trovare un
soggetto conoscente, ovvero che la risposta al “chi guarda?” venga ricondotta allo sguardo di un essere pensante chiuso nella correlazione
col suo oggetto. In questa manifestazione dell’essere lo “spettatore”
rimarrebbe perciò correlativo all’essere stesso, simultaneo e uno con
esso. Il chi generato dall’esibizione svanirebbe, restando una modalità dell’essere e un modo di ritrarsi (senza scomparire del tutto) nella
“notte di un se stesso”. È invece proprio nell’al di qua dell’intimità
che per Levinas si può trovare un interrogativo non rientrante nella
logica del che cosa:
Il chi – lo spettatore, la soggettività, l’Anima – si esaurisce in questo processo d’interiorizzazione? O l’interiorizzazione si esaurisce
nella negatività del “non mostrarsi”? È certamente questo il nostro
problema: che significa chi? Ma se l’interiorità fosse un’eccezione assoluta, l’essere scoperto nella verità sarebbe mutilato dalla sua interiorità, sarebbe, nella verità, in parte nascosto, apparente e non-vero
(LEVINAS 1974, p. 35, ultimo corsivo mio).
L’ipseità dunque rappresenta per Levinas una “eccezione assoluta”,
tuttavia il percorso attraverso cui egli è arrivato a cogliere questa
straordinarietà ha la sua origine nel dialogo critico costantemente
condotto con la filosofia husserliana e heideggeriana. Quello che qui
più c’interessa è vedere brevemente come Levinas attraverso un confronto con Husserl sia giunto a parlare della passività soggettiva, ovvero della sua in-intenzionalità.
È necessario per carpire a fondo il cammino compiuto dalla filosofia levinasiana e chiarire i suoi debiti rispetto a quella husserliana
partire dalle pagine di Teoria dell’intuizione della fenomenologia di Husserl (la tesi di dottorato di Levinas). È in quest’opera che alcune delle
critiche più importanti della filosofia levinasiana rivolte a quella husserliana sul tema della soggettività hanno la loro genesi.
Anzitutto va riconosciuto come sin da questo scritto Levinas di287
mostri di essersi appropriato in pieno del passaggio husserliano da
una coscienza di stampo naturalistico o psicologistico ad una coscienza assoluta di tipo fenomenologico o trascendentale. Si tratta perciò
della coscienza-di (Bewusstsein), secondo una visione che riconduce
al soggetto l’atto di riduzione fenomenologica e ritiene che parta da
esso la corrente intenzionale trascendentale diretta verso l’oggetto;
diversamente da Heidegger che utilizza il termine coscienza solitamente nella sua accezione morale-esistenziale (Gewissen)3.
Eppure in questo testo del 1930 si può rinvenire anche la prematura cognizione di almeno tre problematiche fondamentali sulle quali Levinas costruirà la sua personale visione del soggetto, che possono
così essere sintetizzate:
a. la scoperta della presenza di un peso inevitabile all’interno del
soggetto, rappresentato dalla coscienza stessa;
b. il pericolo di veder scomparire (nell’abisso assoluto e indifferente della coscienza) qualsiasi traccia dell’individualità umana;
c. l’intrinseco rapporto che la soggettività intrattiene con se stessa
nel legame che vi è tra la riflessione e la coscienza (che anticipa il
tema dell’immanenza dell’alterità nel soggetto stesso che sarà decisivo nel Levinas più maturo).
Già dalle pagine giovanili di questa tesi di dottorato affiora infatti
la volontà di far evolvere le analisi della filosofia di Husserl sino a cogliere il punto, o il luogo, ove sia possibile rinvenire l’individualità
che è propria di ogni soggettività; si può, in altri termini, affermare
che qui s’intravede già la volontà di cogliere un tratto di riconoscibilità (quella che nel corso del pensiero levinasiano verrà definita
unicità) dell’essere umano. Allo steso tempo rinvenire anche la consapevolezza del giovane Levinas nei confronti dell’inevitabile presenza
della coscienza rispetto all’io, che la fenomenologia husserliana ha
illuminato. È come se, già in questo primo testo levinasiano fosse
accolto il ruolo privilegiato che Husserl ha assegnato alla dimensione coscienziale, ma ravvisando da subito le sfumature esistenziali di
questa visione:
In questa esistenza per sé della coscienza – anteriore ad ogni sguardo della riflessione che avrebbe la coscienza per oggetto – consiste il
288
suo modo specifico di esistere, la sua assolutezza e indipendenza allo
sguardo della riflessione. La coscienza esiste in modo tale che essa è
costantemente presente a se stessa (LEVINAS 1930, p. 44).
In questa interpretazione della coscienza husserliana non viene
contestato il suo essere intesa come adeguata e totale trasparenza all’essere (e viceversa dell’essere alla coscienza), bensì ne è colto soprattutto l’aspetto di “indipendenza”, “anteriorità” e costante presenza a
se stessa; questi attributi che nella fenomenologia husserliana attestavano l’innegabile evidenza della coscienza e il suo essere fondamento
della stessa esistenza, in Levinas assumono invece anche la forma di
un peso ineluttabile. Dell’assolutezza della coscienza è avvertito il
suo essere un’inevitabile presenza da cui non ci si può liberare e che
ha una precedenza su tutto.
Va però riconosciuto (nel tentativo di rendere in maniera più
completa questo confronto) quanto il pensiero di Husserl su questo
tema compia un approfondimento, rispetto all’esposizione data nelle
Ricerche Logiche, nel volume secondo di Idee per una fenomenologia pura
e per una filosofia fenomenologica. In Idee Husserl infatti si spinge in
profondità all’interno della dimensione soggettiva, tematizzando la
dinamica dell’autopercezione riflessiva. Non ci soffermerà dettagliatamente su questo concetto, ma si vuole qui solamente sottolineare
come sia attraverso la descrizione dell’autopercezione che Husserl arrivi a scorgere un ambito passivo dell’io che sarà ripreso fortemente
da Levinas nella sua nozione di passività (il tema che stiamo appunto
ricercando). Si può leggere infatti al paragrafo 54 di Idee:
Di fronte all’io attivo sta quello passivo, e l’io, quando è attivo, è
sempre anche passivo, una passività che può essere sia dell’ordine
dell’affezione sia di quello della ricettività – il che non esclude che
possa essere anche meramente passivo (HUSSERL 1952a, p. 217).
Husserl individua dunque uno sfera pre-riflessiva che è come uno
sfondo che viene prima di qualsiasi comportamento, che anzi è presupposta da qualsiasi comportamento. La fenomenologia husserliana
coglie l’incapacità per il soggetto di avere come oggetto se stesso, ma
289
piuttosto di essere continuamente rivolto verso la propria vita nel
suo continuo plasmare cose in vista di opere: «primariamente, esso
non esperisce se stesso» (HUSSERL 1952a, p. 254).
Tuttavia, nonostante il primato husserliano nell’aver individuato
una dimensione passiva del soggetto, Levinas continuerà costantemente a criticare l’impianto esclusivamente conoscitivo di questa
scoperta e soprattutto l’incapacità di uscire da una visione della soggettività basata sul concetto d’intenzionalità. Effettivamente si può
notare come anche in Idee (dove la sfera pre-riflessiva è maggiormente descritta) Husserl non ammetta che vi possa essere un elemento
estraneo che sfugga all’intenzionalità e intacchi il soggetto:
Ciò che io non “so”, ciò che nei miei vissuti, nelle mie rappresentazioni, nel mio pensiero, nelle mie azioni non mi sta di fronte quale
rappresentato, percepito, ricordato, pensato, ecc., non mi “determina” spiritualmente. E ciò che non è incluso intenzionalmente, magari in modo inavvertito, implicito, nei miei vissuti, non mi motiva,
nemmeno inconsciamente (HUSSERL 1952a, p. 234)4.
Quanto affermato nella precedente citazione è proprio quello che
Levinas vuole superare rispetto alla visione husserliana del “sentire”,
egli vuole cioè giungere a cogliere radicalmente la passività sino a
scardinare le difese soggettive che Husserl, come si evince chiaramente dal passo citato, tende ancora a riaffermare.
È in Autrement qu’être (testo a cui possiamo finalmente ritornare
dopo questo breve digressione sulle origini del confronto tra Levinas
e Husserl) che viene esposta la visione della sensibilità. Levinas nella
sua esposizione prende le mosse dalla descrizione dei dati sensibili
compiuta da Husserl, per poi criticare la riduzione di questi elementi
a un insieme di noesi vissute che le accolgono e le identificano; così
malgrado essi spiccherebbero rispetto agli altri dati grazie alla loro
immediata presenza (alla loro pienezza di contenuto e ricchezza), sarebbero valutate in rapporto alla conoscenza. In Husserl infatti, secondo Levinas, attraverso la coscienza interna del tempo (che anche nella
sua pura immanenza rimane intenzionale) impressione e sensibilità
si coniugano. Lo sfasamento temporale dell’impressione sensibile (il
290
suo differire) è sempre recuperato. Esso così è un variare rappreso nella ritenzione, un istante trattenuto nell’identità coscienziale.
Husserl, nella sua analisi del sensibile, sarebbe perciò guidato da
un privilegio del teoretico in cui la sensibilità s’investe di sapere,
escludendo la possibilità che un elemento estraneo possa trascendere
la coscienza e possa eluderla5. A parere di Levinas anche la filosofia
husserliana afferma un’analogia tra la «coscienza di…» e le «intenzioni assiologiche o pratiche» (LEVINAS 1974, p. 42) nonostante essa
abbia scoperto delle significazioni differenti da quelle dell’apparire.
In questo modo la sensazione rientra nel sensato solo in quanto attraversata dall’intenzionalità e costituita nel tempo immanente in virtù
della ritenzione o protensione (della memoria e dell’attesa) proprie
della teoretica “coscienza di…”. La struttura dell’intenzionalità (correlativa alla manifestazione) sarebbe quindi fondatrice di tutto ciò
che si mostra. Questo tipo d’impostazione si ritrova secondo Levinas
nell’intera tradizione filosofica occidentale, la quale ha inteso la sensibilità sempre riconducendola alla sua manifestazione ed esaurendola nella sua apertura alla luce6.
Per comprendere adeguatamente questa critica levinasiana alla
fenomenologia di Husserl mi vorrei qui richiamare brevemente a Sé
come un altro, dove proprio riguardo a questo confronto Ricoeur, dopo
aver spiegato il ruolo della sensibilità in Levinas, afferma:
In che modo Husserl è coinvolto da questo effetto di rottura? Per
il fatto che la fenomenologia, ed il suo tema principale l’intenzionalità, dipendono da una filosofia della rappresentazione che, secondo
Levinas, può essere soltanto idealistica e solipsistica. Rappresentarsi
qualcosa significa assimilarla a sé, includerla dentro di sé, dunque
negarne l’alterità. La trasposizione analogica, che è l’apporto essenziale della quinta Meditazione cartesiana, non sfugge a questo regno
della rappresentazione. L’altro si attesta, dunque, sotto un regime di
pensiero non gnoseologico (RICOEUR 1990, p. 452).
Attraverso queste analisi di Ricoeur dovrebbe essere evidente
come la critica che principalmente Levinas rivolge a Husserl riguarda il primato della conoscenza. È proprio distaccandosi da questo
primato che Levinas prova a mettere in discussione la visione del
291
soggetto propria della tradizione filosofica occidentale. Si raggiunge
così dunque la prima determinazione della soggettività descritta da
Levinas che andavamo cercando, ovvero il suo non essere originariamente pensiero conoscitivo, ma piuttosto passività e allo stesso
tempo di essere originariamente pre-riflessiva (o in-intenzionale). È
destabilizzata in questo modo la solidità e antecedenza del Medesimo: la sua iniziativa e assoluta libertà sono inficiate dalla sensibilità su cui si poggiano. La vulnerabilità costringe a pensare che l’io
non sia realmente dotato di una libera iniziativa, ma che piuttosto
quest’ultima si affermi temporaneamente su un’anteriore passività.
L’indipendenza della collocazione soggettiva (il caso nominativo) è in
fondo una dipendenza dovuta alla prossimità materiale e soprattutto
dal legame ossessivo che l’io ha con il se stesso. Si schiude qui un
elemento decisivo attraverso cui viene messa in questione la definizione tradizionale del soggetto. Levinas descrive infatti un soggetto
che al suo fondo è fatto di sensibilità (cioè di carne e sangue). Il dolore
come il godimento sono tracce dell’immediatezza del concreto a cui è
esposto, e questa vulnerabilità costituisce già la sua innata prossimità
all’alterità. Il distaccato e chiuso punto d’osservazione del Medesimo
è perciò soltanto “costruito” e “immaginato” attraverso la rimozione
di questa concretezza. Solitamente si tende a far coincidere la mente
con il luogo di massimo allontanamento dalla realtà esterna. Il pensiero dunque come frattura nei confronti della corporeità, nel quale
si rigenera continuamente la facoltà di rendersi indipendente dalle
necessità fisiche (di modo che il soggetto si riaffermi come libera
iniziativa). Levinas cerca invece di distanziarsi da questa tradizionale
interpretazione dell’intimità del soggetto. Un tentativo di non intendere il pensiero come forma astratta, ma di rinvenire anche in esso
una sorta di concretezza.
La ricerca levinasiana vuole far scorgere una forte continuità tra
la corporeità e l’interiorità, evitando invece di continuare a intendervi
una linea divisoria. Il gesto risulta essere necessario in una visione
della soggettività determinata dalla passività. La sensibilità infatti
non rimane bandita dalla sfera privata dell’io, ma è proprio l’intrinseca “struttura” del pensiero a possedere un “carattere” prettamente
concreto. Una visuale basata sul primato del piano teoretico invece
292
comporta oltre ad una rimozione dell’innata materialità del soggetto, anche un’auto-interpretazione del pensiero come indipendente
e astratto. Levinas lo traduce invece come radicato anch’esso nella
sensibilità, con tutto quello che questa prospettiva comporta. Se difatti il corpo inteso come immediato contatto (prossimità) rende la
soggettività esposta e fragile, allo stesso tempo anche un’interiorità
incarnata (dunque corporea) rappresenta una dimensione altrettanto vulnerabile. Ciò non solo perché tra le due dimensioni è assente
quel confine divisorio che si è sempre voluto vedere, ma anche per la
“struttura” della psiche stessa.
Levinas tenta quindi di superare una visione del pensiero tematizzante e intenzionale attraverso l’analisi della sensibilità. Questo intento si esprime particolarmente nella scelta lessicale rinvenibile nelle
descrizioni dell’interiorità presenti in Autrement qu’être:
L’espressione “nella sua pelle” non è una metafora dell’in sé: si tratta di una ricorrenza nel tempo morto o nel frat-tempo che separa
l’inspirazione dall’espirazione, la diastole dalla sistole del cuore che
batte sordamente contro la parete della sua pelle. […] La ricorrenza
dell’ipseità – l’incarnazione – lungi dall’appesantire e dal gonfiare
l’anima, l’opprime e la contrae e l’espone nuda all’altro fino a fare
esporre attraverso il soggetto la sua stessa esposizione che rischierebbe di vestirlo (LEVINAS 1974, p. 137).
Come si può vedere nel precedente passo la terminologia utilizzata è volta a riportare l’incarnazione della soggettività. All’interno di
quest’ultima il pensiero ricorre persistentemente con la stessa “naturalezza” del respiro, ma anche con la sua stessa incontrollabilità (quasi
fosse appunto un movimento d’inspirazione ed espirazione). Levinas riesce a rendere la profonda connessione tra la corporeità e l’interiorità,
destabilizzando la tradizionale visione che tendeva a scinderle (come
fossero due “ordini cartesiani”) e che soprattutto dipingeva l’intimità
soggettiva come una dimensione attraverso cui ci si allontana dalla
propria carnalità. È invece la stessa dinamica del pensiero a non costituire una scappatoia dalla prossimità cui lo congiunge il corpo.
293
2. Psichismo
Attraverso le critiche rivolte alla fenomenologia husserliana, abbiamo “guadagnato” la visione di una soggettività passiva e in-intenzionale; si cercherà ora partendo da un confronto con Martin Heidegger di comprendere la seconda caratteristica indicata all’inizio
di questo studio, ovvero l’intrinseca dis-eguaglianza del soggetto descritto nella filosofia levinasiana. Dopo aver descritto sinteticamente
da quali punti della nozione d’ipseità heideggeriana Levinas vuole
distaccarsi e quali vuole al contrario mantenere, ci addentreremo direttamente nella questione dell’alterità del soggetto a se stesso.
Si scandirà la critica che Levinas muove alla visione heideggeriana
del soggetto nei seguenti punti:
a. critica all’essere-per-la-morte;
b. rivalutazione della nozione di Jemeinigkeit;
c. passaggio dalla differenza ontologica alla differenza interiore al
soggetto stesso.
Per procedere con ordine e affrontare il primo nodo problematico
bisogna partire dal riconoscimento da parte di Levinas del merito
della filosofia heideggeriana consistente nell’aver inteso l’ipseità non
più solamente come una semplice presenza (come aveva al contrario fatto la tradizione filosofica occidentale precedente). Heidegger infatti
in Essere e tempo (il testo a cui maggiormente si riferiscono le analisi
levinasiane) al paragrafo 64, partendo da un confronto con l’“io penso” kantiano, chiarisce così la sua visione del soggetto:
L’analisi kantiana […] intende ancora questo io come soggetto e
quindi in un senso ontologicamente inadeguato. Infatti il concetto
ontologico del soggetto non definisce l’ipseità dell’io in quanto se-Stesso, ma l’identità e la persistenza di una semplice presenza sempre già tale.
Determinare ontologicamente l’io come soggetto, significa assumerlo come già da sempre semplicemente presente […] Kant non
vide il fenomeno del mondo e fu sufficientemente coerente da tener
lontane le “rappresentazioni” dal contenuto a priori dell’“io penso”.
Ma con ciò l’io fu nuovamente confinato in un soggetto isolato, che
accompagna le rappresentazioni in un modo ontologicamente del
tutto indeterminato. Nel “dire-io” si esprime l’Esserci come essere-nelmondo (HEIDEGGER 1977, pp. 380-382).
294
Heidegger mette dunque in luce la reale effettività e concretezza
dell’ipseità. Tuttavia Levinas critica ciò che da questa visione deriva,
ovvero il ritorno di un equilibrio e di un primato della comprensione
come è appunto indicato sempre in Essere e tempo:
Il fenomeno del poter-essere autentico apre però lo sguardo anche
sulla stabilità del se-Stesso nel senso del mantenimento in un determinato stato. […] La stabilità, in senso esistenziale, non significa altro
che la decisione anticipatrice (HEIDEGGER 1977, p. 383).
Il difetto che Levinas ravvisa nell’ontologia heideggeriana è allora
il suo rimanere ancora dominata dalla dialettica tra l’essere e il nulla:
in essa il male è sempre mancanza d’essere a cui si può solamente
rispondere con l’assunzione della propria finitezza nell’unico modo
autentico possibile, cioè nell’essere-per-la-morte. È perciò da questa
ricerca di un punto fermo, lucido, dal quale l’io possa affrontare e
afferrare persino il mistero della morte, che la filosofia levinasiana
vuole distanziarsi. La lettura levinasiana di Heidegger intende l’essere-per-la-morte come l’assunzione dell’ultima possibilità dell’esistenza che rende appunto possibili tutte le altre possibilità, che rende
di conseguenza possibile il fatto stesso di cogliere una possibilità,
cioè l’attività e la libertà7. Ciò che invece fa problema per Levinas
è la situazione in cui qualcosa di assolutamente inconoscibile c’è,
malgrado sfugga alla comprensione, ed afferra il soggetto senza che
quest’ultimo possa sottrarsi.
In questo tentativo di sfuggire alla riduzione della questione del
soggetto al problema dell’essere, si può leggere, la volontà di mantenere inalterata la congenita scissione dell’io rispetto a se stesso, la
quale non si va a ricucire nemmeno con l’heideggeriana decisione
anticipatrice dell’essere-per-la-morte; in essa infatti nella prospettiva levinasiana rimane l’evento di fronte al quale l’io non può più
potere, di fronte al quale in definitiva il soggetto non è più soggetto. In questo “attardarsi” da parte di Levinas nel non-luogo della
differenza dell’io con se stesso, in questo rimanere a confrontarsi con
il fardello mai voluto ma sempre obbligatoriamente assunto della propria esistenza, c’è già la scelta di affrontare una soggettività
295
caratterizzata dall’essere costantemente responsabile di sé, c’è già un
passivo commisurarsi con la gravità del “peso” rappresentato dalla
vita, piuttosto che allontanarsene volontariamente con “virilità suprema”.
Se quindi Levinas si distacca da questa riaffermazione del potere
soggettivo, al tempo stesso mantiene e approfondisce nella sua filosofia l’elemento da cui la riflessione heideggeriana sulla ipseità prende
avvio, ovvero la nozione di Jemeinigkeit. Levinas non può disconoscere
come sia stato Heidegger stesso per primo a far affiorare il problema del “proprio”, dell’eigen (dell’esser-sempre-mio)8, che nella filosofia
levinasiana va a costituire il terreno in cui ritrovare l’innegabile testimonianza di una pendenza a cui la soggettività non può sottrarsi.
Indubbiamente il pensiero levinasiano rimane segnato dalla Jemeinigkeit9, in quanto in essa si racchiude quel costante movimento di appropriazione della soggettività nei confronti della propria esistenza
e, di conseguenza, rispetto a se stessa. Piuttosto che porre l’accento
sull’autenticità (Eigentlichkeit) Levinas vuole mettere in risalto come
il Dasein per Heidegger non è Jemeinigkeit partendo da un Ich, ma che
quest’ultimo o l’ipseità proviene dal suo assoggettamento, dal suo
essere-consegnato-all’essere (dalla Jemeinigkeit appunto).
La filosofia levinasiana tenta quindi di evitare lo “smarrimento” di
quel carattere dell’esser-sempre-mio a cui, invece, è andato incontro
Heidegger, malgrado sia stato proprio egli ad averlo così acutamente
e profondamente individuato. Levinas giunge in questa maniera a intendere l’intima natura della soggettività umana come un’incessante
oppressione, escludendo così categoricamente la possibilità che un’io
possa agire e pensare in modo puro e immediato. Ciascun istante è
come “imprigionato” in un movimento d’assunzione, di riappropriazione dell’io rispetto a se stesso, in cui la soggettività umana non
riesce a combaciare con sé, bensì può soltanto cercare di raggiungersi
in un’inesauribile dinamica «in cui è possibile scorgere una dualità»
(LEVINAS 1947, p. 80). È dunque proprio dalla struttura soggettiva
stessa che nasce questo meccanismo senza fine di persistente preoccupazione per un elemento che, se pur interno, non si lascia inglobare
in una compatta unità e, ciò nondimeno, non può essere evitato o
dimenticato.
296
Ora che abbiamo rapidamente affrontato le diversità sul tema
dell’ipseità che intercorrono tra la filosofia heideggeriana e quella
levinasiana, individuando nella nozione di Jemeinigkeit il debito più
decisivo che la seconda ha nei confronti della prima, possiamo passare a descrivere in che cosa consiste la dis-eguaglianza del soggetto
rispetto a se stesso. La raffigurazione del soggetto come di un esistente irreparabilmente “fratturato” al suo interno e nell’affannosa
ricerca di ricomporre questa scissione, proposta da Levinas, comporta un cambiamento del terreno stesso in cui si gioca la differenza
ontologica. Non siamo più anzitutto nell’orizzonte del drammatico
passaggio dall’infinito al participio presente sostantivato del verbo
essere, all’interno del quale, heideggerianamente, veniva articolata e
situata o, più precisamente, “gettata”, come una sorta di “cerniera”
tra l’essere e l’essente, l’esistenza del Dasein. Il cuore del problema
diventa invece quella “ferita” caratterizzante la soggettività umana
che la rende perennemente scoperta rispetto all’eventualità di svanire
nella dimensione dell’il y a, una “crepa” che disgrega la compattezza
dell’io sino a farlo disperdere nell’oscurità dell’anonimato. Alla luce
di quanto detto, si potrebbe rischiare di sostenere che Levinas dislochi la differenza ontologica heideggeriana, nella differenza o, addirittura, nella “lotta”10, tra l’io e il sé; è da qui difatti che si origina una
reale e infinita separazione all’interno del soggetto.
Levinas descrive infatti in Autrement qu’être lo strato più nascosto dell’interiorità come l’impossibilità di un ritrovamento finale: la
soggettività avvinghiata a sé non riesce a farsi propria. Dietro l’uguaglianza della coscienza emerge perciò una sfasatura. Quest’ultima
non è mancanza di completezza (che prima o poi giungerà attraverso
uno sviluppo), bensì una disparità del se stesso che non si pareggia
mai (un sé sfasato da sé). Da questa incondizione in cui ci si “imbatte
di colpo” (senza scelta) deriva l’assenza di uno statuto. È la soggettività per prima infatti che non riesce a cogliersi (non essendo in grado
di determinarsi autonomamente). La sua incondizione difatti la fa
essere aliena a qualsiasi ordine o categorizzazione incapaci di ricomporre (se non apparentemente) la «diastasi» della sua identità.
Il pensiero infatti è descritto da Levinas come una perenne messa in discussione di se stesso (percepita con la medesima intensità
297
di una sensazione fisica). In profondità il mentale risulta essere così
incontrollabile da divenire paragonabile a un’«accusa senza fondamento» (LEVINAS 1974, p. 138, corsivo mio). La gratuità e l’insistenza
del pensare che però non si risolvono mai in certezza, pervadono la
soggettività come una messa in questione ossessionante e persecutrice.
Questi termini (non metaforici) sfiorano l’intima relazione del se
stesso. Se pur placata e “rimandata” nella volontà intenzionale (che,
forte e immemore di se stessa, si dirige verso un ente), è l’“auto-affezione” a costituire l’Io, il quale si trova così colpito solo da se stesso.
Il mentale per Levinas è quindi un continuo inseguirsi, (un’esigenza
nei confronti di sé) che eccede anche lo schema della riflessione in cui
comunque è presente un «complemento oggetto diretto» (LEVINAS
1974, p. 141), mentre nella relazione con il sé un riconoscimento
(un’uguaglianza) non è raggiunto. La sua irrefrenabile persistenza
che non è rivolta a nulla (che non si giustifica nella necessità di uno
scopo) è «semplicemente insensata» come un’«accusa precedente la
colpa» (LEVINAS 1974, p. 141). Solamente nelle relazioni esterne la
soggettività appare stabile, invece in lei è insita una “messa in questione”11.
L’irresolubile movimento in cui nasce la soggettività è perciò
quello dell’affezione, della ricettività, e non della libera volontà. È
la non-posizione stessa del soggetto a implicare questa ritorsione
del sé piuttosto che una contemplante staticità. Oltre questa incondizione è impossibile scorgere altro (non si tratta di una malattia
passata la quale si ritorna in un normale “stato di salute”), semmai
è la coscienza ad essere un’“alterazione” della ricorrenza del se stesso.
Al suo fondo la soggettività difatti è fragilità anteriore al vigore:
l’accusativo precede (o addirittura esclude) il nominativo. Non si dà
allora prima un soggetto padrone di sé e poi il suo decadimento
(la sua debolezza). Esso è prima di tutto un Sé (la cui declinazione
in latino, come ricorda Levinas, non inizia dal nominativo) che in
quanto tale è incarnato e dunque vulnerabile sino a subire la sua
stessa ipseità.
298
3. La veglia
Attraverso il confronto con Husserl e Heidegger si è cercato di cogliere gli aspetti di passività, in-intenzionalità e dis-eguaglianza. Si può
ora passare a illustrare brevemente l’ultima caratteristica (indicata
anch’essa all’inizio di questo studio) con la quale Levinas descrive la
soggettività: la veglia. Per introdurre quest’ultima ci si vorrebbe qui
richiamare a un breve passo di un racconto di Kafka (autore assai caro
a Levinas) dove è scritto:
E tu vegli, sei uno dei custodi, trovi il prossimo agitando il legno
ardente che hai preso dal mucchio di sterpi che brucia accanto a
te. Perché vegli? È detto che uno deve vegliare. Qualcuno dev’esser
presente12.
Anche nel pensiero levinasiano risuona questa responsabilità od
obbligo dell’essere presenti (cioè del vegliare) che scaturisce proprio
dall’in-condizione stessa della soggettività che abbiamo precedentemente illustrato. Il testo forse più utile per comprendere questa
nozione è Dalla coscienza alla veglia. A partire da Husserl (saggio del
1974) in cui Levinas affronta la sfera della vigilanza all’interno di un
confronto con la fenomenologia di Husserl. Tralasciando il percorso
che la nozione d’insonnia compie nel pensiero levinasiano, in questa
sede si vuole solamente ricordare come in questo testo del 1974 è
presa in esame la descrizione del carattere pre-predicativo dell’intenzionalità e della coscienza. In particolare dalle Meditazioni cartesiane
Levinas coglie la nozione di «razionalità apodittica» (LEVINAS 1982a,
p. 38) nella quale affiora un limite per la capacità dell’intuizione nel
trasformare ogni cosa in un oggetto della sua esperienza13. A questo
elemento si associa «l’apoditticità del cogito sum» (LEVINAS 1982a, p.
39) che indica l’indubitabilità del “vivente presente di sé” attraverso
cui (senza alcun ulteriore aspetto dell’evidenza conoscitiva) il soggetto semplicemente vive. Questa “vivacità della vita” sconvolge la
facoltà di raccoglimento della sintesi passiva e la perfetta coscienza
di sé a cui continuamente riconduce, facendo emergere un distacco
della soggettività dalla propria identità che non rappresenta però un
299
movimento di uscita verso il mondo (un’estasi), bensì una “trascendenza nell’immanenza”. In questa prospettiva la stessa soggettività
del soggetto (la presenza a sé) mette in discussione la struttura chiusa
del Medesimo, lasciando intravedere un’alterità al suo interno14:
La trascendenza nell’immanenza, la strana struttura (o la profondità) dello psichico come anima dell’anima, è il risveglio sempre ricominciante nella veglia stessa (LEVINAS 1982a, p. 41, ultimi due corsivi
miei)15.
La nozione husserliana di riduzione è così recuperata e da essa viene
ricavata quella di risveglio16. Vi è dunque un percorso attraverso cui
discostarsi dall’“ebrezza” della granitica identità. Dietro ogni fissazione della conoscenza permane infatti un vegliare della soggettività che, se pur sommerso nell’“ubriacatura” del Medesimo, continua
comunque a resistere. Tuttavia questo procedimento in Husserl è
interpretato costantemente come un passaggio da una conoscenza a
una conoscenza migliore; mentre per Levinas la veglia indica una rottura dell’identificazione. La veglia è allora contestazione del potere
comprensivo e intenzionale, un essere vigili su ciò che non si farà
mai termine od oggetto. Questa vigilanza secondo Levinas è in definitiva responsabilità verso Altri: risveglio (nella prossimità del prossimo) dal sonno dogmatico della coscienza17. Si vorrebbe però qui
sottolineare soprattutto quanto il vegliare risulti determinante per
la connotazione dell’interiorità. Esso permette infatti di scorgere la
“strana struttura dello psichico”, ovvero il suo contenere una “dissonanza” nascosta nella tautologica “tonalità” della coscienza, che non
appena è tematizzata si rischia già di “armonizzarla” (di perderla).
Come l’ossessione anche la veglia è quindi espressione di un mentale
intrinsecamente inquietato da se stesso nella sua incapacità di raccogliersi18.
Abbiamo così infine raggiunto anche quest’ultima caratteristica
o “modo di dire” la soggettività propria della filosofia levinasiana.
A questo punto si può notare come questa messa in discussione del
soggetto dialoghi con altri esponenti del panorama filosofico contemporaneo. Ci si riferisce qui in modo particolare (oltre al già citato
300
Ricoeur) a Jacques Derrida e a ciò che egli afferma, ad esempio, ne Il
problema della genesi nella filosofia di Husserl (1953-1954):
Il soggetto appare originariamente come tensione del Medesimo e
dell’Altro. Il fondamento ultimo dell’oggettività della coscienza intenzionale non è l’intimità dell’io dell’“Io” a se stesso ma il Tempo
o l’Altro, queste due forme di un’esistenza irriducibile a un’essenza,
estranea al soggetto teorico, sempre costituite prima di esso, ma nel
medesimo tempo sole condizioni di possibilità di una costituzione
di sé e di un’apparizione di sé a sé (DERRIDA 1990, p. 158).
Per entrambi gli autori la soggettività è quindi un crocevia, un
punto di tensione e non un luogo circoscritto. Ecco che allora la costante riflessione derridiana sulla différance va forse accostata a quel
dualismo interiore dell’io di cui parla Levinas. Si tratta infatti di
due tentativi, pur tenendo conto delle loro specifiche differenze, di
superare (o scomporre) il concetto di identità, sino a intendere l’individualità umana non più come una dimensione chiusa, ma piuttosto
come uno spazio aperto già da sempre contaminato da un elemento
che si può intendere come il Tempo, l’Altro o forse anche come il linguaggio stesso. Soltanto procedendo da questo sfondo può forse essere
pronunciata la parola etica, come Derrida, in quanto lettore di Levinas, ha puntualmente sottolineato:
Non si capirà nulla dell’ospitalità se non si comprende ciò che può voler dire “interrompersi da sé”, se non si capisce ciò che può significare
l’interruzione di sé attraverso sé come altro (DERRIDA 1997a, p. 115).
Derrida sembra così comprendere e, forse, condividere maggiormente la visione levinasiana di una soggettività distaccata e allo stesso
tempo assediata da se stessa che può (o deve) condurre all’etica, più di
quanto faccia invece Ricoeur, nel quale infatti una prospettiva morale
sorge soprattutto dalla capacità del soggetto di restare in se stesso:
Il mantenersi per la persona è la tale maniera di comportarsi grazie
alla quale l’altro può contare su di lei. Poiché qualcuno conta su di
me, io sono in grado di render conto delle mie azioni davanti ad un al301
tro. Il termine responsabilità raccoglie le due significazioni: contare
su… essere in grado di render conto di… (RICOEUR 1990, p. 259).
Lasciando in sospeso questo arduo confronto che esula dai confini
di questo studio, si vorrebbe concludere domandandosi se è forse
allora solo nella relazione etica (nel sostituirsi all’altro) che non rimane falsata questa conformazione dell’interiorità e il suo non essere
se stessa ma solamente assoggettata e responsabile di Sé di cui parla
Levinas. Ma così si rischia forse già d’intendere la conformazione del
soggetto come antecedente al rapporto etico e come si è visto è impossibile separare questi piani. Lo sconvolgimento provocato dall’incontro con il volto d’Altri diverrebbe così l’evento in cui il soggetto
infondato potrebbe finalmente ritrovarsi. Per non tradire la riflessione levinasiana bisogna al contrario mantenere l’inconoscibilità e la
pre-originarietà dell’etica.
Resta infine da chiedersi se sia possibile risalire sino all’origine di
quest’alterità che alberga nell’ipseità. Eppure la filosofia levinasiana
non cerca di risalire alla provenienza di questa contaminazione, ma
indica nel Sé solamente una sua traccia e non un processo formativo
percorribile a ritroso. L’anarchica pre-originarietà dell’Altro è quindi
solamente sfiorata attraverso un lessico che si sforza di far trasparire
questa eccezionalità e che si scontra contro un limite forse assoluto. Cercare d’individuare un percorso (o un vissuto) attraverso cui si
formi la presenza dell’alterità nel soggetto è perciò un cammino che
non scaturisce dall’opera di Levinas, se non a costo di “sfigurarla”. Si
tratta però di un proposito che pur non rientrando direttamente in
essa potrebbe essere intrapreso muovendosi dal suo sfondo.
1
È sul tema del soggetto che s’inscrive lo sviluppo maggiore tra Totalità e infinito
e Autrement qu’être, come del resto molti studiosi hanno notato. Vorrei a tal proposito riportare questa annotazione di J. Rolland: «Totalità e infinito, Altrimenti
che essere. Il primo fa la fenomenologia dell’io (Moi) all’interno di un mondo in
cui incontra altri che sconvolge e mette in questione la sua innocenza prima. Il
secondo tenta in qualche modo un’archeologia di questo Io (Moi) per scoprire l’io
(moi) già alterato dall’alterità» (LEVINAS 1993, p. 192, in nota).
302
2
3
4
5
6
7
8
9
«Che l’intelligibilità divenga domanda – stupisce. Ecco un problema preliminare alla domanda chi? e che cosa? Perché c’è domanda nell’esibizione?» (LEVINAS
1974, p. 30).
«La coscienza si rivela come la chiamata della Cura: il chiamante è l’Esserci che,
nell’esser-gettato (esser già in…) si angoscia per il suo poter-essere» (HEIDEGGER
1977, p. 332).
Si può ritrovare lo stesso concetto ripetuto anche alcune pagine più avanti: «In
ogni modo, ogni segmento dell’oggetto intenzionale rimanda a precedenti esperienze analoghe; nell’apprensione della cosa non c’è nulla che sia per principio
nuovo. Se ciò avvenisse, avremmo già l’inizio della costituzione di un nuovo
strato d’unità» (HUSSERL 1952a, p. 266).
«Che la non-intenzionalità della proto-impressione non sia perdita di coscienza,
che nulla possa arrivare all’essere clandestinamente, che nulla possa strappare
il filo della coscienza, significa escludere dal tempo la diacronia irriducibile di
cui il presente studio tenta di far valere la significazione dietro la messa in mostra
dell’essere» (LEVINAS 1974, p. 42).
In questa critica levinasiana rientra anche Heidegger; non mi soffermerò su questo ulteriore confronto limitandomi a riportare semplicemente quanto afferma
Levinas: «Lo stesso Heidegger non sostiene il primato fondatore della conoscenza
nella misura in cui l’essenza dell’essere che paralizza ogni ente e al di fuori della
quale non si può andare, in se stessa mistero inafferrabile, condiziona, con il suo
ritrarsi, l’ingresso nella luce e manifesta il suo mistero attraverso il disvelamento
degli enti. La conoscenza che si enuncia nel giudizio predicativo vi si fonda naturalmente. Se l’essenza dell’essere rende possibile, attraverso questa essenza stessa,
la verità, allora il soggetto – qualunque sia il nome che gli si attribuisce – è inseparabile dal sapere dell’apparire dell’intenzionalità» (LEVINAS 1974, p. 83).
«La morte in Heidegger non è, come dice J. Wahl, “l’impossibilità della possibilità”, ma “la possibilità dell’impossibilità”» (LEVINAS 1979, pp. 42-43, in nota).
L’esposizione di questa nozione, com’è noto, avviene al paragrafo 9 di Essere e tempo, in cui Heidegger inizia a descrivere il compito dell’analisi dell’esserci nel suo
momento preparatorio e dove afferma: «L’essere di cui ne va per questo ente nel
suo essere, è sempre mio […] Il discorso rivolto all’Esserci deve, in conformità
alla struttura dell’esser-sempre-mio, propria di questo ente, far ricorso costantemente al pronome personale: “io sono”, “tu sei”. E di nuovo l’esserci è sempre
mio in questa o quella maniera di essere […] Ma esso può aver perso se stesso o
non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità
dell’autenticità, cioè dell’appropriazione di sé. Autenticità e inautenticità […] sono
modi di essere che si fondono nel fatto che l’Esserci è determinato, in linea generale, dell’esser-sempre-mio» (HEIDEGGER 1977, p. 61).
Basti pensare a questa affermazione di Levinas rilasciata in un’intervista del
1975: «L’essere è ciò che diviene mio-proprio ed è per questo che occorre un
uomo all’essere. È attraverso l’uomo che l’essere è “propriamente”. Sono queste
le cose più profonde di Heidegger» (LEVINAS 1982a, pp. 115-116).
303
«Il soggetto è a partire da sé ma già con o contro sé» (LEVINAS 1947, p. 80).
Da questa analisi dell’interiorità come «messa in questione» si potrebbe aprire
un confronto con Kafka che lo stesso Levinas suggerisce: «ricorderò i libri che sembrano costituire la “bibbia” del mondo letterario contemporaneo: l’opera di Kafka. Al di
là dei labirinti e delle impasse del Potere, della Gerarchia e dell’Amministrazione che fanno smarrire e separano gli uomini, ciò che si manifesta in quest’opera è il
problema della stessa identità umana messa in questione sotto l’accusa senza colpevolezza,
il problema del suo diritto all’essere e dell’innocenza dell’avvenire stesso dell’avventura
dell’essere» (LEVINAS 1982a, p. 198, corsivi miei).
12
F. Kafka, I Racconti, Rizzoli, Milano 1998, p. 413.
13
Levinas si riferisce al nono paragrafo della prima meditazione, in cu Husserl
afferma: «la adeguazione e l’apoditticità di un’evidenza non debbono procedere
necessariamente di pari passo. […] Ma in ogni caso questa esperienza fornisce
solo un certo settore di ciò che è esperito in modo veramente adeguato: cioè essa
fornisce la presenza vivente di sé espressa dal senso grammaticale della proposizione ego cogito, mentre al di là di questo cogito non si estende che un orizzonte di
qualcosa che non è propriamente esperito ma necessariamente co-intenzionato.
A quest’orizzonte appartiene il passato di sé per lo più oscuro, ma appartengono
anche le facoltà trascendentali proprie e le sue diverse particolarità abituali. […]
Pertanto rimane assolutamente stabilito l’essere reale del piano conoscitivo in sé
primo; ma non è senz’altro con ciò stabilito ciò che determina più dappresso il
suo essere e che durante la vivente evidenza dell’io sono non è ancor esso stesso
dato ma solo presunto. Questa presunzione implicita nell’evidenza apodittica
sottostà dunque, riguardo alla possibilità del suo riempimento, a una critica
intorno alla sua portata che eventualmente sarà da limitare in modo apodittico»
(HUSSERL 1950a, pp. 55-56).
14
«L’analisi non deve, allora, essere spinta oltre la lettera husserliana? Nell’identità dello stato di coscienza presente a se stesso, in questa tautologia silenziosa
del pre-riflessivo, veglia una differenza tra il medesimo e il medesimo che non è
mai in fase, una differenza che l’identità non riesce mai a richiudere» (LEVINAS
1982a, p. 43).
15
Può risultare interessante segnalare come Levinas in Enter nous. Essai sur le penserà-l’autre indichi in Heidegger l’ispiratore della nozione di “disubriacatura”: «il
disincanto (dégrisement) della ragione lucida in Heidegger – al quale è improntata
la nozione stessa di disubriacatura» (LEVINAS 1991, p. 121).
16
«La Riduzione sarà, innanzitutto, il procedimento che – sotto il riposo in sé in
cui si compirebbe il Reale riferito a se stesso – mostrerà o risveglierà la vita
contro cui l’essere – tematizzato avrà, nella sua efficienza, recalcitrato» (LEVINAS
1982a, pp. 45-46).
17
«Senza intenzionalità, altrimenti che essere – vegliare non è forse già sostituirsi
ad Altri?» (LEVINAS 1982a, p. 44).
18
Tenendo conto delle letture attraverso cui si è formato Levinas, viene in mente,
a proposito della veglia come «ossessione», un personaggio de I Demoni: Kirillov.
10
11
304
Quest’ultimo è descritto da Dostoevskij come un ateo che, assumendo di continuo the, non si addormenta mai. Kirillov appare come la rappresentazione di un
ateismo sofferto quanto la fede religiosa, in cui l’idea dell’inesistenza di Dio si fa
incontenibile per il pensiero e costringe ad una vigilanza continua. In tal senso
la raffigurazione di questo personaggio può apparire come il rovescio dell’idead’infinito-in-noi levinasiana che oltrepassando allo stesso modo le capacità del
cogito obbliga a una veglia (si veda in particolare LEVINAS 1982a, p. 11).
305
MONDO DELLA VITA
di Stefano Bancalari
1. Un’«invenzione» husserliana di successo
A differenza di altre nozioni cardine del metodo husserliano, rimaste confinate nel lessico tecnico della fenomenologia, il concetto
di «mondo-della-vita» (Lebenswelt) ha conosciuto una fortuna straordinaria, sulle cui ragioni vale la pena interrogarsi. In un certo senso
esso ha funzionato come catalizzatore di alcune istanze rimaste latenti nel pensiero husserliano, che non sembravano trovare spazio
adeguato in un metodo ancora eccessivamente contrassegnato da una
marcata attitudine trascendentale. L’apertura husserliana al mondodella-vita è stata quindi vissuta dagli eredi di Husserl come la legittimazione della dignità fenomenologica di alcuni fenomeni massimamente concreti e con estrema difficoltà accessibili ad una coscienza
impegnata nella difesa della propria purezza trascendentale: il tempo, la carne, l’intersoggettività, il linguaggio, i fenomeni sociali e
culturali. Tutto questo risulta evidentemente accessibile solo ad uno
sguardo vivo e vivente, capace di rinunciare alla purezza dell’eidos
per immergersi con decisione in quel mondo-della-vita dalla quale
ogni purezza e ogni eidos hanno la loro inconfessata – e, dal punto
di vista trascendentale, inconfessabile – origine. Mi sembra para306
digmatico l’uso della nozione di Lebenswelt da parte di un pensatore
che per molti aspetti si colloca agli antipodi della fenomenologia,
quale è Habermas. Nonostante le critiche agli esiti ancora coscienzialistici e financo solipsistici del metodo husserliano, Habermas si
sente legittimato ad una ripresa del «mondo-della-vita» inteso come
mondo «condiviso intersoggettivamente, [che] costituisce lo sfondo
per l’agire comunicativo»1. Stando a questa definizione, sembra che
l’assunzione del mondo-della-vita quale orizzonte immediatamente
condiviso tra più soggetti cancelli d’un colpo la questione dell’intersoggettività che, come è noto, tormenta Husserl dal principio alla
fine del suo cammino di pensiero.
In breve: introducendo la nozione di «mondo-della-vita», Husserl avrebbe finalmente rinunciato ad una comprensione «cartesiana»
della fenomenologia, ad una pretesa fondativa rivelatasi alla fine irrealizzabile. Se così fosse resterebbe evidentemente da giustificare in
che senso si possa ancora parlare della fenomenologia come di un metodo rigoroso, che aspira ad esser ben altro che una mera descrizione
(più o meno fantasiosa, più o meno suggestiva) dei fenomeni più
disparati, selezionati dal capriccio di questo o quel fenomenologo.
Come ogni stereotipo storiografico consolidato, anche questo,
pur cresciuto attorno ad un nucleo di verità, merita di esser messo
in questione. Innanzitutto, come solo di recente si è cominciato a
sottolineare con chiarezza, il termine «Lebenswelt» non è un conio
husserliano e ha una sua storia precedente e indipendente dalla fenomenologia. Non è questa la sede per ricostruire le varie occorrenze
del vocabolo, che nasce nell’ambito della biologia, per poi passare
alla filosofia della vita2 e a Heidegger, che lo impiega ben prima di
Husserl. Questa preistoria, per dir così, del vocabolo non toglie che
sia stato in effetti l’uso husserliano a renderlo tanto appetibile sotto
il profilo filosofico: se qualcuno continua a ritenerlo un’invenzione di
Husserl una ragione c’è3. Si tratta dunque di indagare più dappresso
il testo husserliano cardine nel quale il termine è introdotto, per
tentare di guadagnare una definizione di partenza il più possibile
precisa.
307
2. «Mondo-della-vita»: da soluzione a problema
Per chi intenda leggere la teorizzazione husserliana del mondodella-vita come l’apertura di un nuovo ambito di fenomeni inaccessibili ad una fenomenologia “troppo” trascendentale, per chi voglia
vedere nella nozione di Lebenswelt una soluzione piuttosto che un
problema, un primo sguardo alla Crisi delle scienze europee (HUSSERL
1954) è tutt’altro che incoraggiante. Nell’opera si intrecciano infatti
significati e accezioni disparati e difficilmente compatibili.
La tesi portante dell’opera, per cui la crisi delle scienze europee
deriva dall’oblio del mondo-della-vita, che pure costituisce il terreno
originario dal quale esse provengono, poggia sull’idea che «questo
mondo-della-vita non è nient’altro che il mondo della mera doxa,
tradizionalmente trattata con tanto disprezzo» (HUSSERL 1954, p.
490). Secondo questa definizione, il mondo-della-vita, a differenza
di quello dell’episteme, quale orizzonte della verità incontrovertibile,
è l’ambito dell’opinione, ossia delle verità parziali, mutevoli, non
fondate sul piano dei principi, ma meramente condivise sul piano
dei fatti. Mentre l’interazione con il mondo con cui ha a che fare la
scienza richiede un sapere specialistico, «il nostro mondo quotidiano
della vita» (HUSSERL 1954, par. 9h, p. 78) è «noto» a «chiunque»
(HUSSERL 1954, p. 485).
D’altra parte, una significativa porzione della trattazione husserliana della Lebenswelt nella Crisi è volta a mostrare come il mondodella-vita possa e debba essere indagato da un’«ontologia», che ne
porti alla luce «l’elemento formale-generale, l’elemento invariabile nell’evoluzione delle [sue] relatività» (HUSSERL 1954, par. 37, p.
170). Questo significa che al di sotto della superficiale e apparente
mutevolezza della doxa, il mondo-della-vita «ha una propria struttura
generale» (HUSSERL 1954, par. 36, p. 167), non soggetta a contingenza
o variazioni, che precede e rende possibile l’oggettività dell’episteme.
Se ne deduce che, per un verso, il mondo-della-vita definisce un
orizzonte storico-culturale di volta in volta determinato, una formazione spirituale che ha la sua validità limitata «nella cerchia sociale
che è legata a noi in una comunità di vita»: se, infatti, «siamo gettati
in un ambiente estraneo (fremd), tra i negri del Congo, tra i contadini
308
cinesi, ecc., ci accorgiamo che le loro verità, i fatti che per loro sono
assodati e verificati o verificabili non sono affatto i nostri» (HUSSERL
1954, par. 36, pp. 166-7), e questo perché il loro mondo-della-vita
è diverso dal nostro4. In questo senso, il mondo-della-vita è ogni
volta sempre un mondo-della-vita accanto ad altre «Lebenswelten spazio-temporali e relative» (HUSSERL 1954, par. 38, p. 175)5. Per altro
verso, sembra che tutto ciò non escluda affatto, per Husserl, la possibilità di individuare un nocciolo intuitivo che delimita e definisce
l’unico mondo-della-vita, per il quale «qualsiasi plurale sarebbe privo
di senso» (HUSSERL 1954, par. 37, p. 171), come terreno d’esperienza
puramente sensibile e dunque transculturale:
In ogni verificazione che rientra nella vita degli interessi naturali,
che si mantiene puramente nell’ambito del mondo-della-vita, il ritorno all’intuizione “sensibilmente” esperiente svolge un ruolo rilevante. Perché tutto ciò che si rappresenta come una cosa concreta
nella dimensione del mondo-della-vita ha ovviamente una corporeità, anche se non è un mero corpo, se è ad es. un animale o un
oggetto culturale, e quindi ha anche proprietà psichiche e spirituali
(HUSSERL 1954, par. 28, pp. 135-136).
La questione dell’unicità/molteplicità della Lebenswelt rende dunque ineludibile e contemporaneamente indecidibile, almeno a questo
livello, la questione relativa al genere di «oggetti» che si mostrano
al suo interno: si tratta di prodotti dell’attività umana6 oppure di
«cose» considerate astrattivamente nella loro corporeità, quali meri
correlati soggettivi degli oggetti scientifici propriamente detti? Ma
sarebbe necessario chiedersi anche se davvero il mondo-della-vita sia
in primo luogo un ambito oggettuale, posto che, lungi dal rappresentare esclusivamente l’orizzonte della percezione, esso è «“terreno”
di qualsiasi prassi, sia teoretica che extrateoretica» (HUSSERL 1954,
par. 37, p. 170).
Alle ambiguità già menzionate si aggiunge quella relativa al carattere «intersoggettivo» della Lebenswelt (che a mio avviso – enuncio
una tesi che non è possibile argomentare qui7 – è all’origine di tutte
le altre). Per un verso, Husserl sembra dare per scontata una certa «in309
tersoggettività» del mondo-della-vita: se è vero che vivere è «“vivereinsieme” (Miteinander-leben)» (HUSSERL 1954, par. 28, p. 138), allora
il mondo-della-vita è «il “mondo per noi tutti”» (HUSSERL 1954, par.
59, p. 233) in quanto «viviamo nel mondo uno-con-l’altro» (HUSSERL 1954, par. 28, p. 138); esso è «il mondo delle dirette esperienze
intersoggettive» (HUSSERL 1954, par. 34f, p. 162) e «ognuno di noi
ha il suo mondo-della-vita e lo concepisce come il mondo per tutti»
(HUSSERL 1954, par. 71, p. 274). Se però, per altro verso, si tien conto
del fatto che il mondo-della-vita assolve la sua funzione preparatoria
rispetto al costituirsi delle scienze oggettive, in quanto è quel terreno soggettivo di evidenza ottenuto astrattivamente, nel quale queste
si radicano (salvo poi dimenticare il fondamento su cui poggiano),
risulta assai meno scontato di quanto potrebbe sembrare a prima vista che l’intersoggettività sia uno dei caratteri che lo definiscono. Se
infatti il mondo-della-vita è il correlato di un’intuizione soggettiva
che è fondante in quanto pura, e che è pura in quanto scevra di appresentazioni non convertibili in un’intuizione originale, e dunque
incapaci di garantire quell’evidenza di cui le scienze abbisognano, se
ne deve concludere che l’intersoggettività, che fenomenologicamente
è fondata proprio su questo genere di appresentazioni, è quanto deve
essere dal principio e per principio messo in parentesi perché la Lebenswelt si mostri. Proprio questa sembra essere la posizione sostenuta
da Husserl in Esperienza e giudizio. Nel definire le condizioni e la modalità del «regresso che porta all’evidenza propria dell’esperienza del
mondo-della-vita» (HUSSERL 1948, par. 12, p. 47), al «mondo dell’intuizione e dell’esperienza immediate, [cioè al] mondo-della-vita»
(HUSSERL 1948, par. 10, p. 41), Husserl dichiara la necessità di lasciar
«valere soltanto la percezione sensibile [considerando] il mondo solamente come mondo della percezione» (HUSSERL 1948, par. 12, p. 50) per
ottenere la «pura natura universale» (HUSSERL 1948, par. 12, p. 51):
In questa limitazione astrattiva dell’esperienza all’ambito di quanto
è valido solo per me, cioè per colui che riflette su sé, è implicita
l’inibizione di tutte le idealizzazioni e dei presupposti dell’oggettività, della validità dei nostri giudizi “per chiunque” (für jedermann)
(HUSSERL 1948, par. 12, p. 51).
310
E poco oltre:
Noi studiamo quindi il giudicare come se esso fosse un giudicare
solo per me, con risultati validi solo per me, e facciamo interamente
astrazione dalla funzione comunicativa del giudizio […]. Gli oggetti che fanno così da sostrati non sono anzitutto pensati come esistenti per tutti, e nemmeno per chiunque faccia parte di una comunità
circoscritta, ma sono oggetti solo per me; il mondo a partire dal quale
essi ci affettano deve essere pensato come mondo solo per me (HUSSERL
1948, par. 12, p. 52).
3. Il mondo-della-vita come «luogo» del paradosso
Di fronte all’impossibilità di rintracciare un significato univoco
e coerente della nozione di Lebenswelt gli interpreti hanno per lo più
scelto la strada di tracciare confini il più possibile precisi tra le varie accezioni che emergono dal testo husserliano, distinguendo, per
esempio, tra un concetto «ampio» e uno «ristretto» di mondo-dellavita (CLAESGES 1972), oppure tra un’accezione empirica e una trascendentale (MOHANTY 1974) del medesimo. In questo modo, tuttavia, la
nozione husserliana diviene più la marca di un pensiero incapace di
venire in chiaro con se stesso, che non il contrassegno di un tentativo
teorico degno di un qualche interesse: il che mi pare un’interpretazione non soltanto francamente ingenerosa nei confronti di Husserl,
ma anche inadeguata a cogliere l’effettivo movimento di pensiero il
cui esito è, appunto, la nozione di Lebenswelt. Per questo motivo mi
sembra più efficace prendere le mosse da un esame della funzione che
il mondo-della-vita svolge nell’impianto complessivo della Crisi e
che è efficacemente espressa dal titolo della prima parte della terza
sezione dell’opera: La via alla filosofia trascendentale fenomenologica nella
domanda retrocedente a partire dal mondo-della-vita.
Uno degli aspetti più interessanti e innovativi di queste pagine husserliane consiste nell’esplicita articolazione della riduzione
trascendentale in due momenti distinti e successivi che in qualche
modo reduplicano il gesto inaugurale della fenomenologia. Prima
311
di arrivare alla messa in parentesi dell’atteggiamento naturale, che
conduce alla scoperta dell’ego trascendentale originario come origine
di senso del mondo, Husserl ritiene necessario un passo intermedio
che consiste nella sospensione della validità delle scienze oggettive e
che consente di guadagnare per la prima volta un atteggiamento cosiddetto «naturale» – quello proprio del mondo-della-vita – non più
mescolato con l’interpretazione oggettivante tipica della scienza moderna: questo passo preparatorio è, secondo Husserl, indispensabile al
compimento della riduzione trascendentale propriamente detta, che
altrimenti rischierebbe di ereditare elementi tipici dell’oggettivismo
scientifico: questo è il rischio che incombe sulla pretesa di «saltare»
direttamente nell’atteggiamento trascendentale (pretesa che Husserl
non ha difficoltà a rimproverare anche a se stesso)8. Sostenere che
nella Crisi vi sia un puro e semplice abbandono del cartesianesimo o
della pretesa trascendentale della fenomenologia – in favore di una
presunta apertura all’intersoggettività – significa non tenere nel dovuto conto i parr. 54-55, che concludono la sezione III A dell’opera
e nei quali Husserl procede ad una riduzione trascendentale radicale
allo «Ur-Ich, l’ego della mia epoché che non può mai rinunciare alla sua
singolarità e alla sua indeclinabilità personale» (HUSSERL 1954, par.
54, p. 211). Altra cosa è valorizzare il «mondo-della-vita» quale esito di un’epoché che non coincide con la riduzione trascendentale, interrogarsi su quanto il primo movimento riduttivo sia effettivamente
compatibile con il secondo, e verificare – allontanandosi esplicitamente dagli intenti husserliani – se sia possibile arrestarsi al primo
passo senza compiere il secondo e cosa ciò comporti. Ma limitiamoci
qui ad un’analisi che si attiene esclusivamente al testo husserliano.
Essendo l’esito di un’epoché intermedia, la Lebenswelt è ambiguamente sospesa in un «tra» dallo statuto precario, provvisorio e difficilmente teorizzabile: non ancora luogo della fenomenologia propriamente detta e tuttavia nemmeno completamente immersa in quella
dimenticanza della soggettività tipica dell’oggettivismo scientifico;
non più ambito di una completa immersione nella mondanità, ma non
ancora ambito della pura trascendentalità. Come si vede il legame con
il tema elaborato nella seconda sezione della Crisi è molto stretto: se
là Husserl trattava del «passato» della fenomenologia sotto il profilo
312
storico-filosofico, mostrando scoperte e occultamenti del motivo trascendentale nelle vicende della filosofia moderna, da Galileo a Kant,
qui il «passato» della fenomenologia viene esaminato sotto il profilo
metodologico, indagando la Lebenswelt quale ambito in cui matura la
«motivazione» al compimento della riduzione trascendentale.
Alla luce di questa situazione, che è di necessità e per definizione
sospesa, le ambiguità enunciate poco sopra non possono non apparire
in una luce nuova: più che risolvere il problema attribuendo la difficoltà ad una scarsa precisione terminologica da parte di Husserl e
provvedendo sollecitamente a distinguere ciò che appare in prima
battuta confuso, sembra assai più interessante seguire lo svolgersi del
ragionamento husserliano in tutta la sua gittata e cogliere le incongruità riscontrate come elementi di una tensione costruita ad arte per
illustrare la «motivazione» dell’epoché; un’epoché, che proprio perché
non deve aver luogo con un salto immotivato in una dimensione
completamente nuova, affonda le sue radici in un passato che la prepara e di cui il fenomenologo non può non render ragione.
Come è emerso chiaramente nella seconda sezione della Crisi, la
situazione in cui la fenomenologia si trova in prima battuta non è
quella dell’atteggiamento naturale: stante la frattura storica rappresentata dalla scienza moderna sarebbe un’ingenuità alla seconda potenza il ritenere che ci si trovi in un mondo-della-vita già disponibile
ed accessibile alla descrizione, in quanto già sempre dato all’atteggiamento naturale. La situazione di partenza è per contro quella di
un curioso intreccio tra scienza e mondo-della-vita, che dà luogo
a quella che Husserl definisce una «situazione scomoda» (HUSSERL
1954, par. 34e, p. 159).
Per un verso, il mondo-della-vita è il fondamento sul quale si
innalza l’edificio della scienza – la metafora è di Husserl – la quale
dunque è qualcosa di diverso e di altro rispetto al fondamento su cui
poggia. Il mondo-della-vita è il «terreno» (Boden) nel quale le scienze
oggettive affondano le loro radici:
La teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali, la
scienza come totalità della teoria predicativa [...]) è radicata e fondata nel mondo-della-vita, nelle evidenze originarie che ad esso appartengono (HUSSERL 1954, par. 34e, p. 158).
313
Le scienze si autodefiniscono empiriche, ma ignorano che in realtà
esse poggiano su un’«esperienza» che dall’interno delle scienze medesime è, a rigore, del tutto impossibile:
I discorsi empiristici degli scienziati sembrano spesso, se non sempre,
presupporre che le scienze naturali siano scienze fondate sull’esperienza della natura obiettiva. Ma non è questo il senso in cui è legittimo dire che esse sono scienze sperimentali, che esse, di principio,
aderiscono all’esperienza, che partono dalle esperienze, che tutte le
loro induzioni vengono infine verificate attraverso l’esperienza; ciò è
vero in un altro senso, nel senso in cui l’esperienza è un’evidenza che
si presenta puramente nel mondo-della-vita e come tale è la fonte di
evidenza delle constatazioni obiettive delle scienze, le quali, dal canto loro, non sono mai esperienze dell’obiettività. L’obiettività, in se
stessa, non è appunto esperibile (HUSSERL 1954, par. 34d, p. 157).
Se questo è vero, l’esperienza che ha luogo nel mondo-della-vita,
in quanto fonda l’oggettività scientifica, non può non presentare
delle regolarità e una struttura generale, in mancanza delle quali la
traduzione in termini rigorosamente scientifici e oggettivi di questa
esperienza medesima non sarebbe mai possibile. La matematizzazione indiretta della natura, operata dal genio di Galilei, o la comprensione del rapporto di causalità nei termini rigorosi della fisica non
sarebbero mai possibili se «il mondo, in quanto mondo-della-vita,
[non avesse] già, in via prescientifica, le “stesse” strutture che le
scienze obiettive presuppongono» (HUSSERL 1954, par. 36, p. 167);
se non fosse vero che le categorie del mondo della scienza e quelle del
mondo-della-vita hanno «gli stessi nomi» (HUSSERL 1954, par. 36,
p. 167): spazialità, temporalità, causalità. L’analisi del modo in cui
la scienza si radica nelle evidenze della Lebenswelt sembra condurre
inevitabilmente a quella scienza di natura peculiare che Husserl definisce «ontologia del mondo-della-vita»: una scienza nuova capace di
includere in sé il fondamento stesso di ogni scienza oggettiva.
Per altro verso, il mondo-della-vita è definito come orizzonte delle
prestazioni delle scienze oggettive, come quell’ambito che comprende al suo interno, tra l’altro, anche l’oggettività scientifica quale risultato della prassi che avviene sul terreno del mondo-della-vita:
314
Vediamo inoltre che tutti questi risultati teorici hanno il carattere di validità per il mondo-della-vita, che come tali si aggiungono
continuamente al suo patrimonio e gli appartengono, in quanto il
mondo-della-vita è l’orizzonte delle prestazioni possibili della scienza (HUSSERL 1954, par. 34e, pp. 159-160).
Da questo punto di vista la metafora del mondo-della-vita come
terreno e della scienza come edificio non funziona più, o per lo meno è
parziale: i risultati della scienza sono interni alla Lebenswelt alla stessa
stregua di qualsiasi altro «prodotto» della prassi umana, non godono
di alcuno statuto privilegiato e non consentono affatto di fare affidamento su una struttura unica ed universale della Lebenswelt stessa:
Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta nulla al
fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità
e alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata
maggiore di quella delle “cose” (HUSSERL 1954, par. 34e, p. 158).
In questo senso, il mondo-della-vita include in sé la scienza. In
esso è possibile incontrare non soltanto «cose mondano-vitali come
pietre, case, alberi», ma anche «formazioni logiche», «interi logici
e parti logiche composte di elementi logici ultimi» (HUSSERL 1954,
par. 34e, p. 158). Ora però, come si diceva poco sopra, questa situazione è esplicitamente riconosciuta da Husserl nella sua «scomodità»
ed è anzi la meta cui consapevolmente tende l’intero ragionamento:
Il concreto mondo-della-vita, dunque, contemporaneamente terreno
fondante per il mondo “scientificamente vero” e comprendente questo nella sua propria concrezione univesale: come dobbiamo capirlo? Come render ragione sistematicamente, cioè in una scientificità
adeguata, del modo d’essere del mondo-della-vita che in modo tanto
paradossale pretende di includere tutto? [...] I paradossali riferimenti
reciproci di mondo “oggettivamente vero” e di “mondo-della-vita”
rendono enigmatico il modo d’essere di entrambi (HUSSERL 1954,
par. 34e, p. 160).
315
Come è possibile una scienza oggettiva che sia capace di oggettivare persino il fondamento empirico-soggettivo dal quale scaturisce?
E come è possibile che all’interno del mondo-della-vita, quale ambito dell’esperienza soggettiva, si incontri anche ciò che per definizione
nasce nel momento in cui si abbandona l’esperienza soggettiva per
entrare nell’ambito della pura oggettività? È a questo punto che interviene la prima epoché, quella appunto della scienza oggettiva, alla
quale è dedicato l’intero par. 35 e sulla quale tuttavia non intendo
intrattenermi qui. Mi interessa piuttosto sottolineare tre elementi
presenti nel passo appena citato: a) Husserl descrive del tutto consapevolmente la nozione di Lebenswelt come attraversata da una tensione interna che ne rende precario e instabile lo statuto concettuale; b)
è solo in seguito all’analisi delle difficoltà derivanti dalla relazione di
inclusione reciproca sussistente tra scienza e mondo-della-vita che il
compimento dell’epoché in quanto sospensione dell’oggettività scientifica ha luogo; c) Husserl allude ad una logica del «paradosso», con
un riferimento che non ha nulla di estemporaneo, ma che in vario
modo percorre l’intera sezione della Crisi di cui ci stiamo occupando.
Alla fine di questa, infatti, quando illustrerà le ragioni necessarie al
compimento della riduzione propriamente detta, Husserl elencherà
ben quattro paradossi costitutivi della Lebenswelt: quello (già esaminato) relativo alla possibilità di una scienza del mondo-della-vita,
quello relativo alla relazione tra atteggiamento naturale e atteggiamento trascendentale, quello relativo alla temporalità e, infine, quello relativo all’intersoggettività.
Ma restiamo al primo: il punto è che l’opposizione tra la verità
del mondo-della-vita e quella della scienza non può esser compresa
in termini di mera contraddizione. Scrive Husserl:
L’idea della verità oggettiva è preliminarmente determinata secondo il
suo intero senso mediante il contrasto (Kontrast) con l’idea della verità
della vita pre- ed extrascientifica (HUSSERL 1954, par. 34a, p. 153).
[…Ma] finché ci si limita a contrastare (kontrastieren), finché ci si
preoccupa del di-contro (Gegenüber), potrebbe sembrare che non ci
sia bisogno di nulla di più e d’altro che della scienza oggettiva, nel
316
medesimo modo in cui la vita pratica quotidiana ha le sue ragionevoli considerazioni, particolari e generali, e per questo non ha bisogno di alcuna scienza (HUSSERL 1954, par. 34f, pp. 160-161).
Se si vuole cogliere l’intera portata teorica della relazione concettuale che siamo venuti configurando, non ci si può arrestare al «contrasto», ossia alla semplice contraddizione sussistente tra scienza e
mondo-della-vita. In tal caso, infatti, si sarebbe costretti ad ammettere la coesistenza di due verità contraddittorie e alternative, ciascuna bastante a se stessa e incapace di entrare in relazione con l’altra. Si
tratta, per contro, di accogliere come tale la «domanda paradossale»
(HUSSERL 1954, p. 487) che è emersa e riconoscere che:
almeno questo è diventato chiaro, che non ci si può accontentare di
una simile ingenuità, che qui si annunciano paradossali incomprensibilità, come quella di un presunto superamento delle relatività
meramente soggettive mediante la teoria logico-oggettiva, la quale
in quanto prassi teorica dell’uomo appartiene al meramente soggettivo-relativo (HUSSERL 1954, par. 34f, p. 161).
E ancora:
In nessun altro caso a colui che tenta di procedere oltre si parano
innanzi fantasmi logici che emergono dall’oscurità, formati, nella
concettualità familiare e da tempo in voga, come paradossali antinomie, come controsensi logici (HUSSERL 1954, par. 32, p. 149).
In cosa consiste precisamente la struttura logica di questa antinomia o paradosso nella quale siamo incappati e di cui l’epoché è chiamata a render conto? Per spiegare ciò Husserl utilizza una metafora
a mio avviso estremamente efficace
Questo schema di possibile chiarificazione del problema della scienza oggettiva ci ricorda la nota immagine di Helmholtz delle creature a due dimensioni, che non hanno alcuna idea della dimensione
di profondità, la quale, nel loro mondo di superficie, è una mera
proiezione. Tutto quello che può essere reso cosciente agli uomini,
317
agli scienziati come a tutti gli altri, nella loro vita di mondo naturale [...] tutto questo rimane in «superficie», la quale però, sebbene
inavvertitamente, è superficie di una dimensione di profondità infinitamente più ricca (HUSSERL 1954, par. 32, p. 148).
Se la caratteristica tipica della contraddizione è quella di risolversi
nell’opposizione tra due elementi (per esempio atteggiamento naturale versus atteggiamento trascendentale, verità versus errore, doxa
versus episteme), la novità rappresentata da una fenomenologia consapevole dell’inaggirabilità dell’atteggiamento naturale e dell’inaggirabile preliminarità del mondo-della-vita è quella di lavorare in uno
spazio logico per definizione strutturato su tre (e non su due) dimensioni: la fenomenologia, la scienza, il mondo-della-vita. A nessuno di
questi ambiti è semplicemente attribuibile il carattere di «errore»,
a nessuno quello di «verità». Tra i tre si instaura piuttosto una relazione dinamica, per cui si possono accomunare (e di fatto Husserl
procede in questo modo) ogni volta due termini di contro al terzo,
senza però che sia possibile identificare come definitiva una delle
bipartizioni che in questo modo si vengono a creare.
La combinazione che più potentemente emerge dal complesso
della Crisi, in quanto elemento portante della struttura concettuale
dell’intera opera husserliana, è quella che pone in evidenza il tratto
comune tra fenomenologia e mondo-della-vita di contro alla scienza. In questa situazione si ha la seguente bipartizione: da una parte
vi è l’oggettività, che la scienza tende ad assolutizzare e che deriva
da una rinuncia alla fonte primaria della conoscenza – l’intuizione
– in favore della matematica, intesa come traduzione-dissolvimento
del «dato» in un complesso di relazioni esprimibili mediante formule; dall’altra parte, mondo-della-vita e fenomenologia si trovano
alleate nel rivendicare la soggettività dell’intuizione come origine
dimenticata di ogni conoscenza oggettiva. In questa prospettiva, che
l’intuizione sia quella naturale e «soggettivo-relativa» o quella trascendentale di una coscienza ridotta è del tutto in secondo piano
rispetto a quella (pretesa) cancellazione di ogni intuizione – dunque
di ogni soggettività e relatività – che è condizione irrinunciabile per
l’ottenimento dell’oggettività scientifica.
318
Da altro punto di vista, tuttavia, è innegabile che scienza e Lebenswelt si trovino accomunate nel condividere il medesimo tratto
«naturale», consistente nel mantenere il «mondo» come orizzonte
ultimo della Einstellung operante nei rispettivi ambiti: del tutto a ragione la scienza è stata definita come un «atteggiamento naturale di
secondo grado», come una radicalizzazione di quell’oblio del potere
costituente della soggettività che si rivela solo una volta compiuta la
riduzione trascendentale. Ciò comporta, evidentemente, una chiara
ed esplicita consapevolezza – certo non rintracciabile nello Husserl
di L’idea della fenomenologia – della complessità di quanto a questo
punto solo con una certa approssimazione può essere chiamato «atteggiamento naturale», posto che esso si rivela esser proprio tanto
del mondo-della-vita quanto della scienza, la quale pure si definisce
per contrapposizione rispetto al primo.
La terza combinazione possibile consente di toccare con mano
l’elemento di originalità che caratterizza la Krisis rispetto a fasi precedenti del pensiero husserliano. Se si assume come tratto pertinente
la «verità», intesa come ciò che si oppone alla «relatività-soggettività» della doxa, si vede come in tal caso siano scienza e fenomenologia
a condividere il medesimo versante di contro ad un mondo-dellavita, la cui «naturalità» non è altro, da questo punto di vista, che
quella vaghezza e quella approssimazione caratteristiche del senso
comune perché opposte all’incontrovertibilità del sapere specialistico scientifico e fenomenologico. Sotto questo profilo, infatti, il telos
scientifico dell’oggettività e quello fenomenologico dell’apoditticità
assolvono esattamente la stessa duplice funzione: esse garantiscono,
da un lato, dall’eventualità dell’errore soggettivo, in modo tale da
consentire, dall’altro, l’accesso alla verità come ciò che può e deve essere condiviso di contro alla privatezza dell’opinione. Non è un caso
che la fenomenologia abbia da subito avanzato la pretesa di essere
riconosciuta come una – l’unica – «strenge Wissenschaft».
L’esplicito privilegiamento della prima combinazione (nesso fenomenologia/mondo-della-vita), che è un vero e proprio Leitmotiv della
Crisi, è direttamente proporzionale alla radicale messa in questione
della terza (nesso fenomenologia/scienza); la quale – si badi – non viene
mai semplicemente rigettata, come sembrerebbe suggerire l’ormai
319
troppo noto passo: «La filosofia come scienza, come una scienza seria,
rigorosa, anzi apodittica – il sogno è finito» (HUSSERL 1954, p. 535),
che in realtà è la tesi, da Husserl citata ma non sottoscritta, del punto
di vista che egli intende criticare. Al sogno Husserl non rinuncia e
tuttavia mette in opera un profondo ripensamento tanto della fenomenologia quanto della scienza, meglio: della fenomenologia a partire dalla critica alla scienza, che si concretizza, appunto, in un’analisi
della costitutiva paradossalità del mondo-della-vita. Ciò apre alla
possibilità di una ricomprensione dell’epoché stessa in termini di paradosso: ma questo è un discorso che non è possibile affrontare qui.
NATURA
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2
3
4
5
6
7
8
J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986, p. 152.
Basti qui menzionare G. Simmel, Die Religion, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995,
pp. 41-118; e E. Troeltsch, Die Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte, De Gruyter, Berlin 1998.
Cfr., p. e., BALAZAS 2000.
Cfr. HUSSERL 1962, pp. 496-7.
Ma cfr. anche, p.e., HUSSERL 1950a, p. 185.
Cfr. HUSSERL 1954, par. 36, p. 166.
Per una trattazione più ampia e sistematica del nesso tra intersoggettività e
mondo-della-vita cfr. BANCALARI 2003.
Cfr. HUSSERL 1954, par. 43, p. 182: «Faccio notare di passaggio che la strada,
molto più breve, verso l’epoché trascendentale che nelle mie Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica ho chiamato la “via cartesiana” [...]
presenta un grande svantaggio costituito dal fatto che essa, con un salto, porta sì
all’ego trascendentale, ma insieme, in quanto non è oggetto di un’esplicazione
progressiva, rileva l’ego trascendentale in un’apparente mancanza di contenuto
[...]. Si ricade perciò molto facilmente, come ha mostrato l’accoglienza che è
stata riservata alle mie Idee, e già nelle fasi iniziali, nell’atteggaimento ingenuo
naturale».
di Riccardo Paparusso
1. La crisi della Lebenswelt e la svolta asoggettiva
Forse si può studiare la nozione di natura solo per via indiretta
– senza mai assumerla come oggetto privilegiato del discorso o tentare di offrirne una tematizzazione adeguata – solo tenendola sul
fondo dell’analisi di altre questioni ad essa stessa più o meno vicine.
È questo che mi suggeriscono le parole con cui Maurice MerleauPonty introduce la prima lezione del suo corso, tenuto al College
de France, dell’anno accademico 1956-1957, intitolato Il concetto di
natura:
la natura è il primordiale, cioè il non costruito, il non istituito, di
qui l’idea di un’eternità della Natura (eterno ritorno), di una solidità. La Natura è un oggetto enigmatico, un oggetto che non è del
tutto oggetto; essa non è completamente dinnanzi a noi. È il nostro
suolo, non ciò che è dinnanzi ma ciò che ci sostiene (MERLEAU-PONTY
1995, p. 4).
È per questo che, credo, sia giustificabile proporre un discorso
che assuma la voce «natura» come sfondo delle questioni legate alla
320
321
nozione di «mondo naturale» elaborata da Jan PATOČKA nel 1967 ne
Il mondo naturale e la fenomenologia. Jan Patočka rileva un carattere
di inadegutezza nella critica alla scienza moderna avanzata da Husserl nella Crisi delle scienze europee (HUSSERL 1954). Questa conserva,
secondo il filosofo ceco, una mancanza, determinata dall’individuare nell’attività costitutiva dell’ego trascendentale la fonte ultima per
la validità dei contenuti del «mondo-della-vita». In tale concezione
l’allievo di Husserl coglie il pericolo di un raddoppiamento dell’oggettivazione, e dunque di un oblio di quel fondamento esistenziale
della scienza che Husserl stesso, mediante la riabilitazione del «mondo-della-vita», si proponeva di recuperare. In queste pagine tenterò
di far riecheggiare le parole di Merleau-Ponty appena citate all’interno della tematizzazione patočkiana della nozione di «mondo naturale», nel tentativo di ripensare il mondo-della-vita installandone
le fondamenta sull’enigmticità della natura.
Ripercorrerò alcuni luoghi della Crisi delle scienze europee, appoggiandomi alle riflessioni di Patočka ispirate all’opera husserliana.
In apertura del saggio La filosofia della crisi delle scienze europee secondo Edmund Husserl e la sua concezione di una fenomenologia del mondo della
vita (PATOČKA 1972) il filosofo ceco pone in rilievo la paradossalità
– imperante nell’Europa del ventesimo secolo – che proprio al periodo di massima espansione della razionalità e della sua universalizzazione da parte della scienza coincida il fallimento di quell’«Europa
detentrice di una missione speciale nei confronti dell’intera umanità» (PATOČKA 1972, p. 127) in cui lo stesso Husserl riponeva fiducia,
generando conseguentemente un atteggiamento di sfiducia nei confronti della ragione.
Essa non ci attrae più, ce ne allontaniamo per avvicinarci a qualcos’altro, in particolare ad un agire che non si sottometta al giogo
della ragione (PATOČKA 1972, p. 128).
Il proposito su cui è centrato il pensiero husserliano, spiega
Patočka, è quello di offrire all’uomo una via alternativa a tale deriva
inducendolo a riconciliarsi con la ragione attraverso la riscoperta del
suo stesso punto di scaturigine.
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A partire dalla svolta segnata dal Rinascimento, infatti, la ricerca
scientifica assume l’efficacia come unico criterio per la valutazione
delle sue nozioni, così da dissolvere il suo fondamento razionale in
quanto come stordita da un istinto del risultato, si dispensa dalla
responsabilità di cogliere l’evidenza, responsabilità che, appunto, costituisce il proprio di un atteggiamento razionale. Pertanto per correre in soccorso della ragione è necessario distinguere l’evidenza dalla
pretesa d’evidenza, da quell’efficacia della formula in cui la scienza
pretende sia colto il vero. La via che Patočka esorta ad intraprendere
è quella della regressione al «mondo-della-vita», originario dominio
dell’intuizione, che non solo è il luogo dell’evidenza, bensì anche il
fondamento del processo universale di oggettivazione a cui è dunque
irriducibile.
Il mondo-della-vita, riabilitato da Husserl mediante la messa
fuori azione dell’ovvietà con cui la concezione oggettiva del mondo si impone al senso comune, è il campo in cui l’incontro con le
cose è veicolato dall’orientamento corporeo tra esse, dunque l’ambito
di contenuti relativi a prospettive e situazioni soggettive, unite comunque in un «reciprocità non tematica che ha la funzione di fare
astrazione dalle particolarità» (PATOČKA 1972, p. 132). È questo il
contesto da cui, mediante un progressivo affinamento delle tecniche
di misurazione, scaturisce quell’opera di matematizzazione della natura – procedente con il metodo dell’ipotesi – in virtù della quale
ogni correlato della ricezione sensibile viene tradotto in una struttura geometrica, indubitabile nucleo essenziale della realtà. Da questa
trascrizione Patočka vede derivare due conseguenze catastrofiche, per
la scienza come per l’umanità. In primo luogo il mondo dell’esperienza concreta viene completamente sostituito da un aggregato di
strutture in sé, o meglio diventa mero fenomeno, modello, di quelle
strutture stesse: al senso vero delle formule, ossia al loro essere effetto di un movimento di astrazione dalla concretezza dell’esperienza
naturale, viene surrogata la semplice efficacia, la mera utilità. Ciò
determina per la scienza il crollo di qualunque suolo concreto cui
radicarsi e la perdita di interesse per tutto ciò che abbia un senso
reale e vitale. E dunque il confinamento in una «regione secondaria
dell’essere» (PATOČKA 1972, p. 138), di tutto ciò che riguarda la con323
cretezza umana. La scienza perde la sua funzione di autoresponsabilità umana: essendo l’unica sua preoccupazione non la comprensione
ma il dominio del mondo, l’accumulazione di forze, l’ottenimento di
risultati, non sa più relazionarsi all’umanità se non deformandola in
una sterile umanità di fatto, così da partorire dal suo ventre fenomeni
sociali che assoggettano «i rapporti umani alla medesima legge del
calcolo e praticano direttamente nei loro confronti il modello meccanicistico» (PATOČKA 1967a, p. 82).
Ora, nonostante Patočka riconosca come le pagine della Crisi delle
scienze europee stiano a fondamento di qualsiasi tentativo di reazione
nei confronti di tale catastrofe e di comprensione delle sue cause,
l’elaborazione husserliana del mondo-della-vita si rivela, ai suoi occhi deludente. In altre parole questa risulta, secondo Patočka, viziata
da una struttura di fondo che ne compromette l’iniziale, autentico
proposito, rendendola paradossalmente una sorta di tacita celebrazione dell’oblio del mondo-della-vita.
Innanzi tutto, dal punto di vista di Patočka, si potrebbe attribuire
a Husserl la tendenza ad una svalutazione delle differenze culturali.
L’interprete ceco, infatti, tenta di far luce sui pericoli inerenti ad
un’elaborazione in cui il mondo-della- vita sia concepito come struttura invariante presupposta dai vari mondi, e dalle varie rappresentazioni del mondo1. Egli vede occultata da tale concezione l’«originaria
storicità del mondo» (PATOČKA 1975b, p. 48). Uniformati nella correlazione a tale struttura invariante, i differenti modelli culturali di
cui ogni epoca storica lascia traccia sulla superficie del mondo, perdono la loro propria specificità. Ma, dal punto di vista di Patočka,
l’ombra della complicità tra l’Husserl della Crisi e la scienza è lo
statuto trascendentale del mondo-della-vita.
Ciò che Husserl denuncia nel nostro mondo costruito artificialmente non è il pensiero che funziona fino nelle regioni del dato, ma il
pensiero interamente emancipato che, invece di trovare il suo riempimento intuitivo nell’esperienza, si rende completamente indipendente da esso, per usurparne infine il posto (PATOČKA 1972, p. 139).
Installando il mondo-della-vita sull’attività costitutiva dell’ego
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trascendentale Husserl eredita dalla scienza moderna, seppur rivendicando il ruolo necessario dell’intuizione, la pretesa di penetrare
assolutamente la realtà concreta destituendola di ogni tratto d’irriducibilità. Infatti il carattere di indipendenza del contenuto della
Lebenselt, determinato dalla sua correlazione a coscienze identificate ai loro substrati corporali, decade dinnanzi allo sguardo assoluto
dell’ego. La responsabilità soggettiva dell’apparire, del manifestarsi,
di tale contenuto non conserva un residuo mentalistico? «E residuo
mentalistico significa sempre sopravvivenza del dualismo cartesiano,
residuo di quella sua concezione che ha fondato la tradizione della
scienza naturale matematica» (PATOČKA 1975b, p. 42).
Tra le più significative risposte alla concezione oggettivistica della realtà che emergono dalla Crisi delle scienze europee Patočka mette
in evidenza, nel saggio Reflexion sur l’Europe (PATOČKA 1990), la concezione del mondo come sfondo presupposto da ogni singola esperienza, come orizzonte che si sottrae alla pretesa della sua riduzione ad oggetto di un’esperienza adeguata, originale. Tuttavia il fatto
che Husserl, parallelamente, assuma l’orizzonte in questione tale in
quanto manifestazione per «une conscience d’horizon multiplement
articulée», per «une intenzion de totalité» (PATOČKA 1990, p. 193),
induce Patočka a chiedersi se il mondo all’interno di questa correlazione non sia nuovamente ridotto ad oggetto.
Dunque «qu’est que manque au monde de la vie tel quel Husserl
le présente» (PATOČKA 1990, p. 196)? Ci si deve chiedere cosa impedisca alla sua tematizzazione di guadagnare effettivamente il prescientifico terreno d’origine della scienza. Secondo Patočka, Husserl
guadagna solo il terreno di un mondo secondario, facendosi sfuggire
il mondo stesso nel suo progetto primordiale, quello che si tiene nascosto, velato, dietro la soggettiva-relatività della doxa. Nella misura
in cui il mondo-della-vita viene concepito come «domaine universel
de l’étant» (PATOČKA 1990, p. 196) che può presentarsi in carne ed
ossa all’osservazione dell’ego, viene violato in quanto ridotto ad innocua presenza proprio ciò in cui è custodita la sua inoggettivabilità:
l’inquietante componente di indecifrabilità – una sorta di «hyperdoxa» (PATOČKA 1990, p. 196) – peculiare ad ogni differente dimensione culturale, quella componente che tuttavia la cultura europea�
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con un’attitudine di stampo empirista, combatte sistematicamente,
tentando di renderla inoffensivamente trasparente.
Estremizzando, si potrebbe individuare in quest’aspetto della tematizzazione husserliana del mondo- della-vita l’espressione di una
tendenza essenzialmente europea, ossia l’indiretta giustificazione
della pretesa, da parte dell’Europa industrializzata (la stessa Europa
che subordinando la scienza alla religione del risultato e del profitto la svuota di ogni fondamento razionale) di esportare il proprio
modello di civiltà alle popolazioni cosiddette primitive, giudicate
arbitrariamente arretrate.
Non finiscono qui, poi, le difficoltà generate dalla «presenza».
Un’ulteriore contraddizione inerisce infatti al concetto di «auto-presenza». Patočka legge tale concezione come un’inconsapevole espressione dell’alienazione umana, di quella reificazione dell’io favorita
dalla rappresentazione oggettivistica della realtà, come se l’ego trascendentale, che si afferra in modo assoluto mediante un atto di percezione interiore, ripetesse l’atteggiamento dell’uomo che – assuefatto alla concezione oggettivistica del mondo – sfugge alla responsabilità della cura della propria interiorità, evadendo in una meno
gravosa esteriorizzazione di se stesso.
La proposta che Patočka avanza per risolvere l’aporeticità che vede
avvolgere il mondo-della-vita husserliano è quella di una svolta verso l’«asoggettivismo», svolta sostenuta dal ripensamento dell’epoché
come operazione di sospensione distinta dalla riduzione trascendentale, che dunque si arresterebbe al di qua della dimensione assoluta
a cui quest’ultima darebbe accesso. Una simile proposta può essere
intesa come effetto di un’operazione di esplicitazione, di radicalizzazione di alcuni aspetti offerti dall’elaborazione husserliana della stessa nozione di epoché. Basti pensare come nella Crisi delle scienze europee
Husserl stesso distingua tra due differenti processi di sospensione:
quello della riduzione trascendentale e quello dell’epoché che, guadagnando il terreno prescientifico del mondo-della-vita, è da assumere
come fase intermedia che prepara il terreno alla realizzazione della
prima. Nel saggio Epoché e riduzione (PATOČKA 1975a), cui si rifanno
queste considerazioni, Patočka stesso tenta di giocare in suo favore
il fatto che l’Husserl di Idee distingua espressamente l’epoché dal pro326
cesso della riduzione o piuttosto delle riduzioni, preoccupandosi di
invitare a non confonderla con un atto astrattivo. Lascio ora parlare
Patočka:
forse l’immediatezza della datità dell’io è un “pregiudizio”, e l’esperienza di sé, proprio come l’esperienza della cosa, ha il suo a priori
che rende possibile l’apparire dell’io (PATOČKA 1975a, p. 149).
Ponendo questa domanda Patočka fa luce sul fatto che una critica,
o meglio un ripensamento della nozione di epoché, tale come è stato
appena presentato, si traduce positivamente in quella che in qualche modo potrebbe essere definita un’universalizzazione dell’epoché
(PATOČKA 1975a, p. 150). In altre parole in una sospensione che,
estendendo il suo raggio d’azione fino all’immediatezza dell’esperienza interiore dell’ego, guadagni ciò che Patočka concepisce come
l’autentico trascendentale, quell’a-priori in virtù del quale è possibile
che un ego si manifesti: il mondo. Ciò si fonda sul presupposto che la
concezione secondo cui il fenomeno del mondo abbia il fondamento
del suo mostrarsi sugli atti di un ego trascendentale, atti caratterizzati dall’intenzionalità e dunque portatori di un senso oggettuale,
non è altro che l’effetto di un raddoppiamento arbitrario del campo
fenomenale. Un raddoppiamento finalizzato a garantirne la certezza,
e che è da accogliere solo come un ostacolo alla realizzazione dell’autentico proposito della fenomenologia: descrivere ed analizzare il
fenomeno del mondo così come esso, da se stesso, si mostra.
Il mondo, a cui Patočka apre con l’universalizzazione dell’epoché,
ha uno statuto soggettivo solo in quanto si offre all’io come suo orizzonte di comprensione, e non in quanto subordinato all’attività costitutiva dell’io stesso. (Alla luce di ciò si può comprendere come dal
campo «asoggettivo» che Patočka ri-scopre sul fondo della filosofia
husserliana risuoni l’eco delle parole con cui Martin Heidegger ha
tentato di trasformare il progetto iniziale della fenomenologia)2.
Il senso di ciò che nominiamo soggettivo è, secondo Patočka,
«ambiguo» e significa non solamente «ciò che appartiene alla componente strutturale del soggetto, ciò che costituisce un suo aspetto»
(PATOČKA 1975a, p. 151). La concezione secondo cui l’io, mediante
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un movimento di autoriflessione, sia capace di autopercezione, di
osservare con assoluta chiarezza il flusso della propria vita interiore
è, per Patočka, un pregiudizio ancora non indagato3. Certamente è
peculiare all’io la possibilità di rapportarsi a se stesso, di interessarsi
di sé, ma solo nella tensione di un fungere passivo, solo nell’agire
da «nucleo organizzativo» (PATOČKA 1975a, p. 149) che, delineato
dall’interno del mondo stesso, sfugge al suo stesso tentativo di pieno
autoafferramento. L’autoriferimento dell’io si realizza non come atto
di percezione dei vissuti mediante uno sguardo interiore, piuttosto
come l’autoripiegamento di un lembo del mondo stesso, un lembo
cui il mondo concede tuttavia il privilegio di rendere possibile la sua
stessa manifestazione4.
2. Il primo movimento: tra Terra e Cielo
Le conclusioni raggiunte da Patočka in Epoché e riduzione offrono,
a mio avviso, la giusta chiave d’accesso alla lettura del saggio in cui
la tematizzazione del «mondo naturale» raggiunge quello che forse
è il suo sviluppo più significativo: Il mondo naturale e la fenomenologia
(PATOČKA 1967a). È proprio mediante un’universalizzazione dell’epoché che qui Patočka sembra accedere al mondo naturale. Quest’ultimo
non è infatti presentato solo come il terreno che fornisce incessante
nutrimento al processo di oggettivazione, ma, innanzi tutto, come
l’ambito in cui un io non è ancora presente, in quanto spazio in cui
si dispiega il processo dell’origine dell’io, ossia il quadro al cui interno si sviluppa l’originario movimento che conduce la vita umana
a prendere coscienza di sé. Un movimento che, in quanto centrato
sull’originario orientamento corporeo tra le cose, si dispiega tra quelle che di tale orientamento costituiscono i principali referenti. La
Terra ed il Cielo che, richiamandosi reciprocamente in una compenetrazione permanente, costituiscono la totalità, lo sfondo in cui ogni
presenza sensibile è sempre già inserita e che dunque è irriducibile
a un esperienza analoga a quella delle singole cose: ciò che conduce
nella manifestazione ritirandosi nell’ombra, «il non mostrarsi di ciò
che può essere mostrato» (PATOČKA 1965, p. 60), o meglio un’inces328
sante tensione tra vicinanza e lontananza, familiarità ed estraneità,
accoglienza ed allontanamento. La totalità offre accoglienza, garantisce la possibilità del nostro inserimento tra le cose, della nostra
familiarità con esse, tuttavia sfuma, gradatamente, nell’inattualità,
restando irriducibile ad una percezione originaria, inattingibile sia
alla memoria che, tantomeno, al pensiero.
L’ambito rassicurante con le sue componenti sia cosali che co-umane, il paesaggio che comprende tutto quel che di nuovo si presenta
[…] si perde in un non attuale indefinito, lo stile noto e familiare, i
cui contorni si vanno gradatamente cancellando e passando in ciò di
cui abbiamo soltanto una conoscenza generica, finisce per trapassare
in tutta un serie di varianti che non si dimostrano solo possibili, ma
che anche si realizzano, quali: un paesaggio a noi estraneo, montano,
selvaggio, il deserto, il mare, immense e sconosciute città, miracoli
della tecnica, formicai umani, ghiacci e nevi perenni… lo spazio
cosmico (PATOČKA 1967a, pp. 91-92).
La terra, il suolo del mondo naturale, è «essenzialmente vicinanza»
(PATOČKA 1967a, p. 99), ciò che nonostante l’incolmabilità delle sue
distanze rimane comunque accessibile, sempre potenzialmente raggiungibile nelle sue parti. Forse recuperando alcuni passaggi chiave
di un manoscritto del 1934 – Rovesciamento della dottrina copernicana
della corrente visione del mondo (HUSSERL 1940) – in cui Husserl prende
a tema la terra in contrapposizione con la concezione copernicana
secondo cui questa sarebbe nient’altro che «uno dei corpi accidentali
dell’universo» (HUSSERL 1940, p. 14), Patočka presenta la terra come
il «corpo universale», «prototipo di tutto ciò che è massiccio, corporeo» (PATOČKA 1967a, p. 98), che non può essere comparabile ad
un corpo qualsiasi, perché è ciò rispetto a cui le cose sono in qualche
modo parti, ciò in virtù di cui dunque le cose ricevono il loro dove,
la loro localizzazione. La terra è potere, potere che si oppone irrimediabilmente alle forze da essa stessa generate, le vette, i corsi d’acqua,
l’aria, l’atmosfera, l’oceano, tutti costretti ad aderire ad essa. La terra
è potere sulla vita e sulla morte. Essa è infatti l’unica fonte di nutrimento ma, al contempo, anche ciò da cui riceve orientamento tutto
ciò che si rivolge contro la vita, contro la terra appunto.
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La terra-potere non è una forza oggetto che io mi limito a constatare
o a pensare; bensì è qualcosa che domina su di me, qualcosa nel cui
ambito io mi muovo insieme alle altre cose, qualcosa a cui non posso, non sono capace di sfuggire neppure come un uccello nell’aria o
come una nuvola che si libra in cielo: anche questi ultimi sono sì più
liberi, ma pur sempre vincolati (PATOČKA 1967a, p 99).
Viceversa, il cielo, la periferia del mondo naturale, che in quanto
sfera del giorno e della notte assegna alle cose il loro quando, è distanza, estraneità. È ciò che, pur avvolgendoci, pur manifestandosi
in modo «eminentemente presente», rimane essenzialmente lontano,
«impalpabile», sfuggente al tentativo di controllo da parte del contatto corporeo. Ma proprio nella sua estraneità, nella sua intangibilità, il cielo riserva un’incondizionata ospitalità, in quanto «portatore
di segni che permangono sempre nel medesimo posto. Sulla terra ci
si può perdere ma mai nel cielo» (PATOČKA 1967a, p. 100).
Collocando il «mondo naturale» tra l’estraneità di cielo e terra
Patočka ne rafforza l’irriducibilità all’oggettivazione, in quanto gli
assegna quell’enigmaticità propria alla naturalità e quel carattere
di resistenza alle pretese costituenti della soggettività che la natura
cela, serba proprio nella sua perpetua familiarità, accoglienza. Dalla
terra e dal cielo il «mondo naturale» riceve quella tensione tra familiarità ed estraneità, tra vicinanza e lontananza, tra ciò che si offre,
che offre accoglienza ma immediatamente sfugge. Una continua tensione che mette in scacco qualsiasi tentativo di coglierne un senso
determinato. Dunque è come se i tratti peculiari ad ogni singola fase
del movimento dell’esistenza in cui il «mondo naturale» si dispiega,
fossero ereditati da terra e cielo. Questi infatti non sono soltanto
delle “cose-per”, che se ne stanno lì fisse, disponibili, inserite nel
contesto pratico delle nostre azioni. Piuttosto, in quanto simultaneamente rendono possibile l’apertura della «totalità di appagatività»
delle cose, ossia il contesto dei reciproci rimandi tra le cose, in cui
qualsiasi progetto pratico può aver luogo, stanno a fondamento del
complesso dei comportamenti che si intrecciano e si susseguono nel
movimento dell’esistenza, come accordandosi con questo in un’unica
melodia.
330
Nelle prime due fasi del suo movimento l’esistenza è infatti spinta dall’esigenza di radicarsi nella terra per assicurare soddisfazione
all’insieme dei bisogni corporei da questa stessa imposti, sviluppando così modalità di comportamento che hanno il loro indispensabile
centro nell’altro. Originariamente infatti mi muovo, mi comporto
in rapporto alla totalità soltanto in virtù delle cure dell’altro, mi
riconosco soltanto in ciò che ricevo dall’altro, sento l’altro più prossimo a me che non io a me stesso. È in virtù del suo movimento di
accettazione nei miei confronti che ho accesso a quel rapporto di
intimità corporea, di armonia sensibile con le cose, in cui abbozzo la
comprensione ancora grezza del loro senso. Partecipo dunque di una
«situazione significante bipolare» (PATOČKA 1967a, p. 105) in cui è
soltanto attraverso l’opera dell’altro, prima ancora che attraverso il
mio rapporto corporeo con le cose, che assumo i primi significati di
cui dispongo. È nel calore del corpo, delle mani, del sorriso dell’altro,
nella sua verità, che dunque mi scopro soggetto significante, soggetto di un significato. È la «dimora» dell’estraneo che mi accoglie a far
sì che la terra sia per me veramente terra, a consentire il mio «radicamento» in essa affinché riceva il nutrimento, la vita.
Fin dall’inizio della vita l’uomo è immerso, radicato anzitutto nell’altro e questo radicamento nell’altro funge da mediatore per tutti
gli altri rapporti. L’altro – anzi, nella naturale e inevitabile rete di
rapporti reciproci, gli altri – sono ciò che ci protegge, ciò grazie a
cui soltanto la terra può diventare per me veramente terra, il cielo
diventare cielo. Gli altri sono la dimora originaria5 (PATOČKA 1967a,
p. 107).
Nella «dimora» avverto, sento sulla mia pelle il compenetrarsi
di cielo e terra, o meglio il vertiginoso confondersi, come nel cielo e
nella terra, tra vicinanza e lontananza, tra familiarità, prossimità ed
estraneità. Questa infatti pur essendo il luogo che mi appartiene più
d’ogni altro, rimane sempre avvolta dall’atmosfera d’alterità con cui
originariamente mi si mostra, e dunque costantemente aperta verso
un’indeterminatezza che mi estranea.
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3. Il secondo movimento: il lavoro e la destituzione di sé
Ora, è proprio per questo, per questa sua costitutiva extraterritorialità, per questa sua necessità di apertura all’esterno, che la dimora non può bastare a se stessa. Affinché sia garantita continuità alla
conservazione della vita è necessario che il «radicamento» venga rafforzato da un movimento che organizzi la ricerca della soddisfazione
delle esigenze vitali, dei bisogni corporei, mediante una pianificazione dello sfruttamento delle risorse nutritive della terra. Questo è
il movimento dell’organizzazione del lavoro, in cui l’esistenza continua ad essere vincolata al potere della terra, o piuttosto duplica tale
vincolo sottomettendosi al suo ruolo, identificandosi nella specifica
funzione in cui l’organizzazione la colloca – come fosse nient’altro
che una cosa – e asservendosi a ciò in cui l’organizzazione del lavoro
si struttura: i rapporti di potere. Sono questi che ora concedono, in
luogo della «dimora», il radicamento.
Il secondo movimento accentua, radicalizza quella naturale tensione tra presenza ed assenza, tra identità ed estraneità che, come
abbiamo osservato, attraversa e scuote la «dimora». In esso l’esistenza oscilla infatti tra la tutela di sé e l’alienazione, la «destituzione».
O meglio proprio il comportamento finalizzato alla propria protezione, all’ottenimento della sicurezza, passando per l’identificazione
assoluta con il proprio ruolo, allontana l’uomo da ciò in cui risiede
invece l’autentica possibilità di custodia di sé, la cura della propria
interiorità, precipitandolo al contrario in un vorticoso processo di
reificazione, e dunque di spersonalizzazione.
Anche in questo secondo movimento l’esistenza centra i propri
comportamenti sul rapporto con l’altro o, piuttosto, trasforma l’armonia dell’originaria bipolarità in un rapporto di collaborazione, che
tuttavia mostra solo la faccia superficiale di un rapporto di competizione che costituisce, per l’esistenza, il primo passo verso la «destituzione» di sé.
La necessità di una pianificazione dello sfruttamento delle risorse determina una considerazione dell’altro come collaboratore, come
forza, ma soprattutto come ostacolo. Ciò presuppone un accostarsi
agli uomini a partire dall’assunzione della vita dal lato della sua fi332
nitezza, della sua precarietà. Solo così infatti è possibile che l’altro
appaia ai miei occhi solamente come minaccia per la conservazione
della mia vita, e che io stesso avverta la necessità di trasformarmi in
una minaccia per lui.
È tale distorsione del rapporto con l’altro che, prima ancora della
coincidenza con il ruolo, sta a fondamento della destituzione di me
stesso. È proprio in essa, inoltre, che risiede la condizione dell’identificazione della mia esistenza con il ruolo assegnatomi. Sono infatti gli
occhi di quell’altro con il quale entro in competizione che vedono in
me l’esecutore di una funzione prima ancora che un uomo. È perché
l’altro non mi osserva più come altro, fosse anche come avversario,
ma solo come desiderio del suo stesso oggetto, dunque non vedendo
in me nient’altro che se stesso, che mi destituisce, mi estromette da
me. Oggettivando l’altro violo lo statuto preoggettivo di quel legame affettivo, di quella originaria «situazione bipolare» cui devo la
mia esistenza. È così che, svuotata di significato, di senso, l’organizzazione del lavoro diventa lo sterile ingranaggio meccanico di cui gli
uomini costituiscono le ruote.
Inoltre, se nella «dimora» il mio presente, il mio essere qui e ora,
il mio presentarmi al mondo è incessantemente sostenuto dal mio
riferimento al passato da parte di chi originariamente mi accetta e
mi accoglie, invece il mio inserimento nella collaborazione e dunque
l’assunzione della funzione, nonché la mia identificazione con essa,
mi schiaccia nel presente; così da soffocare sul nascere l’interesse per
il mio passato, per ciò grazie a cui esisto, e dunque il riferimento a
ciò che sono, al mio essere.
La sfera in cui si fa, si realizza qualcosa – sfera in cui siamo tutti intercambiabili – è quella del presente, della funzione e del ruolo, appunto perché ha il suo punto di partenza nella prestazione (PATOČKA
1967a, pp. 114-115).
Svolgendo la mia funzione, e identificandomi con essa, mi limito
infatti a vivere in una «permanente prossimità» (PATOČKA 1967a, p.
115), ogni volta immobilizzato nel momento sempre identico dell’esecuzione del mio compito. Agli occhi dell’altro, così come lui
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stesso ai miei, sono, o piuttosto devo essere, sempre qui, sempre presente; devo sempre presentarmi.
Si può definire il secondo movimento dell’esistenza come il processo di (auto)-oggettivazione del mondo naturale, processo il cui
motore risiede proprio nel comportamento di competizione nei confronti dell’altro. Rapportandosi tra loro esclusivamente nel modo
della contrapposizione gli uomini intraprendono una marcia verso
l’indifferenziazione, verso l’omologazione, verso una «ripetizione del
medesimo senza continuità» (PATOČKA 1967a, p. 115) che è l’istinto
di autoconservazione a scatenare. È la vita, infatti, che per garantire
la sua continuazione partorisce questo paradossale processo di mortificazione di se stessa. Si potrebbe affermare che il vero motore di
questo processo di oggettivazione sia la morte, la morte che, «con il
pretesto di assicurarne la continuazione» (PATOČKA 1967a, p. 118), si
è travestita da vita per svuotarla di contenuto. Ed è proprio in questo
volto mortifero della vita, come vedremo, che è inscritta la possibilità, per l’esistenza, di intraprendere il movimento della verità, della
liberazione dalle catene di questa vita oggettivata.
In questo strato primordiale del «mondo naturale», nella dimensione pre-istorica della casa e del lavoro, l’uomo vive in un mondo
anteriore alla problematicità che, allo stesso tempo tuttavia, «ha un
senso dato» (PATOČKA 1975b, p. 48) per il fatto che esiste un potere
divino che risponde del senso dell’esistenza prima ancora che l’uomo
abbia la possibilità di porre delle domande. In tal modo la vita umana è ancora in un rapporto di prossimità, o meglio di vera e propria
indistinzione con la vita animale. Conducendo un’esistenza priva di
dubbi l’uomo si limita a vivere, come fosse un animale. Il divino
dunque è l’elemento intorno al quale si aggrovigliano le linee di un
primordiale intreccio tra esistenza e animalità. Una più profonda ragione di ciò è individuabile nel rapporto di fondazione tra l’ingenua
sottomissione al potere divino e la passiva accettazione della fatica del
lavoro. Il terrore dell’uomo per la minaccia incessantemente incombente sulla sua vita (minaccia di cui l’uomo individua, d’altronde la
responsabilità ultima nella volontà divina) e soprattutto la concezione
di se stesso come ineludibilmente subordinato ad un potere superiore
che si pone proprio ai limiti dell’umanità, in contrapposizione con
334
la condizione di precarietà peculiare a questa, determinano una sua
rassegnata accettazione della sudditanza alla produzione del lavoro.
La sfera del divino che sto prendendo in esame non ha propriamente a che fare con la religione, con il religioso, piuttosto essa è
legata a ciò che, viceversa, deve essere assorbito, neutralizzato per
accedere alla dimensione religiosa: mi riferisco all’eccezionale, all’orgiastico, allo straordinario della sacralità che si contrappone al ritmo
quotidiano dell’economico, del profano, coinvolgendo l’uomo in un
estatico movimento di abbandono, un movimento con il quale questi
si contrappone certamente all’alienazione dalla quotidiana – animalesca – preoccupazione per la conservazione della vita, senza tuttavia
ottenere la libertà. Piuttosto, travolto da «qualcosa di più forte della
sua libera possibilità e della sua responsabilità» (PATOČKA 1975b, p.
124), precipita in una condizione di autoestraneazione, di perdita di
sé, di «stordimento». Ciononostante gli uomini
si distinguono dagli animali per il fatto che per loro è sempre in
agguato una celata possibilità di problematicità, possibilità che può
improvvisamente esplodere, ma che essi non realizzano e non intendono realizzare (PATOČKA 1975b, p. 49).
C’è dunque possibilità di problematicità, di apertura ad un orizzonte in cui la vita può manifestare un senso nuovo, presentandosi
nella sua autenticità, nella sua universalità. Ma è una possibilità che
si rivela non svelandosi mai del tutto, piuttosto sopraggiunge insidiando tacitamente il senso dato. Una possibilità, dunque, la cui
apertura non è mai deliberata dall’uomo ma incombe sorprendendolo alle spalle, quasi assediandolo. Come se nell’istante originario
del suo sopraggiungere tale problematicità non fosse altro che la vita
stessa che, con il pretesto di liberarlo, si propone sotto un’altra veste
per mantenere l’uomo nella sua estraneazione.
È il lavoro paradossalmente che, proprio nel processo di disumanizzazione che impone, custodisce l’iniziale possibilità di apertura
alla libertà, alla verità, la possibilità di emancipazione dall’esteriorizzazione e dallo schiacciamento nella vita e, dunque, di distinzione
dall’animale.
335
È soprattutto nel peso, nella fatica che il lavoro impone, ciò in cui
la problematicità originariamente si annuncia, ciò in cui sentiamo
per la prima volta la nostra libertà, e con essa la necessità di rivendicarne l’irriducibilità. Tale peso è infatti profondamente legato a uno
ancora più originario, quello del dover portare, condurre la nostra
vita, di dover «garantire e rispondere per essa» (PATOČKA 1975b, p.
51). Il peso del lavoro rinvia dunque alla «responsabilità», alla decisione responsabile che rompe con il sacro, con il segreto subordinandolo a sé, assumendolo nel suo senso autentico di evasione dal
quotidiano6. Ed è alla «responsabilità», in quanto ad essa è connessa
la nascita della storia, che è legata la libertà. L’uomo responsabile di
se stesso, l’uomo che risponde di sé, può rispondere del proprio passato, della propria storia appunto, aprendosi così alla possibilità della
presa di coscienza di se stesso. Insieme alla storia nasce quell’uomo
in grado di operare una «scelta tra due opposte possibilità che gli si
aprono davanti» (PATOČKA 1975b, p. 128).
4. Il terzo movimento: la resistenza della dedizione
Si potrebbe dire che, per un verso, sia proprio la questione della «responsabilità» ad introdurci al terzo movimento dell’esistenza
umana. A quello della «responsabilità» inerisce infatti il tema platonico della cura dell’anima; e per il filosofo platonico
la cura dell’anima è indisgiungibile dalla cura della morte, che
diventa l’autentica cura della vita, in quanto la vita (eterna) nasce
da questo guardare la morte faccia a faccia, dal superamento della
morte (è possibile che non sia nient’altro che questo superamento)
(PATOČKA 1975b, p. 130).
Ora, è proprio a partire da una posizione di «adesione aperta alla
mortalità» (PATOČKA 1967a, p. 118), di «responsabilità», appunto, nei
confronti della propria morte, della propria finitezza, che l’uomo, per
Patočka, può intraprendere un movimento di liberazione dall’oggettivazione, e dunque dall’incatenamento alla vita, dall’esposizione al po336
tere del cielo e delle terra. Il terzo movimento: quello della conquista
di sé, dell’accesso all’io, che l’esistenza realizza conservando, tuttavia,
la passività della primordiale condizione di radicamento cui si contrappone. «Il risveglio è sempre finito» (PATOČKA, 1967a, p. 117).
Pertanto, se nella Crisi delle scienze europee l’accesso alla dimensione
assoluta dell’io, la riduzione trascendentale, coincide con una messa fuori azione del mondo-della-vita effettuata mediante un colpo
immediato, netto, Patočka sembra invece mantenere fedeltà all’originario proposito di Husserl7. Quello di effettuare un passaggio alla
soggettività assoluta attraverso il quale non si perdesse contatto, a
differenza di quanto accade con la riduzione cartesiana al cogito, con
l’atteggiamento naturale8. Infatti attraverso la tematizzazione del
terzo movimento Patočka propone la conquista dell’infinità dell’io,
da parte dell’esistenza, come risultato di un percorso graduale le cui
tappe essenziali, infatti, possono essere comprese, a mio avviso, come
la maturazione di qualcosa che sembra prepararsi già nella primitiva
situazione di «radicamento». O meglio queste possono essere comprese come un ritorno dell’esistenza a tale situazione, con un sguardo
capace, tuttavia, di osservare l’originaria dimensione di passività, la
primordiale esposizione affettiva al potere di terra e cielo, sotto una
luce nuova. Come se l’emancipazione dalla passività del mondo naturale coincidesse con l’atto iniziale della sua riabilitazione.
L’adesione alla mortalità in cui, come abbiamo già anticipato,
Patočka individua la condizione di possibilità affinché l’esistenza
reagisca alla «destituzione» di sé, alla sua repressione nell’esteriorità,
si realizza di fatto con la lotta. Lotta che non dobbiamo confondere
– come avverte Patočka – con alcuna funzione istintuale, che non ha
nulla a che fare, dunque, con una qualche lotta per la sopravvivenza
che non sarebbe altro che un modo di autoriproduzione della vita, o
un semplice aspetto del movimento di radicamento. Essa piuttosto
è minaccia assoluta nei confronti di tutto ciò che è determinato. È
lotta che ridesta, che risveglia l’esistenza dal torpore con cui se ne
sta sommessamente come cosa tra le cose, chiamandola ad affrontare
qualcosa che incombe inevitabilmente «ma che proprio per questo ci
rende possibile di non dissiparci, di non disperderci nella dimenticanza di noi stessi» (PATOČKA, 1967a, p. 117).
337
Ora se per un verso la lotta, in quanto minaccia assoluta, fa tremare la terra così da farle perdere quel carattere di eterna saldezza
che originariamente presenta, è proprio dal potere della terra stessa
che essa riceve, tuttavia, la forza necessaria per tentare di erodere
le fondamenta dell’architettonica di ruoli, funzioni, forze in cui il
«mondo naturale» si è trasformato per effetto del suo movimento
oggettivante.
Abbiamo già osservato precedentemente come la terra sia innanzitutto potere, e potere sulla morte, ossia imprescindibile fondamento e riferimento di tutto ciò che, come la lotta, si scaglia contro la
vita, e dunque contro la terra stessa che della vita è unica fonte. La
lotta poi è espressione di un’adesione dell’esistenza alla finitezza, a
quella sua precarietà derivata proprio dal suo originario e persistente
«radicamento» nella terra. Chi lotta si espone al potere della terra,
come per ricevere da essa un po’ della sua resistenza, resistenza necessaria per rispondere alla «repressione» (PATOČKA, 1967a, p. 117), alla
«soppressione» (PATOČKA, 1967a, p. 117) dell’oggettivazione.
Tuttavia se la lotta è «capace di distruggere il ruolo e di evocare
la libertà non è stata capace di darle un contenuto né di definirla»
(PATOČKA, 1967a, p. 112). Se da un lato infatti «scuote a fondo ogni
ruolo», dall’altro essa stessa reprime l’esistenza nella coincidenza ad
un altro ruolo, quello di chi combatte.
Pertanto affinché l’esistenza conquisti veramente se stessa deve
comprendere la sua «responsabilità», prima ancora che come «responsabilità» per se stessa, come «responsabilità» per l’altro. Ciò è
riconducibile al fatto che per Patočka, come è evidente nel saggio
«eretico» La civiltà tecnica è decadente e perché?, la genealogia del concetto di responsabilità esige l’evento cristiano, ne segue le tracce.
«Nella concezione cristiana dell’anima c’è una profonda, sostanziale
differenza», rispetto a quella platonica, una differenza che
sembra consistere nel fatto che soltanto ora viene scoperto il contenuto proprio dell’anima, contenuto che consiste nel fatto che la
verità per cui l’anima lotta non è la verità della visione intellettuale,
bensì quella del destino personale, e cioè una verità collegata con
una responsabilità eterna, contro la quale non c’è appello nei secoli
dei secoli (PATOČKA 1975b, p. 132).
338
A questo proposito è interessante, a mio avviso, segnalare come
Jacques Derrida riservi, in Donare la morte (DERRIDA 1999a), un ampio spazio a La civiltà tecnica è decadente e perché? La genealogia della «responsabilità» che si dispiega all’interno del saggio del 1975
infatti può, alla luce dell’interpretazione che ne propone Derrida,
essere accolta come racconto la cui trama si tesse «secondo il doppio
filo irriducibilmente intrecciato del dono e della morte» (DERRIDA
1999a, p. 70). E pertanto come apertura di uno spazio fecondo per la
comprensione della tematizzazione derridiana del dono, come «dono
della morte», come morte data, e dunque come movimento che si
porta al di là del calcolo, movimento di rottura dell’economico, o
meglio di rinuncia ad un’economia «nel senso della retribuzione
misurabile e disponibile alla simmetria» (DERRIDA 1999a, p. 136)9.
Dunque, riprendendo il filo del discorso, l’autentica possibilità di
apertura alla libertà, alla verità, risiede in un movimento di «dedizione» attraverso il quale la vita sia interamente, senza condizioni,
dedicata all’altro. Solo così l’oggettivazione dell’esistenza può essere
veramente rifiutata in quanto se ne neutralizza il fondamento: quel
movimento di contrapposizione all’altro che la lotta invece alimenta.
Difatti il movimento di «dedizione» culmina nella realizzazione di
un’«intima continuità», di una reciproca compenetrazione di individui, in cui l’uomo può essere finalmente riconosciuto, non nella sua
esteriorità bensì come un io. Un io che è apertura all’essere, alla totalità anteriore alle parti. È come se nell’universalità delineata dal suo
movimento di «dedizione» l’uomo veda riflettersi la compenetrazione tra cielo e terra in ciò che questa è già da sempre – ma che egli
non coglie in virtù del suo «radicamento» in essa – totalità anteriore
alle parti, «sfondo di manifestatività»; senza che tuttavia ora possa tradurre la totalità in un oggetto senza ombre, senza profondità,
poiché lo sguardo che vi getta continua ad irradiarsi a partire da un
movimento interno ad essa stessa, sempre a partire dall’orientamento
di una corporeità radicata – incessantemente – in essa dall’originario
movimento di accettazione.
Qualsiasi fare, qualsiasi orientamento o comportamento deve essere
preceduto da un ancoraggio, da un radicamento che si realizza nella
339
dimensione della passività, dell’essere esposti. È qui che anzitutto
si apre una totalità che è precedente alle parti ed è essenzialmente
inesauribile e si scopre il nostro rapporto con essa – o, meglio, il
suo rapporto con noi – nell’affettività, nel modo in cui si intona con
noi, nel come le siamo esposti, come siamo aperti e sensibili nei suoi
confronti (PATOČKA 1967a, p. 112).
Inoltre, mediante il movimento di «dedizione» l’esistenza porta a
manifestazione un’infinità – la sua infinità – che è già inscritta nella
sua condizione originaria, che si annuncia già nella «dimora» dove,
in quanto radicato nella terra in virtù dell’accettazione dell’altro,
l’uomo è già qualcosa che sporge fuori dal suo proprio centro. Qui, in
quanto ogni sua azione, ogni suo comportamento, ha come referente,
prima ancora che la terra, il passato degli altri che sono qui, e sono
stati qui, già sempre prima di lui, i bordi della sua singolarità sfumano già verso l’orizzonte di un’alterità estranea, indefinita, infinita.
Inoltre con l’evento della sua nascita l’uomo irrompe nella dimora
come estraneo; l’altro lo accetta, vi si dedica senza condizioni, prima
ancora di conoscere la sua immagine, la sua fisionomia, prima ancora
di poterlo definire10.
Ciò a cui ci si dedica incondizionatamente è, anche, la vita di
quell’altro di cui ci si prende cura nel rapporto erotico, un rapporto
erotico che «sarà tanto più vitale e indispensabile quanto più la vita
personale abbia subito un processo di meccanizzazione e spersonalizzazione» (PATOČKA 1967a, p. 113).
Nel rapporto erotico vengo donato a me stesso non in ciò che faccio
di me, in ciò a cui aspiro o realizzo, bensì in ciò che già sono, ed è
in questo che risiede quella passività inseparabile dalla magia che è
propria di tutta questa dimensione. La vita mi viene restituita – e
in ciò ritroviamo la caratteristica del passato – qui viene ripetuto
ciò che in realtà non è mai stato attuale, che è direttamente presente
come dono, come qualcosa a noi dedicato, a noi indirizzato, qualcosa che non possiamo mai offrirci, assicurarci o procurarci da noi
(PATOČKA 1967a, p. 114).
La dedizione è anche, o innanzi tutto, erotismo. Erotismo che,
340
riafferrato nella sua autenticità, nella sua essenziale irriducibilità all’oggettivazione (ossia purificato da ogni tentativo di impadronirsi
del rapporto), è una celebrazione dell’originario movimento di accettazione della vita.
1
2
«Il mondo-della-vita, malgrado la sua relatività, ha una propria struttura generale.
Questa struttura generale, a cui è legato tutto ciò che è relativo, non è a sua volta
relativa. Noi possiamo considerarla nella sua generalità e ritenerla […] accessibile una volta per tutte e da parte di tutti» (HUSSERL 1954, p. 167).
La riprova di ciò risiede nelle ultime pagine del saggio Le subjectivisme de la phénoménologie husserlienne et la possibilité d’une phénoménologie «asubjective» (PATOČKA
1970), dove Patočka prepara il movimento di universalizzazione dell’epoché – e
dunque la svolta «asoggettiva» da questo inaugurato – che intraprenderà nel
1975 in Epoché e riduzione, proprio attraverso una descrizione del campo fenomenale in cui si può avvertire un abbastanza esplicito riferimento ad Heidegger.
Scrive infatti Patočka: «La sphère phénoménale n’est pas subjective en ce sens
qu’elle se composerait de déroulements subjectifs, d’«intentions animatrices»,
d’«appréhnsions» et de vécus de toute espèce […]. Si elle est effectivement subjective, c’est dans un sens bien plus simple. Elle est, d’un certaine manière,
plus vaste, plus englobante : elle est un projet de tout rencontre possible avec
l’étant. Comme projet d’une rencontre possible, elle est naturellement en rapport avec l’étant qui vit dans des possibilités, qui est en tant que possible»
(PATOČKA 1970, pp. 184-185). Dopo essersi laureato in filosofia alla Sorbona,
Patočka ebbe la possibilità di conoscere Martin Heidegger e di frequentare le sue
lezioni a Friburgo, durante l’anno accademico 1932-33, grazie ad una borsa di
studio «Alexander Humboldt». A Friburgo fu accolto a braccia aperte da Husserl (lo aveva già incontrato a Parigi nel 1929) che, come racconta Patočka stesso
in un’intervista del 1967 rilasciata alla rivista «Filosofický časopis» e pubblicata in occasione del suo sessantesimo compleanno, tentò tuttavia di dissuaderlo
dal tentativo di «combinare la sua filosofia con quella di Heidegger» (PATAČKA
1967b, p. 169), tanto da pretendere, addirittura, che il giovane studioso non
frequentasse le lezioni di Heidegger, lezioni che d’altronde questi era tenuto a
frequentare. Fu l’assistente dello stesso Husserl, Eugen Fink, ad esortare Patočka
all’approfondimento privato del pensiero di Heidegger. Riporto, a tal proposito,
uno stralcio dell’intervista in questione: «Fink non era esclusivo come Husserl e
già dentro di lui si faceva sentire il contrasto dei due pensieri; presi in prestito da
lui gli appunti di diverse lezioni del tardo Heidegger; era capace di criticare acutamente Heidegger dal punto di vista della fenomenologia husserliana di quel
periodo, e naturalmente anche Husserl dal punto di vista di Heidegger, cosa che
fu valorizzata in pieno solo più tardi» (PATOČKA 1967b, p. 170).
341
«La riduzione sfocia […] in un’ontologia, che è fondata nel modo di accesso a
un ente di due specie diverse. Il modo di apparire di un modo di essere decide
il modo fondamentale del suo carattere ontologico. La coscienza, il vissuto, la
soggettività appare immediatamente a se stessa e fa apparire il resto. Il reale
non appare invece da sé, ma deve presentarsi mediante il vissuto. […]E questa
ontologia ha qualcosa di particolarmente insoddisfacente. Essa presuppone la
riflessione come atto immediato della percezione di sé, senza rendere conto della
sua possibilità» (PATOČKA 1975a, p. 149).
4
«Il mondo non è solamente la condizione di possibilità dell’apparire del reale,
ma è anche la condizione di possibilità di un ente che vive nel rapporto con sé e
con ciò rende possibile l’apparizione in quanto tale. Così l’epoché conduce di un
sol colpo all’apriori universale che apre il luogo dell’apparire tanto per il reale
quanto per chi esperisce. Ma non dà accesso a un terreno d’essere assoluto […]»
(PATOČKA 1975a, p. 150).
5
Mediante questa descrizione della dimora Patočka fa luce sull’originaria condizione di passività cui è radicata l’attività orientante del mio corpo proprio.
Infatti, c’è necessaria mediazione dell’altro nel radicamento alla terra e nella
relazione con il cielo. Questi rappresentano i referenti dell’orientamento, il libero movimento delle cinestesi da cui ottengo la localizzazione della cosa con
l’evoluzione delle prospettive di vicinanza e di lontananza. L’io faccio, l’io muovo, è dunque anticipato e preparato da un movimento che non gli è proprio, che
subisce, che non controlla: il movimento dell’accoglienza, dell’accettazione del
mio corpo da parte dell’altro. Si potrebbe dire, pertanto, che lo spostamento verso l’«asoggettivismo» dell’equilibrio della fenomenologia passa necessariamente
nel contenimento dell’attività orientante del corpo proprio, individuando l’originaria condizione di passività che incessantemente la sostiene, che le fornisce la
possibilità di realizzarsi.
6
«Il lavoro non assume questo carattere di peso a causa della fatica fisica […]
quanto per il fatto che in esso una determinata decisione ci è imposta e che noi
la sentiamo come tale. Paradossalmente il lavoro ci fa sentire la nostra libertà
giacchè il suo carattere di peso è derivato da un altro carattere ancor più originario: il peso che è inerente alla vita umana in generale, derivante dal fatto
che non possiamo semplicemente prendere la vita come qualcosa d’indifferente,
bensì che la dobbiamo sempre «portare», «condurre», garantire e dobbiamo
rispondere per essa. Così il lavoro che (secondo l’analisi della Arendt) è sempre
originariamente lavoro per il consumo, è possibile soltanto sulla base di un libero
essere-nel-mondo» (PATOČKA 1975b, p. 51)
7
«È possibile un modo completamente diverso di epoché universale, quello che
d’un colpo solo mette fuori giuoco nel suo complesso quell’atteggiamento implicato dall’intreccio complessivo (celato o esplicito) della validità, che costituisce, in quanto «atteggiamento naturale» unitario, la semplice vita diretta»
(HUSSERL 1954, p. 178).
8
A tale proposito è funzionale la duplicazione della riduzione in epoché e Reduktion,
3
342
9
ossia la preparazione della riduzione mediante l’operazione preliminare di messa
fuori circuito dell’interpretazione oggettiva del mondo propria alle scienze della
natura e di conseguente accesso al «mondo-della-vita» («epoché»).
Questa questione della riduzione reduplicata, nonché della contraddizione tra
l’intento husserliano di depurare la Reduktion da connotati cartesiani e la parallela assegnazione alla Reduktion stessa di caratteri marcatamente cartesiani è messa
in luce da Stefano Bancalari in: Intersoggettività e mondo della vita (BANCALARI
2003).
A questo punto vale la pena, a mio avviso, tentare di ripercorre, brevemente,
(solo) alcuni dei luoghi di questa genealogia servendoci del commento di Derrida per districarne la fitta trama. A determinare una prima rottura con il mistero
orgiastico, dando i natali all’uomo storico, è il platonismo. Infatti, sollecitando
alla cura dell’anima, e dunque esortando all’esercizio di una preoccupazione, di
un vegliare su la morte, la conversione platonica conduce l’uomo a rapportarsi
a sé, a raccogliersi in sé, a risvegliarsi come soggetto libero, responsabile. Questo infatti, in quanto «posto a confronto con la morte e con il nulla» (PATOČKA
1975b, p. 131) prende «su di sé ciò che ciascuno può realizzare soltanto in sé e in
cui è insostituibile» (PATOČKA 1975b, p. 132) ciò di cui dunque non può non assumersi la responsabilità continuando a nascondersi dietro gli impegni imposti
dal suo ruolo. Tuttavia Patočka sottolinea come la stessa conversione platonica
mantenga la coscienza incatenata alla potenza estraniante dell’orgiastico. Infatti
nella segretezza della conversazione, del dialogo interiore dell’anima, continua a
lavorare il carattere misterico del demoniaco. Attraverso un raddoppiamento del
mistero orgiastico con il «secretum» (DERRIDA 1999a, p. 58), il platonismo attua,
dunque, un superamento del sacro che non si afferma tuttavia come sua definitiva
eliminazione, bensì come conservazione, come economia dell’«incorporazione»
che continua a far lavorare il sacro alle dipendenze della responsabilità. Scrive
Patočka: «la via verso il Bene, che è un nuovo mistero dell’anima, si svolge sotto l’aspetto di un’intima conversazione dell’anima» (PATOČKA 1975b, p. 130).
E ancora, verso la fine della stessa pagina: «così sorge una nuova e luminosa
mitologia dell’anima sul fondamento dell’autentico-responsabile da una parte e
dell’orgiastico-eccezionale dall’altra; l’orgiastico non viene eliminato, bensì disciplinato e reso dipendente». Facendo giocare le analisi patokiane con il loro
commento derridiano si può comprendere come il platonismo guadagni l’accesso ad un’esperienza della responsabilità che non può essere quella autentica perché, accontentandosi di una mera sostituzione del mistero con il segreto, rimane
subordinata proprio a quell’alienante legge dell’economico (alla logica conservatrice, risparmiatrice dell’oikos) che, come sappiamo, produce dal suo interno l’irresponsabile reazione orgiastica. D’altronde nella conversione platonica l’anima
rivolge il suo sguardo ad un Bene che, in quanto oggetto di visione intellettuale,
si offre in tutta chiarezza, senza ombre, senza veli. Per l’anima il Bene eterno c’è,
è lì dinnanzi a lei con certezza; prima della caduta nella prigione corporea essa lo
ha già visto, ne ha già fatto esperienza. Pertanto la sua rinuncia alla corporeità, ai
343
piaceri del demoniaco, dell’orgiastico, è una rinuncia calcolata, attuata in virtù
della certezza di un’adeguata ricompensa. Mera scelta economica, perpetuazione
di quel monotono, noioso movimento di conservazione della vita in cui l’uomo è
tremendamente affascinato dall’evasione nell’orgiastico. Il platonismo rimanda
ulteriormente l’ingresso dell’umanità nei confini della responsabilità, e dunque
nella sua dimensione storica. Affinché ciò abbia veramente luogo è necessaria
una sospensione dell’economico, è necessario che si produca, come Derrida suggerisce in Donare il tempo (DERRIDA 1991a) un’effrazione all’interno del «processo
dello scambio» del «movimento della circolazione del circolo nella forma del
ritorno al punto di partenza» (DERRIDA 1991a, p. 8). Ora, il passaggio dal platonismo al cristianesimo così come lo descrive Patočka sembra mosso proprio
da tale «effrazione». Con le sue parole il filosofo ceco, annodando le fila della
genealogia della responsabilità con quelle dell’evento cristiano, sembra, alla luce
della lettura derridiana, voler incrociare il percorso che l’uomo intraprende verso
la presa di coscienza di sé come soggetto responsabile proprio con un movimento
di rottura, di irruzione dell’aneconomico all’interno della circolarità economica.
Scrive Patočka: «la stessa vita responsabile venne intesa come il dono di qualcosa che, pur avendo il carattere del Bene, ha allo stesso tempo le caratteristiche proprie di ciò che è inaccessibile ed eternamente superiore all’uomo, e cioè
le caratteristiche del mistero che ha l’ultima parola. Tuttavia il cristianesimo
comprende il bene diversamente da Platone: come bontà dimentica di se stessa
e amore non orgiastico che rinuncia a se stesso […]. L’anima ora non si cerca
solo mediante l’ascesa nell’intima conversazione, ma avverte anche il pericolo
di questa. In ultima istanza l’anima non è in rapporto con un oggetto, sia pure il
più sublime (come il Bene platonico), bensì con una persona che può guardare
dentro di lei senza essere vista» (PATOČKA 1975b, p. 131). All’evento cristiano
corrisponde quello di una più efficace, rispetto al platonismo, emancipazione
dall’orgiastico; proprio perché ora la responsabilità si afferma in virtù di un
apprendere la morte che, in quanto proveniente, data da una bontà dimentica
di se stessa è un dono «[…] ricevuto da un altro che, nella sua trascendenza assoluta, mi vede senza che io lo veda» (DERRIDA 1999a, p. 78). Un dono che, in
quanto tale, sospende la circolarità economica neutralizzando l’irresponsabilità
dell’orgiastico che è sempre pronta ad esplodere dal suo interno. Infatti un dono,
così come scrive Patočka, «inaccessibile» ed «eternamente superiore all’uomo»,
non lasciandosi identificare, riconoscere dal donatario, ritraendosi nell’atto stesso del suo donarsi, sospende la logica economica della restituzione. Logica che,
attraverso il riconoscimento, anche con la sola percezione del dono, il donatario
continuerebbe a rispettare, in quanto scambierebbe il dono ricevuto se non con
un’altra cosa, con un equivalente simbolico. E il simbolico è ciò che «apre e
costituisce l’ordine dello scambio e del debito, la legge o l’ordine della circolazione» (DERRIDA 1991a, p. 15).
10
Questo sporgere dell’esistenza verso l’infinità già a partire dalla singolarità della
«dimora» originaria ricorda, in qualche misura, l’annunciarsi della trascendenza
344
in quella presenza discretamente assente del femminile che costituisce un tratto
peculiare alla dimora così come essa è descritta nel 1961 da Emmanuel Levinas
nella seconda sezione di Totalità e infinito. Infatti, anche se l’abitazione non è
ancora per Levinas il luogo della «trascendenza del linguaggio», la discrezione
della presenza della donna (che fa sì che la dimora sia quel che è: ospitalità, accoglienza, e dunque possibilità per l’io di presa di distanza dal godimento nel
raccoglimento) «comprende tutte le possibilità della relazione trascendente con
altri». (LEVINAS 1961, p. 158). In seguito poi Levinas scrive: «il tempo che si
manifesta nel raccoglimento della dimora […] presuppone la relazione con un
altro che non si offre al lavoro, la relazione con Altri, con l’infinito, la metafisica»
(LEVINAS 1961, p. 169).
345
PATHOS
di Arianna Vennarucci
Pathos. Letteralmente, ciò che si subisce, si patisce, si prova, l’essere passivo; poi anche, in senso generale, ciò che accade, avvenimento, fatto, o, più precisamente, fatto che modifica le cose: accidente,
cambiamento, fenomeno. Infine, pathos è ciò che si sente, impressione,
sensazione, affezione, emozione, sentimento, passione. Il termine ricorre nelle opere platoniche e aristoteliche in tutte queste accezioni:
dall’impersonalità del subire all’evenienza della modificazione, passando attraverso l’apparire della passività stessa come fatto.
Ma chi o che cosa “sta sotto” le modificazioni di cui il pathos è
accadimento? Chi o che cosa lascia che qualcosa accada nella passività
originaria evocata dal pathos? A chi si manifesta e come la passività
intesa come fatto elementare, come fenomeno?
Questi interrogativi dischiudono l’orizzonte concettuale entro il
quale si muoverà il mio tentativo di dar conto del pathos come fenomeno della fenomenologia. Devo subito precisare che questo orizzonte concettuale è ancora da intendersi come un orizzonte trascendentale
nella misura in cui non riguarda le emozioni e le passioni umane
così come queste sono empiricamente descrivibili, ma riguarda bensì
le condizioni di possibilità del loro darsi come emozioni e passioni
umane, le condizioni della loro stessa manifestatività e descrivibilità.
346
In questo senso, il fenomeno del pathos permette di circoscrivere criticamente l’ambito problematico del “chi” della fenomenologia, non
solo nel senso del “chi” di cui la fenomenologia parla – il soggetto
come tema, oggetto della riflessione fenomenologica –, ma anche e
soprattutto del “chi” parlante attraverso e nella fenomenologia – anche di quel chi (soggetto?) che, per esempio, ci spiega come la relazione conoscitiva tra soggetto e oggetto non sia il luogo originario di
manifestazione del fenomeno, cioè della cosa stessa.
Naturalmente, con questa duplicazione del “chi” della fenomenologia non si vuole qui intendere la tradizionale distinzione tra soggetto costituente e soggetto costituito, tra Ego trascendentale e io
empiricamente determinato: quello che ci interessa si mantiene in
qualche modo al di qua di questa distinzione ed è precisamente il
modo in cui colui che riflette fenomenologicamente comprende e
riesce a dar conto del proprio radicamento in un’originaria recettività che è affettività, pathos, senza risolvere questo radicamento in un
costituito, questo vissuto patico in un pensato.
D’altra parte, come può la fenomenologia pensare ciò che, non essendo un pensiero, è all’origine del pensare, ciò che ne è condizione,
ma che nel momento stesso in cui viene pensato proprio come condizione, viene posto e perciò appunto tolto come origine? In questa
aporia, a ben vedere, è costretta a muoversi qualsiasi filosofia che
voglia pensare «la passività della nostra attività» (MERLEAU-PONTY
1964b, p. 235) e, come vedremo più avanti, che voglia dire la propria
origine, descriverla come un fenomeno.
Ma intravedere l’aporia non ci fa desistere dal pensare ciò che poniamo non debba essere ridotto a pensiero; anzi, l’aporia, incombendo, ci ammalia, al punto che pensiamo per essa.
La mia paradossale impresa di pensare il pathos – che per lo più
sarà, come sempre accade, un ripensare il pathos pensato da altri – si
articolerà in tre parti, perché sono tre, a mio parere, le principali
questioni fenomenologiche in vista della cui trattazione il pathos è
invocato e posto a tema: l’esistenza, il con-essere e la parola.
347
1. Pathos ed esistenza
La sfera concettuale del pathos è innanzitutto il precipitato teorico del tentativo di tanta parte della fenomenologia di ricollocare lo
sguardo fenomenologico: lungi dall’essere lo sguardo apatico, disincarnato e kosmothèta dell’idealismo coscienzialista, si dirà, lo sguardo
fenomenologico è affettivamente ed emotivamente situato, è fatticità
che si appropria di sé come vita e, insieme, inseparabilmente, interpretazione della vita.
È ormai quasi un’ovvietà per la storiografia filosofica che la trasformazione concettuale con cui la dimensione patica ed emozionale
si apre alla comprensione filosofica sia opera di Heidegger, il quale
nei primi anni venti converte la fenomenologia dal logicismo husserliano all’ermeneutica esistenziale.
Eppure, il primo tentativo di dar conto dell’esistenza imprescindibilmente affettiva o patica dell’io pensante, a guardar bene, risale
proprio a Kant, cioè a colui che, di fatto, ha inaugurato l’idealismo
coscienzialista. Nella seconda edizione della Critica della ragion pura,
precisamente nel capitolo dedicato ai paralogismi, in una nota a piè
di pagina, Kant scrive:
L’“Io penso” è, come s’è detto già, una proposizione empirica, e contiene in sé la proposizione “Io esisto” […]. Quindi la mia esistenza non si può considerare conseguente alla proposizione: Io penso,
come la ritenne Cartesio […], ma è identica a essa. Essa esprime
un’intuizione empirica indeterminata, cioè una percezione (sicché
essa dimostra che la sensazione, la quale naturalmente appartiene
alla sensibilità, sta già a fondamento di questa proposizione esistenziale), ma precede l’esperienza, che deve determinare l’oggetto della
percezione mediante la categoria rispetto al tempo; e l’esistenza non
è ancora qui la categoria […]. Una percezione indeterminata qui
significa soltanto qualcosa di reale, che è dato, e dato solo per il
pensiero in generale; quindi non come fenomeno, e neppure come
cosa in sé (noumeno), ma come qualcosa che esiste in realtà, e che
nella proposizione “Io penso” è designato come tale. Giacché bisogna notare che, se io ho detta empirica la proposizione “Io penso”,
con ciò non voglio dire che l’Io in questa rappresentazione sia una
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rappresentazione empirica; che anzi essa è una rappresentazione intellettuale pura, perché appartiene al pensiero in generale. Ma senza
una rappresentazione empirica qual sia, che fornisca la materia al
pensiero, l’atto “Io penso” non potrebbe aver luogo; e l’empirico
non è se non la condizione dell’applicazione o dell’uso della facoltà
intellettuale pura1.
Brevemente, l’analisi di questa nota evidenzia quanto segue:
1. ciò che è in questione in essa non è l’autoconoscenza empirica
dell’Io: l’empiricità sui generis cui qui si fa riferimento non è l’empiricità dell’Io oggetto di conoscenza (un molteplice sensibile determinato attraverso le categorie), ma del soggetto della conoscenza,
perché l’intuizione empirica espressa dalla proposizione esistenziale
“Io penso” è un’intuizione empirica indeterminata, che, infatti, “precede” trascendentalmente l’esperienza;
2. dal momento che qui non si tratta del modo in cui l’Io può
conoscersi empiricamente autodeterminandosi in base alle categorie,
l’esistenza che è immediatamente significata dall’“Io penso” non è
l’esistenza in quanto categoria.
3. Se l’“Io penso”, in quanto affermazione d’esistenza, porta con
sé, come proprio fondamento, una sensazione seppure indeterminata,
e se la sensazione è per Kant ciò che fornisce la materia al pensiero,
allora abbiamo che l’autocoscienza trascendentale, ossia ciò che vale
come condizione suprema affinché qualcosa si dia in generale per il pensiero, è essa stessa “qualcosa di reale, che è dato” (a condizione che si
dia l’empirico), anche se dato solo per il pensiero in generale.
Ma quale paradosso è mai questo: che l’empirico valga come la
condizione e il trascendentale come il condizionato? O forse sarebbe
più corretto dire che l’empiricità, la recettività della sensazione in
generale, la possibilità di essere affetti da qualcosa, quindi l’esserpassivo in quanto tale, vale come condizione trascendentale di possibilità dell’affermazione d’esistenza dell’Io pensante.
Merleau-Ponty in una pagina della Fenomenologia della percezione
rileva che il criticismo non ha dato importanza alla «resistenza della
passività» e che, per questo motivo, non ha mai incontrato la domanda filosofica fondamentale: chi medita?2. Ora, a mio giudizio, il
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paradosso che ho appena evidenziato, testimonia del fatto che Kant
non ha eluso questa domanda: anzi, ad essa ha implicitamente dato
una risposta che non è poi tanto difforme da quella che lo stesso Merleau-Ponty tenta proprio nella Fenomenologia della percezione.
Chi medita? Stando alla nota citata, Kant risponderebbe che a
meditare è certamente una coscienza, ma non la coscienza tetica della
piena determinazione oggettiva del mondo, piuttosto una coscienza
dell’indeterminazione di principio della propria esistenza in quanto
coscienza: un Sé consapevole dell’impossibilità di scoprirsi esistente
se non a condizione che qualcosa, che non è se stesso, affetti i propri
sensi. Dunque, un Sé che si dà a se stesso solo in virtù della propria
inerenza al mondo.
Ora, proprio questa è la prospettiva in cui si muove la Fenomenologia della percezione quando l’analisi di Merleau-Ponty, con l’intento
di riscoprire lo strato di esperienza vivente attraverso cui le cose e
l’altro si sono originariamente dati, approda al cogito pre-riflessivo,
anche detto “cogito tacito”. La riduzione fenomenologica che Merleau-Ponty pretende di operare dall’interno di un Io naturale in situazione, lascia emergere la dimensione opaca e irriflessa della coscienza
percettiva, che, per quanto impersonale o prepersonale, è comunque
sempre soggettività: una coscienza che, trascendendo continuamente
se stessa nei suoi oggetti e non coincidendo mai con sé, ciononostante, è la tacita presenza a sé della soggettività incarnata.
Nella Fenomenologia della percezione il cogito tacito è, dunque, il segno di un’intimità corporea che deve pur darsi sul piano della coscienza affinché il corpo sia il mediatore di un mondo, ma che non
vuol più essere concepita nei termini di un’assoluta coincidenza con
sé. D’altra parte, il cogito, per quanto tacito o preriflessivo, implica
una presenza a sé, la quale, sebbene non sia posta come una coincidenza reale, ma soltanto come «intenzionale e presuntiva» (MERLEAUPONTY 1945, p. 445), deve comunque lasciar emergere l’orizzonte di
appartenenza di un Io.
Ed eccoci arrivati al punto cruciale: se lo strato originario e patico
dell’esperienza vivente è riguadagnato via negationis dalla pienezza
della coscienza riflessiva, cioè sottraendo alla coscienza tetica il possesso della piena determinazione dei suoi oggetti, è perché, di fatto,
350
quest’ultima, la coscienza tetica e riflessiva, è presente sin dall’inizio
e si mantiene, per così dire, alle spalle dell’irriflesso come l’orizzonte
trascendentale entro il quale esso può stagliarsi in veste di fenomeno
originario; ma è chiaro che, in virtù della preliminarietà trascendentale dell’orizzonte, l’originario non è più il vissuto patico in quanto
tale, non è più l’originario, bensì è il costituito.
Merleau-Ponty ha riflettuto a lungo sulle tensioni e sulle ambiguità – non solo quelle consapevolmente poste come tali – che
permanevano nella Fenomenologia della percezione: la sua ultima opera,
rimasta incompiuta e intitolata da Lefort Il visibile e l’invisibile, può
essere considerata un ripensamento radicale dello scritto del 1945,
un ripensamento che tuttavia non rinuncia a quello che ne era l’intento fondamentale; si legga, infatti, la pagina che segue:
Il proposito di chiedere all’esperienza stessa il suo segreto non è già
un assunto idealista? Se lo si interpretasse così, ci saremmo fatti
fraintendere. […] Noi interroghiamo la nostra esperienza, proprio
per sapere come ci apra a ciò che non è noi. Non è nemmeno escluso,
con ciò, che noi troviamo in essa un movimento verso ciò che in nessun caso
potrebbe esserci presente in originale e la cui assenza irrimediabile rientrerebbe così fra le nostre esperienze originarie. Semplicemente, non fosse
che per vedere questi margini della presenza, per discernere questi
riferimenti, per metterli alla prova o interrogarli, è necessario fissare
dapprima lo sguardo su ciò che ci è dato. […] Noi non dobbiamo
scegliere fra una filosofia che si installa “in noi”, fra una filosofia che
prende la nostra esperienza “dall’interno” e una filosofia, se è mai
possibile, che la giudicherebbe dall’esterno, per esempio in nome di
criteri logici: queste alternative non si impongono, perché, forse, il
sé e il non-sé sono come il diritto e il rovescio, e perché, forse, la nostra esperienza è quel rivolgimento che ci installa molto lontano da
“noi”, nell’altro, nelle cose. Come l’uomo naturale, noi ci poniamo
in noi e nelle cose, in noi e nell’altro, nel punto in cui, per una specie
di chiasma, diveniamo gli altri e diveniamo mondo. (MERLEAU-PONTY 1964b, p. 176)
Ecco un tipico esempio del modo di procedere dell’ultimo Merleau-Ponty: l’“è” posto in corsivo ci fa comprendere che l’abbandono
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del coscienzialismo è operato in vista dell’ontologia – si parlerà più
precisamente di “intra-ontologia” –, ma il riferimento ad un “movimento” verso ciò che si sottrae alla presenza, movimento che non si
esclude di poter rintracciare nella nostra esperienza, ci dice che il superamento della dualità coscienza-oggetto non comporta la rinuncia
alla dimensione dell’intenzionalità.
Merleau-Ponty si è reso conto del fatto che nella Fenomenologia della percezione l’intento di pensare un’intenzionalità primordiale, nell’attualità del cui evento, soltanto, senziente e sentito si costituissero
come tali, si infrangeva contro la persistenza dei termini di coscienza
e di oggetto, e sfociava inevitabilmente in una ricostruzione dell’apparire sensibile a partire da una relazione di termini già costituiti. In
Il visibile e l’invisibile, quindi, egli intende concepire il sensibile per
se stesso, cioè come realtà originaria e non derivata: esso è chiamato
ad indicare il terreno ultimo in cui devono conciliarsi l’identità e la
differenza del senziente e del sentito. In quest’ottica, si vorrebbe che
l’affettività cessasse di incarnare l’attività-passività di un soggetto
– sia pure concepito come essere-nel-mondo – e si vedesse finalmente
riferita ad una sensibilità intrinseca dell’Essere.
L’intento è, insomma, quello di rovesciare la prospettiva ancora
sottesa alla Fenomenologia e di porre la soggettività come una dimensione derivata: non è più la vita del soggetto che conduce l’Essere
alla presenza, ma, al contrario, è la Urpräsentation dell’Essere, il c’è
inaugurale, a recare in sé la possibilità della soggettività. È in vista
di questo rovesciamento che Merleau-Ponty introduce il concetto di
“carne” per designare ciò che, a suo avviso, non ha nome in alcuna
filosofia: la generalità pre-individuale del sensibile, l’essere stesso del
sensibile inteso come “elemento”, come la “stoffa” comune in base
alla quale giustificare l’unità di incrocio, trasgressione e sopravanzamento (il chiasma) di noi e degli altri, o di noi e del mondo.
D’altra parte, il mancato abbandono dell’intenzionalità, pur in
questa rinnovata prospettiva ontologica, fa sì che la carne conservi un
carattere ambivalente, perché essa non cessa, in Il visibile e l’invisibile,
di valere anche e soprattutto come l’assoluto qui e ora dell’individuo
incarnato.
Nella misura in cui è il fatto dell’incarnazione, la carne è il mio
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corpo, è carne vissuta in prima persona da un corpo che tuttavia non
si sa ancora né come un corpo tra gli altri, né, quindi, come corpo
di “qualcuno”; viceversa, nella misura in cui è dimensione, fatticità
dell’incarnazione, la carne è il principio della partizione dei corpi e
la condizione della loro somiglianza, poiché ne denota la proprietà
essenziale, ossia il movimento di reversibilità da senziente in sensibile e da sensibile in senziente. In questo senso, la carne è la dimensione dell’intercorporeità propria della percezione, che è a fondamento
dell’intersoggettività, ma non è ancora compresenza di una pluralità
di “soggetti”, sia pure corporei. Vedremo più avanti come questa
ambivalenza della carne costringa Merleau-Ponty a ripensare in profondità il rapporto fra percezione e linguaggio.
Per ora quello che ci interessa evidenziare è che se Il visibile e
l’invisibile testimonia, talvolta in modo contraddittorio rispetto ad
alcune affermazioni del suo stesso autore3, della persistenza dell’intenzionalità è perché, nonostante la radicalizzazione ontologica, la
filosofia non ha mai cessato di essere per Merleau-Ponty “fede percettiva” interrogantesi su se stessa.
In questo senso la ricerca merleau-pontiana, pur incrociando per
tanti versi l’ontologia heideggeriana, marca una distanza da essa. Per
farsi un’idea di questa distanza, basta leggere una pagina del corso
tenuto da Heidegger a Friburgo nel semestre invernale 37/38:
La necessità [del pensiero iniziale] che qui si intende determina
[bestimmt] l’uomo determinandolo emotivamente [durchstimmt]; naturalmente in questo fatto si insinua subito di nuovo il pensiero fuorviante che le emozioni [Stimmungen] siano qualcosa che l’uomo “ha” e che
dipende o da fatti e circostanze esteriori o da stati corporali interni, mentre in verità, il che vuol dire a partire dall’essenza dell’essere
(come farsi-proprio), sono le emozioni ad avere l’uomo e a determinarlo in maniera sempre diversa anche nel suo stato corporale. […]
C’è ancora da dire qualcosa di più essenziale: l’emozione non è, come
quel che abbiamo appena detto potrebbe invece essere erroneamente
interpretato in base alla concezione tradizionale dell’uomo, in base
cioè alla concezione biologica e psicologica, non è solo una capacità
umana molto importante, forse finora non abbastanza valutata e interpretata, ma, se compresa correttamente, è qualcosa che porta ad
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un superamento della concezione tradizionale dell’uomo. Diciamo
abitualmente che qualcosa ci dispone a questa o quella emozione.
In verità, ossia a partire dall’essenza originaria dell’essere, avviene
il contrario: l’emozione dispone noi, secondo modalità di volta in
volta diverse, per questo o per quel rapporto fondamentale con l’ente
come tale. Più precisamente: l’emozione è questo tratto dis-ponente, che
dispone in modo tale che, nel contempo, viene fondato lo spazio-ditempo della disposizione stessa (HEIDEGGER 1984b, p. 110).
Da questo testo risulta chiaramente come Heidegger imposti la
questione della Stimmung, della “intonazione” affettiva dell’esistenza,
in modo da eludere la possibilità che essa sia intesa come evento
o processo di e in un corpo, come un vissuto psichico, un Erlebnis
che noi abbiamo o non abbiamo. Se la Stimmung fosse un Erlebnis,
infatti, noi saremmo ancora da intendere come “soggetti” in sé di
fatto esistenti, sia nel senso che saremmo il luogo pre-disposto per il
suo manifestarsi, sia nel senso che potremmo disporre di essa come
di qualcosa che si abbia. La concezione heideggeriana della Stimmung rovescia la tradizionale prospettiva psicologica e antropologica
e comprende l’affettività come ciò a partire da cui l’esistente si dà
come esser-ci. Questo vuol dire che l’esserci si dà soltanto in virtù
di una disposizione di cui non è il disponente, perché non è lecito
pensare l’esserci come pre-esistente a quella tonalità affettiva che lo
dispone nel suo “-ci”.
In questo senso, Heidegger, questo Heidegger, successivo alla cosiddetta svolta, potrebbe apparirci del tutto estraneo alla questione
posta all’inizio, relativa al “chi” della fenomenologia; ma forse la sua
estraneità a tale questione è proprio ciò che la svolta intendeva produrre; forse, la cosiddetta svolta altro non è se non un modo per porre
in scacco la domanda “chi medita?”.
Proverò a chiarire brevemente questa mia ipotesi interpretativa.
Nella prospettiva in cui si muoveva Essere e tempo, era ancora possibile e sensato interrogarsi sul “chi” della fenomenologia. Nell’opera
del 1927, come anche nel corso di lezioni di quello stesso anno, I
problemi fondamentali della fenomenologia, la posizione del problema del
senso dell’essere diviene possibile a partire dal “fatto” che l’essere si
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dà già sempre in una comprensione media e vaga all’Esserci: è per
questo che Heidegger dovrà porsi la questione del fondamento ontico
dell’ontologia4.
Tuttavia, potremmo sempre chiederci se sia legittimo partire dal
fatto che l’uomo mediamente comprende l’essere in modo vago e
indeterminato per assumere che tale comprensione lo costituisca essenzialmente. L’ontologia non rischia in tal modo di poggiarsi su un
fondamento antropologico oltre che ontico? In breve, mi pare che
Heidegger individui l’esserci come via privilegiata di accesso all’essere sulla base di una preventiva assunzione che tale ente è per essenza apertura all’essere. Ma questo significa accogliere e far propria una
determinata idea dell’uomo, di cosa esso essenzialmente sia, prima
ancora di averne determinato l’essere; un’idea ricavata da dove? Dall’esperienza fattuale? Ma è possibile che l’esperienza ci suggerisca
l’idea di un ente che comprende l’essere, cioè qualcosa che non è ente,
senza che una preventiva assunzione della possibilità di un tale ente
ci spinga a cercarlo? In realtà quest’idea non è ricavata dall’esperienza, ma dalla tradizione filosofica e, più precisamente, dalla tradizione
del trascendentalismo. E, infatti, il fatto di una comprensione media
e vaga di qualcosa che non è un ente, da parte di un ente, è a sua
volta comprensibile soltanto perché ci si è già posti sul piano trascendentale dell’indagine relativa alle condizioni di possibilità dell’ente.
Ora, dal momento che tradizionalmente il trascendentalismo riconosce al soggetto umano il privilegio esclusivo di comprendere la vera
natura degli enti, ossia ciò che rende comprensibile l’ente in quanto
tale, Heidegger, negli anni venti, mantenendosi in questo del tutto
conforme alla tradizione, assume che la comprensione dell’essere appartenga alla costituzione essenziale dell’Esserci umano.
D’altra parte, se si considera che l’antisoggettivismo è una costante del filosofare heideggeriano, possiamo anche ritenere che ad un
certo punto Heidegger si sia reso conto che lo stesso esercizio, la stessa messa in atto dell’istanza critico-trascendentale, ereditata da Kant
e da Husserl, implicasse una ricaduta nel soggettivismo e andasse,
dunque, abbandonata. Di qui l’abbandono della questione di una
via d’accesso all’essere: la pre-disposizione di una tale via implicherebbe un’illegittima, perché preventiva, assunzione che a meditare
355
sia un “chi” identificabile a partire da una specifica determinazione
d’essenza.
Propriamente non c’è un “chi”: venuto meno il soggetto come
polo della relazione conoscitiva con l’oggetto, si eclissa anche il soggetto filosofante, cioè l’idea di un “chi” che possa disporre liberamente del proprio filosofare, un pensiero tale da concepirsi come uno
sguardo puntato indifferentemente su questa o quella cosa, come teoresi che possa ancora vantare una «presa sull’infinito» (LÉVINAS 1949,
pp. 115-16). Viceversa, l’apertura dell’interpretazione filosofica non è
opera dell’esserci, ma è piuttosto il suo destino: la filosofia si fa come
si compie un destino, a partire da una disposizione in cui il disponente avviene per principio sempre alle spalle del pensiero, di modo che
quest’ultimo ne manchi necessariamente la presa.
2. Pathos e con-essere
Dopo Heidegger, una fenomenologia che intenda mantenersi nel
soggettivismo e che, dunque, ritenga ancora legittimo rispondere
“Io” alla domanda “chi medita?”, è costretta a ripensare radicalmente
la dimensione dell’apparire. È costretta innanzitutto a chiedersi se
quella dell’apparire si possa definire in senso proprio una “dimensione”. Dove si fenomenalizza originariamente il fenomeno? È corretto
interrogarsi preliminarmente in merito a quell’orizzonte ek-statico
in cui il fenomeno appare fenomenalizzandosi, o non è piuttosto proprio l’assunzione dell’ek-stasi come orizzonte della fenomenalità ad
aver determinato la deriva ermeneutica della fenomenologia?
Sono questi gli interrogativi da cui ha preso le mosse, negli ultimi
decenni, il progetto di rifondazione della fenomenologia elaborato da
Michel Henry.
Ciò che Henry intende mostrare è che mantenendosi fedeli al
primo principio della fenomenologia husserliana, quello di interrogarsi sul “come” della donazione dei fenomeni, si ottengono risultati diversi da quelli della fenomenologia classica: inversione della
gerarchia che subordina la vita all’essere; rifiuto di comprendere il
fenomeno come la venuta di un Di-fuori nella luce di questo Di-fuo356
ri. Di qui la scelta di definire “materiale” la propria concezione fenomenologica: l’espressione significa etimologicamente la stessa cosa di
fenomenologia hyletica, ma sostituendo il termine greco con quello
latino, Henry prende le distanze dalla concezione greca classica del
fenomeno per riportare in primo piano la sostanza fenomenologica
della materia che lo stesso Husserl ha ridotto ad un cieco contenuto.
Radicalizzare la questione della fenomenologia non significa solamente mirare alla fenomenalità pura, significa interrogare il modo
secondo il quale essa si fenomenalizza originalmente, la sostanza,
la stoffa, la materia fenomenologica di cui essa è fatta: la sua materialità fenomenologica pura. […] Alla struttura interna di questa manifestazione originale non appartiene alcun Di-fuori, alcuno
Scarto, alcuna Ek-stasi: la sua sostanzialità fenomenologica non è la
visibilità; nessuna delle categorie di cui fa uso la filosofia, dai greci
in ogni caso, le conviene.
La fenomenologia materiale è capace di designare questa sostanza
fenomenologicamente invisibile. Questa non è un niente ma un affetto o, per dir meglio, ciò che rende possibile ogni affetto, in ultimo, ogni affezione, e così ogni cosa. La sostanza fenomenologica
vista dalla fenomenologia materiale è l’immediazione (immédiation)
patetica nella quale la vita fa la prova di sé – Vita che non è essa
stessa nient’altro che questa stretta patetica e, in questo modo, la
fenomenalità stessa secondo il Come della sua fenomenalizzazione
originale (HENRY 1990, p. 62).
Si tratta evidentemente di una fenomenologia dell’immanenza
che, mettendo da parte l’intenzionalità, cerca di dar conto, in termini di immediazione, del pathos originario mediante il quale nella
vita si inscrive un Sé. D’altra parte, già la formulazione linguistica
di una simile esigenza parrebbe smentire la possibilità stessa di tale
immediazione: quest’ultima, infatti, significa assenza di un medium,
assenza di un orizzonte nel quale possa istituirsi la relazione fra due
termini, perché ciò che si vuole tener fermo è precisamente che nella
vita non si dà alcun due, alcuna messa a distanza del sé da sé; tuttavia affermare che l’immediazione patetica è ciò in cui la vita fa la
prova di sé, non significa ridurre paradossalmente l’immediazione a
357
medium, ad orizzonte comune di una dualità, la vita e il sé di cui essa
fa prova?
Il pathos, l’auto-affezione, è posto come ciò in cui la vita guadagna
immediatamente l’ipseità; ma l’auto-affezione, in cui il pathos consiste, non implica, viceversa, proprio una non-coincidenza fra ciò che
affetta e ciò che è affetto e, in tal modo, la possibilità che il pathos sia
l’accadere, il fenomeno della loro coincidenza?
In breve, ci si sta chiedendo se, contro Henry, una qualsiasi prova
di sé, anche quella elementarissima del pathos, non richieda necessariamente, per essere “teorizzata”, il ricorso alla riflessione. È probabile che Henry ricuserebbe un simile modo di porre la questione per la
persistenza in esso di una logica dell’esteriorità, della trascendenza,
che, a suo avviso, è il derivato dell’intenzionalità.
D’altra parte, è lo stesso Henry a porsi questioni analoghe quando, poco più avanti del passo citato, scrive:
Se, estranea in sé all’Ek-stasi, la vita si sottrae per principio a ogni
potere di visibilizzazione concepibile, come la si può esibire in una
qualunque teoria, vale a dire in un guardare, parlarne per poco che
sia? Una fenomenologia dell’invisibile non è una contraddizione in
termini? Nella venuta in sé della vita in quanto sua auto-affezione
patetica e come tale radicalmente immanente, nasce d’altra parte,
un Sé la cui materialità fenomenologica è quella di questo pathos.
Un tale “Sé”, fondato su una soggettività acosmica, ma dopo tutto
rinchiuso in essa, non è votato al solipsismo? (HENRY 1990, p. 63).
Ecco qui delineate le due obiezioni fondamentali che possono essere mosse alla fenomenologia materiale di Henry: l’una riguarda la
possibilità stessa di costruire una filosofia dell’affettività pura; l’altra
riguarda invece la possibilità per un’ipseità patetica e acosmica – cioè
estranea all’orizzonte di visibilità del mondo – di entrare in relazione
con un’altra ipseità dello stesso tipo, di inscriversi in un’intersoggettività effettiva e concreta.
Significativo, a mio parere, è il modo in cui la fenomenologia materiale di Henry affronta tali questioni che la riguardano direttamente. Esse, infatti, non sono messe a tema in modo positivo e diretto:
358
l’analisi pretende di guadagnarne la soluzione per via negativa, cioè
passando attraverso l’esclusione di quegli elementi, primo fra tutti
l’intenzionalità, che hanno portato la fenomenologia classica a fallire
questi bersagli.
Consideriamo, per esempio, la prima questione: la possibilità di
costruire una filosofia dell’affettività pura; essa si risolve in un esame
critico della concezione husserliana della soggettività trascendentale, dal quale emerge che qualsiasi auto-rivelazione della soggettività
in termini di auto-costituzione in un orizzonte di trascendenza, e,
dunque, di temporalità, determina la dissoluzione della stessa soggettività, la sua dispersione nel flusso eracliteo dei vissuti e fa sì che
il costituente ultimo si ritrovi perciò privato di ogni statuto fenomenologico e consegnato all’anonimato.
In questo modo, Henry non ci spiega, di fatto, come sia possibile costruire una filosofia dell’affettività pura: si limita a mostrare
i motivi per cui essa è vanificata dalla concezione husserliana della
soggettività trascendentale; ma, a ben guardare, l’individuazione di
tali motivi è a sua volta possibile solo sulla scorta di una pre-comprensione della soggettività come immediazione patetica, di modo
che la filosofia dell’affettività pura finisce per valere come il presupposto implicito dell’indagine critica piuttosto che come ciò che va
dimostrato e legittimato.
È perché si assume che una filosofia della affettività pura non solo
sia possibile, ma ci offra altresì una sponda per rifondare l’assolutezza della soggettività nell’Archi-rivelazione immanente e immediata
della vita, che la fenomenologia classica si rivela incapace di dar conto di una conoscenza teorica della soggettività assoluta.
Lo stesso modo di procedere è adottato in merito alla seconda
questione sopra citata, la possibilità dell’intersoggettività, sulla quale dobbiamo ora soffermarci. Anche in questo caso l’analisi prende le
mosse dalla critica della quinta meditazione cartesiana di Husserl,
critica condotta alla luce del presupposto che l’alter ego non mi si
dà mai originariamente e concretamente in un orizzonte di trascendenza, e che, dunque, la trattazione husserliana, nella misura in cui
pensa l’esperienza dell’Altro in termini di costituzione, è destinata
per principio a mancare l’intersoggettività concretamente vivente.
359
Quest’ultima, lungi dall’essere il risultato di una trasposizione appercettiva del senso del mio corpo-organismo al corpo dell’altro (appresentazione o percezione analogica), è inter-soggettività in prima
persona, è il «pathos di queste soggettività nella loro co-appartenenza interna al Fondo della vita» (HENRY 1990, p. 185).
Ma come si prova questa co-appartenenza? Certo non mediante
la percezione: questa, infatti, non mi dà mai l’altro in sé, non tanto
perché l’alter ego sia un alter, piuttosto perché è un ego, una soggettività assoluta, la quale, secondo Henry, se intesa in modo originale,
sfugge per principio all’intenzionalità e, così, per conseguenza ad
ogni presentazione percettiva.
È possibile un’esperienza dell’Altro in cui la percezione non giochi più alcun ruolo? Henry ritiene di sì.
Si può persino concepire che l’impossibilità della percezione sia la
condizione dell’essere in comune. Kierkegaard non arriva ad affermare che l’essere in comune con il Cristo, ciò che egli chiama la
contemporaneità, fu più difficile per coloro che lo videro che per noi
che non lo vediamo? È un aspetto di ciò che egli chiama “la strana
acustica del mondo spirituale” e che vuole che le leggi dell’essere in
comune non siano appunto quelle delle cose, le leggi della percezione. Hic, illic, in ciò che concerne la mia relazione all’altro nell’intersoggettività originalmente patetica dove io sono con lui, non hanno
niente a che vedere con l’hic e l’illic di cui parla la Quinta meditazione
cartesiana, con l’hic e l’illic dei corpi percepiti nella sfera primordiale
d’appartenenza (HENRY 1990, p. 186).
Questo passo, in cui prende corpo un essere-in-comune inteso, paradossalmente, come comunità invisibile e spirituale e, nel contempo, affettiva e pulsionale, ci permette di evidenziare la contraddizione
che aleggia costantemente su tale fenomenologia dell’immanenza.
“Dove” sono con l’altro? Nell’intersoggettività originalmente patetica. “Come” sono con l’altro? Nella modalità della relazione. Il
dove e il come del mio originario essere con l’altro sono presentati qui
in modo non problematico, quando abbiamo visto che il darsi immediato e patetico della vita esclude in linea di principio che essa possa
mai essere assunta come una qualche forma di dimensionalità e che
360
in essa possa mai prodursi il minimo scarto, tale da giustificare una
relazione di sé con sé o di sé con l’altro.
È possibile per il pathos immediato della vita comprendersi al
modo di un’intersoggettività se la singolarità, l’ecceità che Io sono
è assoluta, indeclinabile e destinata a sfuggire a tutte le categorie
che appartengono a questo mondo e riposano in lui? Henry propone diversi esempi di questa relazione puramente affettiva fra viventi che si produrrebbe fuori dal mondo, fuori dalla percezione, fuori
dall’emergenza di un ego inteso nel senso della rappresentazione: la
relazione del bambino con sua madre, nella quale l’orizzonte in cui il
bambino potrebbe percepirsi come figlio di sua madre non si è ancora
dischiuso; la relazione ipnotica, nella quale l’orizzonte mondano della rappresentazione è, per così dire, sospeso; la relazione psicanalitica,
dove l’agire “inconscio” significa un agire che non si rappresenta alla
luce del mondo e non può essere illuminato da questa luce; infine, la
relazione erotica in cui la carezza segue le tracce del piacere dell’altro, lo invoca, ma ciò che tocca è solo il corpo-oggetto dell’altro, non
il suo corpo originale, radicalmente soggettivo e immanente, il suo
piacere in se stesso.
Ora, quand’anche si ammetta che simili relazioni possono mettere
in crisi il paradigma fenomenologico della rappresentazione percettiva, il vero punto in questione, qui, a mio parere, non è tanto il
modo d’essere di tali relazioni, piuttosto la loro stessa possibilità in
quanto relazioni. È questo che Henry dovrebbe giustificare: che una
“relazione” qualsivoglia si produca o sia già da sempre inscritta nella
pura immanenza e immediazione del pathos.
In verità, Henry prova a dar conto del carattere assolutamente
immanente e singolare e, nel contempo, interpatetico e relazionale della soggettività quando ripensa il concetto di auto-affezione in
senso anti-idealistico. Per l’idealismo, rileva Henry, auto-affettarsi
significa essere l’origine della propria affezione: l’io si pone da sé nel
senso interno, nel tempo, in modo tale che il suo pensare si converte
in un essere5. L’auto-affezione della vita, invece, in cui il Sé si prova
immediatamente come esistente, non solo non è posta dal Sé, ma, in
quanto pura passività, non è posta punto: in breve, Henry sembra
voler dire che in tale auto-affezione non si produce alcun atto, e dun361
que il “soggetto” in cui essa consiste, non è altro che, letteralmente,
il sostrato, il “Fondo” della vita come passività radicale.
il vivente prova dunque l’altro nel Fondo e non in lui stesso, in
quanto è la propria prova che l’altro fa del Fondo. Questa prova è
l’altro che ha il Fondo in sé come lo ha l’io. Ma questo non se lo rappresentano né l’io né l’altro. È il motivo per cui l’uno e l’altro sono
abissati nello Stesso. La comunità è uno strato affettivo sotterraneo e
ciascuno beve la stessa acqua a questa sorgente e a questo pozzo che
egli stesso è, ma senza saperlo, senza distinguersi da sé, dall’altro, né
dal Fondo (HENRY 1990, p. 205).
Ecco il punto: la comunità è il comune sostrato affettivo e indistinto in cui il Sé non si sa ancora come tale. Dunque, niente di
diverso, a mio giudizio, da un’ipostasi metafisica, dal momento che
non si comprende come il Sé – il Sé meditante che sa se stesso ed è
perciò distinto nella propria ecceità – possa attingere a questo Fondo comune dell’essere senza perderne proprio ciò che ne costituisce
l’originarietà, ossia l’immediazione. Infatti, posto che sia possibile
il difficile recupero di un’integrità originaria e indistinta della vita,
l’“immediato” così recuperato porterà in se stesso il sedimento dei
procedimenti critici in virtù dei quali lo si sarà ritrovato e, perciò,
non sarà l’immediato. Questo vuol dire che l’immediato è per principio inaccessibile.
Per non parlare del fatto che nulla in questa indistinzione, determinata dall’assenza di una qualsivoglia forma di auto-posizione, ci
autorizza a pensare all’altro vivente come ad un uomo, e alla comunità come ad una comunità umana.
Nancy, in un saggio del 1986 intitolato La comunità inoperosa, ha
elaborato una serrata critica alla logica di una comunità dell’immanenza assoluta.
Il soggetto-assoluto della metafisica (Sé, Spirito, Vita, etc.), spiega Nancy, pretende di costituirsi come il “senza rapporto” e ciò sembrerebbe escludere la comunità; d’altra parte la comunità torna fatalmente a scalfire questo soggetto proprio in virtù della stessa logica
dell’assoluto. Quest’ultimo, infatti, implica essenzialmente il riferi362
mento all’esclusione del rapporto, e ciò lo mette in rapporto:
ma, poiché non ci può essere un rapporto tra due o più assoluti, né
tanto meno si può fare del rapporto un assoluto, si dissolve in questo modo l’assolutezza dell’assoluto. Il rapporto (la comunità), se è,
può essere soltanto ciò che dissolve nel suo principio – e sulla sua
chiusura o sul suo limite – l’autarchia dell’immanenza assoluta. […]
L’estasi risponde all’impossibilità dell’assolutezza dell’assoluto, o all’impossibilità “assoluta” dell’immanenza compiuta. Essa definisce
in senso stretto l’impossibilità, ontologica e gnoseologica, di un’immanenza assoluta e quindi sia di un’individualità vera e propria che
di una pura totalità collettiva (NANCY 1986, pp. 25-28).
Ne segue che per Nancy la questione della comunità finisce in
qualche modo per coincidere con la questione dell’estasi: alla logica
dell’assoluto si sostituisce la logica del limite, ossia la logica di ciò
che è tra due o più, che appartiene a tutti e a nessuno – propriamente
neppure a sé.
In base a tale logica del limite, la singolarità indica ciò che forma
ogni volta un punto di esposizione, ciò che traccia un’intersezione di
limiti sulla quale c’è esposizione. E l’esposizione, a sua volta, è fatta dell’imminenza simultanea del darsi e del sottrarsi del rapporto:
l’“esser-con” è, per Nancy, questa sospensione fra la disgregazione
della folla e l’aggregazione del gruppo, di modo che e l’una e l’altro
sono in ogni momento possibili, virtuali, prossimi. Ma quel che è
più importante è che l’esistere come singolarità ed esposizione presuppone che non ci sia essere comune, sostanza, essenza o identità
comune: l’essere è in-comune senza essere comune. Questo perché
l’in-comune dell’essere non indica qui alcun modo della relazione, se
la relazione deve essere posta tra due termini già presupposti, tra due
esistenze date; indica piuttosto un essere in quanto relazione, identico
all’ek-stasi dell’esistenza6.
Dov’è il pathos del mio incontro con l’altro? Si è rarefatto e assottigliato: non la passione di una presenza, ma l’accadere di un limite
che è l’in e il con delle singolarità che limita; non io e te, ma l’estasi
della nostra esposizione in comune, che non potrà comprendersi in
un essere comune.
363
3. Pathos e parola
Tutto quanto s’è visto finora ci mostra che la filosofia quando intende dire il pathos, l’affettività pura, la sua propria passività – quella da cui il pensiero stesso proviene – è in difficoltà: per poco che
debba fare, essa è costretta a riformare radicalmente il proprio linguaggio, a disporre delle parole come inabissandosi in esse, in modo
che sembri che le parole si dispongano da sole, che la significatività
o l’equivocità di un prefisso non sia opera di una scelta, ma sia piuttosto la pre-figurazione del senso cui la filosofia è consegnata e che è
chiamata a scoprire.
D’altra parte, la domanda più radicale che la filosofia può porsi è
se, pur in tale inabissamento, il suo dire possa raggiungere la propria
carne, senza che con ciò essa ne risulti espropriata.
È la domanda che io personalmente ritrovo sullo sfondo in ogni
pagina de Il visibile e l’invisibile e dunque mi affido ora a quest’ultima
opera di Merleau-Ponty, non tanto per trovare la risposta, che è banalmente già implicita nella domanda, quanto piuttosto per capire
come la domanda possa essere posta, il modo in cui essa si dà a vedere
in quanto domanda: insomma, il suo statuto fenomenologico.
Il filosofo parla, ma è una sua debolezza, e una debolezza inspiegabile: egli dovrebbe tacere, coincidere in silenzio, e raggiungere
nell’Essere una filosofia che vi è già fatta. Viceversa, tutto avviene
come se egli volesse tradurre in parole un certo silenzio che è in lui
e che egli ascolta. […] Il filosofo scriveva per dire il suo contatto
con l’Essere; ma non l’ha detto, e non potrebbe dirlo, giacché questo
contatto è tacito. Allora egli ricomincia…Si deve quindi credere che
il linguaggio non è semplicemente il contrario della verità o della
coincidenza, che c’è o che potrebbe esserci […] un modo di far parlare le cose stesse (MERLEAU-PONTY 1964b, p. 143).
In Il visibile e l’invisibile la parola del filosofo emerge come problematicamente intenta a restituire il contatto originario con l’Essere
quale si dà nel sentire. La problematicità di questa restituzione è data
dal fatto che il linguaggio sembra recidere il tessuto continuo che ci
unisce vitalmente alle cose e al passato, e installarsi fra questo e noi
364
come uno schermo. D’altra parte, il filosofo non si rassegna al silenzio
e sempre “ricomincia” a parlare, sicché si è portati a credere che forse
il linguaggio non sia necessariamente ingannatore, ma sia piuttosto
il compito che tradizionalmente gli assegniamo a renderlo tale.
Per Merleau-Ponty se ci rivolgiamo al linguaggio come ad uno
strumento, come a qualcosa di “già fatto”, e gli chiediamo di affrontare l’Essere nella sua immediatezza e di “tradurlo” direttamente in
parole, allora è evidente che lo destiniamo al fallimento. Infatti, il
suo compito, così prospettato, è lo stesso della metafisica del Grande
Oggetto e del soggetto kosmothèta: una variante dell’ontologia “diretta” che consiste nel negare la contingenza costitutiva di ogni visione. Se l’obiettivo è la coincidenza con l’immediato, allora l’unica
alternativa ad un linguaggio che interrompe un’immediatezza in sé
conchiusa, è il silenzio. Dunque, una filosofia che non sceglie il silenzio è una filosofia che ha rinunciato al ritorno all’immediato: tale
filosofia ha accettato un linguaggio di cui essa non è l’organizzatrice
e che non è il semplice serbatoio di significati fissati e acquisiti, ma
linguaggio “vivente”.
Il riconoscimento di un senso “selvaggio”, già al livello della
percezione è una conquista dell’ultimo Merleau-Ponty e segna il
definitivo abbandono della nozione di cogito tacito in opera nella
Fenomenologia della percezione. D’altra parte, ciò che l’ultimo lavoro
di Merleau-Ponty dovrebbe chiarire è precisamente se e a quali condizioni sia possibile riconoscere a questo senso selvaggio una natura
propriamente “linguistica”.
L’elusività di alcune note di lavoro rivela l’incertezza di MerleauPonty in proposito: da una parte, troviamo ancora la contrapposizione tra un silenzioso mondo percepito, di cui il corpo sarebbe l’agente sensoriale, e un ordine delle significazioni linguistiche, avente la
parola come agente ideale7; dall’altra, è esplicito il riconoscimento
del fatto che la descrizione del logos percettivo (logos selvaggio o
endiàthetos) è uso del logos proforikós,8 riconoscimento che sembrerebbe
escludere, per principio, la possibilità di concepire significazioni al
di fuori della pratica linguistica.
In entrambi i casi, comunque, il problema centrale resta quello
del passaggio dal senso percettivo al senso linguistico: nel primo caso
365
perché la separazione dei due ordini rende molto difficile spiegare
come il soggetto percipiente e il soggetto parlante possano essere
uno stesso soggetto; nel secondo caso, perché l’imprescindibilità di
principio dell’uso del logos proforikós svuota di senso la stessa distinzione tra le due forme del logos, visto che per il logos percettivo
l’unico modo di rendersi evidente sarebbe farsi logos proforikós.
La soluzione dell’impasse va ricercata in un uso, a mio parere,
consapevolmente ambiguo, da parte di Merleau-Ponty, del termine “linguaggio”, derivante dal tentativo di assumere lo stesso “dire”
filosofico come interno all’Essere grezzo che si intende indagare. Il
linguaggio è, innanzitutto, la praxis della parola parlante e, come
tale, è inscritto nell’ordine dell’esperienza sensibile e del vissuto
come il senso che spontaneamente lo organizza; in questa accezione,
esso costituisce il piano di quella che Merleau-Ponty chiamerebbe la
Lebenswelt non tematizzata. In seconda istanza, il linguaggio è comprensione filosofica e tematizzazione espressa della prassi della parola
parlante e, in quanto tale, dischiude l’ambito trascendentale in cui la
Lebenswelt si rivela.
D’altra parte, il quadro non è completo finché non precisiamo che
il “luogo” da cui la tematizzazione esplicita della Lebenswelt si opera
non è esterno all’essere grezzo del mondo percepito, ma è piuttosto
un corpo che è fatto della medesima carne del mondo. Ora, questo
dato confonde i due piani del linguaggio appena isolati e fa sì che
essi scivolino l’uno nell’altro fino a diventare di fatto indistinguibili:
nella misura in cui lo sguardo filosofico non è più puro, ma incarnato,
la filosofia è essa stessa prassi, parola parlante, «espressione dell’esperienza attraverso l’esperienza» (MERLEAU-PONTY 1964b, p. 170), e, in
questo senso, il linguaggio operante, quello che affiora dal vissuto e
che è avvolto in esso, non deve costituire soltanto il suo “tema”, ma
la natura stessa del suo dire.
In quanto fede percettiva che interroga se stessa, riflessione che
non si ignora come riflessione, la filosofia finisce, dunque, per identificarsi senz’altro con ciò che Merleau-Ponty chiama “senso selvaggio”
e che inizialmente sembrava costituire il suo “oggetto”.
Il progetto di un’ontologia “indiretta”, cioè di una filosofia che
non si pone più di fronte all’Essere come ad un In-sé, chiama in causa
366
una filosofia che si vuole assoluta perché votata a “contenere se stessa”, cioè a comprendere insieme l’identità dell’esperienza che essa è e
dell’esperienza che essa vuole descrivere, e la differenza che s’instaura
tra l’esperienza detta e l’esperienza vissuta.
Il senso selvaggio designa una comprensione filosofica che mantiene in sé viva e operante la differenza, la non-omogeneità, tra il
sensibile in cui essa è già e la tematizzazione linguistica del sensibile
stesso: in tale scarto, che non è differenza assoluta, perché garantito
dall’identità “di principio” tra il comprendente e il compreso, si produce l’auto-riflessione filosofica.
Per l’ultimo Merleau-Ponty così come la filosofia è assoluta fintanto che non si chiude e non si risolve in tesi, ma lascia sussistere
l’identità-differenza del suo dire con l’esperienza che essa è, allo stesso modo, il sensibile è assoluto fintanto che non si chiude in un Sé
e resta sensibile “di nessuno”. Ora, dal momento che non possono
darsi due assoluti, questi due movimenti sono evidentemente uno
stesso movimento: quello di un pensiero incarnato che non può dire
la “propria” carne, perché dire il pathos come il “proprio” significherebbe già porsi al di fuori dell’Essere grezzo dell’esperienza sensibile,
designarlo positivamente e, dunque, toglierlo come apertura originaria.
1
2
3
4
5
I. Kant, Critica della ragione pura, Bompiani, Milano 1989, pp. 434-35 in nota
[B423].
Cfr. MERLEAU-PONTY 1945, pp. 106-7.
In una nota di lavoro del settembre 1959, egli scrive: «Se l’essere deve svelarsi,
lo farà di fronte a una trascendenza, e non di fronte a una intenzionalità, sarà
l’essere grezzo affondato che ritorna a se stesso, sarà il sensibile che si scava.»
(MERLEAU-PONTY 1964b, p. 225).
Cfr. HEIDEGGER 1975, Introduzione, § 5.
Devo precisare che il modo in cui Henry sintetizza la concezione kantiana dell’auto-affezione non mi trova pienamente d’accordo. In base alla dottrina kantiana del senso interno, a mio parere, non abbiamo elementi per concludere che
l’io sia l’origine della sua propria affezione: l’io è affetto da se stesso nella misura
in cui l’atto dell’io pensante implica una “modificazione” nel senso interno; ma
poiché il senso interno di per sé non contiene altro se non rapporti e «le rappre-
367
6
7
8
sentazioni dei sensi esterni costituiscono nell’intuizione interna la vera e propria
materia con cui riempiamo il nostro animo» (cfr. I. Kant, Critica della ragione
pura, op. cit., p. 103, [B 70]), origine e condizione dell’auto-affezione è propriamente l’affezione dei sensi esterni.
Cfr. NANCY 1986, pp. 182-84.
Cfr. MERLEAU-PONTY 1964b, p. 189.
Cfr. MERLEAU-PONTY 1964b, p. 196.
PERCEZIONE
di Giampaolo Gravina
1. Fenomenologia percezione affezione
La Fenomenologia della percezione sarà qui l’oggetto di un duplice
interesse tematico, rivolto simultaneamente tanto alla lettera del testo di Maurice Merleau-Ponty che porta questo titolo (1945), quanto
allo spirito dell’opzione filosofica che esso sottende. O meglio: proverò a far emergere dalla lettura ravvicinata di alcune sezioni del testo
di Merleau-Ponty la peculiare inflessione che la voce “percezione”
assume laddove fenomenologicamente intonata.
Ma la pretesa fedeltà di questa lettura – sarà bene confessarlo subito – si è consumata all’interno di un preliminare tradimento. E
l’architettura originaria del testo è stata sacrificata, se non addirittura
qua e là strapazzata, per far sì che nel rintracciare il rilievo tematico
della percezione non ci si sovrapponesse – per quanto possibile – alle
altre voci convocate dal filosofo a comporre la partitura della sua riflessione. Voci fenomenologiche s’intende (corpo, esistenza, temporalità,
tanto per citarne alcune), che perfino a un ascolto superficiale di quel
testo – ma anche solo a un primo colpo d’occhio all’indice del libro
– risaltano subito nell’importanza dei loro ruoli solisti.
368
369
Ho preferito lasciare queste voci sullo sfondo, dissimulate nel
coro, in attesa che gli altri contributi tematici del nostro laboratorio di fenomenologia ne orientassero di volta in volta l’ascolto; per
concentrarmi piuttosto sul percorso che conduce la riflessione sulla
percezione a rivelare i segni di un’affezione originaria, di un’appartenenza preliminare al mondo percepito.
2. Sulle tracce di un reperto linguistico: percezione e sensazione
Nell’inaugurare questo laboratorio, proprio all’inizio della sua
riflessione, Edoardo Ferrario ha subito chiamato in causa MerleauPonty e la Fenomenologia della percezione, con una citazione dall’incipit
della Premessa che gli è servita per fare echeggiare una domanda preliminare e apparentemente ineludibile: «che cos’è la fenomenologia»?
Ora, però, nel tornare sulle tracce di quell’autore e di quel testo, una
simile domanda risuona in tutto il suo carattere di questione irrisolta: «ben lungi dall’essere risolta», per dirla con Merleau-Ponty,
e forse addirittura insolubile, se ho inteso correttamente l’invito di
Ferrario a «guardar bene le cose nei testi» di tutti quei filosofi che
della fenomenologia hanno fatto la storia (leggi “l’avventura”).
Meglio così, viene da pensare: se la domanda sull’essenza di una
filosofia che si vuole «studio delle essenze» resta insoluta a mo’ di una
questione ancora aperta, tanto di guadagnato. Ma non appena dalla
Premessa si passa all’Introduzione scopriamo che un originario reperto
linguistico, persa per strada ogni auspicabile funzione di primo orientamento, viene al contrario rubricato come spaesante e fallimentare.
Cominciando lo studio della percezione troviamo nel linguaggio la
nozione di sensazione, che sembra immediata e chiara: io sento del
rosso, dell’azzurro, del caldo, del freddo. Tuttavia, vedremo che essa
è oltremodo confusa e che, per averla ammessa, le analisi classiche
hanno fallito il fenomeno della percezione (MERLEAU-PONTY 1945,
p. 35).
Nel trasferirci dalla periferia al centro, dai margini sfrangiati e
370
generici delle questioni preliminari al cuore problematico della faccenda – cioè nell’avvicinare proprio quella percezione che della fenomenologia si vuole qui l’oggetto privilegiato dell’indagine – ci imbattiamo subito nella nozione di sensazione, per scoprire però che
quel contesto di sedicenti immediatezza e consuetudine si presenta al
contrario come un territorio estremamente infido, dove la confusione
regna sovrana dal momento che tutte le analisi classiche hanno fallito
il fenomeno della percezione.
Come evitare questa falsa partenza? Se non vogliamo che già il
primo rendez-vous del nostro voyage au centre de la perception (è il titolo
di un libro di Max Loreau, il primo dedicato alla pittura di Dubuffet,
ma sulle tracce del filosofo belga della Genèse du Phénomène torneremo
più avanti) si dia come un incontro mancato, dobbiamo guardarci
bene dall’ammettere e accogliere la nozione di sensazione (se è proprio
«per averla ammessa» che l’analisi ha fallito fin qui), cioè dal darla
per scontata, dal prenderla per buona, dall’accettarla così come è.
Problematizzare le sensazioni dunque, sottrarre il sentire all’ovvietà del dato sensibile, alla sua pretesa evidenza: ecco un primo contributo (ancorché vago: è legittimo aspettarsi qualcosa in più!) della
fenomenologia a una corretta impostazione della questione della percezione. E già qui il cosiddetto «studio delle essenze» esce quanto
meno ridimensionato nelle sue ambizioni: capire la percezione non
sembra infatti avere a che fare con l’isolamento della sensazione nella
sua presunta purezza e unicità elementari. Anzi, «un puro sentire
equivarrebbe a non sentire nulla, e quindi a non sentire affatto» ci
dice senza mezzi termini Merleau-Ponty. In che senso?
3. Che cos’è il sentire? In cammino verso il miraggio
Il primo approccio di Merleau-Ponty con la questione della percezione sembra volerci mettere in guardia dal cosiddetto «pregiudizio
del mondo». È su di esso infatti che si (af)fonda la pretesa evidenza
del sentire: si tratterà ora di metterlo in fuorigioco, di revocarlo in
forse, di esercitare una prima decisiva epoché.
Non è dunque al di qua di ogni contenuto qualificato che andrà
371
cercata la sensazione, come una sorta di stimolo inteso alla stregua
di uno «choc indifferenziato», istantaneo e puntuale. La sensazione
rinvia sempre a un campo, a una rete, a un contesto di relazioni, a
una configurazione già almeno parzialmente organizzata, formata e
strutturata, a un orizzonte di senso già da sempre all’opera. Se è vero
che «il sensibile è ciò che si coglie con i sensi», veniamo ora invitati
a smettere di considerare questo “con” in modo semplicemente e ingenuamente strumentale. «Abbiamo disimparato a vedere, a udire
e, in generale, a sentire», e quando ci chiediamo: che cos’è il sentire?,
verifichiamo una volta di più che la riflessione «rende oscuro ciò che
si credeva chiaro. Pensavamo di sapere che cos’è sentire, vedere, udire, e ora queste parole divengono problematiche» (MERLEAU-PONTY
1945, pp. 42-43).
Un puro sentire appare dunque inconcepibile, la peculiarità del
percepito essendo proprio quella di «lasciarsi modellare dal suo contesto». Nell’esperienza non ci sono dei dati indifferenti che formano
insieme una cosa in quanto associati da somiglianze di fatto. Lungi
dal presentarsi come il risultato di un’associazione, il percepito è al
contrario «presupposto da ogni associazione», e «il suo significato
non è altro che una costellazione di immagini» (MERLEAU-PONTY
1945, pp. 49-51).
Pensiamo al contorno di una figura. «Un contorno non è solo l’insieme dei dati presenti: questi ne evocano altri che vengono a completarli. Quando dico che ho davanti a me una macchia rossa, il senso
della parola “macchia” è fornito da esperienze anteriori nel corso delle quali ho imparato a impiegarla» (MERLEAU-PONTY 1945, p. 49);
pertanto «se vogliamo comprendere il sentire dobbiamo esplorare in
noi stessi questo dominio preoggettivo», dobbiamo cercare connessioni, evocazioni, tracce.
Così inteso, il percepire appare dunque implicato essenzialmente
con la dinamica e la processualità di un’indagine, con la progressiva
focalizzazione di un obiettivo nel corso dell’itinerario, della manovra
di avvicinamento a esso. Il senso di questa manovra si fa particolarmente persuasivo in un passaggio del testo che Merleau-Ponty affida
alla suggestione di un’immagine:
372
Se cammino su una spiaggia verso una nave arenata e il fumaiolo o
l’alberatura si confondono con la foresta che delimita la duna, vi sarà
un momento in cui questi dettagli si congiungeranno vivamente al
battello e si salderanno con esso. A mano a mano che mi avvicinavo
non ho percepito somiglianze o prossimità che infine avrebbero riunito in un disegno continuo la sovrastruttura della nave. Ho soltanto
sentito che l’aspetto dell’oggetto stava per cambiare, che qualcosa
era imminente in questa tensione così come il temporale è imminente nelle nubi. A un tratto lo spettacolo si è riorganizzato dando soddisfazione alla mia attesa imprecisa (MERLEAU-PONTY 1945, p. 52).
L’atmosfera onirica evocata da questa scena – un soggetto in cammino su una spiaggia che scorge in lontananza il relitto di una nave
arenata – ha sulle prime il carattere di un miraggio: in cammino
verso il miraggio, verrebbe quasi da commentare, parafrasando Heidegger. Ma a ben guardare, la situazione qui richiamata non possiede
i tratti di un’immagine trasognata e sciocca, tale da ricordare qualche
isola dei famosi, nello stile gratuito e ciarliero di un naufragio con
(tele)spettatore. C’è piuttosto la silenziosa tensione di una sfida da
grande western, di una resa dei conti traslocata però sul set di una
baia sull’oceano, dove la posta in gioco diventa l’unità dell’oggetto
della percezione (provando a rintracciare nella memoria un addentellato possibile, mi torna in mente Duello nel Pacifico, il film di John
Boorman con Lee Marvin e Toshiro Mifune, che ambienta proprio su
un’isola deserta l’improbabile convivenza di un pilota americano e di
un ufficiale giapponese, dispersi all’epoca della seconda guerra mondiale: al conflitto iniziale fa seguito una collaborazione fra i due per
organizzare la fuga, ma il ritrovamento in un deposito abbandonato
di materiali bellici, prove della guerra che li ha divisi, suscita un repentino cambio di atteggiamento e, ripresa coscienza delle rispettive
identità nazionali, la brusca separazione tra i due).
Se ci atteniamo ai fenomeni infatti l’unità della cosa nella percezione non è costruita per associazione ma, in quanto condizione
dell’associazione, precede gli accertamenti che la determinano e la
verificano: «precede se stessa», precisa Merleau-Ponty. Le ragioni del
«ben percepire», della cogenza e veridicità del percepire, «non erano
già date come ragioni prima della percezione corretta».
373
Viene prima l’esperienza, dunque, e tutta l’esperienza è sensazione:
ma percepire è fare i conti con la problematicità del sentire, con il suo
«alone di mosso», con la sua ambiguità; e l’unità dell’oggetto nella percezione, che è dato cogliere «a un tratto», «in un sol tratto» – stando
alle parole della Fenomenologia della percezione, che offrono in queste
pagine singolari analogie con temi e suggestioni delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein – appare dunque «fondata sul presentimento di
un ordine imminente», su una «vaga inquietudine», che solo «a cose
fatte» è dato ricondurre a quegli stimoli di somiglianza e pertinenza
determinate cui finiscono per essere successivamente associati.
È solo a condizione «di essere dapprima compresa nella prospettiva
dell’esperienza passata» che a una singola impressione determinata
è dato risvegliarne altre, e ogni indagine supplementare intorno allo
statuto della percezione appare fortemente condizionata da questo
imprescindibile riferimento a un’affezione preliminare, dal tracciato
di «un ordine latente» che soggiace come un fiume carsico al paesaggio delle nostre esperienze sensoriali.
4. Affinità passive e infrastrutture vitali: per tornare al mondo vissuto
Se il paesaggio di questo ritorno ai fenomeni ha «come strato
fondamentale un insieme già pregno di un senso irriducibile», ecco
che il percepire non coincide più tanto con il fare esperienza di una
moltitudine di impressioni da completare attraverso associazioni,
«bensì [con il] veder scaturire da una costellazione di dati un senso
immanente» (MERLEAU-PONTY 1945, pp. 57-58).
Questo percorso di problematizzazione del sentire lascia dunque
emergere delle relazioni «grazie alle quali un oggetto percepito può
concentrare in se stesso un’intera scena, o divenire l’imago di tutto un
segmento di vita. Il sentire è quella comunicazione vitale con il mondo» che ci rende quel percepito di volta in volta presente (o meno)
«come luogo familiare della nostra vita». Ed è in buona sostanza al
sentire che tanto l’oggetto percepito quanto il soggetto percipiente
«devono il loro spessore» (MERLEAU-PONTY 1945, pp. 95-96).
Quando il sentire torna a fare problema e a distinguersi dalle de374
finizioni fisiologiche proprie di una concezione empiristica del percepire, riscopriamo la pluralità dei nessi tra le questioni dell’associazione e della passività, fenomeni centrali della vita percettiva. E non
più intesi come derivati da una costruzione intellettuale – l’evidenza
intellettuale non si distacca mai completamente dall’evidenza sensibile – bensì come dispositivi del costituirsi stesso di un insieme
significativo, del primo definirsi di un campo fenomenico.
Con una scelta terminologica che a me è parsa subito appropriata
e convincente, Merleau-Ponty paragona l’operare di una fenomenologia della percezione al «preparare l’infrastruttura vitale senza la quale
ragione e libertà si svuotano e si decompongono». Preparare l’infrastruttura vitale: non tanto l’architettura quindi, ma una specie di urbanizzazione primaria (fognature, acquedotti, reti elettriche, cablaggio dei cavi) senza la quale una casa dell’essere non diventa abitabile.
Il primo atto filosofico consisterebbe quindi nel ritornare al mondo
vissuto al di qua del mondo oggettivo, […] nel ritrovare i fenomeni, lo strato di esperienza vivente attraverso cui l’altro e le cose ci
sono originariamente dati, il sistema “Io-l’Altro-le cose” allo stato
nascente (MERLEAU-PONTY 1945, pp. 100-101).
Non un «mondo interiore», dunque, ma un «mondo vissuto».
«Il fenomeno non è uno “stato di coscienza” o un “fatto psichico”,
l’esperienza dei fenomeni non è un’introspezione o un’intuizione»;
e la configurazione sensibile di un oggetto o di un’azione non può
essere colta in una coincidenza ineffabile, al contrario va compresa con
una specie di appropriazione che tutti esperiamo quando ad esempio
diciamo che abbiamo afferrato un movimento.
Analogamente, il mondo vissuto non va descritto bensì costituito.
L’apparizione dei fenomeni, il loro prendere forma non rispondono al
dispiegarsi all’esterno di una ragione pre-esistente; non sono lì per
rendere possibile un mondo, alla stregua delle sue condizioni di possibilità, ma ne sono appunto l’apparizione, secondo la modalità della
«costituzione attiva di un oggetto nuovo che esplicita e tematizza
ciò che prima era offerto solo a titolo di orizzonte indeterminato»
(MERLEAU-PONTY 1945, p. 68).
375
La percezione è dunque un’operazione creativa che partecipa alla
fatticità dell’irriflesso: per essere fino in fondo fenomenologia, la fenomenologia della percezione deve saper cogliere e indagare proprio questa apparizione dell’essere alla coscienza, e non presupporne
la possibilità. Deve poter articolare la pre-comprensione di questo
mondo vissuto e non intuirne la configurazione: non una considerazione del mondo già «bell’e fatto, come contesto di ogni evento
possibile», quindi, ma «una ri-creazione o una ri-costituzione del
mondo in ogni momento», che impedisca di descrivere le sensazioni
«come si descrive la fauna di un paese lontano».
Creativa o ri-creativa, la percezione ha dunque a che fare con una
continua ricostituzione del mondo, in ogni momento: sempre di nuovo, dunque, per riprendere il felice titolo di un’intensa monografia
dedicata a Merleau-Ponty vent’anni fa da Sandro Mancini e successivamente aggiornata e arricchita (vedi MANCINI 2001) per Mimesis
(senz’altro l’editore italiano più prodigo di testi nel frastagliato e
vivace orizzonte di studi e ricerche intorno alla fenomenologia di
Merleau-Ponty).
5. Qual è il soggetto della percezione? Il sentire come coesistenza
Se le cose stanno così, il percepire non sembra avere tanto a che
fare con un’attività formale, ma con una certa libertà da acquistare,
con un certo spazio mentale da amministrare. E non si tratta solo di
illuminare meglio dei dati preesistenti, ma anche di realizzare in essi
un’articolazione nuova.
Conseguenza non secondaria di questa impostazione è un ripensamento riguardo al ruolo del soggetto nella percezione: egli «non
è né un pensatore che annota una qualità, né un ambito inerte […]
colpito o modificato da essa, bensì una potenza che co-nasce a un
certo contesto di esistenza o si sincronizza con esso» (MERLEAU-PONTY 1945, p. 288). Per chiarire meglio il senso di questo originario
sincronizzarsi del soggetto con la propria esistenza, Merleau-Ponty
suggerisce in questa stessa pagina una suggestiva analogia con il dispositivo del sonno:
376
I rapporti fra il senziente e il sensibile sono paragonabili a quelli fra
il dormiente e il suo sonno: il sonno viene quando un certo atteggiamento volontario riceve improvvisamente dall’esterno la conferma
che attendeva. Io respiravo lentamente e profondamente per chiamare il sonno, e a un tratto si direbbe che la mia bocca comunica
con qualche immenso polmone esterno che attira e respinge il mio
respiro: un certo ritmo respiratorio, poco fa voluto da me, diviene
il mio essere stesso, e il sonno, finora perseguito come significato,
improvvisamente si fa situazione (MERLEAU-PONTY 1945, p. 288).
Troviamo dunque nel sensibile «la proposta di un certo ritmo di
esistenza»: facendo seguito a questa proposta, assecondando quella
forma di esistenza che gli viene così suggerita, il nostro corpo cerca
il suo modo più appropriato di essere al mondo. E in quella forma di
esistenza indicatagli dal sensibile, si ritrova non come in una materia
indifferente e in un momento astratto, bensì in autentico contatto
con l’essere. «Se le qualità irradiano intorno a sé un certo modo di
esistenza, se hanno un potere ammaliante, […] è perché il soggetto
senziente non le pone come oggetti, ma simpatizza con esse, le fa
sue» (MERLEAU-PONTY 1945, p. 291).
Una cauta, circospetta introduzione all’interno di una forma di
vita – la nostra – caratterizza dunque la sensazione molto più adeguatamente di un’irruzione del sensibile nel senziente. Al contrario,
«il senziente e il sensibile non stanno di fronte come due termini
esteriori», non possiamo mai deliberatamente staccarci dalle impressioni sensibili per investirle successivamente con il pensiero. E
quando ci riferiamo a un essere esterno è tanto per aprirci quanto per
chiuderci a esso.
Anziché venire affrancata da ogni inerenza corporea, la soggettività è qui ricondotta alla sua matrice sensibile, alla familiarità che il
corpo ritrova con l’atteggiamento e con il ritmo di volta in volta più
appropriati all’esistere, secondo i modi di una preliminare forma di
reciprocità. Non più relegate nel mondo degli oggetti, sottratte alla
logica di un’arbitraria intenzionalità che le porrebbe dall’esterno, le
sensazioni vengono qui pensate nel segno della coesistenza, cioè di
una imprescindibile forma di comunione tra il soggetto senziente e
l’orizzonte dei dati sensibili.
377
Io che contemplo l’azzurro del cielo, non sono, di fronte a questo
azzurro, un soggetto acosmico, non lo possiedo nel pensiero, non
dispiego innanzi a esso un’idea dell’azzurro che me ne scioglierebbe
il segreto, ma […] sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e
si mette a esistere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro
illimitato (MERLEAU-PONTY 1945, pp. 291-292).
Vi è dunque una sorta di connaturalità, in virtù della quale divento
capace di trovare un senso a determinati aspetti dell’essere senza che
io stesso glielo possa preventivamente conferire secondo le modalità di una operazione costituente. Anzi, a giudicare dal tenore degli
esempi richiamati e dalle immagini evocate a conforto della riflessione – l’atmosfera trasognata di un miraggio all’orizzonte, il ritmo del
respiro di un (aspirante!) dormiente nell’atto di prendere sonno, lo
spettacolo dell’azzurro del cielo sotteso dallo sguardo che lo percorre
e lo abita – risulterà chiaro che per Merleau-Ponty «ogni sensazione
comporta un germe di sogno o di spersonalizzazione», e che analogamente «ogni percezione si effettua in un’atmosfera di generalità e ci
si dà come anonima» (MERLEAU-PONTY 1945, p. 292).
Fra la mia sensazione e me c’è sempre lo spessore di una acquisizione originaria che impedisce alla mia esperienza di essere chiara per
se stessa: non sono io a pensare il cielo, ma è piuttosto il cielo che «si
pensa in me». Nella Fenomenologia della percezione si insiste a più riprese su «quella specie di stupore» e quasi di abbandono in cui ogni
sensazione ha il potere di immergerci, per sottolineare la crucialità
di questo si impersonale: «dovrei dire che si percepisce in me e non
che io percepisco»; e analogamente «io non ho coscienza di essere il
vero soggetto della mia sensazione più di quanto non abbia coscienza
di essere il vero soggetto della mia nascita o della mia morte» (MERLEAU-PONTY, 1945, pp. 292-293).
Il tentativo di tradurre fedelmente la dinamica dell’esperienza percettiva implica dunque una distinzione supplementare fra coscienza
sensibile e coscienza intellettuale: «non posso dire che io contemplo
l’azzurro del cielo nel senso in cui dico che comprendo un libro o che
decido di dedicare la mia vita alla matematica. La mia percezione,
anche vista dall’interno, esprime una situazione data: vedo un az378
zurro perché sono sensibile ai colori» (MERLEAU-PONTY 1945, p. 292).
Ed è proprio questa sensibilità a precedere sempre la percezione e a
sopravvivere a essa, laddove il soggetto che la percepisce comincia
e finisce con la percezione, non può precedersi né sopravvivere a se
stesso.
Colui che vede e colui che tocca non sono esattamente me stesso perché il mondo visibile e il mondo tangibile non sono il mondo intero.
Quando vedo un oggetto, sento sempre che c’è ancora dell’essere al
di là di ciò che vedo attualmente, […] e non solo dell’essere sensibile, ma anche una profondità dell’oggetto che nessun prelevamento
sensoriale potrà esaurire. Correlativamente, io non sono per intero in
queste operazioni, esse restano marginali, si effettuano al di là di me.
L’io che vede e l’io che sente è in certo qual modo un io specializzato,
che ha familiarità con un solo settore dell’essere (MERLEAU-PONTY
1945, pp. 293-294).
Prima ancora che al suo proprio soggetto senziente, ogni sensazione appartiene dunque a un certo campo percettivo, rimanda cioè a un
orizzonte di cose non viste o anche non visibili, rinvia a una dimensione «prepersonale» già da sempre a disposizione dei sensi (sulla
quale l’io non ha arbitrio), cui ci è dato accesso senza alcuno sforzo.
6. Il sostrato primordiale delle idee e delle cose
La ricognizione di questo itinerario nella percezione, che aveva
preso le mosse dalla traccia incerta di un debole reperto linguistico,
sembra ora poterci condurre ben più avanti del previsto, o forse più
indietro, dal momento che la pratica dell’esercizio fenomenologico
qui suggerita assomiglia per diversi aspetti a un lavoro di risalimento
e incrocia a più riprese il percorso di un pensiero critico.
Non a caso, nelle pagine centrali del capitolo dedicato al sentire,
Merleau-Ponty ritrova Kant, o meglio richiama quel suggestivo ma
enigmatico rinvio all’idea kantiana di esperienza che compare nella
II delle Meditazioni cartesiane di Husserl (§. 16):
379
Come lo stesso Kant osserva acutamente, ciò che è dato non è né la
coscienza né l’essere puro, ma l’esperienza, ossia, in altri termini, la
comunicazione di un soggetto finito con un essere opaco da cui questo soggetto emerge, ma in cui rimane ancorato. È “l’esperienza pura
e per così dire ancora muta che ora, per la prima volta, deve essere
portata all’espressione pura del suo senso proprio” (MERLEAU-PONTY
1945, p. 297).
L’esperienza, dunque. Questo orizzonte di relazioni effettive che
ci incorpora preventivamente, non ci è dato nella sua unità sistematica, bensì come un’apertura, «nel senso di una totalità aperta». È
l’apertura al nostro mondo di fatto, alla contingenza irrinunciabile
del fatto che siamo al mondo, e richiede un continuo lavoro interpretativo, un’incessante ripresa di contatto con la sensorialità che già
preliminarmente viviamo dall’interno: una sintesi interminabile.
Noi abbiamo l’esperienza di un mondo, non nel senso di un sistema di relazioni che determinano interamente ogni evento, ma nel
senso di una totalità aperta la cui sintesi è interminabile. Abbiamo
l’esperienza di un Io, non nel senso di una soggettività assoluta, ma
indivisibilmente disfatto e rifatto dal fluire del tempo. L’unità del
soggetto o quella dell’oggetto non è una unità reale, ma una unità
presuntiva all’orizzonte dell’esperienza, ed è necessario trovare, al
di qua dell’idea di soggetto e dell’idea di oggetto, il fatto della mia
soggettività e l’oggetto allo stato nascente, il sostrato primordiale
dal quale nascono sia le idee che le cose (MERLEAU-PONTY 1945, p.
297).
Questo «sostrato primordiale» si configura come «uno strato originario del sentire che precede la divisione dei sensi». Perché i sensi
comunicano, come Merleau-Ponty non smette di sottolineare; e la
percezione, se intesa come la ripresa di una forma di esistenza, si effettua con il nostro corpo tutto insieme e sbocca in un mondo intersensoriale.
I sensi comunicano tra di essi aprendosi alla struttura degli oggetti, dal momento che ciascuno di essi è, nella sua essenza particolare, una maniera di modulare la cosa. La forma degli oggetti non è
380
esaurita dal loro contorno geometrico, ma ha un certo rapporto con
la loro natura, e mentre parla alla vista parla simultaneamente a tutti
i nostri sensi.
Il modo di comunicare dei sensi nella percezione richiama quello
in cui i due occhi collaborano nella visione, e la percezione riunisce
le diverse esperienze sensoriali in un mondo unico, proprio così come
la visione binoculare coglie un solo oggetto:
Quando il mio sguardo fissa l’infinito, io ho un’immagine sdoppiata
degli oggetti vicini. Quando a loro volta li fisso, vedo le due immagini avvicinarsi simultaneamente a ciò che sarà l’oggetto unico
e scomparire in esso. Non si deve dire qui che la sintesi consiste nel
pensarle insieme come immagini di un solo oggetto […] l’oggetto
unico non è un certo modo di pensare le due immagini, giacché
queste cessano di essere date nel momento in cui esso appare (MERLEAU-PONTY 1945, p. 309).
Merleau-Ponty sottolinea a più riprese che il passaggio dalla
diplopia alla visione per così dire normale dell’oggetto unico non
avviene però in virtù di un’ispezione dello spirito, non è l’esito di
un pensiero e non si effettua nella trasparenza della coscienza, ma si
coglie piuttosto come un’integrazione mai compiuta in quell’unico
organismo che noi siamo. E riconduce così la percezione sulle tracce
di quell’esperienza irriflessa del mondo che si dà come il passato originario – «un passato che non è mai stato presente» – di ogni riflessione filosofica che si richiami all’esercizio fenomenologico.
7. Verso una percezione originaria: fenomenologia e pittura
Questi ultimi riferimenti, tanto al sostrato primordiale dal quale
nascono sia le idee che le cose, quanto al passato originario di ogni
riflessione, indicano dunque all’esercizio filosofico di ispirazione fenomenologica il compito di rintracciare l’esperienza irriflessa del
mondo. E il confronto con il tema della percezione consegna alla
filosofia l’esigenza di un’elaborazione e di una consapevolezza ancora
381
più radicali di questa appartenenza originaria al mondo percepito.
Ma se la possibilità per la riflessione di cogliere il suo senso più pieno sembra ora consistere proprio in questa indagine preliminare del
contenuto irriflesso che essa presuppone, e di cui in qualche modo
beneficia, ecco che la fenomenologia non si può più accontentare solo
di studiare la percezione, piuttosto si deve formare al suo contatto,
deve pensare secondo la percezione stessa.
È quanto accade nella pittura, e specialmente nella pittura di
Cézanne, cui Merleau-Ponty si rivolge già nella Fenomenologia della
percezione e nei lavori coevi – come nel celebre saggio Il dubbio di
Cézanne, apparso per la prima volta in rivista nel 1945 e successivamente raccolto nel volume Senso e non senso del 1948, ma in realtà
già completato nel 1942 – per mostrare all’opera quanto egli andava
elaborando in teoria.
Cézanne diceva che un quadro contiene in sé persino l’odore del paesaggio. Egli voleva dire […] che una cosa non avrebbe questo colore
se non avesse anche questa forma, queste proprietà tattili, questa
sonorità, questo odore, e che la cosa è la pienezza assoluta che la
mia esistenza indivisa proietta di fronte a se stessa (MERLEAU-PONTY
1945, p. 416).
A ben guardare, però, il rapporto già stretto in questa sede col
pittore provenzale per dare risalto al proprio progetto di fedeltà alla
verità fenomenologica della «percezione effettiva», offrirà al filosofo
nei suoi ulteriori sviluppi – e segnatamente nell’elaborazione degli
ultimi lavori: L’occhio e lo spirito e l’incompiuto Il visibile e l’invisibile –
una riformulazione estremamente articolata di tutti quei motivi che
abbiamo fin qui passato in rassegna per indagare lo statuto della percezione nella sua complessità. Non solo quindi un’esigenza di unità
nella pluralità dei sensi; non solo una sottolineatura del carattere in
divenire della percezione, che la pittura coglie restituendo l’impressione di un ordine ancora embrionale attraverso un’organizzazione
spontanea della materia, fissata «nell’atto di prendere forma», per
enfatizzare l’indecisione del contorno nascente degli oggetti che vanno apparendo e come agglomerandosi sotto i nostri occhi. Ma anche
382
il tentativo di caratterizzare «quel fondo di natura inumana su cui
l’uomo si installa», quel «pre-mondo dove non c’erano ancora uomini», come un «il y a», qualcosa che c’è già, è già preliminarmente là,
e che ci mette in contatto con la presenza ancora muta e silenziosa di
un senso grezzo cui attingere.
È proprio al livello di questa dimensione originaria dell’essere,
non ancora elaborato e precedente ogni giudizio, che la percezione si
ritrova “a casa”: abita infatti un mondo opaco, dove il confine tra un
soggetto che vede e che sente e la realtà dei dati sensibili e visibili si
fa indistinguibile, e dove tanto i corpi che le cose sembrano intessuti
di un’analoga sostanza carnale.
Poiché le cose e il mio corpo sono fatti della medesima stoffa, bisogna che la visione si faccia in qualche modo in esse […]: “la natura è
all’interno” dice Cézanne. Qualità, luce, colore, profondità, che sono
laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risveglino un’eco nel
nostro corpo, perché esso li accolga (MERLEAU-PONTY 1964a, p. 20).
Dall’interno di questa trama comune, la percezione è ora colta nel
suo farsi: non più sguardo su un di fuori, relazione meramente fisicoottica con un mondo che ci sta davanti per rappresentazione; bensì
una sorta di scintilla che si accende – è sul punto di accendersi – all’incrocio di attività e passività, secondo quella dinamica del rapporto di co-appartenenza e di reciprocità tra soggetto della percezione e
mondo percepito che Merleau-Ponty coglie nella figura del chiasma e
nel motivo della reversibilità delle dimensioni.
Di una siffatta reversibilità delle dimensioni è ora la pittura ad offrirci l’esperienza, specie nello sforzo, proprio di quella pittura cosiddetta moderna e nella quale Cézanne sembra più che mai implicato, di
«liberarsi dall’illusionismo, per acquisire dimensioni sue proprie».
“Penso che Cézanne abbia cercato la profondità tutta la vita” dice
Giacometti; […] la profondità è ancora tutta da scoprire, ed esige
che la si cerchi, non “una volta nella vita”, ma per tutta la vita. […]
Una volta compresa in questo modo la profondità, non la si può più
definire una “terza dimensione”. […] La profondità così definita è
piuttosto l’esperienza della reversibilità delle dimensioni, […] di
383
una voluminosità che si esprime, in una parola, dicendo che una cosa
è là (MERLEAU-PONTY 1964a, pp. 46-47, corsivo mio).
Questo richiamo all’idea di una voluminosità originaria ci riporta
infine, sulle tracce di Cézanne, al pensiero di Max Loreau. Più ancora di
Merleau-Ponty (e quasi raccogliendone il testimone ideale), Loreau
ha interrogato la pittura per risalire a quella scaturigine percettiva
originaria che fosse indizio di un «autre commencement». E muovendo dalla considerazione di come la pittura più convincente del secolo scorso, a partire da Cézanne, non abbia mai più smesso di essere
percorsa e quasi ossessionata dalla ricerca di questi strati primitivi
della percezione, egli ha infine intravisto la relazione prioritaria che
lega la manifestazione del pensiero nella sua prima configurazione al
problema del volume originario:
Le volume dit originaire est le volume fictif qui se construit de soi et, en
cette autoconstruction, engendre la possibilité de l’idée comme telle (LOREAU 1987, p. 232).
8. Per una conclusione aperta, tra ovvietà ed enigmi
Ecco dunque in cosa finisce per risolversi tutta la faccenda della
percezione: nell’espressione una cosa è là. Un’apparente ovvietà, una
questione per certi versi perfino risibile, che invece conserva agli occhi del filosofo dignità di problema, complessità di enigma. E non
solo per il fenomenologo della percezione, a ben guardare. Se infatti
apriamo l’ultimo libro di Emilio Garroni, Immagine Linguaggio Figura (un testo importante, benché ancora poco discusso e studiato,
forse perché apparso nel febbraio 2005, soltanto sei mesi prima che
questo filosofo – straordinario maestro di Edoardo Ferrario, di chi
scrive e di molti altri studiosi a vario titolo coinvolti in questa e altre
avventure del pensiero, fenomenologico o no – ci lasciasse), ci si fa subito incontro un analogo tema. E anzi, per dirla con Garroni, «in un
certo senso questo enigma è il mio tema». Ma vediamo più da vicino
l’incipit di quest’altra Premessa:
384
Chiamerò complessivamente “immagine interna” sia il precedente
di un’immagine (sensazione), sia l’immagine in quanto attualmente
prodotta (percezione), sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata-rielaborata (immaginazione) […] Quei tre momenti o aspetti
dell’immagine interna sono strettamente connessi e talvolta addirittura difficilmente distinguibili. […] Le mie osservazioni partono dalla convinzione che l’immagine interna è un piccolo o grande
enigma: una convinzione che mi si è imposta via via sempre più
nettamente, soprattutto attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto “schematismo” kantiano […] In un certo senso questo enigma
è il mio tema (GARRONI 2005, p. IX).
Da una Premessa all’altra, è confortante verificare che anche agli
occhi del filosofo critico, frequentatore infaticabile nonché ispirato
traduttore del pensiero kantiano (ma Emilio Garroni aveva una consuetudine assidua con i grandi temi e con i grandi testi della fenomenologia), la questione della percezione sembra coinvolta in «qualcosa
di non definitivamente chiaribile, di non propriamente descrivibile,
di non completamente afferrabile nella sua intera determinatezza».
E sembra perciò destinata a conservare un residuo non solubile di
enigmaticità, dal momento che:
proprio ciò che appartiene intrinsecamente alla stessa vita quotidiana e dovrebbe essere quindi affatto evidente, e che anzi sta alla base
di ogni nostra esperienza, quotidiana e no, semplice e complicata,
passa in generale inosservato. Resta oscuro, pur se ritenuto evidente.
Così la sua mancanza di chiarezza viene trasformata in evidenza o,
meglio, in ovvietà. […] Ma una cosa è accettare passivamente una
difficoltà come una sorta di oscuro destino, risolto per di più in ovvietà, una cosa è sforzarsi nei limiti del possibile di chiarirla e comprenderla proprio nella sua enigmaticità (GARRONI 2005, pp. 6-7).
Una questione aperta, dunque, quella della percezione. E forse
«destinata a restare in qualche misura sempre aperta».
385
PHYSIS
di Adriano Ardovino
Che cos’altro è la quiete se non l’opposto del movimento? Però
la quiete non è un tal opposto che escluda il movimento, anzi,
lo include. Soltanto ciò che si muove può stare in quiete. Il
modo della quiete è sempre relativo al modo del movimento.
Nel movimento, preso come semplice mutamento di luogo di
un corpo, la quiete è, certo, il semplice opposto del movimento.
Ma se la quiete è tale da includere il movimento, deve
trattarsi di una quiete tale da essere un intimo raccoglimento
del movimento, e quindi estrema motilità, posto che il modo
del movimento in questione esiga una siffatta quiete.
M. HEIDEGGER, Der Ursprung des Kunstwerkes
1. La fenomenologia prima della fenomenologia
È possibile pensare l’apparire, il processo del disvelamento, senza
movimento? Si può sperimentare il tempo, la connessione di manifestazione e negazione, senza movimento? È possibile nominare il
differimento, la genesi di ogni differenza, senza movimento? Si può
incontrare, facendosi incontro, lasciando venire incontro, senza movimento? Il movimento è un fenomeno, ossia qualcosa che si mostra,
386
o non è possibile alcun fenomeno, nel senso che nulla può mostrarsi,
senza movimento? Si può uscire dal nascondimento, dovendo rientrare in esso, senza movimento?
Alla fine della filosofia greca classica, «movimento» è un nome
eminente della physis, della “natura”. L’autore e l’interprete di questo
pensiero semplice, che fa del movimento qualcosa di più e qualcosa di
meno di un genere, sia pure sommo, è Aristotele. La physis – lo svelarsi e il velarsi degli enti, la presenza e l’assenza di uomini e cose che
compiono la loro destinazione – si mostra a partire dal movimento.
All’inizio della filosofia greca, quando già si inaugura la lotta contro la “realtà” del movimento, il tratto essenziale della physis viene
scorto nel «nascondimento». Colui che vede questo evento semplice,
facendo dell’“ascosità” qualcosa di più e qualcosa di meno della negazione, è Eraclito, il quale scrive, come Parmenide, intorno alla physis.
Tra le voci della fenomenologia, colui che interpretando la physis
come nome dell’essere ha scorto nell’essenza e nel concetto della physis stessa l’unità semplice, ossia la molteplicità definita, dei contesti
fenomenici sopra accennati in forma interrogativa, è stato Martin
Heidegger. Se Husserl gli ha aperto gli occhi, Aristotele è stato il suo
«modello» (HEIDEGGER 1988, p. 13). Aristotele fu pertanto un fenomenologo prima della fenomenologia. Poiché però «Eraclito non ha
descritto i fenomeni, li ha semplicemente visti» (HEIDEGGER 1986a,
p. 48), Eraclito fu un fenomenologo senza fenomenologia.
In questa mimesi paradossale in cui il passato imita il futuro, in
questa fenomenologia già in anticipo su se stessa e ricompresa da
Heidegger nei termini non meno paradossali di una «fenomenologia
dell’inapparente» (HEIDEGGER 1986b, p. 179), la physis è ciò che raccoglie e unisce non già ciò che è separato, ma ciò che è già raccolto.
Riunire è lasciar emergere l’unità come il “già” di un autodispiegamento. Riunendo, la physis lascia emergere il fatto che l’unione non
è prodotta da noi e ci si offre anticipatamente. Rivolgendoci alla
physis, instauriamo un rapporto con ciò che non abbiamo bisogno di
produrre e che anzi ci libera dalla coazione alla produzione. Pensare
fenomenologicamente la physis non vuol dire “superare” l’opposizione di natura e tecnica, ma lasciarla cadere.
L’esperienza dell’inappariscente apparire della physis presuppone
387
la rinuncia all’idea che la molteplicità sia soltanto frantumazione
dell’unità o che i molti derivino dall’uno, disgregandolo, perché questo, semplicemente, non è ciò che “vediamo”. La saggezza eraclitea
dell’affermazione che tutto è uno e ritorna uno è riferita all’«uno in
se stesso differente». L’esplicazione fenomenologica della physis suggerisce che non è il semplice a complicarsi nel molteplice, ma la
molteplicità a dispiegarsi come semplicità. Physis è il nome semplice
di ciò che, “presiedendo” al sorgere e al tramontare, è l’inapparente,
che pure vige e si impone in modo altrettanto semplice e consonante:
harmonie aphanes phaneres kreitton1.
Quali sono i presupposti e le conseguenze fenomenologiche di
tutto ciò? Qual è la concettualità fenomenologica adeguata alla physis? Per avvicinarsi alla portata di tali domande e tentare di capire
perché una voce fenomenologica come quella di Heidegger possa
suggerire di riconoscere nella physis una voce o la voce della fenomenologia, occorre cercare il punto esatto da cui Heidegger stesso
prende le mosse, restituendo qualche tratto non soltanto della sua
interpretazione fenomenologica della physis tra Eraclito e Aristotele,
ma anche della domanda a cui risponde, a suo modo proprio, la domanda sulla physis.
2. La temporalità prima della temporalità
Al centro del progetto filosofico di Essere e tempo sta il tentativo,
espresso in forma di domanda, di attingere il «concetto universale di essere». L’essere si dice e si articola in molti modi, affermava
già Aristotele. Compito della fenomenologia è mostrare il «senso
dell’essere in quanto tale», trovando l’unità che non contraddice la
molteplicità. La parola «senso», come afferma il § 32 di Essere e tempo,
indica semplicemente il «rispetto-a-che» del progetto in cui qualcosa diviene comprensibile in quanto tale.
Per comprendere un ente, occorre aver già compreso, progettandola, la sua modalità d’essere. Porsi la domanda sul senso dell’essere
di un ente significa chiedersi rispetto a che cosa, prima di tutto,
viene progettata la comprensione dell’ente. Tale pre-comprensione è
388
indispensabile per qualsiasi rapporto concreto con l’ente. Comprendere cos’è un martello, capire come è possibile servirsene, è possibile
soltanto avendo già progettato la comprensione di tale ente in base
al suo essere-utilizzabile in vista di determinati scopi. Ciò rispetto a
cui viene progettata tale utilizzabilità, il suo «senso», è precisamente
questo modo di essere presente in quanto utilizzabile, la sua presenza
di utensile.
Nella prospettiva di Essere e tempo, il tempo non è altro che l’orizzonte trascendentale del problema dell’essere2. È in base al tempo che
comprendiamo l’essere degli enti e il nostro stesso essere nel mondo,
il nostro esserci ed esserci con altri. Essendo ciò rispetto a cui viene
progettata la comprensione dell’essere in generale, è il tempo stesso
ad essere in ultima analisi il senso dell’essere. La parola «tempo» non
esprime soltanto la temporalità dell’esserci, bensì anche la Temporalità dell’essere in quanto tale.
La temporalità dell’esserci è l’unità di essere-stato, presente e avvenire, che Heidegger chiama le tre estasi temporali. L’estaticità indica un uscire fuori. Ogni uscire include un “verso dove”, pertanto
ciascuna delle tre estasi ha un suo specifico orizzonte estatico, che
Heidegger chiama «schema orizzontale». L’unità della temporalità
dell’esserci ha un carattere estatico-orizzontale3. Sebbene la temporalità dell’esserci sia definita anche «tempo originario» (HEIDEGGER
1977, p. 390), il compito di Essere e tempo resta quello di attingere
il senso e il concetto universale dell’essere sulla scorta del problema
della Temporalità dell’essere in quanto tale.
È precisamente a questo punto che si interrompe il progetto filosofico dell’ontologia fondamentale. Al termine dell’unica parte
pubblicata dell’opera, rimasta essa stessa incompiuta, Heidegger si
chiede se esista e quale sia il «cammino» che conduce «dal tempo
originario al senso dell’essere» (HEIDEGGER 1977, p. 511). L’indagine
sulla physis, per anticipare quanto suggeriremo oltre, costituisce a
suo modo, se non una risposta a questa domanda, almeno un tentativo di rielaborarla, ovvero il modo in cui essa “lavora” come svolta
incompiuta.
Heidegger aveva progettato di articolare Essere e tempo in due grandi parti, composte da tre sezioni ciascuna. La prima sezione della pri389
ma parte prevedeva un’analisi preparatoria dell’essere nel mondo, la
seconda un’analisi della temporalità dell’esserci, la terza il passaggio
a un’analisi della Temporalità dell’essere. La seconda parte avrebbe
invece avuto il compito di tracciare una storia critico-decostruttiva
del problema dell’essere in base alla concezione dei rapporti tra essere
e tempo in Kant, Cartesio e Aristotele, a ciascuno dei quali sarebbe
stata dedicata una apposita sezione. La parte pubblicata di Essere e
tempo si limita di fatto alle prime due sezioni della prima parte.
Tenendo conto del fatto che Heidegger era solito porre in evidenza
l’eredità agostiniana operante nel pensiero di Cartesio – da parte del
quale anzi i «pensieri di Agostino vengono annacquati» (HEIDEGGER
1995, p. 378) –, le tre “stazioni” storiche corrispondono a tre grandi
esperienze del tempo: schematismo, distentio animi, misura del movimento. Per la seconda parte di Essere e tempo, Heidegger aveva annunciato una vera e propria interpretazione esistenziale del concetto
di schema4. Ma al di là dei riferimenti allo schematismo kantiano,
l’analisi della temporalità dell’esserci contiene anche limpidi riferimenti alla distentio e al movimento, non a caso raccordati tra loro dal
problema della storicità dell’esserci. Vediamolo in breve.
Poiché non è un ente e nemmeno è l’essere in quanto tale, la temporalità dell’esserci, l’unità estatico-orizzontale del tempo originario, non «è», ma piuttosto «(si) matura», ovvero «(si) temporalizza».
La struttura di maturazione della temporalità dell’esserci è definita
da Heidegger «storicità» (HEIDEGGER 1977, p. 394). Ma «l’esserci
distende se stesso in modo tale che fin da principio il suo stesso essere
è costituito come distensione» (HEIDEGGER 1977, p. 442), la distensione temporale dell’esserci5. Afferma ancora Heidegger:
la motilità dell’esistenza non è il movimento di una semplice-presenza, ma si determina in base alla distensione dell’esserci. La motilità specificamente propria del disteso autoestendersi dell’esserci, noi la
chiamiamo l’accadere dell’esserci […]. Lo scoprimento della struttura
dell’accadere e delle sue condizioni di possibilità temporali-esistenziali equivale al raggiungimento di una comprensione ontologica della storicità (HEIDEGGER 1977, p. 443).
390
L’interpretazione della storicità dell’esserci ricade costantemente
nell’ombra, perché sulle sue oscurità non soltanto incombe l’«enigma
ontologico della motilità dell’accadere in generale» (HEIDEGGER
1977, p. 458), ma gravano «costantemente l’enigma dell’essere e […]
del movimento» (HEIDEGGER 1977, p. 460) in quanto tale. Il legame
tra maturazione temporale e movimento, segnalato per ora “soltanto” sul piano della storicità dell’essere nel mondo, verrà assunto e per
molti versi radicalizzato come struttura della physis, di quell’apparire
che in prima istanza non si mostra, anzi ama restare nel nascondimento, connettendo tra loro in modo indissolubile manifestatività e
negatività. Circa quest’ultima, nel corso di lezioni I problemi fondamentali della fenomenologia, contemporaneo alla pubblicazione di Essere
e tempo (1927), discutendo del rapporto tra presenza e assenza nella
percezione di ciò che non è ancora o non è più utilizzabile, Heidegger
sostiene che proprio in ciò si annuncia
un problema fondamentale ma difficile: in che modo nella struttura
di questo essere […] si costituisce un momento negativo, quando
formalmente chiamiamo ciò che è assente la negazione di ciò che è
presente? Interrogandoci ancor più radicalmente: in che modo nella
Temporalità dell’essere, e quindi anche nella temporalità [dell’esserci], è insito un momento negativo, un “non”? O ancora: in che
modo il tempo medesimo è la condizione di possibilità della negatività in generale? Dal momento che quel modificarsi della presenza
in assenza, dell’essere-presente in essere-assente, che è proprio della
temporalità (tanto dell’estasi del presente quanto delle altre estasi),
possiede un carattere di negatività, di “non” (“non-presenziale”), nasce il problema di dove affondi in generale la propria radice questo
“non”. Una considerazione ulteriore mostra che anche il “non” o la
sua essenza, la negatività, può parimenti essere interpretata soltanto a partire dall’essenza del tempo, e che solo da qui si chiarisce la
possibilità della modificazione ad esempio dell’essere-presente in essere-assente. […] Non siamo ancora abbastanza pronti per penetrare
in questa oscurità. Ci basta sia chiaro che solamente risalendo alla
temporalità come Temporalità dell’essere, ossia all’orizzonte delle
estasi, l’interpretazione dell’essere […] riceve la propria luce (HEIDEGGER 1975, p. 299).
391
Alla Temporalità dell’essere Heidegger chiede molto. Nondimeno, interrompendosi nel tentativo di risalire ad essa dalla temporalità
dell’esserci, il progetto ontologico di Essere e tempo e delle lezioni accademiche ad esso legate non era nemmeno più legittimato ad esporre
la storia del problema dell’essere, il cui filo conduttore doveva essere
esattamente la Temporalità che ora si rifiutava tanto all’ostensione
fenomenologica che alla presa del concetto. La stessa scansione delle
tre tappe (Kant, Agostino, Aristotele) descriveva un movimento a
ritroso (dal moderno all’antico), che presupponeva l’aver attinto la
Temporalità. Senza di essa, Heidegger non dispone più di ciò che
illumina il cammino storico della decostruzione fino ad Aristotele e
alla sua insuperata fenomenologia del concetto ordinario di tempo
come misura del movimento. Per questo motivo, forse, dopo il fallimento di Essere e tempo Heidegger ricomincia a percorrere la storia del
pensiero senza più prescrivere ad essa un filo conduttore, ma al limite
tentando di lasciarlo emergere da se stesso, realizzando dunque una
comprensione fenomenologicamente più radicale della storia stessa.
Appena un anno dopo Essere e tempo, nel corso di lezioni intitolato
Principi metafisici della logica (1928), Heidegger ritorna sul problema.
L’esposizione temporale del problema dell’essere è ribadita come cosa
ben diversa dalla semplice interpretazione dell’esserci in termini di
temporalità. Il progetto di un’ontologia fondamentale non si esaurisce nell’analitica dell’esserci, essendo infatti «1. analitica dell’esserci
e 2. analitica della Temporalità dell’essere». Quest’ultima, l’analitica
specificamente temporale del problema dell’essere,
è nel contempo la svolta in cui l’ontologia stessa “rifluisce” espressamente nell’ontica metafisica in cui si trova già da sempre in maniera
tacita. Bisogna portare l’ontologia […] al capovolgimento in essa
latente. Là si attua il movimento della svolta e si perviene al capovolgimento nella metaontologia (HEIDEGGER 1978, p. 188).
Temporalità dell’esserci e Temporalità dell’essere ottengono ora
due diverse tutele: l’ontologia e la metaontologia. Il passaggio dalla
prima alla seconda è definito come un capovolgimento e una svolta.
Nello stesso corso di lezioni, Heidegger rintraccia il rapporto tra
392
ontologia e metaontologia nel legame tra filosofia prima (prote philosophia) e teologia (theologia) in Aristotele, che configurano secondo
Heidegger un concetto duplice della filosofia e radicalizzano la stessa
distinzione di Essere e tempo tra progetto e gettatezza, apertura e chiusura. Questa duplicità non è altro che la «concrezione della differenza
ontologica, ossia la concrezione dell’attuazione della comprensione
dell’essere» (HEIDEGGER 1978, p. 189). Passare dunque dalla temporalità dell’esserci alla Temporalità dell’essere vuol dire contemplare
fenomenologicamente l’accadere della differenza ontologica, che negli anni a seguire assumerà via via i tratti di una «decisione», per
tramontare infine nell’«evento». La differenza ontologica accade nel
passaggio-capovolgimento (indicato anche come metabole) dall’esserci
alla totalità dell’ente o all’ente in totalità, che per i greci era appunto
la physis. Il «cammino» cercato da Essere e tempo incontra una svolta,
che cerca sulla stessa via una via altra, la via della physis.
3. L’apparire prima dell’apparire
Nel § 7 di Essere e tempo, Heidegger distingue tre concetti di fenomeno (ordinario, formale, fenomenologico). Semplificando molto,
fenomeno in senso ordinario, ovvero tutto ciò che appare, è ad esempio l’oggetto dell’intuizione empirica, l’ente in senso kantiano. In
senso formale, invece, il concetto di fenomeno rinvia più in generale
a ciò che si mostra a partire da se stesso, all’«automostrantesi». Ogni
oggetto dell’intuizione empirica si mostra, ma non tutto ciò che si
mostra è oggetto di intuizione empirica. Ogni concetto ordinario di
fenomeno può essere formalizzato, ma non sempre il concetto formale, una volta deformalizzato, conduce al concetto ordinario. Vi è
infatti un caso il cui il concetto formale di fenomeno «deve essere
deformalizzato in concetto fenomenologico» (HEIDEGGER 1977, p.
50). Il concetto formale, che resta pur sempre il «significato originario» (HEIDEGGER 1977, p. 43) di fenomeno, viene deformalizzato in
«ciò che merita il nome di fenomeno in senso eminente» (HEIDEGGER
1977, p. 51), perché intende ciò che «appartiene in linea essenziale a
ciò che si mostra innanzitutto e per lo più in modo da costituirne il
393
senso e il fondamento» (HEIDEGGER 1977, p. 51) pur restando per lo
più nascosto, coperto, contraffatto, dimenticato. Non potendo essere
identificato sic et simpliciter con l’automostrantesi, ma al limite con
ciò che si mostra e vige nel suo non mostrarsi, il concetto fenomenologico di fenomeno «intende come automanifestantesi l’essere dell’ente» (HEIDEGGER 1977, p. 51). Come Heidegger ricorda infinite
volte, il non mostrarsi – il non essere più, il non essere ancora, la
non presenza, l’assenza stessa – non è un nulla. Ciò che non si mostra
può anzi fondare ciò che si mostra e vigere in modo semplice proprio
non mostrandosi. La Temporalità dell’essere non è altro che questa
connessione tra manifestazione e negazione.
Mentre in Essere e tempo Heidegger tendeva a distinguere rispettivamente l’apparire e il mostrarsi in base al concetto ordinario e al
concetto formale di fenomeno, nel corso di lezioni del 1935 intitolato
Introduzione alla metafisica egli riconduce l’apparire al mostrarsi, facendone al tempo stesso il fondamento di possibilità dello splendere e
del rilucere, ma anche dell’apparenza dell’illusione o mera parvenza.
Questa tendenziale sovrapposizione e indistinzione del concetto ordinario e di quello formale segnala a suo modo la svolta metaontologica
verso la Temporalità dell’essere come totalità dell’ente, come physis
(«l’apparire che si mostra»), che per molti versi non è altro che la
radicalizzazione del movimento di deformalizzazione del formale che
Essere e tempo non riesce a compiere fino in fondo. La svolta metaontologica fa segno verso una concezione che in certo modo si ricollega
alla dottrina dell’indicazione formale così com’era praticata da Heidegger nel suo primo periodo friburghese, ossia prima della radicalizzazione ontologica della fatticità codificata poi in Essere e tempo6.
L’etimologia della parola essere, ricorda Heidegger nel 1935, rimanda a tre radici, che hanno rispettivamente il significato di: permanere, schiudersi, vivere7 (si potrebbe dire, da un punto di vista
temporale: passato, presente, futuro). Tralasciando il problema del
vivere, anch’esso decisivo per il periodo precedente Essere e tempo, la
connessione tra l’essere e lo schiudersi rimanda alla connessione tra
phainesthai (l’essere e l’apparire nel senso del mostrarsi) e physis. L’essere è il venire alla presenza nel senso dello schiudersi e dell’apparire.
La centralità della physis emerge per la prima volta in grande stile
394
proprio nel corso del 1935, anche se si tratta di un’interpretazione
ancora in fieri. Essa risente del movimento di risalimento interpretativo da Platone e Aristotele – che ancora all’inizio degli anni ’30 erano
per Heidegger il punto di riferimento nell’interpretazione dei greci
– in direzione del pensiero presocratico, al quale presiede l’influenza
decisiva di Hölderlin e Nietzsche, cultori, a distanza da Schiller e
Hegel, di una Grecia prima della Grecia. Anche questo risalimento
prima del risalimento è una chiara indicazione metaontologica: il
progetto storico-decostruttivo di Essere e tempo partiva infatti da Kant
per poi arrestarsi ad Aristotele, alle spalle del quale occorra ora risalire. Afferma Heidegger:
all’epoca del primo e decisivo fiorire della filosofia occidentale presso
i Greci, dal quale ha tratto veramente origine la domanda sull’essente come tale nella sua totalità, l’essente era denominato physis.
Questa espressione chiave che vale a designare, presso i Greci, l’essente, si usa tradurla con “natura”. Non si fa che utilizzare, in questo modo, la traduzione latina “natura” che significa propriamente
“nascere” e “nascita”. Ma con questa traduzione latina viene già eliminato l’originario contenuto della parola greca physis: l’autentica
forza evocativa della parola greca risulta distrutta […] Ora, che cosa
significa la parola physis? Essa indica ciò che si schiude da se stesso
(come ad esempio lo sbocciare di una rosa), l’aprentesi dispiegarsi e in tale dispiegamento l’entrare nell’apparire e il rimanere e il
mantenersi in esso: lo schiudentesi-permanente imporsi (HEIDEGGER
1983b, pp. 24-25).
Tra essere e apparenza, afferma ancora Heidegger, c’è in pari tempo unità e opposizione, come mostra una
espressione di Eraclito (fr. 123): physis kryptesthai philei, l’essere (l’apparire schiudentesi) inclina di per sé all’autonascondimento. È per
via che l’essere riveste il significato di “apparire schiudentesi”, di
“sortire dal nascondimento”, che a lui competono essenzialmente
la latenza e la provenienza da quella. Questa provenienza costituisce l’essenza dell’essere, dell’apparente come tale. L’essere permane
incline a ritornarvi, sia nel grande occultamente e silenzio, sia nella
più superficiale finzione e dissimulazione. La stretta contiguità di
395
physis e kryptesthai è insieme manifestazione dell’intimità di essere e
apparenza e del loro conflitto (HEIDEGGER 1983b, p. 123).
Tra physis e nascondimento non c’è opposizione, ma philia, non
odio, ma amore, amicizia, favore, predilezione: la physis ama nascondersi, si compiace del nascondimento, è incline ad esso, gli concede il
proprio favore, vi si accorda, vi accondiscende. Non è che la physis sia
di per sé oscura o sia tale per l’uomo, bensì il sorgere si mette al sicuro (al riparo) nel nascondersi, che è garanzia del sorgere stesso, come
Heidegger chiarirà nei corsi dedicati ad Eraclito nella prima metà degli anni ’408. Per questo anche la Terra, come chiusura che custodisce
e sottrazione che tiene in serbo contrapponendosi all’illuminazione
del Mondo, o come la «nascosta» (secondo quanto recita la quinta
strofa dell’inno hölderliniano Germania, commentato da Heidegger
nel 1934/35), è essenzialmente physis. Per questo anche la techne non
è qualcosa che si contrappone alla physis come in seguito la tecnica si
contrapporrà alla natura, ma costituisce un complemento essenziale
di essa. Una delle tesi ricorrenti di Heidegger, d’ora in avanti, sarà
vedere anzi nella meta-fisica al contempo uno sguardo depotenziato
sulla physis e il movimento di una cattivo trascendimento.
Ora, se «L’essere si dispiega in modo essenziale come physis» (HEIDEGGER 1983b, p. 111), «La verità appartiene all’essenza dell’essere»
(HEIDEGGER 1983b, p. 112), giacché in senso greco esiste una «peculiare connessione essenziale di physis e aletheia» (HEIDEGGER 1983b,
p. 111). Physis e aletheia (come anche logos e polemos) sono i nomi
metaontologici della Temporalità dell’essere, dell’intero movimento
del venire alla presenza che resta riferito in modo essenziale alla non
presenza da cui sorge e alla quale fa ritorno. Di qui la radicalizzazione
temporale della struttura “polemica” della verità come a-letheia (illatenza) e della physis stessa, in cui, l’opposizione tra presenza e assenza non si dà come contrarietà formale, bensì, in senso deformalizzato,
come armonico contrasto. «I contrari si escludono a vicenda, mentre
i contrastanti si corrispondono facendosi risaltare reciprocamente»
(HEIDEGGER 1986b, p. 28), ricorderà Heidegger nel seminario di Le
Thor del 1966. Ma i contrastanti, nell’ambito della physis, sono come
i nomi del dio, che secondo Eraclito “è” «giorno notte, inverno esta396
te, guerra pace, sazietà fame, e si altera nel modo in cui il fuoco, ogni
volta che divampi mescolato a spezie, riceve nomi secondo il piacere di ciascuno». Anche Parmenide ricorda che «poiché tutte le cose
sono state denominate luce e notte […] tutto è pieno ugualmente di
luce e di notte oscura». «L’aprirsi del sorgere concede al chiudersi di
dispiegare la propria essenza, poiché il nascondersi stesso, a partire
dalla propria “essenza”, concede al sorgere di essere proprio quello
che è». La coappartenenza (lotta e distinzione) di sorgere e tramontare nel favore è come tale irrappresentabile: la physis non si può rappresentare. Il tramontare non si oppone al sorgere, ma al giorno; la
morte non si oppone alla nascita, ma alla vita.
Afferma Heidegger nel seminario di Le Thor:
Invece di collegare metodicamente i contrari, giocando l’uno contro
l’altro i due termini di una relazione, [Eraclito] chiama il diapheromenon come sympheromenon: “Dio? Giorno-notte!”. È questo il senso
della physis. In altre parole, Eraclito nomina l’appartenere a un’unica presenza di tutto ciò che si stacca da qualcos’altro, soltanto per
volgervisi ancora più intimamente, nel senso in cui, sul “sentiero di
campagna”, “si incontrano la tempesta invernale e il giorno della
mietitura, si danno appuntamento il vivace risveglio della primavera e il placido morire dell’autunno, si rimirano tra loro il gioco della
giovinezza e la saggezza dell’età. Eppure in un’unica armonia, di cui
il sentiero di campagna porta silenziosamente con sé avanti e indietro l’eco, tutto è rasserenato…” (HEIDEGGER 1986b, p. 29).
Per questo motivo:
non c’è un giorno “da solo”, né una notte “isolata, a sé”, ma proprio
la coappartenenza dell’uno e dell’altra, di giorno e notte, è il loro
essere. Se dico soltanto giorno, non so ancora niente dell’essere del
giorno. Per pensare il giorno, bisogna pensarlo fino alla notte, e viceversa. La notte è il giorno in quanto giorno tramontato. Nel lasciare
che il giorno e la notte si appartengano l’uno all’altra è insito tanto
l’essere quanto il logos. È precisamente ciò che non aveva saputo discernere Esiodo il quale, del giorno e della notte, aveva visto soltanto
l’alternarsi, poiché ci dice nella Teogonia (v. 751):
“Giammai la casa li accoglie entrambi nel medesimo tempo”.
397
Per Eraclito è esattamente il contrario. La casa dell’essere è quella
del giorno-notte presi insieme. Di conseguenza, nel frammento 57
dice:
“Maestro dei più è Esiodo, credono che sia il più sapiente, lui che
non sapeva che cosa fossero giorno e notte: in verità sono una cosa
sola” (HEIDEGGER 1986b, p. 26).
E ancora:
la relazione fondamentale della lingua greca con la natura consiste
nel lasciarla aprirsi nella sua radiosità […]. Così la lingua greca chiama il kosmos più antico degli dèi e degli uomini, che rimangono riferiti ad esso, perché nessuno di loro avrebbe mai potuto produrlo.
Questo spiega altresì, per certi aspetti, come mai il kosmos sia fuoco (pyr). Nel fuoco vi è a sua volta un triplice contenuto, essendo
al tempo stesso fiamma che sale, brace che cova, luce che irradia,
con tutta la ricchezza di contrasti che questa polisemia consente.
Al contrario, da seguaci della logica, noi uomini diversissimi dell’età moderna crediamo che una parola abbia senso soltanto se ha
un solo significato. Mentre per Eraclito proprio questa molteplice
ricchezza è il kosmos. Esso non appare mai come qualcosa di singolo,
ma brilla inafferrabile attraverso tutte le cose. Lo comprendiamo in
questo modo leggendo il frammento 124: a confronto con il kosmos,
così come appare pienamente in quanto fuoco, “il più bell’ordine
assomiglia a un mucchio di rifiuti gettati a caso”. Questo vuol dire
che la connessura invisibile del kosmos è superiore a ogni ordine visibile, sia
esso pure il più bell’ordine possibile (fr. 54) (HEIDEGGER 1986b, pp.
33-34).
4. Il movimento prima del movimento
La “retrocessione” del 1935 da Aristotele ad Eraclito in vista di
una radicalizzazione metaontologica della Temporalità dell’essere in
quanto physis si compie pochi anni dopo con il “ritorno”, da Eraclito,
su Aristotele. Nel 1939, in vista di un seminario tenuto l’anno seguente, Heidegger redige un testo Sull’essenza e sul concetto della physis,
dedicandolo alla Fisica di Aristotele, definita «il libro fondamentale
398
della filosofia occidentale, un libro occultato e quindi mai pensato
sufficientemente a fondo» (HEIDEGGER 1976a, p. 196). La meta-fisica
occidentale resta pur sempre una fisica. Ma c’è un’altra motivazione
decisiva ed è che la comprensione della physis consegnata alla Fisica
aristotelica è al tempo stesso «la prima pensata in modo conchiuso»
e «l’ultima eco di un progetto di pensiero iniziale, e perciò sommo, che
pensa l’essenza della physis e che ci è ancora conservato nei detti di
Anassimandro, Eraclito, Parmenide» (HEIDEGGER 1976a, p. 197).
Già nel 1922, nel cossiddetto Natorp-Bericht, in cui al termine
di un’interpretazione del movimento tratta dalla temporalità della
vita fattuale Heidegger dava conto delle linee interpretative fondamentali del progettato libro su Aristotele (trasformatosi poi in Essere
e tempo), veniva affermata la centralità assoluta della Fisica. Essendo
ancora assente un’interpretazione metaontologica del pensiero iniziale dei presocratici (considerati ancora come uno “stadio” essenzialmente “superato”, soprattutto nel caso degli Eleati, dalla filosofia
platonico-aristotelica), tale centralità della physis rimandava ad un
unico grande problema, quello del movimento. Proprio a partire dal
movimento Walter Bröcker, che fu fedele allievo di Heidegger, tentò
di fornire un’interpretazione unitaria di tutta la filosofia aristotelica9.
In Aristotele, scriveva dunque Heidegger nel 1922,
il fenomeno del movimento viene condotto alla sua esplicazione categoriale ontologica nella ricerca che ci è tramandata sotto il titolo
di «fisica». […] La ricerca viene caratterizzata come ricerca-sulla-kinesis. […] nell’impostazione problematica della fisica come ricerca si
mostra in opera il senso originario del “concetto di verità”.
Il primo libro della Fisica mostra una costruzione eccezionalmente
rigorosa e il primo stadio della critica, quello relativo agli Eleati,
si può capire soltanto partendo dal compito concreto della ricerca
d’accesso e dalla sua necessaria impostazione critica.
Gli Eleati in verità non rientrano – secondo quanto nota esplicitamente Aristotele – “autenticamente” nel tema della critica. Il loro
pre-concetto, la loro teoria dell’essere, è tale da ostruire sin da principio l’accesso all’ente in quanto ente mosso (dunque alla stessa� kinesis). Gli Eleati non si mettono in condizione di vedere il fenomeno
fondamentale dell’ambito oggettuale che sta a tema della ricerca, il
399
movimento, né di lasciarsi anticipatamente fornire, muovendo da
esso, gli orientamenti decisivi del domandare e determinare concreti. […] il senso dell’essere è principialmente molteplice (plurivoco).
Il primo stadio della critica intende far vedere che la ricerca-di-arché,
nella misura in cui intende guadagnare in generale l’ambito fattuale preliminarmente dato e i suoi riguardi, deve ricavare la costituzione ontologica di questo ambito in riferimento al fenomeno
fondamentale del movimento. È solo una conseguenza interna alla
sua impostazione problematica il fatto che Aristotele nel contesto
della critica agli Eleati si imbatta nel problema del legein/logos, della
determinazione puramente esplicativa di un oggettuale nel che-cosa
della sua essenzialità. Questo oggettuale è il fenomeno del movimento che qui deve essere spiegato […] A partire dal primo stadio
della critica, quello che assicura in generale il campo visivo, l’interpretazione mostra in che modo Aristotele interroghi le opinioni e
le spiegazioni degli “antichi filosofi della natura” chiedendosi fino a
che punto essi lascino parlare il fenomeno del movimento muovendo
da questo stesso e come ne siano stati sempre impediti all’origine da
teorie preconcette sul senso dell’essere. Attraverso queste interpretazioni si capisce come dietro la domanda apparentemente formalistica su quante e quali archai siano da porre rispetto ai physei onta si
celi la questione: fino a che punto è genuinamente esplicato e visto di
volta in volta il movimento in se stesso? Se lo è, allora esiste necessariamente più di un “a-partire-da-che” della sua struttura categoriale e
al tempo stesso necessariamente non più di tre. L’esplicazione positiva
del fenomeno, e questo anzitutto puramente nel quadro della problematica-di-arché già impostata, Aristotele la dà nel cap. 3; i capitoli
precedenti sono da riguardare a partire da questo. Dalle spiegazioni
del capitolo 7 emerge la “categoria fondamentale” della poiesis che
domina l’ontologia aristotelica, il che però significa che essa emerge
dall’esplicazione di un determinato appellare di una motilità vista in
modo altrettanto determinato. Caratteristicamente, il “divenire della statua a partire dal metallo informe” (nella motilità di commercio
della produzione) ricopre, nella problematica orientata sulla kinesis, il
ruolo di esempio guida.
Nel II libro della “Fisica” la problematica-di-kinesis viene impostata
muovendo da un altro orientamento visivo. Ci si chiede quali possibilità dell’esser-interrogato teoreticamente […] siano motivate nel
contenuto oggettuale della physis e nella sua struttura categoriale
400
fondamentale. L’interpretazione mostra in che modo le «quattro
cause» scaturiscano dalla problematica ontologica già caratterizzata.
Nel contempo, però, il libro ha un significato decisivo (capp. 4-6)
rispetto al problema della fatticità in quanto tale. Vi si mostra come
Aristotele, sotto il titolo di tyche, automaton (che rispetto al loro significato autentico sono assolutamente intraducibili) spieghi dal punto
di vista ontologico la motilità “storica” della vita fattuale, la motilità
di “ciò che a qualcuno quotidianamente capita e può capitare”. Queste analisi ontologiche restano fino ad oggi non soltanto ineguagliate, ma per nulla comprese e valorizzate in quanto tali. Le si assume
come un’appendice scomoda e non ulteriormente sfruttabile per la
determinazione delle “cause autentiche”, le quali si dimostrano chiaramente condizionate dalla particolare impostazione problematica.
Nel III libro Aristotele imposta l’analisi autenticamente tematica
del fenomeno del movimento. L’interpretazione di questo libro (soprattutto dei capp. 1-3), che deve lottare contro difficoltà testuali
quasi insormontabili […], può venir esposta solamente all’interno
di un contesto concreto. Decisivo per Aristotele è mostrare che con le
categorie finora messe a disposizione e tramandate dall’ontologia di
essere e non-essere – essere-altrimenti – essere-diversamente – non è
per principio possibile cogliere in senso categoriale il fenomeno del
movimento. Il fenomeno fornisce a partire da se stesso le strutture
per loro conto ultime e originarie: dynamis, il poter-disporre-di ogni
volta determinato, energeia, l’assumere nell’impiego genuino questa
possibilità di disporre e entelecheia, il mantenere in custodia nell’impiego questa possibilità (HEIDEGGER 2005, pp.188-191).
Nel testo del 1939, Heidegger si sofferma in particolare sul cap. 1
del II libro della Fisica. Si tratta di un’interpretazione fenomenologica magistrale, che probabilmente resta ineguagliata in tutta l’opera
di Heidegger. In essa si riparte sempre di nuovo dal gesto di Aristotele: comprendere fenomenologicamente la physis vuol dire vedere,
ossia non misconoscere, il fenomeno del movimento, come hanno
fatto molti pensatori precedenti e contemporanei, dimostrando una
volta di più che il fenomeno, in senso fenomenologico, scaturisce
sempre da un preliminare non mostrarsi, presupponendo ogni apparire una maturazione temporale. La realtà, che per Aristotele ha il suo
vertice nell’entelecheia, nel possedersi, nell’afferrarsi e nel mantenersi
401
nel compimento (telos) – nel porsi in opera (energein) realizzando una
transizione dalla potenza all’atto – non è senza cambiamento (metabole), non è senza l’essenza stessa del movimento. Solo il mutamento
fonda il darsi e l’apparire della diversità e della molteplicità. Il movimento non è soltanto traslazione da luogo a luogo, ma anche alterazione, accrescimento e diminuzione, genesi e decadimento. Esso è
l’autentico senso dell’essere come physis, la sua Temporalità, lo sfondo
incoercibile entro il quale le cose si manifestano e scompaiono, vanno
e vengono, entro cui qualcosa accade davvero, secondo la sua verità,
secondo l’assegnazione della nascita e della morte.
Per Aristotele, l’essere è a suo modo la physis (physis tis), la physis
è a suo modo l’essere (ousia tis), ed entrambi si connettono alla verità
(aletheia), perché entrambi non sono altro che il movimento dell’entrare e uscire dalla presenza, del venire alla presenza come cerchio
dell’apparire e dello scomparire: giorno e notte, sorgere e tramontare.
Il tempo stesso è qualcosa del movimento (ti tes kineseos), più precisamente la sua misura (metron kineseos). Il movimento in quanto tale
è energeia tou atelous, non tanto l’atto di ciò che è imperfetto, quanto
l’atto di ciò che è incompiuto. È esso stesso l’energeia ateles, non tanto
un atto imperfetto, quanto un atto incompiuto, un accadere che non
si compie, al quale tutto e tutti sono esposti. «Come potrebbe uno
nascondersi a ciò che non tramonta mai?», è la domanda di Eraclito.
Heidegger interpreta tutto ciò come l’ultima eco della physis, di quel
venire alla presenza che un installarsi nell’aspetto, un assumere configurazione e forma (morphe) nel riferimento essenziale alla «privazione» (steresis), in cui risuona il nascondimento eracliteo.
Nella Metafisica, Aristotele ricorda che «Il termine atto, che mettiamo in relazione con la realtà nel suo insieme, viene trasposto principalmente dal movimento ad altre cose, poiché nel senso stretto della parola atto è pensato come identico al movimento» (V, 12, 1019 a
15 ss.). Nei Beiträge zur Philosophie (1936-38), il trattato inedito che
fa da ponte tra l’interpretazione eraclitea del 1935 e l’interpretazione
aristotelica del 1939, Heidegger affermava già che «L’energeia è afferrata concettualmente in modo genuino dalla physis non dispiegata»
(HEIDEGGER 1989, p. 280). L’energeia e la kinesis sono i nomi dell’essere con cui Aristotele porta a compimento il pensiero aurorale della
402
physis. Questo compimento non è ancora il depotenziamento della
physis in natura, ma è anzi l’attestazione fenomenologica genuina del
dispiegarsi dell’esperienza della physis.
«Lo schiudersi che si dispiega è, in sé, un ritornare in sé. Questo
modo di essere essenzialmente presente è physis» (HEIDEGGER 1976a,
p. 209). In quanto essere, l’essenza del movimento, la motilità, è
il presentarsi di ciò che è mosso. L’interpretazione aristotelica della
motilità «è la cosa in assoluto più difficile che dovette essere pensata
nella storia della metafisica occidentale» (HEIDEGGER 1976a, p. 237).
Per questa essa fu al tempo stesso sperimentata e rimossa all’inizio
della filosofia: la cosa più difficile è infatti vedere il visibile, che essendo sotto gli occhi è invisibile. La tesi heideggeriana del movimento come eco della physis non va sottovalutata come se il movimento
fosse un mero derivato. L’eco non è soltanto la ripetizione di un passo
musicale con minore intensità, tanto più che qui il movimento è la
cosa più difficile da vedere e da eseguire nel pensiero. L’eco è anche
la ripetizione di una voce quando si riflette contro un ostacolo. Senza
un ostacolo contro cui lottare, l’emergenza della physis dal nascondimento, il movimento nell’essere, non troverebbe alcuna eco. Non
troverebbe alcuna fenomenologia.
5. Il colloquio prima del colloquio e il colloquio del congedo
Nel semestre invernale 1966/67, in occasione di un seminario riservato presso l’Università di Friburgo, si svolse un colloquio intorno
a Eraclito tra Heidegger e un’altra voce fenomenologica, quella di
Eugen Fink, che nel 1952 aveva già preso parte ad un colloquio con
Heidegger sulla dialettica10 e in generale aveva avuto con Heidegger infiniti altri colloqui. «La decisione di organizzare un seminario
comune su Eraclito venne presa durante una delle frequenti visite di
Eugen Fink a casa di Martin Heidegger. L’iniziativa di questo seminario partì da Fink, che desiderava mettere alla prova la propria interpretazione di Eraclito in un colloquio seminariale con Heidegger […]
Il seminario è stato l’ultimo impegno didattico di Martin Heidegger
all’università di Friburgo» (HEIDEGGER 1986a, pp. 309-310).
403
Prima di questo colloquio accademico, Fink aveva avviato con
Heidegger un “altro” colloquio, forse la mimesi di un colloquio, in
un testo fondamentale, Zur ontologischen Frühgeschichte von Raum – Zeit
– Bewegung, apparso solo nel 1957, ma esposto già nel 1951 in forma
di lezione accademica all’Università di Friburgo. Fink vi ripensa a
suo modo “con” Heidegger, la cui presenza nel testo è assordante pur
nell’assenza di menzione esplicita, l’inizio e il compimento della filosofia greca: da Parmenide e Zenone a Platone e Aristotele. Letterale
è la ripresa dell’espressione, in fondo già aristotelica, di Essere e tempo,
l’«enigma del movimento» (FINK 1957, p. 1), che insieme allo spazio
e al tempo fa sì che lo stesso «principio metodico della fenomenologia
si rifiuti» (FINK 1957, p. 3). Lo spazio, il tempo e il movimento restano infatti «irraggiungibili» ad ogni «esibizione fenomenologica che
resti orientata all’idea dell’originaria autodatità dell’ente». Questo
non perché il movimento, insieme allo spazio e al tempo, sia al di là
dei fenomeni, ma perché la «fenomenicità dei fenomeni» è già sempre
determinata dal movimento, «straordinaria coincidenza di tempo e
spazio», che in qualche modo presuppone già degli «sguardi essenziali nella costituzione strutturale di spazio e tempo» (FINK 1957, p. 1).
L’enigma del movimento è l’enigma dell’essere prima dell’essere.
Non del movimento dell’essere, ma più radicalmente di quel movimento che è “dentro” l’essere stesso, un movimento che Eraclito
coglie, più o meno inespressamente, nel rapporto tra hen, fulmine
e fuoco, e panta, dèi, uomini e cose. Heidegger e Fink vi leggono
insieme il problema o forse l’aporia del differire di un essere che è in
tutti gli enti senza mai essere un ente, di un apparire che è in tutto
ciò che appare senza apparire esso stesso, di un movimento che è in
tutto ciò che si muove senza lasciarsi mai afferrare, dell’uno in se
stesso differente. Tuttavia, Heidegger e Fink percorrono due cammini diversi. Rivolgendosi a Fink, nel colloquio in cui a suo modo
si sottomette a un congedo anche da se stesso, Heidegger, che fin dal
fallimento di Essere e tempo ha cercato un cammino in forma di svolta,
che immettesse nella Temporalità dell’essere, ne fissa così il diverso
orientamento: «Il Suo cammino per interpretare Eraclito parte dal
fuoco per andare al logos, il mio cammino parte dal logos per arrivare
al fuoco» (HEIDEGGER 1986a, p. 214).
404
Fr. 54 D-K: «l’armonia nascosta vale più di quella che appare»; cfr. anche i frr. 8
(«l’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia»), 10 («congiungimenti
sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte
le cose l’uno e dall’uno tutte le cose») e 51 («non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco
e della lira»).
2
HEIDEGGER 1977, pp. 56, 511.
3
HEIDEGGER 1977, p. 426.
4
Cfr. HEIDEGGER 1977, p. 426.
5
HEIDEGGER 1977, pp. 439, 442.
6
Cfr. ARDOVINO 1998; ARDOVINO 2005.
7
Cfr. HEIDEGGER 1983b, p. 82.
8
Cfr. HEIDEGGER 1979b.
9
Cfr. BRÖCKER 1935.
10
Cfr. HEIDEGGER 1991.
1
405
POLIS
di Luca Gori
1. Politica e percezione
Heidegger, nel Parmenide, è costretto a parlare di uomo storico e
di ciò che sembra essere in rapporto essenziale con questo, la polis, e
dunque dell’arte di abitarla, la politeia, o politica:
la polis è il sito essenziale dell’uomo storico […]. Ogni politeia, tutto
ciò che è politico, è sempre anzitutto la conseguenza essenziale della
polis, cioè della politeia. L’essenza della polis, della politeia, non è essa
stessa determinata o anche soltanto determinabile in termini “politici”. La polis, è tanto poco qualcosa di politico, quanto lo spazio
stesso è qualcosa di spaziale (HEIDEGGER 1982, p. 180).
Heidegger, con una mossa quasi impercettibile, mette in relazione
la polis con l’uomo storico per il quale rappresenta un sito originario. Ci dice poi che questa originarietà è in contatto con qualcosa
che proprio da questa prende nome e muove, la politeia, per poi dirci
ancora che né questa né quella sono definibili in base al loro proprio,
il politico, ma in base a un’improprietà fondamentale che costituisce l’essenza della polis e il sito dell’uomo costretto originariamente
406
ad abitare questa improprietà. L’uomo getta radici su una terra della
quale costituzionalmente non riesce ad appropriarsi, meglio, ha da
fare proprio esattamente il non dello spazio estraneo alla spazialità,
come dice Heidegger. Ma che cosa significa avere a che fare con uno
spazio non spaziale, una polis non politica? È solo un brutto gioco di
parole o c’è dell’altro? Che si possa parlare di uno spazio essenzialmente non spaziale e che questo si configuri come una improprietà
non mi sembra allora pensabile senza un campo trascendentale dove
condizione e condizionato stiano insieme sotto il rispetto della percezione. Ma la percezione è sempre affare dei corpi, fossero questi anche
delle singolarità qualunque, e di corpi che, anche fossero soli, farebbero comunità perché disegnano i confini di uno spazio dell’agire che
nasce con loro. Spazio e azione germinano nello stesso tempo. E come
spesso avviene qui ad importare non sono né l’azione né lo spazio, ma
quel al tempo stesso che definisce la comunità come orizzonte che non
preesiste agli sguardi che accomuna. Ma siamo sicuri che ci sia tutto
questo in quella frase di Heidegger? Forse lo saremmo di più se facessimo risuonare quelle parole con alcune pronunciate da Husserl nella
conferenza di Vienna del 1935 La crisi dell’umanità europea e la filosofia
e che costituiscono una sorta di hapax nella riflessione husserliana:
La spiritualità umana si fonda sulla loro corporeità; tutte le comunità hanno le loro radici nei corpi dei singoli uomini che ne fanno
parte. Dunque, perché sia possibile una spiegazione realmente esatta
dei fenomeni delle scienze dello spirito, e, conseguentemente, una
prassi scientifica di portata pari a quella che le spetta nella sfera
naturale, gli studiosi delle scienze dello spirito non dovrebbero considerare lo spirito meramente come tale, bensì risalire alle sue radici
corporee e spiegarle mediante la fisica e la chimica esatte” (HUSSERL
1954, p. 329).
Tuttavia poco dopo Husserl afferma spiegando meglio:
considerare la natura che vale nella prospettiva del mondo-della-vita
come un che di estraneo allo spirito e fondare le scienze dello spirito
sulle scienze naturali, presumendo di renderle esatte, è un controsenso (HUSSERL 1954, p. 331).
407
Come dire, la natura non ha niente di naturale ma è sempre già
in rapporto con un campo trascendentale che Husserl chiama spirito.
Questo piccolissimo excursus non sarà stato del tutto occasionale se ci
permette di poter guadagnare almeno due possibilità affermative: la
prima è che Heidegger è incomprensibile senza Husserl, la seconda
riguarda invece l’iniziale rapporto tra politeia e spazio e ci dice che la
politica, come rapporto indecidibile tra natura e spirito in un campo
trascendentale, è questione di percezione.
La politica è affare della carne, almeno nel senso di Merleau-Ponty. La politica è percezione della stoffa del mondo o, se vi piace di
più, della Terra del mondo. Ecco che la politica diventa affare urgente della fenomenologia.
2. La vita è nuda
Aristotele, in un celebre passo della Politica, istituisce una differenza fondamentale tra to zen (sussistere) e to eu zen (buona esistenza): «La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha
raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge
per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di
buona esistenza»1. La sussistenza rende possibile qualcosa come una
polis il cui fine sarebbe non più il sussistere ma la buona esistenza. A
questo punto Aristotele si affretta però a dire che ben più importante
della sussistenza è il fine della sussistenza e «lo scopo e il fine sono ciò
che vi è di meglio»2. È così che to zen, il sopravvivere, viene trasferito
dall’uomo alla città che diviene una istituzione naturale il cui fine è
to eu zen: «la polis è una comunità di eguali al fine di condurre una
vita che è potenzialmente la migliore»3. La sussistenza dell’uomo,
non dovrà sfuggire, sembra allora essere confinata a sostanza di scarto
della polis che la secerne quasi involontariamente. Credo che molti
equivoci nascano dal non aver prestato grande attenzione a questo
passaggio.
La vita naturale dell’uomo (zoé) sembra trasfusa nella sussistenza
della città, tanto che quando si parla di zoé opposta a Bios, la vita
qualificata nella polis, non si deve intendere la vita biologica dell’uo408
mo ma una strana formazione di sussistenza uomo-polis. Ed è questo
blocco, in cui biologia e necessità sociale si saldano, ad essere considerate zoé. La nascita della zoé allora coincide con la nascita della
polis. Forse qui sarà d’aiuto ricordare che il verbo zen in greco si usa
anche per indicare la vivacità di un discorso o la persistenza di un
oggetto inanimato, come il fuoco nell’espressione fuoco vivo. Ma cos’è
che rende il fuoco vivido se non vivace? Il fuoco è vivido all’interno
della casa, è vivido rispetto alla brace che non scalda più, è vivo nelle
asprezze dell’ira delle quali è il principio minimo di vivificazione.
Così per l’animale uomo che ha a che fare con un mondo è il suo
ambiente, la sua Umwelt ad essere naturale non la sua nuda esistenza,
se questa espressione ha un senso. La costruzione della polis parte
dalla costruzione di una Umwelt da parte dell’animale uomo e la vita
naturale (zoé) è ciò che ne costituisce il fondo o il campo che non
preesiste alla sua manifestazione. To zen e to eu zen disegnano allora il
limite all’interno del quale un mondo può costituirsi e il bios, la vita
qualificata è la mobile distanza tra questi confini che segnano, sarebbe meglio dire solcano, il perimetro della polis4. Ora questo spazio
non è mai conquistato una volta per tutte e la politica o meglio, il
bios politikos, sembra essere proprio l’arte di governarne l’estensione.
Ma se l’estensione di cui parliamo è variabile e l’arte dell’estensione
è un bios politikos è ovvio che neanche l’uomo sarà conquistato una
volta per tutte. Per questo Hanna Arendt nel suo libro The human
condition del 1958, tradotto in italiano con il titolo di Vita activa, può
affermare:
La condizione umana è più ampia delle condizioni nelle quali l’uomo ha cominciato a vivere. Gli uomini sono esseri condizionati perché ogni cosa con cui vengono in contatto diventa immediatamente
una condizione della loro esperienza (ARENDT 1958, p. 8).
Il to zen diviene immediatamente apertura verso to eu zen in cui il
bios politikos può affermarsi come tecnica propria di quell’apertura tra
la condizione della vita «dell’uomo sulla terra» (ARENDT 1958, p. 9)
come dice Arendt e le condizioni che gli uomini creano costantemente in modo autonomo e che «nonostante la loro origine umana e la
409
loro variabilità, possiedono lo stesso potere di condizionamento delle
cose naturali» (ARENDT 1958, p. 9). Ma che tipo di condizionamento
esercitano allora su di noi le cose naturali, ammesso che si possa parlare in termini siffatti? Di certo non un condizionamento assoluto,
risponde Arendt. E tuttavia un certo qual condizionamento:
oggi possiamo quasi dire di aver dimostrato anche scientificamente
che, sebbene noi ora viviamo, e vivremo sempre, soggetti alle condizioni della terra, non siamo meramente creature legate-alla-terra
(ARENDT 1958, p. 10).
Legate tuttavia a quel fondamento che è la polis stessa come condizione di un’apertura all’interno del to zen e che la polis stessa cerca
di ricacciare nel fondo oscuro dal quale emerge lo spazio all’interno
del quale qualcosa come un bios politikos può esercitarsi liberamente. E liberamente ha da intendersi fuori da ogni attività dedita alla
conservazione materiale della vita. Il bios politikos non solo è la modalità di vita che può essere scelta liberamente ma lo è nell’esatta
misura in cui rende liberi come uomini in fieri: il bios politikos, o vita
activa nella traduzione latina di cui Arendt sviscera tutta la storia e
le distorsioni5, è l’agente stesso di questa liberazione all’interno dello
spazio circoscritto dalla polis. Di più, attraverso le attività che Aristotele stimava costitutive del bios politikos, l’azione (praxis) e il discorso
(lexis), si tratta di selezionare di volta in volta uno spazio pubblico
disponibile per la vita activa, si tratta ogni volta di separare ciò che è
proprio (idion) da ciò che è comune (koinon) come ciò che deve essere
articolato. Infatti
la vita activa, la vita umana in quanto attivamente impegnata in
qualcosa, è sempre radicata in un mondo di uomini e di cose fatte
dall’uomo […]. Non potrebbe esistere vita umana, nemmeno quella degli eremiti nelle solitudini, senza un mondo che direttamente
o indirettamente, attesti la presenza di altri esseri umani. Tutte le
attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme, ma solo l’azione non può essere nemmeno immaginata fuori
della società degli uomini. L’attività lavorativa non richiede necessariamente la presenza di altri, benché un essere che lavori in assoluta
410
solitudine non sarebbe umano […]. Solo l’azione è l’esclusiva prerogativa dell’uomo […] ed essa solo dipende dalla costante presenza
degli altri (ARENDT 1958, p. 18).
La polis sembrerebbe allora una macchina da esorcismo in cui ne
va, in cui è sempre questione, di se stessa e delle sue condizioni di
manifestazione. Il proprio (idion) come condizione costantemente ricacciata nel fondo oscuro, ora possiamo dirlo, di uno spazio chiamato
oikia6 (casa) in cui non si agisce ma si fa (poiein), in cui tutto ciò che
non è propriamente umano prende forma, in cui lo schiavo ben più
e ben prima che essere al servizio del padrone è al servizio di ciò che
è comune (Koinon). Il proprio è allora la continua appropriazione da
parte dell’uomo dell’improprio, di tutto ciò che l’uomo è nell’apertura della sua Umwelt.
Secondo il pensiero greco, la capacità degli uomini di organizzarsi
politicamente non solo è differente, ma è in diretto contrasto con
l’associazione naturale che ha il suo centro nella casa (oikia) e nella
famiglia (ARENDT 1958, p. 19).
Al limite e forzando il testo7 si può dire che il proprio dell’uomo è il suo processo di dis-umanazione. Il processo inverso, quello di
umanizzazione – se così ci si può esprimere – veniva invece esercitato
in una condizione di sostanziale eguaglianza all’interno dello spazio
pubblico nel quale era possibile agire e diventare pienamente umani
attraverso l’uso del discorso e della polemica. Lo spazio pubblico è lo
spazio nel quale ognuno è visibile, percepibile dall’altro, è lo spazio
della completa apertura, in cui
ogni cosa che appare […] può essere vista e udita da tutti […]. Per
noi ciò che appare, ciò che è visto e sentito da altri e da noi stessi,
costituisce la realtà (ARENDT 1958, p. 37).
Lo spazio pubblico si configura come uno spazio di verità che
scaturisce dalla somma totale degli aspetti offerti da un soggetto ad
una molteplicità di spettatori. Solo dove le cose possono essere viste
411
da molti in una varietà di aspetti senza che la loro identità muti […]
la realtà del mondo può dirsi certa (ARENDT 1958, p. 43).
È su questo sfondo condiviso di verità che credo vada collocato
il ripensamento arendtiano dell’opinione (doxa) che non indica una
particolare inclinazione di un soggetto ma un vero e proprio lasciar
vedere il mondo illuminandone un aspetto. Non si tratterebbe insomma di asserire una verità alla ricerca del consenso ma di allargare
i confini di una verità condivisa, si tratta di allargare i confini della
polis attraverso l’agire politico che nel suo senso più generale, significa
prendere un’iniziativa, incominciare, mettere in movimento qualcosa. La vita
politica della polis è la messa in movimento della verità. Per i greci,
almeno per i greci come li stiamo raccontando e come li racconta
Arendt, è ancora possibile l’esperienza della verità come potenza. Per
i greci è ancora possibile un’esperienza del Comune. E qui con esperienza del Comune è da intendersi anche la possibilità per l’azione
libera e il fatto, ciò che interrompe la serie rigidamente causale della
necessità e ciò che sembra essere quella serie causale stessa, di aprirsi
l’uno sull’altra nel sentire comunitario di cui è questione, ad esempio,
in Teoria del giudizio politico.
Non ci si stupirà dunque del fatto sottolineato con forza da Hannah Arendt in Verità e Politica (ARENDT 1968, pp. 36-37) che la menzogna non procurasse particolari preoccupazioni al pensiero politico
greco come pensiero dell’azione libera e del discorso. L’aristotelico
zoon logos echon, l’essere vivente che ha facoltà di discorso, come suggerisce Arendt infatti può essere compreso solo accanto all’altra definizione data di zoon politikon e alla relativa presenza di un bios politikos ad essa correlato. L’uomo trova cioè pieno dispiegamento della
propria zoé nella vita pubblica definita come bios politikos. E tuttavia
questa formulazione è meno triviale di ciò che potrebbe apparire.
Se tutto ciò che abbiamo detto ha un senso, come è possibile tenere
insieme zoé e bios? Come l’essere naturale dell’uomo fornisca direttamente e non in modo mediato tutto il materiale di un’inclusione che
non può che esistere tirando fuori la condizione dal condizionato è
infatti a prima vista un mistero. Ed è esattamente quel mistero sul
quale tutta la tradizione successiva ad Aristotele, soprattutto latina
412
ma non solo, ha fondato l’autorevolezza della traduzione di zoon politikon con animale sociale e quella di zoon logos ekhon con animale razionale. In realtà come ben spiega Arendt:
Aristotele non intendeva né definire l’uomo in generale, né indicare
la sua più alta facoltà, che per lui non era il logos, cioè discorso o ragione, ma il nous, la capacità di contemplazione, la cui principale caratteristica è che il contenuto non può essere reso nel discorso. Nelle
sue due più famose definizioni, Aristotele formulava solo l’opinione
corrente della polis sull’uomo e sul modo di vita politico, e secondo
questa opinione, chiunque fosse fuori dalla polis, schiavo o barbaro,
era aneu logou, privo, naturalmente, non della facoltà di parlare, ma
di un modo di vita nel quale solo il discorso aveva senso e nel quale l’attività fondamentale di tutti i cittadini era di parlare tra loro
(ARENDT 1958, p. 21).
La zoé di cui qui è questione ha dunque nulla a che fare con un
qualche particolare tipo di vita biologica ma è il metabolismo stesso
della polis che rende possibile qualcosa come un bios. Riusciamo così
a comprendere meglio quella macchina che, denunciando la violenza
fatta alla lettera del testo, chiamavo di dis-umanazione che si staglia
sullo sfondo di questa particolare germinazione all’interno della polis,
che da zoé conduce a bios, e che finalmente possiamo riconoscere come
un vero e proprio processo di ominazione. Ma non nel senso in cui si
dice, anche oggi, che il cittadino si fa nel confronto democratico all’interno della città e nel suo rispetto come ciò che è comune, ma nel
senso del processo di distillazione anche di una vita biologica che
nasce insieme al comune (koinon). Ciò che qui interessa nella distinzione
tra sfera pubblica e sfera privata, per esprimermi irrimediabilmente
in modo moderno, è che il proprio (idion) confinato nella domesticità
è l’individuale che non può partecipare alla nascita di un mondo se
non come sottrazione. Il mondo comune risulterà allora in modo veramente speciale come l’esposizione di questa sottrazione.
Tuttavia questa sottrazione non è semplicemente una cancellazione o la marca di un dominio – del padrone sullo schiavo, dell’uomo
sulla donna e così via8 – imposto o naturale importa poco. L’oikos è
tanto poco simile allo stato di natura che il dominio viene esercitato
413
non per avere salva la vita o estendere il proprio potere, ma per annullare un’impotenza9, quella della necessità. Si spiega anche così la
straordinaria situazione narrata da Weber10 per cui era possibile nella
polis greca dedita al commercio incontrare schiavi più facoltosi dei
loro stessi padroni e che purtuttavia non per questo cessavano di essere schiavi, almeno fino al punto in cui il padrone diveniva talmente
povero da perdere anche la casa e con questa, dovrebbe essere ormai
chiaro, anche la possibilità di partecipare alla vita della polis, per la
quale era impossibile tollerare la presenza di soggetti che fossero anche e contemporaneamente degli individui esposti al loro “proprio”.
E qui esposti significa precisamente esposti al pericolo e alle necessità
del “proprio”, dal quale occorre difendersi o quanto meno liberarsi.
Ciò che tutti i filosofi greci, anche se contrari alla vita della polis,
tenevano per certo è che la libertà risiede esclusivamente nella sfera
politica, mentre la necessità è soprattutto un fenomeno prepolitico,
caratteristico dell’organizzazione domestica privata, e che la forza e la
violenza sono giustificate in questa sfera perché sono i soli mezzi per
avere ragione della necessità. […] Poiché tutti gli esseri umani sono
soggetti alla necessità, essi sono disposti alla violenza verso gli altri;
e questo non è altro che l’atto prepolitico di liberarsi dalle necessità
della vita in nome della libertà del mondo (ARENDT 1958, p. 23).
3. Vita da polis
Ma cosa significa prepolitico?
Di certo non significa fuori dalla politica bensì espulso dallo spazio
pubblico della politica. Come espulso dal bios politikos doveva essere
un altro evento che i greci abitanti della polis ritenevano prepolitico e
cioè pernicioso in sommo grado e assolutamente da scongiurare.
Questo sommo pericolo del prepolitico prende il nome di stasis, la
guerra civile che lacera dall’interno la città. Ma dall’interno significa
esattamente da un luogo particolare, stasis infatti significa originariamente posizione11 per estendersi poi, certo, tramite tutta un’estensione semantica che coincide con la storia stessa della polis, al partito
e dunque a una posizione politica. Certo possiamo dire che dove c’è
414
un partito o una fazione ve ne è sempre uno opposto e contrario e che
la lotta politica tende a farsi sempre più stringente. Permane tuttavia difficoltoso affermare che nella polis origine della democrazia e
– come si dice in modo pressoché automatico ogni volta che si parla
di Grecia antica – culla della nostra civiltà, la presenza di due fazioni significhi automaticamente la presenza della guerra civile. Dalla
posizione politica alla guerra civile il passo sembrerebbe comunque
molto grosso, quasi un salto a meno di non prendere veramente sul
serio il contenuto spaziale, posizionale della stasis. La stasis, ed è ciò
che la distingue anche dalla guerra civile tanto che i due concetti
non sono immediatamente sovrapponibili, è una posizione che annulla la possibilità di conferire autorevolezza a uno spazio pubblico:
è la posizione della fine della città come topologia. Quando Tucidite
narra la lotta lacerante tra le fazioni di Cocira nel 427, ciò che sorprende il lettore moderno non è lo spargimento di sangue, piuttosto
contenuto e comunque ritualizzato come per esempio avviene con lo
sgozzamento (spaghe), ma l’assoluto terrore di Tucidite nel descrivere il disordine generato da donne e schiavi pronti a partecipare alla
battaglia a fianco del partito popolare. Ciò che spaventa Tucidite non
è la battaglia in sé ma la scomposizione e la confusione dei domini
della casa e della città. Donne e schiavi, l’ordine della casa che si fa
disordine lacerante non appena la pastura domestica si affaccia nello
spazio pubblico. La stasis è quella condizione in cui l’ordine della
necessità si rivolta contro se stessa pretendendo al luogo pubblico
che non le spetta se non come sottrazione. Esiste tutta una tonalità
nella tragedia greca, in Eschilo soprattutto, della carne che mangia se
stessa, della città che si autofagocita, come in una battaglia di galli:
Tu in questi luoghi miei, non gettare
Coti insanguinate, danno per le viscere
Dei giovani, pazzi di furori astemi,
né, come si eccita il cuore dei galli,
porre fra i miei cittadini Ares
(…)
Alle porte sia la guerra, facilmente a portata di mano
Di chi abbia un terribile amore di gloria:
Ma dell’uccello domestico non parlo di battaglia12.
415
L’indistinzione di spazio pubblico e spazio privato non terrorizza
e non deve terrorizzare, però, per la copiosa presenza di sangue, caratteristica tra l’altro della tragedia greca, ma per l’oscenità che in senso
proprio fa il suo ingresso nell’agone pubblico in cui come si dice nelle
Supplici evocando l’incesto l’uccello «mangia carne d’uccello». E la
stasis sembra essere proprio l’incesto della polis, in cui la vittoria della
carne su se stessa segna il punto di arresto di qualsiasi vita activa di
fronte all’oscenità esposta e mortifera della zoé. Da qui anche l’altro
senso di stasis, quello che si è trasfuso nella familiare e, a prima vista,
poco problematica parola italiana stasi. La stasis è, si vedrà meglio
adesso, quel luogo asfittico, immobile e impraticabile in cui lo spazio
pubblico si richiude sulla necessità e qualcosa che è possibile definire
come vittoria e superiorità nel combattimento, la decisione e il prevalere non legato all’eccellenza di cui si doveva dare prova nello spazio
pubblico, viene alla luce: a questo elemento è stato dato il nome di
kratos che in lingua italiana senza troppi complimenti si traduce con
potere e forse costituisce il vero rimosso della polis.
Proviamo a fare terra bruciata intorno a questo elemento.
A differenza del kratos, l’eccellere (areté greca o virtus romana) infatti non si traduce in una vittoria su un avversario, ma consiste nella distinzione che caratterizza il modo dell’individualità all’interno
della sfera pubblica:
l’eccellere stesso […] è sempre stato caratteristico della sfera pubblica, dove ci si poteva distinguere dagli altri eccellendo. Ogni attività
compiuta in pubblico può raggiungere una eccellenza mai conseguita in privato; infatti l’eccellere, per definizione, ha bisogno della
presenza di altri e questa a sua volta ha come requisito formale l’esistenza di un pubblico (ARENDT 1958, p. 36).
È come se l’unico modo per l’individuo di esistere e distinguersi
nell’ambito del politico fosse quello di presupporre un pubblico ossia
un mondo condiviso, costituito da propri pari, e l’eccellenza il continuo accrescimento di questo mondo e della sua pubblicità. Eppure
ancora risulta difficile capire cosa si intenda esattamente quando si
parla di eccellenza senza vittoria, quando l’eccellenza è fuori il dominio del kratos; non riusciamo a capire fino in fondo come si possa
416
prevalere in una discussione senza vincere, come possa esserci una
discussione che forse non ha neanche un interlocutore definito.
Come ricorda la storica Nicole Loraux:
dall’Odissea alla Guerra del Peloponneso, i greci dicono continuamente:
la tesi peggiore ha la meglio, avrebbe avuto la meglio se…, rischia
di avere la meglio, ha già avuto la meglio. Può succedere senz’altro
che si prenda una buona decisione, capace di far dimenticare la minaccia o, per un pelo, di annullare gli effetti perniciosi di una votazione precedente. Curiosamente, però, per annunciare questa buona
novella spesso i testi rinunciano al lessico della vittoria. Come se il
fatto stesso della vittoria fosse tendenzialmente un male. […] Dimenticare la divisione, dimenticare il dibattito… La polis greca, è
stato detto, non si conosce che mascherata13.
La cosa che però ci lascia interdetti è che questa maschera potrebbe essere la polis stessa.
Quando nel 403 alla fine del periodo dei trenta tiranni i democratici tornano vittoriosi ad Atene, non solo si assiste a ciò che è stata
definita la prima amnistia della storia – condensata nel divieto di
rammentare le sciagure del passato in una qualsiasi occasione pubblica – ma ad una sorta di attivo oblio del presente, non del passato. I Democratici rientrati in città sono attaccati dagli sconfitti che
traggono la loro forza da questa stessa sconfitta e dalla iattura che
una nuova stasis rappresenterebbe. I Democratici vincenti fondano la
riconciliazione non, come ci si potrebbe aspettare, sulla memoria di
questa vittoria – ad esempio anche la nostra costituzione repubblicana nelle sue note fondamentali fa questo – ma sulla ripetizione di
un oblio. Il kratos, nome impronunciabile della democrazia ateniese
e della vittoria democratica, è la parte maledetta della polis, è ciò che
bisogna ricordare di dimenticare come ciò che segna la separazione
tra l’ambito della casa e delle necessità materiali e quello della politica. Il kratos come operatore discriminante è ciò che deve essere
continuamente dimenticato per lasciar essere lo spazio pubblico e soprattutto per fare in modo che questo spazio pubblico sia coincidente
con lo spazio politico. È per questo che la stasis sembra essere il pericolo più grande per la città, perché il kratos si mostra finalmente non
417
come un agente di separazione ma come posizione di indistinzione
tra pubblico e privato, tra politico e violenza. La guerra civile nella
polis è meno uno stato di eccezione che l’impossibilità che questo venga
effettivamente dichiarato a partire dalla stasis, che è appunto l’unico
luogo dove il kratos si espone. La stasis, insomma, per esprimersi in
termini moderni non è affatto l’espressione di un potere costituente
ma la disgregazione di ciò che consente un ordine costituito.
4. La privazione del potere
Se il senso di ciò che fin qui è stato detto è così ostico da trattenere
e articolare, è proprio perché noi moderni non abbiamo più esperienza della separazione tra pubblico e privato sostituiti entrambi dal
termine sociale che ne segna l’attiva cancellazione: l’avvento del sociale, così come lo chiama Arendt, e del quale ricostruisce tutta la storia
sin dalla traduzione da parte di Tommaso d’Aquino di zoon politikon
con la perifrasi homo est naturaliter politicus, id est socialis. Ed è proprio
qui, nella sovrapposizione di politico e sociale che il travaglio – già si
avviluppava la polis greca con Platone e forse Aristotele stesso – come
la Arendt sembra solo suggerire in Vita activa dopo aver tematizzato
la questione in Karl Marx and The tradition of western political thought14 – giunge a compimento partorendo la terra bruciata del sociale
sulla quale qualche secolo più tardi gli stati-nazione si insedieranno.
Il sociale si consolida come una naturale condizione dell’uomo ad
associarsi, non una liberazione dallo stato di necessità ma una sua
stretta conseguenza15 (ARENDT 1958, p. 19). Tutte le teorie classiche
della politica da Botero a Locke sono lì a testimoniare questo grande
passaggio paradigmatico. È la società a costruire i limiti dello spazio
pubblico e dunque i limiti della politica, che però non coincide affatto con il sociale ma anzi ne è una funzione. Questa funzione prende
il nome di economia politica e ha il compito di gestire ciò che nella
polis era situato all’interno della casa (oikos). Hannah Arendt analizza
a fondo questo passaggio lungo tutto il percorso di vita activa mostrando come l’azione che sola meritava posto all’interno dello spazio
pubblico delle relazioni tra gli uomini venga affiancata dalle attivi418
tà che nella polis erano confinate all’interno della casa e del privato:
l’opera e il lavoro. La prima ci pone di fronte al lavoro finito delle nostre mani, il secondo a to somatoi ergazesthai (Arendt 1958, p. 59), lavorare con il proprio corpo. Non dobbiamo però credere, come spesso
Arendt ci aiuta a ricordare, che il lavoro e l’opera abbiano acquisito
un rango tale da permettere la loro comparsa sulla scena pubblica; al
contrario è l’azione che ha smesso di trovare nella scena pubblica la
sua condizione di esistenza, per raggiungere l’opera e il lavoro nello
spazio occupato dal deserto del sociale, fatto di semplici individui. Il
pubblico, nel sociale, è sì la relazione tra questi individui, ma è una
relazione che può accrescersi solo per segregazione ed è proprio questa segregazione a costituire un mondo16. Prima segregazione degli
operai dietro gli alti muri delle periferie, poi apertura della periferie
e secrezione della città, poi, ancora con una inesorabilità che a questo
punto non dovrà farci impallidire, segregazione della politica stessa
dal sociale o dal tutto dell’esistenza umana così ricapitolata, si sarebbe tentati di dire. Affermo “si sarebbe tentati” perché la politica
persiste del tutto espulsa dallo spazio pubblico-privato del sociale.
Come espulsa dal sociale, o meglio ricavata per negazione con una
pervicacia che rasenta la violenza, la moderna privacy, all’interno della quale l’individuo dovrebbe finalmente vivere in modo libero il
proprio tempo espropriatogli dalle necessità del mondo del lavoro e
della convivenza civile,
consiste nell’assenza degli altri; in questo caso, ai loro occhi, l’uomo
privato non appare, e quindi è come se non esistesse. Qualunque
cosa faccia rimane senza significato e senza conseguenza per le altre
persone, e ciò che a lui importa è privo di interesse per loro (ARENDT
1958, p. 44).
Dire, come fa Arendt, che ciò che fa l’uomo nella sua privacy è
senza importanza per gli altri, non assume però le vistose proporzioni
di un turismo quale potrebbe a prima vista apparire se non consideriamo in tutta la sua estensione la privazione di cui la privacy si nutre
e che comporta la sparizione stessa di un luogo di esercizio quanto
meno condivisibile; la privacy infatti sembra abbracciare più uno spazio interiore irraggiungibile da ogni essere umano – forse anche allo
419
stesso soggetto che sperimenta la propria intimità – che non uno
spazio protetto dalle pretese del sociale. Tuttavia la cosa interessante
di questo ripiegamento nell’intimità, che Arendt riesce a far risalire
a Rousseau17 (almeno per quanto riguarda la sua sistematica), è che
l’intimità rappresenta uno spazio per così dire sbarrato in cui nessun
tipo di attività è più possibile. Che la privacy si debba accompagnare
anche a ciò che abbiamo imparato a chiamare relax ci risulta tanto
familiare da non prestarvi più alcun tipo di attenzione. L’interesse
verso il mio mondo è assenza di qualsiasi tipo di interesse attivo. Ma
se le cose stanno effettivamente così è come se la politica, pur non
scomparendo, rappresentasse il correlato della moderna privacy: si assiste in altre parole allo scollamento tra spazio pubblico e politica,
che cessa di essere il luogo del comune. È tutta la società che si occupa di se stessa e del luogo della necessità, del suolo della necessità
senza il quale né il lavoro né le funzioni corporali potrebbero espletarsi, solo che questo spazio di sopravvivenza è lo spazio pubblico in
cui una società sussiste, e credo, a questo spazio socialmente abitato
si può dare il nome di popolazione. La questione potrebbe anche essere posta con una battuta: quando un suolo incontra una società di
individui nasce qualcosa come una popolazione. È sicuramente sulle
spalle di questo produttivo incontro che Jean Bodin già nel ’600
poteva percepirsi in opposizione agli autori classici della politica,
almeno mentre affermava che
Senofonte e Aristotele hanno separato […] senza motivo l’economia
dalla politica [nelle nostre parole il pubblico dal privato], il che non si
sarebbe potuto fare senza smembrare la parte principale dal tutto, e
costruire una città senza case18.
Come nota Andrea Cavalletti non è la considerazione dell’uso che
si fa di Aristotele nel ’600 a costituire una svolta epocale, ma la
considerazione che ogni altro uso dei pensatori classici della politica
potrà «avvenire solo perché le due sfere [oikos e spazio pubblico] sono sì
distinguibili, ma in quanto ormai la “famiglia piccola” (oikos) viene
integrata nella (grande famiglia) (polis nel senso moderno di società)»19 (Cavalletti 2006, pp. 33-51).
420
Dire allora che la Francia del ’600 è la casa dei francesi significa
fare economia politica e sovrintendere alla nascita di una popolazione
e non usare una metafora. La popolazione è proprio questo accartocciarsi dello spazio pubblico su quello privato. La popolazione è ciò
che fa di una nazione una Umwelt generalizzata. Il fondo della polis, lo
spazio privato, risale alla superficie in un modo tanto rapido che solo
oggi riusciamo a valutarne le conseguenze. In un inedito cortocircuito lo spazio pubblico diviene incremento della chiusura del privato
su se stesso in una estensione dei confini spaziali che, invece di una
appropriazione che è un allontanamento dal proprio (idion) nell’apertura di un mondo (la vita activa nella polis), è l’estinzione del mondo
nella prossimità di un ambiente grande quanto la terra20. Trovate
un’altra definizione della globalizzazione? Ma allora cosa ne è della
politica dopo la separazione coatta dallo spazio pubblico? Che ne è
dei Greci creatori di mondo? La politica non scompare di certo ma
si ritaglia la posizione di punto morto di ogni visone della Umwelt
generalizzata nella quale lo spazio pubblico si è trasformato. Il che
non significa che ne divenga il fondamento o la condizione sempre
nascosta di possibilità, al contrario la politica è ben visibile ma non
come ciò che dà a vedere, bensì come qualcosa che in modo assolutamente inverso a qualsiasi schmittiana eccezione presenta i caratteri
dell’inclusione che espelle, vale a dire dell’apertura veramente assoluta verso un mondo che non cessa di chiudersi.
Proviamo a sciogliere questa affermazione tenendo conto di quanto è stato detto in precedenza. Se nello scollamento dalla sfera pubblica il politico è in relazione anche solo analogica (ma non credo
le cose stiano così) con la privacy, la sua inclusione nel sociale potrà
avvenire solo a rovescio, la sua inclusione sarà allora il segno o la
traccia della sua esclusione, la sua impossibilità ad una azione che
sia veramente tale. Questa inclusione rovesciata, che più sopra ho
definito punto morto di ogni visione, come negazione radicale sarà
allora negazione dei fatti – solo per inciso faccio notare che nella
società moderna e tecnicizzata anche il biologico è un fatto – che
costituiscono, almeno dalla rivoluzione scientifica, la grande scoperta
del moderno. Senza meno
421
i fatti si affermano con la loro ostinatezza, e la loro fragilità è stranamente combinata con una grande resilienza, la stessa irreversibilità
che è il contrassegno si ogni azione umana (ARENDT 1968, p. 71).
Ma la politica ormai scissa dallo spazio pubblico rappresenta proprio l’impossibilità di accoglienza per l’azione umana. Alla politica
pertiene la menzogna non come suo lato nascosto e accidentale21 ma
come scintillio palese di manifestazione, è il modo in cui entra nello
spazio pubblico. Vi entra insomma solo come rovescio dell’azione
umana.
La politica svincolata dalla spazio pubblico non è allora né condizione della chiusura del pubblico nel sociale né è garanzia, non certo
nel modo in cui oggi si parla di governo di garanzia istituzionale,
ma, in un modo che rende possibile questa formulazione, è garanzia
della incessante riproduzione della separazione – la separazione tra
pubblico e politico – e questa riproduzione è assicurata dal kratos
che, maledetto e occultato, nell’antica polis assicurava la separazione
tra oikia e polis stessa come luogo del bios politikos, e che qui garantisce un’altra separazione, quella tra politica e società (nel senso in
cui fino ad ora è stata intesa). Ma ciò che garantisce la separazione tra
società e politica è anche ciò che deve garantire l’agglutinazione di
pubblico e privato.
Il kratos si fa potere22.
1
2
3
4
5
Aristotele, Politica, 1252b 27-30, Bur, Milano 2002.
Ibidem, 1252b 34 – 1253a 1.
Idem, 1328b 35.
Cfr. sulla questione della nuda vita e del governo i fondamentali AGAMBEN 1995
e ESPOSITO 2004.
Il termine vita activa è pregno di una tradizione millenaria che la Arendt ripercorre rapidamente, ma segnalando tutte le svolte, nel secondo paragrafo del
primo capitolo di ARENDT 1958. Una prima svolta si ha con Platone, dove l’intera riorganizzazione della polis si ha in funzione del tipo di vita, contemplativa
(teoria) in questo caso, condotta dal filosofo filosofo che la deve guidare. Si arriva
poi, con la caduta della città-stato e Sant’Agostino, «l’ultimo forse a sapere almeno cosa significasse un tempo essere un cittadino», al riassorbimento della
422
vita activa all’interno di tutte le attività mondane senza alcuna distinzione, se
non quella di opporsi all’unico modo di esistenza veramente libera, quella contemplativa: «il cristianesimo, con la sua fede in una vita futura le cui gioie si
annunciano nell’estasi della contemplazione, conferì una sanzione religiosa alla
degradazione della vita activa a funzione secondaria, dipendente». Si giungerebbe da qui al moderno capovolgimento avuto con Marx e Nietzsche del rapporto
tra vita activa e vita contemplativa che lascerebbe però invariato il quadro di riferimento, considerando la vita activa un semplice commercio con il mondo molto
simile all’inquietudine (askholia) di cui avevano conoscenza i greci e di cui parla
Aristotele.
6
Come è noto il termine economia deriva dal greco oikonomia che precisamente
significa «amministrazione della casa». Aristotele in questo senso ne fa ampio
uso sia nel già citato Politica che nel trattato forse apocrifo sull’economia utilizzandolo soprattutto in funzione negativa (cfr. Aristotele, L’amministrazione della
casa, Laterza, Roma-Bari 1995). Definire l’ambito dell’oikonomia significa infatti
tracciare lo spazio che può essere occupato dalla politica e dalla polis e prevenire
in questo spazio ogni indebita intrusione della sfera della casa e della famiglia.
L’amministrazione dell’oikos è gestita da un despotes la cui autorità si esercita propriamente nel disporre (degli schiavi) e nel predisporre secondo l’ordine più efficace
ciò che già esiste o è naturale tout court.
7
Credo che tale passaggio ulteriore, per quanto non pacifico, possa essere legittimamente compiuto, ma compierlo equivale a renderlo noto e le pagine che
seguono sono la pubblicità di questa forzatura che ritengo produttiva.
8
Pensare in modo ormai quasi banale che, come si dice, sì, la polis greca era una
società democratica ma una democrazia retta sul dominio assoluto degli schiavi,
una democrazia macchiata di sangue e dunque una non-democrazia, mi sembra non solo anacronistico – la democrazia è sempre la nostra occidentalissima
democrazia – ma anche inesatto. Se infatti è vero che la cultura è il modo di
percepirsi di una civiltà, ebbene quella ateniese era una civiltà o una cultura a
democrazia integrale, se così ci si può esprimere.
9
«Nella sensibilità antica l’aspetto di deprivazione della privacy, indicato nella parola stessa, era considerato predominante, significava letteralmente uno stato di
privazione che poteva toccare anche facoltà ben più alte e umane. Un uomo che
vivesse solo una vita privata e che, come lo schiavo, non potesse accedere alla vita
pubblica, o che, come il barbaro, avesse scelto di non istituire un tale dominio,
non era pienamente umano» (ARENDT 1958, p. 28).
10
M. Weber, Economia e società. La città, Donzelli, Roma 2003.
11
M. I. Finley, Economia e società nel mondo antico, Laterza, Bari-Roma 1984.
12
Eschilo, Eumenidi, 858-866. Mi sono avvalso della traduzione proposta da Nicole
Loraux e delle sue importanti ricostruzioni sintetizzate in L’oblio della città (in
N. Loraux, La città divisa: l’oblio nella città di Atene, Neri Pozza, Vicenza 2006,
pp. 61-96).
13
N. Loraux, La città divisa: l’oblio nella città di Atene, cit., p. 70.
423
Conferenza tenuta dalla Arendt a Princeton nel 1953, H. Arendt, Karl Marx e la
tradizione del pensiero politico occidentale, in “MicroMega”, n. 5, 1995 pp. 35-108.
15
Cfr anche il par. 9 del secondo capitolo dal titolo Il sociale e il privato e la nota
n. 9 dello stesso capitolo in cui la Arendt rintraccia in alcune frasi del Gorgia di
Platone (448a-449e) il punto preciso in cui la rottura tra politica e filosofia si
rende perspicua.
16
Si inserirebbe qui il tema benjaminiano dell’impossibilità nelle nostre società dell’esperienza, dell’impossibilità di fare un’esperienza autentica nel mondo
moderno.
17
«Il fatto storico decisivo è che la privacy moderna nella sua funzione più rilevante, quella di proteggere l’intimità, fu scoperta come l’opposto non della sfera
politica, ma di quella sociale, alle quale è di conseguenza più strettamente e
autenticamente connessa. Il primo che in maniera organica indagò l’intimità i
un certo senso la teorizzò, fu Jean-Jacques Rousseau» (Arendt 1958, p. 28).
18
J. Bodin, I sei libri dello stato, UTET, Torino 1964, vol. I, p. 172.
19
A. Cavalletti, La città Biopolitica, Bruno Mondadori, Milano 2006.
20
Sarebbe opportuno qui discutere, ma non è possibile farlo, la risonanza di questa
posizione con quella espressa da S. Weil ne La prima radice tesa a mostrare come
la presenza di un presunto legame di prossimità (i diritti individuali garantiti
dallo stato di diritto) sia la causa di disfacimento della possibilità di ogni prossimità (la comunità legata al dovere nelle parole della Weil). Cfr. S. Weil, La prima
radice, Comunità, Milano 1980.
21
Tutto ARENDT 1968 è dedicato a questa accidentalità non costitutiva della menzogna in politica che da occasionale si fa strutturale nelle società moderne.
22
È sul crinale di questa metamorfosi di cui ho provato a indicare i punti nodali di
applicazione che qualcosa come una biopolitica, diviene possibile; è proprio in
questa intersezione che riusciamo a capire e collocare i fondamentali lavori di M.
Foucault e riusciamo a superare indenni il passaggio al loro cospetto evitando
il double bind dell’esaltazione dogmatica e del fanatismo da rifiuto. Il potere è
sempre allora una metamorfosi o una strategia di verità (anche se il falso è l’ergon
di tale strategia) proprio come la filosofia, e qualcosa come la politica della verità
è allora il punto in cui filosofia e potere/i si studiano, si incontrano/scontrano e le
cose si complicano irrimediabilmente come lo stesso Foucault provava a spiegare
nella prima lezione del suo corso al Collège de France del biennio 1977-1978:
«Quest’anno vorrei iniziare lo studio di ciò che, in maniera un po’ vaga, ho chiamato il biopotere: una serie di fenomeni di un certo rilievo, ovvero l’insieme ei
meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana
diventano oggetto di una politica, di una strategia politica, di una strategia
generale di potere. […] è il fenomeno che chiamo genericamente biopotere.
Vi sottopongo perciò alcune proposte […] che non vanno prese come principi,
regole, teoremi. In primo luogo l’analisi dei meccanismi di potere […] non rappresenta affatto una teoria generale di ciò che il potere è […]. Si tratta solo di
capire dove il potere transita, in che modo, da quale soggetto a quale soggetto,
14
424
da quale punto a quale punto, secondo quali procedimenti e con quali effetti
[…]. Seconda indicazione: questo insieme di relazioni, o meglio di procedure, il
cui ruolo è stabilire, mantenere e trasformare i meccanismi di potere, non si auto
genera, non è auto sussistente, non si fonda su se stesso. […]. Terza indicazione:
l’analisi di queste relazioni di potere può certamente mettere in moto una sorta
di analisi globale di una società. […] È […] qualcosa che in un modo o nell’altro, per semplici ragioni di fatto, è vicino alla filosofia, cioè alla politica della
verità» (FOUCAULT 2004, pp. 13-14).
425
ciò che ci è familiare, che ci rassicura, e va verso ciò che estraneo,
ignoto, laggiù. Dal certo all’incerto, dalla stabilità all’instabilità, dal
conosciuto all’ignoto.
2. Lech-Lechà: l’erranza
Il signore disse ad Abramo: “va via dal tuo paese, dal tuo parentado,
dalla tua casa paterna al paese che ti indicherò”.1
PROSSIMITÀ
di Teresa Bettini
1. Ripensamento
Ripensare la metafisica. Ripensare la differenza. O forse ricominciare da Altro. Rompere con la totalità, con una tradizione filosofica
millenaria. Da qui, da queste premesse, nasce il pensiero di Emmanuel Levinas. La metafisica, il pensiero dell’essere teorizzato dai Greci fino a Heidegger, viene reinterpretato. Essa non esamina più l’ente
«che noi stessi siamo» e il cui essere «è sempre mio» (HEIDEGGER 1977,
p. 60). Non si preoccupa di ciò che appartiene all’esserci, cioè a quell’ente che ciascuno di noi è.
Essa è rivolta all’Altrove, e all’altrimenti, e all’Altro. Nella forma
più generale sotto la quale si è presentata nella storia del pensiero,
essa appare come un movimento che parte da un mondo che ci è
familiare – quali che siano le terre ancora sconosciute che lo circondano o che le nasconde – da una casa ‘nostra’ e nella quale abitiamo,
e va verso una casa ‘non nostra’ ed estranea, verso un laggiù (LEVINAS
1961, p. 31).
L’avventura della metafisica inizia o rinizia da qui. Dal calore di
426
Appunto Lech-Lechà2, “va via”, vattene da ciò che ti rassicura, dalle tue abitudini, dalle tue certezze. Vai verso l’ignoto, verso un paese
che non conosci, che non hai mai visto. Vai verso l’Altro, avvicinati,
approssimati all’Altro.
Il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso l’assolutamente Altro. […] Il desiderio metafisico non aspira al ritorno,
perché è il desiderio di un paese in cui non siamo mai nati. Di un
paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel
quale non ci trasferiremo mai (LEVINAS 1961, pp. 31-32).
Non c’è ritorno. Il movimento non è dialettico con necessaria
sintesi finale. Quest’ultima scompare. L’io non va all’Altro per poi
appropriarsene tornando a sé: il Medesimo va all’Altro senza voler
tornare da dove è partito.
L’inizio si perde nell’Altro.
Il movimento metafisico è trascendente. […] La trascendenza con
la quale il metafisico lo designa va sottolineata per il fatto che la
distanza che essa esprime – a differenza di ogni distanza – entra nel
modo di esistere dell’essere esteriore. La sua caratteristica formale
– essere Altro – ne è il contenuto. Così il Metafisico e l’Altro non
si totalizzano. Il metafisico è assolutamente separato (LEVINAS 1961,
pp. 33-34).
La trascendenza esprime, traccia la distanza tra il Medesimo e Altri. Il Medesimo e Altri sono separati, non si uguagliano, non rien427
trano in uno “sguardo comune” che annullerebbe le loro peculiarità.
Senza la distanza, senza la separazione, non ci sarebbe Altri, ma non
ci sarebbe neanche il Medesimo, il punto di partenza del viaggio
verso l’ignoto. Eppure Lech-Lechà non è solo un monito ad andare via
da ciò che rasserena. Lech-Lechà significa anche vai a te stesso. Non c’è
nessun altro, nessuna alterità, se prima il Medesimo non si distacca
dalle sovrastrutture che lo accecano e non va nelle profondità della
sua individualità. Non si può andare incontro e riconoscere l’alterità
dell’altro, senza prima essersi messi in cammino verso se stessi.
di alterarsi, di essere appunto un Altro. Ed è proprio questa interiorità che consente la separazione, la resistenza alla totalità, a una totalità
identitaria dove ognuno è identico a sé, dove nulla può cambiare.
L’alterità, l’eterogeneità dell’Altro è possibile solo se l’Altro è Altro
rispetto ad un termine la cui essenza consiste nel restare al punto di
partenza, nel servire da ingresso alla relazione, nell’essere il Medesimo non relativamente ma assolutamente. Un termine può restare
al punto di partenza della relazione solo come Io (LEVINAS 1961, p.
34).
L’interiorità instaura un ordine diverso dal tempo storico nel quale
si costituisce la totalità, un ordine nel quale tutto è in sospeso, nel
quale resta possibile ciò che storicamente non è più possibile (LEVINAS 1961, p. 54).
L’Altro è Altro, alterità rispetto al Medesimo solo quando il Medesimo si riconosce come Io, come definito, come delineato nei suoi
confini. È solo con la consapevolezza dell’Io riguardo al proprio sé
che si dischiude l’alterità, l’avvenimento dell’Altro. Non c’è alcuna
diversità a cui andare incontro, non c’è nessun posto, nessun luogo
da raggiungere se non si ha un punto di partenza. Non si può spiccare nessun salto verso l’ignoto senza avere la terra sotto ai piedi. Ma
all’interno di questo Io non c’è una identità tout court, non c’è una
identificazione stretta. «L’Io è identico anche nelle sue alterazioni»
(LEVINAS 1961, p. 34). Che vuol dire? L’Io si altera? Sta a significare
che l’Io, di cui l’identità è il contenuto, non resta sempre lo stesso.
Infatti l’Io che pensa si ascolta pensare o si spaventa delle proprie
profondità e, per sé, è un Altro (LEVINAS 1961, p. 34).
L’Io ascolta sé, si ascolta, si domanda, si risponde, si sonda, si impaurisce. L’Io sente che c’è un’alterità in lui. E proprio per questo non
possiamo parlare di una identità A=A, di un essere costantemente
uguale a se stesso. L’Io ha quindi una sua interiorità che gli permette
428
La separazione del Medesimo si produce sotto la specie di una vita
interiore, di uno psichismo (LEVINAS 1961, p. 52).
Lo psichismo della psyche è proprio questa interiorità, che permette all’Io di non essere statico, di cambiare, di mutare. E infatti:
L’interiorità è esattamente quella resistenza al tempo della storia
che totalizza, immobilizza l’Io, e che rende possibile l’impossibile,
cioè rievocare il passato nonostante il presente in cui sono.
La separazione è radicale solo se ogni essere ha il suo tempo, cioè la
sua interiorità, se ogni tempo non si assorbe nel tempo universale.
Grazie alla dimensione dell’interiorità l’essere sfugge al concetto e
resiste alla totalizzazione (LEVINAS 1961, p. 55).
L’Io ha questa possibilità di essere, di resistere a un universale che
lo priverebbe della propria individualità, della propria specificità,
del proprio essere Medesimo. L’interiorità è la possibilità di mettere
in discussione, di arrestare, di sospendere il tempo universale, per
riflettere, per domandare, per ricordare, per essere Io ma al tempo
stesso Altro, diverso, Io unico; ed è così che il reale può dispiegare la
sua infinita pluralità.
La pluralità necessaria al discorso dipende dall’interiorità di cui ogni
termine è dotato, dallo psichismo, dal suo riferimento egoistico sensibile a se stesso. La sensibilità costituisce proprio l’egoismo dell’io
(LEVINAS 1961, p. 57).
429
La sensibilità è questo psichismo. La sensibilità è allora questa
possibilità di arrestare in noi il tempo universale e invertirlo, è la
possibilità di resistere all’identità statica, di sfuggire alla concettualizzazione, di essere veramente Io: identico ma anche Altro. E anche
egoista, nel senso di pensare a sé, al proprio io, al proprio sostentamento, alla propria felicità, alla propria vita. Come vive allora l’Io
egoisticamente?
vita, rapporto con dei contenuti che non sono il mio essere, ma più
cari del mio essere: pensare, mangiare, dormire, leggere, lavorare,
scaldarsi al sole. Distinti dalla mia sostanza, ma tali da costituirla,
questi danno valore alla mia vita (LEVINAS 1961, p. 112).
Il Medesimo vive di queste cose, di vita quotidiana, del proprio
fabbisogno, di elementi esterni che gli permettono di sostenersi, di
essere felice. Nella sua vita di tutti i giorni, quindi, il Medesimo assapora altri elementi, diversi da lui, per poter vivere, di cui vivere. E
ne gode, gode di quello di cui vive, ne è appagato. Questo suo egoismo è un “vivere di...”, è un vivere in base ad altre cose. È mangiare
il cibo, un nutrirsi-di.
Amare la vita, rapportarsi ad essa, viverla.
Le mie azioni, i miei atti, dal leggere al lavorare, dal pensare al
mangiare danno valore alla mia vita. Ogni mia singola attività conferisce agli attimi, ai momenti dell’esistenza che io vivo, dei contenuti.
Vivere è questo amore, sapere che io perlomeno in maniera semplice
la riempio, le do valore. Anche pensando, anche mentre vado a lavorare, mentre rifletto, mentre mangio o quando sono seduto al chiaro
di luna, le mie più semplici azioni quotidiane fanno grande la mia
vita. E di questo il medesimo è felice, ne gode. Questo è il godimento, autonomo rispetto a qualsiasi altra cosa.
Interiorità, psichismo, godimento, egoismo. In altre parole, sensibilità. La sensibilità è questo essere separato, separato da una totalità
opprimente; essa è sentirsi prima di tutto Sé, Medesimo. Come sento in me l’estraneità nel sentirmi, nell’ascoltarmi, nel domandarmi,
analogamente sento che un mondo è diverso da me e che c’è Altri.
Infatti:
Il nutrirsi, come modo di riacquistare le forze, è la trasmutazione
dell’Altro nel Medesimo, che è nell’essenza del godimento: un’energia altra da me, riconosciuta come altra […] diventa, nel godimento, la mia energia, la mia forza, me stesso (LEVINAS 1961, p. 112).
Egoismo, godimento e sensibilità e tutta la dimensione dell’interiorità – articolazioni della separazione – sono necessari all’idea dell’infinito – o alla relazione con Altri che si insatura a partire dall’essere
separato e finito (LEVINAS 1961, p. 150).
Essere felici di ciò attraverso cui si vive è, al contempo, rendersi
liberi. Godere del proprio vivere-di è infatti l’indipendenza stessa
dagli elementi del mondo in cui siamo. E soprattutto è un introdurre nel Medesimo Altro, un metabolico assimilare altri che diventa
me stesso. Mi mantengo me stesso, mi mantengo in vita, grazie ad
Altro, e tramite il mio godimento, ne sono indipendente. E questo
godimento è l’egoismo della vita.
La dimensione dell’interiorità, la sensibilità, è necessaria all’idea
di infinito, alla relazione con l’alterità di Altri. Serve una chiusura,
un isolamento, quasi una solitudine, per poi venir sorpresi da Altri,
per poi venir scossi da Altri. Anche la più solida quercia trema di
fronte al movimento della terra. È la sensibilità che permette questa
separazione e quindi l’apertura verso l’Altro, la venuta, l’incontro
con Altri, Altro da me, e non semplicemente altro io3. È una chiusura
che consente la relazione, chiusura che dischiude apertura.
3. Vai a te stesso: egoismo e sensibilità
Noi viviamo di grana, d’aria, di luce di spettacoli, di lavoro, di idee,
di sonno (LEVINAS 1961, p. 110).
Il rapporto della vita con le condizioni stesse della propria vita, diventa nutrimento e contenuto di questa vita. La vita è amore della
430
È necessario che questa chiusura non impedisca l’uscita fuori dell’in431
teriorità, perché l’esteriorità possa parlargli, rivelarglisi in un movimento imprevedibile che non potrebbe essere causato, per semplice
contrasto dall’isolamento dell’essere separato (LEVINAS 1961, p. 151).
È necessario, dunque, che nell’essere separato la porta sull’esterno
sia, ad un tempo, aperta e chiusa. Sensibilità è la porta che mantiene
l’interiorità e apre all’alterità, che prepara alla parola, alla rivelazione
di Altri. La parola “porta” in ebraico si dice delet e inizia con la lettera (dalet), una lettera che ha come forma proprio quella di una porta
aperta. E con questa lettera inizia anche la parola “parola”: davar.
La porta del Medesimo è aperta alla parola dell’Altro che si apre al
Medesimo.
4. Levinas e Rosenzweig: responsabilità e rivelazione
Rivelazione e parola, rivelazione e linguaggio, rivelazione e amore
sono anche i temi di un filosofo caro a Levinas: Franz Rosenzweig,
autore dell’opera La stella della Redenzione (1921).
La rivelazione comincia con una domanda, una semplice domanda. La domanda di Dio all’uomo. La voce di Dio, invisibile, spezza,
squarcia la solitudine dell’uomo. Non è la coscienza che lo chiama
a comprendersi, una coscienza dentro l’uomo4. È una voce che viene
da fuori, nascosta, eppur udibile, di Chi è invisibile: «dove sei tu?»5.
Dio si rivolge all’uomo, solo, spaurito. Ma l’uomo non risponde. Non
risponde alla sua chiamata.
Il sé vuole essere evocato con una magia più potente della semplice
domanda circa il “tu”, perché la sua bocca si apra a pronunciare “io”6.
L’uomo non risponde perché il suo sé vuole essere chiamato, evocato, da un una magia che lo possa finalmente destare in quanto Io:
il nome proprio, il vocativo. Non è quindi un generico tu, è il nome
proprio che individua, specifica, che richiama il sé a sé. Il sé si rende
Io solo se chiamato con un nome proprio.
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L’uomo, il quale al “dove sei tu?” di Dio aveva ancora taciuto, come
un sé caparbio e ostinato, ora chiamato con il suo nome, due volte,
con la più grande determinazione, quella che non si può fare a meno
di ascoltare, risponde totalmente aperto, totalmente dispiegato, tutto pronto, tutto… anima: “sono qui”7.
Sono qui. Questa è la risposta dell’uomo alla chiamata di Dio. Eccomi (hinneni, in ebraico), parola che molte volte Abramo pronuncia
al cospetto di Dio. Se vediamo, all’interno della Torah, è Abramo che
per primo risponde effettivamente hinneni.
Eccomi, sono qui, pronto ad ascoltare. Ma prima ancora di ascoltare, rispondendo sono qui, l’uomo afferma la sua responsabilità nei
confronti di qualunque Altro. Eccomi, sono responsabile per l’Altro.
Ecco me a te, me per te. Eccomi, responsabilità nel riconoscere e
nell’accogliere l’alterità dell’Altro. L’uomo non si sottrae alla chiamata di Dio così come in Levinas «l’identità del soggetto dipende
dall’impossibilità di sottrarsi alla responsabilità, alla presa su di sé
dell’Altro» (LEVINAS 1974, pp. 18-19). L’identità è quindi così sancita come impossibilitata a sottrarsi ad altri, ad essere responsabile
di altri. L’identità del soggetto è votata per altri. Si spezza perciò, si
frantuma, l’egoismo del sé per sé.
Questa rottura dell’identità […] è la soggettività del soggetto o la
soggezione a tutto, la sua suscettibilità, la sua vulnerabilità, cioè la
sua sensibilità (LEVINAS 1974, p. 19).
Sensibilità è vulnerabilità, è essere esposti ad Altri senza difese,
inermi. Sensibilità è rispondere ad Altri nonostante tutto ciò. E questa risposta segna anche la fine della lontananza. La risposta è anzi
proprio la fine della lontananza;essa fa sì che l’altro non sia solo altro
da me, ma anche prossimo. La risposta è dunque già prossimità.
La risposta che è responsabilità – responsabilità incombente per il
prossimo – risuona in questa passività, in questo disinteressamento
della soggettività, in questa sensibilità. Vulnerabilità, esposizione
all’oltraggio, all’offesa − passività più passiva di ogni pazienza, passività dell’accusativo, messa in causa, nell’ostaggio, dell’identità che
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si sostituisce agli altri: Sé – defezione o disfatta dell’identità. Ecco,
spinta all’estremo, la sensibilità. E così sensibilità intesa come soggettività del soggetto (LEVINAS 1974, p. 20).
Frantumata la concezione della soggettività che costituiva l’oggetto (la dicotomia soggetto-oggetto della metafisica occidentale),
non c’è più un medesimo che ingloba l’Altro o che lo “vince”. La
soggettività del soggetto è una passività tremante al cospetto di altri, fragile, indifesa. Il soggetto è in balia dell’Altro, dell’alterità, è
“ostaggio”. La sensibilità è questa soggettività del soggetto, questo
essere fragile e indifesi. Essa è l’Altro nel medesimo secondo una
modalità diversa da quella della presenza degli interlocutori in un
dialogo in cui essi sono in pace e in accordo l’uno con l’altro. L’Altro nel Medesimo della soggettività è l’inquietudine del Medesimo
inquietato dall’Altro8. La risposta è responsabilità e rende l’altro, vicino,
prossimo, prossimo a me, e me prossimo a lui.
L’Altro mi intimorisce perché riesce a scuotere il mio sé, ad impedirgli di essere identità sicura e tranquilla. Sia nel fuori sia nel
dentro. Lasciarmi scuotere dall’Altro è la soggettività, è sensibilità. «Questa passività della passività e questa dedica all’Altro, questa
sincerità è il Dire» (LEVINAS1974, 179).
5. Il Dire: prossimità e pace
Questo dire non è linguistico, esso rinvia alla soggettività, alla
sensibilità, al tremore per altri. È il dire originario, prima di ogni
lingua, prima di ogni segno, segno di Altri prima ancora che lui si
presenti a me, che mi venga incontro.
Anteriore ai segni verbali ch’esso coniuga, anteriori ai sistemi linguistici e ai riflessi semantici – prefazione alle lingue – esso è prossimità dell’uno all’Altro, impegno all’approssimarsi, la significanza
stessa della significazione. […] Il dire originale o pre-originale, il
discorso della prefazione, annoda un intrigo di responsabilità (LEVINAS 1974, p. 8).
434
Prima di ogni lingua, prima di ogni parola, questo Dire è prossimità, responsabilità che implica la risposta, impegno infinito verso
l’Altro. «Dire è approssimarsi al prossimo» (LEVINAS 1974, p. 61).
Dire è avvicinarsi all’Altro, nonostante il timore, nonostante il tremore di altri di fronte a me: avvicinarmi a lui perché ne sono responsabile. Il Dire è prossimità. Prima che io gli risponda, che io risponda
alla sua chiamata, io ne sono già responsabile.
Il soggetto del Dire si approssima al prossimo esprimendosi, espellendosi (nel senso letterale del termine) fuori da ogni luogo, non abitando più, non calpestando più nessun luogo (LEVINAS 1974, p. 62).
Sradicato dal luogo in cui abitava, il soggetto si trova senza luogo nell’approssimarsi al prossimo. Esso abbandona la sedentarietà
per l’Altro. Nessun luogo sarà mai casa, nessun luogo mai proprio.
Andare verso l’Altro è andare avanti, non tornare indietro. È fare
il primo passo in avanti nonostante le gambe tremino... E proprio
perché il dire è prossimità, questo approssimarsi al prossimo, questo
andare incontro al prossimo, e non uno stare in sé, uno stare fermo
in un luogo, che il soggetto, nella sua soggettività, non ha luogo, è
fuori luogo, dis-locato9. Ed ecco la prossimità:
La prossimità – differenza che è non-indifferenza – responsabilità:
risposta senza domanda – immediatezza della pace che mi incombe
– significazione di segno – umanità dell’uomo (intesa altrimenti,
non a partire dalla soggettività trascendentale!) – passività dell’esposizione − passività essa stessa esposta – Dire […] La prossimità
è fraternità prima dell’essenza e prima della morte (LEVINAS 1974,
p. 175).
La pace mi incombe da altri immediatamente, mi impone di rispondere senza neanche aver fatto richiesta. La pace non può domandare, non può attendere, va pretesa. La prossimità di me ad altri
pretende pace, presuppone la pace. Quest’ultima è quella a cui il
prossimo rinvia, il prossimo che è anche mio fratello. Altri è fratello.
Proprio come in ebraico dove ach (“fratello”) ha le prime due lettere
di acher (“altro”). È il diverso, l’estraneo, lo straniero che mi viene
435
incontro e pretende pace senza chiederla10. E la mia passività, la mia
vulnerabilità, la mia sensibilità, sono colpite da questa pretesa, alla
quale non mi posso sottrarre. Non posso sottrarmi alla mia responsabilità, cioè alla prossimità.
La prossimità del prossimo – la pace della prossimità – è la responsabilità dell’io per un Altro […] Pace dell’amore del prossimo in cui
non si tratta, come nella pace del puro riposo, di confermarsi nella
propria identità, ma di mettere sempre in questione questa stessa
identità, la sua illimitata libertà e la sua potenza (LEVINAS 1974, p.
120).
La pace è questa prossimità all’Altro, che mette in questione me.
L’io mette sé in questione, si mette in discussione, rischia se stesso
per Altro. Ma anche l’amore del prossimo come te stesso non risuona
come un amare l’Altro perché è te, identico a te. L’Altro è Altro,
straniero, come lo sono io. Straniero anche io. Anche io sono esilio11,
dal momento che l’Altro mi strappa l’identità (il pieno rispecchiamento di me stesso, la chiusura completa di me). E l’amore è questo
sradicarsi stesso, amare l’Altro per la propria alterità, non far diventare l’Altro simile a me, condividere questa erranza, questo continuo
approssimarsi l’uno all’Altro. E per questo, da tale amore, si cerca la
pace. Non ho più niente che sia completamente mio: la prospettiva
è quella dell’erranza in me che si muove, si approssima verso l’Altro.
In questa erranza siamo fratelli, l’Altro e me, e per questo chiediamo pace. Risuona quell’«eccomi» di Adamo in Rosenzweig e il Lech
Lechà di Dio ad Abramo. Convocazioni all’Altro, per l’Altro. «Nella
convocazione assoluta del soggetto si ode enigmaticamente l’Infinito» (LEVINAS 1974, pp. 175-176).
L’Infinito si ode, ma non si vede. L’infinito è non-presente, eppure
si ascolta in maniera enigmatica. E nonostante questa enigmaticità
dal Medesimo arriva una
risposta che risponde come se l’invisibile, che si assenta dal presente,
lasciasse una traccia per il fatto stesso di potersi assentare. Traccia
che risplende come volto del prossimo nell’ambiguità di colui davanti al quale (o verso il quale senza paternalismo alcuno) e di colui
436
del quale rispondo, enigma o ec-cezione del volto, giudice e parte
(LEVINAS 1974, p. 16).
L’infinito lascia la sua traccia che risplende come il volto dell’Altro, al quale rispondo, del quale rispondo. Dal volto d’altri risuona
la chiamata di Infinito, volto, traccia di un assente che pur non-presente mi intima ad obbedirgli. Obbedienza ad Infinito che è Dire: «il
Dire è testimonianza» (LEVINAS 1974, p. 189). Assumendo su di me
la responsabilità verso Altri, testimonio l’Infinito, il suo essere nonpresente, non-ricordabile, immemorabile, che lascia una traccia nel
volto d’Altri verso il quale io mi approssimo.
6. Il Terzo: prossimità e giustizia
Un nuovo elemento però subentra in questa mia responsabilità
verso il prossimo, in questo mio pre-occuparmi di Altri. Questo elemento è il terzo. Non solo il soggetto e Altri, ma anche il prossimo
nei confronti d’altri.
Il terzo è Altro dal prossimo, ma anche un Altro prossimo, ma anche
un prossimo dell’Altro e non semplicemente il suo simile (LEVINAS
1974, p. 196).
Il terzo è un Altro prossimo che è Altro dal soggetto e dal prossimo del soggetto. Non è simile a nessuno dei due. Il terzo è il sopraggiungere di un Altro prossimo che ap-porta un cambiamento di
fronte alla relazione tra soggetto e Altro.
Il terzo introduce una contraddizione nel dire la cui significazione
dinanzi all’Altro andava, fino ad allora, in un senso unico. È, di per
sé, limite della responsabilità, nascita del problema: che cosa devo
fare con giustizia? Problema di coscienza. È necessaria la giustizia,
vale a dire la comparazione, la coesistenza, la contemporaneità, il
raccoglimento, l’ordine, la tematizzazione, la visibilità dei volti e
[…] anche una compresenza su una base di uguaglianza come davanti a una corte di giustizia (LEVINAS 1974, p. 197).
437
Che significa questo? Cosa comporta la giustizia?
Che «il dire si fissa nel detto» (LEVINAS 1974, p. 198), in quel detto che rinvia al tematizzabile, al presente, al tempo sincronizzatile,
all’identità, all’essenza. È qui la contraddizione del Dire, ma anche
la sua manifestazione a terzi. Il dire si manifesta dal momento in cui
entra in scena un terzo.
Questo dire pre-originale si muta in un linguaggio in cui il dire e
il detto sono correlativi l’uno dell’Altro; dove il dire si sottomette
al suo tema. La correlazione del dire e del detto, vale a dire la subordinazione del dire al detto, al sistema linguistico e all’ontologia,
è il prezzo che esige la manifestazione. Nel linguaggio come detto,
anche se a costo di un tradimento, tutto si traduce davanti a noi
(LEVINAS 1974, p. 9).
Il detto è la tematizzazione da parte del linguaggio. Il Dire si traduce in detto, si fa parola, si cristallizza nelle lingue, in cui si scrive
il diritto del terzo, in cui si scrive la parola giustizia. Etica prima
dell’ontologia, etica prima di ogni linguaggio di giustizia, etica senza cui non c’è parola per altri, per gli altri. Prossimità ad altri prima
del già detto.
Nella prossimità dell’Altro, tutti gli altri dell’Altro mi ossessionano
e già l’ossessione grida giustizia, reclama misura e sapere […] la giustizia supera la giustizia nella mia responsabilità per Altro […] Altri
è di colpo fratello di tutti gli altri uomini (LEVINAS 1974, p. 197).
Il dire lascia una traccia nel detto, nella tematizzazione che il linguaggio, sistema di segni, porta, e anche nella giustizia, nell’uguaglianza tra unici. Non solo altri è il mio prossimo e fratello, ma anche
gli altri di Altro sono fratelli, fratelli ed estranei, stranieri al tempo
stesso, prossimi che tramite la richiesta di giustizia, non più limitata
a me e Altro, sono uguali. Si è uguali di fronte alla giustizia, sono
ugualmente responsabile per Altro e per gli altri. Il dire si traduce
in detto, la responsabilità in giustizia, l’invisibile in volti visibili.
La responsabilità, che è prossimità agli altri, gloria e testimonianza
di Infinito, ha bisogno di fissarsi, di entrare nella concatenazione del
438
tempo, nel tempo, non per rendere gli altri identici ma uguali nel loro
diritto. E appunto questo rispetto della giustizia per tutti gli altri,
seppur altri nella loro alterità, è la traccia che il Dire pone nel Detto.
Il detto non annulla il dire, cerca di estenderlo ad altri, a tutti gli
altri. Il detto istituzionalizza il dire:
La giustizia, la società, lo Stato e le sue istituzioni – gli scambi e il
lavoro compreso a partire dalla responsabilità – tutto ciò significa
che niente si sottrae al controllo della responsabilità dell’uno per
l’Altro (LEVINAS 1974, p. 199).
La prossimità duale, del Medesimo per Altri, dischiude la giustizia per terzi, richiede, grida, pretende, l’istituzionalizzazione di un
diritto per Altri che è anche mio diritto ma soprattutto mio dovere,
prima ancora che Altri si presenti a me.
Dal Dire al Detto, dall’etica all’ontologia, dall’etica al diritto di
ciascuno ad essere terzo.
La prima questione nell’inter-umano è questione di giustizia. Bisogna sapere, prendere coscienza. Alla mia relazione con l’unico e
l’incomparabile si sovrappone la comparazione e, in vista di equità e
uguaglianza, una valutazione, un pensiero, un calcolo, una comparazione degli incomparabili e, da qui, la neutralità – presenza o rappresentazione dell’essere, la tematizzazione e la visibilità del volto
in qualche modo fissato come semplice individuazione dell’individuo;[…] la necessità di pensare sotto un tema sintetico il molteplice
e l’unità del mondo; […] e da qui infine l’importanza estrema nella
molteplicità umana della struttura politica della società sottoposta
alle leggi e quindi alle istituzioni in cui il per-l’Altro della soggettività – in cui l’io – entra con la dignità di cittadino nella reciprocità
perfetta delle leggi politiche essenzialmente egalitarie o tenute a
diventarlo (LEVINAS 1995, pp. 121-122).
L’entrata in gioco del terzo, e cioè della pluralità, pone la questione della giustizia, del diritto. Il terzo mi avverte di una molteplicità
di Altri che hanno, come il volto che ho di fronte, lo stesso diritto
di essere accolti, accettati, ospitati. Sento la necessità che questa mia
439
responsabilità per altri è più del semplice accogliere un unicum che è
di fronte a me, bensì è accoglierne molteplici. L’Altro non l’ho scelto da un gruppo di persone, l’Altro mi è capitato davanti, addosso,
improvvisamente. L’Altro imprevedibilmente mi è davanti, faccia a
faccia, ed io non posso scappare, non posso esimermi dalla mio compito pre-originario. L’Altro tuttavia mi avverte di altri oltre a lui,
altri che devono essere tutelati, come io sono per-l’Altro. Prossimità
infinita tra me e gli altri. Nessuna discriminazione di fronte a terzi, nessun diritto alternativo per gli altri da me e dall’Altro. Ecco la
giustizia, prossimità inscritta nel diritto, nella legge. Da qui la necessità
del detto, del rendere concettualizzabile chi sfugge all’essere tematizzato. Tematizzazione che è dignità del cittadino o di chi chiede di
diventarlo. Dignità che le istituzioni dovrebbero dare a terzi, anche
se non ancora cittadini ma pur sempre Altri.
Alla stravagante generosità del per Altro si sovrappone un ordine ragionevole, ancillare o angelico, della giustizia attraverso il sapere, e
la filosofia è qui la misura apportata all’infinito dell’essere per Altro
della pace e della prossimità e come la saggezza dell’amore (LEVINAS
1995, p. 123).
Genesi 12, 1-2.
Vedi LEVINAS 1949, p. 219. E cfr. Donatella Di Cesare, Il viaggio filosofico di Levinas sui passi di Abramo, ne Il manifesto del 17/1/2006.
3
L’intento di Levinas è forse proprio quello di superare il paradigma ego-alter ego
descritto nella V meditazione in HUSSERL 1950a.
4
Come invece sembra avvenire in Essere e tempo (vedi HEIDEGGER 1977, pp. 323325).
5
F. Rosenzweig, La stella della Redenzione, Marietti, Genova 2000, p. 187.
6
Ibidem.
7
Ivi, p. 188.
8
Vedi LEVINAS 1974, p. 32.
9
Ringrazio per la parola, che è tradotta dall’inglese dislocated, la dott. M. J. Crowley.
10
Cfr. Y. Pinhas, La saggezza velata, Giuntina, Firenze 2004, p. 73.
11
Sul tema dell’esilio cfr. DI CESARE 2003, cap. IV. L’esilio, però, è approssimarsi
verso l’Altro, responsabilità verso l’Altro, prima di ogni rivelazione sinaitica,
prima di ogni lingua, anche eterna. Riguardo proprio alla responsabilità antecedente la rivelazione sinaitica cfr. DERRIDA 1997a, p. 131.
1
2
Filosofia, amore per la sapienza, o saggezza dell’amore, testimonia
uguaglianza, quell’uguaglianza di tutti gli uomini, che si ritrovano,
che si riscoprono altri, altri di altri, ma pur sempre prossimi. Non
importa la provenienza, non importa il da dove dell’Altro, o di me,
stranieri in una terra non nostra, ci ritroviamo uguali nel richiamo
alla responsabilità di fronte al volto. Volto che non chiede altro che
di essere ospitato, di essere da me accolto, rispettato, non osteggiato come un nemico perché altro da me, diverso da me. Il volto e i
volti di tutto il mondo si appellano a questo diritto in-alienabile
di essere altri. Saggezza dell’etica, saggezza della responsabilità, di
amare l’Altro nonostante mi faccia tremare nella sua alterità, della
sua alterità.
Saggezza dell’amore, che non scappa di fronte a questo appello di
miliardi di uomini.
Ripensare la filosofia a partire da questa saggezza.
440
441
indietro dall’anima come sostanza posseduta o ricevuta all’animazione
che va dall’uno all’altro.
2. Corporeità e intersoggettività
PSYCHE
di Enrico Vicinelli Polucci
1. Animazione del corpo
Con i termini psyche o anima, si intende per lo più una certa entità
distinta da un corpo, ma anche e soprattutto il legame, l’intrico con
questo. Originariamente psyche significa soffio vitale, respiro; significa perciò anima incarnata, principio di animazione del corpo, ciò che
lo rende un corpo vivo o animato (Leib), e ciò la cui dipartita segna
la cessazione della vita. Da qui la sostanzializzazione di un’anima che
sopravvive a un corpo morto, l’estensione di senso da qualcosa che dà
vita a qualcosa che la possiede. Dall’animazione all’anima, appunto.
Bisogna però, seguendo quest’origine, restare, almeno inizialmente,
all’interno della materialità di un corpo. È questo che suggerisce d’altronde il metodo fenomenologico, e l’analisi qui proposta dei luoghi
in cui la fenomenologia, o certa fenomenologia, affronta il tema dello
psichico, si trova a seguire problematiche relative alla corporeità. In
particolare si metterà in evidenza come, prima in Husserl e poi in
Levinas, la descrizione della costituzione e dell’acquisizione di senso del corpo, inteso come vivo e perciò animato, prenda sempre in
considerazione una dimensione intersoggettiva che sembra essere già
aperta, e la cui pre-originarietà sembra proprio indicare quel passo
442
La fenomenologia nasce come tentativo di superare lo stallo che,
agli occhi di Husserl, si impone alle due grandi scienze ottocentesche
da cui egli prende le mosse, e cioè la psicologia descrittiva da una
parte e la logica dall’altra. La prima non sarebbe in grado di spiegare
come si costituiscano degli oggetti ideali e perciò delle oggettività
in generale; l’altra opera invece con questi oggetti ideali senza però
poter rendere conto della loro concretezza psicologica, della loro origine e della possibilità che una soggettività empirica abbia accesso
a essi. La fenomenologia si inserisce allora fra le due, cercando di
superare l’impasse attraverso una nuova prospettiva che si delinea pian
piano come un vero e proprio metodo: l’obiettivo è quello di ricercare e descrivere la costituzione degli oggetti ideali, il loro costituirsi
all’interno di una coscienza, attraverso una riduzione (epoché) ai vissuti concreti di questa coscienza.
Se Husserl perciò parla di psicologia è in un primo senso – non
l’unico, lo vedremo – per distinguerla dalla fenomenologia, e su questo punto non ci saranno ripensamenti, dal momento che in un’opera relativamente tarda, come le Meditazioni cartesiane (1929), questa
distinzione è subito posta in primo piano nel delineare in generale
il metodo fenomenologico: esso si attua, da parte del filosofo stesso
meditante, attraverso una messa tra parentesi, o messa fuori gioco,
dell’essere del mondo, e quindi della validità delle scienze che, come
oggetti, hanno pezzi di questo mondo. Ciò che resta, dice Husserl, è
lo stesso mondo, ma, a causa della mia modificazione di atteggiamento,
esso è mero fenomeno, è nella misura in cui è per me, o per una coscienza, nella misura di questa coscienza, dei suoi vissuti. Detto ciò,
la prima cosa da chiarire, la più importante, è che questa riduzione
va estesa alla sostanzialità dell’io stesso. Non bisogna fare, dice Husserl, della coscienza ridotta, dell’io puro, una res cogitans, un pezzo
di mondo salvato, assioma su cui costruire una scienza deduttiva.
443
Questo è l’errore di Cartesio, ma è anche ciò che fa la psicologia, nonostante essa abbia una strettissima vicinanza con la fenomenologia
trascendentale, o egologia pura. Vicinissime sì, ma parallele, e così
possono anche avere lo stesso contenuto, ma non si toccano.
Invero la psicologia della coscienza è un esatto parallelo della fenomenologia trascendentale della coscienza, ma ciononostante le due
scienze si debbono tenere ben distinte, poiché la confusione delle
due è caratteristica di quello psicologismo trascendentale che rende
impossibile una filosofia vera e propria. Si tratta qui di una di quelle
nuances trascurabili in apparenza che sono però decisive per la distinzione della via propria dalla via sbagliata della filosofia. […] Una
volta, noi siamo in presenza di dati del mondo presupposto come
esistente, cioè di dati presi come stati psichici dell’uomo; l’altra volta, invece, non si parla affatto dei dati parallelamente simili quanto
al contenuto, poiché il mondo in generale non è più tenuto in valore,
nell’atteggiamento fenomenologico, come realtà effettiva ma solo
come fenomeno di realtà effettiva (HUSSERL 1950b, pp. 77-78).
Ciò che fa la differenza è la riduzione, quell’atteggiamento che
impedisce di fare della coscienza un tema, una tesi, l’oggetto di una
scienza, l’ultima parte del mondo. Così il mio vivere naturale umano
e anche il mio vivere psichico li riduco al mio io trascendentale fenomenologico. Questa sfumatura, da cui dipende la validità stessa del
metodo fenomenologico, va perciò costantemente tenuta presente.
Ma tutto ciò non ha impedito a Husserl di parlare della psiche,
di dirci che cos’è la psiche, e di prospettare la possibilità – senza, in
verità, che essa sia poi effettivamente realizzata – di una psicologia
pura: in Idee II, nella seconda sezione dedicata a La costituzione della
natura animale, si parla della psiche, della psichicità, a partire dal
legame con la materialità di un corpo:
La psichicità ci è data nella sua connessione con la materialità. Esistono, oppure sono possibili a priori dal punto di vista della considerazione delle essenze, cose materiali che sono inanimate, “meramente” materiali; d’altra parte esistono cose che hanno il rango di “corpi
propri”, e come tali mostrano di essere connessi con un nuovo strato
dell’essere detto appunto psichicità (HUSSERL 1952a, p. 488).
444
C’è psichicità perché c’è un corpo proprio o, che è lo stesso, perché
c’è un corpo vivo, proprio in quanto vivo e perciò animato. La psiche è
un principio di animazione, qualcosa la cui incarnazione in un corpo
distingue la mera materialità dalla vita. È la psiche a fare la differenza
tra Leib e Körper, se non c’è, non c’è corpo proprio. Poche pagine più
avanti, nei paragrafi dedicati alla costituzione di questo Leib, Husserl
parla del ruolo pressoché esclusivo del tattile, del senso del tatto,
rispetto alla vista: il toccarsi di una mano con l’altra permette la localizzazione e l’orientamento delle sensazioni, e quindi la costituzione
di quell’insieme di stati di sensazioni che è l’io psico-fisico. È la più
chiara esperienza in cui il soggetto che percepisce e l’oggetto percepito si scambiano di ruolo. La mano che tocca è toccata dall’altra,
entrambe quindi sono al contempo senzienti e sentite. Come nella
Quinta meditazione cartesiana, in cui peraltro la descrizione della costituzione del corpo proprio è affrontata in termini più ampi e precisi,
e in cui si dovrà passare prima per un’ulteriore riduzione alla «sfera
appartentiva» o «primordiale», c’è questa affatto particolare rilevanza assegnata al senso del tatto, in una filosofia che, per il resto, sembra
inserirsi appieno nel tradizionale privilegio filosofico della vista, della
visione, dell’evidenza. Su questo gioco dei sensi bisognerà tornare.
Ma c’è qualcos’altro che accomuna le due trattazioni riguardanti
la costituzione del corpo proprio, e cioè il riferimento ad una dimensione intersoggettiva che, attraverso l’empatia, si apre con essa.
Un’intersoggettività che è condizione dell’oggettività e quindi del
darsi degli oggetti del mondo. Husserl dice:
Se l’essere psichico deve essere, se deve poter avere un’esistenza
obiettiva, devono esistere le condizioni della possibilità di una datità intersoggettiva. Senonché questa esperibilità intersoggettiva è
pensabile soltanto attraverso l’“empatia”, la quale, a sua volta, presuppone un corpo proprio intersoggettivamente esperibile […] Proprio da questo deriva il privilegio della psichicità o, se si vuole, della
spiritualità rispetto al corpo proprio (HUSSERL 1952a, p. 492).
Il passaggio per la costituzione del corpo proprio condiziona la
possibilità di raggiungere un piano intersoggettivo e quindi ogget445
tivo. Così pure nella Quinta meditazione, in cui è il riconoscimento
analogico di un altro corpo proprio, un altro io, un alter ego, a partire
dal mio, il primo passo verso l’apertura di una dimensione intersoggettiva. Bisogna passare non solo attraverso gli altri, ma attraverso i
loro corpi, per il materiale, per avere oggettività, idealità.
In Idee II, però, questi temi non sono già approfonditi, e ne risulta una certa difficoltà nel momento in cui Husserl ripropone una
distinzione:
Dall’io puro o trascendentale distinguiamo, sempre seguendo fedelmente ciò che è dato intuitivamente, il soggetto psichico reale, la
psiche, l’essere psichico identico, che, connesso realmente con il singolo corpo proprio dell’uomo e dell’animale, costituisce il duplice
essere, sostanziale-reale, uomo o animale, animal (HUSSERL 1952a,
p. 125).
È la stessa distinzione, di cui si è detto all’inizio, tra l’io puro della
considerazione fenomenologica e l’io soggetto di una scienza psicologica considerato come qualcosa di reale. Ma, mentre da una parte, a
quanto detto prima, la psiche sembra essere del tutto corrispondente
al corpo proprio, e quindi senza di essa, ovvero prima di essa, non
dovrebbe esserci intersoggettività, perciò oggettività, d’altra parte,
seguendo ciò che si era detto all’inizio e il passo appena citato, questa
stessa psiche, l’io psichico, è già qualcosa di mondano, di reale, di
sostanziale, di intersoggettivamente costituito in una costituzione a
cui non ha preso parte né la psiche né il corpo proprio, costituzione
che sembra avvenuta ad opera del solo io puro già in qualche modo
capace di pluralità e di empatia (come suggerisce lo stesso Husserl
poco prima1).
Quando, nella Quinta meditazione, Husserl ritorna sul problema
della costituzione di un mondo intersoggettivo (come problema di
una comunità intermonadica) la difficoltà sembra essere risolta: il
ruolo della corporeità è evidentemente decisivo, dal momento che è
la percezione della propria natura di Leib ciò che permette di riconoscere, in un altro, un Leib, un corpo vivo come il proprio, un altro
corpo proprio.
446
Attraverso questo confronto tra Idee II e Meditazioni cartesiane si
vede però come la trattazione husserliana della questione del corpo
proprio, anziché fornire indicazioni chiarificanti sul tema della psiche, apra invece un nucleo ampliamente problematico in cui entrano
intersoggettività e corporeità, senza che si riesca a dire con sicurezza
dove e quando questo corpo si faccia psichico; se, cioè, l’animazione
avvenga con l’esperienza del proprio, dello scoprirsi in un corpo vivo
in quanto proprio, o se avvenga già in un’esperienza dell’altro. Le due
cose sembrano andare di pari passo: la psiche, se per essa continuiamo a intendere un qualche principio di animazione della semplice
materia, si trova nel campo problematico – analizzato comunque da
Husserl solo nelle Meditazioni cartesiane – che sta tra il corpo proprio
e gli altri corpi, ma senza che si riesca a trovarle, in ogni caso, un’origine. Non si capisce se è nell’esperienza del toccarsi o nell’esperienza
dell’altro che ha inizio questo respiro, questo soffio vitale.
La difficoltà s’incontra non a caso su un terreno che risulta spesso
insidioso per Husserl, laddove cioè viene affrontato il problema dell’intersoggettività, di un’uscita dal soggetto o dalla coscienza, ma anche di una sua scena originaria e “solitaria”. Si tratta della possibilità
dell’illuminazione di un mondo a partire da una coscienza ridotta,
quando quest’ultima vi si trova già inserita, e quando all’attività di
questa coscienza non si riesce a trovare un’origine del tutto attiva.
E infatti, se si parla di psiche in Husserl, comunque si voglia
intenderla, si ha a che fare ancora con qualcosa di correlativo, corrispettivo, parallelo – per usare i termini husserliani – alla coscienza.
Nelle Meditazioni cartesiane è detto espressamente che sia per la fenomenologia trascendentale, sia per la psicologia o la psicologia pura si
tratta di descrizioni della coscienza. Per entrambe si parte da un ego
cogito che è attivo, da un’attività di un io pensante la cui struttura
intenzionale (intenzionalità) permette di recuperare il perduto, di fare
presente il passato, e perciò di aversi in un’unità di vissuti, che è
un’unità di tempo.
I riferimenti alla corporeità e all’intersoggettività, a proposito
dello psichico, sembrano portare però nei luoghi di confine della coscienza e della sua attività. Bisogna entrare così in un ordine diverso
di problematiche, che finora abbiamo lambito, e che si offre nel mo447
mento in cui si prospetta la possibilità di intendere lo psichico anche
al di fuori della coscienza.
Si è detto che in Husserl, attraverso la riduzione, tutto si gioca
all’interno della temporalità dei soli vissuti di coscienza, la quale è
prima di tutto un’unità di tempo. Se si prendono però in considerazione i punti problematici della filosofia husserliana, si può vedere
come questo recupero del tempo, questo lavoro di ritenzione che rende la coscienza unitaria, ha ben poco di attivo. Nel momento in cui
la coscienza si costituisce lo fa appunto raccogliendosi, cioè a partire
da qualcosa che sta prima di lei, da un già costituito. La ritenzione
all’inizio è passività, mentre la rimemorazione è attiva, ma solo nella misura in cui ripete, ri-presenta, e perciò non è creativa. Cercare
l’origine attiva della coscienza, e quindi una sua produttività originale, rimanda paradossalmente a una assoluta passività.
Ciò però permette solo in piccola parte di prospettare la possibilità di un inconscio in Husserl2, perché sembra che in ogni caso ciò
che è al di là della coscienza è sempre qualcosa che la precede appena,
che la coglie appena impreparata, che quasi non sembra sorprenderla.
L’inconscio, se c’è, è comunque subito ricompreso, fa già parte, per
così dire, della storia della coscienza.
3. Oltre la coscienza
Se già, in questo modo, si sta operando indirettamente un confronto con Freud è perché, nonostante la chiara distanza teorica che
c’è tra la fenomenologia e la psicanalisi, vorrei tuttavia provare a
porle una di fronte all’altra e a specchiarle, vedere cosa l’una – la
psicanalisi – riflette sull’altra – la fenomenologia – e se questa nuova
luce ci possa indicare vie per andare al di là di Husserl o della lettera
husserliana.
Va notata innanzitutto una differenza, già sottintesa: in psicanalisi la psiche viene dichiaratamente estesa all’inconscio. Si può dire
anzi con Freud che «ciò a cui essa mira e che raggiunge non è altro
che la scoperta dell’inconscio nella vita psichica»3, e questo perché
con essa si ha per la prima volta la volontà di dare una senso ai sinto448
mi nevrotici attraverso l’interpretazione analitica. Vorrei sottolineare incidentalmente questo punto, perché lo ritroveremo altrove: si
vuole riconoscere un senso a qualcosa che è nascosto alla presa della
coscienza, che in un certo qual modo la precede o la supera.
Ora, nonostante si possa dire che per Husserl lo psichico è ancora
del tutto interno alla coscienza, anche se nei termini indicati, mentre il gesto inaugurale freudiano è l’estensione della vita psichica a
processi inconsci, nonostante ciò, non si può non rilevare una certa
analogia – o si potrebbe dire, di nuovo, un certo parallelismo – tra
il metodo psicanalitico e quello fenomenologico: entrambi operano,
nel senso comune del termine, una sorta di archeologia: la fenomenologia si propone di riattivare alcune operazioni, come i processi di
costituzione degli oggetti ideali o di un mondo intersoggetivamente
condiviso; la psicanalisi lavora per lo più su tracce psichiche dell’infanzia, anch’essa perciò opera attraverso la riattivazione di processi
che appartengono ad un passato. In entrambe si ha a che fare con
attività di temporalizzazione, il tempo obiettivo è frutto del «lavoro
dell’apparato psichico», e in effetti è proprio su questo punto, che si
gioca il parallelo ma anche il discrimine tra le due.
Nel saggio Freud e la scena della scrittura Jacques Derrida mostra,
analizzando la metaforica freudiana dal Progetto di una psicologia alla
Nota sul notes magico, come un problema costante nel pensiero psicanalitico sia la ricerca di una rappresentazione adeguata dell’apparato
psichico. La complicazione fondamentale sta nell’impossibilità di
racchiudere in un unico sistema, o semplicemente in un’unica scena,
la duplice esigenza di una illimitata facoltà di ricezione da una parte,
e di una permanente conservazione delle tracce dall’altra. Derrida
cita Freud:
Abbiamo ora motivo di introdurre una prima differenziazione all’estremità sensitiva [dell’apparato]. Nel nostro apparato psichico
permane una traccia (Spur) delle percezioni che si accostano a noi,
traccia che possiamo chiamare “traccia mnestica” (Erinnerungsspur).
Infatti chiamiamo “memoria” la funzione che si riferisce a questa
traccia. Se si accetta in pieno il disegno di collegare i processi psichici con sistemi, la traccia mnestica può consistere solo in mutamenti
permanenti negli elementi dei sistemi. Ora però, come è già stato
449
rilevato da altri, è evidentemente difficile che lo stesso sistema serbi
con fedeltà le modificazioni dei suoi elementi, e insieme affronti in
modo sempre vivo e ricettivo le nuove cause di mutamento (DERRIDA 1967b, p. 280).
di un’originarietà, «il mito di un’origine presente» come scrive Derrida, e continua: «per questa ragione è necessario intendere “originaria” sotto cancellatura, altrimenti si farebbe derivare la différance da
un’origine piena. È la non-origine che è originaria». E più avanti:
L’apparato psichico, proprio in quanto apparato, per funzionare
dovrebbe essere in grado di subire continue alterazioni e modificazioni, cancellare le impressioni (come sulla lavagna) e al contempo
conservarne (su un’altra lastra, una psyche o tabula rasa, appunto,
come diceva Aristotele) le tracce. L’unica possibilità è la separazione dei due sistemi, da una parte la memoria, “luogo” – o non-luogo – dell’inconscio, dall’altra la coscienza, superficie della ricezione
pura, con la conseguente difficoltà di trovare una configurazione che
li contenga entrambi, e cioè che ne colleghi il funzionamento.
Ora, come si è detto, in Husserl il lavoro di temporalizzazione,
da parte dell’apparato psichico, ha un certo grado di passività, un
sospetto di inconscio – si potrebbe dire – nella misura in cui questo
rientra comunque nell’attività di una coscienza. Un sospetto che sussiste a partire dal fatto che la coscienza, come in Freud, nella sua opera di ritenzione, deve avere già un archivio, una sorta di deposito da
cui attingere, che ha trattenuto l’“ora” dell’impressione, e che quindi
in un certo senso la precede. Anche in Husserl, a ben guardare, ci si
imbatte in una sorta di irriducibilità di ciò che sembra esserci già da
sempre prima della coscienza.
Seguendo l’analisi di Derrida, ci si potrebbe riferire allora al concetto freudiano di Nachträglichkeit, e cioè a quell’“effetto ritardato”
originario e irriducibile con cui la coscienza viene sempre alla presenza, e che lo rende irriducibile proprio alla presenza. Questa, dice
Derrida, è una scoperta di Freud le cui conseguenze superano la sola
psicanalisi dell’individuo. Il necessario ricorso alla ripetizione o alla
ritenzione non è il semplice recupero di qualcosa che è stato presente,
che in un passato si è dato nella forma di una presenza4. Il ritardo
qui è irriducibile, un differire della coscienza entro se stessa, una
dilazione – e qui risuona il senso della différance. Dire che il ritardo,
il differimento, il prima di una presenza è irriducibile significa dire
che è originario, se non fosse che così si cancella anche la possibilità
Non c’è testo presente in generale e non c’è neppure testo presentepassato, una testo passato come essente stato-presente. Il testo non
è pensabile nella forma, originaria o modificata, della presenza. Il
testo inconscio è già intessuto di tracce pure, di differenze in cui si
uniscono il senso e la forza, testo che non è presente in nessun posto,
costituito da archivi che sono già da sempre delle trascrizioni. Degli
stampi originari. Tutto comincia con la riproduzione. Già da sempre,
cioè depositi di un senso che non è mai stato presente, il cui presente
significato è sempre ricostituito a posteriori, nachträglich, in un secondo momento, in modo supplementare (DERRIDA 1967b, p. 263).
450
Derrida parla di testo, di traccia, di scrittura. Ciò che precede
l’opera di presentificazione della coscienza, la sua passività, il suo
inconscio, la sua memoria mai recuperabile, è, l’abbiamo visto, un
archivio, un deposito di testi scritti. Accenno solo alla possibilità di
intendere qui il testo come corpo, come corpo scritto. Quella corporeità e quella materialità dal cui legame con la psiche e lo psichico
eravamo partiti.
Si parla di «un passato che non è mai stato presente» – formula
che, anticipo, come fa notare Derrida, Emmanuel Levinas usa di continuo – perché non è possibile trovare una presenza piena: il passato
non si presenta se non sotto forma di tracce, che rimandano ancora
indietro, perché sono cancellature di tracce, e cancellature di altre
cancellature. Si capisce allora perché l’estensione dello psichico all’inconscio in Freud, a parere di Derrida, inauguri in un certo senso la
rottura o la decostruzione della «metafisica della presenza». Accenno
allora ad un passo del saggio sulla différance che di questa rottura è la
testimonianza più diretta, un passo in cui si parla proprio di Freud:
Una certa alterità – Freud le dà il nome metafisico di inconscio – è
definitivamente sottratta ad ogni processo di presentazione attraverso il quale noi potremmo chiamarla a comparire di persona. In
451
questo contesto e sotto questo nome, l’inconscio non è, come è noto,
una presenza nascosta a se stessa, virtuale, potenziale. Esso si differisce, che vuol dire senza dubbio che esso si intesse di differenze e
anche che invia, che delega dei rappresentanti, dei delegati; ma non
c’è possibilità che il delegante “esista”, sia presente, sia “esso stesso”
da qualche parte ancor meno che divenga cosciente. […] Con l’alterità dell’“inconscio”, abbiamo a che fare non con degli orizzonti di
presenti modificati – passati o avvenire – ma con un “passato”che
non è mai stato presente e che non lo sarà mai, di cui l’“a-venire”
non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile rispetto a
quello della ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente
(DERRIDA 1972a, p. 49).
Torniamo ora al tema della psiche. L’inconscio – in Husserl, se
c’è, ed in Freud – ci ha portato su una strada diversa da quella da cui
si era partiti. Ci ha portato fuori dalla coscienza e dalla presenza, da
quella che Derrida chiama «metafisica della presenza». All’interno
dello psichico quindi si apre uno spazio che accoglie un al di là della
presenza, e ciò attraverso una temporalità che sfugge alla chiusura in
un’unità capace di raccogliersi, comprendersi, chiudersi in un sistema in cui tutti i pezzi si tengano.
La distinzione, che riguarda la psiche, tra conscio e inconscio ha
segnato perciò anche un certo superamento della fenomenologia husserliana, nonostante da essa si sia partiti. Ma questo significa anche
un oltrepassamento della fenomenologia tout court? Io credo di no, e
credo che su questa strada ci sia la possibilità di incontrare di nuovo
la fenomenologia sotto altre sembianze, quelle di un altro filosofo,
Emmanuel Levinas, ammesso che si possa chiamare Levinas un fenomenologo. Certo, si tratterà di andare oltre Husserl, che è infatti
bersaglio continuo di Levinas, ma solo perché è al contempo un punto di riferimento costante.
4. Trascendenza
Ad introdurre Levinas ci dà una mano Derrida, che, ancora nel
452
saggio sulla différance, e poche righe dopo i passi citati, lo mette insieme a Nietzsche e a Freud per una specie di riconoscenza:
Un passato che non è mai stato presente, questa formula è quella con
la quale Emmanuel Levinas, seguendo delle vie che non sono certo
quelle della psicanalisi, qualifica la traccia e l’enigma dell’alterità
assoluta: l’altro. Almeno in questi limiti e da questo punto di vista,
il pensiero della différance implica tutta la critica dell’ontologia classica intrapresa da Levinas (DERRIDA 1972a, p. 50).
Vorrei mostrare allora come, proprio nell’opera levinasiana, il
tema della psiche sia ripreso – in maniera particolare in due testi:
Altrimenti che essere (1974) e Di Dio che viene all’idea (1982) – sotto
la forma di una strana nozione, quella di «psichismo»; con questa,
come si vedrà, ci si ritroverà all’interno delle stesse questioni fin qui
aperte. D’altronde è in generale tutto il gesto filosofico levinasiano
che si inserisce, ci diceva Derrida, nello spazio problematico aperto.
Si tratta, prima di tutto, di illustrare questo senso più generale.
La critica all’ontologia classica operata da Levinas si rivolge a un
atteggiamento che a suo parere pervade quasi l’intera concettualità
filosofica e il suo linguaggio. «Un passato che non è mai stato presente» è solo una delle formule che egli usa per mettere in moto
un sovvertimento di questa tradizione. Levinas parla di alterità, di
trascendenza, di passività intendendo con ciò la possibilità di superare un pensiero che resta chiuso, immanente, autoriferito. Incapace
di alterità anzitutto perché incapace di accogliere l’alterità assoluta
dell’altro, che in prima istanza è l’altro uomo. Levinas mette l’Etica
prima di ogni sapere, all’origine del senso, e ciò a significare, per
dirla in altro modo, che il senso non ha un origine: in generale qualsiasi orizzonte di sensatezza ha un’alterità assoluta alla base, al fondamento, prima di costituirsi come un sapere, un essere, una scienza,
una coscienza, un’unità o una sintesi. È in questo senso che bisogna
anzitutto pensare il richiamo etico di Levinas.
Ancora una volta ci si imbatte in un’alterità all’origine, che non
fa altro che indicare l’originarietà della non-origine. All’origine non
c’è un’origine, come diceva Derrida, e Levinas arriverà a parlare, in
453
Altrimenti che essere, di an-archia. Qui c’è all’opera una logica che riporta o riduce di continuo il darsi di qualcosa a se stesso, la presenza
di sé a sé, a ciò che c’è prima, che viene prima, che quindi scuote la
stabilità di una presenza, come se l’avesse già sempre scossa. E allora
la «passività più passiva di ogni passività» – altra formula – non è
altro che il continuo irriducibile rimando a quest’impossibilità di
un’origine attiva del soggetto.
Si tratta della stessa passività che abbiamo trovato nella psiche nel
passaggio da Husserl e Freud. Dello stesso “inconscio”, a patto che
lo si legga con Derrida non come una presenza nascosta a se stessa,
ma come un’alterità assoluta, e non assoluta perché divisa o separata
dalla presenza, bensì perché le è invece sempre attaccata, le sta, per
così dire, “alle costole”. L’al di là della presenza è uno sfasamento o
una traccia, cioè il segno di un continuo rimando a un’altra traccia
cancellata. Questo termine, traccia, appartiene tanto a Freud e a Derrida quanto a Levinas. E per di più Levinas parlerà della chiamata
obbligata alla responsabilità per l’altro come un essere «intaccati»,
segnati e così assegnati. Come se questo segno di un passato mai presente, fosse stato fatto da un altro uomo nella sua indigenza; e come
se questa traccia fosse sul corpo, come una cicatrice. Ancora il corpo
e l’altro, e ci torneremo.
Allora, così come non bisogna fare dell’inconscio una presenza nascosta a se stessa, non bisogna neanche interpretare i richiami levinasiani alla passività, all’alterità, all’infinito, all’assoluto, ad un passato
irrecuperabile, come qualcosa che ha senso solo come corrispettivo negativo dell’immanenza, della totalità, dell’attività della coscienza. Qui
non si sta negando, si stanno soltanto indicando le conseguenze di un
certo modo di darsi del pensiero e della filosofia che però non è il solo, e
che nasconde qualcosa. Si tratta di riportare al discorso filosofico degli
orizzonti di senso dimenticati o inesplorati, come, ad esempio, dare
senso a qualcosa che va al di là della coscienza – come faceva anche
Freud. Per Levinas questo significa riuscire a far valere come sensato,
e quindi riuscire a dire, ciò che va al di là della chiusura sistematica
caratterizzante quello che viene chiamato «pensiero dell’essere», ma
significa anche, come ci dice Derrida, una critica alla base della metafisica della presenza. Per come li intende Levinas, il «pensiero dell’es454
sere» e la «metafisica della presenza» sono la stessa cosa, vi rientrano
Husserl e Heidegger come gran parte della tradizione filosofica.
Ma, nonostante ciò, sembra spesso Husserl l’obiettivo polemico
più chiaro, e questo perché è al contempo il punto di partenza del
pensiero levinasiano. A questo proposito vorrei prendere in considerazione la prefazione ai saggi contenuti in Di Dio che viene all’idea.
Qui Levinas marca con forza la propria distanza da Husserl attraverso
uno stravolgimento dell’origine “cartesiana” della fenomenologia: se
quest’ultima infatti recuperava da Cartesio il cogito, Levinas riprende invece con enfasi quell’idea-d’infinito che, secondo Cartesio, Dio
avrebbe deposto in noi, vedendo in essa proprio la possibilità di superare il cogito, o, come dice Levinas, di un pensiero che pensa al di
là di ciò che può contenere, al di là della sua capacità di cogito. In
altre parole, il sensato non deve essere ridotto alla sola coscienza di
un soggetto, alla sola intenzionalità tematizzante. Ciò non significa
però, come già ho notato, una pura negazione del funzionamento
della fenomenologia husserliana, negazione che resterebbe legata alla
stessa logica. Si legge infatti:
Ma bisogna distinguere tra lo scacco puro dalla non realizzazione
della visione (mira – visée) intenzionale, che apparterrebbe ancora alla
finalità, alla famosa teleologia della “coscienza trascendentale” votata
ad un termine, da una parte, e la “deportazione”, o la trascendenza al
di là di ogni fine e di ogni finalità dall’altra. […] Idea dell’Infinito
– pensiero svincolato dalla coscienza, ma non secondo il concetto negativo dell’inconscio, ma forse secondo il pensiero più profondamente pensato, quello del dis-interessamento: relazione senza influsso su
un essere, né anticipazione d’essere, ma pura pazienza. Nella passività de-ferenza, al di là di tutto ciò di cui si prende carico; de-ferenza
irreversibile come il tempo (LEVINAS 1982a, p. 11).
Levinas dice: «non secondo il concetto negativo dell’inconscio»,
andando incontro a ciò che diceva Derrida su Freud, cioè mostrando
ancora che, se c’è da pensare un “inconscio”, esso non dovrà essere
inteso “negativamente”, come una coscienza nascosta a se stessa, una
sua controparte, che in quanto tale sarebbe ancora presente, si troverebbe da qualche parte.
455
Ora, se l’intento è quello di fare spazio ad un di più di senso,
ad un «pensiero che pensi più di ciò che pensa», e di allargare così
l’intelligibile oltre il semplice ricorso ad una coscienza o all’essere,
ciò che bisogna innanzitutto operare è una rottura di quello che per
Levinas è un sistema di senso chiuso in se stesso, incapace di alterità.
Questo sistema bisogna trascenderlo: ciò equivale a trovare un senso
all’al di là dell’essere, a mettere in gioco una certa nozione di trascendenza. Con essa Levinas intende la semplice possibilità che si riesca
a significare, o anche solo a dire, qualcosa che esca da un pensiero
che si è cristallizzato come sistema chiuso di significazioni. Ma non
è affatto facile, non a caso il problema si gioca tutto già sul piano
della dicibilità. I primi due paragrafi del saggio contenuto sempre
in Di Dio che viene all’idea, intitolato Trascendenza e male, introducono proprio la questione della trascendenza e il suo rapporto con la
fenomenologia:
Come e dove si produce nello psichismo dell’esperienza la rottura
maggiore capace di accreditare un altro come irriducibilmente altro,
e, in questo senso, come al di là, allorquando, nel tessuto del pensabile tematizzato, ogni lacerazione conserva e riannoda la trama del
medesimo? […] Come il trascendente può significare il “tutt’altro”,
facile da dire, certo, ma che il fondo comune del pensabile del discorso restituisce al mondo e nel mondo? Non basta che nel pensabile si
accusi una differenza o si apra una contraddizione perché si spalanchi
un intervallo a misura della trascendenza (LEVINAS 1982a, p. 151).
Levinas invita, prima di tutto, a riconoscere alla trascendenza
un’assoluta consistenza semantica, cioè a pensarla come slegata, non
necessariamente relativa a ciò che essa trascende e così reinserita nel
«tessuto del pensabile tematizzato».
Ma ciò che va soprattutto notato è che Levinas usa la parola “psichismo” proprio laddove prospetta la possibilità di una rottura. Ed
è qui che il metodo fenomenologico husserliano viene ripreso alla
base e ad esso viene riconosciuto un debito rilevante, nonostante la
decisa presa di distanza, anzi proprio, paradossalmente, in funzione
anti-husserliana:
456
Penso che, su questi punti, la fenomenologia husserliana abbia aperto nuove possibilità. Essa afferma la solidarietà rigorosa tra l’intelligibile e le modalità psichiche attraverso cui e in cui esso è pensato:
non qualsiasi senso è accessibile a qualsiasi pensiero. […] La fenomenologia ci ha insegnato così a non esplicitare un senso pensato
unicamente o principalmente a partire dai suoi rapporti con altri
sensi oggettivi, pena la relativizzazione di ogni senso e la chiusura
di ogni significazione nel sistema chiuso senza uscite. La fenomenologia ci ha insegnato ad esplicare un senso a partire dallo psichismo
irriducibile in cui è dato, a ricercare così il senso nella sua origine, a
ricercare il senso originario (LEVINAS 1982a, pp. 151-152).
La struttura intenzionale della coscienza, la correlazione husserliana tra noesi e noema, ha permesso, secondo Levinas, un grande passo
in avanti in direzione di una significatività della trascendenza. Una
solidarietà strutturale tra ogni intelligibile, ogni senso, e le modalità
psichiche in cui è pensato comporta che non a tutti i pensieri siano
accessibili tutti i contenuti: in termini husserliani, la coscienza che
intenziona qualcosa non è la stessa che intenziona qualcos’altro. Se
ci sono modalità psichiche diverse per pensare diversi sensi significa
che ognuna di queste modalità, cioè ogni psichismo, è irriducibile,
perciò non riconducibile al legame o alla relazione con altri sensi.
Il termine “psichismo” è dunque preso qui in un senso peculiare,
ma estremamente importante. Con esso Levinas intende all’inizio solo
le modalità psichiche che sono uno dei lati della correlazione intenzionale. In questo senso sembra corrispondere del tutto alla coscienza
husserliana. Ma il carattere irriducibile di queste modalità psichiche,
diverse in ogni atto intenzionale, lungi dal significare l’impossibilità
di uscire dalla coscienza, indica invece proprio la via d’uscita. È come
se Levinas stesse dicendo che la struttura intenzionale non è un’attività della coscienza – non è un’attività e non è della coscienza – anzi
è il dispositivo che, se si prende in considerazione un vissuto nuovo,
eccezionale, può far esplodere la catena di significazioni per la quale
ogni senso è necessariamente legato agli altri sensi. È importante qui
rilevare soprattutto come sia proprio attraverso una particolare ripresa del metodo fenomenologico che Levinas riesca ad indicare una
via per uscire dal sistema chiuso, orizzontale, di significazioni che
457
rende impraticabile un pensiero della trascendenza assoluta. Resta
da capire se questa ripresa indichi una possibile sopravvivenza della
fenomenologia o una sua demolizione dall’interno.
5. Psichismo dell’altro
Come ci si può aspettare sarà la responsabilità infinita verso l’Altro quel vissuto eccezionale, quello psichismo irriducibile che rompe l’essere e la presenza, indicando una pre-originarietà, un’impossibilità di trovare un’origine e una stabilità. Lo psichismo allora è
principalmente, per Levinas, l’esperienza dell’altro. È quindi da qui
che vorrei ripartire per tornare indietro ad un altro testo, Altrimenti
che essere, opera precedente a quella finora trattata e fondamentale
nel percorso filosofico levinasiano. Il terzo capitolo, dedicato al tema
della sensibilità, e in particolare il paragrafo intitolato Sensibilità e
psichismo, è l’unico luogo dell’opera levinasiana in cui viene preso in
considerazione direttamente questo termine e, per di più, proprio
laddove si parla del sensibile, cioè del piano che, almeno tradizionalmente, è in più stretto contatto con la corporeità. Di nuovo, come in
Husserl, parlando di psiche ci si ritrova tra due poli: corporeità ed
intersoggettività, il corpo e gli altri.
Nelle stesso spazio, tra questi due poli, Levinas si muove però diversamente, segnando quella distanza da Husserl che non gli impedisce di porre la sua filosofia ancora all’interno della fenomenologia.
Nel paragrafo precedente Levinas analizza il rapporto tra sensibilità
e significazione, sostenendo che nel pensiero filosofico e poi in particolare in quello fenomenologico si tende a considerare la sensazione
– ad esempio gustativa o olfattiva – come una conoscenza di un sapore o di un odore. Si opera cioè sempre una tematizzazione del sentito,
e questo perché il pensiero dispiega di fronte a sé ciò a cui attribuisce
senso, assegnandogli la proprietà di manifestarsi. È la manifestazione
l’obiettivo polemico, dal momento che, per Levinas, il manifestarsi
di qualcosa ad un pensiero non è altro che il potere che quest’ultimo
si attribuisce di fare luce e perciò di comprendere in una visione. Anche Husserl, con le dovute differenze, partecipa a questo gioco:
458
Malgrado il grande contributo della filosofia husserliana alla scoperta, attraverso la nozione di intenzionalità neo-teorica, di significazioni diverse da quelle dell’apparire (e della soggettività come fonte
della significazione e come definentesi in qualche modo attraverso
questo sgorgare e questa connessione dei sensi), un’analogia fondamentale è costantemente affermata da Husserl tra la coscienza di…,
cognitiva, da una parte, e le intenzioni assiologiche o pratiche dall’altra (LEVINAS 1974, p. 84).
E poco più avanti:
La struttura dell’intenzionalità rimane ancora quella del pensiero e
della comprensione. L’affettivo rimane informazione (LEVINAS 1974,
p. 85).
Per Levinas, questa interpretazione della significazione sensibile a
partire dalla «coscienza di…», per quanto poco intellettualista la si
voglia, non rende conto del sensibile, e questo è esemplificato dalla
dipendenza ancora totale al tradizionale videocentrismo, al privilegio
della visione5. Bisogna invece mostrare un modo di significare delle
sensazioni che descriva il loro psichismo prima di identificarlo con
la coscienza tematizzante. Per Levinas insomma, già e soprattutto al
livello della sensibilità, proprio nella misura in cui essa non è più un
livello, o un grado di conoscenza, bisogna distinguere lo psichico dal
coscienziale. Ancora una volta, lo psichismo non si esaurisce nella
coscienza di qualcosa.
Con il termine psichismo, come si è visto, Levinas allude primariamente all’inversione di senso, o alla pre-originarietà, della responsabilità etica a cui mi chiama l’altro uomo nella sua assoluta alterità.
È da qui che bisogna ripartire anche per ridefinire la sensibilità, e
così essa sarà detta in termini di vulnerabilità, spoliazione, dolore
della carne, ma anche nei termini del godimento, necessario a che
questa sofferenza sia sentita come tale. In ogni caso qui si parla del
corpo e di ciò che prima di tutto lo rende vivo.
Quello che è importante, allora, è che l’animazione che la parola
“psiche” indica, il soffio vitale che anima il corpo altrimenti inerte,
è per Levinas la traccia, già sempre sentita, di un alterità. È lo sfa459
samento dell’identità, l’altro nel medesimo, l’apertura del soggetto
all’infinito della sua responsabilità per Altri, ciò che dà senso anche
alla sensazioni corporee, e fa sentire questo corpo come vivo, animato, psichico. Levinas arriva e descrivere, in un’inedita prossimità
al Freud di cui ci parlava Derrida, il principio d’animazione stesso
come una malattia dell’identità, in un accostamento tra l’anima e la
follia, tra lo psichismo e la psicosi, che sfuma i confini stessi della
soggettività razionale, individuando nel legame etico pre-originario
queste tracce di ritardo, di inquietudine:
Nelle forme della responsabilità, lo psichismo dell’anima è l’altro
in me; malattia dell’identità – accusa a sé, il medesimo per l’altro,
medesimo attraverso l’altro6. Qui pro quo – sostituzione –straordinario, né inganno, né verità, intelligibilità preliminare della significazione ma sconvolgimento dell’ordine dell’essere tematizzabile nel
Detto, della simultaneità e della reciprocità delle relazioni dette. Significazione possibile unicamente come incarnazione. L’animazione,
il pneuma stesso dello psichismo, l’alterità nell’identità, è l’identità
di un corpo che si espone all’altro, che si fa “per l’altro”: la possibilità del dare (LEVINAS 1974, p. 86).
Che un corpo sia animato, o un’identità sia incarnata, non è che il
segno di uno sfasamento, di una dia-cronia, che mi fa trovare sempre
l’altro prima di me stesso. Per Levinas è questa la significazione della
sensibilità. Che “poi” essa sia “modificata” in coscienza di qualcosa,
in tranquilla riflessione sui sensi, sulla propria percezione, e se, in un
certo senso, il pensiero è da sempre tale da ricadere in questa tematizzazione, ciò non toglie che, in qualche modo, ci venga indicato
questo senso pre-originario che è anche la pre-originarietà del senso,
l’impossibilità di rinvenire in una traccia una presenza.
Lo psichismo non significa più come l’uno-per-l’altro, ma si neutralizza in serenità, in equità: come se la coscienza appartenesse alla
simultaneità del Detto, del tema, dell’essere. […] Da quel momento
tutto lo psichismo si lascia interpretare come sapere; […] Da quel
momento lo psichismo latente dell’intenzionalità, la cui correlazione si accorda con la simultaneità dell’atto di coscienza e del suo cor460
relativo intenzionale, si mostra nel sistema del Detto: la fame è fame
del commestibile, la percezione è coscienza del percepito, così come
“il quattro è il doppio di due”. La descrizione fenomenologica – cioè
riduttrice – deve diffidare di una tale presentazione dello psichico,
come se esso costituisse un sistema, un insieme di specificazioni o di
variazioni della coscienza di… che dimentica la giustizia in cui questa simultaneità è generata – giustizia che rinvia ad uno psichismo
certamente non in quanto tematizzazione, ma in quanto diacronia
del medesimo e dell’altro nella sensibilità (LEVINAS 1974, p. 89).
6. Il respiro e la voce
Si ritrova perciò quella dia-cronia, quello sfasamento, quell’impossibilità di racchiudere una presenza come attiva e originaria. Caratteristico di questo percorso è stato il suo procedere costantemente
in quello spazio tra corporeità e intersoggettività, tra relazione al proprio corpo e relazione all’altro, a cui il tema della psiche e dello psichico rimandano costantemente. Se c’è qualcosa che si è guadagnato
è proprio questa dimensione plurale: partendo dal riferimento ad un
corpo animato, che possiede un’anima, si è giunti a parlare di un altro
corpo che lo anima, dell’animazione come un dare pre-originario.
Per concludere, solo alcune considerazioni che riguardano proprio
i sensi, il legame tra senso e sensi. Si è fatto cenno ai privilegi che la
vista avrebbe avuto fin dall’origine – greca – della filosofia, nelle parole che la dicono: teoria, idea, evidenza, illuminazione, svelamento
ecc. Così come si è parlato di una priorità del senso del tatto quando, in Husserl, un io si riconosce come corpo e si riconosce vivo. Si
potrebbe forse anche prendere in considerazione un’altra funzione
corporea che non è però un senso, e cioè la voce, dal momento che
la psiche significa primariamente respiro e che respirando si parla.
Sarebbe, questo della voce, una sorta di tema nascosto nel pensiero
di Levinas, in cui viene criticato il videocentrismo e si accenna al
tema della respirazione, e in cui si parla al contempo di animazione
dell’altro nel medesimo e del Dire come espressione della responsabilità per l’altro. Nascosto però, perché, anche in considerazione
dell’ispirazione ebraica della filosofia levinasiana, qui la voce si fa
461
subito immateriale, subito spirito, e se ne nasconde l’origine carnale
e corporea.
Derrida critica il fonologocentrismo, il privilegio della voce, proprio in quanto sembra il più immateriale, quasi del tutto spirituale,
dei prodotti corporei: aria appena modificata. Questo suo carattere
avrebbe portato a una certa connivenza con l’opera di idealizzazione
operata dalla filosofia: la voce si produce, dice Derrida, come un’auto-affezione che si dice pura, perché non incontra nessun ostacolo, è
immateriale, non passa per il mondo, non si abbandona a esso, e perciò sembra produrre un mondo immediatamente presente al cogito
e alla coscienza7. Da qui anche la complicità che il privilegio della
voce ha sempre intrattenuto con la metafisica della presenza. Derrida
vi contrappone la spaziatura della scrittura. Questa, come si è visto,
passa per il mondo, per un corpo, un corpo scritto, appunto.
Ma il corpo scritto è ancora vivo? Anche Derrida parla della voce
come qualcosa di immateriale. Ma come l’anima è solo aria senza un
corpo, così la voce è davvero solo aria se non si considera la gola, la
bocca, la lingua, i denti e le labbra che ne modificano e ostacolano il
passaggio, se non si considera che essa esce da carne viva.
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le quali una volta furono necessariamente coscienti e da allora possono essere diventate inconsce per dimenticanza. Il “per che cosa” del sintomo, la sua tendenza, è invece ogni volta un processo endopsichico, che può anche all’inizio essere
divenuto cosciente ma che può, con altrettanta probabilità, non essere mai stato
cosciente ed essere rimasto nell’inconscio da sempre. Non è molto importante se
l’amnesia ha colpito anche il “da che cosa”, le esperienze sulle quali si fonda il
sintomo, come avviene nell’isteria; è il “verso che cosa”, la tendenza del sintomo,
la quale può essere stata inconscia fin dall’inizio, che ne prova la dipendenza
dall’inconscio, e non meno saldamente nella nevrosi ossessiva che nell’isteria»
(Ivi, p. 258).
Levinas dice: «Interpretata come apertura di disvelamento, come coscienza di…
la sensibilità sarebbe già ridotta alla visione, all’idea, all’intuizione – sincronia
di elementi tematizzati e la loro simultaneità con lo sguardo» (LEVINAS 1974,
p. 84).
Qui Levinas rimanda a una nota in cui scrive: «L’Anima è l’altro in me. Lo psichismo, l’uno-per-l’altro, può essere possesso e psicosi; l’anima è già seme di follia»
(LEVINAS 1974, p. 86).
Si veda DERRIDA 1967c (in particolare il sesto capitolo: La voce che mantiene il
silenzio).
«Esse (le realtà) sono costituite non soltanto in relazione con un io puro e con
un flusso di coscienza che ha le sua molteplicità di apparizioni, ma anche in
relazione con la coscienza intersoggettiva, cioè con un’aperta molteplicità di io
puri monadicamente differenziati, cioè con i loro flussi di coscienza, i quali sono
unificati, attraverso la reciproca enteropatia, in una connessione che costituisce
oggettività intersoggettive» (HUSSERL 1952a, p. 115).
A questo proposito rimando alla relazione sulla voce fondamento, e in particolare
alla parte dedicata alle Lezioni sulla sintesi passiva.
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, prima e seconda seria di lezioni, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 351.
La dipendenza di un sintomo da processi psichici “inconsci” può essere davvero
ipotizzabile solo se si intende l’inconscio – anche – come qualcosa che non è
mai passato per la coscienza. A questo proposito cito ancora da Introduzione alla
psicanalisi: «Come “senso” di un sintomo abbiamo inteso contemporaneamente
due cose: il suo “da che cosa”, e il suo “verso che cosa” o “per che cosa”, ossia le
impressioni e gli episodi da cui trae origine e gli intenti cui serve. Il “da che
cosa” del sintomo si risolve quindi in impressioni che sono venute dall’esterno,
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463
da questo insieme di appunti, vorremo qui toccare alcuni momenti
della fenomenologia husserliana che precedono questo ampio ripensamento, anche per poter individuare quelle linee di continuità e
divergenza che pur attraversano gli anni della riflessione husserliana, e che vanno dalla Filosofia dell’aritmetica fino al momento in cui
lo stesso Husserl si decide per una ripresa della Sesta ricerca logica.
La linea di lettura che intendiamo seguire punterà in senso stretto
su una fenomenologia del segno, nel suo valore semiotico, nella sua
relazione correlativa con i significati che quel segno è chiamato a
rappresentare.
SEGNO
di Filippo Silvestri
Il problema del segno nella fenomenologia di Husserl interessa
una curva di tempo molto ampia: dalla Filosofia dell’Aritmetica (1891)
e dalla prima edizione delle Ricerche logiche (1900-1901) la ricerca si
spinge fino alle ultime considerazioni contenute nella famosa Appendice III (pubblicata nel 1939 da Eugen Fink col titolo Sull’origine della
geometria) al testo della Crisi. Il quadro descritto è oggi completato da
una serie di appunti, redatti da Husserl per lo più tra l’estate del 1913
e l’inizio dell’estate del 1914, a cui lo stesso Husserl si dedica subito
dopo la pubblicazione di Idee I (1913), in vista di una nuova edizione
delle Ricerche logiche. Il nucleo centrale di questi appunti è costituito
da un progetto di riscrittura della Sesta ricerca logica, con particolare
riferimento ai primi cinque paragrafi della stessa, incentrati su una
serie di considerazioni riconducibili a un’autentica fenomenologia
del segno, con una ripresa critica di alcune ragioni già esposte nella
Prima ricerca logica. La recente edizione di questi appunti nel volume
XX/2 della Husserliana1 offre oggi, a chi è interessato a una fenomenologia del segno di matrice husserliana, un’ampia documentazione
che va ad integrare in senso storico e teoretico il materiale di cui già
da tempo si dispone.
Prima di addentrarci nello studio di almeno alcuni motivi offerti
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1. Rappresentazioni proprie e improprie.
In questa prospettiva abbiamo deciso di prendere spunto da un
manoscritto husserliano (K I 55), risalente al 1893-1894, in cui
Husserl ragiona sul problema fenomenologico della “rappresentanza” (Repräsentation), affrontando lo stesso in prima battuta da un punto di vista semiotico, come emerge da quanto segue:
Con segno intendiamo un contenuto che esercita la funzione particolare di volgere primariamente il nostro rappresentare verso qualcosa d’altro, o verso un contenuto o verso un decorso di contenuti
disposizionalmente unificato, o verso certi pensieri costruiti su questo (HUSSERL 1979, p. 41).
Dunque ciò che caratterizza in modo essenziale la fenomenologia
di un segno è un insieme di vissuti legati tra loro, dove, ad una prima
intuizione semiotica, segue necessariamente un vissuto caratterizzato
da una tensione (un autentico in-tendere) verso il significato di quel
segno, per cui l’attenzione, l’interesse semiotico si sposta dal segno
al suo significato, seguendo una direzione dettata dalla stessa costituzione del segno, in ragione della sua funzione.2 Già nella Filosofia
dell’aritmetica Husserl, sempre ragionando sulla differenza essenziale
che passa tra rappresentazioni simboliche e rappresentazioni proprie, aveva
scritto:
465
Innanzi tutto vorremmo spiegare, in vista di quanto verrà esposto
in seguito, la fondamentale differenza tra rappresentazioni simboliche
e rappresentazioni proprie. Una rappresentazione simbolica o impropria, come già indica il nome, è una rappresentazione con segni. Se
un contenuto non ci viene dato direttamente per quello che è, ma
solo in maniera indiretta attraverso dei segni che lo caratterizzano in
modo univoco, allora di esso, anziché avere una rappresentazione propria, si ha una rappresentazione simbolica. Abbiamo, per esempio,
una rappresentazione propria dell’apparire di una casa se guardiamo
davvero la casa stessa; abbiamo una rappresentazione simbolica se
invece qualcuno ci fornisce di essa una caratterizzazione indiretta: la
casa all’angolo di questa o quella strada, su questo o quel lato della
strada (HUSSERL 1970a, p. 235).
Dunque, al tempo di Filosofia dell’Aritmetica la fenomenologia
delle rappresentazioni proprie ed improprie, di matrice brentaniana,
trovava una sua esemplificazione evidente, appoggiandosi esplicitamente ad una fenomenologia del segno. Da ciò conseguiva, nella dinamica aperta tra i due diversi tipi di rappresentazione, in un orizzonte semiotico, una tensione costituita da un in-tendere compreso tra il
vissuto di un segno e l’intuizione corrispondente, propria, del significato di quel segno: chi vive un segno, in-tende verso il suo significato.
Ovviamente il discorso fatto per il segno, vale a maggior ragione su
un piano meramente percettivo, dove il decorso dei contenuti della
coscienza si svolge nella parzialità delle prospettive da cui si guarda
un “oggetto”: i contenuti presenti nella coscienza sono “rappresentazioni” di quanto non è ancora dato, verso cui tuttavia “indicano” in
ragione di quanto emerge. Come nel caso dei segni, anche sul piano
percettivo, il rapporto tra i contenuti di un’esperienza è regolato da
una relazione fatta di presenze rette da un “interesse impaziente”
che spinge verso ciò che è ancora assente. Questo rimando al di là del
presente è un modo della coscienza, sia nel momento in cui percepisce, sia nel momento in cui fa uso di segni. Più in profondità, ovvero
nella prospettiva husserliana su uno stesso piano fenomenologico,
è tutta la coscienza interna del tempo delle cose ad essere strutturata
secondo i modi di una protensione e di una correlativa ritenzione, oltre
i modi della presenza della coscienza. Le complicazioni fenomenolo466
giche legate a questi casi diversi non ci consentono un’analisi attenta
delle differenze insite nelle fenomenologie di cui abbiamo detto. Per
tutte queste ragioni riteniamo opportuno rifarci ad una definzione
di “rappresentanza”, che includa una fenomenologia del segno, con
tutte le analogie a cui abbiamo fatto cenno:
Rappresentare, in questo secondo senso della rappresentanza, come
forse lo potremmo chiamare, non significa il semplice esser-rivolto
a un contenuto presente, ma un rinviare a qualcosa che non è affatto
sempre presente, intendere quest’ultimo, determinarlo adeguatamente, stare in sostituzione di esso (HUSSERL 1979, p. 41).
E di contro, e se si vuole sempre nell’ordine delle distinzioni tra
rappresentazioni proprie ed improprie:
l’intuizione non è una “rappresentazione” nel senso improprio di
una mera supplenza (Stellvertretung) mediante frazioni, immagini,
segni e simili, o di una semplice determinazione attraverso note caratteristiche – mezzi attraverso i quali ciò che è rappresentato non è
in realtà posto davanti a noi – ma è una rappresentazione in un senso
più proprio, la quale pone davanti a noi realmente il suo oggetto,
così che esso stesso è il sostrato dell’attività psichica (HUSSERL 1979,
p. 67).
2. I doveri di un Durchgangsbewusstsein.
Questa serie di puntualizzazioni abbiamo ritenuto necessario farla, perché decisive in un’ottica fenomenologica sul problema “segno”,
almeno per come la stessa si sviluppa, articolandosi negli studi husserliani. Dalla Filosofia dell’aritmetica, a Semiotik, alle Ricerche logiche,
fino alla serie di appunti raccolti ora in Husserliana XX/2, Husserl
inquadra il discorso semiotico, declinato in senso fenomenologico, in
una prospettiva in cui le coordinate essenziali della stessa riflessione
poggiano in modo determinante sulle distinzioni descritte tra rappresentazioni proprie e improprie. In modo particolare tutti i segni, le
parole, gli enunciati rimandano costitutivamente ad un altro da sé,
467
laddove quest’altro talvolta coincide con l’intuizione dell’oggetto di
cui si propone una rappresentazione, mentre corrisponde sempre, in
ogni caso, al significato verso cui tutti i segni in-tendono. Questo intendere semioticamente caratterizzato in Husserliana XX/2 è descritto
così:
Ora si può dire: come in ogni segno (Zeichen) e formazione di segno,
lo sguardo va innanzitutto al segno, concepisce la sua forma e la
sua connessione (Zusammenhang) (cioè quanto di significante [Bedeutsame] le inerisce), dunque attraverso le singole parole e le singole
forme di parole, e si indirizza poi al significato (Bedeutung), cioè alla
frase, ai membri di frase, ai momenti di frase, alle forme di frase.
[…] Se parlo della coscienza di attraversamento (Durchgangsbewusstsein) riguardo al segno, dovrei allora parlare, anche rispetto allo
sguardo che coglie il significato e al modo in cui termina in esso, di
una coscienza di attraversamento3.
E ancora, declinando la stessa fenomenologia nella prospettiva di
ciò che può risultare interessante e di ciò che è in grado di offrire un
riempimento adeguato a questa tendenza, Husserl scrive:
Questo significa che come un oggetto che appare suscita da sé “interesse”, e per l’appunto interesse-di-sé (Selbst-Interesse), interesse tematico che si riempie nell’osservazione tematica dell’oggetto: così
anche il segno suscita un “interesse”, ma non un “interesse-di-sé”,
un interesse tematico, bensì un interesse-di-“mediazione”. Parte
dunque dall’io una tendenza di afferramento rivolta al segno, ma un
afferramento di attraversamento (Durchgangserfassung); l’interesse è
un interesse di attraversamento (Durchgangsinteresse), la tendenza va
attraverso oppure oltre il segno fino al designato (Bezeichneten)4.
Dunque, stando così le cose, stante la differenza tra rappresentazioni proprie ed improprie in cui vive la coscienza semiotica delle cose
alla stregua di un Durchgangsbewusstsein, tutti i segni possono essere
assicurati nell’ordine delle rappresentazioni improprie? A nostro avviso una classificazione del genere sembrerebbe confermata, in modo
decisivo, dall’impostazione semiotica data al problema da Husserl
468
nella Prima ricerca logica, in un luogo ormai classico della stessa, dove
egli distingue la fenomenologia degli Anzeichen da quella degli Ausdrücke. Il ragionamento husserliano è noto. Gli indici (die Anzeichen) si distinguono dagli Ausdrücke, dalle espressioni, perché la loro
fenomenologia testimonia una mancata coincidenza di significante
e significato: l’indice non coincide con la cosa verso cui indica, il
fumo non coincide con il fuoco, il nodo al fazzoletto non ha nessuna
relazione immediata con il ricordo che deve suscitare, la stessa orma
lasciata dal piede sulla sabbia non è identica al piede di cui è impronta. Gli indici, attenendoci alle distinzioni proposte, sono tutti rappresentazioni improprie: sono privi di significato, non hanno nella loro
costituzione il significato a cui essi “rimandano”. Le espressioni, gli
Ausdrücke possiedono invece il significato che li fa essere i segni che
sono. La differenza semiotica tra gli Anzeichen e gli Ausdrücke, è bene
sottolinearlo, si apprezza tuttavia ad una condizione, che si assumano
gli Ausdrücke non nel senso comune e generale in cui possono essere
intesi, ma come “espressioni matematiche”5.
Le espressioni matematiche, attenendoci alla lezione della Prima
ricerca logica sono echte Zeichen, ovvero segni in senso stretto, perché
la loro costituzione dipende in modo essenziale da una libera istituzione semiotica. Rimanendo all’esempio classico di indice, quello del
fumo “indice” del fuoco, per quanto lo stesso possa essere interpretato come un segno, e generalmente questo avviene in modo abituale,
non può essere inteso alla stregua di un echtes Zeichen. La spiegazione
offerta da Husserl nella Prima ricerca logica in qualche modo poggia sulla natura meramente associativa-significativa degli indici, con
tutta l’instabilità “empirica” che un meccanismo associativo comporta. Anche le espressioni si caratterizzano in questo senso, seguendo
un tendere associativo, che dal segno sposta il focus intenzionale sul
significato, che gli appartiene. E tuttavia, diversamente da quanto è
dato intuire nella dinamica che regola il funzionamento degli indici,
nulla giustifica una dinamica semiotica simile nelle espressioni, perché la relazione tra significante e significato si svolge in quest’ultimo
caso ohne jede sachliche Unterlage, ovvero senza alcun fundamentum in
re6. La snaturalizzazione degli echte Zeichen, la loro smaterializzazione
nella direzione di un’idealità significativa, non compromessa in un
469
orizzonte psicologico di considerazioni, è completa nella dimensione
enunciativa, retta da simboli legati in maniera determinata ai loro
significati.
Proprio in quest’ordine di considerazioni, legato ad una classificazione dei segni, Husserliana XX/2 offre una serie di spunti, che in
parte avvalorano alcune tesi della Prima ricerca logica, correggendole sotto altri aspetti. La fenomenologia degli indici rappresenta lo
snodo problematico. L’idea che gli indici siano segni caratterizzati
da una certa mediatezza significativa, che stabilisce un rapporto tra
oggetti altrimenti estranei, per cui non c’è coincidenza alcuna tra
significante e significato, resta confermata in Husserliana XX/2, ma
con una variante importante. Husserl tende, infatti, in queste pagine, a considerare anche i segnali alla stregua delle espressioni come
echte Zeichen: la loro fenomenologia dipende, infatti, da un’istituzione significativa arbitraria, da una signitive Intention, che determina il
loro valore semiotico. Nella fenomenologia dei segni naturali questa
mediazione non rappresenta un tratto fondante, o per meglio dire, il
significante e il significato, prima di essere tali, sono realtà naturali,
materiali strette in una relazione di continuità nel tempo e nello
spazio. Husserl:
Qui c’è bisogno di una differenziazione più pertinente. La bandiera
quale segno della nazione, il marchio quale segno dello schiavo furono utilizzati [nella Prima ricerca logica, n.d.r.] con piena correttezza
quali esempi di indici (Anzeichen). Ma sono parimenti segni autentici, sebbene per un altro aspetto essenzialmente differenti dai segni
linguistici e da tutti i segni artificiali che funzionano similmente
all’infuori della cornice della lingua naturale. Dal punto di vista
fenomenologico operiamo la separazione tra segni non-categoriali
e segni categoriali, una separazione che però richiede approfondite
ricerche7.
In realtà questo rimando di senso tra elementi essenzialmente differenti e tuttavia concorrenti nell’unità semiotica che fa di una cosa
un segno, è una prerogativa “impropria” che non conosce eccezioni
(se non in un ordine del discorso matematico, ed in questo contesto
solo in alcuni casi). Sempre in Husserliana XX/2, Husserl descrive
470
quest’unità semiotica fondata sull’estraneità di significante e significato in un modo a nostro avviso inequivocabile:
Dobbiamo dire che segno è qualcosa che si costituisce come peculiare unità appercettiva nello scambio tra il designare (Bezeichnens) e
il comprendere il segno (Zeichenverstehens)? Segno è una produzione
che deve rendere cosciente un co-appercepirsi nel modo di ciò che è
inteso. Quando in un A (α, β…) afferro un altro, B (α’, β’ ….), in
un’unità di un’appercezione, allora A e B possono venire intesi come
intero, come quando vedo un uomo o una cosa (da dietro); oppure
si può far fungere A solo da ponte: A non inerisce a quanto inteso.
[…] Le oggettualità sono estranee l’una all’altra. A non ha niente
a che fare con B. Ciò che è pronunciato: il suono verbale; ciò che è
designato: per esempio 2x2=4 <oppure> Hans. Unità appercettiva
degli atti. Io parlo e penso qui alla persona. Ma la parola rimanda
alla persona con cui non ha a che fare oggettivamente8.
Questa estraneità di significante e significato, come ancora la loro
unione in una sintesi significativa, è spiegata in Husserliana XX/2
alla luce di una complessa fenomenologia del dovere di matrice evidentemente semiotica. Husserl analizza questa fenomenologia su una
scorta esemplificativa caratterizzata da uno spettro di segni molto
ampio: si va, infatti, da quei segnali (Signale) che impongono a chi
li interpreta un certo comportamento, a tutti gli echte Zeichen, la cui
origine dipende da un dovere significativo di cui si fa carico chi li
interpreta, il quale deve volgere lo sguardo nella direzione espressiva che gli è stata richiesta, adeguandosi così alla volontà di chi si
esprime. Così come mi è imposta una direzione di marcia da un segnale che esclude vie alternative, così “devo” volgere il mio sguardo
significativo dal Wortlaut alla Bedeutung che le appartiene, che ho il
“dovere” di comprendere. Husserl:
Segnali di tempesta e altri segnali comunicativi: segni ai quali inerisce un dovere [ein Sollen: un’ingiunzione, un’esortazione, un imperativo, n.d.t.]. Il segnale viene issato, le insegne di coffa vengono tirate
su: l’autorità militare vuole far sapere qualcosa ai naviganti. Essi
devono sapere, e comprendono in questo senso. Ma questo dovere
lo possiede ogni discorso comunicativo, ogni pubblico brano scritto
471
per esempio, ma anche ogni discorso in cui io mi rivolgo ad altri con
l’intenzione di una comunicazione. Tutti i segni autentici hanno la
loro origine da una simile pretesa di dovere che proviene da soggetti. E dopo che la pretesa (nella stessa circostanza in cui è concepita)
è uscita d’azione, resta il puro dovere del segno9.
A ben vedere, mantenendo le debite distinzioni, questo dovere semiotico costituisce una variante simbolica di quel rimando di
senso che dalle rappresentazioni improprie guida verso quelle proprie.
La relazione fenomenologica delle intenzioni costitutive di senso,
con i vuoti che le caratterizzano e la spinta correlativa ad un loro
riempimento intuitivo, attraversa in modo trasversale l’intero arco
intenzionale, manifestandosi in forme e modi differenti, a seconda
delle variabili fenomenologiche in gioco. In una prospettiva semiotica questo rimando di senso è sancito da un “dovere semiotico”, che
regola il rapporto tra significanti e significati. Come avremo modo di
vedere Husserl ammette un’intuizione signitiva, che si attesta sulla
sola considerazione del segno come segno, senza un rimando ulteriore di ordine significativo, in direzione del significato rappresentato.
E tuttavia anche in questi casi, il segno stesso, una volta intuito come
tale, ovvero una volta riconosciuto come segno di qualcos’altro, si
offre allo sguardo del suo interprete in un rimando di senso, che
attende due diverse forme di riempimento, ovvero da una parte il
riempimento legato al significato di quel segno, dall’altra l’eventuale
riempimento intuitivo, a cui corrisponde un referente esistenziale di
quanto altrimenti detto10.
A una fenomenologia del dovere semiotico corrisponde, evidentemente e per converso, una fenomenologia della volontà signitiva,
esercitata in modo attivo da una coscienza “prima”, interprete dei
segni. Per descrivere questa fenomenologia volontaria di matrice semiotica Husserl ricorre in termini esemplificati in Husserliana XX/2
a quelle serie di segni, involontari, non verbali, di origine corporea,
che già nella Prima ricerca logica aveva escluso dalle sue considerazioni. Descrivendo questa fenomenologia involontaria egli non esclude
la possibilità che gli stessi segni possano essere interpretati come
segni dello stato d’animo di chi se li lascia sfuggire e tuttavia li
472
pone, ancora una volta, fuori dell’orizzonte di un autentico signitives Bewusstsein. Quest’ultimo, infatti, è tale perché consapevolmente
disposto alla produzione di segni: il suo interesse, la sua attenzione si sposta dai segni ai loro significati, alla loro produzione in un
contesto comunicativo, in cui la loro fenomenologia sarà raccolta da
chi li saprà interpretare. Quest’ultimo, se lo vorrà, dovrà in-tendere
l’intenzione espressiva di chi ha voluto usare quei segni, con il significato che loro ha attribuito. Tutta la fenomenologia volontaria
dei segni si svolge dunque, anche in Husserliana XX/2, alla luce di
una considerazione attiva e consapevole della produzione semiotica,
retta da una volontà significativa, mai compromessa con la parte
inconscia del suo rappresentare: il perno logico fissato nell’unità del
significato è sostanzialmente rafforzato da una visione logica attiva,
come momento fondante la sua costituzione espressiva. Le variabili
empiriche, in questo caso inconsapevoli, inconsce della produzione
semiotica, per quanto ammesse dallo stesso Husserl in un panorama
fenomenologico allargato, restano ai margini delle sue considerazioni logiche.
3. Aktives und passives Bezeichnen.
Premessa questa serie di discriminanti, spostando la nostra attenzione sui soli Ausdrücke, è noto come Husserl li assuma a modello semiotico della sua riflessione nella Prima ricerca logica. Abbiamo
visto come la loro caratteristica preponderante sia di ordine autosemantico, per tutte le ragioni matematiche addotte. E tuttavia il loro
carattere “improprio”, il fatto che anche le espressioni, pur assunte
in senso matematico, siano delle rappresentazioni improprie, sembra
confermato, attenendoci all’impianto fenomenologico proposto nella
Prima ricerca logica, e questo secondo due diversi ordini di considerazioni. Il primo è che gli stessi Ausdrücke sono segni, e come tali distolgono costitutivamente l’attenzione di chi li usa dalla loro determinazione fisica, materiale o anche solo fantastica, per dirigerla verso
i significati, che essi “rappresentano”. Non bisogna, poi, dimenticare
come Husserl abbia attentamente analizzato la funzione notificante
473
delle espressioni, se considerate in una dimensione dialogica, comunicativa. In questi casi ogni espressione rende conto a chi l’ascolta
del vissuto di chi la utilizza, rinviando in questo senso lo sguardo
significativo dalla loro fenomenologia materiale (o immaginifica) in
due direzioni diverse, verso il significato che è loro proprio, verso il
vissuto di chi si esprime.
Una volta sospesa questa dimensione notificante e dialogica, in
ragione del suo carattere mediato, Husserl nel § 8 della Prima ricerca logica passa ad analizzare gli stessi Ausdrücke nell’orizzonte di
una vita psichica isolata. Dalle analisi che seguono emerge l’ipotesi,
quanto mai controversa, di un’esperienza semiotica, completamente
sottratta ad una rappresentazione simbolica11. Gli argomenti proposti sembrano evidenti:
Se riflettiamo sul rapporto intercorrente tra espressione e significato
e se a tal fine scomponiamo il vissuto, pur complesso ma anche interamente unitario, dell’espressione riempita di senso, nelle sue due
componenti di “parola” e “senso”, la parola stessa ci appare allora
in sé indifferente, il senso invece come ciò che si “ha di mira” con
la parola, ciò che si intende per mezzo di questo segno; sembra così
che l’espressione distolga da sé l’interesse per orientarlo sul significato, per rinviare ad esso. […] ciò che deve servirci come segnale
(segno distintivo) deve essere da noi percepito come esistente. Questo
è vero per le espressioni nel discorso comunicativo, ma non per le
espressioni nel discorso isolato. […] L’inesistenza della parola non ci
disturba. E inoltre non ci interessa. Infatti essa non ha alcun rilievo
in rapporto alla funzione dell’espressione come espressione. […] Nel
discorso monologico le parole non possono avere per noi funzioni
di segnali dell’esistenza di atti psichici, perché questa indicazione
sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti
vissuti da noi nel medesimo istante (HUSSERL 1984a, pp. 302-303).
La fenomenologia impropria dei segni risulterebbe così annullata,
sospesa in tutte le sue versioni, indicali o espressive. Il percorso husserliano si compie nell’intuizione evidente di un vissuto significativo, in un’astrazione radicale da ogni variante dialogica, come da ogni
disposizione semiotica della costituzione dei significati, foriera come
474
tale di improprietà lontane dall’intuizione evidente di un vissuto significativo compiuto in prima persona12.
Negli appunti raccolti in Husserliana XX/2 Husserl non smentisce, in sostanza, l’impostazione data al problema nella Prima ricerca,
ma allarga il piano delle sue considerazioni, spostando l’attenzione
questa volta su un orizzonte pratico (ein praktisches Thema) della fenomenologia dei segni13, ovvero di nuovo sul versante dialogico della
costituzione dei significati, con importanti concessioni alla “seconda
persona” della relazione comunicativa. Anche in questo caso il rigore
delle analisi va seguito con attenzione.
Assumiamo con Husserl la prospettiva sul segno di chi scrive, di
chi parla. La coscienza del soggetto delle significazioni è “animata”
da un aktives Bezeichnen, ovvero da una volontà attiva di significare
qualcosa attraverso qualcos’altro. Questo aktives Bezeichnen è un’intenzione alla ricerca di un segno, che corrisponda alle sue esigenze
logiche, significative, comunicative. Una volta individuata la soluzione semiotica più appropriata, segue la sintesi di una signitive Intention e di una significative Intention14, il cui correlato è una eigentümliche
doppelschichtige Einheit, che null’altro è se non il segno nella sua disposizione comune. In questa particolare fenomenologia, Husserl sottolinea l’assoluta priorità del pensiero, rispetto alla sua determinazione
semiotica: egli parla esplicitamente di una «Gedanken Priorität»15.
Se ci poniamo diversamente nella prospettiva di chi ascolta, di chi
legge, il processo significativo risulta rovesciato. In primo luogo ciò
che appare all’orecchio di chi ascolta, sotto lo sguardo di chi legge
è una Zeichenerscheinung, la cui interpretazione dipende, come abbiamo visto, da una certa gewohnheitsmäßige Tendenz. Scrive Husserl: «La
coscienza comprendente, quella “che legge” (realmente o metaforicamente). Qui la priorità sta dalla parte del segno»16. La coscienza
del lettore, dell’ascoltatore è attraversata da un passives Bezeichnen, e
questa “passività” dei suoi atti dipende da due diversi ordini di considerazioni: in primo luogo ha di fronte a sé un segno che non è nelle
sue libere disponibilità ermeneutiche e significative (la sua fenomenologia è regolata da una «nachkommende Zustimmung»)17, ma è
piuttosto un dato già costituito (tratto eminentemente “passivo” di
ogni fenomenologia) di cui deve cercare la giusta interpretazione; in
475
secondo luogo questa stessa interpretazione dipende dalla sua capacità, dalla sua predisposizione cognitiva ad una “presentificazione” del
vissuto del suo interlocutore, attraverso i segni messi a sua disposizione, che gli “indicano” la direzione da percorrere. Chi ascolta, chi
legge “deve” riprodurre il vissuto di chi parla, di chi scrive, se vuole
“intendersi” con lui. Husserl:
il segno, la frase letta a poco a poco, porta con sé un seguito di cose
intese, presentificate riproduttivamente (poste in quanto inerenti),
e di progressive tendenze di dovere (di esortazione) che procedono
a tramutare in attuali le cose intese; e a intendere, e a credere, ciò
stesso che è riprodotto in quanto inteso, creduto18.
Questa serie di passaggi logici, fenomenologici, temporali, tutti
“secondi” in un ordine genetico-costitutivo, determinano il carattere “passivo” del Bezeichnen di chi interpreta un discorso fatto da un
altro: il suo movimento “ermeneutico” riproduce un andamento che
coincide, se si vuole e da un punto di vista metodologico, con l’intera
impresa fenomenologica, che dai dati di cui dispone, deve saper risalire al vissuto di chi li ha voluti determinare nelle forme e nei modi
in cui gli stessi sono stati “tramandati”. Compiuto quest’ordine di
puntualizzazioni, utile alla comprensione delle diverse prospettive
attive e passive sulla stessa costituzione del significato in una prospettiva dialogica, Husserl si domanda a chi si debba attribuire la
priorità fenomenologica della costituzione dialogica di un significato, se alla coscienza attiva o a quella passiva della stessa relazione
comunicativa. La risposta, per quanto sorprendente possa apparire, è
coerente con l’impostazione fenomenologica data al problema: dato
un segno come mezzo di una relazione interpersonale, la priorità logica, fenomenologica, semiotica nella costituzione significativa dello
stesso spetta alla “coscienza seconda”, al suo passives Bezeichnen, perché sempre “presupposta” dalla coscienza di chi parla, di chi scrive
nella sua disposizione all’uso dei segni. Husserl:
Risiede nell’“origine” dell’autentico designare (Bezeichnen) che questo si sviluppi proprio dall’istituzione-del-segno, e dunque riman476
di a essa […], che essa [istituzione-del-segno] però – costituita in
quanto designazione (Bezeichnung) – sia presente soltanto nella coscienza comprendente (verstehenden), cioè nella coscienza che afferra
passivamente il segno; che, nell’afferramento, essa segua la tendenza suscitata dal segno e che inoltre continui, nella coscienza di B,
la tendenza-di-dovere (Sollenstendenz). Questa coscienza è da parte
sua, di nuovo, premessa per una coscienza attivamente “parlante”,
come si deduce già dalle nostre analisi. Infatti l’intenzione di parlare presuppone una coscienza riproduttiva di designazione, e questa
rimanda in quanto tale a una coscienza originaria di cui è la “modificazione”: questa è però una coscienza di segno comprendente e non
di nuovo una coscienza attivamente parlante19.
Mai come in altri luoghi della sua fenomenologia del segno, Husserl qui insiste sulla “seconda persona” della relazione semiotica, come
momento indispensabile nella costituzione stessa di un segno nella
sua rappresentazione “impropria” di un significato. Non che Husserl
qui stia mettendo in discussione l’unità del significato, quella ideale
dei segni, come ancora l’impianto fenomenologicamente attivo della
stessa determinazione signitiva di qualcosa: in Husserliana XX/2, se
si vuole, egli aggira la costituzione attiva del segno, per guardarla
dalla parte di chi ascolta, di chi legge, perché il riempimento di un
aktives Bezeichnen dipende da una fenomenologia tutta passiva dello
stesso Bezeichnen.
4. Signitive und significative Intentionen
Ora, e al di là di questa costituzione dialogica dei significati nelle
sue varianti attiva e passiva, come si struttura un vissuto significativo, quali sono le variabili intenzionali che entrano in gioco nella
sua costituzione? Una risposta analitica in questa direzione trova un
riscontro sempre in Husserliana XX/2, nei luoghi in cui Husserl propone un’attenta distinzione tra una signitive Intention ed una significative Intention20. Il primo sguardo (die signitive Intention) gettato sui
segni considerati nella loro materialità antepredicativa li costituisce
intenzionalmente in senso semiotico; il secondo (die significative Inten477
tion), concomitante, si dirige attraverso i segni verso i loro significati.
Una terza intenzione legata ad un atto corrispondente (der bedeutungerfüllende Akt) si affianca alle altre, nel caso in cui si dia la possibilità
di un riempimento intuitivo delle prime due intenzioni. Dunque
che cos’è una signitive Intention? La risposta di Husserl è la seguente:
Tendenza signitiva: essa è una tendenza abitudinaria (gewohnheitsmäßige). “Abitudinariamente” vado dal segno al significato, o correlativamente: non attuo tematicamente la coscienza di segno quale
coscienza sensibile, bensì attuo la coscienza di significato, passando
(pervenendo) dall’una quale “mezzo” all’altra. Questo passaggio ha
un peculiare carattere “abitudinario”21.
La costituzione signitiva implica, dunque, una serie di passaggi
percettivi ed appercettivi, combinati fenomenologicamente con una
successione coerente di relazioni mnemoniche, a loro volta fondate
su specifici rapporti di somiglianza. Il segno si costituisce in questa
serie di passaggi, da una dimensione percettiva in cui lo stesso non è
altro se non l’oggetto di una percezione trascendente, ad una dimensione appercettiva, determinata da una sua interpretazione semiotica,
dove la stessa cosa appare nella misura del suo essere una anschauliche
Wortvortstellung cui corrisponde un Wortlautbewusstsein. Questa prima
articolazione del senso, che ha come correlato un Wortlaut, procede
attraverso una successione di passi, la cui complessità fenomenologica emerge chiaramente nelle descrizioni proposte in Husserliana
XX/2:
L’appercezione unitaria, in cui vengono concepiti complessi sensibili
di dati e mutamenti di tali complessi in quanto “segni” per l’estranea vita psichica. I molteplici segni <sono> complessi organizzati:
ogni componente “significa” qualcosa, ognuno di essi però solo in
questa connessione della coesistenza e in questo succedere, unificarsi temporale dei coesistenti. Lo sguardo concepente deve afferrare
l’intero tipo unitario di questi mutamenti complessi, deve in ciò
afferrare i dati nella loro connessione, seguirli ora singolarmente,
ora nei loro mutamenti, e dunque guardarsi all’interno, e attraverso
queste formazioni organizzate e attraverso il guardare all’interno in
478
questa organizzazione afferrare trasversalmente lo psichico in quanto “designato” (la smorfia del viso, il gesto, il discorso con le sue
articolazioni, accentuazioni ecc.)22.
Una volta costituito questo primo passo percettivo-appercettivo,
una volta istituito un segno come segno, a prescindere dal significato
che si decide di attribuirgli, tutte le successive interpretazioni signitive si svolgeranno a partire da un’abitudine (Gewohnheit) acquisita,
che muoverà lo sguardo dalla costituzione percettiva della “cosa” alla
sua funzione signitiva. Il problema è, se si vuole, d’ordine genetico:
il segno come segno, non sarà più semplicemente un segno, quanto
piuttosto un token particolare di uno stesso Typus, dove l’istituzione semiotica della relazione tra significante e significato potrà essere
ogni volta di nuovo acquisita come un dato, la cui fenomenologia
non implica una sua esplicita ri-attivazione. Husserl:
Il suono verbale (Wortlaut) se ne sta qui come noto, e allo stesso
modo la parola piena. Una parola francese forse non la comprendo.
Però mi è nota e la riconosco anche come parola: solo, non so “cosa
significhi”. Che cosa succede qui? Posso anche riconoscerla quale
parola, eppure a me “non è nota”. Essa sta nel mio romanzo francese, mi ci imbatto mentre leggo, viene appercepita in quanto parola
secondo l’analogia con le altre parole comprese23.
L’impressione che qui Husserl si stia muovendo già in un ordine
di considerazioni, in qualche modo legato ad una fenomenologia della coscienza, che ha un atteggiamento attivo e passivo nell’attraversamento dei suoi vissuti, sembrerebbe confermato da quanto segue:
Io posso istituire un rapporto di segno arbitrariamente perché conosco già da prima qualcosa del genere. La possibilità che un A “ricordi” un B, e che lì viga una tendenza di riferimento a B, mi è già
nota. […] Posso anche generare un segno con questa intenzione: di
fungere non solo una volta, ma abitualmente, di essere impostato
con un dovere (il cui intero carattere consiste proprio nella “tendenza” di coscienza, tendenza che ha da espletarsi nella coscienza
tematica di B). Io genero allora un contrassegnare (Bezeichnen) e un
479
segnare abituale che in avvenire, dopo che si sia applicato nel segno
di questa volontà, eserciti la sua funzione senza ricorso all’intenzione
di volontà, alla pretesa, ogni volta riattuata24.
In ogni caso il passaggio appercettivo nella costituzione del segno sottrae lo stesso, considerato nella sua materialità, alla realtà del
mondo. Per quanto le parole possano avere una relazione esistenziale,
reale con il mondo-della-vita che le circonda, il loro contributo è “irreale” in ragione della loro specifica costituzione: «Nel mondo, nella
“natura” in senso lato non c’è qualcosa come le parole»25. Una parola,
un segno possono essere colti, rappresenti secondo modi e forme differenti: la lettera A può essere scritta in giallo, rosso, verde ecc., può
essere percepita, ricordata o solo resa in modo fantastico, ma resta la
stessa lettera; un discorso può essere pronunciato, scritto, recitato,
sussurrato, gridato: resta lo stesso discorso. All’identità dei significati, si affianca così l’identità dei segni, che tale resta, inalterata, al di
là delle diverse rappresentazioni che li rendono intuibili. Il Wort-Leib
non è una parte essenziale della costituzione di un segno come segno.
Questa smaterializzazione del segno comporta in un’ultima analisi
una completa idealizzazione della dimensione linguistica: all’identità logica del significato, polo inalterabile delle rappresentazioni,
si affianca l’identità linguistica del segno, al di là delle sue diverse
interpretazioni semiotiche. L’intero fenomeno “segno”’ risulta così
sottratto ad ogni dimensione psicologica della sua manifestazione.
È bene, tuttavia, sottolineare, ed Husserl lo fa in Husserliana XX/2,
come l’irrealtà caratteristica dei segni non possa essere considerata
sullo stesso piano di quella caratteristica ad esempio dei triangoli:
l’idealità dei segni non è concettuale, la loro universalità non è il
risultato di una classificazione, non dipende da una sussunzione di
singoli casi sotto un unico universale di matrice concettuale, che tutti li riassumerebbe. L’universalità, l’idealità e l’irrealtà delle parole,
dei segni, degli enunciati è di matrice semiotica. Husserl:
In questo caso è di nuovo irrilevante la distinzione tra percezione
e fantasia. E infine il fenomeno può variare nel contenuto, deve essere riconoscibile soltanto secondo il suo tipo. Non è però attuato
un classificare, un riportare-sotto-un-concetto-universale. La parola
480
“leone” non è, come il triangolo, un’universalità che si singolarizza
in molte singole parole-leone, così come il triangolo si singolarizza
nei singoli triangoli26.
5. Il segno e i suoi equivoci
Vorremmo a questo punto affrontare, anche in vista di una possibile conclusione, uno dei temi più controversi della fenomenologia
husserliana del segno, ovvero quello legato alla qualità del significato
implicato nella costituzione semiotica di un segno. Riassumendo il
problema, sono in molti27 a sostenere la tesi che la visione husserliana
del significato sia di natura oggettuale. Su tutti, il giudizio di Tugendhat sembra riassumere le posizioni di molti altri quando scrive che
«il modello cui Husserl fa affidamento per esplicitare il rapporto tra
espressione e significato [è] quello del denominare tipico dei nomi»28.
Di contro, ad avvalorare una tesi “semantica” resterebbe la variante
noematica presente in Idee I, dove Husserl esplicitamente distingue
tra il noema come “modo di intendere” qualcosa e lo stesso qualcosa,
come polo oggettuale intorno al quale ruoterebbero i diversi “come
noematici” di una sua possibile “rappresentazione”. La questione a
nostro avviso non è di facile soluzione, soprattutto perché entrambe
le ipotesi, quella “oggettuale” e quella diversamente “semantica-intensionale”, sembrano convivere nell’impostazione fenomenologica
husserliana29.
Al di là di questi distinguo, e nei limiti di alcuni accenni dedicati
al problema, come si arriva a determinare il significato di un’espressione secondo Husserl? Il ragionamento proposto nella Prima ricerca
logica è noto. Il significato di un’espressione dipende da una serie di
variabili fenomenologiche, che non necessariamente concorrono contestualmente nella definizione significativa di una stessa espressione.
In questa prospettiva un primo ordine di considerazioni di matrice
sintattica e grammaticale, su cui ci soffermeremo perché strettamente legato alla fenomenologia dei segni, si impone come condizione
necessaria perché si possa arrivare all’intuizione di un significato. A
nostro avviso gli esempi proposti da Husserl sono ascrivibili in due
481
ordini di considerazioni differenti: mentre, infatti, abracadabra non
è un segno e dunque la sua fenomenologia non risponde a nessuna
determinazione significativa, questo verde è O non è un’espressione,
pur essendo composta da un diverso concorrere di segni, che tuttavia
non risultano organizzati sintatticamente, grammaticalmente in un
intero che possa fare da “ponte semiotico” per un’intuizione significativa. Dunque perché un’espressione possa essere significativa, è
necessario che la stessa sia composta non solo in un ordine sintattico,
grammaticale e categoriale che possa dirsi in certo modo corretto,
ma è altresì necessario che la stessa sia sorretta da una fenomenologia
semiotica, riconducibile a segni (echte Zeichen) che siano convenzionalmente accettati.
Quest’ultima circostanza, apparentemente insignificante, ci consente un breve excursus su un problema fenomenologico di un certo
peso nella prospettiva semiotica husserliana, ovvero quello estremamente complesso della relazione tra segni e significati. In un certo
senso tanto la completezza di un enunciato, quanto il giusto ordine
sintattico delle parole che lo compongono sono entrambi problemi
ascrivibili ad un ordine del discorso categoriale, che poco o nulla ha
che fare con una fenomenologia dei segni. Se ci spostiamo, invece, sul
versante strettamente semiotico del problema, ovvero sul segno come
segno nella sua relazione con il significato che deve rappresentare,
appare allora evidente come lo stesso segno non possa essere considerato ein zufälliges Kleid calato sul corpo dei significati, un abracadabra qualunque dato come rappresentazione di quanto altrimenti
si intende30. Husserl a più riprese in Husserliana XX/2 ribadisce la
sua idea che i segni non comportano in sé e per sé un contributo
cognitivo, che non dipenda in certa misura da altre variabili fenomenologiche, che non spettano ad una rappresentazione semiotica dello
stesso processo31. E tuttavia gli stessi segni non rispondono ad una
fenomenologia assolutamente indifferente rispetto ai significati che
hanno il compito di rappresentare. Questa relazione inscindibile tra
significante e significato, pur nell’orizzonte improprio in cui si inscrive, è sostenuta da Husserl in maniera evidente, e negli stessi anni,
tanto in Idee I, quanto negli appunti di lavoro raccolti in Husserliana
XX/2, per quanto la stessa questione risulti ad Husserl poco chiara,
482
data la sua problematicità logica e semiotica, a nostro avviso sostanzialmente lasciata irrisolta. Husserl in Idee I aveva, infatti, scritto:
l’espressione non è qualcosa come una vernice distesa sull’espresso
o come un vestito infilato sopra di esso; essa è una messa in forma
[Formung] spirituale, che esercita nuove funzioni intenzionali sul
sottostrato intenzionale ed è correlativamente soggetta alle funzioni
intenzionali del sottostrato. Che cosa a sua volta significhi questa
nuova metafora, deve essere studiato nei fenomeni stessi e nelle loro
essenziali modificazioni (HUSSERL 1950c, p. 310).
Ed ancora più esplicitamente in Husserliana XX/2, in un testo che
risale alla fine di Marzo e l’inizio di Aprile del 1914, Husserl ritornando sulla questione, scriverà di nuovo:
In nessun modo, come esporremo subito, si potrebbe sfilare l’espressione linguistica come fosse una veste (Kleid) e avere allora accanto e
per sé il pensiero come pensiero nudo. Non è come se entrambi costituissero, fenomenologicamente, una mera somma, qualcosa come
un mero intero fisico. Quali caratteri fenomenologici funzionali abbiano i componenti di questa unità, e quale molteplicità sussista
secondo entrambe le parti e in questo modo della relazione, è un
tema per difficili e importanti analisi fenomenologiche32.
In ogni caso lo strato espressivo (die ausdrückliche Schicht) di un significato, sempre ammessa la possibilità che si dia un significato che
non sia legato ad una sua rappresentazione regolata da una costituzione
simbolica, comporta per lo stesso significato un suo raddoppiamento
fenomenologico (eine Verdoppelung des Erkenntnisgehalts), una sua determinazione oggettiva, una sua rappresentazione non più fluttuante che,
se non comporta in alcun modo, ad avviso di Husserl, un guadagno
sul piano cognitivo, facilita almeno lo stesso processo della conoscenza, alleggerendolo sul piano simbolico, rafforzandolo (Verstärkung).
Questa tesi, sostenuta da Husserl fin da Semiotik e ribadita a chiare lettere nella Beilage III alla Krisis, è l’unico tributo esplicito che lo stesso
Husserl, in senso fenomenologico, concede ad una dimensione simbolica, altrimenti relegata in un orizzonte improprio di considerazioni,
483
sempre nella disposizione cognitiva di un suo necessario superamento
verso un’intuizione significativa che corrisponda pienamente alla sua
cifra rappresentativa. Su quale sia il rapporto tra il segno e il suo significato, sulla fenomenologia di questo particolare raddoppiamento,
Husserl non aggiunge tuttavia considerazioni particolari, utili ad illuminare una relazione, in cui sembra egli sia soprattutto interessato a
superare il piano delle rappresentazioni improprie verso un’intuizione
che sia identica in ragione della sua costituzione logica.
A parziale conferma di quanto detto, ovvero del carattere improprio di ogni fenomenologia semiotica nella prospettiva disegnata da
Husserl, sempre in Husserliana XX/2 è possibile ora, almeno in parte, ricostruire alcune delle riflessioni che condurranno Husserl poi
a ragionare nelle Ricerche logiche sul carattere “equivoco” di ogni determinazione semiotica del senso, soprattutto se considerata in un
orizzonte “pratico” di riflessioni. Lo stesso discorso si inquadra, come
abbiamo anticipato e come ormai è noto, nel quadro di una più attenta discussione volta a risolvere il problema rappresentato dalla
domanda su “che cosa significa significare”, ovvero detto altrimenti,
e ricorrendo ad una formula ormai famosa di Ogden e Richards, sulla
soluzione del problema rappresentato da The Meaning of Meaning33.
Abbiamo più volte ricordato come una delle prerogative fenomenologiche dell’impostazione del problema sia quella da una parte
di preservare l’unità e l’identità del significato, e dall’altra quella di
giungere ad una fenomenologia essenziale delle intenzioni costitutive di senso che intorno a quella unità ruotano “significativamente”. Data, infatti, un’identità, un’unità di riferimento, la stessa può
assumere una veste fenomenologica diversa, in un caso percettiva,
quando di uno stesso oggetto di cui si fa esperienza si possono dare
rappresentazioni “espressive” differenti, ovvero unico è il significato
ed il simbolo che lo rappresenta, mentre diverse possono essere le
“rappresentazioni percettive” che sotto lo stesso concetto, lo stesso
significato simbolicamente rappresentato possono essere raccolte.
È proprio su quest’ultimo punto che vorremmo soffermarci, per
concludere queste pagine dedicate alla fenomenologia del segno
husserliana, senza che le stesse possano avere alcuna pretesa esaustiva, data la complessità del problema e la quantità di materiale ora
484
a disposizione, ancora bisognoso di un’analisi che sia più attenta.
Avevamo iniziato queste nostre riflessioni, prendendo spunto dagli
esordi fenomenologici husserliani, dalla sua analisi dedicata alle rappresentazioni improprie. Su questa “improprietà” intendiamo allora ritornare, per mostrare ancora una volta come la stessa dipenda da una
serie di discriminanti fenomenologiche, riconducibili nei due ordini
del discorso, quello percettivo e quello diversamente significativo,
considerati nel loro continuo intreccio, che resta a fondamento della
costituzione del significato almeno di alcuni Ausdrücke. La fenomenologia di questa relazione significativa si muove tra diversi estremi.
Da una parte, infatti, nel novero delle espressioni dotate di significato rientrano tutte quelle rappresentazioni cui non corrisponde nulla
in senso intuitivo, da “Pegaso” a “quadrato rotondo”, fino ad arrivare
ai triangoli, ai decaedri regolari: d’altra parte «tutti sanno che non si
può rendere sensibile in modo adeguato alcun concetto geometrico»
(HUSSERL 1928, p. 322). In tutti questi casi, Husserl lo ricorda, ciò
che regola la costituzione significativa di un fenomeno è «l’impossibilità a priori di un senso riempiente», dove questa “impossibilità”
varia evidentemente a seconda della natura intuitiva richiesta. D’altra
parte, e secondo modi che appaiono diametralmente opposti rispetto
ai casi significativi appena citati, gli okkasionale Ausdrücke acquistano
un significato solo a condizione che si dia una contestuale intuizione
percettiva, che sappia restituire il senso di quanto altrimenti detto.
E tuttavia, al di là di questi ultimi estremi significativi e percettivi di natura “occasionale”, è tutta la fenomenologia dei segni a risultare impropria, “occasionale” ed in ogni caso “equivoca”, se avanza
la pretesa di rappresentare quanto “avviene”, e questo per ragioni
riconducili tanto ad una semiotica dei segni generalmente considerata, quanto alla relazione che gli stessi possono avere con le intuizioni
percettive corrispondenti, a loro volta rappresentazioni improprie di
quanto non è dato mai afferrare nella sua “interezza”. Detto altrimenti, se un segno rimanda al suo significato, ed insieme e in date
circostanze significante e significato rimandano al loro referente intuitivo, quest’ultimo a sua volta rimanda oltre la sua fenomenologia
attuale, sempre di nuovo. Se quanto detto non fosse sufficiente a rendere
intuitivo il senso essenzialmente prospettico in cui si dà ogni segno,
485
nel momento in cui avanza la pretesa di rappresentare il mondo-della-vita, si consideri come la sua improprietà rappresentativa emerga
ancora una volta in modo evidente, a fronte di un’indicibilità, che
si fonda per Husserl su ragioni riconducili tanto ad una dimensione
antepredicativa dell’esperienza, quanto ad una diversa costituzione
temporale della coscienza. In Husserliana XX/2, quest’ineffabilità
dell’essere è resa in modo inequivocabile:
Nell’osservazione e nel ricordo comparativi afferro le distinzioni dei
punti temporali. Ognuno è ciò che è, non posso ulteriormente determinarlo in modo concettuale, così come non posso “descrivere”
ulteriormente una minima differenza di colore, un “determinato”
rosso. E così come i colori formano un continuo che i nostri concetti
soggettivi non possono seguire nella differenziazione (noi non possiamo avere tanti significati verbali differenti quanti sono i colori
oggettivi), lo stesso vale per i tempi34.
1
2
3
4
Cfr. HUSSERL 2005. Sui criteri editoriali seguiti, l’ordine dato al materiale raccolto, la datazione di ogni singolo manoscritto, cfr. U. Melle, Einleitung des Herausgebers, in HUSSERL 2005, pp. XX-XXIII. In mancanza di un’edizione italiana per
HUSSERL 2005, i passi qui citati sono stati tradotti da Alessandro Iorio.
Il fenomeno della “rappresentanza” (all’interno del quale si inscrive quello del segno, con la sua diversa fenomenologia) costituisce uno snodo fondamentale nella
discussione volta ad una chiarificazione di uno dei nuclei fenomenologici più
complessi, quello dell’intendere. Cfr. S. Besoli, Introduzione a Logica, psicologia e
fenomenologia (HUSSERL 1979, pp. 14 e ss).
HUSSERL 2005, pp. 10-11; «Nun kann man sagen: Wie bei jedem Zeichen und
Zeichengebilde geht der Blick zunächst zum Zeichen, fasst seine Form und seinen Zusammenhang (nämlich das Bedeutsame daran) auf, also durch die einzelnen Worte und Wortformen, und geht dann in Richtung auf die Bedeutung, d.
i. auf den Satz, auf die Satzglieder, Satzmomente, Satzformen. […] Spreche ich
beim Zeichen vom Durchgangsbewusstsein, so müsste ich auch hinsichtlich des
die Bedeutung treffenden Blickes und der Art, wie dieser darin terminiert, von
einem Durchgangsbewusstsein sprechen».
HUSSERL 2005, p. 91; «Das heißt, wie ein erscheinendes Objekt von sich aus
“Interesse” erregt, und zwar Selbst-Interesse, thematisches, das sich im thematischen Betrachten des Objekts erfüllt, so erregt auch das Zeichen ein „Interesse“,
aber nicht ein Selbst-Interesse, ein thematisches sondern ein „Mittel“-Interesse.
486
Es geht also vom Ich aus eine Erfassungstendenz zum Zeichen, aber es ist eine
Durchgangserfassung, das Interesse ist ein Durchgangsinteresse, die Tendenz
geht durch oder über das Zeichen hin zum Bezeichneten».
5
Su questa discriminante matematica, come momento decisivo, utile a distinguere gli Anzeichen dagli Ausdrücke, sulla scorta di una lezione leibniziana, raccolta
da Husserl, cfr. MELANDRI 1990, p. 156.
6
Cfr. BERNET 1988, pp. 1-24.
7
HUSSERL 2005, p. 52; «Hier bedarf es einer näheren Differenzierung. Die Flagge
als Zeichen der Nation, das Stigma als Zeichen des Sklaven waren ganz richtig
als Beispiele für Anzeichen verwendet. Aber es sind zugleich echte Zeichen,
obschon andererseits wesentlich unterschieden von sprachlichen Zeichen und
allen ähnlich fungierenden künstlichen Zeichen außerhalb des Rahmens der natürlichen Sprache. Aus phänomenologischen Gesichtspunkten machen wir die
Scheidung zwischen nichtkategorialen und kategorialen Zeichen, eine Scheidung, die freilich tiefergehende Untersuchungen fordert».
8
HUSSERL 2005, p. 73; «Sollen wir sagen: Zeichen ist etwas, das sich als eigentümliche apperzeptive Einheit im Wechselspiel des Bezeichnens und Zeichenverstehens konstituiert? Zeichen ist ein Erzeugnis, das ein Mitzuapperzipierendes in
der Weise des Gemeinten bewusst machen soll. Wo ich in einem A (α, β…) ein
anders, B (α’, β’ ….) erfasse, in einer Einheit einer Apperzeption, da kann das A
und das B als Ganzes gemeint sein, wie wenn ich einen Menschen sehe oder ein
Ding (Rückseite), oder es kann das A nur als Brücke fungieren; A gehört nicht
in das Gemeinte hinein. […] Die Gegenständlichkeiten sind einander fremd. A
hat mit B nichts zu tun. Das Ausgesagte: der Wortlaut; das Bezeichnete: etwa
2x2=4 <oder> Hans. Apperzeptive Einheit der Akte. Ich sage und denke dabei
an die Person. Aber das Wort weist auf die Person, mit der es gegenständlich
nicht zu tun hat».
9
HUSSERL 2005, p. 97; «Sturmsignale und sonstige mitteilende Signale: Zeichen,
denen ein Sollen anhaftet. Das Signal wird gehisst, die Signalkörbe werden aufgezogen: Die Militärbehörde will die Schiffahrer etc. etwas wissen lassen. Sie
sollen wissen, und sie verstehen in diesem Sinn. Aber dieses Sollen hat jede
mitteilende Rede, jedes öffentliche Schriftstück z. B., aber auch jede Rede, in
der ich mich an andere mit der Absicht einer Mitteilung wende. Alle echten
Zeichen haben den Ursprung aus solchem zumutenden, von Subjekten ausgehenden Sollen. Und nachdem die Zumutung (selbst wo sie mitgedacht ist) au�er
Aktion getreten, bleibt das reine Sollen des Zeichens».
10
Su questa fenomenologia del vuoto semiotico, sulle sue diverse varianti, e sui modi
di un suo possibile riempimento, cfr. HUSSERL 2005, testo Nr. 7, pp. 150-157.
11
Sul punto in questione, sulle difficoltà insite in una fenomenologia semiotica,
priva di connotazioni simboliche, cfr. DERRIDA 1967c.
12
Sul significato di questo vissuto, sui suoi risvolti nel quadro di una più ampia
considerazione del problema fenomenologico, cfr. C. De Martino, introduzione
a E. Husserl, Semiotica (HUSSERL 1970b, pp. 340-373).
487
In realtà, a ben vedere, gran parte della fenomenologia linguistica, con le debite
eccezioni di cui abbiamo detto (non di poco conto), rientra in una prospettiva
fenomenologica di ordine pratico, come Husserl sottolinea a più riprese negli
appunti ora raccolti in Husserliana XX/2. Detto altrimenti, e in senso allargato,
il fenomeno “linguaggio” ha strettamente a che fare con un «Ich tue», a sua volta
dato in sintesi con una fenomenologia del corpo e dei suoi movimenti. Cfr. HUSSERL 2005, pp. 28-32. Questa variante fenomenologica di ordine pratico non è in
contraddizione con l’impianto ideale della fenomenologia husserliana del segno,
ma piuttosto la completa in un ordine di considerazioni più ampio.
14
Su queste due costanti intenzionali, essenziali nella fenomenologia di un segno,
torneremo nelle pagine che seguiranno.
15
Cfr. HUSSERL 2005, p. 88. In questo modo Husserl ammette nuovamente, come
aveva già fatto nella Prima ricerca logica, la possibilità di un “pensiero” che si dia
indipendentemente da una sua relazione semiotica.
16
Cfr. ibidem; «Das verstehende Bewusstsein, das “lesende” (wirklich oder im
Gleichnis). Hier liegt die Priorität aufseiten des Zeichens».
17
Cfr. ibidem.
18
HUSSERL 2005, p. 90; «das Zeichen, der allmählich gelesene Satz, führt mit sich
eine Folge von reproduktiv vergegenwärtigen Gemeintheiten (gesetzt als zugehörigen) und schrittweisen Sollens- (Aufforderungs-) Tendenzen, die dahin gehen, diese Gemeintheiten in aktuelle zu verwandeln, das als gemeint, geglaubt
Reproduzierte selbst zu meinen, zu glauben».
19
HUSSERL 2005, p. 91; «Es liegt im “Ursprung” des echten Bezeichnens, dass es
zwar aus der Zeichenstiftung erwächst, also auf sie zurückweist […] dass sie
aber als Bezeichnung konstituiert nur vorliegt im verstehenden Bewusstsein,
das heißt in dem Bewusstsein, das passiv das Zeichen erfasst, der vom Zeichen
erregten Tendenz auf Erfassung nachgeht und weiter der Sollenstendenz auf das
B-Bewusstsein folgt. Dieses Bewusstsein seinerseits ist wieder Voraussetzung
für ein aktiv „sagendes“ Bewusstsein, wie ja aus unserer Analyse schon hervorgeht. Denn die Intention auf ein Sprechen setzt voraus ein reproduktives
Bewusstsein von einer Bezeichnung, und dieses weist als solches zurück auf ein
originäres Bewusstsein, dessen „Modifikation“ es ist: Das ist aber ein verstehendes Zeichenbewußtsein und nicht etwa wieder ein aktiv sagendes».
20
Su questa distinzione di ordine fenomenologico, nel quadro della costituzione
semiotica dei vissuti, cfr. MELLE 1998.
21
HUSSERL 2005, p. 184; «Signitive Tendenz: Sie ist eine gewohnheitsmäßige Tendenz. „Gewohnheitsmäßig“ gehe ich vom Zeichen zu dem Bedeuteten, oder
korrelativ: Ich vollziehe nicht das Zeichenbewußtsein al sinnliches Bewusstsein
thematisch, sondern das Bedeutungsbewusstsein, von dem eines als „Mittel“
zum anderen übergehend (in das andere hineingehend). Dieser Übergang hat
einen eigentümlichen Charakter „gewohnheitsmäßig“».
22
HUSSERL 2005, pp. 68-69; «Die einheitliche Apperzeption, in der sinnliche Datenkomplexe und Veränderungen von solchen komplexen aufgefasst werden als
13
488
“Zeichen” für das fremde psychische Leben. Die vielgestaltigen Zeichen <sind>
organisierte Komplexe: Jedes Bestandstuck “bedeutet” etwas, jedes aber in diesem Zusammenhang der Koexistenz und in diesem Sukzedieren, sich zeitlich
Vereinheitlichen der Koexistenzen. Der auffassende Blick muss den gesamten
einheitlichen Typus dieser komplexen Veränderungen erfassen, muss dabei die
Daten in ihrem Zusammenhang erfassen, ihnen darin bald einzeln, bald in ihren Veränderungen folgen, sich also hineinschauen und durch diese organisierten Bildungen hindurch oder durch Hineinschauen in diese Organisation das
Psychische hindurchfassen als das “Bezeichnete” (Mienenspiel, Geste, Rede mit
ihren Gliederungen, Betonungen usw.)».
23
HUSSERL 2005, p. 186; «Der Wortlaut steht als Bekanntes da, und ebenso das
volle Wort. Ein franzosisches Wort verstehe ich vielleicht nicht. Es ist mir aber
bekannt, und ich erkenne es auch als Wort: nur weiß ich nicht, „was es bedeutet“. Was liegt hier vor? Ich kann es auch als Wort erkennen, obschon es mir
„nicht bekannt ist“: Es steht in meinem franzosischen Roman, ich stoße darauf
lesend, es wird nach Analogie der anderen verstandenen Worte als Wort apperzipiert».
24
HUSSERL 2005, pp. 83-85; «Ich kann willkürlich ein Zeichenverhältnis stiften,
weil ich etwas dergleichen schon vorher kannte. Die Möglichkeit, das ein A an
ein B “erinnert” und dass dabei eine Hinweistendenz gegen B waltet, ist mir
schon bekannt. […] Ich kann auch Zeichen in dieser Absicht, nicht nur einmal,
sondern habituell zu fungieren, mit einem Sollen ausgestattet zu sein (dessen
ganzer Charakter eben in der Bewusstseins-„Tendenz“ besteht, die sich auszuleben hat im thematischen B-Bewusstsein), erzeugen. Ich erzeuge dann ein Bezeichnen und ein habituelles Zeichen, das künftig, nachdem es eingeübt ist im
Sinne dieses Willens, seine Funktion übt ohne Rekurs auf die wiederauflebende
Willensintention, Zumutung».
25
HUSSERL 2005, p. 112; «In der Welt, in der “Natur” im weitesten Sinn, gibt es
nicht so etwas wie Worte».
26
HUSSERL 2005, pp. 116-117; «Hierbei aber ist wieder irrelevant der Unterschied
zwischen Wahrnehmung und Phantasie. Und endlich kann das Phänomen inhaltlich wechseln, nur muß <es> seinem Typus nach widererkennbar sein. Es
ist aber nicht ein Klassifizieren, ein Unter-einen-allgemeinen-Begriff-Bringen
vollzogen. Das Wort „Löwe“ ist nicht wie das Dreieck eine Allgemeinheit, das
sich in viele einzelne Löwen-Worte vereinzelt, wie sich das Dreieck vereinzelt in
den einzelnen Dreiecken». Su questa variante universale, ideale della fenomenologia dei segni, cfr. RETO 1984.
27
Cfr. SMITH-MCINTYRE 1982, pp. 7-8; E. Tugendhat, Introduzione alla filosofia analitica, Marietti, Genova 1989, pp. 44-45; A. Gurwitsch The Field of Consciuosness,
Duquêsne University Press, Pittsburg 1964.
28
Cfr. E. Tugendhat, Introduzione alla filosofia analitica, p. 27.
29
Su questa deriva oggettuale nella descrizione dei contenuti significativi di un
atto, cfr. anche BENOIST 2001a.
489
Tutto quest’ordine di considerazioni smentirebbe, almeno in parte, uno degli
argomenti critici più forti, utilizzato da Dummett nella sua analisi comparativa,
in senso analitico, tra le posizioni di Frege e quelle di Husserl, ovvero quello in
cui lo stesso Dummett paragona la coscienza delle intenzioni signitive e significative descritta da Husserl ad una sorta di Humpty-Dumpty delle costituzioni
semiotiche. Cfr. M. Dummett, Origini della filosofia analitica, Einaudi, Torino
2001, p. 57.
31
Cfr. HUSSERL 2005, pp. 225-285.
32
Cfr. HUSSERL 2005, p. 22; «Es ist, wie sich sofort herausstellt, keineswegs so,
dass man den sprachlichen Ausdruck wie ein Kleid abziehen und den Gedanken
dann als nackten Gedanken für sich und daneben haben konnte. Es ist nicht so,
als ob beide phänomenologisch eine bloße Summe, etwas wie ein bloßes physisches Ganzes ausmachen. Welche phänomenologischen funktionalen Charaktere
die Komponenten dieser Einheit haben und welche Mannifaltigkeit nach beiden
Seiten und in der Weise der Verbindung besteht, das ist ein Thema schwieriger
und wichtiger phänomenologischer Analysen».
33
Cfr. C. K. Ogden, I. A. Richards, The Meaning of Meaning, Kegan Paul, London
1930.
34
HUSSERL 2005, p. 371; «In der vergleichenden Betrachtung und Erinnerung erfasse ich die Unterschiede der Zeitpunkte. Jeder ist, was er ist, ich kann ihn begrifflich nicht weiter bestimmen, so wie ich eine niederste Differenz von Farbe,
ein „bestimmtes“ Rot, nicht weiter „beschreiben“ kann. Und so, wie die Farben
ein Kontinuum bilden, dem unsere subjektiven Begriffe in der Differenzierung
nicht folgen können (wir können nicht so viele unterschiedene Wortbedeutungen haben, als es objektive Farben gibt), so bei den Zeiten».
30
SENSIBILITÀ
di Annalisa Romani
Pròsthige nyn mou
Psaùo kai dè.
SOFOCLE
1. La sensibilità tra etica ed estetica
Nel tracciare i confini di una voce sulla sensibilità, vorrei dire innanzitutto che l’oggetto delle considerazioni che seguono si colloca
nel punto intermedio tra etica ed estetica. Tenterò di avviare una
discussione su quella “facoltà” – che una grandissima tradizione filosofica considera in vario modo “accanto” a quella del pensiero e della
ragione – tenendo ai poli di questo “tra” le risposte di Edmund Husserl e di Emmanuel Levinas. Sebbene il punto di osservazione delle
mie analisi sia interno alla filosofia di Levinas questo non coincide
con una forzatura del pensiero husserliano.
Vorrei piuttosto mostrare la sollecitazione teoretica che la filosofia
di Husserl esercita dall’interno dell’etica levinasiana e suggerire una
riflessione comparativa su alcune nozioni – quelle di «genesi», di
«origine», di «passività», di «sintesi», di «associazione» e di «sepa490
491
razione» – le quali, se collocate nell’intervallo di quel “tra”, possono
essere ripensate e riproblematizzate alla luce dell’eredità fenomenologica che contengono e che promuovono. Assumo qui la nozione di
«eredità» nella doppia accezione o ingiunzione che Jacques Derrida
ci ha insegnato a scorgervi; e cioè come quel gesto inimitabile che
consiste nel saper riaffermare e dare nuova vita a un passato che non
abbiamo scelto, ma che anzi ci ha scelti. E tuttavia scegliere, dall’interno
di quest’imposizione, di mantenerlo in vita infedelmente, attraverso
una sua re-invenzione critica o un processo di «filiazione» (DERRIDAROUDINESCO 2001, pp. 14-16).
Se l’«origine», come premette Benjamin all’Origine del dramma barocco tedesco, non ha nulla in comune con la «genesi», ma «sta nel fiume
del divenire come un vortice e trascina dentro la propria ritmica il materiale della nascita»1, si tratterà allora di seguire Levinas e chiederci
con lui «se l’inizio sia all’inizio» (LEVINAS 1974, p. 206); e soprattutto
se quell’originario che non si dà mai a conoscere possa essere toccato
primariamente da un sentire indifferente o non, piuttosto, da un sentire
sofferente, da un sapere o da un’etica. E se, ancora, queste due modalità
possano effettivamente darsi come alternative o non essere abbracciate
da un unico sguardo. Domande che vogliono riportare l’attenzione su
come la filosofia possa rendersi ospitale a ciò che ad essa è sempre stato
più estraneo, vale a dire a un discorso «an-archico», che lasci inconoscibile la sua origine ai suoi consueti strumenti d’indagine.
Entriamo, a questo proposito, direttamente nei testi:
La soggettività che non è in fin dei conti l’«io penso» (qual è di primo
acchito), che non è l’unità dell’«appercezione trascendentale» – è, in
forma di responsabilità per Altri, soggezione ad altri. L’io è passività
più passiva di ogni passività perché di colpo all’accusativo, sé – che non
è mai stato nominativo – sotto l’accusa d’altri, anche se senza colpa.
Ostaggio d’altri, l’io obbedisce ad un comando prima di averlo sentito, fedele ad un impegno che non ha mai preso, ad un passato che
non è mai stato presente (LEVINAS 1982c, p. 91, corsivo mio.)
Questo passo, tratto da Di Dio che viene all’idea, mostra direttamente la concezione matura della soggettività in Levinas, definita
492
anche in Altrimenti che essere mediante iperboli linguistiche che legano al termine “soggetto” – strumento grammaticale primario di
qualsiasi teoria della conoscenza e definito sempre in relazione a un
“oggetto” – vocaboli estranei ai confini gnoseologici come «ostaggio», «sostituzione», «vulnerabilità», «dolore», «pazienza» e, soprattutto, «sensibilità», «passività».
Il termine passivo che attraverserà d’ora in poi le successive riflessioni, e nel quale credo di dover rintracciare il perno su cui ruota
tutta la tensione di cui sono cariche queste definizioni, accoglie una
doppia e antitetica possibilità di significato: può indicare sia il subire
qualcosa nel senso del patimento e della sofferenza, e quindi il provare effettivamente dolore, sia una situazione alla quale non si partecipa,
non si è attivi, ma ci si pone in qualità di spettatori esterni. Una
situazione, per così dire, di indifferenza.
Accezione antitetica ho appena detto, poiché il contrario di qualsiasi forma di sentimento, ancora prima che nel suo impulso contrario,
risiede proprio nel suo oblio. L’indifferenza è specularmente inversa
quindi all’amore e all’odio, per esempio, così come a qualsiasi espressione di pathos che sempre si accompagna a un’ossessione del pensiero
e inequivocabilmente testimonia la presenza in sé di un altro.
Lasciamo, ma solo per un momento, la citazione levinasiana per
vedere come la passività si presenta nel nostro rapporto sensibile col
mondo esterno.
2. Indifferenza all’altro
Come sappiamo dalla Critica della ragion pura, Kant individua la
sensibilità nella recettività, assumendo la passività nel secondo significato appena delineato: la sensibilità è la capacità di ricevere rappresentazioni2. È un momento in cui la soggettività si limita a registrare
dei meri dati grezzi, e il rapporto con i fenomeni è solo l’esito di una
passività pura, priva di quella forma che compete esclusivamente all’attività del soggetto.
Nella fenomenologia husserliana è proprio questa accezione della
passività a essere messa in questione, alla luce della scoperta di sinte493
si passive e pre-conscie della sensibilità – sorte prima delle prestazioni intenzionali di una soggettività cosciente – che ne rappresentano
la stessa condizione di possibilità. Circoscrivere, così, l’ambito dell’estetica trascendentale assume per Husserl il significato di proporre
un’effettiva capacità fondativa dell’estetica rispetto alla logica trascendentale, e rivendicare una significativa autonomia e originarietà
della sensibilità rispetto al pensiero. Husserl ci apre a un’accezione di
passività nuova, ma sempre all’interno del secondo significato che ne
è stato delineato: di non partecipazione, di disinteresse. Esiste uno stato pre-conscio della soggettività in cui essa non partecipa, ma dove
tuttavia non è neanche assente.
Sul terreno dell’esperienza recettiva, dunque, passività e attività
non stanno agli antipodi ma si intrecciano l’una con l’altra: la recettività accoglie e accetta ciò che l’esperienza impone alla soggettività percepiente. La recettività non è, come per Kant, un puro essere affetto.
Il concetto fenomenologicamente necessario della ricettività non si
trova affatto in opposizione assoluta all’attività dell’io, espressione
che deve comprendere tutti gli atti che in senso specifico provengono dal polo-io; piuttosto bisogna riguardare la ricettività come il
grado più basso dell’attività. L’io lascia fare all’oggetto il suo ingresso e lo apprende (HUSSERL 1948, p. 72).
Questo nesso di partecipazione e non partecipazione è stato ben
presto colto da Levinas e mostrato mediante l’esperienza elementare
del sonno:
Ma bisogna chiedersi […] se il senso proprio della coscienza non
consiste per caso nell’essere una vigilanza posta a ridosso di una possibilità di dormire […]. Ma ciò che la caratterizza in modo particolare è il fatto di riservarsi sempre la possibilità di ritrarsi “dietro”,
per dormire. La coscienza è il potere di dormire. Questa fuga nel
pieno è in un certo senso il paradosso stesso della coscienza (LEVINAS
1979, p. 25).
La passività diviene così affare della coscienza, la fonda costitutivamente, inserendo in essa una zona d’ombra che preclude la classica
494
coincidenza che, da Cartesio a Kant, ha fatto corrispondere la coscienza con la piena coscienza di sé, con l’autocoscienza. Esiste e ha valore
un qualcosa che è prima della coscienza, uno strato percettivo preoriginario, pre-conscio, che in alcuni passi Husserl arriva a definire «inconscio». Semplificando molto le cose, anche a rischio di un’estrema
riduttività, se ci si spinge fino ad accogliere il termine «inconscio», si
deve tuttavia rinunciare a qualsiasi sinonimia con una “presenza inconsapevole”, oltre che ovviamente con l’alienazione da sé e il rimosso. E precisare che si tratta di una dimensione implicita e oscura ma
legata strutturalmente proprio alla sensibilità3. L’inconscio husserliano
(il confronto con quello di Freud aprirebbe un capitolo immenso4) è
«un grado zero della vivacità coscienziale» (Husserl 1966b, p. 225).
È un terreno originario e neutro – e quindi già inter-soggettivo – della coscienza non considerata però nella sua «realtà» effettiva5.
Se pertanto si vuole risalire all’origine di questa passività, l’unica
strada percorribile per Husserl è una teoria soggettivo-trascendentale
del tempo della coscienza. Della coscienza non come luogo ma come
tempo, come puro «dare tempo», volendo già colorire il problema con
termini non proprio husserliani.
L’impressione originaria è l’assoluto inizio di questa generazione, la
fonte originaria, quella da cui tutto il resto costantemente si genera.
Essa non viene però prodotta a sua volta, non nasce come qualcosa
di generato, ma per genesis spontanea: è genesi originaria. Non cresce
(non ha alcun seme): è creazione originaria (HUSSERL 1966b, p. 124).
L’origine della sensibilità viene rintracciata nelle sintesi, e prima
ancora nell’«ora» che «di continuo si realizza nella coscienza originaria del tempo» (HUSSERL 1966b, p. 177) e che costituisce la condizione di possibilità della manifestazione di qualsiasi oggetto, e dello
stesso tempo fenomenale: nonostante le aporie logiche e terminologiche, più volte messe in luce, che un discorso di questo tipo comporta6. Nella sintesi, in quanto esperibile a-priori, i contenuti sensibili
dell’appercezione acquistano forma e si realizza la coscienza di un oggetto identico, di un’unità sensibile unitaria; e non semplicemente
la coscienza di una serie di sensazioni. L’esempio classico, che ricorre
495
più volte nelle opere di Husserl, è quello dell’ascolto di una melodia.
Quando sentiamo un motivo musicale non percepiamo solo un fluire
di singole note avvertite in momenti immobili e slegati l’uno dall’altro, ma (ed è questo a farne un’unità melodica) anche la «ritenzione»
del suono appena trascorso e la «protensione» di quello che sta per
venire (cfr. HUSSERL 1966b, p. 165).
Il mondo sensibile si delinea, quindi, non come il risultato di una
rappresentazione del soggetto, ma si trova costituito precedentemente nella coscienza originaria del tempo e nella sintesi passiva dell’associazione7: sintesi che la coscienza non può modificare, ma alla quale
può soltanto aderire. Una sintesi che la costituisce originariamente e
che garantisce un comune sentire.
Il rimprovero che Levinas muove a Husserl è di essere ancora prigioniero di una visione ontologica: ha sottolineato il valore fondativo
dell’estetica ma ha trasferito il senso dell’ontologia all’interno di un
orizzonte intenzionale. Gli enti e le cose del mondo non si danno in
una trascendenza ma nella struttura immanente degli atti soggettivi,
nei quali le sintesi passive testimoniano la loro presenza nel contesto
di un’esperienza sensibile.
3. Godere il mondo
Torniamo ora al passo di Di Dio che viene all’idea che ho citato
all’inizio del primo paragrafo, a un suo frammento («L’io è passività
più passiva di ogni passività»); e vediamo dove sia, ammesso che di
un luogo circondato da confini si tratti, questo doppio fondo che
permette di scendere – o di risalire fenomenologicamente – a una
sensibilità ancora più sensibile, a un’apertura che disillude qualsiasi
pretesa della fenomenologia trascendentale di darsi come genetica
e costitutiva. E soprattutto chiediamoci come si raggiunga, se esiste
una nuova epoché in grado di condurci a quest’ulteriore ulteriorità o se
non sia, piuttosto, una sospensione della stessa riduzione o della stessa
fenomenologia a consentirci quest’apertura8.
L’io, dice Levinas in Totalità e infinito, non vive di oggetti di rappresentazione, ma di oggetti di godimento. Il mondo sensibile co496
stituito nella coscienza originaria del tempo e nella sintesi passiva
dell’associazione è una possibilità, già derivata, della vita reale. È stato questo l’errore più grande della tradizione occidentale: cogliere
la coscienza nel momento del suo ritorno a sé e aver confuso questo
ritorno con una genesi.
Sentire significa essere all’interno dell’esistenza effettiva del mondo,
costituito da tutto ciò che l’epoché husserliana aveva anestetizzato: la
fame di pane – «il vuoto della fame è più vuoto di ogni curiosità e non
si lascia appagare dal suono della moneta che la fame esige» (LEVINAS
1974, p. 91) – la sete d’acqua, di spettacoli, d’idee, di lavoro, di sonno.
Prima di essere donatore di senso il soggetto è un corpo che vive il peso e
l’intimità della sua posizione e che gode di ciò che il mondo gli offre.
Ogni suo gesto, ancora prima di essere «una scarica di nervi», è una
«celebrazione del mondo». La soggettività è un’«incarnazione originaria del pensiero», possiede una concretezza costitutiva irriducibile, e
lo testimoniano una serie di esperienze che già dal 1935 Levinas aveva
ben identificato, come la vergogna e il dolore fisico. Qui il soggetto si
ritrova letteralmente «inchiodato» (rivé) al proprio corpo. Nel rossore
del proprio imbarazzo c’è nel volto una manifestazione pubblica di
un’impossibilità di evasione dai propri confini, un «essere attaccato con
i chiodi» a qualcosa di estraneo – un se stesso percepito come vergognoso – da cui si vorrebbe solo scappare. E la stessa inattuabilità di
fuga dal proprio corpo è svelato nel pianto o nelle urla disperate della
sofferenza fisica patita, a differenza del dolore morale, senza alcuna possibilità di evasione, di riscatto o di nobilitazione (cfr. LEVINAS 1982b).
Questa prima forma di relazione all’alterità del mondo è puramente
egoistica, non solo perché consiste nell’elementare soddisfazione dei
propri bisogni, ma perché radica l’io a sé nell’autosufficienza e nella
solitudine della sua casa. E contemporaneamente lo separa dagli “altri
io” mediante un movimento di individuazione precedente a qualsiasi
analogia, a qualsiasi appartenenza a generi, specie e razze.
L’io non è unico come la Tour Eiffel o la Gioconda. L’unicità dell’io non consiste soltanto nell’esistere in un esemplare unico, ma
nell’esistere senza avere genere, senza essere individuazione di un
concetto (LEVINAS 1961, p. 118).
497
La sensibilità si ridefinisce così come momento di singolarizzazione che strappa il soggetto dal suo anonimato per renderlo più
sensibile ancora, ancora più passivo dell’indifferenza, ovvero capace di
essere intaccato in ciò che è precipuamente suo, nella sua intimità.
Ancora prima di percepire le cose nel loro essere date a un sentire
indifferente prova gioia e dolore nella soddisfazione o insoddisfazione
dei suoi bisogni.
La sensibilità che noi descriviamo a partire dal godimento dell’elemento, non appartiene all’ordine del pensiero ma a quello del sentimento, cioè dell’affettività in cui pulsa l’egoismo dell’io (LEVINAS
1961, p. 136)
In questo l’io è «unico» nella sua solitudine, inserito in un pluralismo che non si risolve semplicemente in una molteplicità numerica
e non si lascia definire da nessuna logica formale.
Il senso delle critiche che attraversano tutti gli scritti levinasiani
dal 1947 in poi riguardo la teoria dell’empatia (Einfühlung) è l’assunzione di un punto di avvio puramente teoretico per una questione
che, come quella dell’intersoggettività, è prima di tutto etica. L’altro
a cui si ha accesso nella Quinta delle Meditazioni cartesiane è un altro
puramente formalizzato, raggiunto nel suo essere un’altra «sfera di
originalità», passiva nella sua costituzione come la mia. Un’alterità,
quindi, basata sulla reciprocità ma raggiunta per analogia, a partire
da sé.
Levinas – pur dichiarando di cominciare «quasi sempre con
Husserl o da Husserl», e proprio dalle Meditazioni cartesiane – critica il modo in cui Husserl descrive l’incontro con l’altro: per lui,
l’«associazione» per analogia ego-alter ego di Husserl è immediatamente, anzi, prima ancora, «socialità».
Quando Husserl costruisce l’alter ego deducendolo per analogia con
la mia presenza corporea, intervengono già dei gesti di associazione
a… che sono trattati come delle «associazioni per somiglianza», in
particolare quando bruscamente io e l’altro appariamo in quello che
Husserl chiama «accoppiamento trascendentale». Questa associazione permane assai ambigua: il modo in cui, tra tutte le possibilità, io
498
mi associo a un altro viso, è forse la somiglianza di due immagini?
Non è già il fatto di riferirmi a un altro socialmente, al viso di un
altro? (LEVINAS 1984, p. 36).
Ed è questa «incrinatura nel sensato della semplice somiglianza»
a determinare la temporalità dello «psichismo».
3. Sentire gli altri
Se Husserl aveva rintracciato il senso della parola «altri» nell’essere un «altro io» (alter ego)9 e impostato il tema del sentire comune in
termini speculari10, di una passività attiva o di “empatia”, con queste
ultime citazioni vediamo ora come l’alterità risieda invece proprio,
per Levinas, nell’intimità degli altri, nella loro specifica e originaria
differenza, e come essa non possa in nessun modo essere un riflesso
della propria. La si può incontrare solo attuando11 questa relazione
imprescindibile dal proprio egoismo. Nel momento in cui si abbandona la relazione, astraendosi dal rapporto per riflettere sui suoi termini, si è già persa la possibilità dell’incontro autentico con Altri.
È molto interessante che Levinas indichi una prova di quest’irriducibilità nella differenza sessuale, inserendo un movimento di differenza nell’identità, di «unicità a-priori plurale del volto» (DERRIDA
1998, p. 167), che fa cadere a vuoto, a mio avviso, qualsiasi critica di
aver impostato il femminile in termini di subordinazione12.
La sessualità costituisce un esempio di questa relazione, attuata prima di essere riflessa: l’altro sesso è un’alterità portata da un essere
come essenza e non come il rovescio della sua identità, ma non potrebbe colpire un io asessuato. Altri come maestro – può servirci
ancora da esempio di un’alterità che non è soltanto in relazione a
me, che, appartenendo all’essenza dell’Altro, è però visibile soltanto
a partire da un io (LEVINAS 1961, p. 121).
Questa differenza attiva una separazione che minaccia fin dall’origine qualsiasi sintesi, perfino la più originaria. Già nella «sintesi originaria del tempo» vista come l’inserimento di un altro tempo nello
499
stesso tempo (di un tempo originario anteriore a quello fenomenale)
può essere rintracciato un elemento di separazione. Un tempo che,
come ci dice Derrida, introduce un movimento di différance (DERRIDA
1967a, p. 105), o che, come ci suggerisce Ricoeur, sfida la logica del
medesimo e dell’altro (RICOEUR 1985, p. 46). Prima di tutto, prima
ancora di potersi dire soggetto, il soggetto è abitato da un’alterità
irriducibile, da un tutt’altro da sé: «è ostaggio». Ed è questa la dislocazione che la separazione opera all’interno della soggettività. In
Totalità è infinito questo aspetto è proposto in termini di spazio con il
frequente utilizzo di metafore che evocano luoghi: l’«io è a casa sua»
(LEVINAS 1961, p. 118) e la casa, cifra dell’identità, è quel dominio
privato che delimita sia la sfera della mio riserbo sia i confini con un
fuori di me, e mediante porte e finestre mi concede la possibilità di
ricevere ospiti. Nel capitolo intitolato La dimora, l’host si de-situa, si
rivela guest della sua casa e di se stesso, e scorge la sua possibilità di
ospitare nell’essere a sua volta già stato pre-originariamente ospitato dalla differenza che lo abita, la Donna, «accoglienza ospitale per
eccellenza».
Qui la sensibilità come possibilità di accogliere, possibilità preoriginariamente etica, è espressa dall’«idea di infinito» che eccede il
pensiero che la pensa. In termini quindi di distanza: un’accoglienza infinita di uno spazio smisurato che non vuole rimandare a un Dio ma
che anzi si definisce, rispetto alla precedente formulazione cartesiana
di infinito – da cui pur deriva – proprio mediante un addio a Dio. È
propriamente questo il senso dell’a-Dio: l’attribuire a ogni uomo quel
carattere religioso di totale alterità, inassimilabilità e di infinito, propri di Dio13. Rinunciando a un’etica, come per esempio quella cattolica, che vede in tutti gli uomini un rimando al volto di Dio.
Un pensiero che pensa più di quanto possa pensare è un pensiero
che accoglie e riceve, che fa proprie le caratteristiche che da sempre
la tradizione occidentale ha attribuito alla sensibilità e contrapposto
alla ragione, come spiega Derrida commentando alcuni passi di Totalità e infinito:
Non si può comprendere o percepire cosa significa ricevere se non
a partire dall’accoglienza ospitale, dall’accoglienza aperta o offerta
500
all’altro. La ragione stessa è un ricevere. È un altro modo per dire
[…] che la ragione è sensibilità. La ragione stessa è accoglienza in
quanto accoglimento dell’idea d’infinito – e l’accoglienza è razionale
(DERRIDA 1998, p. 88).
Nelle opere successive a Totalità e infinito, la separazione non è più
richiamata dalla dissimmetria ma da un’anteriorità incommensurabile, è espressa in termini temporali di «un passato che non è mai stato
presente», che nessuna «ritenzione» riesce a trattenere. Un prima rispetto al tempo oggettivo e un troppo tardi rispetto a un sapere che constata solo nel presente. Il tempo così inteso «si differisce, si trascende
all’infinito» (LEVINAS 1993, p. 165), e la sua passività si fa pazienza.
L’interiorità non si descrive in termini spaziali di alcun genere, come
il volume di una sfera avviticchiata e suggellata da un Altro, ma che,
formata come coscienza, si rifletterebbe ancora nel Detto e apparterrebbe così allo spazio comune a tutti, all’ordine sincrono; neanche
se appartenesse alla regione più segreta della sfera. L’interiorità è il
fatto che nell’essere l’incominciare stesso sia preceduto, ma che ciò
che precede non si presenti al libero sguardo che l’assumerebbe, non
si faccia mai né presente né rappresentazione; qualcosa è già passato
“sopra la testa” del presente, non ha attraversato il cordone della
coscienza e non si lascia recuperare; qualcosa che precede l’incominciare e il principio, qualcosa che è an-archicamente, malgrado dell’essere, inverte o precede l’essere. Ma si tratta poi di qualcosa? […] Si
tratta qui di una passività inassumibile, che non si nomina o che si
nomina unicamente per abuso linguistico, pronome della soggettività (LEVINAS 1972, p. 105).
Queste considerazioni aprono la strada per una ridefinizione (anche politica) dell’accoglienza in termini di ospitalità mediante un’inversione di termini: è il luogo stesso, dapprima assunto come metafora della coscienza, che ora si ristruttura nei termini della coscienza
o della sensibilità così intesa. Non più o non solo come uno spazio
che circoscrive una comunità in base alla rigidità delle sue frontiere
territoriali, linguistiche e politiche, pronto a definire extra chiunque
venga da quel «fuori», ma una comunità che, proprio perché ospitata
501
da quei confini territoriali, linguistici e politici – non proprietaria
– si territorializza e ri-territorializza continuamente nelle migrazioni
di altri corpi sessuati dotati di soggettività.
L’accoglienza non è né un gesto né una decisione, né un qualcosa di
derivato, ma il movimento originario del soggetto, la sua possibilità
di avere un volto. E insieme la sua destinazione o responsabilità infinita. Ancora prima che una qualsivoglia giustizia o libertà possano
arrivare a nominarsi «infinita», nel senso di «senza fine» (enduring).
È chiaro a questo punto come la nozione di sensibilità in Levinas
si costituisca mediante una rilettura della passività husserliana in
termini di sensibilità ancora più passiva, più recettiva, che comprende in questo movimento la ragione stessa. Spezzata la compresenza
e la contemporaneità, punti saldi dell’intenzionalità, quest’ultima
si dis-intenziona fino a divenire essere-per-l’altro. Ne deriva una ricomprensione della soggettività non solo contrapposta formalmente
all’essere-per-sé, ma ri-definita a partire dal suo statuto profondamente umano, in contrasto con qualsiasi logica dell’appagamento e
dell’accumulo materiale e ontologico di beni.
È interessante notare come tra i “sentimenti” più imperiosi del maggio 1968 dominasse il rifiuto di un’umanità definita non dalla sua
vulnerabilità più passiva d’ogni passività, dal suo debito verso l’altro
– ma dal suo appagamento, dai suoi saldi in attivo e dai suoi acquisti. Al di là del capitalismo e dello sfruttamento, se ne contestavano
le condizioni: la persona intesa come accumulazione di essere, mediante i meriti, i titoli, la competenza professionale – tumefazione
ontologica che gravava sugli altri sino a schiacciarli, che istituiva
una società gerarchizzata, che si alimentava al di là della necessità
del consumo e che nessun anelito religioso riusciva più a rendere
egualitaria. Sotto il capitale in avere, pesava il capitale in essere (LEVINAS 1972, pp. 151-152).
4. Soffrire gli altri
L’Altro che la sensibilità incontra è spesso richiamato da Levinas
mediante l’epifania di figure e volti afasici che evocano il segno della
502
separazione e del lutto14: lo sradicamento dalla propria terra e la mancanza di una lingua comune (lo straniero) o la perdita da un legame
insostituibile espresso solo dalle lacrime della disperazione (la vedova, l’orfano). Sono volti che incarnano un dolore che non si lascia
comprendere da una conoscenza adeguabile a concetti, né toccare da
un discorso “pertinente”, perché vittime di ciò che accade: di ciò che
il sapere non può vedere né prevedere.
La vedova, a mio avviso, è la figura che più delle altre può portarci
a concludere un discorso sulla sensibilità nei termini in cui è stato
impostato finora.
Innanzitutto è una donna, condizione pre-originaria della sensibilità. E in quanto donna, nella religione ebraica, perpetua direttamente
la tradizione ancora prima di averla appresa15. È inoltre quella figura
che esprime, nell’afasia, nel pianto e nel velo – segni del lutto – il
rifiuto di rendersi oggetto di un discorso tematico. Il silenzio e le
lacrime, oltre il limite dello psichico e del somatico, sono ciò che
non si lascia calcolare dalle regole di un sapere. Possono misurarsi,
nel migliore dei casi, un liquido e le sue gocce, ma non delle lacrime,
come ci ricorda Heidegger16. La presenza del velo, infine, rimanda a
una tradizione che interpreta la storia della verità come storia di veli,
di disvelamenti o rivelazioni. Dietro la quale, nel nostro caso, non
c’è che un volto: esposto, vulnerabile, anticipatamente espropriabile,
che non si lascia vedere se non mediante il limite della sua separazione. Una separazione inaggirabile:
Vuoi farla finita con il velo, e ci riuscirai senza dubbio, ma senza
farla finita con lui. Farla finita con se stesso, è proprio questo il velo.
È proprio lui, lui stesso in sé. E proprio là dove tu la farai finita con
lui, ti sopravviverà, sempre (DERRIDA-Cixous 1999, p. 31).
L’alterità, quindi, non è altro che un volto velato allo sguardo o,
se vogliamo, “nudo” di forme conoscitive.
Fin dalle opere giovanili Levinas insatura un legame molto stretto
tra l’alterità e la morte. Ne Il Tempo e l’Altro e in Dall’esistenza all’esistente il primo incontro con l’alterità viene preannunciato, nel dolore
fisico, dall’arrivo della propria morte, l’alterità assoluta. Ma subito,
503
dal punto di vista del sapere (e del «potere»: del potere di sapere e
della «sovranità» dell’io posso) questo annuncio si rivela un incontro
mancato perché la morte in quanto tale – così come l’altro – non è
un oggetto che può essere catturato teoricamente (e quindi non è mai
“in quanto tale”). Con l’approssimarsi della morte si annuncia quindi
tutta l’illusorietà del potere conoscitivo e appropriativo del soggetto,
la fine del suo sapere sovrano, del suo «potere di potere». E ciò che
è più proprio, ciò che dovrebbe firmare la singolarità insostituibile,
si rivela come l’inappropriabile per eccellenza. Sviluppando in modo
coerente queste prime analisi, in Totalità e infinito ma soprattutto in
Dio la morte e il tempo, Levinas recupera la possibilità di incontrare
autenticamente la morte nella «morte dell’altro», non nella sua fenomenalità, quanto nel suo essere un evento che «mi riguarda» (affecte).
La morte d’Altri diviene, in questo modo, la prima forma d’incontro
con la sua alterità e la responsabilità si fa, prima di tutto, responsabilità per la sua morte, divieto di lasciarlo morire da solo. È qui
che la sensibilità tocca il fondo della sua passività. Come dolore che
riceve l’esperienza della morte in sé, ancora prima che questa avvenga
effettivamente. Un dolore o un «lutto originario», come l’ha chiamato Derrida, che testimonia l’assoluta inassimilabilità al pensiero
dell’altro uomo.
Sulla scia di questa possibilità etica racchiusa nel lutto, Derrida,
infedelmente fedele all’eredità freudiana17, ci descrive il lavoro del lutto
come un lavoro infinito, fatto coincidere proprio con l’impossibilità
del suo compimento in termini di incorporazione, assimilazione e riconciliazione all’interno di un’economia psichica. Penso qui anche a
un’altra vedova, quella raccontata da François Ozon18, che vive tutta
l’impossibilità e l’incompiutezza del suo lutto nella presenza costante e ossessiva dell’assenza di suo marito, un’assenza che c’è (il y a). La
pesantezza di un corpo su cui piangere, non restituito dal mare, è di
continuo intatta al limite di lei e, come un velo, diventa la cifra della
sua sensibilità e del suo dolore. Quel pianto interno, tutto intatto,
esplode e si rovescia solo in una risata, al contatto di un altro corpo,
troppo leggero.
Ma torniamo a Derrida: laddove il soggetto psichico – o politico
– porta a compimento il suo lavoro di «narcisizzazione», «assimila504
zione» e «integrazione» della morte o dell’altro vengono immediatamente respinti e annullati sia la morte che l’altro. Sia quest’ultimo
un defunto, un cittadino o un migrante.
Abbiamo studiato [...] certi riti d’ospitalità di antiche popolazioni
del Messico dove, all’arrivo dell’altro, dell’ospite, le donne dovevano piangere. [...] Come interpretare queste lacrime? Si dice che
queste donne considerassero coloro che arrivavano [arrivants] come
fantasmi che tornavano [revenants]. I morti ritornavano. Bisognava
salutarli come fantasmi, con le lacrime del lutto. Tra l’ospitalità e il
lutto c’è una certa affinità [...] la novità di questa venuta implica in
se stessa il ritorno del morto [la revenance]19.
L’accoglienza che celebra ogni incontro come ogni volta unico, come
un ritorno o una resurrezione, è una sensibilità vuota di narcisismo,
che non si ama attraverso le proprie lacrime ma nella quale «ogni
lacrima è dell’altro, dell’amico, del vivente come noi, che ci ricorda
di custodire la vita» (DERRIDA 2003a, p. 127).
1
2
3
4
5
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971 p. 24.
«La capacità (recettività) di ricevere rappresentazioni nel modo in cui siamo
modificati dagli oggetti, si chiama sensibilità». (E. Kant, Critica della ragion pura,
Laterza, Bari 1982, p. 65).
«Se noi risaliamo lungo la struttura intenzionale di una qualsiasi oggettività
data, se risaliamo lungo le interpretazioni retrospettive che si danno alla coscienza nella forma di una ricettività secondaria, […], perveniamo, eventualmente
attraverso tutta una serie di passi, a oggettività fondanti, […] Gli oggetti caratterizzati secondo questa peculiarità – e insieme gli oggetti originari a cui, per la
loro costituzione fenomenologica, tutti gli oggetti possibili rimandano – sono
gli oggetti dei sensi» (HUSSERL 1952a, p. 416).
«Non ho bisogno di dire che a tutte queste considerazioni che stiamo conducendo può anche essere dato un titolo famoso: quello di “inconscio”» (HUSSERL
1966b, p. 211). Per un approfondimento del tema dell’«inconscio» in Husserl
cfr. COSTA-FRANZINI-SPINICCI 2002; cfr. anche F. S. TRINCIA, Coscienza e inconscio
tra psicoanalisi e fenomenologia: il problema di una teoria fenomenologica dell’inconscio,
«La Cultura», Anno XLII, n. 1, aprile 2004, pp. 135-165.
«Con la realtà noi abbiamo a che fare soltanto, in quanto è realtà intesa, intuita,
pensata concettualmente» (HUSSERL 1966b, p. 48).
505
Sull’aporeticità della Urimpression si sono a lungo soffermati sia Levinas che Derrida. Levinas in questo modo: «Ma, d’altra parte, allorché Husserl, nelle sue
descrizioni della costituzione del tempo, utilizza delle espressioni che hanno già
un significato temporale, egli non afferma l’esistenza di un tempo dietro al tempo. Bisogna ammettere, qui, un ritorno del tempo su se stesso. […] La coscienza
della permanenza del flusso, per esempio, è un’effettuazione della permanenza
del flusso “identico nella sua forma”» (LEVINAS 1949, p. 175). E Derrida: «La
fenomenologia trascendentale della coscienza interna del tempo, pur così preoccupata di mettere tra parentesi il tempo cosmico, deve in quanto coscienza e in
quanto coscienza interna, vivere un tempo complice del tempo del mondo. Fra
la coscienza, la percezione (interna o esterna) e il “mondo”, la rottura forse non è
possibile, sia pure nella forma sottile della riduzione» (DERRIDA 1967a, p. 99).
7
«La percezione è una corrente di fasi ciascuna delle quali è già, a suo modo,
percezione; queste fasi tuttavia sono continuamente unificate nell’unità di una
sintesi» ((HUSSERL 1966b, p.108).
8
C’è qui un esplicito [va tolto l’apostrofo] richiamo a un celebre passo di Derrida
nel quale l’interpretazione della fenomenologia come rinuncia alla tematizzazione da parte di Levinas viene definita come: «una singolare interruzione, una
sospensione o un’epoché, che, ancor più e ancor prima di essere un’epoché fenomenologica è un’epoché della fenomenologia» (DERRIDA 1998, pp. 114-115).
9
«Una prima direzione può fornircela il senso della parola “altri”, “altro io”. Altro
significa alter-ego e l’ego che è qui implicito sono io stesso, costituito entro la
mia proprietà primordiale» (HUSSERL 1950a, p. 130).
10
«L’altro, per il suo senso costitutivo, rinvia a me stesso; l’altro è rispecchiamento
di me stesso e propriamente esso non è propriamente un rispecchiamento, un
analogo di me stesso, né addirittura un analogo in senso comune» (HUSSERL
1950a, p. 117).
11
«Essere io significa, al di là di ogni individuazione che si può ottenere da un
sistema di riferimenti, avere l’identità come contenuto. L’io non è un essere che
resta sempre lo stesso, ma l’essere il cui esistere consiste nell’identificarsi, nel
ritrovare la propria identità attraverso tutto quello che gli succede. È l’identità
per eccellenza, l’opera originaria dell’identificazione» (LEVINAS 1961, p. 34).
12
Mi riferisco alla critica che, ne Il secondo sesso, S. De Beauvoir rivolge alle affermazioni contenute ne Il tempo e l’altro: «Suppongo che Levinas non dimentichi
che la donna è anche di per sé coscienza. Ma è degno di nota che egli adotti deliberatamente un punto di vista maschile senza porre in evidenza la reciprocità
del soggetto e dell’oggetto. Quando scrive che la donna è mistero, è sottinteso
che ella è mistero per l’uomo. Cosicché questa descrizione che vorrebbe essere
obbiettiva è in realtà un’affermazione del privilegio maschile» (S. DE BEAUVOIR,
Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 29). Ciò che questa critica non può
cogliere, a mio avviso, è la pre-originarietà dell’etica in cui si inserisce il discorso
sulla femminilità, che ne Il tempo e l’altro ancora non era delineata in modo esplicito. Ma che si lascia cogliere se letta alla luce di un’analisi retrospettiva mediante
6
506
gli scritti di Levinas posteriori al Secondo sesso. Mentre in Totalità e infinito il tema
del femminile è più volte affrontato esplicitamente, in Altrimenti che essere è assente
in maniera tematica ma ossessivamente tangibile nel linguaggio carico di metafore che rimandano alla maternità. In entrambe le opere, come ho accennato, le
analisi levinasiane si collocano in un non-luogo, in un origine pre-etica dell’etica,
al di là dell’ontologia e delle distinzioni ontiche tra maschile e femminile nella
loro realtà empirica. Se si tiene presente questo, il femminile può essere considerato proprio come il simbolo di questo assolutamente originario non solo nella sua
specificità ma nella sua irriducibile differenza dal maschile (la maternità come
accoglienza e ospitalità) per essere icona dell’umanità dell’umano. Un simbolo
che non vuole ricadere in una logica oppositiva ma essere, semplicemente, la
cifra di una differenza originaria e irriducibile all’interno dell’identità, anche di
quella femminile. In questo senso, come ha sottolineato Derrida, si potrebbe addirittura leggere il femminile levinasiano come un manifesto femminista: «L’altra
interpretazione di questa descrizione non protesterebbe più contro un androcentrismo classico. Al contrario, essa potrebbe perfino fare di questo testo [Totalità
e infinito] una specie di manifesto femminista. È infatti a partire dalla femminilità ch’esso definisce l’accoglienza per eccellenza, l’accoglienza o l’accoglimento
dell’ospitalità assoluta, assolutamente originaria, perfino pre-originaria, cioè,
nientemeno, l’origine pre-etica dell’etica. Un simile gesto raggiungerebbe una
radicalità essenziale e meta empirica che assume la differenza sessuale all’interno
di un’etica emancipata dall’ontologia. Arriverebbe perfino ad affidare l’apertura
dell’accoglienza all’“essere femminile” e non al fatto delle donne empiriche. L’accoglienza, origine anarchica dell’etica, appartiene alla “dimensione della femminilità”
e non alla presenza empirica di un essere umano di “sesso femminile”» (DERRIDA
1997a, p. 106).
13
«Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me» (LEVINAS 1961, p. 48).
14
Il tedesco Trauer (così come l’inglese Mourning) indica tanto l’affetto del dolore
quanto la sua manifestazione. Con la parola italiana lutto (dal latino luctus, pianto,
lugere, piangere ed essere in lutto) s’intende l’insieme delle reazioni psicologiche
e dei comportamenti – sia individuali che collettivi – che si manifestano in seguito alla morte di una persona cara. Nell’accostare il lutto alla separazione e alla
figura levinasiana dello «straniero» ho implicitamente adottato l’accezione più
ampia, descritta da Freud in questo modo: «Il lutto è invariabilmente la reazione
alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la
patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via». (S. FREUD, Lutto e melanconia, in Id., Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 102-103).
15
«Solo l’uomo ha bisogno della Torah come suo fondamento cosciente, alla nascita
di una figlia il padre aveva pregato soltanto di poterla condurre al baldacchino
nuziale ed alle buone opere; infatti la donna possiede questo fondamento della
vita ebraica anche senza il cosciente rinnovamento dell’“apprendere”, necessario invece all’uomo, che è meno saldamente radicato nella terra del “naturale”.
507
Infatti per decreto antico del diritto è lei che perpetua il sangue ebraico: non
solo il figlio di due genitori ebrei, ma già il figlio di madre ebrea è, per nascita,
ebreo» (F. ROSENZWEIG, La Stella della redenzione, trad. it. di G. Bonola, Casale
Monferrato, Marietti, 1985, p. 348.
16
Cfr. HEIDEGGER 1987a, p. 147.
17
«Orbene in che cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le
cose se lo descrivo nel modo seguente: l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò
che è connesso con tale oggetto. […] Tuttavia questo compito non può essere
realizzato immediatamente [...] nel frattempo l’esistenza dell’oggetto perduto viene
psichicamente prolungata. […] Comunque, una volta portato a termine il lavoro
del lutto, l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito». (S. Freud, Lutto e melanconia,
op. cit., pp. 103-104, corsivi miei).
18
François Ozon, Sous le sable, 2000.
19
(DERRIDA 2001, p. 99) «Nous avons étudié [...] tels rites d’hospitalité d’anciennes populatios du Mexique où à l’arrivée de l’autre, de l’hôte, les fammes
devaient pleurer. [...] Comment interpréter ces larmes? On dis que ces femmes
considéraient les arrivants comme des revenants, les morts revenaient. Il fallait
les saluer comme des revenants par les larmes de deuil. Entre l’hospitalité et le
deuil il y a une certenne affinité [...] la nouveauté de cette venue implique en
elle-même la revenance» (trad. A. Romani)
SOGGETTO
di Nicola Zippel
“Soggetto”, agg., a. Posto sotto, sottostante.
b. Che deve sottostare all’autorità e al potere altrui
sost., a. Argomento, tema
b. Persona o cosa che viene presa in considerazione
c. (uso fam.) Persona, tipo, spesso in tono scherzoso o spregiativo
dal Vocabolario della Lingua Italiana “Treccani”
In un passo di un manoscritto del 1931 (Ms. C 10), Husserl scrive che l’Io, «nella sua originarietà più originaria, non è nel tempo»,
precisando in modo significativo come qui, per “tempo”, si intenda
il «presente costantemente temporalizzantesi e temporalizzante in
quanto presente vivente originariamente modale» (HUSSERL 2006, p.
197); asserire, quindi, l’intemporalità dell’Io, significa dire che l’Io,
per quel che riguarda il suo nucleo originario, il suo tratto primitivo,
non appartiene a quella sfera del presente che vive in una continua
temporalizzazione di sé. Questo non comporta, tuttavia, escludere del
tutto l’Io dalla dimensione della lebendige Gegenwart, bensì delimitare
in essa una parte interamente non egologica, quella parte che, nelle
righe successive, Husserl chiama la «sfera immanente», la quale, se
con essa si vuole intendere il presente originariamente fluente, «è in508
509
teramente solo non-Io, e tutto ciò che in essa è costituito e continua
a essere costituito, è non-Io in gradi differenti. La costituzione del
flusso temporale pre-ontico, dell’essente pre-ontico» (HUSSERL 2006,
p. 198).
Si ha qui la fondamentale suddivisione della struttura del presente vivente, dove due dimensioni parimenti originarie concorrono, nella
loro essenziale correlazione percorsa dal filo rosso della temporalità,
alla costituzione graduale del senso dell’esistente:
la costituzione degli essenti in gradi differenti, di mondi, di tempi,
ha due presupposti originari, due sorgenti originarie, che, detto in
termini temporali (in ognuna di queste temporalità), costantemente
le “stanno a fondamento”: 1) il mio Io originario in quanto fungente, in quanto Io originario nelle sue affezioni e azioni […]. 2) il
mio originario non-Io in quanto flusso originario della temporalizzazione e proprio come forma originaria (Urform) della temporalizzazione, costituente un campo temporale, quello della materialità
originaria (Ur-Sachlichkeit). Tuttavia [aggiunge Husserl] entrambi i
fondamenti originari sono un che di unico, di indivisibile e quindi
per sé astrattamente considerati1.
Solo in un’astrazione metodologica, volta a cogliere separatamente
i due momenti fondamentali della costituzione, materia e Io sono rappresentati in sé, l’uno staccato dall’altra, ognuno colto nella propria
conformazione individuale; ma nei fatti, essi sono un unicum, perché
l’uno trapassa continuamente nell’altra e viceversa, in un gioco d’interdipendenza, che ha nel campo temporale-intenzionale del presente
vivente il luogo d’origine e d’attuazione. Ed è appunto l’ineliminabile
carattere relazionale della temporalità intenzionale, che unisce la sfera
iletica a quella soggettiva: come la materia è l’humus di una coscienzadi, ossia è il nutrimento originario (Ur-Sachlichkeit) delle articolazioni
coscienziali, il contorno concreto (Urform) della loro temporalizzazione intenzionale, così l’Io è quel centro fungente, che di volta in volta
coordina, mediante affezioni e azioni, i diversi momenti coscienziali
attraversati costantemente dal contenuto materiale. Questo primigenio meccanismo iletico-soggettivo presiede al compimento di ogni
atto della nostra vita intenzionale, ragion per cui
510
dovremo dividere in ciascun atto, nella sua temporalizzazione originaria come vissuto, le impressioni di vissuto, così come le ritenzioni e
le protensioni di vissuto, e gli autentici modi attivi, originariamente sorgivi, davvero soggettivamente sorgivi, ossia come modi delle
forme di realizzazione, che appartengono proprio all’Io originario
fungente2.
L’azione congiunta di Io e materia dà vita alla temporalizzazione
dell’atto, che diventa un vissuto di coscienza, il quale assume, a seconda del momento di coscienza che va a costituire, le forme dell’impressione, della ritenzione o della protensione.
Cos’è, tuttavia, che permette a due sfere essenzialmente eterogenee, quali quella dell’Ego e della hyle, di compenetrarsi reciprocamente e di presentarsi, quindi, come indivisibili al di fuori di una
considerazione astratta? La risposta va evidentemente cercata dalla
parte del soggetto, perché, se è vero che la materia è del tutto ichlos,
priva, quindi, di qualsiasi tratto soggettivo, ossia personale, l’Io, al
contrario, essendo già da sempre immerso in un ambiente estraneo,
non solo «è sempre presso (ist immer dabei)»3 l’originario flusso iletico, ma questo “esser presso” ha le forme peculiari di un «esser-presso
senziente (ein fühlendes Dabei-Sein)»4, ossia costitutivamente aperto
all’affezione e, quindi, all’azione5. Tale è quella che Husserl chiama
la «legalità originaria (Urgesetzlichkeit)» che regola la relazione tra
hyle e Io,
secondo la quale uno strato egologico delle affezioni e azioni temporizzate (verzeitlichen), uno strato reificato, temporizzato (verzeitigt)
in maniera materiale, si unisce in matrimonio, per così dire, con lo
strato originariamente iletico6.
Essendo sottoposte a una legalità originaria, le nozze tra soggetto
e materia sono combinate ab initio, senza la possibilità per nessuno
dei due contraenti di operare una scelta diversa; di nuovo, emerge
come il tratto fondamentale di questa legalità inviolabile sia quello
della relazione, una relazione dominata dal tratto imperioso della necessità, in cui, quindi, non vige alcuna libertà (libertà di cui gode, in
qualche misura, il soggetto fenomenologizzante, che dà vita al per511
corso metodologico). Così come una relazione, del tutto sui generis,
è quella che congiunge l’Io alla dimensione temporale del flusso di
coscienza, che da sempre lo circonda e con cui esso entra in rapporto
attraverso l’unione con la materia. È di fondamentale importanza, allora, comprendere in che senso l’Io può dirsi intemporale e temporale
nello stesso tempo (secondo quello che credo sia molto più di un lezioso
gioco di parole).
È sempre l’analisi accurata della struttura dell’atto che ci consente
di chiarire ulteriormente la fisionomia delle componenti fondamentali del presente vivente. Se, dunque, rivolgiamo di nuovo l’attenzione, mediante un’esperienza riflessiva, ergo metodologica, su un atto
singolo, troviamo:
1. In primo luogo, lo strato inferiore temporale dell’“oggettuale”, a
cui l’atto è diretto.
2. In secondo luogo, come strato superiore [troviamo] l’atto immanente temporale stesso, nelle sue esecuzioni-d’atto, che, fase per fase,
si riferiscono alle fasi dello strato inferiore, e che quindi sono temporizzate (verzeitlicht) insieme allo strato inferiore.
3. Ma troviamo propriamente pure temporizzato (verzeitigt) l’Io dell’esecuzione, che perdura nel corso dell’atto, proprio l’Io che, in ogni
ora dell’atto, che noi ci presentifichiamo in modo vivente, è l’identico esecutore in tutti i modi di esecuzione, che di volta in volta
valgono ora per lui costantemente7.
Il processo di temporizzazione (Verzeitlichung)8 dell’Io, dunque, è
filtrato dall’esecuzione dell’atto, il quale si dirige verso lo strato inferiore dell’oggettualità materiale e in correlazione ad essa diviene
temporale; mentre, però, entrare in contatto con la sfera iletica significa per l’atto condividere con essa tutti i passaggi impliciti nello
scorrere temporale, l’Io, come esecutore dell’atto, non ne condivide
perciò il destino defluente, e rimane perdurante nella propria identità attuale. «La mia realizzazione dell’atto e il mio io che realizza
l’atto sono passati, e tuttavia io non sono passato, io sono ancora»,
dal momento che, per quanto sottomesso all’inevitabile evento della
temporizzazione di sé,
512
l’Io che permane nel corso dell’atto non è qualcosa che dura, attraverso l’atto come durata temporale riempita, nello stesso senso in cui
dura qualcosa di temporale, ma [si vede] che esso stesso è un qualcosa di identico nel corso della durata materiale, privo di estensione,
un ora che permane nel mutamento delle sue realizzazioni9.
Allo stesso modo dell’atto, che esso realizza, l’Io ha una durata; ha
tale durata, però, non nello stesso senso dell’atto né dell’oggettualità
d’atto. L’atto, infatti, nel temporalizzarsi insieme con lo strato oggettuale, assume infine una durata materiale, reificata, che si estende
lungo il flusso coscienziale secondo le differenti gradualità del passato; laddove l’Io, invece, dura nel senso che perdura (steht und bleibt) in
se stesso, in un’ora costante, fisso, non esteso, in cui esso di volta in
volta si riconosce come l’esecutore dei propri atti. Sia l’atto che l’Io
hanno un’identità, ma, mentre quella dell’atto, nella sua realizzazione oggettuale, coincide con un determinato posto temporale, così
come Husserl spiegava già nelle Vorlesungen del 1905,
l’identità dell’Io non è la semplice identità di un qualcosa che dura,
bensì è l’identità dell’esecutore [des Vollziehers, che Husserl identifica
in nota con l’Ich-Pol], e, dato che si costituisce un’unità di durata,
allora esso rimane un’unicità particolare, ciò che si chiama l’identità
dell’esecutore10.
Due sono le considerazioni da trarre sulla base dei passi appena
letti:
1. La singolarità dell’Io, ciò che ne marca l’identità, è dovuta al suo
porsi al di fuori, ossia al di sopra del flusso temporale, inteso come la
costante durata di atti oggettuali;
2. Il tratto fondamentale della sovra-temporalità dell’Io consiste
nella sua non-estensione, in quella che resta, da parte di Husserl,
una lettura fondamentalmente aristotelica del tempo, secondo il prima e il dopo11.
Husserl identifica la sovratemporalità con quella parte del soggetto, che è riconoscibile nell’Io-Polo; sebbene, di fatto, esso non
513
sia separabile dalla dimensione personale-mondana (monadica, nel
linguaggio delle Meditazioni cartesiane) dell’Ego, è necessario attuare
tale separazione in sede di metodo, ovvero per via astrattiva, al fine
di cogliere il nucleo essenziale della soggettività.
L’Io-Polo, allora, altro non è che l’«Io puro» delle Idee I e II, a
cui fra breve bisognerà riferirsi, non solo se si vuole comprendere in
che modo la molteplicità delle articolazioni infracoscienziali può di
volta in volta coordinarsi in e mediante un centro12, ma anche se si
deve dare ragione della possibilità del metodo fenomenologico. Solo
un ente, infatti, che sia in grado di cogliere se stesso nella purezza,
per quanto astratta, del proprio status originario, può svolgere quel
ruolo fondamentale di spettatore un-beteiligt di ciò che costituisce il
modus essendi della propria struttura vitale, ossia il presente vivente
nella sua duplicità iletico-soggettiva.
Tale duplice articolazione, inseparabile nelle cose stesse, necessita di
una riduzione, che sia in grado, per via astrattiva, di isolare le due
sfere l’una dall’altra, in modo da indagarne le peculiarità originali. In
un testo dei manoscritti di Bernau (1917/18), Husserl separa metodologicamente le due parti costitutive del presente vivente, a partire
dalla dimensione materiale, che si ottiene mediante «l’astrazione da
un Io e da tutto ciò che è egologico – insomma una semplice astrazione,
ma importante», in seguito alla quale «abbiamo, nel primo immanente ordine temporale, i dati di sensazione e i sentimenti sensibili»
(HUSSERL 2001, pp. 275-276, secondo corsivo mio)13.
Occorre notare, seguendo le riflessioni di Husserl, come questa
prima regione della coscienza di tempo possa ulteriormente essere
divisa al suo interno, nella sfera degli stimoli e della reazione agli stimoli da una parte e, dall’altra, nelle tendenze sensibili «totalmente
a-soggettive» (völlig ichlos), quali l’associazione e la riproduzione che,
a differenza degli stimoli, non mettono in alcun modo in gioco l’Io14.
Esse, secondo Husserl, costituiscono quella che definisce
intenzionalità passiva. Qui l’Io, anche come polo di affezioni e reazioni,
è pensato fuori gioco o, piuttosto, astratto da tale situazione. Abbiamo quindi una prima struttura, che è stata messa in evidenza “in
modo astratto”, quella della passività della sensibilità originaria15.
514
La cifra della passività in seno alla coscienza è contraddistinta dall’assenza di qualsiasi tratto riconducibile non solo all’attività dell’Io,
ma anche alla sua reattività, al suo patire ciò che gli è estraneo; per
questo motivo, in sede metodologica, dalla regione della sensibilità
originaria è escluso «anche l’Io come polo di affezioni e reazioni», al
fine di isolare nella sua purezza la zona ichlos tout court, dove i processi
dell’associazione e della riproduzione sono il frutto delle continue
compenetrazioni infracoscienziali, a partire dai momenti primari
dell’impressione, della ritenzione e della protensione; essi, sebbene
in concreto non siano separabili da un’entità soggettiva, non sono
per questo opera di un soggetto, ma, al contrario, gli forniscono lo
sfondo necessario a sviluppare qualcosa come una vita personale. Se
noi, infatti, nel progredire delle riflessioni metodologiche, passiamo
a considerare l’Io-Polo, cogliamo «il regno delle affezioni e delle reazioni, che naturalmente presuppone il primo livello» (HUSSERL 2001, p.
276, corsivo mio), quello, cioè, dell’associazione e della riproduzione
originarie. In questo secondo stadio, tuttavia, non abbiamo ancora
l’Io razionale, che, in virtù della propria intelligenza, si relaziona
consapevolmente e in modo libero al suo ambiente iletico; esso è raggiunto solo in un passaggio ulteriore, che ci conduce al «terzo livello
(che presuppone i precedenti), il regno dell’intellectus agens» (HUSSERL
2001, p. 276).
In che modo questi tre stadi, separabili solo attraverso una riduzione astrattiva, convivono all’interno di una stessa struttura, quella
della temporalità immanente, la quale, a sua volta, costituisce l’ossatura della lebendige Gegenwart? Ciò che regola quello che Husserl
definisce l’“ordine temporale” è una delle figure fondamentali della
coscienza di tempo, già indagata nelle Lezioni del 1905, ossia quella della Deckung, della coincidenza, che continuamente occorre tra le
differenti fasi dello Zeitbewusstsein: «in questo modo [spiega Husserl] abbiamo cercato di costruirci il regno universale del tempo immanente ovvero degli ordini temporali immanenti “coincidenti”»
(HUSSERL 2001, p. 277). Che significa, d’altra parte, che la regione
della passività originaria “coincide” con quella degli stimoli e delle
reazioni soggettive, e che, entrambe, “coincidono” con quella dell’Io
inteso come “intelletto agente”? Che cos’è che, percorrendo tutte e
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tre i livelli, permette ad essi di relazionarsi gli uni agli altri nella
forma della coincidenza? Il tempo, si dovrà rispondere, o, più precisamente, la struttura temporale, nella cui immanenza i tre livelli
si costituiscono. Eppure, non ogni livello può essere definito come
“temporale”, nello specifico il secondo stadio, quello dell’Io-Polo, si
contraddistingue come “intemporale” (unzeitlich).
In apparenza abbiamo in ciò [nell’ordine temporale] ogni soggettivo – e in un certo modo lo “abbiamo” – e tuttavia di nuovo non lo
abbiamo; perché ciò che noi abbiamo, è appena un che di essente,
di temporale, e non ogni soggettivo è un che di temporale, è un che
di individuale nel senso di ciò che viene individualizzato mediante
un unico posto temporale. Ciò che noi soprattutto non abbiamo nel
flusso di vissuto è l’Io stesso, il centro identico, il polo, a cui è riferito
il contenuto totale del flusso di vissuto, l’Io, che viene affetto da
questo o quel contenuto, e che in seguito a ciò sta in maniera attiva
rispetto a tale contenuto in questo o quel modo e attivamente gli dà,
in un modo o in un altro, una forma16.
L’essere “intemporale” dell’Io, quindi, è legato alla sua assenza
all’interno del flusso di vissuti, dal momento che ne rappresenta il
punto – polo - di riferimento, ciò che non potrebbe essere, qualora
fosse immerso anch’esso nell’alveo della corrente di Erlebnisse, al pari
di qualsiasi altro Erlebnis.
L’espressione unzeitlich, dunque, ha un preciso significato spaziale,
in qualche modo fisico, che aiuti a visualizzare non tanto l’assenza
dell’Io nel flusso temporale immanente, quanto il suo collocarsi al di
fuori – al di sopra – di esso. L’Io
è il polo di tutte le serie temporali e necessariamente, come tale, è
“sovra”-temporale, l’Io, per il quale il tempo si costituisce, per il
quale c’è una temporalità, un’oggettualità individualmente singolare nell’intenzionalità della sfera di vissuto, l’Io che però, in se stesso,
non è temporale. In questo senso esso non è quindi “essente”, bensì
la controparte (Gegenstück) di ogni essente, non è un oggetto, ma il
soggetto primario (Urstand) di ogni oggettualità17.
516
Nel quadro concettuale delineato da Husserl, “temporale” descrive
il modo d’essere di “ciò che è”, del Seiendes, il quale si costituisce, attraverso le articolazioni intenzionali del conferimento di senso, nelle
forme di un’oggettualità per un Io; per questo motivo, l’Io stesso non
può essere definito “temporale”, ma il polo di ciò che è temporale,
la sua condizione originaria, ciò che, fuori dal flusso temporale, è in
grado non solo di relazionarsi ad esso, ma di costituirne la condizione
di possibilità, il necessario contraltare di ogni sua componente. Solo
perché c’è un Gegen-Pol, è possibile qualcosa come un Gegen-Stand.
Di nuovo, è la traccia della relazione quella che bisogna seguire,
se si vuole comprendere com’è strutturata la soggettività trascendentale. Una relazione, tuttavia, non simmetrica, dal momento che
l’Io non è di fronte all’oggetto come Gegen-Stand, bensì come UrStand, come ciò che è in grado di dare un nome a quello che gli sta
di fronte, di individuarlo nel procedere del flusso, di dargli un posto
nella corrente temporale, senza per questo divenire oggetto né a sua
volta occupare una Zeitstelle. «L’Io in senso autentico non dovrebbe
neanche chiamarsi l’Io e in generale non dovrebbe chiamarsi, poiché
allora sarebbe già divenuto in senso oggettuale» (HUSSERL 2001, pp.
277-278); ricevere un nome, quindi, significa diventare un oggetto,
ossia essere identificato attraverso un percorso – la sinngebung – che,
non avendo origine in ciò che viene nominato – l’Erlebnis dell’Erlebnisstrom -, deve necessariamente provenire da una fonte esterna ad esso
– l’Io über-zeitlich. Se l’Io fosse a sua volta nominabile, ovvero oggettualizzabile, allora esso non rappresenterebbe più uno Ur-Stand, ma
un semplice Gegen-Stand. Esso, al contrario, «è il senza nome sopra
tutto ciò che può essere colto, <ciò che>, sopra tutto, non è fisso, non
ondeggia, non è essente, bensì è “fungente”, come ciò che coglie, che
valuta etc.» (HUSSERL 2001, p. 278).
Emerge qui la nozione fondamentale dell’Io come Funktionszentrum, come centro di funzione, ossia come centro fungente, operante
sia nell’agire che nel reagire, fulcro della sterminata vita temporale
della coscienza, che non si identifica con nessuno dei momenti coscienziali né in alcuno si risolve, ma che coincide (deckt sich), però,
con ciascuno di essi, così come ogni raggio di una circonferenza è
riconducibile al suo centro, il quale, a sua volta, è di ognuno la stessa
517
e identica fonte. L’Io fungente è quello stesso Io puro descritto nelle
pagine di Idee II, dove si legge che
quale è essente nel modo della dipendenza di senso – e, quindi, dell’essere relativo – da un essente in modo “assoluto”:
sarebbe un controsenso ritenere che l’io, l’io puro, non sia realmente
o sia qualche cosa di totalmente diverso da ciò che funge in questo
cogito […]. Ma l’io non si manifesta, non si presenta unilateralmente, non si manifesta nelle sue particolari determinatezze, nei suoi
particolari lati, nei suoi momenti, i quali, dal canto loro, possono
semplicemente manifestarsi; piuttosto, l’io è in assoluta ipseità e si
dà nella sua unità priva di adombramenti, può essere colto adeguatamente attraverso una conversione riflessiva dello sguardo (reflektive
Blickwendung), che risalga (zurückgehend) a esso come a un centro di
funzioni (HUSSERL 1952a, p. 109).
avremmo così un controsenso, per cui l’Io assolutamente essente ritrova nella durata del suo essere se stesso come non essente, mentre
evidentemente è possibile soltanto questo: che l’io puro non si ritrovi
affatto, finché esso non riflette su di sé (HUSSERL 1952a, p. 1080)21.
È l’Io, che, operando il gesto fondamentale della riflessione (Reflexion o Selbstbesinnung), si coglie nella propria purezza, senza, però,
rendersi oggetto a se stesso, perché esso in primis non si dà mai come
un oggetto, mostrandosi “privo di adombramenti” e “in maniera
adeguata”, due condizioni che mancano non solo al manifestarsi, ma
anche al decorso temporale di qualsiasi oggettualità, rispetto al quale
l’Io è über.
Il concetto di Reflexion è fondamentale, quindi, per comprendere
uno dei passaggi più critici della fenomenologia, concernente lo status
dell’Io: quando, nel passo citato dai manoscritti di Bernau, Husserl
afferma che l’Io non è ciò che può essere colto (fassbar), ma ciò che
coglie (fassend), si deve intendere che non è possibile cogliere l’Io per
via diretta, così come, invece, si può cogliere un’oggettualità fluente
nello scorrere coscienziale18. Ed è possibile cogliere l’oggetto direttamente, perché è l’Io che, strutturato internamente come coscienza-di,
si dirige su un oggetto; laddove, qualora volesse cogliere se stesso, è
obbligato, come si legge in Idee II, a eseguire non solo una Blickwendung, un mutamento di sguardo, ma altresì nelle forme caratteristiche
di uno Zurückgehen, di un ritornare indietro, un andare a ritroso, un
ri-durre19. E così, se alla luce delle indagini di Idee II, che li precedono
di qualche anno20, rileggiamo i passaggi centrali dei Bernauer Manuskripte dedicati all’Io, si comprende come Husserl intenda dire che l’Io
in generale è sì essente, ma non nel modo dell’oggettualità essente, la
518
Dire che l’Io è,“ha una durata del proprio essere”, implica la possibilità di pensare anche l’Io come nel tempo, non, però, l’Io inteso
solo nella sua purezza, bensì come di volta in volta espressione di un
cogito, il quale «con tutte le sue parti costitutive, si genera o trapassa nel
flusso dei vissuti. Ma il soggetto puro non si genera e non trapassa, sebbene
a suo modo “entri in scena” e di nuovo ne “esca” (obwohl es in seiner
Art „auftritt“ und wieder „abtritt“)» (HUSSERL 1952a, p. 108)22. Qual è,
allora, quel modo secondo cui l’Io calca le scene del flusso di vissuti,
che gli consente di coniugare purezza sovratemporale e durata temporale?
La risposta può essere trovata compiendo un ulteriore passo indietro
lungo il corso delle riflessioni husserliane, fino a uno dei più celebri
passi di Idee I, dove l’Io viene descritto come «una specie singolarissima
di trascendenza – non costituita -, una trascendenza nell’immanenza»
(HUSSERL 1950c, p. 144). È questa eigenartige Transzendenz che connota il modo d’essere dell’Io rispetto a quel flusso dei vissuti, che
come sfondo appartiene all’Io, ma a cui, d’altra parte, lo stesso Io
appartiene, nelle forme appunto di una trascendenza, di un qualcosa
che eccede, che sta al di là – über – del flusso, pur costituendone il
centro irraggiante, il polo internamente fungente, una trascendenza
nella immanenza.
Il concetto di Transzendenz in der Immanenz rimane, a mio avviso,
la migliore definizione che Husserl abbia mai dato della figura dell’Io, perché essa conserva la cifra relazionale della struttura soggettiva,
quella che consente di comprenderne la genesi all’interno di un ambiente che lo circonda, ma non ne annulla l’individualità, la quale, a
partire dal nucleo sempre fungente, si sviluppa nelle forme personali
di un Io-nel-mondo, di un «Io come polo soggettivo di modi di comportamento e attraverso essi riferito a ogni altro immanente, al suo
519
“ambiente”» (HUSSERL 2001, p. 281). È al nucleo, tuttavia, astraendo
dalla sua congenita relazionalità, che bisogna tornare, per cogliere
l’Io nella sua purezza originaria; cogliere, d’altra parte, non significa
nominare né ancora descrivere, bensì intuire, in conformità al metodo
fenomenologico, la natura elementare di ciò che si ricerca. «Se prescindiamo dai suoi modi di “relazione” o di “comportamento”, esso
[l’Io] manca completamente di componenti essenziali; non ha alcun
contenuto esplicabile, è, in sé e per sé, indescrivibile: puro io e niente
più» (HUSSERL 1950c, p. 201). Da questa constatazione della purezza
dell’Io, che non si dovrebbe neanche nominare pena l’oggettivazione, il passo a un’ulteriore considerazione è breve; in essa, l’Io si offre
già nei suoi modi di relazione o, più precisamente, di correlazione
rispetto a ogni oggettualità. È quell’Io che entra di continuo nella
scena della coscienza e altrettanto costantemente ne esce, restando
inalterato nella propria identità, come
Zeitbeziehung dell’Io. Il soggetto è intrinsecamente, costitutivamente relazionale, perché è intrinsecamente, costitutivamente temporale,
là dove “temporale”, però, non significa ciò che è nel tempo, ossia
che ha un posto nel tempo, modalità solo secondariamente acquisita
dall’Io che, an sich, è über-zeitlich; “temporale”, qui, indica che il soggetto appartiene già da sempre ad un ambiente, quello del presente
vivente, che non gli permette di permanere nella propria purezza, se
non nelle forme di un centro di una rete di connessioni, un centro
che, per quanto razionale e dotato di consapevolezza (Selbstbesinnung),
non ha in sé la condizione del proprio essere. Dire del soggetto che è
temporale, quindi, significa descriverne la condizione originaria, che
coincide con quel letzten und wahrhaft Absoluten (Idee I, § 81), cui l’Io
deve il suo stare al mondo.
limite di ciò che defluisce nel flusso temporale […]. Esso è proprio
l’essere soggettivo e come tale deve vivere <la sua modalità> in una
vita originaria, che oscilla sopra tutto ciò che è temporale [trascendenza], una vita, che tuttavia immediatamente entra nella temporalità
[nell’immanenza] e procura all’Io stesso, in quanto polo soggettivo
dei suoi vissuti nel tempo, una posizione e una durata nel tempo in
una modalità secondaria23.
L’intreccio tra il tempo e il soggetto è ciò che rende possibile il
riflettere della coscienza su se stessa, perché tale riflettere ha luogo
mediante il metodo peculiare della riduzione trascendentale, dove
l’emergere della struttura originaria dell’Io avviene attraverso le forme della temporalità immanente, nelle quali, come in controluce, si
scorge la dimensione originaria del presente vivente.
Questo stesso intreccio, tuttavia, genera la paradossale situazione in cui il soggetto scopre di essere già sempre in rapporto con il
proprio tempo interno da un lato e, dall’altro, di agire, nel modo
della costituzione, sul flusso originario, determinandone il carattere
d’essere: «L’Io-penso, l’Io-rifletto, l’Io-identifico, l’Io-constato, l’Iocompio-un’evidenza di giudizio – esso precede l’essere constatato, esso è
l’Io che constata, operante» (HUSSERL 2002, p. 175). La vita fluente
dell’Io esiste nei modi originari del presente vivente e, nel suo essere,
c’è già, precede quindi la coscienza che di essa può avere l’Io una volta eseguita la riduzione; il Lebensstrom, in questo senso, è Vor-ichlich.
E tuttavia, per un altro verso, l’Io, nel suo ritornare su di sé mediante l’autoriflessione metodologica e trascendentale, investe di un senso
compiuto l’essere del flusso originario, attuando la più intima e fondamentale delle Sinngebungen:
I modi in cui l’Io diventa qualcosa di analogo ad un oggetto temporale sono solo secondari, a differenza del modus essendi originario
della vita sovratemporale; essa è l’aspetto concreto del lato puro, assoluto, colto per astrazione, della trascendenza soggettiva e, come
tale, mostra sempre anche la parte dell’Io posizionata nel tempo,
quel terzo livello in cui l’Io è descritto nei termini dell’intellectus
agens. Non è a questo livello, d’altra parte, che si trova l’originaria
relazione dell’Io al tempo, perché esso presuppone sia lo stadio precedente, quello dell’Io-Polo fungente, sia il grado ancora più anteriore,
quello della passività originaria. Ed è proprio tra questi due livelli,
che corrispondono alle due articolazioni fondamentali della generalissima struttura del presente vivente, che occorre individuare la
520
***
521
così, nel mio conoscere giudicante, affermo: la vita viene sempre prima del metodo interpretante, e questo metodo è esso stesso vita e così
via. Ma solo l’interpretazione pensante prende atto di questa vita, che
essa è così, che essa è il suo [dell’interpretazione] risultato, e in tal
modo l’interpretazione precede l’essere nel senso della verità24.
La riduzione fenomenologica, essendo il frutto di una radicale domanda di chiarimento (Rückfrage) su ciò che la precede quanto all’essere, assume le forme di un ritorno consapevole e rammemorante ad un
passato sui generis, poiché non ha i caratteri di qualcosa che è trascorso, bensì di qualcosa che c’è da sempre, solo che nessuno lo ricorda.
Tale oblio dura fintanto che il soggetto permane nell’atteggiamento
naturale, da cui può fuoriuscire soltanto mediante una radicale presa
di coscienza, che rompa definitivamente con un presente immemore
e anonimo, per volgersi all’eterno presente originariamente vivente.
Tale volgersi soggettivo, però, non si limita a svelare, ma, svelando,
interpreta, determina, dà senso al tempo ritrovato, mediante un’interpretazione pensante che giunge, sì, in ritardo rispetto al proprio
essere autentico, ma è la sola che può riconoscerlo come tale.
È interessante notare la presenza di una sorta di parallelismo tra
la riduzione rivolta all’Io e quella esercitata sul mondo, le quali, infine,
rappresentano due percorsi che hanno il medesimo inizio e la medesima fine, ossia l’istanza metodologica soggettiva, che riconduce tutte le
linee dell’essere alla coscienza operante nell’intenzionalità temporale.
Tale parallelismo emerge qualora si leggano insieme due passi
tratti, rispettivamente, da Zur phänomenologischen Reduktion e dalla
Prima Meditazione Cartesiana:
Tutto ciò che è per me ed è così fatto, è una prestazione del mio pensiero
riflettente e riflettente nel modo del pensiero, il quale nel pensare
constata proprio questo, ossia constata il precedere del pre-essente
indeterminato, impensato, nella forma di un essente che precede il
Si-pensa, mentre il pensare constata questo “prima” e il senso dello
stesso pre-essere25.
Ogni cosa mondana, ogni essere spaziotemporale è per me – ciò vuol
dire vale per me, e proprio in modo che io lo esperisca, lo percepisca,
522
me ne ricordi, ne pensi qualcosa, lo giudichi, lo valuti, lo desideri
ecc. […] se dirigo esclusivamente il mio sguardo su questo vivere
stesso, come consapevolezza del mondo, allora io ritrovo me stesso
come puro ego con la corrente pura delle mie cogitationes. In tal
modo, l’essere naturale del mondo - di quello di cui parlo e posso
parlare – è preceduto dall’essere, in sé anteriore, dell’ego puro e delle
sue cogitationes. Il piano d’essere naturale è secondario nel suo valore d’essere; esso presuppone costantemente quello trascendentale
(HUSSERL 1950a, p. 54).
Sia rispetto al proprio essere più profondo e autentico, sia in rapporto all’essere del mondo, l’Io, in quanto soggetto cosciente di sé, è
sempre secondo, in ritardo; la consapevolezza, infatti, non nasce insieme all’essere, il quale, in sé, precede qualsiasi conferimento di senso, qualsiasi pensiero che lo tematizzi in quanto essere. L’essere del
presente vivente e l’essere del mondo sono già sempre essere, prima
che l’Io volga lo sguardo su di essi; tuttavia, solo dopo che tale sguardo soggettivo ha operato una determinazione di senso, l’essere può
venir chiamato con il proprio nome. Il livello puro dell’essere è presoggettivo, pre-coscienziale (nel senso della consapevolezza) e, quindi,
pre-fenomenologico; ma questo precedere indica una mancanza, una
privazione originaria: l’assenza di un senso definito, il quale può provenire solo in virtù di una radicale operazione metodica che il soggetto rivolge, in entrambi i casi (del presente vivente e del mondo),
verso se stesso: «Tutto ciò deve essere descritto in modo migliore, più
correttamente, come una parte fondamentale del metodo di una radicale
autoriflessione» (HUSSERL 2002, p. 175).
È qui, forse, che diviene possibile scorgere il senso autentico dell’idealismo e dell’intellettualismo husserliani, ossia nella valorizzazione
della radice soggettiva del pensiero, il quale si sviluppa in una costante
autoconsiderazione riflettente, che, come tale, ha necessariamente luogo
ad un livello teoretico, nelle forme rigorose di un metodo interpretante.
Il cosiddetto “intellettualismo” husserliano, allora, non costituisce il motivo di una critica da rivolgere alla fenomenologia, ma, al
contrario, rappresenta una semplice quanto genuina constatazione
del ruolo privilegiato che riveste la riflessione, all’interno del metodo fenomenologico. Essa, infatti, è un puro gesto teoretico, che,
523
per essenza, non accade al livello del vivere diretto, ma, basandosi
su un’intuizione primaria, interviene in un secondo momento per
tematizzare ciò che è colto allo stadio intuitivo e conferire ad esso un
senso determinato. La coscienza fenomenologica, essendo strutturata
nei modi di un costante meccanismo di Sinngebungen, deve necessariamente ridurre ogni vissuto a un significato teoretico ultimo. A
ragione, dunque, Levinas scrive che «in Husserl l’essere si presenta
come correlativo della vita intuitiva teoretica, dell’evidenza di un atto
oggettivante» (LEVINAS 1930, p. 109, primo corsivo mio); la venatura
teoretica dell’intuizione, messa opportunamente in risalto da Levinas,
non indica, però, a mio giudizio, un concetto «viziato da intellettualismo» (LEVINAS 1930, p. 109), bensì descrive quel carattere originario che, come tale, non solo è alla base di ogni atto della coscienza
in quanto intenzionale, ossia costituente un senso, ma legittima altresì la
pretesa della fenomenologia di ritornare su ciò che è già da sempre,
rivivendolo sull’unico livello possibile, ossia quello della riflessione
tematizzante-rammemorante26. L’Io, in quanto soggetto articolato intenzionalmente, esiste originariamente, sebbene non esclusivamente,
nei modi della teoresi, per cui, nota ancora correttamente Levinas,
occorre affermare rispetto a Husserl come «la nozione di esistenza
resti in lui strettamente legata alla nozione di teoria, alla nozione di
conoscenza» (LEVINAS 1930, p. 150). Per questo motivo, nel rapportarsi a se stessa attraverso i modi della Selbstbesinnung, la soggettività
cerca di far riemergere la propria storia eidetica dimenticata, mediante il metodo peculiare della riduzione, che, agendo nelle forme
di un ricordo conferente senso, assume le forme di una ricostruzione,
su un diverso livello di consapevolezza, di ciò che si è (già da sempre)
stati. «Ma cos’è che regola l’intento di ricostruzione – possiamo chiederci con le parole di Paul Ricoeur – se non il desiderio di rispondere a
ciò che non può non essere interpretato come domanda di discorso che
viene dall’essente-stato?» (RICOEUR 1998, p. 40)27.
***
La descrizione fenomenologica, che percorre a ritroso le strutture
dell’Io fino alla sfera originaria del presente vivente, culmina nel ri524
conoscimento della correlazione vigente tra la soggettività e il mondo, la quale si fonda sull’unico vero presupposto apodittico del pensiero husserliano: la pensabilità del mondo28. Tale presupposto, d’altra
parte, se è ciò che spinge il filosofo a condursi lungo le vie del metodo autoriflettente, viene dimostrato nella sua validità al momento
della messa in luce della relazionalità costitutiva del soggetto, ossia
l’intenzionalità, che indica l’apertura teoretico-conoscitiva dell’Io
all’alterità di una trascendenza. Esso deve comunque, all’inizio, fungere da presupposto non ancora dimostrato (ma non indimostrabile),
perché l’indagine fenomenologica possa avere una ragion d’essere. La
consapevolezza della radice soggettiva della relazione al mondo, agli
albori dell’impresa fenomenologica, ha le forme di un’intuizione, la
quale, sebbene non ancora sviluppata, indica già la via da seguire
per giungere al chiarimento dell’origine della validità di senso della
trascendenza, ossia la via della Selbstbesinnung coscienziale. La stessa
questione sollevata dall’enigma della conoscenza29 presuppone che
ciò che è esterno al soggetto, possa essere pensato, al fine di essere messo
in questione:
tutte le domande sull’essere, sull’essere e l’esser-così mondano, ma
anche le domande correlate, sulla conoscenza relativa, valida provvisoriamente e sulla conoscenza di ciò che è essente in sé, sono domande della soggettività e la presuppongono in quanto soggettività
cosciente del mondo […]. Noi, che mettiamo in questione l’essere
del mondo, siamo apodittici in quanto coloro che vivono in una vita
cosciente del mondo30.
Tale apoditticità, però, non è riscontrabile nell’Ego puro, avulso
dal movimento dell’intenzionalità fluente, ma, al contrario, è riconoscibile in questo stesso fluire, dapprima intuito indistintamente e poi
tematizzato in maniera sempre più concreta, lungo il percorso della
riduzione riflettente-rammemorante. Essa è l’apoditticità del nostro
stesso essere-in-un-mondo31, considerato, tuttavia, non da un punto di
vista ingenuo, che constata un semplice dato di fatto, bensì colto
nella sua radice autentica, quella della trascendentalità del soggetto,
operante nei modi caratteristici dell’intenzionalità32.
525
A questo punto, le strutture del soggetto divengono il filtro attraverso il quale leggere il senso dell’essere del mondo; la provvisorietà
della conoscenza delle singole realtà trascendenti, dovuta alle continue modalizzazioni temporali della coscienza intenzionale, mette in
risalto, come per contrasto, la certezza della relazione dell’immanenza
soggettiva alla trascendenza mondana, dove, se la seconda non può
essere pensata senza il riferimento alla prima, questa, a sua volta,
esiste solo nei modi di una “vita cosciente del mondo”33.
1
2
3
4
5
6
7
HUSSERL 2006, p. 199; «Konstitution von Seienden verschiedener Stufen, von
Welten, von Zeiten, hat zwei Urvoraussetzungen, zwei Urquellen, die zeitlich
gesprochen (in jeder dieser Zeitlichkeiten) immerfort ihr „zugrunde liegen“: 1)
mein urtümliches Ich als fungierendes, als Ur-Ich in seinen Affektionen und
Aktionen […]. 2) mein urtümliches Nicht-Ich als urtümlicher Strom der Zeitigung und selbst als Urform der Zeitigung, ein Zeitfeld, das der Ur-Sachlichkeit, konstituierend. Aber beide Urgründe sind einig, untrennbar und so für
sich betrachte abstrakt». In mancanza di un’edizione italiana per HUSSERL 2001,
HUSSERL 2002 e HUSSERL 2006 ho tradotto io i passi citati.
HUSSERL 2006, p. 197, corsivo mio; «werden wir scheiden müssen bei jedem Akte
in seiner ursprünglichen Zeitigung als Erlebnis die Erlebnis-Impressionen bzw.
die Erlebnisretentionen und -protentionen und die eigentlich urquellenden,
auch ichlich quellenden Aktmodi, nämlich als Modi der Vollzugsweisen, die
dem fungierenden Ur-Ich selbst zugehören».
Cfr. HUSSERL 2006, p. 200.
Cfr. HUSSERL 2006 (Ms. C 16), p. 351.
Tale è la figura dell’Io, che, secondo Iso Kern, rapportandosi alla struttura della
coscienza sensibile, può essere adeguatamente descritto con la nozione di “centratura” (Zentrierung), a differenza dell’Io-intelletto, il quale, pur fondandosi nel
soggetto che si relaziona al presente immediato, non ha alcun rapporto diretto
con la dimensione (corporea -) sensibile. Cfr. KERN 1975, pp. 153-154.
HUSSERL 2006, p. 200; «nach der sich mit der urtümlich hyletischen Schicht
sozusagen vermählt eine versachlichte, sachlich-verzeitigte ichliche Schicht der
verzeitlichen Affektionen und Aktionen».
HUSSERL 2006, p. 201; « 1) fürs Erste die zeitliche Unterschicht des „Gegenständlichen“, worauf der Akt gerichtet ist. 2) Fürs Zweite als Oberschicht den
immanent zeitlichen Akt selbst in seinen, Phase für Phase sich auf die Phasen
der Unterschicht beziehenden, Akt-Vollzügen, die so in eins mit der Unterschicht verzeitlicht sind. 3) Wir finden aber eigentlich auch verzeitigt das stehende und bleibende Vollzugs-Ich während des Aktes, eben das in jedem Jetzt
526
des Aktes, den wir uns da lebendig vergegenwärtigen, der identische Vollzieher
ist durch alle für ihn jeweils fortgeltenden Vollzugsmodi».
8
Per il termine tedesco Verzeitlichung (o, come Husserl scrive in altri luoghi, Verzeitigung) non esiste una traduzione corrente nell’ambito degli studi husserliani
in Italia. Si ha la difficoltà di una resa in italiano, non tanto perchè Verzeitlichung
rappresenta un neologismo anche rispetto alla lingua tedesca, ma soprattutto
perché, nel passaggio dal tedesco all’italiano, è alquanto arduo dare conto della
sfumatura di significato contenuta nel prefisso “ver”. Ho scelto di rendere Verzeitlichung con “temporizzazione”, tenendo conto che questo vocabolo, nel normale
lessico italiano, indica «la programmazione di un dispositivo (ad es. un timer)
in modo che funzioni secondo intervalli di tempo prestabiliti» (dal Dizionario
della lingua italiana De Mauro). Trasfigurando il senso prettamente tecnico del
termine, mantenendo tuttavia il riferimento a un intervento volontario, che renda possibile l’inizio di un processo temporale, ritengo che tale vocabolo possa
trasmettere in maniera adeguata il significato che ad esso conferisce Husserl.
Egli, infatti, in un testo successivo al manoscritto in esame, parla di «Verzeitlichung der Akte», cui fa corrispondere una «eigentliche Zeitigung», cfr. HUSSERL
2002, «Text Nr. 10. Zur lebendigen Gegenwart. Passive Zeitigung des Erlebnisstroms gegenüber der Verzeitlichung der Akte. Vorzeitigung und eigentliche
Zeitigung» (Estate 1930, con aggiunte del 1932), p. 179; in un altro passo dello
stesso testo, si legge che il flusso «ist a priori von dem Ego zu verzeitlichen» (ivi,
p. 181) e, più avanti, che io, «das strömende ständige Leben thematisierend,
eben damit aktiv eine eigentliche Verzeitigung vollziehe» (ivi, p. 184). Questi
passi, a mio avviso, dimostrano come Husserl leghi la Verzeitlichung o Verzeitigung
all’attività intenzionale dell’Io e al suo operare nel contesto della consapevolezza
fenomenologica, tematizzante, di contro alla passività del flusso, dove si realizza
sì una temporalizzazione (Zeitigung), ma non autentica, ossia priva di un agire
soggettivo («‘Passiv’ besagt hier: ohne Tun des Ich» (ivi, p. 179)). La nozione
di Verzeitlichung, quindi, denota la costituzione coscientemente attiva dell’Io come
personalità umana nel mondo. È possibile, pertanto, rendere tale richiamo ad un
Io attivo con “temporizzazione”, dove, come s’è detto, è implicito un riferimento
all’intervento consapevole di un soggetto fungente.
9
HUSSERL 2006, pp. 201-202; «das stehende und bleibende Ich während des
Aktes nicht ein durch den Akt als erfüllte Zeitdauer hindurch in gleichem Sinn
Dauerndes ist, wie ein Zeitliches dauert, sondern [sieht man] dass es selbst ausdehnungslos während der sachlichen Dauer Identisches ist, stehendes und bleibendes Jetzt im Wandel seiner Vollzüge».
10
HUSSERL 2006, p. 202; «die Identität des Ich ist nicht die bloße Identität eines
Dauernden, sondern die Identität des Vollziehers, und wenn schon sich auch
eine Dauereinheit konstituiert, so bleibt es ein einzigartiges Eigenes, das Identität des Vollziehers heißt».
11
Tale è, secondo Bernet, lo sfondo teoretico che presiede alla concezione husserliana della lebendige Gegenwart, cfr. R. Bernet, Einleitung, in BERNET 1985, p. XII.
527
I presupposti aristotelici delle analisi fenomenologiche del tempo sono messi
bene in luce da Gunther Eigler, il quale tra l’altro individua l’aporia cruciale
del concetto di temporalità nella relazione tra “ora” e “flusso”, aporia che, sorta
con l’idea aristotelico-platonica del tempo, rimane inalterata nel passaggio, via
Agostino, a Husserl. Cfr. EIGLER 1961, in particolare pp. 102-115. Non è qui il
luogo per discutere lo sfondo classico della concezione husserliana del tempo né
le aporie, altrettanto classiche, che Husserl eredita dai suoi illustri predecessori.
Ritengo, tuttavia, che il livello puramente descrittivo dell’indagine fenomenologica permetta di neutralizzare gli effetti aporetici, legati a una concezione ontologica della temporalità, qual è quella di Aristotele e Agostino. Neutralizzare
non significa risolverli né tanto meno annullarli, bensì, in una sorta di epoché
concettuale, metterli “fuori gioco”, “fuori validità”.
12
Nel suo istruttivo studio sulle presentificazioni coscienziali, Eduard Marbach,
muovendo da un punto di vista rigorosamente fenomenologico, propone il ritorno all’utilizzo del concetto di Io puro, il quale non va inteso come un’entità isolata da qualsiasi attività mentale né opposta a un ipotetico non-Io, bensì come il
centro operativo dell’attività di coscienza, come “punto d’incontro” soggettivo,
sovratemporale, della pluralità d’atti. Cfr. MARBACH 1993, pp. 88-92.
13
Nell’Introduzione al volume della Husserliana, Bernet puntualizza come già nei
manoscritti di Bernau si trovi la distinzione tra sfera egologica e pre-egologica,
che verrà poi ampiamente analizzata nei testi degli anni Trenta, e a cui corrisponde la separazione tra attività e passività; che la dimensione passiva riceva
nelle riflessioni di Bernau una prima, approfondita analisi, dimostra secondo
Bernet che qui, prima ancora che nelle Lezioni sulla sintesi passiva, abbia inizio
il percorso genetico della fenomenologia. Cfr. Ivi, Einleitung der Herausgeber, pp.
XXXVII e XLVI.
14
Cfr. HUSSERL 2001, p. 276.
15
HUSSERL 2001, p. 276, corsivo mio; «Passive Intentionalität. Hier ist das Ich auch
als Pol der Affektionen und Reaktionen außer Spiel gedacht, oder vielmehr davon abstrahiert. Wir haben dann also eine erste, „abstrakt“ herauszuhebende
Struktur, die der Passivität der ursprünglichen Sensualität».
16
HUSSERL 2001, p. 277, corsivi miei; «Scheinbar haben wir damit alles Subjektive
– und in gewisser Weise “haben” wir es – und doch wieder nicht; denn was wir
haben, ist eben Seiendes, Zeitliches, und nicht alles Subjektive ist Zeitliches,
ist Individuelles in dem Sinn des durch eine einmalige Zeitstelle Individualisierten. Was wir vor allem nicht im Erlebnisstrom haben, ist das Ich selbst,
das identische Zentrum, der Pol, auf den der gesamte Gehalt des Erlebnisstrom
bezogen ist, das Ich, das von dem oder jenem Gehalt affiziert wird, und das
daraufhin sich tätig zu diesem Gehalt so und so verhält und ihn aktiv so und so
gestaltet».
17
HUSSERL 2001, p. 277; «der Pol ist für alle Zeitreihen und notewendig als das
„über“-zeitlich ist, das Ich, für das sich die Zeit konstituiert, für das Zeitlichkeit, individuell singuläre Gegenständlichkeit in der Intentionalität der Erleb-
528
nissphäre da ist, das aber nicht selbst zeitlich ist. In diesem Sinn ist es also
nicht „Seiendes“, sondern Gegenstück für alles Seiende, nicht ein Gegenstand,
sondern Urstand für alle Gegenständlichkeit».
18
Cfr. HUSSERL 2001, pp. 286-287.
19
Un ridurre che assume sì le forme di un’auto-riflessione, ma, anche in questo
caso, non di un’auto-obiettivazione, dal momento che, come spiega Kern, «l’Io
è sempre solo un “io faccio” (o un “io farò” o un “io farei” ecc.) e non può essere
considerato come un oggetto per sé (per così dire in quanto semplice Io). In
questa è però implicita una differenza ancora più importante: l’Io non può essere
reso oggetto, neanche come un atto nella pura riflessione. Infatti, l’Io “comprende” come unità sempre anche l’atto “attuale”, “riflettente”, che non può mai in
quanto attuale essere oggetto, ma solo essere presentificato in un nuovo atto, che
da parte sua però rimane necessariamente inoggettuale. L’Io ha nella sua unità
sempre anche l’attualità ed è perciò sempre anche “al di qua” dell’intenzionare
presentificante», KERN 1975, p. 66.
In questo senso, è giusto ribadire il carattere “trascendente” dell’Ego, come propone Sartre e, sulla scia delle analisi sartriane, anche Gurwitsch (cfr. SARTRE
1966, GURWITSCH 1966); questo non comporta, però, che l’Io si riduca a un’oggettualità tra le altre, dal momento che la cifra dell’auto-consapevolezza non solo
lo contraddistingue da qualsiasi altro oggetto (in qualità di “Ur-Stand”), ma ne
fa altresì l’unico possibile esecutore del metodo fenomenologico.
20
Stando all’Indice delle pagine originali dei manoscritti, i passi in oggetto risalgono al 1915. Cfr. HUSSERL 1952a, p. 425 del volume della Husserliana.
21
Traduzione del finale di frase modificata rispetto all’edizione italiana, in cui
si legge: «perché non riflette su di sé». Nel volume della Husserliana (p. 103)
troviamo: «weil es nicht auf sich reflektiert». L’Io si ritrova come già essente nel
perdurare del proprio essere, nel momento in cui riflette su di sé; tale ritrovamento non avviene, quindi, “perché l’Io non riflette su di sé”, ovvero “finché” esso
non riflette su di sé; il recupero del significato arcaico di “weil” consente, a mio
avviso, di chiarire meglio il passaggio dalla fase pre-riflessiva a quella riflessiva,
che, come tale, caratterizza la vita dell’Io e la distingue da quella dei vissuti di
coscienza.
22
Traduzione leggermente modificata nella parte finale, là dove si legge: «per
quanto, a modo suo, “si faccia avanti” e poi “sparisca dalla scena”».
23
HUSSERL 2001, p. 287; «Grenze des im Zeitfluss […]. Es ist eben Subjektsein,
und als das <hat es seine Weise> in einem über allem Zeitlichen schwebenden
Urleben zu leben, ein Leben, das aber alsbald in die Zeitlichkeit eingeht und
dem Ich selbst als Subjektpol seiner Erlebnisse in der Zeit eine Stellung in der
Zeit und Dauer in der Zeit in einer sekundären Weise verschafft».
24
HUSSERL 2002, p. 175; «So urteilend-erkennend sage Ich: Das Leben geht immer
vorher der auslegende Methode, und diese Methode ist selbst Leben usw. Aber
die denkende Auslegung stellt dies erst fest, dass es so ist, das ist ihr Ergebnis,
und so geht sie dem Sein im Sinn der Wahrheit voraus».
529
HUSSERL 2002, p. 175; «Alles, was für mich ist und so ist, ist Leistung meines Denkens,
das sich besinnende und denkend besinnende, <das> eben dies auch denkend
feststellt und das Vorangehen des unbestimmten, ungedachten Vorseienden festellt in Form eines Seienden vor dem Es-Denken, während das Denken dieses
„Vorher“ und den Sinn des Vorseins selbst feststellt».
26
«La riduzione fenomenologica non ha altro scopo che quello di renderci presente
il nostro vero io, ma di renderlo presente in una prospettiva puramente teorica
e contemplativa, che osserva la vita ma non si confonde più con essa», LEVINAS
1930, p. 166.
27
Secondo corsivo mio, a voler rimarcare la sfera di tematizzazione teoretica, su cui
ritengo debba necessariamente muoversi la fenomenologia.
28
«La coscienza pura dev’essere esibita in una rigorosa contrapposizione alla realtà esperibile, ma insieme, tuttavia, a partire da tale esperibilità» (NATORP 1973, p. 45).
29
Cfr. HUSSERL 1987, p. 24.
30
HUSSERL 2002, pp. 425-426, corsivo mio; «Alle Seinsfragen, alle Weltfragen, Fragen weltlichen Seins und Soseins, aber auch korrelative Fragen relativer, zeitweilig geltend-fortgeltender Erkenntnis und Erkenntnis von Ansichseienden
sind Fragen der Subjektivität und setzen sie als Weltbewusstseinssubjektivität
voraus […]. Wir, die Sein der Welt in Frage stellen, sind apodiktisch als die im
Weltbewusstseinsleben Lebenden».
31
Roman Ingarden mette giustamente in rilievo come, già dal Libro Primo delle
Idee, Husserl abbia tematizzato la condizione dello stare al mondo dell’uomo,
ben prima, quindi, delle riflessioni heideggeriane di Sein und Zeit: «Questo “essere-nel-mondo” – scrive Ingarden – viene trattato presso Heidegger, e soprattutto presso gli scolari di Heidegger, come una scoperta speciale, che è diretta in
un certo senso contro Husserl e deve costituire una via per una decisione realistica. Questo “essere-nel-mondo” è in Husserl, a prescindere dal nuovo motto, una
storia vecchia; esso significa che ogni percezione è una messa in luce a partire da
un campo di percezione, con un orizzonte e un ambiente circostante. Esso non
può essere altro, e chi percepisce è fin dal principio contenuto in questa sfera
totale come percepiente. Dal punto di vista di Husserl – conclude Ingarden
– l’“essere-nel-mondo” non è affatto una novità; esso è il modo d’essere dell’uomo percepiente», (INGARDEN 1970, pp. 42-43).
32
Come spiega Levinas, «L’intenzionalità costituisce la soggettività stessa del soggetto. La sua stessa sostanzialità consiste nel trascendersi. Il problema riguardante
il rapporto del soggetto con l’oggetto aveva la sua giustificazione nell’ontologia sostanzialista, che concepiva l’esistenza secondo l’immagine della cosa che
giaceva su essa stessa. In questo caso, il suo rapporto con tutto ciò che gli era
estraneo diventava profondamente misterioso. Come abbiamo avuto modo di
vedere, Husserl, superando il concetto sostanzialista di esistenza, ha dunque
potuto mostrare che il soggetto non è qualcosa che esiste dall’inizio e che in
seguito si rapporta all’oggetto. Il rapporto del soggetto con l’oggetto costituisce
il fenomeno originariamente primo ed è soltanto in esso che ciò che si chiama
25
530
“soggetto” e “oggetto” si ritrovano». In nota al passo citato, Levinas ribadisce
come «nella percezione non abbiamo a che fare con un mondo di immagini che
indicherebbe un mondo di cose dietro ad esso, come il ritratto che rinvia per sua
essenza all’esistenza dell’originale – è con l’originale stesso che noi abbiamo a
che fare nella percezione», (LEVINAS 1930, pp. 55-56).
33
«Il mondo è quello che vale per noi, che è per noi essente, esperito nella nostra
esperienza, pensato nel nostro pensiero, valorizzato nei nostri valori e trattato nei
nostri affari – un altro mondo che non sia questo di cui noi parliamo e possiamo
parlare, è privo di senso […]. Esso ha quindi noi come correlato, perché il suo senso
d’essere non è altrimenti pensabile che come senso di un correlato, in tutto e
per tutto <esso è> ciò che vale per noi in quanto soggetti egologici» (HUSSERL
2002, p. 429). L’asimmetricità della relazione Io-mondo, non implica un Io che
può fare a meno del mondo, ma la priorità, al livello della costituzione di senso, del
soggetto rispetto alla trascendenza del reale. Fino agli ultimi anni della sua vita,
Husserl ha dovuto ribadire l’importanza della consapevolezza mondana del fenomenologo; cfr. la lettera del 26 giugno 1934, scritta da Husserl all’abate Emile
Baudin e riportata dal curatore della Husserliana nella sua Einleitung: «Nessuno
degli abituali “realisti” è stato così realistico e concreto come me, l’“idealista” fenomenologico […]. Il metodo dell’epoché e della riduzione fe<nomenologica>
presuppone l’esistenza del mondo, proprio in quanto ciò che di volta in volta è
valso e vale per noi, e noi, riflettendo in questo metodo – ciascun io, che riflette
su di sé - siamo nel pieno e concreto possesso del mondo» (HUSSERL 2002, Einleitung des Herausgebers, p. XLVI, nota 1).
531
della verità – perché tutto, nel discorso sullo spazio, rimanda a una
costitutiva e insuperabile contaminazione reciproca di sensibile e intelligibile, di materia e forma, di soggettivo e oggettivo. Una contaminazione che rende inefficace qualsiasi classificazione rigidamente
dicotomica. Lo spazio (Chōra) – «la natura che riceve tutti i corpi»3
– non è, infatti, riducibile né alla pura intelligibilità e permanenza
delle idee, né alla loro incarnazione sensibile e mutevole; al contrario,
il tentativo di renderne filosoficamente accessibile il ruolo e la natura
richiede l’ampliamento di quel primo disegno cosmologico mediante una nuova classificazione e l’introduzione di un “terzo genere”:
SPAZIALITÀ
di Niccolò Argentieri
1. Chōra
Le difficoltà connesse al tentativo di risolvere la complessa sovrapposizione tematica che caratterizza il problema dello spazio, così
come l’importanza cruciale che questo tentativo ha per la filosofia
della conoscenza, sono chiaramente annunciate dal testo che, nel cuore del disegno cosmologico tracciato nel Timeo di Platone, ne fonda
la storia filosofica e concettuale1. Tali difficoltà sono certamente ricavabili dalla cautela con la quale Platone sente di dover affrontare
l’argomento, fino a far precedere l’esposizione da una sorprendente
invocazione agli dei, chiamati a proteggere il discorso a venire da
«considerazioni incoerenti e assurde» per condurlo, se non al vero,
perlomeno a «opinioni verosimili»2: questa preventiva rinuncia alla
possibilità di un sapere indiscusso è importante e significativa. Ma è
nella trattazione vera e propria, nei suoi contenuti e nel suo linguaggio ellittico, spesso piegato a espressioni dichiaratamente analogiche
o metaforiche, che il senso e le ragioni delle difficoltà connesse al
tema dello spazio trovano la formulazione più nitida della loro origine (e del loro destino filosofico): l’impossibilità di conformare alla
elaborazione concettuale del problema dello spazio la logica binaria
532
ebbene, fin dall’inizio dobbiamo fare più divisioni che non nel ragionamento di prima. Noi distinguemmo allora due specie d’essere,
ora ce ne occorre scoprire un terzo genere. Infatti per il discorso di
prima ce ne bastavano due, l’una che supponemmo essere la specie
del modello, specie intelligibile e sempre identica a se stessa, l’altra
fatta ad immagine del modello, e, dunque, generata e visibile. Non
ne distinguemmo allora una terza, ritenendo che due sarebbero state sufficienti: ma ora il ragionamento sembra ci abbia condotti per
forza a tentare di chiarire con le parole anche questa specie difficile
e oscura4.
Questo nuovo principio, «difficile e oscuro», chiamato, come ricettacolo e “nutrice”, ad accogliere la generazione e l’estinzione di
ciò che nasce a imitazione delle idee non ha, né può avere, una forma
o delle proprietà che ne consentano una determinazione concettuale
univoca:
non solo, ma bisogna considerare anche che, dovendo esser l’impronta quanto mai varia, presentandosi sotto infinite figure, ciò in cui si
forma questa impronta non è appropriato davvero, se non in quanto
sia assolutamente privo di tutte quelle forme che deve ricevere dal di
fuori. […] Perciò la madre e il ricettacolo di tutto ciò che si genera,
di tutto ciò che è visibile e pienamente sensibile, non dobbiamo chiamarla né terra, né fuoco, né acqua né alcuna delle cose che nascono da
queste, o da cui queste nascono; ma, dicendo che è una specie invisibile e informe, che tutto in sé riceve e che partecipa, in modo oscuro
e non facile a comprendersi, dell’intelligibile, non diremo il falso5.
533
Da qui, dal carattere al contempo materiale e formale di un principio che deve poter ricevere e rendere percepibile la forma di tutte le
idee, dalla sua natura in sé amorfa e invisibile, derivano le difficoltà di
cui la resa linguistica e concettuale dello spazio deve inevitabilmente
farsi carico – spingendosi così ai limiti delle possibilità semantiche
della parola per dare espressione a quel rapporto «oscuro e difficile
da comprendere» con l’intelligibile: «e vi è infine una terza specie,
quella dello spazio, la quale è sempre costante e immune da distruzione, che serve come da sede a tutte le cose che hanno nascimento,
e che si può apprendere per mezzo di un ragionamento bastardo non
accompagnato da sensazione»6.
La storia filosofica del concetto di spazio è, nei suoi aspetti più
autentici e importanti, la storia dei tentativi di salvaguardare queste difficoltà – impedendone dunque una soluzione unilaterale che
ignori o dissimuli la contaminazione e la natura “terza” che definiscono il principio spaziale – restituendole in un linguaggio nuovo,
quindi anche con nuove analogie e nuove metafore, e rendendole così
essenziali per la costruzione di una più comprensiva filosofia dell’esperienza (e della conoscenza). L’Estetica trascendentale kantiana
(nelle sue connessioni con l’intero impianto della filosofia critica) e la
fenomenologia di Husserl hanno certamente segnato i momenti più
alti e decisivi di questa storia.
2. Lo spazio e la geometria
Il sorgere della scienza moderna e la matematizzazione galileiana
(e newtoniana) della natura implicano un’interpretazione importante, e certamente problematica, dell’impostazione platonica – un’interpretazione che, di fatto, apre una nuova fase nella storia dei suoi
effetti. Il tema dello spazio e della sua struttura geometrica guadagnano, infatti, alla luce della filosofia naturale di Newton, un ruolo
esemplare per la questione dei rapporti tra la filosofia e le scienze (la
matematica in primo luogo), portando a una nuova formulazione le
domande sottese alla classificazione cosmologica del Timeo: qual è il
ruolo dello spazio nella costituzione dell’esperienza? Qual è lo sta534
tuto epistemologico e ontologico della geometria e dei suoi oggetti?
Come deve essere pensata la relazione tra lo spazio nel quale si struttura la percezione sensibile, lo spazio-contesto dei fenomeni fisici e
lo spazio che fonda la legittimità di una scienza come la geometria?
Lo spazio della percezione ha una struttura geometrica, e dunque il
senso delle strutture geometriche è da ricercare nella loro origine
sensibile? Oppure il carattere di necessità attribuito alle proposizioni
della geometria deve cercare un altro fondamento? Cosa garantisce,
in questo caso, l’oggettività delle costruzioni matematiche?
I successi ottenuti dalla fisica matematica, confermando la validità dei presupposti metafisici della scienza galileiana, garantivano, a
priori, una riposta a tutte le domande elencate: il “grande libro dell’universo” è scritto in termini matematici, la geometria (euclidea)
è una scienza descrittiva che dà conto della vera, perché univoca,
struttura dello spazio – l’unico, assoluto, spazio newtoniano – e questo compito mimetico ne garantisce l’oggettività e l’applicabilità. Si
tratta, evidentemente, di una decisa semplificazione dell’impostazione platonica: il “terzo genere” è stato completamente assorbito nella
strutturazione geometrica del reale e il discorso sullo spazio – un
discorso, come abbiamo visto, inevitabilmente impuro, difficile e
oscuro – si è trasformato nella descrizione cristallina di una struttura
perfettamente matematica.
Tuttavia, proprio l’evoluzione della matematica nel corso del XIX
secolo, in particolare la costruzione di geometrie diverse da quella
euclidea, costringe a ripensare questa soluzione. L’evidente coerenza
logica di postulati geometrici che sono in contrasto con quelli della
geometria euclidea (e, forse, con la stessa esperienza percettiva immediata) pone un problema che ammette due possibili interpretazioni.
Si può, in primo luogo, negare il valore conoscitivo delle nuove geometrie, assegnando loro esclusivamente il senso di pure costruzioni
formali e ipotetiche: è la soluzione tecnico/metafisica alla questione
delle geometrie non-euclidee. Oppure il rapporto tra geometria e
spazio, e lo stesso concetto di spazio, devono essere nuovamente interrogati: non tanto in vista di risposte differenti alle medesime domande, quanto per porre le condizioni di una nuova formulazione di
quelle domande, in grado di restituire alla questione dello spazio, e
535
della sua matematizzazione, la complessità originaria. Proverò a farlo
con riferimento esclusivo al percorso riflessivo di Husserl, utilizzando come chiave d’accesso il problema della possibilità di una scienza
fenomenologica, dunque non geometrica, dello spazio. Un progetto
che rimanda, per la sua esatta comprensione e formulazione, al tema
dell’a priori.
3. L’a priori e la libertà delle forme
La questione dell’a priori può essere formulata come il problema dell’origine e dei modi dell’unità del molteplice sensibile. Da
questo punto di vista, una teoria dell’a priori dell’esperienza deve
stabilire se tale unità – che potremmo interpretare come il senso,
l’intelligibilità del molteplice dato – sia da attribuire esclusivamente
all’attività sintetica del soggetto o se invece essa non risulti anche da
una autonoma tendenza della materia dell’intuizione a strutturarsi
secondo nessi e regolarità che anticipano le sintesi predicative e le
costruzioni concettuali. In questo senso, il problema dell’a priori è
dunque il problema della datità, dei suoi modi, e della sua autonomia rispetto all’attività dell’intelletto – un tema cruciale per la
filosofia della matematica e dello spazio in quanto, in entrambi i casi,
è in gioco la questione dell’infinito, il cui centro di gravità filosofico
coincide con l’elaborazione di un’adeguata estetica trascendentale. È,
insomma, il problema stesso dell’esperienza, del ruolo delle facoltà
conoscitive nel processo di costituzione dell’oggetto, dell’autonomia
e della reciproca dipendenza di sensibilità e intelletto, di ricettività
e spontaneità, di materia e forma della conoscenza.
Com’è noto, proprio il tentativo di una ridefinizione della nozione di a priori, con il conseguente disegno di un nuovo equilibrio tra
estetica e logica, rappresenta il tema dominante della fenomenologia
husserliana, o perlomeno uno dei motivi più riconoscibili nella sua
grandiosa evoluzione. In effetti, alla fenomenologia è attribuito il merito di avere approfondito ed esteso l’ambito del sintetico a priori, fino
a includere in tale nozione una legalità più ampia e articolata di quella derivante dalle forme generali dell’intuizione o dai principi dell’in536
telletto – riportabile dunque esclusivamente all’intervento strutturante di un’intenzionalità spontanea e consapevole – e riconducibile
invece ai contenuti stessi della sensibilità, alla materia dell’intuizione. L’a priori, nella concezione husserliana, deve dunque farsi carico e
dar conto anche del livello contenutistico dell’esperienza. Questo è il
senso primario, il più immediato, della nozione – quasi esemplare per
l’apparato teorico della fenomenologia – di a priori materiale. Si tratta
ovviamente di una nozione insidiosa, addirittura apparentemente paradossale (sembra difficile, infatti, conciliare i contenuti materiali dell’esperienza con il carattere a priori di una legalità strutturale, dunque
formale), che richiederebbe, per essere compresa nelle sue articolazioni
e nella sua evoluzione all’interno dei testi husserliani, uno spazio ben
maggiore di quello che intendo accordare a queste brevi considerazioni introduttive. Diciamo che alla base dell’idea di a priori materiale
sta il tentativo di muovere lo sguardo dalle condizioni di possibilità
di un oggetto indeterminato – in quanto tale strutturato in accordo
con le forme dell’intuizione e con le categorie dell’intelletto, dunque
con una legalità indeterminata e omogenea – ai contenuti formali di
stati di cose che sono effettivi oggetti d’esperienza; dalla forma di un
oggetto possibile alle grammatica relazionale degli oggetti reali, alla
loro essenza specifica, al loro senso. Un senso che, secondo Husserl,
non deriva al contenuto materiale dell’intuizione dall’attività ordinatrice della coscienza, che diventerebbe in questo modo l’unica fonte
delle strutture di intelligibilità del reale. Se così stessero le cose, nulla
sarebbe effettivamente dato perché soltanto l’intervento dell’attività
sintetica potrebbe dar vita e parola al caos muto del molteplice fenomenico. L’esperienza sensibile deve avere in sé il criterio della propria
sensatezza; l’intuizione deve produrre autonomamente, passivamente
– vale a dire prima o indipendentemente da qualsiasi attività concettuale – i propri contenuti formali, le leggi e le essenze che definiscono
i generi dell’ontologia materiale e che, una volta evidenziati e descritti dall’analisi fenomenologica, costituiranno il vero contenuto dell’a
priori, che non è dunque una conoscenza acquisita dalla soggettività
attraverso la riflessione sulle proprie funzioni, conoscenza la cui legittimità viene mostrata (ausweisen) nella deduzione trascendentale, ma
una visione essenziale esibita (aufweisen) nell’intuizione7.
537
La questione che sembra emergere in relazione a questa concezione fenomenologica dell’a priori è quella della “libertà” delle costruzioni concettuali (in particolare, per il caso che qui interessa,
geometrico/matematiche) nei confronti di una legalità che le precede. Il problema, semplificando un po’, si può formulare in questi
termini: ammettendo, così come chiede la posizione husserliana, che
le forme secondo le quali si organizza il molteplice sensibile non siano riportabili all’attività sintetica dell’intelletto, ma risultino invece
da autonome sintesi passive che percorrono il contenuto materiale
dell’intuizione, qual è il senso e il ruolo delle costruzioni matematiche? Appare infatti difficile, su queste basi, contestare l’affermazione
secondo la quale le leggi della geometria sono il rispecchiamento a
livello predicativo – un rispecchiamento certo non privo di effetti
– di regolarità già presenti nelle proprietà spaziali degli oggetti della
percezione: una concezione della geometria che mi appare difficilmente conciliabile sia con gli sviluppi della matematica moderna,
così dichiaratamente ed evidentemente lontana da compiti immediatamente descrittivi, sia con il ruolo costitutivo che la matematica ha
progressivamente assunto nell’evoluzione della fisica, fino a sostituire
alla individualità spazio-temporale degli oggetti dell’intuizione sensibile entità descrivibili soltanto in termini matematici – entità che,
alla luce delle conseguenze tecnologiche di tale evoluzione, mostrano
di essere comunque in un rapporto molto stretto con la struttura
profonda della materia.
Una possibile via d’uscita da questa difficoltà deve essere affidata a
una diversa concezione del rapporto fra la matematica e la percezione
sensibile (e fra la matematica e la conoscenza) e a una conseguente,
parallela interpretazione della nozione di a priori materiale.
4. La spazialità e la Raumlehre fenomenologica
Possiamo ora formulare con maggiore precisione, articolandolo in
domande più specifiche, il problema della Raumlehre fenomenologica.
Come abbiamo visto, l’indagine fenomenologica ha l’obiettivo di
una presentazione intuitiva e non mediata delle strutture fondamen538
tali degli strati inferiori della costituzione. Da questo punto di vista,
la geometria e la matematica rappresentano, per l’accesso fenomenologico al problema dello spazio, un ostacolo: si tratta di costruzioni concettuali complesse la cui validità e il cui ruolo devono essere
sospesi affinché l’analisi costitutiva e genetica della fenomenologia
possa raggiungere il suo scopo, che è descrittivo e non deduttivo.
La prima domanda a cui dovremo provare a rispondere, una domanda che condiziona la possibilità stessa di concepire il progetto
di una scienza non geometrico/matematica dello spazio, può allora
essere formulata in questi termini:
È davvero realizzabile, nella sua radicalità, questa messa in parentesi della geometria, e in generale della matematica, se l’obiettivo
dell’indagine è quello di portare a una visione essenziale lo strato
profondo della costituzione spaziale?
Per evitare confusioni e fraintendimenti, e nel tentativo di allentare i vincoli in cui l’interpretazione scientifica del concetto di spazio
ha costretto la riflessione, mi riferirò allo spazio pre-geometrico (o
non-geometrico) della fenomenologia con il termine di spazialità, per
distinguere il suo significato, in accordo con una convenzione abbastanza diffusa8, da quello connesso alla parola spazio. Intendo dunque
per spazialità non lo spazio concepito come oggetto o contesto di una
qualche teoria (ad esempio della geometria elementare), ma un’ideale
esperienza – distinta come tale da qualsiasi contenuto concettuale che
da essa derivi o che di essa intenda dar conto – la quale condiziona
e rende possibile il sorgere di una preliminare “distanza” percettiva
o conoscitiva e, dunque, anche la costituzione di uno spazio-oggetto indagabile in termini di proprietà e determinazioni concettuali.
Un tale spazio-oggetto, se e in quanto viene definito e inscritto in
una teoria formale, o anche semplicemente descritto come contesto
di un’esperienza oggettivabile e comunicabile, è quindi sempre un
condizionato, il risultato di un processo conoscitivo che rimanda, per
la sua possibilità, a questa spazialità-condizione. Gli spazi – lo spazio
che percepiamo, lo spazio della geometria, dell’architettura, del mito
– sono costruzioni concettuali che esistono soltanto all’interno delle
rispettive discipline o prospettive; sono cristallizzazioni, manifestazioni empiriche della spazialità che, in quanto condizione a priori,
539
non può mai essere colta in sé: la definizione di qualcosa che assume
il ruolo di condizione per il costituirsi di spazi esplicitamente definibili è un compito in sé contraddittorio, perlomeno se alla spazialità si
vuole pensare come a uno spazio che precede e include tutti gli spazi possibili – un “super-spazio” codificato in una “super-teoria”. Né
appare in effetti del tutto corretto riferirsi alla spazialità in termini
di esperienza, così come ho fatto (e sarebbe del tutto fuorviante pensarla nei termini di un’esperienza effettiva), perché un’esperienza, nel
senso ordinario del termine, è possibile soltanto lì dove la spazialità
ha contribuito a creare una distanza differenziale tra il soggetto e il
contesto (spazio) di quella esperienza. In questo consiste allora l’idealità, l’aspetto fittizio o riflessivo di quella particolare esperienza che
è la spazialità: un’esperienza che è visiva, tattile, corporea nel senso
più ampio e che però precede, o meglio accompagna il costituirsi
dell’apparato corporeo/percettivo come strumento di acquisizione di
informazioni strutturabili in una effettiva esperienza. La spazialità è
insomma l’esito di uno scambio correlativo e pre-concettuale con il
mondo, isolabile come tale soltanto in conformità a una scelta riflessiva e metodologica. Si tratta dunque di una nozione dichiaratamente paradossale – ma con tale paradossalità devono convivere tutte le
tematizzazioni dell’a priori e delle strutture trascendentali.
Ora, questo a priori radicale della costituzione dello spazio – per
la cui analisi la fenomenologia offre un linguaggio di grande efficacia, in grado di farsi carico del difficile, e quasi antinomico, problema della sua “costituzione” – ha una struttura geometrica? La
risposta non può che essere negativa: se il progetto fenomenologico
deve avere un senso ed essere realizzabile in tutta la sua radicalità, la
scienza descrittiva di questa spazialità profonda non può che essere
una scienza eidetica ma non esatta, descrittiva e non costruttiva, insomma “fenomenologica” e “non geometrica”9.
La seconda domanda è una conseguenza immediata di questa presentazione del progetto fenomenologico:
Le profondità di questa costituzione primaria dello spazio sono
davvero accessibili prima della costituzione geometrica dello spazio?
Qual è il senso di questo prima? Come deve essere pensato, da questo
punto di vista, il rapporto fra la spazialità e lo spazio geometrico?
540
5. Il Raumbuch di Husserl
La tematizzazione del problema dello spazio e l’indagine sulla
coppia concettuale spazio/spazialità – alla quale solo raramente corrisponde in Husserl una chiara opposizione terminologica – sono questioni classiche del percorso fenomenologico, in quanto individuano,
assieme alla riflessione sul tempo e la temporalità, il livello primario
della costituzione intenzionale. La loro trattazione, che, di fatto, impegna Husserl dall’inizio alla fine della sua carriera filosofica, può
essere idealmente disposta attorno a due poli testuali fondamentali
– che corrispondono al passaggio dal problema dello spazio in quanto oggetto di una trattazione geometrica alla questione della costituzione cinestetica della spazialità primordiale. La prima fase ha il suo
centro nel celebre e incompiuto progetto di un Raumbuch (HUSSERL
1983), dal quale iniziamo, concepito come ideale proseguimento, da
dedicare a una «nuova teoria filosofica della geometria euclidea e non
euclidea», degli studi genetico/psicologici sui sistemi numerici della
Filosofia dell’aritmetica. (L’altro momento della trattazione husserliana
dello spazio, fondamentale per il delinearsi di un’estetica trascendentale fenomenologica, è quello legato ai testi sulla Raumkonstitution, di
cui ci occuperemo in seguito).
La traccia più riconoscibile nel percorso dell’indagine husserliana
in questo periodo è certamente un’analisi del concetto di spazio tesa
a riconoscere e decostruire la sedimentazione semantica che sembra
caratterizzarne il significato. Come esito di questo lavoro analitico
Husserl individua quattro distinte accezioni del termine. In primo
luogo, lo spazio dell’intuizione (o della vita quotidiana), vale a dire lo
spazio «che conosciamo prima e indipendentemente dalla scienza e
che sta alla base di ogni “intuizione esterna”»; in altri termini, «lo
spazio della coscienza extrascientifica, lo spazio come lo trovano tutti
– siano essi bambini o adulti, persone colte o incompetenti – nella
percezione vivente e nella fantasia, in inscindibile collegamento o
meglio compenetrazione con le varie qualità sensibili». Da questo
prima accezione del termine va distinta quella che si riferisce allo
spazio della geometria pura, una «formazione concettuale che deriva
dall’elaborazione logica della rappresentazione dello spazio propria
541
della coscienza extrascientifica». Si tratta di uno spazio del quale
«non si può dire che sia rappresentato o rappresentabile intuitivamente, perché esso è solo pensabile». Non si dà quindi un’intuizione
corrispondente a un tale spazio geometrico, ma solo «una rappresentanza simbolica mediata da figure intuitive che, rispondendo per
certi aspetti a quelle esigenze concettuali, offrono analogie intuitive,
mentre per il resto si allontanano da esse». Husserl, la cui attenzione
sarà rivolta soprattutto alla relazione fra questi due primi significati,
distingue ancora lo spazio della geometria applicata – lo spazio nel quale la scienza della natura colloca i fenomeni fisici – e infine lo spazio
della metafisica: «l’eventuale spazio trascendente», lo spazio in sé, indipendente da qualsiasi rappresentazione percettiva o concettuale10.
Alla luce di questo dipanarsi del groviglio concettuale tenuto assieme dalla parola “spazio”, l’obiettivo di una ricerca fenomenologica
(in un senso ancora non chiaramente definito e codificato) si articola
su due piani. In primo luogo, si tratta di dar conto delle caratteristiche specifiche di ciascuna delle accezioni di spazio individuate
dall’analisi. A questo compito descrittivo si affianca, e si intreccia,
l’indagine genetica, con l’obiettivo di chiarire come si articola il rapporto fra le diverse rappresentazioni dello spazio, il loro carattere
fondato o fondante, le reciproche dipendenze. La distinzione fra uno
spazio geometrico obiettivo e misurabile, e radicalmente non intuitivo, e lo spazio percepito o sentito non è, infatti, semplicemente una
contrapposizione, né, perlomeno non in termini banali, una rigida
gerarchizzazione logica. Si tratta piuttosto di portare in primo piano
la correlazione fra i due momenti e porre così, pur se nei termini
di un pensiero ancora in formazione, il compito fondamentale della
fenomenologia: l’analisi costitutiva delle forme soggettive in cui si
costituisce l’esperienza di uno spazio oggettivo11.
Per tornare al tema centrale della nostra indagine, sembra naturale, a questo punto, chiedersi se lo spazio dell’intuizione debba essere
considerato il miglior candidato a ricoprire quel ruolo preliminare e
unificante, quale condizione del costituirsi degli spazi/oggetto delle
singole discipline (prima fra tutte la geometria, ovviamente), che abbiamo attribuito alla nozione di spazialità. Il primato riconosciuto da
Husserl all’intuizione – un primato che, sia pure nel rispetto delle dif542
ficoltà interpretative connesse al rigore metodologico e alla continua
ricontestualizzazione dei concetti e delle analisi, deve essere considerato l’obiettivo programmatico della fenomenologia, il territorio da
conquistare alla filosofia trascendentale – il primato dell’intuizione,
dicevo, sembrerebbe infatti implicare che lo spazio della geometria e
del pensiero scientifico, così come lo spazio della metafisica, debbano
rimandare per la loro origine allo spazio della percezione pre-scientifica, del quale rappresentano una idealizzazione e una concettualizzazione. La risposta non può tuttavia essere definitiva. Il problema – e,
in effetti, il limite che definisce questa fase iniziale e pionieristica
della fenomenologia – sta nell’identificare questa origine con un’effettiva esperienza dello spazio, l’esperienza intuitivo/percettiva, quotidiana, pre-scientifica, definita per sottrazione come indipendente
dai concetti descrittivi delle scienze costituite. La “possibilità” di una
tale esperienza non è, in questa fase, in discussione e, inoltre, essa è
chiamata in causa in primo luogo come veicolo di costituzione di uno
spazio vissuto: questo spazio, dunque l’oggettivazione dell’esperienza
spaziale intuitiva, e non il processo che lo costituisce – e nel quale si
costituisce correlativamente la stessa coscienza costituente – è posto
da Husserl come origine materiale degli atti idealizzanti che portano
alla formazione degli spazi oggetto delle discipline scientifiche. La
genesi tende così a presentarsi (è questo il limite anche della Filosofia
dell’Aritmetica, d’altra parte) come un fatto contingente, o comunque
esterno alle tappe che pone in connessione. Pensare alla spazialità
come condizione trascendentale significa invece cogliere questo aspetto non lineare, non fattuale del rapporto genetico. La spazialità, in
quanto spazio filosofico, non è l’esperienza primaria dello spazio su cui
si costruiscono gli spazi tematizzati e indagati dalle singole discipline, gli spazi formali. Essa è piuttosto, quale oggetto sfuggente di una
filosofia trascendentale, la comprensione stessa del rapporto genetico.
6. La raumkonstitution del 1907
Saranno la riduzione e le analisi sulla Raumkonstitution del 190712
– il secondo testo cui facciamo riferimento, tappa fondamentale della
543
fase più propriamente fenomenologica del percorso husserliano – a
indicare una possibile strategia per superare questa difficoltà, compiendo un passo decisivo nella direzione di un’indagine fenomenologica della spazialità. L’epoché e la riduzione, ormai attivamente operanti, cambiano in modo sostanziale la strategia che deve orientare
una fenomenologia dello spazio. Quest’ultima, in vista dell’obiettivo
di percorrere le fasi che, a partire dal campo visivo, portano, attraverso la costituzione della cosa tridimensionale e dello spazio oggettivo,
alla costituzione dello spazio tridimensionale e infinito, prende le
mosse da una “fenomenologia della cosa” – una “cosa” considerata
però non nella sua materialità complessiva, ma come mera res extensa, indagata dunque nei suoi aspetti puramente spaziali e gestaltici.
L’analisi fenomenologica dello spazio non è più connessa al problema
della geometria e ai rapporti di fondazione fra lo spazio dell’intuizione e lo spazio della geometria – messo ora fuori gioco (come ogni
dualismo fra res cogitans e res extensa, fra coscienza e spazio) dalla preliminare sospensione dei risultati e del metodo della scienza – ma si
innesta piuttosto nel più generale argomento della percezione: la costituzione dei differenti “campi visivi” (oculomotorio, cefalomotorio,
corporeo) si ottiene come correlato degli aggiustamenti cinestetici13
necessari per ottenere la datità ottimale della forma spaziale della
cosa, dunque per portare la cosa al centro del campo visivo che si va
costituendo e per riconoscere lo stato di quiete o di movimento di
un corpo14. In questa esperienza/costituzione cinestetica della spazialità – descritta ora con la radicalità e la purezza conquistate grazie
alla individuazione della sfera fenomenologica dischiusa dall’epoché
– gli spazi oggettivi, compreso quello della percezione considerato
nella sua trascendenza rispetto all’immanenza fenomenologica, sono
semplicemente “annunciati”, rappresentati, secondo il vertreten di un
brano di Idee I, paragrafo 135, che espone il progetto fondamentale dell’impresa fenomenologica: «le realtà [Wirklichkeiten] naturali
[realen] e ideali, che soggiacciono alla messa fuori circuito, sono rappresentate [vertreten] nella sfera fenomenologica dalle complessive
molteplicità, a esse corrispondenti, di sensi e proposizioni» (HUSSERL
1950c, p. 334). Il procedimento “dal basso” della fenomenologia
sembra aver dato i suoi frutti: l’oggettività delle scienze e della mate544
matica, ma anche quella dello spazio tridimensionale dell’esperienza
ordinaria e percettiva, sono state riportate alle loro fonti immanenti,
al flusso dei vissuti fenomenologici (i campi sensibili visivi o tattili
che, sottolinea Husserl, non sono strutture trascendenti, ma sistemi soggettivo/corporei di possibilità legate al movimento finalizzato
alla percezione) e a una “legalità” fondante e pre-categoriale nella
quale si costituisce quell’esperienza immediata e non concettuale cui
assegniamo il nome di “spazialità”. Da questo punto di vista, una
tale esperienza precede qualsiasi descrizione o teoria dello spazio e
la fenomenologia si dimostra un linguaggio insostituibile per individuare e descrivere i livelli più radicali e originari del processo
conoscitivo in senso ampio.
7. I confini della riduzione
Come abbiamo notato al momento di formulare le domande che
specificano il senso del progetto di una scienza fenomenologica dello
spazio, la mossa preliminare (in senso riflessivo e metodologico) alla
realizzazione di tale progetto dovrebbe consistere nella sospensione
e nella messa fuori circuito della matematica in quanto scienza di
essenze esatte e, dunque, incompatibile con la vaghezza dell’eidetica fenomenologica. Il paragrafo 59 di Idee I è appunto dedicato alla
«Messa fuori circuito della logica pura in quanto mathesis universalis»
(HUSSERL 1950c, p. 145). Si tratta di un passaggio molto importante nel percorso di definizione del territorio fenomenologico perché
l’ambito della logica pura coincide con quello dell’oggetto nel senso
più ampio, e a questo ambito «si subordina anche ogni puro vissuto»
(HUSSERL 1950c, p. 146): la fenomenologia stessa rischia dunque di
essere coinvolta in questo processo di sospensione. Tuttavia «sembra
possibile, a certe condizioni, mettere tra “parentesi” la logica formale
e con essa tutte le discipline della mathesis formale (algebra, teoria
dei numeri, dottrina delle varietà, ecc.)» (Husserl 1950c, p. 147).
La chiave di questa possibilità, in effetti un punto fermo del metodo
fenomenologico, sta nel tenere fede alla “norma” per la quale
545
la pura indagine della coscienza non pone e non deve porre alla fenomenologia altri compiti all’infuori di analisi descrittive che devono essere condotte in pura intuizione. […] Dove la formazione
dei concetti e dei giudizi non procede costruttivamente, dove non
si edificano sistemi sulla base di deduzioni mediate, la morfologia
dei sistemi deduttivi in generale, quale si presenta nella matematica, non può servire come strumento di indagine materiale (HUSSERL
1950c, p. 147).
La mossa husserliana appare chiara: la sospensione della matematica è necessaria in considerazione del carattere puramente formale delle
sue oggettualità – dunque della subordinazione dell’intera matematica (a parte il caso della geometria) alla logica formale intesa come
mathesis universalis – e del suo procedimento mediato e deduttivo. Qui
sembra però che la determinazione storica dell’immagine husserliana
della matematica, il suo essere debitrice a fasi particolari nella storia
delle concezioni di ciò che è essenziale alla pratica matematica e ai suoi
fondamenti metodologici, si ponga in attrito con l’esigenza di purezza
e di assolutezza manifestata dall’epoché fenomenologica. L’individuazione delle discipline, delle conoscenze e delle procedure metodologiche
che rimandano alle tesi connesse all’“atteggiamento naturale”, e che,
dunque, cadono sotto il giudizio dell’epoché, che le esclude dalla sfera
autenticamente fenomenologica, non può, infatti, essere esercitata che
in nome di un’idea, di un’immagine, certo non fenomenologicamente
fondata, di ciò che è escluso; dunque in conformità a un pre-giudizio
– un giudizio che precede, alla luce del metodo fenomenologico, la
vera e propria indagine filosofica – che il processo di sospensione non
sembra in grado di neutralizzare. In altri termini, la matematica è
esclusa dalla sfera delle datità immanenti semplicemente perché entra nella riflessione come un problema già risolto, come una rappresentazione costruita in un processo speculativo che ignora i principi
del metodo fenomenologico e, soprattutto, la complessità del ruolo
costitutivo della matematica. Sia chiaro, qui non è in discussione la
legittimità e la produttività teoretica dell’epoché: si tratta soltanto di
impedire che l’applicazione dell’operazione di sospensione scivoli a
sua volta in una ovvietà che lascia in ombra aspetti che richiedono una
riflessione ulteriore. È importante, se l’espressione è lecita, “sospende546
re” la sospensione quando questa sembra poggiare su un fondamento
che non garantisce una sufficiente stabilità strutturale.
D’altra parte, sono gli stessi principi di base della fenomenologia
a chiedere che l’indagine filosofica sulla matematica, così come quella su ogni ambito regionale, sia condotta a partire da una preliminare
sospensione di qualunque sapere oggettivante, di qualunque teoria
che ostacoli l’accesso alle cose e all’evidenza della datità immanente:
sospendere, mettere fuori circuito la validità della matematica dopo
avere identificato le sue procedure e i suoi oggetti con quelli di una
mathesis e di un’ontologia puramente formali significa permettere
che una teoria oggettiva (una meta-matematica) condizioni l’analisi
fenomenologica e, forse, porti ad escludere dalla sfera fenomenologica aspetti che dovrebbero invece appartenerle. Soltanto questa epoché
di secondo livello, peraltro non estranea alla riflessione husserliana,
permette di riformulare la domanda sulla matematica dall’interno
del metodo fenomenologico. E rispondere a questa domanda significa comprendere e dare senso effettivo, operativo, al già ricordato progetto fenomenologico – «le realtà [Wirklichkeiten] naturali [realen] e
ideali, che soggiacciono alla messa fuori circuito, sono rappresentate
[vertreten] nella sfera fenomenologica dalle complessive molteplicità,
a esse corrispondenti, di sensi e proposizioni» – in un caso specifico,
ma esemplare, come è quello della spazialità. Cosa significa, infatti,
com’è possibile «rappresentare» (vertreten è l’azione del rappresentare
diplomatico: un “fare le veci”, “sostituire”), senza dunque replicarle,
le costruzioni geometrico/matematiche all’interno della sfera fenomenologica? Qual è il senso di questa rappresentanza? Quali sono
le regole che definiscono e fanno presa sulla molteplicità infinita
delle correlazioni noetico/noematiche quando queste sono chiamate
a (ri)costituire un’oggettualità già da sempre ridotta al suo senso
correlativo? Non si rischia un corto circuito, certo potenzialmente
produttivo, nel voler dar conto fenomenologicamente di un oggetto
che, ricordiamolo, è «sempre già ridotto al suo senso fenomenico,
[…] il cui essere […] svanisce e traspare da parte a parte nella sua
fenomenicità […] ed è da subito un essere-oggetto per una coscienza
pura» (DERRIDA 1962, p. 5)? Forse il reale (reel) nasconde, nelle sue
strutture essenziali, un po’ di matematica – in una forma certo non
547
identificabile con quella delle teorie matematiche costituite, e del
tutto compatibile con la rigida separazione metodologica e ontologica tra la materialità delle essenze fenomenologiche e l’esattezza delle
scienze eidetico/formali. Forse davvero la purezza della Raumlehre fenomenologica è irrealizzabile.
La netta presa di distanze metodologica della fenomenologia nei
confronti della matematica poggia, infatti, sull’opposizione inconciliabile tra la vaghezza dell’eidetica materiale che definisce la fenomenologia e l’esattezza formale delle essenze matematiche. In conformità a questa opposizione prende corpo il progetto, o meglio l’esigenza
fenomenologica di una Raumlehre non geometrica. L’opposizione è
però evidentemente tracciata al livello ontologico delle essenze e non
sul piano costitutivo delle operazioni (la riduzione fenomenologica,
la formalizzazione matematica). Ma la matematica non può identificarsi con un livello ontologico. Ciò che la definisce, e che resiste
all’epoché della mathesis universalis, è il ruolo che essa assume come
strumento di riduzione e di intelligibilità del reale. Il problema dell’“oggetto” matematico – la sua collocazione nell’ambito del sensibile o dell’ideale, il suo ruolo conoscitivo, la sua accessibilità intuitiva
– perseguita la filosofia fin dalla sua origine greca perché da sempre,
non dunque a partire dalla formalizzazione ottocentesca, l’oggetto
matematico fa tutt’uno con la pratica concettuale e linguistica che
lo istituisce. Se l’oggetto è in generale compreso come possibilità di
un’infinita determinazione – perché il suo essere esterno o autonomo
rispetto a un soggetto che pure lo accoglie come dato ne garantisce
l’inesauribilità concettuale – allora probabilmente l’“oggetto matematico” rappresenta un ossimoro concettuale, una finzione naturalistica indispensabile alla pratica matematica, ma molto fuorviante
per la sua comprensione filosofica. Si tratta, in altre parole, di tener
conto fino in fondo del fatto che, per definizione, l’ontologia formale
si risolve completamente nelle forme di connessione poste dall’operazione di formalizzazione – che è dunque una vera e propria operazione di riduzione eidetica che sospende, mette fuori circuito la
trascendenza a cui si applica per farne emergere il legame con una
soggettività che la costituisce15. L’essenza “triangolo”, l’essenza “numero”, l’essenza “spazio” non sono oggetti, né generi, né la constata548
zione dell’appartenenza effettiva di individui particolari a classi più
ampie di oggetti, ma operazioni che istituiscono il senso, meglio: un
senso, per la resa intelligibile del reale.
8. Una geometria della spazialità?
Dobbiamo ora proseguire nel faticoso tentativo di interpretazione
del brano husserliano e chiederci quale sia il significato di quelle
«molteplicità di sensi e proposizioni» che corrispondono agli spazi
oggettivi della matematica e della percezione offrendone una rappresentanza fenomenologica e quali siano le condizioni di un accesso
effettivo, non dunque semplicemente dichiarato nei principi metodologici e programmatici, alla sfera immanente dei vissuti fenomenologici. In questione è, insomma, la possibilità che un livello
essenzialmente pre-concettuale e non linguistico della correlazione
intenzionale, come sembra essere quello della costituzione cinestetica della spazialità percettiva, si renda intelligibile e descrivibile. Si
tratta, in altre parole, proprio della realizzabilità e dei contenuti di
una scienza (non geometrica) della spazialità.
La scelta del termine “molteplicità” nella filosofia husserliana
è, come è noto, molto significativa. Ciò che in particolare interessa
Husserl è la possibilità (che determina il concetto di «molteplicità
definita») di ricondurre un dominio di “oggetti” agli assiomi che ne
stabiliscono le interne possibilità di relazione, dunque di far presa
su una pluralità potenzialmente infinita di elementi per mezzo di
un numero finito di forme di connessione – forme che contengono e
definiscono l’essenza degli elementi della molteplicità e che ne permettono dunque una trattazione puramente a priori. Sembra quindi
lecito interpretare la «molteplicità di sensi e proposizioni» alla quale deve fenomenologicamente ridursi l’oggettività reale dello spazio
come una «molteplicità definita di atti e contenuti (eidetici)», anticipata in un insieme di regole/assiomi che ne descrivono le possibilità essenziali – come i rapporti, a priori, di dipendenza o indipendenza
tra gli elementi che la compongono. L’accesso alla sfera della rappresentanza fenomenologica dello spazio, l’accesso alla spazialità, passa
549
quindi attraverso un processo di riduzione e di de-sostanzializzazione
che la fenomenologia sembra esplicitamente mutuare da un aspetto
essenziale della pratica matematica, emerso con particolare chiarezza nel corso dell’evoluzione più recente della disciplina. L’intelligibilità e la possibilità di una descrizione rigorosa della costituzione
fenomenologica della spazialità sembra insomma esigere il ricorso a
un procedimento – la tematizzazione degli aspetti puramente relazionali di un molteplice – che forse non appartiene esclusivamente
alla matematica, ma che nella matematica sembra aver trovato la sua
espressione o teorizzazione più sistematica e consapevole.
D’altra parte, questa interpretazione algebrico/assiomatica del
concetto riemanniano di “molteplicità”, per quanto importante, non
ne esaurisce certo il senso, né la finalità, che consiste in primo luogo
in un ripensamento e in una nuova definizione dei fondamenti ontologici e concettuali della geometria. La Mannigfaltigkeit riemanniana,
com’è importante fare notare anche in opposizione ad alcuni aspetti
della lettura husserliana, è un oggetto essenzialmente “geometrico”,
lo strumento per un’analisi qualitativa e strutturale, non quindi analitico/numerica, del concetto di spazio. Ora, Husserl sembra far riferimento, nella sua analisi descrittiva della costituzione dello spazio
percettivo tridimensionale, anche a questo carattere più propriamente geometrico del concetto di varietà e, in generale, a un linguaggio
innegabilmente matematico – una circostanza che mi sembra molto
significativa per il problema che stiamo esaminando, vale a dire il problema della possibilità di accesso al campo fenomenologico: «Ogni
sistema cinestetico ha la propria posizione-zero e le proprie direzioni
fondamentali di variazione a partire da questa posizione. […] Ciò che
qui importa è il concetto di spostamento del punto-zero e del sistema
di coordinate di orientazione» (HUSSERL 1973, p. 328).
I sistemi cinestetici sono quindi complessi relazionali di possibilità di movimento che si lasciano al meglio descrivere da concetti e
termini di carattere geometrico. La distinzione tra i vari sistemi cinestetici rimanda alle differenze che separano tra loro le “geometrie”
degli spazi ad essi corrispondenti: ad esempio, lo spazio cefalomotorio completo, non ancora in grado di costituire lo spazio oggettivo
tridimensionale euclideo, è «uno spazio riemanniano omogeneo co550
stituito da due dimensioni» (HUSSERL 1973, p. 388), ossia una varietà
sferica bidimensionale. Anche il problema dell’unità e dell’identità
di uno spazio «che si materializza ora visivamente, ora tattilmente»
(HUSSERL 1973, p. 156) e che risulta dal contributo di una molteplicità di campi visivi e tattili – un problema che si traduce nella possibile individuazione di una “geometria comune” come condizione
della costituzione di un corpo spaziale identico16 – sembra trovare
soluzione in un procedimento di tipo matematico che rimanda alla
teoria dei gruppi e al concetto di equivalenza che ne deriva:
ci troviamo di fronte a un’operazione di sintesi che esige l’eliminazione di un gran numero di parametri superflui: lo spazio non è
costruito come una pièce articolata per mera composizione di parti,
ma come un quoziente per identificazione del prodotto di un gran
numero di spazi [...] la maggior parte dei quali è dotata di tutte le
strutture [metriche, topologiche, ecc.] desiderabili17.
La descrizione fenomenologica della costituzione della spazialità
sembra dunque rendere necessario il ricorso a strumenti geometrico/matematici, anche molto raffinati. Significa questo che «il reale
è geometrico» (BOI 1997)? Che la spazialità, condizione del costituirsi degli spazi oggetto delle singole discipline, ha una struttura
essenzialmente matematica? Credo che la risposta debba essere negativa, senza incertezze, se la matematica è concepita come un corpus
di conoscenze o di procedimenti tecnici, oppure un sistema di teorie
assiomatico/deduttive aventi per oggetto delle determinate regioni
formali. Sappiamo tuttavia, alla luce delle considerazioni precedenti, che questa concezione della matematica si scontra con difficoltà
antiche e fondamentali. Il suo carattere essenziale sembra rintracciabile, infatti, più che negli esiti codificati di procedure metodologiche storicamente mutevoli, in un procedimento di riduzione eidetica
in grado di istituire ambiti di sensi possibili – non dunque campi
oggettuali: l’espressione, come abbiamo detto, va accolta con molta
cautela nel caso della matematica18 – per la decifrazione di un molteplice destinato altrimenti a rimanere opaco e inaccessibile. La matematica, come la fenomenologia, è strumento per la manifestazione
del “reale”. Da questo punto di vista la risposta non può che essere
551
più articolata e attenta. E non c’è dubbio che l’analisi husserliana
– tesa a portare in primo piano il rapporto pratico, concreto e operativo tra il “corpo” soggetto della percezione e le cose del mondo, rapporto che deve precedere la elaborazione di qualsiasi teoria oggettiva
– esibisce con straordinaria chiarezza la costellazione di problemi che
ci ha guidato in questo testo: l’appello di Husserl a una “geometria”
dei campi visivi, costituiti come correlati di una descrizione dei dati
cinestetici, dimostra infatti la difficoltà di dipanare l’intreccio tra
la genealogia fenomenologica e il ruolo regolativo/costitutivo delle
strutture concettuali. La difficoltà, in altre parole, di tracciare una
chiara linea di demarcazione tra la “descrizione” fenomenologica delle strutture della spazialità e la “costruzione” delle analoghe strutture compiuta dalla matematica – due operazioni che anticipano, e non
riproducono, la legalità interna di queste strutture.
9. Conclusioni: spazialità e geometria
Qual è dunque il rapporto tra l’a priori radicale della spazialità
– concepita come uno strato primario della costituzione, autonomo
rispetto alla concettualizzazione geometrica – e le leggi della geometria matematica? Questa è la domanda che ci riconsegna alla questione
riguardante la possibilità effettiva di tener fede all’esigenza fenomenologica di una Raumlehre non geometrica – il problema che rilancia e ridefinisce il tema fondamentale dell’a priori materiale e che ora dovremo
valutare alla luce di una diversa concezione del rapporto fra la matematica e l’esperienza pre-concettuale: una concezione emersa proprio
dalla riflessione sul carattere formale della matematica e che sembra
indicare una possibile via d’uscita da alcune importanti aporie.
Nella matematica e nel suo rapporto con il molteplice sensibile
sembra profilarsi con particolare nettezza il paradosso della conoscenza – l’intreccio indissolubile di datità e costruzione, l’imporsi
al concetto di regolarità e strutture che solo il concetto ha creato
ed è in grado di creare. E il paradosso è destinato a cristallizzarsi in contraddizione fintanto che non si lascia emergere in primo
piano la correlazione, la contaminazione profonda e insuperabile tra
552
le oggettualità che compongono il molteplice della conoscenza e il
linguaggio che quel molteplice prova ad assorbire – una correlazione certo non esclusiva della matematica, ma che nella matematica
si mostra in una forma particolarmente limpida. Se si comincia a
pensare quando già la correlazione ha creato e congedato gli estremi
che teneva insieme, allora la matematica, e la conoscenza, non possono che rilanciare l’enigma del contrasto tra il valore oggettivo delle
norme che ordinano il molteplice fenomenico e la libertà incondizionata, puramente soggettiva, che sembra caratterizzarne l’origine.
Ma una polarizzazione così rigida e misteriosa perde la sua ragion
d’essere se si riflette sul fatto che, al di fuori della correlazione, il
molteplice della conoscenza semplicemente svanisce. L’unica realtà
della conoscenza è il fenomeno, inteso non come ombra di un oggetto che resta celato, ma come riflesso o effetto della contaminazione originaria, come il luogo di costituzione di entrambi i poli della
correlazione, siano questi pensati come intuizione e concetto, come
materia e forma o come oggetto e soggetto. Ed è in questo luogo,
non dunque nell’isolamento di un ambiente puramente formale, che
la matematica costruisce i propri concetti. Di questo è molto importante tenere conto, soprattutto per riformulare in modo opportuno e
più consapevole la domanda sul carattere geometrico della spazialità,
la domanda sulla Raumlehre fenomenologica.
Si tratta, infatti, come abbiamo detto, di comprendere la possibilità dell’accesso ai livelli inferiori della costituzione dell’esperienza,
non quelle di descriverne le proprietà. L’immagine secondo la quale
alla geometria spetterebbe il compito di dar conto, con il linguaggio
e gli strumenti che le sono propri, delle proprietà dello spazio – una
concezione della matematica che oppone a una realtà esperita senza alcuna mediazione dei concetti geometrici un ambito puramente
formale dove la matematica crea strutture in totale autonomia, che
pone a confronto matematica e mondo come se fossero due entità
contrapposte e autonome – è, a mio parere, un’immagine insostenibile. La matematica non descrive le proprietà formali di un dato che
le si oppone, come tale autonomo e già leggibile nella sua struttura.
Soltanto alla luce di una concezione di questo tipo è possibile, infatti,
leggere la svolta non euclidea come una fuga dalla rappresentazione
553
della realtà, come una deriva puramente formalistica di una scienza
nata per decifrare le forme degli oggetti che percepiamo. È un’immagine che non prevede margini per la libertà della concettualizzazione: la geometria resta intrappolata tra i doveri imposti dalle sue origini di scienza descrittiva e l’assoluta libertà conquistata grazie alla
rescissione del patto mimetico con il mondo – una libertà ottenuta
dunque al prezzo della rinuncia a qualsiasi presa conoscitiva sulla
realtà. Da questa concezione della libertà della matematica è, a mio
parere, molto importante affrancarsi. La libertà puramente formale
attribuita alla matematica non è sostenibile, non è possibile costruire
concetti comunicabili, dunque sensati, muovendosi in una specie di
vuoto d’esperienza. L’apparente rinuncia al compito mimetico che
caratterizza la matematica moderna – apparente perché questo compito non è mai stato primario e perché, soprattutto, ma in tutt’altro
senso, non è mai stato abbandonato – permette di riconoscere e di
comprendere il profondo radicamento della matematica nel processo
conoscitivo. In questo senso, la matematica è sicuramente, al livello
superficiale dei fatti già costituti, un ambito del sapere caratterizzato
da una forte autonomia, ma questa autonomia è resa possibile soltanto dal legame, mai reciso, con l’esperienza sensibile – un legame dal
quale derivano alla matematica necessità e universalità. Si tratta di
comprendere a quale livello e con quali modalità questo legame si
costituisca. E questo è possibile soltanto ripensando il rapporto tra
la matematica e la realtà fenomenica, rinunciando all’idea ingenua
di una costruzione che avviene su un molteplice che si dà prima e
autonomamente rispetto a quella costruzione.
La matematica, infatti, crea le condizioni stesse dell’intelligibilità
e della datità del molteplice spaziale – strutturandolo dall’interno – e
formalizza, in una fase successiva e connessa alla elaborazione del
proprio statuto di scienza, gli strumenti, o gli aspetti, di una tale
operazione di costituzione. In questo senso va intesa quella che potremmo definire la permeabilità delle parentesi fenomenologiche nei
confronti della matematica e la conseguente contaminazione fra la
formalizzazione (la “riduzione” matematica) e la riduzione fenomenologico/trascendentale – una riduzione impossibile da eseguire in
modo conforme alle sue ambizioni di radicalità e purezza.
554
Non esistono quindi “proprietà della spazialità”, né geometriche
né di altro genere. Un’espressione di questo tipo è semplicemente
contraddittoria. Di conseguenza, è impossibile concepire una “scienza” della spazialità, perché l’individuazione e la descrizione di regolarità e nuclei invarianti dell’esperienza spaziale esige necessariamente
il ricorso alla mediazione concettuale, e questo rende di fatto inaccessibile la purezza radicale che dovrebbe caratterizzare la spazialità.
Portare all’evidenza intuitiva le strutture profonde della costituzione
è un compito impossibile da assolvere mantenendosi nei confini di
una conoscenza pre-categoriale: l’evidenza va costruita, per concetti,
e la matematica ha un ruolo fondante in questa costruzione.
Di cosa parla dunque la matematica? A quale livello si costituisce il suo legame con la spazialità? Sarà l’esistenza e la profondità di
questa connessione a decidere della possibilità di fare a meno della
geometria nella trattazione fenomenologica o trascendentale del problema dello spazio.
La spazialità, intesa come un aspetto fondamentale dell’originaria correlazione di coscienza e mondo, tende, nel suo essere anche
un’esperienza, sia pure indeterminata e ideale, ad articolare questa
correlazione secondo modalità particolari che rimandano alle idee di
prossimità, accessibilità, simmetria, direzione, continuità, ordinamento, alto/basso, locale/globale, ecc. Queste idee non sono tuttavia
“proprietà” degli oggetti o dello spazio: ciò richiederebbe infatti di
pensare allo spazio e agli oggetti come già formati prima del nostro
incontro percettivo con essi. Esse sono piuttosto le fibre di un tessuto
correlativo, il fenomeno, che iniziano a distinguersi dallo sfondo e
dal contesto in cui hanno origine. La matematica si definisce allora
come un tentativo di saturare concettualmente e linguisticamente
questo tessuto correlativo, indagandone sinteticamente la legalità
che lo definisce. Questo tentativo consiste in primo luogo nel rendere
le nozioni cui abbiamo fatto riferimento suscettibili di una definizione e di una formalizzazione all’interno di una teoria. Ciò implica una sostanzializzazione delle modalità dell’esperienza spaziale, la
loro trasformazione in possibili soggetti di predicazione – dunque
un inevitabile tradimento della loro origine passiva e ante-predicativa
che condanna al fallimento il tentativo di saturazione concettuale di
555
cui abbiamo parlato. Ma l’ineseguibilità del compito di dar conto
concettualmente delle modalità dell’esperienza spaziale non rimanda
a una nostra costituiva incapacità di individuare tutte le proprietà che
la caratterizzano; questa spiegazione ci farebbe ricadere nelle trappole di un’immagine di cui stiamo cercando di liberarci. Il fatto è che
di proprietà in senso autentico si può parlare soltanto dopo l’avvenuta
trasfigurazione linguistico/concettuale delle modalità in cui si articola la costituzione spaziale del fenomeno; la stessa descrizione che
ne abbiamo dato in termini di prossimità, distanza, simmetrie… è
già il risultato di un passo decisivo verso la loro trattazione al livello
predicativo. Se la geometria è chiamata a dar conto sinteticamente
della legalità che struttura progressivamente la spazialità è chiaro
che non è possibile pensare che le proprietà che emergono dallo sviluppo della matematica siano già presenti, sia pure implicitamente,
come proprietà di questo spazio. Questo ci condannerebbe, mi sembra, a una specie di circolo vizioso o di regresso infinito. Soltanto
quando la matematica ha trasformato la spazialità in uno spazio geometrico, soltanto allora è possibile parlare di proprietà dello spazio:
che lo spazio sia euclideo, o che non lo sia, non è una verità di cui la
geometria deve dare conto, ma un’affermazione che ha senso soltanto
perché la geometria euclidea, e lo spazio che le corrisponde, sono
stati creati.
La libertà delle costruzioni matematiche non può dunque essere
scissa da una legalità che la condiziona e la rende possibile. Non
c’è opposizione fra libertà e legalità perché, al contrario, soltanto
il loro mutuo richiamarsi impedisce di ricadere in una concezione
della conoscenza come rispecchiamento di una realtà già strutturata
secondo forme determinate e della matematica come autonoma attività combinatoria. La legalità di cui gli a priori materiali sono testimoni deve insomma garantire il senso e il carattere conoscitivo delle
costruzioni matematiche – evitarne dunque la deriva verso un puro
gioco simbolico – e tuttavia essere abbastanza aperta e indeterminata
da permettere la libertà e la conseguente capacità formativa di queste costruzioni. Il punto è allora: fin dove questa indeterminatezza
è compatibile con la nozione di a priori materiale? Come ho detto
nella parte introduttiva, il merito della fenomenologia sta proprio
556
nell’avere approfondito ed esteso l’ambito del sintetico a priori, fino
a includere in tale nozione una legalità che rimanda al contenuto
materiale dell’intuizione; non semplicemente dunque la legalità generica delle condizioni di possibilità di un oggetto indeterminato,
ma i contenuti formali di oggetti e stati di cose effettivamente incontrati nell’esperienza. È possibile riconoscere la legittimità di questa
esigenza e salvare allo stesso tempo la libertà e il carattere costruttivo della conoscenza e della matematica? Il problema non è tanto
se si dia o no una legalità della materia che precede la predicazione,
ma decidere se di questa legalità si possa dar conto articolandola in
termini concettuali – come sembra richiedere qualsiasi descrizione
– pur rispettandone il carattere primordiale e fondante. E la risposta
mi sembra debba essere negativa.
Credo che la strada da seguire sia, piuttosto, quella di riconoscere
negli a priori materiali la traccia della correlazione originaria in cui si
costituisce l’esperienza. Sappiamo che la natura non è un caos informe
che siamo chiamati a plasmare a nostro piacimento ma, già da sempre, un intreccio di regolarità del quale noi stessi, in quanto soggetti
della conoscenza, siamo intessuti. Su queste regolarità, su questo sapere che precede qualsiasi predicazione, poggia la nostra fiducia nella
conoscibilità della natura. Soltanto il linguaggio e la matematica possono definire il concetto di distanza e le proprietà che lo costituiscono;
ma la deformazione del concetto di distanza e l’esplorazione delle sue
caratteristiche incontrano dei limiti che coincidono con una linea di
confine oltre la quale non siamo più disposti a riconoscere nel concetto una trasfigurazione dell’idea di distanza. La creazione del concetto
formale di distanza da parte della matematica è preparata dall’addensarsi di regolarità attorno a un attrattore che non è né può essere un
concetto, ma l’intuizione di una modalità dell’esperienza spaziale da
cui la concettualizzazione ha origine e che struttura teleologicamente
il sorgere di nuovi concetti e nuove teorie della distanza.
Nel suo legame profondo con la spazialità, la matematica ne rappresenta, come sua trasfigurazione formale, la chiave d’accesso intuitiva. Come se tra spazio geometrico e spazialità si creasse un gioco
di rimandi più originario di qualsiasi rapporto unilaterale di fondazione: nella sfera fenomenologica si costituisce la base materiale delle
557
idealizzazioni matematiche, l’origine della loro costituzione genetica.
Ma la sfera dei vissuti fenomenologici connessi alla spazialità non è
un dato immediato accessibile in sé: al contrario, l’“esser dato” della spazialità esige una inevitabile organizzazione strutturale di tipo
geometrico/matematico. Nella spazialità si “annuncia” lo spazio oggetto della geometria; nella geometria si “mostra”, si dà a vedere la
legalità indeterminata della spazialità. Non è possibile cogliere immediatamente la spazialità nella sua purezza di condizione trascendentale, né, ovviamente, a livello concettuale, né in un’esperienza
effettiva, perché ogni esperienza è anche, essenzialmente, un’esperienza (temporalmente costituita) del tempo. La matematica rappresenta allora un tentativo di “sospendere” la componente temporale e
processuale dell’esperienza per creare pure oggettualità sistematiche
e costruire così oggetti (spazi) che intrattengano con la spazialità il
rapporto più immediato ed esemplare. Pur mantenendo il loro statuto di condizionati di una condizione trascendentale, le creazioni
della matematica sembrano esibirla nei suoi effetti più originari ed
essenziali: l’oggettivazione e l’organizzazione strutturale e sistematica dell’esperienza conoscitiva.
La domanda sollevata dal problema dell’a priori materiale e della
possibilità di una Raumlehre fenomenologico/intuitiva è la domanda
sulla capacità delle cose di manifestarsi senza attendere l’intervento
della concettualizzazione. Questa capacità è indiscutibile e richiama
forse il materiale duro e resistente di cui parla André Weil in una
suggestiva descrizione delle sensazioni che accompagnano l’attività
matematica: «La matematica, da questo punto di vista, non è nient’altro che un’arte, una specie di scultura in un materiale estremamente duro e resistente (come certi porfidi usati a volte, credo, dagli
scultori)». Tuttavia, una comprensione dell’a priori deve riuscire a
spiegare come le cose possano parlare senza che la loro voce debba
sostituirsi a quella del giudizio, né il loro linguaggio imitare quello
del concetto. Servirebbe, ricorda Platone, «un ragionamento bastardo non accompagnato da sensazione», un linguaggio non esclusivamente concettuale, una percezione non completamente sensibile.
La matematica? La fenomenologia?
558
Platone, Timeo [48 D-52D]; trad. it. di F. Adorno in Platone, vol. III, Utet, Torino
1988; pp. 772-777.
2
Platone, Timeo [48 D-E], ibidem p. 772.
3
Platone, Timeo [50 B], ibidem p. 774.
4
Platone, Timeo [48 E-49 A], ibidem p. 772.
5
Platone, Timeo [50 C-51 B], ibidem pp. 774-775.
6
Platone, Timeo [52 A-B], ibidem p. 776.
7
Cfr. U. CLÆSGES, Husserls Theorie der Raumkonstitution, Phenomenologica 19, Martinus Nijhoff, Den Haag 1964, p. 3.
8
Si veda, ad esempio, GARRONI 1981.
9
Cfr. U. CLAESGES, Husserls Theorie der Raumkonstitution, cit., p. 45: «Es muβ also
soll unser Vorhaben durchführbar sein, eine Wissenschaft vom Wesen des Raumes geben, die nicht Geometrie ist».
10
Cfr. HUSSERL 1983, pp. 66-68.
11
Su questi temi si veda C. MAIOLINO 2004 e SINIGAGLIA 2000.
12
HUSSERL 1973. Si veda anche E. Husserl, Systematische Raumkonstitution, a cura
di E. Stein, ibidem, pp. 322-336; trad. it. in V. Costa, Libro dello spazio, Guerini,
Milano 1996, pp. 119-141.
13
Il movimento è una condizione necessaria di ogni forma di individuazione, dunque di percezione e di conoscenza. Soggetti immobili avrebbero “percezioni”
ridotte a un’unica prospettiva, non propriamente percezioni dunque, ma singoli,
insensati vissuti permanenti. Né sarebbe possibile alcuna comunicazione, alcuna
condivisione intersoggettiva di un mondo. In effetti, un mondo non potrebbe
costituirsi. Cfr. HUSSERL 1973, p. 155.
14
Le analisi di Husserl sono estremamente dettagliate e puntuali. Qui ci concentriamo solo su un aspetto della Raumkonstitution funzionale al problema in esame.
Per approfondimenti si vedano: COSTA 1996 e COSTA 1999; SINIGAGLIA 2003.
15
Su questo si veda BANCALARI 2005.
16
Cfr. SINIGAGLIA 2003, p. 225. Si veda anche BOI 2000, in particolare pp. 35-54.
17
R. Thom, Apologie du logos, Hachette, Paris 1990, p. 173.
18
Gli “oggetti” matematici sono in effetti il risultato di un processo di ipostasi
degli strumenti d’indagine: la simmetria, che è una modalità dell’esperienza
spaziale, diventa l’oggetto di una teoria formale, l’algebra dei gruppi.
1
559
STORIA
di Nane Cantatore
1. La storia nella Crisi
La trattazione del tema della storia in un orizzonte fenomenologico pone di per sé qualche problema, vista la contrapposizione teorica,
a volte forzosa, che si suole vedere tra la prospettiva storicista e quella
trascendentale1; se è vero che sono leciti forti dubbi sulla validità di
questa lotta tra scuole, va detto che la dimensione storica, nel suo
necessario implicare la praticabilità di concetti come quelli di tradizione, comunità, politica e prospettiva, sembra porsi decisamente al
di qua di ogni riduzione, facendo necessariamente appello al mondo.
Del resto, va ricordato che la problematica storica fa la sua comparsa
sulla scena del pensiero husserliano soltanto nella sua ultima fase, e
segnatamente nella Crisi e negli altri scritti che ad essa fanno riferimento; ed è proprio questo presente fortemente problematico, anzi
tragico, a rendere necessaria una sua comprensione sulla base della
sua contestualizzazione storica.
Il punto di partenza, allora, sembra situarsi in quel richiamo diretto alle «unselige Zeiten» (HUSSERL 1954, p. 35) con cui si apre il
discorso della Crisi: tempi tormentati in cui è dato vivere, che mettono in discussione la legittimità, prima ancora che la praticabilità,
560
di ogni ricorso radicale alla ragione nella costituzione di una prospettiva unitaria di senso, a cui possa essere efficacemente ricondotta
la molteplicità dell’esperienza umana. Che non si tratti di un mero
incidente storico, ma di una questione radicale per lo sviluppo della
filosofia, è allora provato dall’intero sviluppo delle fenomenologia
come apertura sistematica, nella quale lo strumento della riduzione
e l’appello alla costituzione originaria dovrebbero dare accesso a una
totalità conoscibile compiutamente dispiegata. In altre parole, la dimensione storica è la sede di quello che si potrebbe definire un metadiscorso sulla fenomenologia stessa, in quanto opera concreta e reale
di un agire filosofico, ma prima ancora generalmente umano, che si
misura con la radicalità e la generalità dei problemi che essa stessa
pone. Per così dire, la storia diviene in questo modo la scena di una
nuova riduzione, nella quale è in gioco l’effettiva praticabilità della
ricerca filosofica e scientifica in generale, e di quella fenomenologica
in particolare.
Se il primo accesso alla storia avviene a partire dal presente, questo presente è caratterizzato in primo luogo da un senso di perdita,
riferito essenzialmente alla differenza tra le capacità tecnologiche
delle scienze e la loro alienazione di senso. Ci si trova, insomma, di
fronte a un sapere senza prospettiva, privo di un radicamento stabile nell’esperienza e, soprattutto, incapace di rendere conto dei bisogni fondamentali dell’umanità, le cui disiecta membra richiedono
uno sforzo di unificazione: questa crisi del sapere scientifico richiama
temi ampiamente frequentati nel pensiero dell’epoca, a partire da
Spengler, e che continuano fino al dibattito filosofico odierno. La saldatura tra il problema della scienza e quello della storia avviene dunque a partire dalla necessità di unificare la molteplicità delle singole
conoscenze, acquisendo un fondamento sempre accessibile a partire
da un’esperienza sempre possibile: alla ricerca filosofica, e in particolare alla fenomenologia trascendentale, spetta così il compito di
attivare questa fondazione. È sul terreno dell’esperienza, insomma,
che si consuma la crisi e che deve esserne trovata la soluzione; crisi
che, a questo punto, si articola su un plesso concettuale nel quale
rientra a pieno titolo la questione della tecnica, come scena primaria
dell’occultamento del fondamento:
561
Così il metodo elaborato, il progressivo adempimento dei compiti,
in quanto metodo, è un’arte (techne) che si trasmette ereditariamente
ma che non per questo trasmette il proprio senso. Proprio per questo, un compito e un’operazione di ordine teoretico come quelli di
una scienza naturale (e di una scienza del mondo in generale) che
può dominare l’infinità della propria tematica soltanto attraverso le
infinità del metodo, e queste infinità soltanto attraverso un pensiero
e un agire tecnico ormai svuotati del loro senso, può avere realmente
un senso e può mantenerlo soltanto se gli scienziati elaborano in sé
la capacità di risalire e di indagare il senso originario di tutte le loro
strutture di senso e di tutti i loro metodi: il senso storico della fondazione originaria, e, in particolare, il senso di tutte le eredità di senso
inavvertitamente o successivamente assunte (HUSSERL 1954, p. 85).
2. La funzione dell’idealizzazione
Proprio nella tecnica, allora, si trova una prima, e forse già paradossale, risposta all’interrogativo fondamentale: nella sua costituzione di metodo codificato e universalmente fungibile e replicabile, essa
è per ciò stesso anche reversibile. Alla radice dell’elaborazione metodica della scienza sta pertanto un radicamento nell’esperienza che
la trasforma in un linguaggio formalizzato e utilizzabile, attraverso
un processo che è centrale in tutto lo sviluppo della Crisi. Si tratta
dell’idealizzazione, continuamente evocata ma forse mai tematizzata
a fondo; il passaggio più illuminante in questo senso si trova in nota
a uno scritto del 1936, che mette a punto alcune nozioni affrontate
dall’opera in oggetto:
Esso concepisce un ideale di perfezione in base alla concezione dell’infinità dell’imperfezione, motivata da una gradualità che le è peculiare ed essenziale. Esso idealizza le proprietà delle cose. Correlativamente idealizza l’identificabilità delle cose; d’altra parte, idealizza
anche l’esperibilità imperfetta in cui la nostra esperienza attuale
procede dalle cose note a quelle ignote; così, allo sviluppo di un
perfezionamento iterativo viene sustruita simpliciter un’infinità dell’iterazione – sotto forma di ideale (HUSSERL 1954, p. 545).
562
Se questa definizione descrive quello che dovrebbe essere il processo concreto dell’idealizzazione, non si può però dire che essa affronti consapevolmente e compiutamente l’insieme dei problemi che
pone. La valenza asintotica dell’ideale, se fornisce una direzione in
cui orientare la prassi, non può certo essere presa come un dato originario, se la concezione di questo ideale si fonda sulla «concezione
dell’infinità dell’imperfezione» che, a sua volta, non può essere un
dato empirico, dato che dell’infinito non è possibile, per definizione,
avere esperienza. In altre parole, il processo dell’idealizzazione presuppone l’accessibilità, almeno concettuale, della dimensione ideale:
così la geometria fonda l’intuizione dello spazio puro sull’idealizzazione delle grandezze reali misurate nell’agrimensura a partire dalla
disponibilità delle leggi matematiche e così la disponibilità della
geometria rende possibile la fisica galileiana, attraverso la matematizzazione della natura2.
A queste condizioni, si può cogliere una prima declinazione compiuta del significato della storia in questo orizzonte: la ricerca storica, permettendo di ricostruire le modalità di formazione dei concetti e le finalità concrete a cui sono nati per rispondere, permette di
riattivarne l’esperienza originaria, radicandoli nuovamente in quella
Lebenswelt che proprio la Crisi pone come orizzonte. La storicità del
mondo della vita si declina dunque in due direzioni, e con questo si
arriva subito a una seconda declinazione: come l’evidenza originaria
dell’esperienza diviene nuovamente accessibile a partire da questa
ricostruzione storica, così la continuità di senso della Lebenswelt attraverso la storia si chiarisce come una delle sue modalità costitutive,
rendendo necessario il ricorso all’indagine storica per rispondere ai
problemi dell’attualità: è in questi termini, insomma, che la storia si
presenta come tradizione.
Dalla neutralizzazione metodica di questa tradizione, dalla sua
astrazione nella tecnica, nasce peraltro un equivoco fondamentale,
che consiste nell’occultamento della Lebenswelt come orizzonte originario, in favore della sua sostituzione con quell’apparato formalizzante che si è visto all’opera nell’idealizzazione; il mondo costituito
dalla sustruzione idealizzante viene così considerato il sostrato reale
della Lebenswelt, e la fisica diviene il campo al quale ricondurre la
563
totalità delle esperienze e delle scienze. Da qui deriverebbero tanto il
riduzionismo fisicalista quanto il dualismo cartesiano, con il duplice
risultato di una frattura apparentemente insanabile tra il campo delle
scienze e il mondo della vita e della costruzione di una metafisica dell’essere oggettivo, che non sarebbe in grado di risolvere le aporie che
essa stessa genera. L’idealizzazione si definisce così come una prassi
storica, la cui attuazione è costitutiva della concezione del mondo naturale così come viene inteso dalle scienze; attraverso questa storicizzazione, pertanto, diviene possibile sia il superamento del fisicalismo
sia la riconduzione delle scienze al mondo della vita.
3. Teleologia dell’idealizzazione
La stessa idealizzazione va quindi ricondotta, in quanto prassi,
alle struttura della Lebenswelt. In particolare, qui è in gioco una delle
strutture fondamentali del rapporto quotidiano con il mondo, vale a
dire la previsione:
Sulla previsione, possiamo dire, sull’induzione si fonda tutta la vita.
Benché in modo grezzo, già la certezza d’essere di qualsiasi esperienza diretta è un’induzione. Le cose “viste” sono già sempre qualcosa di più di ciò che “realmente e propriamente” vediamo. Vedere,
percepire significa per essenza avere-in-persona e insieme progettare
(Vorhaben), presumere (Vormeinen). Qualsiasi prassi, con tutti i suoi
progetti, implica induzioni (HUSSERL 1954, p. 80)3.
Sulla base delle «previsioni grezze» continuamente esperite nella vita quotidiana si costruiscono così le «previsioni scientifiche»,
elaborate a partire dalla rappresentazione dei dati empirici con un
«abito ideale», ossia dalla loro astrazione idealizzante4. Questa dimensione della previsione, se approfondisce la prospettiva pratica
dell’idealizzazione, fornisce anche una terza declinazione al concetto
di storia, che si trova orientato necessariamente in senso teleologico,
come progetto strutturato da una considerazione complessiva capace
di abbracciare tanto la Lebenswelt quanto il campo delle scienze e di
564
definirne il senso in termini di corrispondenza funzionale. Si chiarisce così, per lo meno in via preliminare, anche il compito primario
della filosofia, che è appunto quello di elaborare compiutamente questo progetto teleologico generale e proporlo alla comunità umana,
a partire da una continuità storica nel segno di una molteplicità di
finalità singole e specifiche, che trovano un possibile terreno comune
soltanto nella ricapitolazione generale e nella fondazione originaria
di una filosofia che è sempre già posta sul terreno della storia, come
proprio luogo di esistenza, orizzonte di conoscenza e direzione teleologica fondamentale5.
Una più precisa descrizione del processo dell’idealizzazione, che
cerchi di ricostruire gli spazi rimasti vuoti nel testo husserliano e di
superarne le difficoltà, diviene perciò strategica, dal momento che si
tratta, nientemeno, che del punto di innesto tra la quotidianità grezza
e soggettiva della Lebenswelt e l’idealità scientifica e oggettiva di ogni
tentativo di comprensione universale. La connotazione fondamentale
di questo processo è l’astrazione di un aspetto dalla congerie dei dati
sensibili, che definisce un indice universale sulla cui base operare la
successiva sintesi degli altri dati, fino a elaborare una rappresentazione integrale e coerente con le proprie finalità. In quanto processo
replicabile, reversibile e orientato secondo fini noti, l’idealizzazione
è pertanto essenzialmente tecnica, e il mondo da essa prodotto è,
per definizione, un artificio; si potrebbe quasi parlare di una sorta
di Theatrum mundi di stampo barocco, un apparato finzionale la cui
validità è stabilita essenzialmente dalla legalità dei procedimenti utilizzati per elaborarlo. Qui si potrebbero ritrovare anche gli accenti dei
Prolegomeni alle Ricerche logiche, nei quali la praticabilità della ricerca
fenomenologica, nel suo compito iniziale di fondazione della logica,
venivano per l’appunto ricondotti proprio a un ambito strettamente
tecnologico.6 Per “tecnologia” si intende qui una prassi definita da
legalità formali e orientata secondo un progetto elaborato a partire
dalla stessa Lebenswelt: in altri termini, il punto di incontro tra legalità ideali e finalità pratiche, sul terreno comune della finalità.
Proprio il tema delle legalità ideali sembra però costituire un residuo ineliminabile dalla pura descrizione storica e pragmatica dell’idealizzazione come processo: se, come si è visto prima, la nozione
565
di progressus in infinitum non può che presupporre una nozione comprensibile di infinito, che deve necessariamente ricondurre a un ambito concettuale non riducibile all’esperienza, così la struttura delle
leggi scientifiche deve necessariamente fare appello a un insieme ben
fondato di leggi a priori, che riporta da ultimo alle leggi logiche e
che costituisce una datità non ulteriormente fondabile, e non per la
propria evidenza ma per la propria semplicità atomica. In altre parole, la riconduzione del terreno delle scienze a quello della Lebenswelt,
sempre possibile grazie alla reversibilità tecnologica dell’idealizzazione, mette capo all’evidenza attuale del dato sensibile su cui si fonda (si potrebbe dire, all’intuizione categoriale), ma anche al sistema
di legalità che organizza l’idealità, e che è, per definizione, sottratto
a qualsiasi fondazione nell’esperienza, per quanto evidente. Ciò non
riguarda soltanto le legalità formali, per cui si potrebbe rispondere,
come era stato tentato in Idee I, con la postulazione di una «regione
analitica» accanto alle diverse regioni materiali che costituirebbero
il campo della conoscenza7, ma anche la stessa caratterizzazione di
generalità che spetta necessariamente alle grandezze che risultano
dal processo di idealizzazione.
Si tratta allora di capire in che modo avvenga questo accesso alla
dimensione ideale nel mondo della vita, e in particolare di come sia
possibile una comprensione efficace dei termini generali. La soluzione a questa difficoltà sta nella struttura del linguaggio comune,
intessuto di oggettualità generali e di idealità, al punto da praticarle
quotidianamente e da mostrare come la sussunzione del singolare al
generale sia una prassi necessaria per la sua stessa esistenza, anzi, che
essa ne è il presupposto fondamentale:
la lingua stessa, in tutte le sue forme particolari, le parole, le proposizioni, i discorsi, è costituita, come è facile rilevare attraverso
l’atteggiamento grammaticale, da oggettualità ideali; per esempio:
la parola Löwe (leone) esiste una volta sola nella lingua tedesca, e rimane sempre identicamente la stessa anche se viene pronunciata da
un numero illimitato di persone (HUSSERL 1954, p. 384)8.
566
4. La sfera comunitaria
Questa soluzione rimanda a un passaggio analogo nelle Sesta ricerca9, nel quale proprio la generalità delle parole indicava il punto
di giunzione tra il concreto dell’intuizione e la generalità ideale del
categoriale. La possibilità di sussumere una molteplicità indefinita di elementi a un unico termine linguistico esprime direttamente
questo scarto tra esperienza e significato, la cui tensione si sostanzia
nell’idealizzazione come prassi e nell’elaborazione teorica di quella
che si potrebbe chiamare la sfera ideale: non si tratta dunque di una
regione accanto alle altre, ma di una differente modalità intenzionale, continuamente praticata e continuamente riproponentesi nell’esperienza della Lebenswelt. Ora, se il linguaggio è il luogo di questo
passaggio, allora esso si dà essenzialmente in una dimensione intersoggettiva e comunitaria:
La lingua generale rientra appunto in questo orizzonte, nell’orizzonte
dell’umanità. L’umanità è sempre presente alla coscienza come una
comunità linguistica immediata e mediata. Evidentemente soltanto attraverso la lingua e attraverso le sue ampie documentazioni, in
quanto comunicazioni possibili, l’orizzonte umano può essere illimitato come di fatto è sempre per l’uomo (HUSSERL 1954, pp. 385-6).
Si arriva così a una quarta declinazione del concetto di storia: in
quanto documentazione di una prassi teleologica in cui si ricostruisce la continuità tradizionale dell’idealizzazione, essa si situa in pieno nella coappartenenza tra linguaggio e comunità, ed è quindi, per
essenza, intersoggettiva e comunitaria. La storia ha sempre a che fare
con un progetto collettivo, nel quale la filosofia, come prospettiva
dell’unificazione fondamentale del molteplice, chiama direttamente
in causa il filosofo, nella sua vita concreta. Con ciò si definisce anche
una quinta declinazione, che è insieme collettiva e individuale, innestando il destino e la vocazione del singolo su quella della comunità
e investendolo di una valenza etica che lo chiama direttamente e
personalmente in causa. In questo appello diretto si coglie, allora,
anche la cogenza della prospettiva storica rispetto al tema della crisi
567
e la sua valenza immediatamente politica, in quanto messa in chiaro
della costitutività del richiamo incrociato del singolo alla comunità.
Se è attraverso il linguaggio, che è tale soltanto in quanto intersoggettivo, che è possibile esperire la generalità ideale nel panorama
della Lebenswelt, allora ogni forma di scienza, e a maggior ragione di
filosofia, in quanto si dà nel linguaggio, si dà con ciò stesso anche
nella società.
Quella che si afferma, in questo modo, è una duplicità costitutiva dell’orizzonte del mondo, tanto nella sua declinazione cognitiva
quanto in quella pratica: si dà un rapporto prescientifico, ingenuo o
grezzo che dir si voglia con il mondo della vita nella sua immediatezza, vale a dire quello che nella tradizione fenomenologica si chiama
l’atteggiamento precedente l’epoché, e si dà un rapporto con la sfera
ideale, in cui si prendono di mira i significati generali e le legalità
formali, in una sospensione della validità ordinaria dei fenomeni che
mette in atto, già nell’idealizzazione, una sorta di epoché prefenomenologica e, in un certo senso, “ingenua”. Ciò che si scopre, in questa
fase del pensiero husserliano così intensamente attenta alle urgenze
di un’epoca tormentata, è che queste due prospettive sono intimamente connesse: la prassi ingenua della Lebenswelt si dà a partire da
un continuo riferimento ai prodotti e alle pratiche dell’idealizzazione, così come la conferma del radicamento nel mondo della vita deve
essere continuamente ripresa dalle scienze per non svuotarsi di ogni
senso. Proprio la tecnica, d’altra parte, funge da cerniera di questo
collegamento, mostrando in ogni momento la portata concreta delle
scienze e agendo la replicabilità della stessa idealizzazione, rivelandone le strutture interne e permettendo di orientare le ricerche a
partire dai loro domini oggettuali e dalle loro finalità.
Se tutto ciò si dà in un contesto che è, per definizione, sociale
e collettivo, allora anche il compito del filosofo ha questo contesto
come orizzonte fondamentale. Ciò ha due implicazioni fondamentali:
in primo luogo, ponendo la filosofia come attività sociale, essa stessa
si trova definita come compito collettivo, radicato in un linguaggio
condiviso e articolato secondo un progetto, il che ha chiare ripercussioni sull’idea, più volte sostenuta da Husserl, della fenomenologia come scuola, compito che si deve estendere su più generazioni10;
568
d’altra parte, definisce l’attività del filosofo come un’attività umana,
anzi, come una professione, in un rapporto con le altre professioni
che è, ad un tempo, di contiguità e di distacco.
5. La professione del filosofo
Per comprendere meglio il rapporto tra le varie attività umane e
la peculiare professione del filosofo, professione per la quale forse è
meglio mantenere il termine Beruf che meglio ne esprime il senso di
“vocazione”, è forse il caso di rivolgersi ai testi in cui questo tema
viene affrontato direttamente, a partire dal problema della teleologia. Ed è proprio la cifra della finalità, che si è vista caratterizzare in
profondità la dimensione storica, ad essere chiamata in causa nella
struttura di ogni mestiere:
Ad ogni mestiere corrisponde un compito che è ad esso proprio; non
un compito proprio di esseri umani isolati, bensì un compito che si
amalgama nella vita della comunità e nel susseguirsi delle generazioni e delle epoche storiche (HUSSERL 1992, p. 61).
Il Beruf è dunque il punto in cui l’obiettivo specifico dell’attività
di un singolo acquista una valenza sociale, ne definisce una funzione
riconosciuta e permette di dare il via a una continuità storica. Questa
condizione, che si definisce come una permanenza caratteristica della
volontà diretta ad uno scopo tanto da divenire «habitus» (HUSSERL
1992, p. 63), è dunque essenzialmente informata dalla temporalità
in cui si dà l’io, al punto da potersi rapportare, in modo fecondo, con
una temporalità esterna al soggetto, attraverso la tradizione:
Soltanto le persone che si pongono dei compiti hanno degli obiettivi
e compiti. In un certo modo, vi rientra anche il caso in cui assumiamo un compito dalla tradizione. E, in tale contesto, non compiamo
soltanto una ri-comprensione. Già ogni trasmissione in generale non
è soltanto questo. Comprendere una tradizione non equivale ancora
ad assumerla: questa à la validità, in cui chi la trasmette intende
spontaneamente compierla a sua volta. Il giudizio assunto diventa il
569
nostro proprio giudizio, il desiderio e la volontà diventano il nostro
proprio desiderio e la nostra volontà; chiaramente è questo il caso
normale della relazione interpersonale che si compie nella trasmissione (HUSSERL 1992, p. 73).
Si determina in questo modo un sistema definito dalle due dimensioni della storicità e della comunità: vi sono un lato storico e
individuale, quello dell’habitus e uno storico e intersoggettivo, che è
quello della tradizione; ma vi sono anche un lato metastorico e intersoggettivo, in cui si determina la traduzione dell’agire individuale
nella generalità del linguaggio e, almeno nella filosofia, deve esservene anche uno metastorico e individuale, che è quello in cui, per
usare le parole della Crisi, «io sono esclusivamente nell’autocoscienza
trascendentale» (HUSSERL 1954, p. 278). Questa è la peculiarità del
Beruf filosofico, che si afferma innanzitutto nella volontà di non assumere passivamente il dato della tradizione, di volerci veder chiaro:
«sulla vita ingenuamente attiva, sul porsi-ingenuamente-obiettivi
e poi vivere per raggiungerli si costruisce, come nuovo obiettivo,
quello di livello superiore della distinzione e della chiarezza» (HUSSERL 1992, p. 78) e, da qui, una contrapposizione strutturale con
tutti gli altri possibili mestieri. Questa contrapposizione si sostanzia
nella differenza tra lo specifico compito del conoscere e quelli propri
ad obiettivi più concreti e limitati: i primi, una volta conseguiti,
possono dare origine a delle prassi basate fondamentalmente sulla
ripetizione, in cui è possibile pensare ad un progresso lineare o, addirittura, al conseguimento della perfezione relativa11, e sempre sul
mantenimento di uno spazio intersoggettivo codificato dalla tradizione, in cui si determinano degli ambiti di validità rigorosamente
specifici ai singoli contesti12. La filosofia, invece, si determina come
tale proprio per il suo rivolgersi a un ambito non più compreso in
questa continuità passiva, in cui
questo affrancamento dalla relatività delle verità situazionali determina dunque, immediatamente, il senso chiaramente nuovo dell’“ognuno e dell’in-ogni tempo”, che non può più certamente essere
riferito alle mutevoli società-del-Noi, come portatrici delle relative
tradizioni (HUSSERL 1992, p. 90).
570
Ciò che definisce il Beruf filosofico è quindi una profondità critica
che risulta dalla peculiarità del suo metodo e del suo compito, che
non può mai essere esaurito nella semplice reiterazione dell’habitus
ma che richiede, ogni volta, un radicale ripensamento. Innanzitutto,
quindi, si tratta di una strategia argomentativa peculiare alla filosofia, il che riporta, di nuovo, al tema di una tecnica del filosofare, che
proprio in quanto tecnica è assunzione critica di se stessa; ed è da
questa specifica struttura di senso, allora, che la filosofia può dotarsi
di un telos universale e che può assumere una portata fondamentale
per l’intera umanità. Detto per inciso, è in un modo del tutto analogo
che si giustifica la pretesa all’universalità della cultura europea: l’idea
di una finalità universale è l’elaborazione fondamentale dell’Europa,
e soltanto sulla praticabilità di questo orizzonte ideale si può giocare
la sua possibilità di senso:
solo così sarà possibile decidere se quel telos che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca […] sia una mera follia
storico-fattuale, un conseguimento casuale di un’umanità casuale in
mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente diverse,
oppure se piuttosto nell’umanità greca non si sia rivelata quell’entelechia che è propria dell’umanità come tale (HUSSERL 1954, p. 44).
Il richiamo all’Europa è dunque centrale, tanto per il riferimento
diretto a una continuità storicamente concreta, quanto perché così
viene posto il tema della possibilità di un’esigenza profondamente
teoretica di elevarsi a istanza capace di orientare in un nuovo senso
l’intera umanità13; per meglio dire, l’identificazione della civiltà europea come portatrice di un senso unico e universale, capace di trascendere la sua specificità storica, è già la chiara formulazione di una
tesi di filosofia della storia, che si contrappone nettamente all’idea
organicistica di Spengler14. Se le circostanze storiche hanno prodotto in Europa l’idea di razionalità universale, insomma, il problema
della possibilità effettiva di un’edificazione razionale che si basi su
fondamenta valide al di là di ogni contingenza, su fondamenta assolutamente evidenti, non riguarda dunque solo l’ambito ristretto e
professionale della filosofia come disciplina accademica, ordinata da
571
un certo statuto e coordinata a una certa storicità, ma investe direttamente la vita e la prospettiva dell’umanità europea. La storia della
filosofia europea diventa così il compendio della storia europea e,
in quanto l’Europa è portatrice dell’idea stessa di universalità, della
storia universale. All’interno di questa storia, il tema dell’entelechia
è costantemente presente, come tentativo effettivamente praticato
o come sua negazione scettica, e qui, in questa continua messa in
questione della possibilità di una finalità assoluta e delle condizioni
a partire da cui agirla, si ripropone continuamente quella frattura che
è l’essenza stessa della crisi:
Le uniche battaglie veramente significative del nostro tempo sono
battaglie tra un’umanità che è franata in se stessa e un’umanità che
è ancora radicata su un terreno, e che lotta appunto per questo inserimento o per uno nuovo. Le vere battaglie spirituali dell’umanità
europea sono lotte tra filosofie, cioè tra le filosofie scettiche – o meglio,
tra le non-filosofie, che hanno mantenuto il nome ma che hanno perduto la coscienza dei loro compiti – e le vere filosofie, quelle ancora
vive (HUSSERL 1954, p. 44).
6. Costituzione nella duplicità
A queste condizioni, la profondità storica è necessaria tanto per
situare il lavoro del filosofo quanto per definire il compito della stessa
filosofia, che si pone come unico orizzonte in grado di abbracciare la
duplicità costitutiva di ogni prassi; duplicità che, a sua volta si dà
su due piani. Il primo è quello su cui insistono le prospettive della
Lebenswelt e dell’idealizzazione, intese come modalità fondamentali (e
complementari) di accesso al mondo e come possibilità di conoscenza;
la seconda orienta il procedere della storia, come costituzione del presente e come orientamento della finalità. Se tradizionalmente il compito della filosofia è sempre stato quello dell’unificazione del molteplice, è possibile dire che, almeno in quest’ultima fase del pensiero
husserliano, si assista a un fondamentale cambiamento di segno, per
cui la duplicità degli orizzonti è riconosciuta come costitutiva, vista
l’impossibilità di ridurre appieno la genesi dell’ideale alla costituzio572
ne della Lebenswelt e, d’altra parte, l’insensatezza metafisica di porre il
prodotto dell’idealizzazione a fondamento del mondo della vita.
La sola unificazione possibile è, a questo punto, quella di una
prassi continua e costante, nella quale lo scambio intersoggettivo,
che costituisce tanto la soggettività trascendentale15 quanto, nel linguaggio, la generalità dell’ideale, forma l’unico vincolo possibile, a
partire da una sua continua messa in discussione. Rispetto a questa
motilità del mondo e delle relazioni, la stabilità della regione formale, delle leggi logiche e delle costituzioni generali, fornisce allora la
garanzia di validità come conformità alle leggi del pensiero, la grammatica di una fondazione che è sempre agita nel linguaggio. Si tratta
di un esito senz’altro non esplicito nella lettera del testo husserliano,
e che segna un radicale allontanamento da quel cartesiano “principio
di tutti i principi” che, in Idee I16, poneva nell’evidenza il criterio fondamentale della verità, la modalità di accesso a un fondamento a partire dal quale fosse possibile, almeno in linea di principio, costruire
un edificio senz’altro ampio e complesso, ma che potesse prendere le
cose fatte come valide una volta per tutte.
Anche l’appello al radicamento dell’idealizzazione nella Lebenswelt
acquista, in questo modo, una tonalità del tutto peculiare: non si
tratta di acquisire una condizione originaria, evidente e perciò indubitabilmente vera e valida, che fosse occultata dai sedimenti della
successiva tecnicizzazione, quanto, piuttosto, di agire la reversibilità
della tecnica per ricostruire una scena primaria nella quale l’origine
è di fatto un risultato, una riappropriazione che avviene sempre e
soltanto a partire dalla tecnica stessa. In questo modo, la filosofia si
chiarisce come un compito infinito che, se può contare su una validità metodica17, si attua attraverso una continua messa in discussione
del mondo e della propria tradizione fondante, e non può dimorare
presso nessuna originarietà.
In questa cifra di compito universale attraverso la prassi della duplicità viene allora in chiaro la caratterizzazione assolutamente moderna della filosofia husserliana, intesa come filosofia di un’epoca che
nasce dalla perdita del fondamento e dalla sua sostituzione con un
telos programmatico, costituito e agito tecnicamente, e che vive di
necessità in una continua problematizzazione critica, ma che proprio
573
in questa condizione di crisi trova le ragioni della propria universalità. Seguendo la metafora architettonica, certo non nuova nel discorso
filosofico, l’acquisizione della certezza originaria ha sempre assunto
la funzione di un punto inamovibile, di una pietra di fondazione a
partire dalla quale costruire, con il procedere incrementale del mos
geometricum, muri e piani. Parrebbe che qui si debba invece fare ricorso a una tecnica costruttiva più moderna, quella della struttura
portante: qui il fondamento non è più garanzia di stabilità, ma indica soltanto il punto nel quale si scaricano le forze d’appoggio, convogliate da una continua articolazione di prassi che ne definiscono
percorso e direzione; la messa in opera della riduzione e dell’idealizzazione, riconosciute in quanto tali come attività, è ciò che precede e
pone il fondamento, che determina l’orientamento della Lebenswelt e
che, piano dopo piano, costruisce un sapere umano, non più nella forma tradizionale del tempio, organizzato intorno a un nucleo centrale
di presenza assoluta, ma in quella, moderna e modernista, del piano
urbanistico, del sistema viario, della rete di funzioni e fruibilità, nei
quali la presenza è interamente compresa nella prassi.
1
2
3
La questione è affrontata con una certa dovizia da D. Carr, che dedica un capitolo
di Phenomenology and the Problem of History proprio all’irruzione della prospettiva
storica introdotta dalla Crisi come “novità” nel panorama fenomenologico (CARR
1974, pp. 45-67).
Cfr. HUSSERL 1954, pp. 53-71e Appendici I, II e III.
Può essere interessante notare che, investendo ogni operazione percettiva di
un valore intenzionale che è sempre anche progettuale, Husserl riprenda, probabilmente in modo inconsapevole, una prospettiva nietzscheana, anche se in
un senso ben differente: «che cos’è “conoscere”? Riconduzione di qualcosa di
estraneo a qualcosa di conosciuto, di familiare. Primo principio: ciò a cui noi ci
siamo abituati non ha più per noi un valore di enigma o di problema. Smussamento del sentimento del nuovo, dello strano: tutto ciò che accade regolarmente
non ci sembra più da mettere in discussione. È perché la ricerca della regola è
il primo istinto di chi conosce: per quanto naturalmente, con lo stabilimento
della regola, noi non “conosciamo” ancora nulla! – Di qua la superstizione dei
fisici: laddove essi possono persistere, cioè laddove la regolarità dei fenomeni
permette l’impiego di formule abbreviative, essi considerano di averli conosciuti. Essi percepiscono della “sicurezza”: ma dietro questa sicurezza intellettuale
574
c’è la sedazione della paura: essi vogliono la regola perché essa spoglia il mondo
dal suo carattere pauroso. La paura dell’incalcolabile in quanto istinto recondito
della scienza. La regolarità fa addormentare l’istinto indagatore (cioè impaurito):
“spiegare” cioè indicare una regola dell’avvenimento. La credenza alla “legge” è
la credenza al carattere pericoloso dell’arbitrario», F. Nietzsche, Frammenti postumi 18851887, Adelphi, Milano 1975, p. 177.
4
Cfr. HUSSERL 1954, p. 80.
5
Cfr. HUSSERL 1992, pp. 81-89.
6
Cfr. HUSSERL 1975, pp. 44-46, 57-58 e 181-182.
7
Cfr. HUSSERL 1950c, pp. 27-30.
8
Il testo, presente nell’Appendice III dell’edizione italiana, risale al 1936, è stato
pubblicato nel 1939 da Eugen Fink con il titolo Von Ursprung der Geometrie nella
«Revue Internationale de philosophie», Bruxelles, anno I, n. 2.
9
Cfr. HUSSERL 1984b, pp. 328-337.
10
Cfr. HUSSERL 1954, pp. 288-289.
11
Cfr. HUSSERL 1992, pp. 80-81.
12
Cfr. HUSSERL 1992, pp. 88-89.
13
«La cultura fondata sulla pura ragione e, al massimo grado, sulla libera scienza
universale rappresenta l’idea teleologica assoluta e al contempo l’idea che già
opera nella cultura europea, ciò che la rende cultura non ancora razionale, ma
in grado di determinarsi liberamente da sé, e precisamente di determinarsi sulla base della libera ragione, è migliore però l’espressione correlata: questa idea
come idea teleologica dell’umanità la rende un’umanità capace di determinarsi
liberamente nell’autonoma ragione» (HUSSERL 1988, p. 137).
14
Cfr., per il diverso sbocco che ha, in Husserl e Spengler, un’analoga constatazione
della crisi, MÖCKEL 1988. Una lettura simile, per sbocchi e prospettive, a quella
di Husserl, con una critica decisamente più puntuale delle posizioni spengleriane, è quella di Neurath, AntiSpengler, Palomar, Bari 1993.
15
Cfr. HUSSERL 1954, pp. 210-213.
16
Cfr. HUSSERL 1950c, pp. 52-53.
17
Cfr. HUSSERL 1954, p. 384, pp. 535-541.
575
TECHNE
di Daniele De Santis
La tecnica è solo un’epoca della tecnica1. Di essa, che tutto avrà
reso possibile, un’illusione andrebbe assolutamente dissolta: non c’è
qualcosa fuori, un fuori, che solo in un secondo momento verrebbe da
essa afferrato. È il nostro partito preso di cui si dovrà render ragione:
non c’è fuori-tecnica.
1. I circoli. Heidegger tra Ge-stell e pensiero
Tutte le distanze, quelle nel tempo e nello spazio, si accorciano.
La televisione – ora, cioè nel 1949 – è «il culmine dell’eliminazione
di qualsiasi distanza» (HEIDEGGER 1994, p. 19). Tutto è disponibile.
Tutto è alla distanza minima, in un’uniformità in cui tutte le cose
non sono né lontane né vicine ma «senza distacco (ohne Abstand)»:
«Tutto si confonde nell’uniforme senza-distacco (das Abstandlose).
Come? Questo compattarsi del senza-distacco non è forse ancora più
inquietante di un frantumarsi del tutto?» (HEIDEGGER 1994, p. 20).
Abstandlose è il termine che qui Heidegger usa: senza riguardo, senza
riserbo, senza rispettare la distanza, senza rispettare il rispetto stesso
per le cose e delle cose (queste conferenze si aprono con il presente,
576
Heidegger dice «Oggi»2, il suo oggi: ma oggi, per noi, qui, è il nostro ieri – oggi che leggiamo quell’oggi di ieri. E gli esempi possono
apparirci già antiquati).
Le distanze, dicevamo, la temporalità e la spazialità, si accorciano,
ma non per questo – o forse proprio per questo – le cose ci sono più
vicine. Ecco una prima circolarità che bisogna bene evidenziare: le
distanze che separano, che ci separano dalle cose, si annullano, tutto
si ammucchia – ma nulla ci è veramente vicino, non sentiamo veramente la vicinanza delle cose; ma più non sentiamo la vicinanza delle
cose, più le avviciniamo e le accatastiamo. È il serpente della tecnica
che si morde la coda, la circolare aggressione della totalità dell’ente:
più avviciniamo l’ente, più questo – come tale – si allontana; più si
allontana, più lo rincorriamo. Più lo rincorriamo, più ci sfugge; più
ci sfugge, più lo aggrediamo; più lo aggrediamo, più si sottrae…
Ma nell’epoca della tecnica, continua Heidegger, ciò che è così
senza distacco e senza vicinanza non è comunque senza Stand, non
è senza un suo proprio stare: «Esso sta, nella misura in cui tutto ciò
che è presente è risorsa (Bestand). Dove il Bestand giunge al potere,
crolla finanche l’oggetto come ente-presente» (HEIDEGGER 1994, p.
47)3. Il Bestand – che determina l’avvento dell’epoca della tecnica
– è il fondo, la giacenza, la scorta, lo stoccaggio di ciò che è posto da
parte in quanto assicurato, accumulato. Esso caratterizza il come della
presenza di tutto ciò che è. Di tutto ciò che è e che è solo in quanto risorsa. Di tutto ciò che è e che è tale solo in quanto ordinato e posto in
vista di un ordinare. Ordinato, è così impiegato. «L’impiegare pone
in anticipo ogni cosa in modo tale che ciò che è posto insegua ciò che
consegue. Posto a questo modo, tutto è “in conseguenza di…”. La
conseguenza è però ordinata in anticipo come risultato» (HEIDEGGER
1994, p. 47).
Che cosa vuol dire allora, si chiede Heidegger, porre (Stellen) –
quel porre che pone nell’età della tecnica ogni cosa nella forma del
Bestand e che fa sì che ogni cosa non sia se non nella forma di ciò che,
in quanto risorsa, è costantemente disponibile?
Stellen significa «provocare», «esigere», «costringere a presentarsi»:
577
Questa provocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che è così messo allo scoperto
viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di
nuove operazioni (HEIDEGGER 2000a, p. 12).
Lo Stellen, il porre specifico dell’età della tecnica, è la violenza,
l’essere assalito di qualcosa che, in quanto risorsa, non è niente al di
fuori di questo suo essere assalito, obbligato, costretto a presentarsi e
per questo immagazzinato, posto a fondo, Bestand:
Una regione – dice Heidegger – è gestellet, “presa di mira” [obbligata
a presentarsi, forzata, violentata], in vista del carbone e del materiale metallifero che affiorano in essa. Presumibilmente l’affiorare
delle rocce è già rappresentato entro l’orizzonte di un siffatto Stellen
ed è anche rappresentabile solo in base ad esso. Le rocce affioranti,
ed in quanto tali già valutate nella prospettiva di un presentarsi
(Sichstellen), sono provocate (herausgefordet) e quindi estratte (herausgefördet) [herausforden è letteralmente sfidare]. La terra è coinvolta in
tale Stellen e ne è assalita. Essa è estratta (be-stellt), cioè obbligata a
presentarsi. È così che ora e in seguito intendiamo la parola bestellen
(HEIDEGGER 1994, p. 49).
Andandone, dall’inizio di questa citazione, di carbone e minerale metallifero, la miglior traduzione per bestellen non può che essere
estrazione: il ratto di quanto con violenza è tirato fuori e costretto alla
presenza. Spogliato dei veli pudichi della terra.
Subito sotto questo brano – al seguito delle parole «in virtù di
tale ordinare la campagna si trasforma in zona carbonifera, il terreno
in giacimento minerario» – Heidegger annota: «Il terreno, la campagna – lo spaesamento della risorsa!» (HEIDEGGER 1994, p. 49). La
risorsa sarebbe quindi lo spaesamento, il perturbamento del terreno
e della campagna. Nell’epoca della tecnica il terreno non sarebbe
più incontrato come terreno, né la campagna come campagna, ma solo
in quanto risorse, solo cioè in quanto defraudate, spogliate e denudate: costrette all’oscenità pornografica di una presenza tecnicamente
(im)posta. Lubrico occhio della tecnica. Ma in che senso comunque
578
il Bestand inquieterebbe? In che senso il sopraggiungere del Bestand
violenterebbe terreno e campagna? Ma soprattutto, sopraggiunge il
Bestand? E a cosa seppur così fosse? Prima abbiamo segnalato come
già nell’epoca dell’essere come Gegenstand esso si insinui silenziosamente, surrettizziamente; e allora, dal momento che nell’epoca della
tecnica è lo stesso essere dell’ente a essere determinato in quanto Bestand, come potrebbe quest’ultimo spaesare il terreno e la campagna
dal momento che questi, nell’epoca presente, nell’oggi heideggeriano
del 1949, sono già da sempre risorse? Dal momento che (si) scrive
nell’epoca della tecnica e a partire da essa, come e quando – in quale
modo – sarebbe possibile individuare un terreno come tale, una campagna come tale al di fuori quindi del loro essere già da sempre Bestand,
risorse – e quindi al di fuori dell’epoca della tecnica? Ci chiediamo
se qui Heidegger non stia tentando di narrarci l’impossibile storia di
un’impossibile scena primaria!
Continuiamo. Un porre provoca l’altro, e solo con ciò, «solo per
questo l’obbligo a presentarsi rende possibili una pianificazione e una
disposizione» (HEIDEGGER 1994, p. 50). Ogni cosa è posta, ordinata,
solo affinché qualche altra cosa venga posta e ordinata a sua volta.
Ma – attenzione – non per questo vi è un porre che pone per poi
continuare a porre in un ordine. Il porre non pone. Ricordiamoci che
non è più questione di soggetto e oggetto, non vi è nessun tipo di
soggetto che (si) (op)porrebbe (a) qualcosa – Heidegger lo specifica
bene in una piccola conferenza nella quale chiedendosi per chi, per
quale entità, la risorsa risulterebbe impiegabile, risponde che non è
certo per degli uomini né tanto meno per una qualche astratta società industriale: «la società industriale non è né soggetto né oggetto» (HEIDEGGER 2000b, p. 36). In essa si parla esplicitamente di un
tramutarsi dell’oggettività nella «risorsa», nel «disponibile». Ma il
porre non ordina la risorsa, non è un soggetto che agisce su qualcosa
– esso non manipola dall’alto della sua posizione eretta. Il porre è lo
stesso porre ordine nel mentre dell’ordinare/ordinarsi ponente ordine: «Il Bestand sussiste, e sussiste nell’ordinare» (HEIDEGGER 1994, p. 51). Esso
sussiste, non consiste in qualche cosa che viene, verrebbe ordinato;
è l’ordinare stesso – e non esiste al di fuori di esso. Lo Stellen (porre)
in quanto Bestellen (ordinare) e il Bestand (risorsa, impiegabile) non
579
sono che sinonimi l’uno dell’altro. Ed è per questo che alla domanda
«dove sbocca da ultimo la catena di un simile ordinare?» Heidegger
risponde:
Essa non sbocca in nulla, giacché l’ordinare non produce nulla che
possa e a cui sia lecito avere una presenza per sé al di fuori del porre.
Ciò che è ordinato è sempre già e sempre solo posto allo scopo di
porre un altro nel risultato come sua conseguenza. La catena dell’ordinare non sbocca in nulla, essa entra soltanto nel suo corso circolare
(HEIDEGGER 1994, p. 51, corsivo mio).
L’ordinare concerne tutto. Esso non si lascia mai comprendere a
partire da una sola e singola risorsa. Esso riguarda tutto quanto è
presente – e che è presente solo in quanto è risorsa, solo in quanto
è ordinato. L’ordinare mira a una sola cosa, «a porre come risorsa
l’Uno Intero (das Eine Ganze) di ciò che è presente. L’ordinare è in se
universale. […] L’ordinare si è già raccolto in sé in vista della totale
assicurazione della risorsa sussistente dell’ordinabilità di tutto ciò che
è presente inteso come risorsa» (HEIDEGGER 1994, p. 54). E ancora
più avanti, nel punto che diventa decisivo:
Chiamiamo ora Ge-stell, “impianto”, la riunione […] in cui tutto ciò
che è ordinabile è essenzialmente nel suo essere risorsa sussistente4.
[…] Ge-stell, “impianto”, nomina il da sé raccolto universale ordinare la completa ordinabilità di ciò che è presente nella sua interezza.
Il corso circolare dell’ordinare avviene nell’impianto e in quanto impianto. […] L’impianto è accumulo. […] trascina costantemente via
l’ordinato entro il corso circolare dell’ordinabilità, al cui interno l’una
cosa pone l’altra. […] Il porre in sé raccolto dell’impianto è la riunione del sospingere in sé rotante (HEIDEGGER 1994, p. 56, corsivi miei).
L’impianto, il Ge-stell, è questo porre rotante che fa sì che ogni cosa
non possa essere che all’interno di questa circolazione – e non può
essere all’interno del circolo che in quanto risorsa. In questo cerchio
da cui nulla fugge, in questa circolazione dell’ordinare, «l’impianto
racchiude in sé l’essenza della macchina, cui appartiene la rotazione
senza che essa abbia necessariamente la forma della ruota, giacché è
580
la ruota a essere determinata dalla rotazione e non la rotazione dalle ruote» (HEIDEGGER 1994, p. 57). Conforme all’idea che la nostra
epoca non è l’epoca della tecnica in quanto è ricca di macchine, ma
è ricca di macchine in quanto è l’epoca della tecnica, l’impianto, il
Ge-stell, che riassume in sé tutto quanto abbiamo fino ad ora detto,
non è nella sua essenza l’essenza rotatoria della tecnica perché ci sono
le ruote, ma ci sono le ruote – e tutto si muove, circola nella circonvallazione mondializzata – solo perché sua è la rotazione ordinante
ponente come risorsa il tutto di ciò che è5.
Questa circolarità, circolazione universale, all’interno della quale – ma ci esprimiamo così solo metaforicamente dal momento che
nulla è al di fuori di essa: essa stessa è il fuori, essa stessa pone (il)
fuori: l’impianto, dice Heidegger, «pone fuori», in esso ogni risorsa
«spinge fuori l’altra» nell’ordinabilità di tutte le cose; il fuori è il suo
stesso dentro – tutto è risorsa, non conosce limiti? Servendosi delle
energie della natura, la tecnica non dipende forse da quest’ultima?
Non si rimette da ultimo al suo giudizio? Come se tutto si giocasse
tra due cerchi, due circoli – quello di una tecnica che pretenderebbe,
nella sua circolazione impiegante ogni cosa e ponente ciò che è, nel
suo stare (Stand), come Bestand e quello della natura in cui tutto ritorna, in cui la circolarità è la regolarità del ritmo di ciò che a cadenza regolare si offre, si offrirebbe, per essere poi, e solo in un secondo
momento, impiegato e accumulato – e quindi limite, nella presenza
del suo donarsi, all’uso che se ne può fare.
«Che ne è dell’essenza della tecnica? È universale oppure no? Qual
è il rapporto fra la tecnica e la natura?» (HEIDEGGER 1994, p. 64). E
la risposta arriva subito dopo: la natura non (le) sta di fronte come un
oggetto «che occasionalmente viene sfruttato». Nell’evo della tecnica «la natura appartiene fin da principio alle risorse dell’ordinabile
all’interno dell’impianto» (HEIDEGGER 1994, p. 65); «[essa] non è
più un limite» (HEIDEGGER 1994, p. 67, corsivi miei). Nell’epoca della
tecnica – ma dove comincia? In che momento il circolo agrario delle
stagioni è sostituito dalla circolazione invisibile di informazioni che
trafficano lungo il circuito globale? – i due cerchi sembrano sovrapporsi, circolare l’uno nell’altro nell’indistinguibilità dei due. Attenzione però, Heidegger non ci dice che la natura è scomparsa, sostitui581
ta dalla tecnica. C’è forse mai stata? La natura, ora(?), è un «pezzo di
riserva» dell’impianto, è essa stessa non circolo, ma momento, effetto,
dell’unico circolo vigente: quello tecnico. La natura è prodotta dalla
tecnica. Ma naturalmente o tecnicamente?
Abbiamo usato appositamente “effetto”, e riferendoci qui ai termini tedeschi wirken e Wirkung che vogliono dire fare, effettuare,
agire, compiere un’azione, avere un effetto.
La natura? Effetto di tecnica. E non può a questo punto non risuonare quanto una volta Derrida ha scritto: «Non c’è natura, ma
solo effetti di natura: denaturazione o naturalizzazione. La natura,
il significato della natura, si ricostruisce a posteriori a partire da un
simulacro […] di cui la si crede la causa» (DERRIDA 1991a, p. 168).
Nella circolarità tecnica – nel nostro oggi, 2006, più che dal motore meglio rappresentata forse dalla circolazione tecnica di elementi
invisibili e da quei satelliti che, con sguardo protetico, vuoto e senza
orbite, disegnano il circolo estremo di una frontiera sospesa che si
vuole confine tra un dentro (quello di un mondo mondializzato) che
è fuori di sé nell’estasi del suo potersi scrutare e un fuori buio in cui
si lancia l’ultimo desiderio di trascendenza dell’umano: oggetti ed
esseri tecnici in odissee colonizzanti che, nella speranza di fare di
questo fuori il dentro di una nuova vita extra-mondo, e non tornando
indietro nella maggior parte dei casi, non chiudendo quindi il cerchio
del ritorno, segnano forse l’avvento di una nuova tecnica che si è definitivamente liberata della sua antica memoria omerica – in questa
circolarità tecnica, la natura cresce su un terreno tecnologico, germoglia, mette radici e si nutre; non si è mai nutrita d’altro che del humus
del Bestand anche se, come tale, non riconoscendo il cerchio da cui si
origina, in esso non vede altro che una morsa mortifera che da ogni
dove la (re)stringe, accerchiandola da ogni lato, strozzandola.
2. La morte della morte
E l’uomo? Che ne è dell’uomo nell’epoca in cui egli stesso, a partire dalla propria essenza, «è nell’essenza della tecnica, nell’impianto,
e ne è ordinato»? Essendo «pezzo di riserva», «l’uomo appartiene
582
all’impianto in un modo completamente diverso dalla macchina, un
modo che può diventare inumano. Tuttavia l’inumano (das Unmenschliche) è pur sempre inumano (unmenschlich). L’uomo non si trasformerà mai in macchina» (HEIDEGGER 1994, pp. 60-61). Certo, l’uomo
non sarà mai una macchina, mai riducibile ad essa; eppure, nella sua
inumanità – che soltanto in negativo marca la perdita di ciò che non
può che essergli proprio, e che quindi egli perde su uno sfondo di
imperdibile possesso – la distanza che lo separa da tutto ciò che non
è umano si assottiglia incredibilmente. Da tutto ciò che non è umano,
in generale. Quindi anche dall’animalità, ma non solo ovviamente.
Ed è seguendo la questione della morte – di quella che non sarebbe
più «il riparo nascosto dell’essere nel poema del mondo» – e della morte
della morte nell’evo della tecnica, che tutta una serie di distinzioni
rischiano di precipitare.
Centinaia di migliaia muoiono in massa. Muoiono? Periscono. Sono
uccisi. Muoiono? Diventano “pezzi di riserva” di una riserva della
fabbricazione di cadaveri. Muoiono? Sono liquidati con discrezione
nei campi di sterminio. E anche senza arrivare a tanto, in questo
momento […] a milioni cadono in miseria e crepano di fame. […]
Ovunque si vedono travagli in massa di innumerevoli morti orribilmente non-morte (HEIDEGGER 1994, pp. 83-84).
Come pezzo di riserva la morte, come tale, sembrerebbe morta: non
si muore, si crepa. E dal momento che «essere capaci di morte nella sua essenza significa “poter morire”», l’impossibilità della morte
nell’epoca della tecnica marcherebbe l’impossibilità di poter morire:
non si può morire, non si è in grado di morire. E se solo «coloro che
possono morire sono i mortali nel senso fondamentale della parola»,
l’epoca della tecnica segna l’avvento dei non mortali. E se soltanto
«gli uomini come mortali abitano il mondo come mondo», l’epoca
della tecnica come epoca dei non mortali porta con sé l’impossibilità dell’abitare del mondo in quanto mondo, del mondo in quanto
«inoggettivo dispiegamento della verità dell’essere»: «il mondo è
divenuto non-mondo» (HEIDEGGER 2000a, p. 60).
Nell’impossibilità di morire – e di morire la morte in quan583
to tale – anche la vita, rispetto alla quale Heidegger ci parla di
«un dirigismo in materia di fecondazione» (HEIDEGGER 2000a, p.
62), tende probabilmente a divenire «un artefatto producibile
tecnicamente»(HEIDEGGER 1976a, p. 211). Ma se ciò avvenisse effettivamente, «in quello stesso momento non ci sarebbe più salute, né
nascita e morte» (HEIDEGGER 1976a, p. 211, corsivi miei). Sarebbe allora
forzata una lettura che – richiamandosi alle distinzioni che venivano
operate in Essere e tempo tra Sterben (il morire propriamente tale, il morire di un Dasein che, solo, avrebbe un rapporto alla morte come morte, alla morte come tale) e Verenden (il modo, non di morire, ma di finire di un vivente: il finirla o l’arrivare alla fine, il crepare) – mettesse
in evidenza che l’epoca della tecnica, con le sue migliaia di morti orribilmente non-morte, si presenta come una messa in discussione di
questa salda divisione che, all’interno dell’economia di Essere e tempo,
è indispensabile all’analitica di un esserci che, nell’esperienza della
morte, giunge alla sua possibilità più propria e diviene propriamente
ciò che è potendolo testimoniare6 nell’anticipazione della morte? Della
sua morte. Ma nei campi di sterminio, nel crepare di fame, non è la
sua morte, la mia morte, la miità della morte a essere morta – o più
propriamente crepata (verendet)? Derrida ha scritto che l’esserci, propriamente parlando, è immortale, immortale perché senza fine: muore certo, il Dasein, ma non finisce, non la finisce mai, non crepa. Non
gli si potrebbe mai dire: «crepa!». E se glie lo si dicesse, sarebbe per
volerlo ridurre e assimilarlo all’altro dal Dasein, l’animale ad esempio. Sarebbe tentare l’impossibile. Ma non si dovrebbe forse ribaltare
questa lettura derridiana dicendo che, al contrario, dal momento che
nell’epoca della tecnica, sia l’esserci che l’altro da lui crepano (verenden)
ma non muoiono (sterben), entrambi sono in un certo senso immortali?
Si è immortali, non si muore più, o comunque si muore senza morire
e non si esperisce più la morte come morte – si crepa. Il Dasein crepa,
come un cane, come Josef K.
Da sempre legata al linguaggio – «I mortali sono coloro che possono esperire la morte come morte. L’animale non ne è capace. Ma
l’animale non può nemmeno parlare» (HEIDEGGER 1985a, p. 169)
– la morte crepata (verendet) non condanna forse a un mutismo che,
non semplice rovescio del dono della parola, si consegnerebbe come
584
una sorta di trascendentale in grado di accomunare – nelle morti non
morte – l’uomo e l’animale, il Dasein e l’altro da esso, tutti gli altri?
E anche il pensiero, come il linguaggio, «vive di un’affinità elettiva
con la morte»; ma con quale morte, dovremmo a questo punto domandarci, dal momento che, e questo sulla falsariga di Essere e tempo,
si crepa? Che pensare, dopo quanto detto, di queste affermazioni:
«Un animale non può morire, cessa di vivere. Da ciò potrebbe dipendere il fatto che l’animale non può pensare» (HEIDEGGER 1994, p.
148)? Chi pensa, quale pensiero, quando il crepare si mondializza?
Quando, data la morte un pezzo dell’impianto, si è fatti a pezzi come
in una macelleria?
È a questo punto del tragitto che si pongono quegli ormai troppo
abusati versi di Hölderlin: «Là dove c’è il pericolo, cresce / Anche
ciò che da salvezza (Wo aber Gefahr ist, wächst / Das Rettende auch)». È
l’ultimo grande circolo: quello tra pericolo e salvezza, tra pensiero e
Ge-stell. Pensando quest’ultimo – che è «l’essenza della tecnica», ovvero «niente di meno che l’essere stesso» – il pensiero pensa qualcosa
che non si riduce alla tecnicità. Pensando il Ge-stell, il pensiero pensa
quell’essenza della tecnica che, come noto, non è «niente di tecnico»,
non si riduce alla tecnicità della tecnica: questa non viene più pensata quindi come mero strumento; né come mezzo, o insieme di mezzi,
in vista di uno scopo; non è più concepita antropologicamente, non è
più una semplice attività dell’uomo: è l’essere che si destina, si invia
come Ge-stell, portando sulla via di quel disvelamento mediante il
quale il reale è determinato come Bestand, fondo, riserva, accumulo.
E se «la tecnica è un modo del disvelamento» (HEIDEGGER 2000a, p.
9), è perché bisogna intenderne il genitivo soggettivo: la tecnica è una,
e una tra tante, delle modalità del disvelamento; uno dei modi in cui,
nella storia dell’essere, il disvelamento stesso si destina e si disvela
in quanto tale. E laddove il pericolo consisterebbe nel sopravanzare
della tecnica verso un dominio incontrastato, la salvezza cui il pensiero corrisponde è la non irriducibilità della tecnica: non è data a
essa né l’ultima parola né l’ultimo giudizio. Nella sua non-autoarchia, la tecnica è espropriata nell’essere e così rimessa al suo proprio:
non essere altro che un modo dell’essere7. Ma il pensiero, pensando
585
il Ge-stell – e quindi quell’essenza che non è nulla di tecnico – non
arriva però a pensare, e quindi a descrivere, proprio ciò che, nell’età
della tecnica, renderebbe impossibile il pensiero stesso? Pensando
il Ge-stell, il pensiero pensa la salvezza, corrisponde ad essa; eppure, pensando il Ge-stell, il pensiero pensa l’impossibilità di se stesso.
Pensandolo – e lo abbiamo visto, abbiamo seguito Heidegger lungo
tutto il tragitto – il pensiero non pensa ciò che mette in discussione
le distinzioni, la morte come tale, e quindi la possibilità stessa del
linguaggio e del pensiero? Eppure (si) pensa tutto ciò. L’ultimo circolo allora, è proprio quello del pensiero con l’impianto, del pensiero
con se stesso, con la sua possibilità o impossibilità. In un rincorrersi
all’infinito – forse identificandosi – soltanto grazie al quale è possibile dire: «non siamo ancora stati salvati»!
Ma a quando quest’appuntamento, forse, mancato in partenza?
tecnica, al culmine della storia dell’Occidente – e di contro a quello
che usualmente si crede – è ciò che meglio corrisponde all’essere
dell’ente.
Ma nell’interrogarla, questa storia, il pensiero si riporta alla sua
origine (si badi bene, la questione della tecnica è la questione dell’origine e dell’originarsi), deve ritornare lì dove
con la comparsa della metafisica, i linguaggi storici si trovano per
la prima volta a confronto con la testimonianza del senso dell’essere
e del niente. Nel confronto, il senso di ogni parola premetafisica subisce una trasformazione essenziale. Alla luce dell’essere e del niente
la vita, la nascita e la morte, il sì e il no, il dolore, l’amore, la terra e
il cielo vengono sottratti al loro senso primitivo e restano affidati ad
un altro senso, inaudito. Con la metafisica non sopraggiunge semplicemente un mondo nuovo, ma sopraggiunge il mondo. Il mondo
non è una physis originaria e nemmeno il dono di un dio, ma è l’ethos
dell’Occidente (SEVERINO 1982, p. 253),
3. «L’essere è techne»: Emanuele Severino8
A ritroso in direzione di una ontologia che si determini originariamente come tecnologia.
Sull’intero Pianeta – dunque non solo nella sapienza tradizionale ma
anche in quella scientifico-tecnologica – ciò che ormai si presenta
come l’evidenza originaria, elementare, irrinunciabile ed indiscutibile è il divenir-altro delle cose del mondo, ossia è il fondamento
essenziale in relazione al quale soltanto può costituirsi una qualsiasi
forma di realizzare scopi (divina, umana, sociale, tecnologica) (SEVERINO-IRTI 2001, p. 40).
In ognuna delle sue molteplici determinazioni la volontà di potenza si avventa sulla cosa, su ogni cosa, sulla totalità delle cose. Avente
nel divenire-altro il suo fondamento essenziale e la sua estrema condizione di possibilità, la tecnica – sorta di mano originariamente
tecnologica – manipola e manovra l’ente: strappato a se stesso, a se
stesso è rimesso e dunque riconsegnato al suo più proprio. Rimesso
al più proprio del suo essere, l’ente è da sé rapito e a sé sottratto. La
586
ovvero «il luogo indubitabile ed evidente in cui si raccolgono gli
enti» – e in cui questi, raccogliendosi, divengono: «nascono, muoiono,
si trasformano»(SEVERINO 1982, p. 253).
Ma che cos’è allora un ente? Che cos’è una cosa? In che modo «a
partire da un certo momento della storia dei mortali è stato inteso l’esser
cosa delle cose?» (SEVERINO 1984, p. 369). Ogni cosa, ogni ente è ciò
che ora è, ma che però prima (molto o poco prima) non era e che poi
(molto o poco dopo) non sarà. Dal punto di vista di quel linguaggio
ontologico solo per il quale il mondo è sorto significa che gli enti del
mondo – ma anche il mondo stesso – dal niente escono e nel niente
ritornano passando dalla nientità all’essere un non-niente e viceversa.
È la ricchezza di quel caleidoscopio – il divenire di tutte le cose – in
cui ogni ente si determina come sintesi tra l’essentia e l’existentia, tra il
ciò che e il suo è. Come sintesi, appunto. E come ogni sintesi e legame
i fili dell’essere si annodano solo per subito sciogliersi anche perché,
come tale, l’intreccio sarebbe potuto non sussistere. Nodo gordiano
dell’essere da sempre sciolto dalla lama del niente.
«L’ente è, in quanto tale, libertà infinita» (SEVERINO 1980, p. 32)
587
che, non consistendo in altro che nella possibilità di percorrere «l’intera distanza tra gli estremamente opposti», è libero da entrambi.
Non essendo inscindibilmente legato né all’uno né all’altro, inevitabilmente rimesso a questa sorta di oscillazione pendolare, l’ente è
slegato sia dall’essere che dal niente: la sua ab-solutezza. Esso è ma,
come tale, sarebbe potuto non essere. Di certo c’è solo che tornerà
nel niente: la sua contingenza. Ab-solutamente contingente, l’ente
«sporge sull’essere», vi si affaccia – ma giusto un momento, giusto il
tempo di individuarsi in un ora e in un qui che – seguenti al niente
da cui sono scaturiti – nel niente risprofonderanno.
Libertà dell’ente, dicevamo, e solo come tale – solo cioè in quanto
libero – solo in quanto sottratto al dispotismo dell’essere e a quello
del niente
l’ente può cominciare ad avere dei padroni in terra e in cielo. Solo
in quanto l’ente è disponibile all’essere e al niente un padrone può
disporne. Identificato l’ente a questa disponibilità, la volontà di potenza vuole anche guidare e non assistere semplicemente all’oscillazione dell’ente tra l’essere e il niente, vuole appunto dominarla
e spingere così a fondo la sua originaria appropriazione dell’ente
(SEVERINO 1980, p. 235).
Ma – e questo non può non segnare un non indifferente scarto
rispetto a Heidegger – la volontà di potenza non si avventa sull’ente
solo in un secondo momento. Non è il ritardo, in ritardo rispetto ad
un più originario concedersi e offrirsi dell’automanifestatività dell’ente. Momento primo e fondante – la volontà di potenza può trasformare, creare e distruggere l’ente solo perché lo ha primariamente
isolato dalla totalità di ciò che lo circonda, solo perché lo ha voluto
come qualcosa di isolato, di non necessariamente dipendente e legato
al tutto. Non avendo catene che ne garantiscano l’immobilità e l’immodificabilità, l’ente può essere separato e, come tale, fatto. Ma, ed è
qui che ne emerge l’originarietà irriducibile, questa libertà – afferma
Severino – è l’originariamente voluto: essa non è un prius logico, qualche
cosa che precederebbe il volere di questa volontà. La volontà di potenza non vuole grazie ad essa, ma neanche semplicemente vuole essa.
588
Essa non agisce su qualcosa: lungi dal costituirsi, e dunque dall’ipostatizzarsi, in un’improbabile forma astratta che dall’alto manipolerebbe, la volontà di potenza si identifica con la stessa oscillazione, si
identifica con la stessa identificazione dell’essere e del niente: «Il senso
originario dell’impadronirsi dell’ente risiede nell’apertura stessa del
senso dell’ente» (SEVERINO 1980, p. 234): cioè nel porre l’ente come
l’originario oscillare tra l’essere e il niente. La volontà di potenza è l’originario impadronirsi in quanto originaria apertura del senso stesso dell’essere
della cosa: il suo essere un/in divenire.
Apertura di ciò che – con un termine oramai abusato e usurato – si è sempre chiamato «nichilismo». Non la storia secondo la
quale dell’essere, alla fine, non ne è più niente. Ma la storia – lungo
la quale, per la quale, e che solo l’ha resa tale – dell’essere, sin dall’origine, non ne è niente. Letteralmente. Il nichilismo – l’apertura
stessa del senso dell’essere come apertura del divenire di tutti gli
enti – è l’identificazione dell’essere col niente solo grazie alla quale
è possibile qualcosa come l’uscita dal niente e il risprofondare nel
niente. Il nascere e il morire dell’ente. Il produrlo e il distruggerlo.
Ma se l’impadronirsi non sopraffà l’ente solo in un secondo momento, se la volontà di potenza si identifica col senso dell’essere in quanto
dive-niente, con l’identificazione stessa dell’essere e del niente; se la
potenza originaria è l’affermazione «l’essere è niente», e se «la potenza è l’essenza stessa della techne», ne consegue che il sorgere stesso
del pensiero dell’essere, dell’essere in quanto dive-niente, determina
l’ontologia come originaria tecnologia. Archi-tecnica mi azzardo qui a
definirla, originaria tecnicità dell’ontologia, ovvero di ciò in seno a
cui si è sviluppata l’intera nostra concettualità. Originariamente tecnica anch’essa quindi.
Già per il più antico pensiero metafisico l’essere è techne. Nel Sofista
Platone definisce l’essere come dynamis (potenza): ciò che è ciò che ha
la potenza di fare o di essere fatto. “Fare” (poiein) significa condurre
all’essere ciò che prima non è; “essere fatto” significa il venire condotto all’essere (SEVERINO 1982, p. 196).
Importante a questo punto, per comprendere la pretesa origina589
rietà di Severino nei confronti di Heidegger, citare le pagine conclusive de La questione della tecnica nelle quali si fa appello a un «disvelamento concesso più originariamente» e che, come tale, «sia in grado
di far apparire per la prima volta ciò che salva nel mezzo del pericolo
che non tanto si manifesta, quanto piuttosto ancora si nasconde»
(HEIDEGGER 2000a, p. 26) nell’età della tecnica. Scrive Heidegger:
Una volta non solo la tecnica aveva il nome di techne. Una volta
si chiamava techne anche la pro-duzione del vero nel bello, techne si
chiamava anche poiesis delle arti belle. […] Poiesis non è solo la fabbricazione artigianale, né solo il portare all’apparire e all’immagine
che è proprio dell’artista e del poeta. Anche la physis, il sorgere-diper-sé, è una produzione, è poiesis. La physis è anzi poiesis nel senso
più alto. […] Pro-duzione si da solo in quanto un nascosto viene
nella disvelatezza. Questo venire rifonda e prende avvio in ciò che
chiamiamo il disvelamento (das Entbergen). I greci usano per questo
la parola A-letheia (HEIDEGGER 2000a, p. 9).
Sequenza questa – tecnica, techne, poiesis, physis, a-letheia – che non
esprime l’esigenza di
un ripudio o rigetto dell’atteggiamento tecnico, ma di una sua “delimitazione” che si fa valere: […] significa riaprirsi al fatto di per sé
semplicissimo che la techne “rientra”, “appartiene” alla physis, cioè
appunto è da questa posta nei suoi limiti. Che il pensiero possa cioè
giungere ad una sorta di grado zero della tecnicità come pro-duzione
dell’essere sia “teoretica” che “pratica” per essere solo il ri-guardo
che accoglie il pro-dursi come tale, non è un punto di fuga dalla techne, ma un punto di sua riconversione (MAZZARELLA 1981, p. 308).
Solo questa delimitazione renderebbe possibile un’etica, un’ecologia (nel senso dell’oikos) in grado di impedire «alla techne l’esorbitare
del disvelamento umano nell’atteggiamento tetico-tecnico, cioè della metafisica come violenza dell’ente in vista della propria “nevrotica” […] appropriazione» (MAZZARELLA 1981, p. 326).
Si sarà già notata una differenza radicale: per Severino poiesis, fare
ed essere fatto, è un condurre ed essere condotti dal niente all’esse590
re; per Heidegger dal nascondimento al non-nascondimento: fondo
senza fondo ultimo dell’a-letheia, dell’automanifestatività dell’essere.
Ma ci si è mai interrogati radicalmente sull’a-letheia? Disvelamento,
certo. Dalla latenza alla non latenza, l’ente sorge per poi risprofondare. Questa manifestatività che conduce alla presenza, che lascia l’ente
soggiornare nel rischiaramento, si concede in un gioco di luce-ombra,
di disvelato e di latente che, forse – ed è questa la questione che interessa Severino – non si interroga su quella che lui definisce la «latenza
della latenza», quella latenza più profonda e più oscura che è la stessa
nientità dell’ente. Quest’ultimo sorge, viene alla presenza emergendo
dalla notte della latenza e lasciando confinato in un recesso ancora più
profondo, non il niente da cui è scaturito e al quale si ricongiungerà,
ma il fatto stesso di uscire dal niente e di risprofondarvi:
Nel pensiero Occidentale, l’Aletheia non è la non latenza (il disvelamento) della lethe, cioè del proprio in sé, ma è il disvelamento di
ciò che (come fenomeno del nichilismo) nasconde il proprio in sé
presentandolo in forma rovesciata. Nella sua essenza l’aletheia è lethe
(SEVERINO 1982, p. 431).
Essa nasconde quell’identificazione dell’essere e del niente che
– sola – rende possibile qualcosa come il venire-alla-presenza (ousia).
Originaria tecnicità dell’essere: questo è il suo proprio «inconscio»,
quello che l’aletheia stessa non avrebbe mai riconosciuto9.
Avendo prima constatato che il divenire dell’ente – ovvero il suo
essere niente – è l’originaria volontà di potenza come archi-tecnica,
dobbiamo concludere con Severino che l’essenza stessa dell’aletheia è
originariamente tecnica. E se Heidegger può scrivere che «l’aletheia
appartiene all’essere» (HEIDEGGER 1976a, p. 255) è perché Severino
afferma che «l’essere è techne, perché è essenzialmente avvolto dall’orizzonte del fare e dell’essere fatto, ossia perché appartiene essenzialmente al processo del condurre e dell’esser condotto dal non essere all’essere» (SEVERINO 1982, p. 196). Questo periodo, scandito dalle
virgole in tre momenti distinti, può essere a nostro avviso letto come
un commento a quella sequenza heideggeriana che dalla tecnica ci
riporta al disvelamento: nella prima parte la tecnica è ricondotta alla
591
sua essenza di originaria techne; nella seconda si è riportati alla poiesis
(la tecnica un modo del fare); nella terza si giunge a quell’essenza nascosta che dell’aletheia ne marca l’originario carattere tecnico.
L’essenza della tecnica è tecnica. E se dell’affermazione heideggeriana
«la tecnica è un modo del disvelamento» bisognava – riportando la
prima nei limiti del secondo – coglierne il genitivo soggettivo, dobbiamo – nel seguire Severino – leggerne il genitivo oggettivo a tal
punto da esser costretti a rovesciare la formula: il disvelamento, ogni
disvelamento, è un modo della tecnica. Di quella archi-tecnica che, sola,
apre e fonda la nostra storia e di cui la Tecnica – quella affermatasi
nella contemporaneità – è solo un modo. Modo che, e dovremo vederlo,
meglio corrisponde a quell’essenza originaria. Per questo la tecnica è
solo un modo della tecnica, solo un’epoca determinata di una più originaria e universale archi-tecnica: il nichilismo è la stessa impossibilità
di opporre alla tecnica qualcosa che non sia la tecnica stessa. Sempre
più d’una, non si gioca che una tecnica contro l’altra. Gigantomachia
tra tecniche su di uno sfondo tecnico.
Lungi dal delineare un’improbabile antropologia – la scena primaria che può forse essere narrata non farebbe dell’uomo semplicemente un essere tecnico: esso non sarebbe in realtà niente di più che
una determinazione precisa, una concrezione, solo un’individuazione
di quell’originaria tecnicità che vedrebbe, nell’uomo, null’altro che
l’essere pieghevole e flessibile10.
Emergendo – non importa da dove, se dalla polvere o dalla scimmia – l’uomo-tecnico comincerebbe a guardarsi intorno, a scrutare
con gli occhi, a separare, scindere le cose le une dalle altre per meglio
comprenderle e afferrarle (proairesis). In un primo momento, impossibile stabilire la durata di questo lasso di tempo fittizio (nel frattempo
avrebbe già agito; il suo esserci è la sua prima piega), si sentirebbe
soffocato da una realtà circostante inflessibile e immutabile. Ma poi…
il cerchio che si rompe, l’azione che dilaga e che penetra. Debole, incerta, forse malriuscita e circoscritta – essa circoscriverebbe comunque. Flessa una parte, l’essere diventerebbe «regno». Piegato, esso
verrebbe ripiegato intorno allo strumento originario, quel corpo così
ricoperto e rifugiato11. Strappato da se stesso, il «regno» separerebbe
592
un dentro minacciato e protetto da un esterno pieghevole e appuntito.
Architettonica di pieghe e volute che sola renderebbe possibile uno
stanziamento, il riposo – e dunque l’uscita in un fuori da maneggiare. Manipolazione, manovramento e manifattura – la mano «è lo
strumento originario e fondamentale di cui il mortale dispone»12. Sia
che afferri qualche cosa per trattenerlo vicino al corpo o che lo spinga
via per tenerlo lontano, la mano carpisce – laddove carpere «significa, propriamente, “prendere con la mano”, staccando, separando dal
tutto una parte. L’uso dello strumento mira ad una separazione» e
nel separare a soddisfare quella brama del mortale che è «la volontà
di dominio che si protende con la mano (cheir) all’uso e al possesso
(chraomai) delle cose (chremata); e le cose sono ciò di cui la brama ha
bisogno, ciò che è necessario». Maneggiamento tecnico – dalla mano
all’arto: esso «non è semplicemente ciò che è unito al corpo, ma è lo
strumento originario di cui il mortale si sente padrone e che gli consente di modificare il mondo in cui vive. E glielo consente perché non
è rigido, ma è articolato». Della stessa importanza dell’arto è l’omero,
«che consente di trasportare i pesi più grossi e operare più profonde
modificazioni nelle cose». L’intero corpo, strumento tecnico originario – insieme di articolazioni articolate-articolanti – articola la totalità dell’essere che lo circonda: trasforma, spezza, ma primariamente
piega. Il nichilismo – l’originaria ontologia come tecnologia – determina la totalità dell’essere come l’originariamente flessibile: «Il flessibile
non è semplicemente ciò che si flette; cioè che non rimane rigido; ma
è ciò che è piegato (o che può essere piegato)». Piegare è «volgere il
flessibile in una certa direzione in modo da assegnargli una certa piega», ossia una disposizione. «Il flessibile è dunque ciò che è dominato
nell’azione rivolta ad un fine; ossia ciò che è disponibile al dominio
dell’azione e che diventa il materiale o l’oggetto di essa»(SEVERINO
1980, pp. 253-287). Tutto si piega. Già da sempre piegabile.
4. A priori tecnico
Ma se Severino – proprio a partire da questa archi-tecnica – può
chiasmaticamente affermare che «dio è il primo tecnico» perché «la
593
tecnica è l’ultimo dio», ciò che dobbiamo mettere in luce è allora il
tratto peculiare che distingue la cosiddetta «epoca della tecnica» (la
nostra) dall’intera tradizione. Tradizione la cui intelaiatura, il cui
asse portante, consta di istanze che, susseguitesi l’una all’altra, hanno
in vario modo tentato di imprimere il loro marchio sul divenire dell’ente – ciò che Severino definisce gli immutabili: «Dio», la «legge»,
la «rivelazione divina», la «Grazia», la «coscienza morale», le «leggi
naturali», ecc.
Alla guida del divenire degli enti, il dio – paradigma dell’immutabile in quanto tale, di tutti gli immutabili, quindi della tradizione
tout court – è colui che assolutamente pilota e comanda l’oscillazione.
Proprio in quanto tale – proprio cioè in quanto assolutamente imbrigliato e incanalato – il divenire cessa di essere tale, cessa cioè di essere
liberamente diveniente. Il divenire, fatto divenire, cessa di essere tale.
Ogni immutabile rende possibile il divenire solo entro i limiti che
esso stesso impone: quei limiti che esso stesso è per il divenire. Ogni
immutabile rende possibile il divenire rendendolo al contempo impossibile. Possibile perché delimitato, possibile solo in quanto delimitato.
È per questo che Severino può affermare che gli immutabili sono
in contrasto con loro stessi, sono essi stessi la loro stessa contraddizione, tra la forma assoluta (immutabile e indiveniente) e il contenuto
(diveniente, mutevole e precario): «Il dominio sull’ente è contrastato
e limitato dalla forma in cui esso si realizza» (SEVERINO 1980, p.
228). Il passaggio alla cosiddetta «civiltà della tecnica» segnerebbe
allora il superamento di questa contraddizione e contrarietà sviluppatasi in seno alla stessa archi-tecnica:
La civiltà della tecnica è invece quella forma della originaria volontà
di potenza che non è in contraddizione col proprio contenuto, perché il calcolo che guida l’oscillazione dell’ente è e riconosce di essere
ipotetico, problematico, falsificabile, rettificabile, “scientifico” nel
senso moderno della parola. Il dominio diventa assoluto, proprio
perché rinuncia ad essere assoluto. L’assolutezza del dominio è il suo
non essere limitato dagli immutabili che esso stesso pone […] la rinuncia all’assolutezza è la rinuncia all’incontrovertibilità del calcolo
(SEVERINO 1980, p. 228).
594
Laddove gli immutabili rendevano possibili azioni e scopi non
rendendo possibili tutte le azioni e tutti gli scopi – escludendo cioè
tutto ciò che a loro non si conformava – la tecnica non fa che escludere gli scopi escludenti. Fagocitante, l’orale cavità dell’Apparato13
tecnico divora ogni cosa, nulla è al di fuori di essa:
Già di per sé stesso l’Apparato (e ogni sua frazione) possiede uno scopo.
Non si tratta dello scopo ideologico, per la cui realizzazione l’ideologia si serve dell’Apparato come mezzo e strumento: si tratta, appunto, dello scopo che l’Apparato possiede per sé stesso, e che consiste
nell’acquisizione di una capacità sempre crescente di realizzare scopi
in generale. Lo scopo che l’Apparato possiede per sé stesso è l’aumento indefinito della potenza, cioè della capacità di realizzare un qualsiasi
tipo di scopo (SEVERINO 1989, p. 74).
Sconvolgimento di ogni teleologia, non certo attraverso la messa
in questione del concetto di telos, quanto piuttosto attraverso una
sovradeterminazione, una moltiplicazione, sorta di accatastamento
disseminante – incontrollato incontrollabile – che toglie ad ogni scopo il suo privilegio: il suo essere escludente.
Da parte mia, ho sempre sostenuto che mentre le altre forme di
volontà di potenza (norme religiose, morali, giuridiche, politiche, economiche) vogliono realizzare scopi escludenti – scopi,
cioè, la cui realizzazione mira insieme all’esclusione della realizzazione di altri scopi -, la tecnica non mira a scopi di questo
tipo, ma, appunto, a quello scopo, “trascendentale”, che è l’incremento infinito della capacità di realizzare scopi. Ciò non
significa che la tecnica non miri ad alcuno scopo, ma che non
mira ad alcuno scopo escludente (SEVERINO-IRTI 2001, p. 29, corsivi miei).
Certo, anche l’Apparato potrebbe essere accusato di comportarsi
esattamente come gli immutabili dal momento che, seppur solamente gli scopi escludenti, anch’esso comunque esclude. Ma l’Apparato
non esclude gli scopi escludenti, bensì gli scopi escludenti: non esclude
cioè lo scopo in quanto tale – al contrario! – lo realizza prescindendo
595
dalla sua forma escludente altri scopi; lo realizza cioè insieme alla totalità di tutti quegli scopi che con esso sarebbero altrimenti incompatibili. Kermesse di scopi eterogenei.
Escludente la forma escludente di ogni scopo, l’Apparato è la condizione di possibilità per una qualsivoglia realizzazione: «per questo ho
detto prima che lo scopo della tecnica è trascendentale» (SEVERINO-IRTI
2001, p. 32). Trascendentale è allora la tecnica stessa, dal momento
che la tecnica è, essa stessa, di per se stessa il suo proprio scopo.
Estrema condizione di possibilità, sorta di forma a priori che, nella sua
inemendabilità, è ciò che – e questo è il tratto peculiare di quell’età
della tecnica che è solo un’epoca della tecnica – tutto rende possibile
non rendendo impossibile nient’altro che ciò che non rende possibile: …tutto è possibile…
E il “tutto è possibile” della tecnica è il non porre più nessun limite al
divenire, all’oscillazione dell’ente tra l’essere e il niente – all’archi-tecnica che, sola, apre e fonda l’intera parabola della storia dell’Occidente.
L’epoca della tecnica è quindi ciò che meglio corrisponde, risolvendone
la contraddizione, a quell’archi-tecnica originaria in cui tutti gli enti,
strappati al niente – sono creati; strappati all’essere – distrutti.
Ma se il più proprio dell’essere è quello di essere niente – se «l’essere è niente» nomina la forma originaria della tecnicità dell’essere
stesso – la tecnica, nell’avventarsi sulla totalità dell’ente, sta forse
facendo violenza a quest’ultimo? Si avventa sull’ente? Nientificando
l’ente o entificando il niente lo si sta stuprando? Lo si sta forse defraudando della sua essenza, del suo proprio? Ma il suo proprio non
è proprio quello di «essere niente» – ovvero la sua espropriazione
più radicale? Espropriando l’ente dal niente (creandolo quindi tecnicamente), o espropriando l’ente dall’essere (distruggendolo quindi
tecnicamente – e nel mezzo tutta una serie di metamorfosi e trasformazioni), non si fa il più proprio dell’essere, quindi tutt’altro che una
violenza ceca e devastante14? Nel cuore del nichilismo una prossimità
tanto essenziale quanto inaspettata tra Severino e il concetto derridiano di ex-appropriation: un’appropriazione che, proprio in quanto
espropriazione originaria, è già sempre ri-appropriazione. Corrispondere al più intimo dell’ente (di ogni ente, quindi anche di quello
che si chiama uomo) e fare il suo più proprio, è espropriarlo a sé in
596
quanto ente proprio perché nell’espropriazione originaria (dall’essere, dal niente) non è ravvisabile altro che il cuore stesso dell’essenza
dell’ente. Sue viscere e sue carni. Da sempre lacerate, quindi.
Nell’epoca della tecnica che dispiega se stessa come nientificazione totale dell’essere e come l’opulenza dell’entificazione stocastica del niente – se ci volessimo ancora rifare a quel concetto oramai
usurato di «dignità umana», questo non potrebbe corrispondere ad
altro che al miglior piegarsi, dunque adeguarsi, di se stessi a se stessi
in quanto pieghe dell’essere. La migliore adeguazione sarebbe quella
tra l’esse e il nihil. Essere mutaformi15 – tra, ad esempio, (e non sono
questi che estremi ideali) l’entificazione tecnica in quanto clonazione
e la nientificazione tecnica in quanto eutanasia. Al di qua del bene e
del male, ovviamente.
***
…ora, qui, accanto a me, il registratore portatile che gracchia. Rumori
oramai inidentificabili fanno da sfondo e accompagnano il levarsi di una
voce d’oltretomba che, proveniente «da una grande distanza» e registrata
non ricordo più quando, mi colpisce – «come una massa gelatinosa, vischiosa
colpisce il tatto». Odo le seguenti parole, stralcio delle meditazioni di un
filosofo – qualcuno le sta leggendo: «Così, una volta ben bene ponderato
tutto quanto, alla fine si ha da stabilire che l’asserto io sono, io esisto, è
impossibile che non sia vero, ogniqualvolta io lo pronunci o lo concepisca mentalmente».
Il problema, ora, è quello di un ora differito – di un differimento in cui
io ascolto, ora, questa voce, e in cui voi, ora, la state leggendo. Quale sarà,
ora, in quest’ora tecnico continuamente ripetuto, il valore di quell’«io sono,
io esisto»?
1
Con tale titolo intendiamo parafrasare alcune celebri affermazioni di Derrida in
La carte postale: «La poste est une époque de la poste, c’est pas très clair» (DERRIDA 1980a, p. 71, 5 Septembre 1977); «si cette poste n’est qu’une époque de
l’envoi en general» (DERRIDA 1980a, p. 72, 6 Septembre 1977).
597
2
3
4
5
«Tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano. Oggi con l’aeroplano
basta una notte di volo per raggiungere la stessa meta che in passato richiedeva
settimane e mesi di viaggio. Attraverso la radio oggi si apprende ora per ora,
all’istante, ciò di cui un tempo si aveva notizia soltanto dopo anni, se non addirittura mai. La ripresa cinematografica fa vedere adesso a tutti nell’arco di un
minuto il germogliare e l’allignare delle piante che rimanevano celati nel corso
delle stagioni» (HEIDEGGER 1994, p. 19, corsivi miei).
Nella forma del Bestand, è lo stesso rapporto soggetto-oggetto a venir meno, a
essere impiegato come risorsa. Poco prima del passo sopra ricordato, Heidegger
scriveva che «l’oggettivo (das Gegenständige)» – vi sentiamo risuonare Kant in
questo passo – è «l’ultimo residuo di ciò che è distaccato». È come se nell’oggetto come Gegenstand vi fosse ancora una certa distanza, un qualcosa che ancora
ci riguarda nonostante che in esso già si instauri, «anche se in modo ancora
inappariscente, il dominio del senza-distacco (Abstandlose)» (HEIDEGGER 1994,
p. 46). In Oltrepassamento della Metafisica, un veloce passaggio che si tiene in
equilibrio tra Cartesio e Kant ci descrive così l’oggetto: «All’oggetto (Gegenstand) appartengono a un tempo l’in-che-consiste (das Was-bestand) dell’obietto
(Gegenstehende) […] e lo stare di ciò che sta di fronte […] L’oggetto è l’unità della posizione stabile (Ständigkeit) del “fondo” (des Bestandes). Questo “fondo” nel
suo stare è essenzialmente connesso al porre (Stellen) della rappresentazione (Vorstellen) intesa come assicurante avere-davanti-a-sé» (HEIDEGGER 2000a, p. 47).
Sia nell’una che nell’altra il Bestand si è già insinuato prima dell’avvento della
determinazione dell’essere come «risorsa»: quest’ultima non è semplicemente
preparata, anticipata dalla determinazione dell’essere come Gegenstand – ma vi si
è già insinuata. È già se stessa non essendo ancora se stessa. L’epoca del Bestand è
forse già prima di essere come tale.
Letteralmente Ge-stell significa scaffale, intelaiatura in cui tutto è ordinato al
fine di essere esposto e così disponibile: ci sembra che questo senso sia ben reso
dall’argomentare heideggeriano. Sebbene la traduzione con «impianto» potrebbe risultare un po’ infelice si è comunque deciso di attenerci a essa per una serie
di ragioni non accidentali: 1. emergerà più avanti la differenza con l’«apparato»
severiniano; 2. perché l’impianto e l’impiantare lasciano in essi risuonare l’operazione protetica della sostituzione e del supplemento, di cui speriamo si colga
l’originarietà irriducibile; 3. perché, etimologicamente, il termine deriva dal
tardo latino implantàre (impiantare una pianta): si lascerà emergere, in riferimento a ciò, l’operazione di innesto come operazione propriamente tecnica. È la
naturalità della pianta – le sue radici – a essere effetto di una tecnica che ne ha
originariamente espropriato il mondo.
«L’impianto – l’essenza della tecnica – era già in movimento, in maniera latente,
molto prima che, verso la fine del diciottesimo secolo in Inghilterra, fosse inventato e messo in moto il primo motore» (HEIDEGGER 1994, p. 57, corsivo mio).
Nell’affermazione che ci sono le macchine perché la nostra è l’epoca della tecnica
si rende ancora più oscura l’idea che possa esserci qualcosa come uno spaesamen-
598
to della campagna a opera del Bestand: lo sconvolgimento di un terreno, di una
campagna, è ravvisabile (forse) su di un piano ontico, non di certo ontologico.
6
Si vedano DERRIDA 1996 e FERRARIO 2006.
7
Rimandiamo a CACCIARI 2000, pp. 43-44. Vi si discute criticamente – a partire
da impliciti assunti severiniani – il privilegio accordato da Heidegger al Ge-stell
nel suo rapporto con l’Ereignis.
8
Quello che andremo a commentare – separando e dividendo – è solo un momento
del discorso severiniano, ben più ampio e impossibile da abbracciare con un unico,
singolo colpo d’occhio. Ciò che ne resta fuori è quella riflessione sull’«eternità dell’essere» che può comunque essere rintracciata nei testi da noi segnalati. La separazione e la divisione, che qui mettiamo in atto, sono comunque proprio quelle stesse
operazioni, originariamente tecniche, che qui intendiamo anche tematizzare.
9
«Ciò che Heidegger non può riuscire a scorgere è che, nella techne greca, il
disvelamento è il disvelemento del mondo, ossia dell’ente inteso come niente
(appunto in quanto la poiesis non porta alla luce ciò che è immutabile ed eterno,
ma l’ente che esce e ritorna nel niente). Come disvelamento, la techne greca è
l’evidenza stessa del mondo, ossia dell’orizzonte in cui è resa possibile ogni violenza produttiva-distruttiva della tecnica moderna» (SEVERINO 1982, p. 259).
Molti sono i dubbi che si dovrebbero sollevare circa l’uso che Severino fa del
lessico psicoanalitico; qui noi ce ne serviamo solo per meglio renderne l’argomentazione. Ciò non deve comunque far supporre che sottoscriveremmo ogni
sua affermazione al riguardo, tutt’altro.
10
Le citazioni con cui costruiamo questo paragrafo sono tratte tutte dal cap. VIII
di SEVERINO 1980, pp. 253-287.
11
Così questa stessa scena primaria viene descritta da E. Boncinelli: «Sassi, bastoni, foglie, massi, tronchi d’albero, singoli steli per legare, fasci di steli per coprirsi
o per adagiarvisi furono probabilmente i primi semplici strumenti, sufficienti
a compiere alcune operazioni quotidiane in maniera più spedita o efficace» (E.
Boncinelli, L’anima della tecnica, Rizzoli, Milano 2006, p. 20, corsivi miei).
12
Rimandiamo a Prospettive antropologiche di A. Gehlen: «La sua posizione eretta,
la sua mano, […] tutto ciò può venire considerato come un sistema, come un
complesso di fattori che mette l’uomo in grado […] di modificare in modo intelligente le costellazioni di condizioni naturali di volta in volta disponibili in
modo da conservarsi in vita». In questo stesso volume si analizza quello che viene definito il «circolo dell’azione» secondo il quale l’uomo è l’essere originariamente tecnico in quanto originariamente agente: «L’azione stessa è quindi – oserei
dire – un complesso movimento circolare che è regolato sulle cose del mondo
esterno, e il comportamento si modifica secondo il messaggio di ritorno che annuncia il successo. Si può mostrare qui molto bene che, nel corso dell’esecuzione
dell’azione, qualsiasi riflessione che non si traduca in una modificazione della
direzione dell’intervento allo scopo di uno svolgimento più agevole si limita a
porre ostacoli» (GEHLEN 1961, pp. 34-35, corsivi miei).
Per quel che riguarda ancora la mano ricordiamo queste scene di originaria finzio-
599
ne: «La mano deve la sua origine alla vita sugli alberi. Suo primo contrassegno è
la separazione del pollice dalle altre dita: il vigore del pollice e la distanza creatasi fra esso e le altre dita permettono di usare quel che era un tempo un artiglio
per afferrare bene i rami», E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, 1981, p. 253. La
mano, originariamente separante la totalità dell’essere da se stesso, si origina a
quanto pare essa stessa da una separazione originaria – in ritardo, quindi, rispetto a quest’ultima. Per poi, ovviamente, ancora separare e raccogliere: «La mano
che attinge acqua è il primo recipiente. Le dita di ambo le mani, intrecciate fra
loro, formano il primo canestro. […] Poi le dita, formando una concavità per
attingere acqua, crearono la prima coppa» (Ivi, p. 261). Accostiamo a questo
separare e raccogliere ciò che per Severino è il senso del logos e di legere che «significano originariamente il togliere ad uno ad uno gli elementi dallo stato in
cui inizialmente si trovano, ma questo toglierli non è un disperderli che li allontana gli uni dagli altri e li lasci reciprocamente indifferenti, bensì è un toglierli
dallo stato iniziale – e quindi è un separarli dall’unità che da questo stato è loro
conferita –, per raccoglierli in una nuova unità che, appunto, li tiene legati» e che
«risponde allo scopo che il mortale si prefigge raccogliendoli» (SEVERINO 1980,
p. 316, corsivi miei). La mano sembra quindi ciò che per prima incarna e realizza
l’essenza stessa del logos: la tecnica nella sua primitiva – ma comunque après coup
– manifestazione antropologica. E se prima della mano fosse invece il piede? Quel
piede che, rinunciando ad essere prensile e dunque mano a sua volta, apre ad un
bipedismo che «ha permesso l’utilizzo degli arti superiori, dapprima per utilizzare oggetti e poi per trasformare questi in manufatti, tuttavia la stazione eretta è
precedente allo sviluppo della capacità cranica e anche alla manipolazione della materia»
(G. Biondi, F. Martini, O. Rickards, G. Rotilo, In carne e ossa. DNA, cibo e culture
dell’uomo preistorico, Laterza, Roma 2006, p. 152, corsivi miei). Nell’imprescindibile retroazione del logo la conquista della posizione eretta sarebbe forse da
leggere come la prima originaria apertura di un arcaico «orizzonte dell’essere»
- la totalità che si spalanca innanzi e al di là della siepe; totalità, comunque, che
nella retroazione già troviamo come tale, in cui già ci troviamo. La mano – «consapevolezza del potere applicativo della tekne e delle capacità che essa possiede di
trasformare il reale» (Ivi, p. 153) – si scoprirebbe allora solo come un momento
tecnico in seno a un orizzonte che, esso sì (aperto, voluto, posto, colto come)
archi-tecnico – cioè trasformabile, manipolabile, separabile da se stesso – l’avrà
preceduta e solo all’interno del quale essa, la mano, può come tale essere rintracciata. Ritardo di qualsiasi manipolante «gesto pensante» (Ivi, p. 160), del suo
potersi ritenere origine (foss’anche tecnica) della tecnica: è la mano che sempre
tenta, infaticabile lei, instancabile, di afferrare (afferrandosi come) il momento
sorgivo. Nel rischio, sempre possibile, di volersi, desiderarsi come origine non
tecnica della tecnica.
13
L’apparato è ciò che è «disposto-per», strumento per la realizzazione di scopi. Si
noti come, di contro alla posizione heideggeriana che criticava qualsiasi interpretazione (antropologica) della tecnica in termini di mezzo-scopo, per Severino
600
sia invece proprio il rapporto strumento-fine a mettere definitivamente a tacere
qualsiasi interpretazione antropocentrica: «Alla tecnica è indifferente la razza
della materia umana che si unisce alla forma tecnica» (E. Severino, Corriere della
Sera, venerdì 3 Novembre 2006). Boncinelli, al contrario, afferma non solo che:
«Preso nella sua globalità l’uomo è il signore delle macchine» (E. Boncinelli,
L’anima della tecnica, Rizzoli, Milano 2006, p. 13); ma anche: «Un Leviatano?
Può darsi. In fondo: “Nessuno sulla terra è pari a lui, / fatto per non aver paura”
(Gb 41, 25). Ma è comunque un Leviatano umano, sempre più integralmente
umano» (Ivi, p. 45). Nonostante qui si affermi «signore delle macchine» e non
della «tecnica», il rischio è che la speranza antropologica si mescoli comunque
ad un’illusione deformante.
14
Violenza sarebbe allora proprio ciò che, ponendo dei limiti alla trasformazione
(tecnica) nientificante-entificante dell’ente, renderebbe contraddittoria con se
stessa l’archi-tecnica e andrebbe contro al più proprio dell’essere. È sempre nel
nome di un più nuovo/vecchio umanesimo che si schiaccerebbe, quindi oblierebbe, quest’originaria ontotecnologia – riaffermando la «sacralità», la «naturalità»,
cioè l’immutabilità dell’ente (uomo): l’idea, ad esempio, di un «vero umanesimo,
che riconosce nell’uomo l’immagine di Dio e vuole aiutarlo a realizzare una vita
conforme a questa dignità» (Benedetto XVI, Deus Caritas Est, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 2006, p. 70). Afferma invece Gehlen in un contesto
notevolmente differente: «Dinanzi alla natura inorganica, alla sua conoscenza e
al suo sfruttamento, non esistono a priori, per quanto concerne gli obiettivi da
perseguire, limiti etici di nessun genere, bensì soltanto limiti tecnici, che a loro
volta sono eo ipso soltanto provvisori» (GEHLEN 2004, p. 101, corsivi miei). È la
limitazione alla sola «natura inorganica» che, dopo quanto si è detto, non può
non risultare problematica.
15
L’atteggiamento di «esplicita manipolazione dell’uomo [è] già da tempo avviato
con le biotecniche. (La manipolazione implicita dell’uomo è sempre esistita; e
la forma più radicale della manipolazione implicita incomincia quando si pensa
che l’uomo è qualcosa di creabile e annientabile)» (SEVERINO 1997, p. 122). Cioè
modificabile, trasformabile, plasmabile – aggiungiamo noi.
601
TEMPORALITÀ
di Alessandra Penna
L’intenzione e l’ambizione del mio intervento è quella di presentare il tema della temporalità in Husserl nel suo complesso, ovvero nei tre principali momenti in cui esso diventa l’oggetto precipuo
dell’indagine filosofica husserliana. Mi riferisco alle Lezioni sul tempo
del 1905/06, note come Per la fenomenologia della coscienza interna del
tempo (HUSSERL 1966a), ai Manoscritti di Bernau del 1917/18 (HUSSERL
2001) e ai Manoscritti C, risalenti agli anni 1929/34 (HUSSERL 2006).
È chiaro che – data la complessità e vastità dei tre scritti considerati – l’accesso al tema della temporalità sarà mediato da una
questione che utilizzerò come filo conduttore; non scegliendola però
come una tra le tante, ma come quella che meglio consente di capire,
secondo il mio personale punto di vista, in cosa consista esattamente
il problema del tempo in Husserl e come esso possa iscriversi in una
serie di considerazioni di più ampio respiro.
Va detto che, se in questi tre testi il tema del tempo è trattato in
modo più diffuso, è pur vero che la questione della temporalità è un
tema mai assente dalle riflessioni husserliane, qualsiasi sia l’opera che
si voglia prendere in considerazione. Il motivo è semplice (almeno a
dirsi), e consiste nel fatto che in più passi ed in più testi Husserl sostiene che la coscienza è tempo e che la sua struttura è temporale.
602
Prima di entrare nello specifico delle questioni, desidero fare qualche precisazione in merito a quel che non si troverà in queste breve
saggio: ometterò di introdurre i tre testi in questione, se non nelle
loro grandi linee, così come eviterò di dilungarmi sulla definizione
e spiegazione di moltissimi dei termini usati. Il mio fine vorrebbe
essere infatti quello di fornire, attraverso la problematizzazione di
alcuni aspetti che emergono nella trattazione del tema del tempo,
spunti per una discussione che investa la fenomenologia husserliana
nella sua interezza.1 Come si vedrà nel prosieguo del testo, è mia
convinzione che il tema della temporalità possa essere assunto come
la chiave d’accesso per la lettura e l’interpretazione di nodi cruciali
del pensiero husserliano.
Procederò nell’analisi secondo questo ordine:
1. proverò a enunciare quello che mio avviso si deve considerare
come il tema fondamentale della temporalità;
2. cercherò di mostrare come lo stesso tema si presenti all’interno
dei tre diversi momenti sopra citati;
3. cercherò di avvalorare la tesi secondo la quale, nonostante la
diversità, (soprattutto terminologica) tra i diversi testi e nonostante
la distanza che li separa da un punto di vista cronologico, non ci sono
fratture così sostanziali nel modo husserliano di intendere il tempo.
Tutto questo dovrebbe servirmi da filo conduttore per far vedere
come, proprio sulla questione del tempo, si giochi una partita fondamentale per la fenomenologia: quella, si potrebbe dire, enfatizzando
un po’ i toni, per la fedeltà o il tradimento alle sue premesse.
1. L’impressione originaria: la questione dell’inizio
Il tema cui accennavo al punto 1 è il tema legato all’impressione
originaria, concetto che riceve, nei tre testi, una diversa declinazione: impressione originaria (Urimpression), appunto, nelle prime lezioni, presentazione originaria (Urpräsentation) nei Manoscritti di Bernau,
presente vivente (lebendige Gegenwart) nei Manoscritti C. In questi tre
diversi modi di presentare il problema dell’inizio, che risentono delle
603
progressive conquiste teoriche del sistema fenomenologico, Husserl
si trova però sempre di fronte ad una questione cruciale per l’intera
fenomenologia: carattere puntuale o esteso dell’impressione, nocciolo o orizzonte, come si dirà per il presente vivente. Quest’alternativa
corrisponde secondo me – e sarà quanto cercherò di mostrare in questo saggio – a quella tra la pretesa di apoditticità (o scientificità) della
fenomenologia da un lato, e la manifestatività dei fenomeni (ambito e
limite della fenomenologia stessa) dall’altro. Questa è molto in breve
la tesi che, tramite il riferimento ai testi, vorrei provare a sostenere.
Passerei dunque ai testi stessi.
Il “punto d’origine” con cui ha inizio la produzione dell’oggetto che
dura è un’impressione originaria (HUSSERL 1966a, p. 64)2.
Così Husserl scrive nelle Lezioni sul tempo. A questa Urimpression
corrisponde la
coscienza di sensazione iniziale, la coscienza assolutamente originaria,
quella in cui sta il relativo punto-di-suono (HUSSERL 1966a, p.
320).3
E nella prima delle Appendici alle Lezioni, Husserl scrive quanto
segue:
L’impressione originaria è l’assoluto inizio di questa generazione, la
fonte originaria, quella da cui tutto il resto costantemente si genera.
Essa non viene però prodotta, a sua volta, non nasce come qualcosa
di generato, ma per genesis spontanea: è genesi spontanea. Non cresce
(non ha alcun seme): è creazione originaria. […] Si può dire soltanto:
la coscienza è nulla senza l’impressione (HUSSERL 1966a, p. 124)4.
Per comodità e per render più chiaro il funzionamento dello schema temporale in Husserl, riportiamo di seguito il diagramma della
temporalità (HUSSERL 1966a, p. 64), che potrà esser poi confrontato
con il modello che Husserl elaborerà nei Manoscritti di Bernau.
604
A
P
E
P’
A’
AE serie dei punti-“ora”, riempiti con altri oggetti
AA’ sprofondamento nel passato
EA’ continuum di fase (punto-“ora” con orizzonte di passato)
Rispetto ai passi citati, vediamo quali sono i punti più importanti per far emergere le tesi husserliane. Primo: Husserl assume una
coincidenza tra coscienza d’ora e impressione originaria; secondo: la
Urimpression è per la coscienza, che poi si strutturerà come modificazione continua, l’assoluto inizio (der absolute Anfang) di questa modificazione, ed in quanto assoluto, non dipendente da altro, quindi non
generato, non costituito. Ma questo inizio assoluto, quale statuto ha?
In un altro passo Husserl dice qualcosa a questo proposito. Nell’Appendice 54 alle Lezioni, scrive quanto segue:
Che la coscienza di sensazione originaria fluisce significa: data una
sensazione originaria del flusso, rispetto all’intera serie delle sensazioni le une saranno, in una serie continua, “non ancora”, le altre
“non più”, e la sensazione originaria, che è reale (wirklich), sarà un
punto limite di due continui, del “non ancora” e del “non più” (HUSSERL 1966a, p. 358)5.
Per quello che voglio cercare di sostenere, questo passo è abbastanza importante: soprattutto il riferimento di Husserl al punto limite,
al Grenzpunkt. Semplificando volutamente i termini della questione,
si potrebbe dire: c’è un’impressione originaria, ovvero l’irrompere
dell’oggetto temporale nella coscienza (in queste lezioni Husserl non
si occupa ancora del lato dell’oggetto temporale, ma piuttosto delle
questioni temporali da un punto di vista formale), a cui corrisponde,
dal lato della coscienza, la coscienza della sensazione iniziale, ovvero
605
il contenuto (di suono) sentito nell’ora. Questo momento, nel suo
complesso, è un punto limite o anche, come Husserl si esprime in
altro luogo, qualcosa d’astratto, cioè di non-indipendente. Questa
coscienza impressionale infatti «fluisce e trapassa costantemente in
una coscienza ritenzionale sempre nuova» (HUSSERL 1966a, p. 65),
la quale a sua volta presuppone a priori, dice Husserl, un’impressione originaria, pensabile però solo come limite6. Quello che tramite
queste citazioni mi preme sottolineare, è il delinearsi di questa strana situazione concettuale (molti commentatori l’hanno ovviamente
notata, ma con esiti diversi, mi pare, da quelli a cui vorrei arrivare),
per la quale si ha a che fare con un’impressione originaria, che è assunta come momento d’inizio e che dà origine ad un processo, quello
temporale vero e proprio, rispetto al quale però, di essa non si ha
più traccia. Quel che intendo dire può esser formulato come segue
in forma di domanda: una volta che la ritenzione e la protensione
abbiano articolato il processo temporale, che ne è di quel momento, o
punto d’inizio che ne è all’origine? Non si dà se non in altro, ovvero
nella ritenzione, e ad esso si perviene solo per inferenza, per deduzione. Non quindi tramite un’esperienza fenomenologicamente intesa.
Questa è la questione a cui volevo arrivare e che, mutatis mutandis, si
ripresenta secondo me anche negli altri testi.
2. Dall’impressione originaria alla presentazione originaria
Nel prendere in considerazione i Manoscritti di Bernau (testo che
segue di almeno dieci anni le Lezioni sul tempo)7, soprattutto in quella
particolare prospettiva che coinvolge le dinamiche sussistenti tra impressione e ritenzione, va senza dubbio notato l’accento che Husserl
pone sul momento della protensione, aspetto che invece nelle precedenti lezioni aveva un’importanza solo marginale. La presentazione
originaria (Urpräsentation), che nella terminologia dei Manoscritti sostituisce Urimpression) è
costantemente non un semplice comparire di Urpräsenzen, che solo in
un secondo tempo riceverebbero l’intenzionalità, ma costante far ingresso delle stesse nel modo del riempimento d’intenzioni d’attesa.8
606
Mentre nelle Lezioni l’apparire del nuovo alla coscienza ne innescava il duplice movimento ritenzionale e protensionale, adesso
Husserl vuole sottolineare come sia la precedenza di questo movimento interno alla coscienza a produrre, anticipandolo, l’ingresso
della Urpräsenz. Che cosa dice dunque Husserl esattamente? Ogni
punto della linea trasversale del diagramma temporale è consaputo
attraverso la relativa ritenzione, ma ad eccezione della fase iniziale o
punto d’attacco (Anfangsphase-Einsatzpunkt)9.
Come per le Lezioni, riportiamo di seguito anche il nuovo diagramma temporale (HUSSERL 2001, p. 22) per rendere più esplicito
ciò di cui si sta parlando.
E13
E1
+
E2
E
2
1
E3
E4
–
E
E23
E13
E24
E1
4
E2
E1
Il segmento verticale E2 E12 è coscienza del decorso.
La protensione che si riempie in E2 viene poi conservata nello
sprofondamento in E12, quindi la ritenzione E1-E12 porta in sé la protensione.
Nel punto iniziale infatti, per riprendere il discorso, l’Ereignis di
volta in volta considerato non ha ritenzioni che gli si riferiscano, ed
607
il ramo ritenzionale che nel diagramma husserliano è rappresentato
dalla linea verticale inferiore, appartiene ad Ereignisse passati.
Cosa vuol dire tutto questo? Nient’altro se non che qualcosa, nella serie temporale delle modificazioni coscienziali, si sottrae almeno
in parte alla presa della coscienza, alla reinclusione nel suo ambito.
Husserl stesso scrive, in un passo, che il punto d’inizio
in senso proprio è “unbewusst” e viene alla “coscienza” solo mediatamente, attraverso la ritenzione10.
Questo unbewusst mi sembra presentare notevoli affinità con l’inesperibilità dell’impressione originaria, di cui si parla nelle Lezioni sul
tempo. In questi manoscritti Husserl individua due momenti in cui
questa situazione si verifica: il primo riguarda il fare ingresso nella
coscienza di dati iletici che non hanno ancora ricevuto animazione da
parte di un’apprensione, il secondo riguarda il fare ingresso nella coscienza di un Ereignis inatteso. Ecco i due passi che illustrano quanto
appena detto:
Prendiamo un punto di mezzo, una parte è già decorsa costituendo
tempo. Forse si può dire, non appena una “piccola” parte iniziale è
decorsa […] le protensioni di cui abbiamo bisogno si stabiliscono
secondo una necessità genetica originaria, e il continuo futuro di
apprensione che ora si estende nello sviluppo del flusso, si estende
ora anche all’indietro, e irradia sul processo decorso e gli conferisce
l’apprensione ancora mancante11.
E più avanti:
Qui si tratta di una costituzione originaria, che non contenga in sé questo
intreccio. Qui consideriamo dunque oggetti temporali (Ereignisse) che fanno il loro ingresso senza essere predelineati in modo certo attraverso una
Vorerinnerung, come oggetti temporali predelineati, predelineati attraverso
intenzioni vuote che si riempiono attraverso un processo costituente tempo12.
Posto che questo sia il problema, all’impasse Husserl cerca di sfuggire sostenendo che in realtà l’inizio è solo l’inizio della considera608
zione, e che siamo noi che scegliamo, che tiriamo fuori una fase, che
è il doppio ramo d’intenzionalità, ed il cui dato originario “è” solo
come momento dell’intenzionalità13. Con ciò è come se volesse dire,
dunque, che prima viene sempre il flusso e che è solo per il tramite
di un’operazione d’astrazione che si può individuare nel processo un
punto che chiamiamo inizio. Queste due posizioni, cioè la difficoltà
iniziale che affiora nei due esempi citati e questa conclusione, non offrono secondo me una valida soluzione al problema, che mi sembrava
emergere già con le Lezioni sul tempo. Esse mi sembrano piuttosto
il segno di una costante oscillazione a cui, proprio relativamente a
questa questione, il pensiero di Husserl va incontro. Questione e
oscillazione che emergono a mio avviso ancora più chiaramente nei
Manoscritti C.
3. La struttura del presente vivente
Coi Manoscritti C, recentemente pubblicati (ma che Husserl aveva da subito – come era accaduto anche per i Manoscritti di Bernau
– affidato a Fink perché ne curasse l’edizione), arriviamo agli anni
1929-1934, quindi alla tarda riflessione husserliana. Nonostante il
materiale in essi contenuto si presenti sotto vari punti di vista frammentario ed eterogeneo, quel che per le nostre questioni è importante sottolineare è l’attenzione che ancora una volta è assegnata al tema
del tempo: segno evidente da un lato della sua innegabile centralità
per la fenomenologia, dall’altro di una qualche mancata soluzione
del problema ad essa legato, se Husserl vi torna con tale mole di
considerazioni sino agli ultimi anni della sua vita.
Affrontando direttamente il tema che più ci interessa, bisogna
subito dire che ancora una volta si assiste ad un cambiamento terminologico: invece che con Urimpression e Urpräsentation, avremo a
che fare qui con il termine di presente vivente. Vediamo in breve
il modo in cui Husserl ne parla. Innanzitutto, esso è per Husserl il
risultato della riduzione radicale. Questa riduzione, come riduzione
al presente vivente è equivalente – scrive Husserl – alla riduzione
fenomenologico-trascendentale14:
609
la riduzione più radicale a quella soggettività in cui tutto ciò che per
me vale si compie originariamente, in cui ogni senso d’essere è per
me senso, è la riduzione alla sfera della temporalizzazione originaria,
in cui fa ingresso il senso primo di tempo – tempo come presente
fluente vivente. Ogni ulteriore temporalità, sia oggettiva o soggettiva […], deriva da quello [cioè il tempo nel primo senso] il suo senso
d’essere e la sua validità15.
Questa lunga citazione dal Manoscritto C 3, datato 1930, è utile
per porre delle questioni, e per evidenziare come quell’oscillazione,
cui facevo riferimento in chiusura di paragrafo sui Manoscritti di Bernau, si riproponga anche in questi scritti, ma nella forma di una più
esasperata alternativa. La struttura del presente vivente, per dichiarare subito il problema, è da intendere come un nocciolo o come un
orizzonte? Nel concreto presente, dice Husserl, noi abbiamo un nocciolo di autentico presente, che risulterebbe astraibile dal primo16;
ma è altrettanto vero che Husserl sostiene che ad essere originaria è
la Kerngegenwart, ma in quanto orizzonte duplice. Per dirimere questa questione, che è in questo modo solo accennata, bisogna far riferimento a qualche altro testo husserliano, almeno alle Idee I e alle
Meditazioni cartesiane.
Come abbiamo visto, Husserl dichiara che la riduzione al presente vivente è equivalente a quella fenomenologico-trascendentale,
ovvero – citando da L’idea della fenomenologia – quella che consegna
alla coscienza una datità assoluta e indubitabile, il fenomeno nel suo
diretto manifestarsi17. Dice anche che è la più radicale.
Sono convinta che la natura di questo presente vivente possa diventare più chiara, se si riesce a descrivere la natura dell’atto che ad
esso conduce. Se si tratta di una riduzione, allora, per il suo tramite,
“qualcosa” dovrebbe darsi come è in sé; dato che in questo caso si
parla di tempo, nella forma del presente vivente, allora questa riduzione dovrebbe consegnare, nella sua originalità, quel tempo che sta
alla base di ogni ulteriore apparire fenomenico.
Proprio qui ha sede a mio avviso il problema: se infatti il tempo raggiunto con questa riduzione (forse quell’assoluto non ancora raggiunto di cui Husserl parla nel paragrafo 81 delle Idee I?18) è
610
quello che consente il manifestarsi del fenomeno così come esso è, e
se il fenomeno non può non avere un’estensione, almeno temporale,
un orizzonte, come è possibile che la struttura che ne consente la
manifestazione sia senza orizzonte? È senza dubbio innegabile che
anche in questi manoscritti si assiste ad un’oscillazione tra un presente vivente inteso come nocciolo (astraibile, quindi ricavabile con
un’operazione del tutto legittima) e un presente inteso invece come
orizzonte, ma l’alternativa tra queste due possibilità non è facilmente
risolvibile a favore dell’una o dell’altra, almeno non senza qualche indicazione che può provenire da qualche altro testo husserliano in cui
si affrontano, sebbene da prospettive leggermente diverse, le stesse
questioni.
Per tentare di render più chiara la questione si può provare a far
uso di qualche passo delle Idee I e soprattutto delle Meditazioni cartesiane, tramite le quali è possibile osservare meglio come la questione
del tempo – come dicevo all’inizio – porti con sé una questione centrale per la fenomenologia.
La domanda alla quale, anche con il ricorso ad altri testi, vorrei
cercare di dar risposta è questa: perché questa oscillazione tra due
modi di intendere il presente vivente? A quale esigenza corrisponde
o a quale difficoltà viene incontro?
Il terreno che Husserl crede di aver raggiunto con la riduzione
radicale, va messo secondo me in relazione con alcuni passaggi delle
Idee I e delle Meditazioni. Vediamo quali: nelle Idee I Husserl scrive
che il residuo fenomenologico dell’avvenuta riduzione è la coscienza
pura nel suo essere assoluto, quell’assoluto che costituisce in sé ogni
trascendenza19. Se si passa poi alle Meditazioni cartesiane, ecco cosa si
legge: che a costituire il contenuto assolutamente indubitabile dell’esperienza trascendentale di sé non è la mera identità dell’io con sé
stesso, ma una universale struttura apodittica di esperienza dell’io,
che Husserl identifica con la forma temporale immanente del flusso
dei vissuti. Questa riduzione all’ego puro – ha detto però Husserl in
alcuni paragrafi precedenti – rende possibile l’evidenza apodittica.
È ben nota la distinzione che ricorre nelle Meditazioni cartesiane tra
l’evidenza e l’apoditticità, o evidenza apodittica. L’evidenza è secondo
Husserl il modo «dell’esser dato autenticamente, in immediatezza intui611
tiva, originaliter» (HUSSERL 1950a, p. 84). Essa garantisce la certezza
d’essere di cose o contesti oggettivi, ma limita questa certezza al momento della presenza, all’ora, ovvero ammette la possibilità che quella certezza sia revocata in dubbio. Questa impossibilità, cioè l’assoluta inconcepibilità del non-essere, è invece il carattere dell’«evidenza
apodittica» (HUSSERL 1950a, p. 50), quell’evidenza che Husserl ritiene caratterizzare il contenuto dell’esperienza trascendentale di sé,
cioè la forma temporale immanente del flusso dei vissuti. Se si mettono in relazione questi passaggi con le considerazioni iniziali sul
presente vivente, si spiega allora quella che chiamavo oscillazione:
il considerare il presente vivente come nocciolo serve a garantire la
possibilità di attribuzione, alla struttura, dell’evidenza apodittica;
d’altro canto, il considerarla orizzonte, quindi duplicemente articolata, consente di farne la struttura che fonda la possibilità di manifestatività del fenomeno. L’articolazione dell’orizzonte temporale è
necessaria perché un fenomeno si manifesti, come è in sé; dall’altro, il
terreno di apoditticità che consegue all’esercizio della riduzione è ciò
che consente di caratterizzare la fenomenologia come scienza.
Con questo mi pare abbastanza bene evidenziato come il tema del
tempo dischiuda l’accesso ad un problema ben più vasto per la fenomenologia, che è quello della possibilità o impossibilità che essa possa
essere intesa come scienza descrittiva dei fenomeni, dove il problema
– se sono riuscita a enunciarlo – consiste nella conciliazione tra scientificità e descrizione. Questo è ciò che all’inizio di queste considerazioni
indicavo lapidariamente come fedeltà o tradimento, per la fenomenologia, delle sue premesse, che le imporrebbero di assumere come sorgente legittima della conoscenza, ciò che si dà nell’intuizione, ma anche nei limiti in cui si dà. Attraverso la questione del tempo, ripercorsa
tramite il tema dell’impressione originaria, emerge invece, secondo
me, una contraddizione cui spesso le analisi di Husserl vanno incontro: quel che la riduzione radicale ci consegna – se assumiamo il punto
cronologicamente più tardo delle analisi – è un concettodi tempo dato
o forse, piuttosto, costruito? Il forte legame che si istituisce tra presente
vivente e apoditticità, non ha forse come conseguenza quella di spostare il piano descrittivo verso quello di un concetto limite, difficilmente
assumibile come il risultato di un’esibizione fenomenologica?
612
Sulla questione del tempo mi pare dunque venire alla luce un’ambiguità che a mio avviso vena la fenomenologia non solo sotto questo
particolare aspetto, il quale però si presta, per la sua centralità, ad
essere assunto come esemplare. Ambiguità rispetto alla quale i testi
husserliani non mi sembrano offrire una chiara e univoca soluzione,
che nemmeno queste considerazioni avevano d’altronde la pretesa di
trovare: averla evidenziata può però indurre ad un ripensamento delle stesse premesse fenomenologiche, ad una loro inevitabile messa in
discussione, nel possibile tentativo di isolarne il nucleo più coerente,
da cui sia possibile ripartire per riformulare alcune questioni, come
anche quella della temporalità.
1
2
3
4
5
Questo è tra i motivi che spiegano l’assenza dal mio testo di molte definizioni e
chiarimenti preliminari che potrebbero essere ritenuti necessari: ho pensato fosse
più opportuno evidenziare qualche spunto problematico, più che presentare la
questione del tempo in modo descrittivo. Al tempo stesso, però, ho volutamente
adottato uno stile colloquiale e anche piuttosto semplificato, per non tradire
l’origine di questo scritto, che altro non è se non la rielaborazione della relazione
tenuta all’interno del seminario fenomenologico organizzato dal prof. Edoardo
Ferrario per l’A.A. 2005/2006. In assenza di un’edizione italiana ho tradotto io
i passi citati da HUSSERL 2001, HUSSERL 2002 e HUSSERL 2006.
Il testo citato risale agli anni 1908-1909.
Il testo risale al 1908.
In un passo dei Bernauer Manuskripte in cui Husserl parla, come in questo caso,
di Urgenesis, si trova un’espressione che ricorda molto quella che chiude il passo succitato: «in der orientierten immanenten Zeit kein Jetzt ohne hyletische
Urimpression» (HUSSERL 2001, p.282). Il che significa che non c’è coscienza
d’ora senza che nella coscienza si produca un’impressione originaria.
A sottolineare la necessità della puntualità, dell’unità indivisa del presente, è,
come è noto, Jacques Derrida, il quale sostiene che solo la semplicità dell’ora
possa assicurare la possibilità di un’intuizione originaria che non abbia bisogno
del segno. Prescindendo in questa sede dalla questione relativa al segno, va comunque detto, anche a conferma di quanto sto cercando di sostenere, che anche
Derrida nota come, sebbene Husserl avverta il problema e tenti di non isolare
ogni adesso come istante o punto, considerando sempre le modificazioni che ad
esso si accompagnerebbero, tuttavia non sfugge alla necessità di pensare e descrivere questa divisione a partire dall’identità a sé dell’adesso come punto-sorgente.
Cfr. J. DERRIDA 1967c; in particolare, per quanto detto, pp. 95-97.
613
Vedi HUSSERL 1966a, p.68.
Per un’introduzione al problema del tempo, per un suo inquadramento cronologico e tematico, si può far riferimento all’ampio testo di T. Kortooms, Phenomenology of Time. Edmund Husserl’s Analysis of Time Consciousness (KORTOOMS 2002).
8
HUSSERL 2001, p. 4; «beständig nicht bloß Auftreten von Urpräsenzen, die erst
nachträglich Intentionalität annehmen würden, sondern beständiges Auftreten
derselben im Modus der Erfüllung von Erwartungsintentionen». Nell’introduzione dei curatori a HUSSERL 2001 si può vedere come l’accento sul tema della
protensione corrisponda all’affermarsi nella riflessione di Husserl di quella che si
è soliti chiamare fenomenologia genetica.
9
Vedi HUSSERL 2001, pp. 16-18.
10
HUSSERL 2001, pp. 17-18; «der in eigentümlichem Sinn „unbewusst“ ist und
erst mittelbar durch Retention zum „Bewusstsein“ kommt».
11
HUSSERL 2001, p.11; «Nehmen wir einen vermittelnden Punkt, ein Stück ist
schon zeitkonstituierend abgelaufen. Vielleicht kann man sagen, sowie ein „kleines“ Ansatzstück abgelaufen ist, […] etablieren sich nach ursprünglicher genetischer Notwendigkeit die Protentionen, die wir brauchen, und das künftige
Auffassungskontinuum, das sich nun ausbreitet in der Entwicklung des Flusses,
breitet sich nun auch nach rückwärts aus, strahlt zurück auf den abgelaufenen
Prozess und erteilt ihm die vordem noch fehlenden Auffassungen».
12
HUSSERL 2001, p. 12; «Hier handelt es sich um eine ursprüngliche Konstitution,
die nicht solche Verwicklungen in sich birgt. Hier nehmen wir also Ereignisse,
die auftreten, ohne bestimmt durch Vorerinnerung vorgezeichnet zu sein, als
vorgezeichnete Zeitereignisse, vorgezeichnet durch leere Intentionen, die sich
durch einen zeitkonstituierenden Prozess erfüllen».
13
Vedi HUSSERL 2001, p. 28.
14
Cfr. HUSSERL 2002, p.185.
15
HUSSERL 2002, p. 187; «die radikalste Reduktion auf diejenige Subjektivität, in
der alles Mir-Gelten sich ursprünglich vollzieht, in der aller Seinssinn für mich
Sinn ist und mir erlebnismäßig als geltend bewusster Sinn. Es ist die Reduktion
auf die Sphäre der Urzeitigung, in der der erste und urquellenmäßige Sinn von
Zeit auftritt – Zeit eben als lebendig strömende Gegenwart. Alle sonstige Zeitlichkeit, ob nun subjektive oder objektive […], erhält aus ihr ihren Seinssinn
und ihre Geltung».
16
Vedi HUSSERL 2006, p. 27; come commento a questo interessante e dirimente
passaggio, si possono leggere le pagine che Klaus Held dedica ad esso in Lebendige Gegenwart, dove sostiene che il procedimento d’astrazione in questione consisterebbe in un artificiale (künstlich) non prendere in considerazione una parte
dell’intera struttura (del presente concreto): tesi contraria a quanto invece cerco
di sostenere. A questo proposito si può però notare che il testo dei Manoscritti C
su cui Held ebbe modo di lavorare, era quello trascritto da Speelers sulla base
della prima trascrizione di Fink, non sempre fedele all’originale testo stenografato di Husserl, sul quale invece i curatori del testo si sono basati per l’edizione
6
7
614
ufficiale. Per la differenza tra le due versioni tedesche si può confrontare il passo
in HUSSERL 2006 con quello citato in HELD 1966, p. 20.
17
Cfr. HUSSERL 1950b, pp. 76 e 86.
18
In questo paragrafo – lo ricordo brevemente – Husserl sostiene sia la circoscrivibilità del problema del tempo sia – cosa interessante per quel che qui si discute
– che vi sia un ulteriore assoluto, oltre quello raggiunto per mezzo delle riduzioni (cioè la riduzione all’io puro) e che indica come un «ultimo e vero assoluto».
Questo ultimo e vero assoluto è il tempo, considerato come la forma, la struttura
cui necessariamente si sottopone qualsiasi “oggetto” che faccia il suo ingresso
nella coscienza. Cfr. HUSSERL 1950c, pp. 203-204.
19
Vedi HUSSERL 1950c, pp. 124-125.
615
TRACCIA
di Paolo Cartasegna
Se alla traccia appartiene la natura del rimando, un principio costante di alterazione e plurivocità, una figura potrebbe valere a compendiarne i timbri più eterocliti, dai funerei ai più vitali: i fiori di
maggio, che sbocciando sulla tomba del giovane apprendista offrono
la postuma prova dell’ineffabile, sepolto e puro sentimento di quegli
per la bella mugnaia in Trockne Blumen1. Entro la stessa però, seppur
menomamente, un’altro rimando viene alluso. Lo svoglimento assiale della riflessione derridiana interseca un piano eteronimico rispetto
a quello delle tracce e delle dinamiche possibilità di quelle di ri-significare. Stante lo svolgimento ininterrotto dello sterminato campo
significante, cui l’orizzonte semantico tiene dietro attraverso continue ri-semantizzazioni, entro l’economia delle tracce un altro ordine
è mimato e figurato, la cui tangenza è però impervio osservare. Tanto intrascendibile è il variamente costituito paesaggio delle tracce
quanto impedito a mostrarvisi l’elemento cui il loro stesso rimandare
in negativo addita. Vi guarda, non come all’origine del rimando, ma
piuttosto come a ciò che eccede la struttura necessariamente disseminale e dif-ferente della traccia stessa. Altro, origine o evento che
sia, si tenta qui di farne un testo senza coartarlo alla manifestazione.
Un risultato che si vorrà inferire sarà che l’esercizio autocritico, il
616
controllo assoluto della prosa non riuscirà mai ad astergere quest’antinomicità, tutt’al più potrà vegliarla continuamente, denunciando
sue eventuali appropriazioni da parte di pensieri faziosi.
In Violenza e metafisica (DERRIDA 1967b, pp. 99-198), il filosofo
appunta la sua riflessione sul rapporto violento che lega lo stesso e
l’altro, che incatena e non lascia l’altro esser altro; è proprio la struttura correlativa del vissuto, la necessità di un rapporto intenzionale dell’ego al mondo, il radicamento dell’apriori nel quadro di una
soggettività costituente, che rende l’esperienza dell’altro un fatto
egoico. Eppure l’interrogazione su questa violenza originaria, sebbene nel costituirsi sia costretta a riammettere l’intenzionalità, lascia
balenare un’eccedenza di senso non ulteriormente risalibile nella nozione di presente vivente, cui Derrida guarda come il luogo in cui
qualcosa come una alterità dovrebbe poter costituirsi, interpretando
così l’assunto levinasiano per cui il tempo è relazione ad altri nella
forma della disgiunzione. Ma pure nel contesto della temporalizzazione emerge la medesima difficoltà:
se in ultima analisi, si vuole determinare la violenza come la necessità per l’altro di non mostrarsi come ciò che è, [...] allora il tempo
è violenza. Questo movimento della liberazione dell’alterità assoluta
nello stesso assoluto è il movimento della temporalizzazione nella
sua forma universale più assolutamente incondizionata: il presente
vivente (DERRIDA 1967b, p. 168).
La domanda sull’archi-fattualità dell’ego contamina il pensiero di
un concetto, l’alterità, difficile da collocare. Qual è il punto, allora,
dal quale è resa possibile l’interrogazione sulla necessità, più che fattuale, dell’egoità e sul presente vivente? Sembra che si tratti di una
qualche forma di contatto con un fondo oscuro, grembo materno o
notte caliginosa che sia secondo inclinazione, che la fa sorgere ma non
si fenomenizza2.
Al tema del tempo fenomenologico, Derrida fa subire una torsione e uno svolgimento la cui ragione diviene evidente considerando
il passo di Della grammatologia in cui viene affermata la sostanziale
appartenenza della temporalità fenomenologica all’impianto della
617
tradizione metafisica, in virtù della sua struttura lineare, che la configura come una specie di limitazione di quella complessa aporia che
il tempo comincia a manifestare, e che comporta una composizione con un modello di temporalizzazione e spazializzazione altro; il
non esser più mondana di questa complessità, qui condenda, significa
nient’altro che la sua possibilità è trascendentale, una figura ultima
che presiede germinalmente sia all’essere nel mondo dello psichico
che all’origine del mondo del soggetto trascendentale fenomenologico, essendo probabilmente, in quanto scrittura, alla scaturigine della loro differenziazione. Se le opposizioni concettuali che fondano il
progetto fenomenologico, le distinzioni essenziali fra segno e indice,
presentazione e ripresentazione, si mantengono solo in virtù dell’accredito preliminare alla separazione tra reale e ideale, allora l’intera
fenomenologia è anticipata a sé stessa dal costituirsi di questa differenza, che è anche quella tra i contenuti della psicologia immanente
descrittiva e della fenomenologia trascendentale. La scrittura è sia
articolazione della differenza in fieri che contiguità, aderenza, immanenza dello psichico al fenomenologico. Momento generativo del
divenir distinte ed eterogenee di due zone, è il luogo in cui questa
differenza è catturata nel suo momento sorgivo, in cui ideale e corporeo si costellano.
Offrendoci inoltre una caratterizzazione modale dell’elemento oltre le tracce, Derrida lo scioglie dal contesto delle possibilità, osservando che l’ambito del possibile non può precederlo. Se così fosse, la
libertà con cui lo rappresentiamo gli sarebbe pregressa, come facoltà
di scelta di fronte ai compossibili. All’avvenimento pertiene invece
l’assolutezza del porsi non esaustibile in un pregresso orizzonte disgiuntivo. Il poter non, allora, è una struttura finzionale, che non è
più effettiva nel momento in cui l’evento è, e non è propriamente
mai stata pensabile, pena la perdita della sua gratuità, prima che
l’evento fosse. Per questo il momento sospensivo verrà nelle pagine successive declinato come l’indifferenziato, più che articolato in
possibilità opposte. In questo regno delle madri, enigmatica origine
e dell’evento e della domanda sull’evento si esplica un primo tentativo di identificazione dell’avvenimento all’originario, intatto e
inconcusso nella sua sovrabbondanza rispetto alle rappresentazioni
618
e ai mitologemi che lo asseverano. Se la fenomenologia derridiana
ritraduce l’indagine delle prestazioni originarie della soggettività
nell’investigazione di un ambito pre-formativo e preperformativo, si
dovrà osservare come si dispongano entro questa cornice i concetti di
origine e maternità.
In Freud e la scena della scrittura (DERRIDA 1967b, pp. 255-297)
l’attenzione di Derrida si indirizza alla metapsicologia di Freud, in
particolare al Progetto di una psicologia3. L’autore vi rinviene due elementi fondamentali: l’inizio di una rappresentazione scritturale dello
psichico e la possibilità di articolare una complicazione della supposta semplicità della percezione per cui è impossibile che qualcosa
giunga a coscienza senza che si sia precedentemente iscritto ciecamente nel sistema psichico.
Il Progetto rappresenta una strada in parte abbandonata in favore di una concezione metapsicologica diversa; costituisce in seno a
Freud e la scena della scrittura una sorta di scena originaria, la cui
cogenza è rilevabile solo alla fine del saggio, nel dispositivo che nel
notes magico esemplifica il concetto di ritardo. Ne rappresenta dunque
la traccia mnestica, il primo segno di percezione prima che questa
sia effettivamente costruita al termine del lavoro psichico del divenir cosciente; eppure ciò che di risulta emerge del notes contraddice
la raggiunta quiete, perché la traccia vi è da ultimo descritta come
sovrabbondanza significante, iscrivendosi prima della percezione del
segno di realtà. L’efficacia del Progetto pertanto non può esaurirsi, né
decantare fino al semplice modello del notes. È traccia eccessiva, incompleta e innestabile insieme, la cui prematurazione è anche chance
di risignificazione. Lo fu in effetti per Freud stesso, che ne auspicò la
distruzione, in quanto opera malfatta e avventata. Secondariamente,
la malformazione, l’inefficienza e lo sviluppo innaturale si trovano
istoriati nel testo stesso, inscenati nelle prime e nelle ultime pagine.
Una prematurazione comporta l’inizio economico e suppletivo della
vita, una precocità e una postmaturazione tratteggiano e spiegano il
carattere delle patologie isteriche alla fine del testo.
Al principio l’organismo psichico è sprovveduto, la sua autoformazione richiede la comprensione di un sistema composito, integrato, di io nascente e cure materne:
619
Stimoli endogeni [...] cessano soltanto in particolari condizioni, che
devono realizzarsi nel mondo esterno, per esempio il bisogno di nutrimento. Perché si produca un’azione del genere, che merita di esser
chiamata specifica, è necessario uno sforzo indipendente dalle Qe4
endogene e in genere maggiore [...] Il sistema nervoso è costretto ad
abbandonare la sua tendenza originaria all’inerzia5.
Sorprende osservare in un testo come il Progetto l’implicito assunto che sia il materno a inaugurare la vita, a far nascere l’organismo
psichico, sostituendo all’inerzia la costanza, il ritmo economico di
aumento e decremento. Il materno impedisce l’ineffettuale, inerziale
accendersi e consumarsi del sistema, convoca alla vita, collaudando
le prime azioni specifiche (Leistungen) e istituendo i primi significanti, cioè differenziando le azioni motorie. All’origine è così installata una differenziazione economica, e non va indiziato alcun
sistema semplicemente egoriferito. Il processo secondario è quella
differenziazione neuronale che crea barriere di contatto, imponendo immagazzinamento istruendosi biologicamente al controllo delle
scariche. L’insieme infante-madre costituisce il primo contesto entro
cui la vita psichica nasce come sistema dif-ferente, in grado di articolare e modulare la catena significante, imparando la selettività
dei percorsi energetici; col materno il vivente comincia insieme alla
facoltà di memoria, che si ha solo nella capacità di trattenere permanentemente Qe. L’attivazione allucinatoria ha senso in effetti solo
dopo che si è creata una facilitazione efficiente tra stimolo endogeno,
tracce mnestiche dell’oggetto risolutivo e scarica dello stimolo (per
esempio se la traccia mnestica del seno si è inserita produttivamente
nel movimento dell’energia). Se l’inerziale, il Grundprinzip, è inferito
dall’imporsi del principio di costanza, la posteriorità di tale inferenza
pone in seria difficoltà un pensiero dell’evento aneconomico.
Le parole freudiane per dire questa riottosità dell’originario sono
Nachträglichkeit e Verspätung:
1. La Nachträglichkeit (effetto a ritardo) è afferente non solo al
potente apparato mitopoietico freudiano che dispiega le forze costituenti la nozione di soggettività. La nozione di ritardo va ricollegata
anche ad una evidenza clinico-empirica, che ne è in parte la genesi,
620
nella tecnica di reperimento, grazie all’effetto di ritardo, di un evento, per lo più risalente all’epoca prepuberale. In effetti con questo
termine si può evidenziare come il trauma infantile alla base dell’isteria non produca subito i suoi effetti, ma solo in seguito quando
la maturazione sessuale intercorsa permetterà di rivivere la precoce
esperienza sessuale originaria con un surplus di eccitamento che causa
dispiacere, che il soggetto non vuole o non può accettare.
Si tratta qui però di operare una sottile sfumatura: l’ipotesi traumatica proposta da Charcot circa i meccanismi eziologici dell’isteria la riteneva paragonabile alla nevrosi traumatica. Questa analogia
conduceva alla formulazione della relativa terapia: poiché il trauma
alla base dell’isteria perdurava nella sua influenza patogena molto
tempo dopo il suo essersi effettivamente prodotto, soltanto la reviviscenza ipnotica dell’obliato consentiva una più congrua strutturazione dell’affettività, permettendo di scaricare l’energia accumulata e
sgravando l’io patologico dalle coazioni isteriche. Questa è però solo
l’ipotesi di partenza di Freud, che già nel Progetto riconoscerà l’azione
“patogena” del soggetto. Il rimosso non è un trauma infantile, ma
il ricordo infantile che diviene trauma solo più tardi. Ciò comporta
che l’effetto postumo si verifica se il ricordo di un epoca anteriore
viene riattivato e sessualizzato in un epoca successiva, quando la ricognizione del soggetto, che porta indietro (nachtragen) gli stati di organizzazione raggiunti e rielabora le tracce mnestiche, causa la traumaticità. Il materiale mnestico esistente è in effetti continuamente
sottoposto ad una risistemazione in base a nuove relazioni, e in questa riscrittura l’io porta con sé le sue peculiari maniere di atteggiarsi,
trattare piacere e dispiacere, incontrando talvolta elementi che non
può tollerare. La rimozione è il risultato di una mancata rielaborazione, poiché questa costerebbe l’assunzione di un dispiacere intenso o
di un senso di colpa marcato. Ciò che viene aggiunto dall’io infatti,
viene aggiunto al passato in virtù della maturazione prodottasi, per
esempio, dell’organizzazione libidica diretta oggettualmente.
Pur non essendo ascrivibile a Derrida l’incomprensione di questa sfumatura, resta in qualche modo inavvertita tale complicanza
quando in Della grammatologia un percorso di talpa collega un passato lontano a un presente percettivo, perturbandolo: l’attenzione re621
sta concentrata sull’effetto di un passato sul presente, ma non sulla
più paradossale inversione di presente e passato; ciò è tanto più interessante se si tiene conto che nella stessa pagina Derrida ascrive
polemicamente alla temporalità fenomenologica una strutturazione
lineare, che invece rimarrebbe intatta nella prima accezione proposta, semmai semplicemente complicata di talune discontinuità, con
ciò univocamente intendendosi una direzione del percorso temporale
che dal passato conduce al presente, ove il termine freudiano connota
un movimento in cui al dilazionare-posticipare va integrato il riconfigurare-rielaborare.
2. Descrivendo l’effetto a ritardo si mette in gioco anche il secondo concetto, Verspätung, il puro stare in ritardo. Anche ad esso va
ascritta una doppia valenza: l’io, o il sistema del processo secondario,
combatte per impedire la scarica primaria. Ciò avviene perché essa si
è mostrata in molti casi un espediente inefficiente per liberarsi della
quantità di energia che eccita in modo endogeno il sistema psichico.
Con discreta approssimazione si può dire che l’io esiste come funzione inibente il processo primario. Per questo, per esempio, esso segue
con grave attenzione il decorso percettivo, per osservare se esso non
liberi una scarica in modo primario, riattivando tracce ostili facilitate
dai neuroni secretori, senza che vi sia stata giustificazione adeguata.
Nella difesa primaria, che è una istruzione innata, il sistema psichico
impara infatti che la cessazione del dolore è connessa con l’attivazione di un’altra rappresentazione. Da quel momento questo sarà il suo
comportamento standard, con il quale potrà ritrarsi in tempo da rappresentazioni che provocano dispiacere, divergendo il deflusso della
carica. Nella rimozione patologica dell’isteria e della nevrosi ossessiva, questo comportamento non è stato messo in pratica, poiché col
tempo l’io impara a economizzare la sua attenzione rivolgendosi solo
ai decorsi percettivi. Ma quando a provocare l’affetto spiacevole è un
ricordo, si può assistere all’inizio di un processo di rimozione, come
procedimento inefficiente dell’io, che si trova ad agire in maniera
precipitosa, poiché non aveva controinvestimenti laterali in grado di
seguire il decorso. Questo ritardo dell’io è possibile, ed è questo un
primo senso della Verspätung, per il ritardo della maturazione sessuale
dell’individuo rispetto alle altre componenti dell’io. Questa è in bre622
ve la descrizione del falso precedente, cioè dell’inversione per cui un
ricordo è così sovrainvestito affettivamente rispetto a un momento
percettivo, come se fosse più vivido dell’evento stesso, da produrre
un affetto a posteriori, in modo postumo, sicché un presente esperienziale è dipendente e si lega carsicamente ad un elemento da cui
è insondabilmente attratto e da cui non riesce a disimpastoiarsi poiché è stata elusa l’attenzione dell’io caricato. Solo successivamente,
quando Freud verrà elaborando le teorie sulla sessualità infantile, la
Verspätung passerà a significare in generale sia il ritardo del processo
secondario sul primario, sia quello della coscienza rispetto alle iscrizioni inconsce, alle forze pulsionali costituzionali che premono per
entrare nel preconscio e nel conscio. Queste forze richiedono legittimazione nel preconscio attraverso una carica che può esser concessa o
ritirata in una rimozione.
La posteriorità è infine l’ambito problematico attraverso cui s’approfondisce l’impresenzialità della traccia fino alla tematizzazione di
un suo funzionamento ereditario, dove il procedimento di retrodatazione del trauma originario eccede l’ambito dell’esperienza vissuta,
e si va a collocare nel primordiale, allucinatorio pasto totemico del
Vater primitivo teriomorfo, rispetto a cui lo sviluppo della civiltà
è compensativo e restaurativo. Il concetto operativo della facilitazione, Bahnung, un “togliersi” residuale della resistenza opposta al
passaggio della carica energetica, nei neuroni Psi, sede dei fenomeni
psichici, di per sé non costituisce quella memoria senza la quale non
c’è psichismo; è piuttosto alla trama di differenze fra le facilitazioni
che si deve accordare la figurabilità del sistema mnestico:
la differenza tra le facilitazioni, questa è invero l’origine della memoria. Dunque la memoria è rappresentata dalle differenze delle
facilitazioni dei neuroni Psi. Non esiste facilitazione pura senza differenza6.
Nel sistema psichico pertanto non è mai recuperabile una presenza semplice, e la vita psichica è la differenza nel lavoro delle forze. Lo
stesso concetto di facilitazione consente di destituire l’assiologia di
origine e ripetizione, contaminandole l’una dell’altra:
623
La ripetizione infatti non si aggiunge dopo all’impressione [...] La
resistenza non è possibile se la contrapposizione in effetti non dura,
o non si ripete originariamente. È l’idea stessa di prima volta che
diventa enigmatica […] la vita è già minacciata dall’origine della
memoria che la costituisce e dalla facilitazione alla quale essa resiste,
dunque dall’effrazione che essa non può contenere se non ripetendola […] non c’è una vita presente che in seguito si protegge, rinvia,
riserva; la riserva, il differimento, è l’essenza della vita7.
Un principio macchinale, operatività finita governata dal decorso
meccanico dell’energia e dei controinvestimenti, attraverso l’iterabilità contamina ogni performatività vivente. La coscienza stessa si
mostra un effetto laterale, deiscenza che non si può sollevare del tutto
dall’organizzazione in certo modo automatica di un campo differenziale di iscrizione e istituzione delle tracce mnestiche. La metafora
scritturale fa sì che si possa applicare al sistema psichico la caratteristica più saliente della testualità, il funzionamento testamentario,
per cui sembra che la ricezione sia segnata da un ritardo originario,
che rende impossibile la compresenza di evenemenzialità e soggettività: le due nubende non riescono a incontrarsi che nell’ipotesi di
un passato del futuro. La coscienza si rappresenta all’interno di una
dinamica di cui è un effetto economico, intermittente accendersi e
spegnersi dovuto all’economia della scrittura psichica, è parte di un
sistema dell’Io che funziona anche senza di essa, organizzandosi nel
segno di un’espropriazione della singolarità del passaggio unico in
una già implicata ripetizione. La stessa posizione dei neuroni omega (quelli in cui si localizza la coscienza) consente di delineare una
definizione della coscienza come divenir-cosciente: attraverso di essi
l’organismo dispone di un organo sensorio che permette di percepire le qualità psichiche; l’apparato psichico diventa esso stesso un
mondo esterno per l’organo sensorio della coscienza, che in un certo
senso si fa affettare da un già stato, sanzionandolo. Solo sulla base di
un preliminare archiviare il percepito è tale, cioè a partire dal necessario supplemento di scrittura che è la traccia mnestica permanente,
ottenuta seguendo le vie di una materialità di cui non si può fare
economia, in una specie di malleveria della macchina per lo psichico,
624
cosicché una tecnica, lungi da costituirsi come un estremo ramo di
una opposizione che la legherebbe al vivente, lavora all’origine, prima dell’opposizione stessa, sotto forma di scrittura.
Poiché la traccia è iscritta nella finitezza della materialità esposta alla vulnerazione, l’affermazione della spontaneità e proprietà del
vivente va emendata in modo radicale. È nell’esposizione all’impressione che l’altro arriva al corpo, ma vi giunge nell’unico modo della
capacità cieca di ritenere affidata a una materialità organizzata, nella
duplicità tra un ingresso, già avvenuto, e non intenzionale, nella coscienza e la sua manifestazione nella complicazione di una struttura
di ritardo originario. Si potrebbe affermare che nell’immanenza di
questo contesto il passato non sia ancora passato, e celi in sé una riserva di performatività, un elemento fluido, non solidificato che nella
forma lessicale dell’eredità indebita la soggettività derridiana. Tra
rivelazione assoluta e condizioni di accoglienza c’è una necessaria discrasia, per cui è necessario che il lessico della passività, della deposizione intenzionale dell’intenzionalità, che intende l’evento entro una
serie di termini come il vulnus, l’offesa, che lacera il tessuto recettivo,
vada quanto meno vigilato nelle sue locuzioni, per vedere se non
siano il luogo di una ingenua catacresi dei termini, che ricostituisce
in realtà quella che pure se è detta passività, è ancora una attività
economica, differenziale, l’elemento di un pensiero la cui prerogativa
sarebbe ancora di darsi il proprio altro.
Il ritardo della passività, osservato attraverso le letture freudiane
di Derrida, starebbe allora in figura, per dirla con un autore tra i
preferiti del filosofo, nell’avventura del neofita ussaro Fabrizio Del
Dongo, che privo di accortezze viene ferito, per di più dai soldati della sua stessa fazione, da un colpo di spada che è una manifestazione
solo finale di quell’evento capitale che è la battaglia di Waterloo, il
quale in effetti egli ha solo sfiorato. L’evento allora, ciò che dovrebbe
risultare intraducibile, in certo modo non potendo commerciare colla traccia, che già ne costituisce la possibilità di ripetizione, si pensa
solo nella stessa trasgressione della trasgressione: nella traducibilità.
Si è venuto infatti delineando un quadro in cui il sistema psichico,
come pure la sua metafora intramondana del notes magico, non è in
grado di ricevere assolutamente per la prima volta senza che l’effra625
zione non sia contenuta, differita nella originaria ripetizione da una
tecnicità disseminale e dislocante della recettività, in cui la domanda
dell’evento non si può neanche impostare senza tradirne la legittimità, senza che il riferimento conduca alla sua subitanea annichilazione.
Si ripropone allora: come può l’evento aver luogo, se la sua istanza dura
in una impossibile simultaneità colla sua ripetizione e colla traccia,
mentre esso dev’essere l’assoluto singolare, l’inanticipabile?
Derrida stigmatizza l’uso della metafora topologica, della differenziazione topica, in Speculare su “Freud” (DERRIDA 1980b), prima
di affrontare nello specifico il testo freudiano di cui il libro è interrogazione, descrivendo l’interpretazione topica della logica della rimozione e del suo esito, che comporterebbe la possibilità di provare un
piacere effettivo come dispiacere in una dislocazione spaziale, grazie
alla quale nessuna commistione è possibile, e il principio di identità
e sovranità è rispettato nell’attribuzione dei luoghi. Posto dunque
l’assunto metodologico della necessità di emendare una concezione
estrinseca, naturalistica, dell’alterità a partire da una differenza già
decantata dentro/fuori, nonché quello di procedere alla tematizzazione dell’evento da e nel darsi del fenomenico stesso (come una inevidenza endemica alla visione) si potrà osservare la risultanza di queste
obbligazioni in Memorie di Cieco (DERRIDA 1991b), ove al contatto
con l’ipotesi dell’aprospettiva del tratto grafico, che procede nella invisibilità dell’indeterminato senza attualmente percepire, piuttosto
servendosi delle fragili risorse dell’anamnesi, Derrida suscita l’iperbole della invisibilità oltre l’invisibilità:
il visibile in quanto tale sarebbe invisibile, non come visibilità, fenomenicità o essenza del visibile, ma come il corpo singolare del
visibile stesso, direttamente il visibile – che in questo modo produrrebbe un accecamento per emanazione, come se trasudasse il proprio
medium (DERRIDA 1991b, pp. 70-71).
L’accecamento sta nel vedersi guardare; la torsione (metaforica)
verso di sé dell’occhio mira un punto cieco, per cui la coscienza vede
il proprio vedere unicamente come oggetto, non possedendo mai il
suo vedere attuale, palesando così la necessità di un «passaggio al
626
sensibile». Lo speculare è un nodo (l’altro essendo il significante fallico) in cui poter pensare anche l’incrocio di Derrida e Lacan; stadio
teleologicamente orientato nel superamento dell’identità-modello
verso il riconoscimento nel simbolico in Lacan, offerto ineludibilmente a una legge di collaudi identitari in Derrida.
Una restanza irredimibile screzia continuamente la purezza della
riflessività, senza però costituirsi in un altro luogo rispetto ad essa,
dandosi piuttosto a vedere come invisibile nel movimento riflessivo
stesso. Nella domanda se sia possibile che oltre il visibile si trovi una
condizione in grado di garantirlo, di collegarsi e calarsi nelle differenze a partire da cui purtuttavia è ipotizzata, comincia a tratteggiarsi la possibilità di un impotere. Come se, giunti allo spoglio radicale
del paesaggio nella desertificazione del deserto, o ascesi al rarefatto
ambiente di una vetta, per contemplarne il volto lo trovassimo con
le spalle girate, tratto negante e negantesi, quale nella tela di Caspar
D. Friedrich8, del tutto inarticolabile, ominoso presagio di un faccia
a faccia esiziale. Questa invisibilità coimplicata nel vedere corporeo
è la condizione stessa del visibile, che non potendo comunicare però
con le sue tracce “ontiche” è piuttosto un eterogeneo assoluto. L’altro
dal visibile sarà pertanto non tematizzabile se non in quanto vittima
di significazioni e depotenziamenti mimetici, metonimie economizzanti. Lo spazio dell’evento è un frattempo-altrove interstiziale, interno al percorso autoriflessivo, in cui il sé sente e ripete sé stesso.
Il messianico, in cui si coordina una relazione nella forma della disdetta, risulterebbe allora in questo quadro la chiave di volta per superare la dislocazione/differenziazione topologica/op-posizionale che
depotenzia l’apertura interna di un sistema estroflettendola, come
ogni progetto teleologico che si determini alla decisiva differenziazione di reale e ideale.
Le affermazioni che concernono la messianicità – lemma significativamente aggregante della produzione filosofica di Derrida e che
rappresenta l’elemento di coerenza di scritti variamente indirizzati
– risultano quasi sempre espresse in una forma che ne impedisce la
tematizzazione univoca e non contraddittoria, dal momento che vi si
reperiscono, come implicitate nel concetto, una serie di formulazioni
paradossali, che intendono scerpare il tessuto della trama relazionale
627
che pure affermano attraverso due serie lessicali confliggenti: da una
parte la promessa, l’attesa e l’ardente esigenza di giustizia e di emancipazione; dall’altra la disponibilità assoluta all’evento, la rinuncia,
una sorta di abdicazione e cessazione dell’attesa stessa.
La non traducibilità completa dell’evento in un altro estraneo,
lo scacco della operazione che potrebbe opporselo, significa perciò
anche che la messianicità sarà una forma particolare, esemplare, della
rimarca trascendentale, per cui solo nei contenuti di volta in volta
concreti si espone da sé stessa come quel deserto che in essi costituisce la legge del loro oltrepassamento, quel processo di validazione
che li universalizza, in una tensione non risolvibile tra il polo del
valore testimoniale e l’intraducibilità del singolare evento di rivelazione, essendo che una sua definizione bastevole è: inesausta opera di
universalizzazione condotta nel nome del singolare assoluto. Dove a
ben ponderare il nome è detto singolare ma nel giro di una proposizione che lo assume in una disincarnazione in fieri e per rilevarne
l’universalizzabilità. Si può fin da ora cominciare a sostenere che il
concetto di rimarca costituisce il fondo problematico di questo rapporto contaminato di idiomatico e universale nell’avvenimento, per
cui non sarà illegittimo asserire che il messianico è il divenir messianico del messianismo, di guisa che la messianicità non si rappresenta
senza la condizione di una ipotesi o perdita assoluta del proprio e della
proprietà.
L’evento promesso, atteso o già sopravvenuto, non avrà mai potuto manifestarsi che in un orizzonte di sostituzione tecnica, protesi,
artificiosità; la sua manifestatività tracimando dalla sua originaria
sparizione, e assicurandosi la sua dicibilità proprio in ciò che, consentendolo, deve di necessità iscriverlo entro una catena di de-limitazioni testuali. La forma relazionale estrema, di cui si era esemplificata
la necessità, trova nel messianico una linea di dicibilità, in quanto
questo si espone alla sottrazione di un termine stesso della relazione,
consentendo di volgere il problema dal mirato all’attesa. Liberandoci
dalle forme fisse che ci trattengono nell’esistente, il messianico si relaziona a ciò che non può entificarsi (non potendo che entificarsi), e la
cui sottrazione alla determinabilità non sottrae questo o quest’altro,
piuttosto ha in potere di farsi assoluta.
628
Sembra si stia articolando una linea esegetica per cui l’evento
farebbe premio sul messianico, come sospendendolo. Non è punto
così. È del messianico che in effetti andrebbe indagata, senza che la
domanda risulti surrettizia o peggio capziosa, la struttura intrascendibile, che neanche l’evento, col suo giungere potrebbe negare al
modo che questa negazione non ricostituisca e confermi, nel medesimo punto, la messianicità stessa come legge sovrana. Se difatti essa
stessa fosse messianica, non la sua divenienza, attesa, relazionalità,
ma ancora la pregressa eccezionalità del messianico rispetto ai contenuti che consente di muovere, sarebbe confermata. Ferma restando la necessità che ciò che resta invariato al variare d’ogni apertura
determinata, non stia per sé bensì si dia a vedere, di volta in volta,
attraverso la fattualità che pure travalica e da cui non è esauribile.
Che la situazione stia nei termini delineati fin qui, lo si può osservare
evadendo una breve descrizione di due delle forme fenomeniche del
messianico, la giustizia e la democrazia.
Derrida mostra acuta consapevolezza dell’insufficienza delle determinazioni razionali della giustizia, sia nelle generalistiche formule proporzionanti, ma prive di contenuto obiettivo, ispiranti il
legislatore, come neminem laedere, sia sulla base di una preliminare
constatazione dell’ingiusto e del male, di cui la giustizia sarebbe il
tentativo di por fine dando ordine, per esempio togliendo il pervicace permanere degli essenti-presenti; resta al filosofo di elevare quest’impossibilità strutturale a definizione della giustizia tout court. Se
è impossibile infatti fondarla su un fondo esperienziale, che sempre
richiederebbe una valutazione già garantita nei suoi procedimenti, la
mossa derridiana consiste nel partire dall’oltrepassamento dell’esperibile, e cioè dall’eventuale, trascegliendo per la giustizia il carattere
polimorfo dell’alterazione, dell’assenza di volto fisso, costituendola
come una relazione indecisa cui un termine non consente obiettazione e dizione definitiva. Se la giustizia rappresenta un oltre del
diritto, e nel diritto non può esser esaurita, è perché ne va in essa
dell’esposizione all’alterità in quanto non proporzionabile e non presentabile, mentre il diritto fenomenizza, assegna qualità giuridica
alla fattispecie concreta, facendola divenire normativa, governa così
anticipatamente le possibilità, le decide nell’obbligo giuridico, ar629
ginando le esondazioni, talvolta esulceranti e foriere di aggressività
indominabili, dell’intersoggettività, grazie alla sua posizione cooriginaria alle pretese giuridiche dei soggetti di diritto che istituisce
assieme alla loro capacità giuridica. La manifestatività dell’altro non
va così resecata dalla facoltà di entrarvi in rapporti giuridici d’obbligo, autorizzazione, facoltà, divieto.
Questa inevitabilità dello statuto a venire della giustizia rispetto
all’ordinamento o differenza nomologica, consente alla decostruzione
di plasmare l’inaffidabilità del secondo nella forma di una altrettanto
radicale disponibilità al cambiamento, per cui se la giustizia a venire
è accoglienza al di là del diritto statuale o interstatuale, perciò stesso
il diritto è sempre suscettibile di perfezionamenti. Vi è una ragione
analitica per questa impossibilità: se l’ordinamento riuscisse a dire
la disponibilità oltre il diritto, cioè la giustizia, farebbe ciò sempre
attraverso una norma del diritto; la sua essenza è monadica, ed esso
non può vedere oltre la sua giurisdizione. Il problema è dunque che
il diritto che voglia realizzare una giustizia siffatta dovrà normare e
giuridificare una disponibilità al di là della norma ciò costituendo la
ragione per cui a un diritto ne potrà sempre seguire uno ulteriore,
più comprensivo. Un diritto “giusto” è costitutivamente a venire,
non può porsi come l’ultimo.
La giustizia stessa sarebbe allora messianica perché in essa è sia
compreso il riferimento a una alterità oltre il diritto, oltre ogni procedura di progressiva giuridificazione, solo superando la quale una
decisione è possibile, che il bisogno di effettualità, l’urgenza di interrompere la violenza fatta all’altro entro il diritto. Ciò che eccede il diritto proporzionante e simmetrico nei suoi principi basilari, solo nel
diritto ottiene di volta in volta, in una parzialità costitutiva, endurance
e dicibilità. Sembra che pensare la giustizia significhi pagare il prezzo di collocarsi dove non si garantisce più che il danno ingiusto sia
ripagato e la ferita risarcibile, assumendo il rischio di ciò che eccede
l’economia del sé per disporsi a questa relazione estrema, impossibile
perché un suo elemento si sottrae per definizione alla relazionalità
diretta e si dà solo nella scrittura, e nella giuridificazione, dove non è
più adeguato al suo concetto. Per questo occorre correggere la singolarità cui ci si appella sovente parlando dell’evento, dicendo che è in
630
via di disidiomatizzazione e tracciandosi si colloca in un processo di
demotivazione della traccia, cioè nell’assenza di figurazione naturale,
simbolica o mimetica della traccia con ciò di cui è traccia, il cui presente è un momento finzionale dato che il proprio del campo di scrittura è differire originariamente, violentemente, e contenere l’effrazione ripetendola. Dove rinvenire, pertanto, un luogo privilegiato in
cui l’eteroclito, senza diritto, volto della giustizia possa esser per un
istante fermato nella sua dinamicità e non tradito nella normazione?
Dove manca la determinabilità occorre sopperire con la decisione.
Nel momento, istante sospeso della sua imminenza, una decisione, in cui per Derrida va pensata l’eccedenza rispetto al diritto, non è
giusta perché non è effettuale, non c’è alcuna decisione. Altrettanto
una decisione presa, che ha spartito, reso fenomenico l’incalcolabile,
evidenziando per altri la singolarità del suo percorso. Ma se solo una
decisione, irrimediabile e folle, può avocare a sé la giustizia, l’inevitabile conclusione è che una decisione non è giusta, dal momento
che non c’è il presente della decisione. Essa si sottrae al punto archimedico grazie al quale è pensabile la donazione fenomenologica. La
giustizia è dunque un elemento umbratile, ché esige ciò che, poiché
è impresentabile, le consente costantemente di regredire e rintanarsi
al di qua delle determinazioni prese con la decisione stessa, che resta
un luogo in cui viene necessariamente obliterata la possibilità, e la
«notte del non sapere» viene sottomessa a un principio che nella
migliore delle ipotesi è un principio di equità. Poiché la decisione
è la sospensione del diritto, dell’accreditato a una forma di sapere, e
se quindi solo nei decisivi, istanti anastorici, ci si può appellare alla
giustizia, e viceversa, di questi istanti si deve finalmente sì asserire la
pensabilità, ma non che siano presentabili. Esercitandosi la decisione
in assenza di diritto, alla domanda su come sia rintracciabile il momento in cui l’illiceità di un atto rispetto a un ordinamento giuridico
diventa valida messa in opera di un nuovo ordinamento, in cui una
norma fondamentale cede il passo a un’altra, si deve allora rispondere
che si tratta di un problema non più risolvibile fenomenologicamente, e che se fosse rintracciabile, questo momento non sarebbe già più
nella forma del presente, bensì in quella aperta dall’istituzione della
traccia, o nella traccia delle istituzioni9. La singolarità della decisio631
ne pertanto sarà stata sulla via dell’universale, rimandata a un’impossibile autonomia del soggetto come alla necessità della possibile
sostituzione. Quel momento sospensivo che qualifica la decisione è
inferibile ma non esibibile fenomenicamente se non si esercita e dispone, cioè se non si rende alla possibilità della decostruzione.
La giustizia vorrebbe procedere nella diminutio della sovranità,
nella rinuncia al kràtos. Ma si può pensare che questa disdetta non sia
a sua volta sovranamente decisa, autocratica, che lo spazio per l’altro
non sia in ultima analisi ottriato come le prime costituzioni? Se il
diritto risulta inevitabilmente incapace di un cogente riconoscimento
dell’alterità, può esser opportuno analizzare quella forma statale in cui
sembra poter trovare posto quella pluralità che l’alterità suppone. Risulterà però che la questione non va diversamente, e per quanto il concetto di politica sia a priori pluralizzante, bisognerà pensarvi un fondo
sovrano, che come la decisione patirà una inapparenza essenziale.
Comprendere la messianicità del concetto di democrazia significa
rifarsi a una “esperienza” del segreto, a partire da una considerazione
dello spazio democratico come spazio pubblico. Se per Derrida il
diritto di non risposta non si configura solo giuridicamente, è poiché
in esso viene indicata una resistenza alla giuridificazione, quindi ai
permessi forti che pure essa può allegare al soggetto di diritto come
sue proprie facoltà.
La democrazia rimanda oltre sé stessa, perché nel suo presupposto
di omogeneità denega l’elemento eterogeneo; avocando a sé la responsabilità del soggetto non si accorge che ne rilancia il valore ineffabile,
individuale, poiché proprio per esser autenticamente responsabile,
egli dovrà esser irresponsabile, rifiutare la pubblicità, il compromesso e la comunicabilità delle ragioni. Il soggetto responsabile dovrà
costituirsi come un segreto superficiale, un esser separato dal corpo
sociale pur facendone parte, come oggetto incorporato. È nel rimando
implicito a un essenziale eterogeneo che la democrazia si realizza, ottenendo la responsabilità del soggetto democratico, ma decostituendo e rimandando così il suo concetto cardine, l’omogeneità del corpo
politico, l’ininterrotto allargamento della partecipazione, in cui verranno a insularizzarsi elementi atrocemente estranei. Salvo il fatto
che verso di essi non si potrà, pena l’allentamento della compattezza
632
statuale che sola garantisce i deboli, non indirizzare una politica di
progressiva, inesauribile però, integrazione e fenomenizzazione.
Se il solo concetto della legalità non è sufficiente a garantire la
democraticità, la riflessione deve aprirsi a ciò che implicitamente eccede la legalità stessa, osservando se non si debba da ultima risorsa
riannodarsi al tradizionale concetto di sovranità. Qui la riflessione
derridiana abbandona però l’ambito puramente giuridico, che la vorrebbe come prerogativa di decidere del tumultus, e costruisce attorno
al lemma un esempio illuminante della argomentazione decostruzionista circa il potere. Cosa è una sovranità pura, se non l’oltre assoluto
del tentativo di farsi riconoscere? In Dall’economia ristretta all’economia generale (DERRIDA 1967b, pp. 325-358), la sovranità è mostrata
attraverso la pagina di Bataille, come l’operazione «che trasgredisce
il limite della differenza discorsiva» (DERRIDA 1991b, p. 340). Sono
due i rilievi che la decostruzione indirizza all’eccezionalità sovrana:
il primo, di cui qui sotterraneamente è questione, è il paradigma
dell’ipse che vi si realizzerebbe. La sua incondizionatezza non consente piuttosto di determinarvi una soggettività autenticantesi senza
ricorsi a procedimenti fissili; una traiettoria eteronoma coabiterebbe
con il paradigma autodeterminativo della sovranità (mi sembra si
possa parlare qui di una ascendenza paolina in Derrida, nell’idea carismatica per cui nell’azione sovrana non è più ravvisabile il soggetto
autonomamente agente). Il secondo è che in essa sarebbe pensabile
la spesa senza investimento, la pura perdita, l’afflizione dell’amnesia incurabile della propria genealogia. La sovranità costituirebbe il
coagularsi di un eccesso non più interpretabile come negatività, né
come differenza; non resta per essa che un luogo al di là del senso e
del lavoro interminabile della sua costituzione; ma non si può così
darne determinazione. Una fenomenologia della sovranità è infatti
possibile solo se essa incontrando una resistenza, vincendola ne viene
ritenuta, si manifesta e propaga, la sua tempra venendone frazionata.
Un’economia dovrà amministrare l’aneconomia sovrana, a sua volta
offrendosi alla decostruzione della sua isolabilità e privatezza, per cui
non si potrà asserire che Derrida proponga un quadro concettuale
schiettamente gestionale, del tutto spoliticizzato.
La sovranità, che spartisce con l’evento più di un attributo, dal633
l’anastoricità alla indivisibile puntualità, o inappare o richiede una
apparenza differenziale, e cioè si sarà già tracciata una via nell’indistinto, abolendo quel potersi-esercitare sospensivo, in cui di fatto è
l’indifferenziato. Dandosi a vedere, ordinando intorno a sé una protoforma di ordine, essa non è più “come tale”; e ciò non tanto poiché
nella forma stato democratica c’è un’opportuna moltiplicazione degli
istituti di controllo, una regolata diffrazione e circolazione dei poteri
decisionali, ma perché in modo necessario la sovranità si comunica
vincendo una resistenza, promettendo la propria iterabilità e amministrabilità, allegandosi dunque al suo essersi tracciata. La condizione di possibilità, che eccede e consente lo svolgersi dell’istituzione
democratica costituendo un fondo di principio conflittuale con le
necessarie istanze universalizzatrici della democrazia, infatti «non
si mantiene pura» (DERRIDA 2003b, p. 149). La sua eccezionalità e
silenziosità, al di là del dispiegarsi di un senso, sono già intaccate
e spartite nelle condizioni stesse del suo esercizio, cioè attraverso il
diritto, in cui all’anomia dove è sovrana (su nulla, a ben vedere) si
sostituisce la qualifica delle infrazioni, in cui dichiara i suoi versi.
Stigma dell’istante e metafora di una lacerazione interna del tessuto
temporale, l’assoluta incidenza della sovranità non è se la sua estaticità non si rapporta, per figura, si deve dire, a ciò che interrompe, decidendolo. La delegazione, una certa discorsività, affettano da
principio l’apparenza dell’indivisibile potestà sovrana, che proprio
in quanto si esplica in forme determinate e ricorsive, enuncia il suo
trattenersi, tenersi a freno.
Forme che la testimoniano. In questo senso andrà letta di Fede e Sapere (DERRIDA 1995a, pp. 3-73), la tesi centrale che espone l’immune,
l’indenne, alla possibilità della credenza, non ad esso giustapposta
bensì ivi conflata; un valore credenziale e performativo della singolarità, che solo rende la sovranità effettuale; il suo esserci ed esser
oggetto di discorso, fa sì che la sovranità dovrà aver istituito l’esser
tolto della potenza di non, per farsi sentire nei suoi effetti. Un unico
movimento agglutina le due necessità, quella della purezza singolare
e quella della proliferazione contaminante, come in Mal d’archivio
(DERRIDA 1995b), in cui carsicamente si trama una critica ai principi
di responsabilità e imputazione giuridica:
634
La raccolta su di sé dell’Uno non è mai priva di violenza […] l’uno
si guarda dall’altro. Si protegge contro l’altro, ma nel movimento
di questa gelosa violenza porta con sé in sé, conservandola anche,
l’alterità o la differenza a sé (DERRIDA 1995b, p. 95).
Bisognerà così recuperare, per comprendere la matura riflessione
derridiana sulla sovranità, la metaforica della via rupta, brisure, che si
apre il cammino tracciandosi allo stesso tempo, in cui la singolarità
non si trattiene in nessun primo istante, ma da subito è iterabile in
tracce demotivate ed effetti determinati, i quali per ciò stesso sono
decostruibili, e in cui si osserva un originale sdoppiamento del vertice entro un contesto in cui il presente vivente, come l’orizzontale
condizione della relazionalità, il presente coscienziale, si costituisce a
ritardo rispetto alla scrittura.
Si è perseverata finora un’ambiguità del discorso di cui è opportuno
spiccare due tratti distinti: da un lato l’irrefragabile intrascendibilità
del riferimento, dall’altro la sua imperfezione testimoniale; essi ci
conducono a tematizzare l’ontogenesi dell’incidenza della domanda
sull’oltre delle tracce, individuando la fonte che la ricostituisce oltre
ogni tematizzazione esplicita. La conclusione sarà una sua parziale
risoluzione filogenetica. L’infrazione eccessiva e la dileguante fuga
sono in effetti ancora i risultati di un’intenzionalità che attraverso
regolate metonimie si regala la possibilità di intendere ciò che del
tutto le sfugge. Al termine di Mal d’Archivio, Derrida trattiene un
istante l’archeologo Hanold nel tentativo di cogliere un’impossibile
simultaneità, in cui l’orma di Gradiva10 non è ancora separabile dal
momento dell’impressione che il peso del passo determina, in una
circolarità non discreta ma continua tra toccante e toccato. Il presente stesso dell’impressione si è inabissato: in esso la possibilità archiviante della traccia ha già da sempre lavorato la soglia sottile della
sua istantaneità. L’istante e la sua unicità non sono pensabili che a
ritroso, solo successivamente all’iter della divisibilità testamentaria.
Questa possibilità è immanente, essenziale:
ogni opera sopravvivente conserva la traccia di questa ambiguità.
Conserva la memoria del presente che l’ha istituita ma in questo
635
presente c’era già se non il progetto, almeno la possibilità essenziale
di questa cesura (DERRIDA 1995b, p. 112).
Non è quindi semplicemente entro l’opposizione del presente
all’iscrizione che va accreditato il margine dell’evento. Si tratta di
una differenza già data. È il togliersi della pienezza evenemenziale
che piuttosto la consente. Il riferimento si fa, stringendo, indicativo di un indifferente rispetto al pregiacente orizzonte economicodifferenziale già evocato, dunque a un autoponentesi incompatibile
con la prospettiva intenzionale; ma la locuzione stessa ce lo sottrae
e restituisce non più come era stato inteso: dunque come un tolto nelle concrete spartizioni che decisione e sovranità esercitano per
apparire in modo retrogrado. Però non si potrebbe semplicemente
constatarlo, né si può arrischiare, tagliando corto colla razionalità,
che se ne viene toccati. Forse si tratta qui, prosaicamente, del fatto
che l’individuazione e l’unicità possono esser sentite ma non esaminate concettualmente senza che il loro aver nome le tradisca? Si dovrà
retrocedere e tornare a Derrida.
È caratteristica propria dell’atto di scrittura quella di manifestare
eccedenze inutilizzabili, schegge che accompagnano e scabrosamente
residuano il concetto, ché in esse non è possibile scorgere una formatività più di un impedimento alla costituzione della forma. Nel senza
scopo determinabile di queste baluginazioni, le quali nemmeno in
problema potrebbero venir trasposte, pena la perdita della loro irragionevolezza, c’è la possibilità di una deriva più radicale, quale l’allografia della différance può solo menomamente allocare nello smottamento dello svolgersi del senso attraverso la diacritica della scrittura;
si potrebbe provare a rappresentare qui il punto sorgivo del fremito
che non consente allo svolgimento la continuità pura che richiederebbe, increspandolo e incorporandogli una meccanica di slittamento
entro cui i filosofemi cesserebbero di perseguire il senso, volgendosi
anzi alla sua stessa riduzione nel funzionamento vuoto di significante
voler-dire. È allora l’autobiografia del vivente, questa struttura bifida
che si rivolge contro sé stessa, che rimanda, pur entro il valore testimoniale che asserve, all’evenemenziale come eccedente assoluto?
Eppure la ragione stessa, nevrotica nel suo distendersi, non può
636
ammettere il riferimento come ad essa puramente interno, né estrinseco. Un frattempo fra unità analitica della sua verità e prassi del suo
declinarsi e scriversi. In questa domanda dal retroverso fenomenologico, in cui si interrogano le condizioni di datità, non viene meno la
problematicità intrinseca del riferimento messianico: esaminandolo, dobbiamo toglierlo ovvero considerarlo strutturale; in entrambi
i casi tradiremmo l’impostazione derridiana. Per la quale, sciolta e
ricostituita, la domanda con cui nominiamo l’evento è proprio il divenir traccia iscritta del suo accadimento.
Ma che genere di distanza si dovrebbe guadagnare per non restar muti di fronte a questa fascinazione che il pensiero esercita su
di sé? Si è cercato finora di fissare una situazione in cui la tensione
all’evento non è più un sintomo egosintonico, la crasi si è sciolta e
una breve teoresi consente di affisarlo. La situazione, posta così, è
nuovamente quella di un accadimento. Allora il riferimento, pur accadendo senza causa, non è del tutto estrinseco alla ricorsione. La sua
evenemenzialità assume un tratto peculiare: quello della costanza. Se
fosse semplicemente un rimando interno, compreso analiticamente,
non avrebbe per nulla da farsi indagare. Se fosse altresì semplicemente esteriore, la sua incidenza sarebbe altamente problematica. Bisogna pensare una situazione fluttuante, spuria: pur avvenendo, non è
affatto sciolto, singolare e evenemenziale. Sembra che la sua legge
sia, infine, il divenir reiscrivibile del suo stesso accadimento, l’esser
tracciato di qualcosa che non dovrebbe esserlo. Esso allora, compreso
nella paradossalità della sua enunciazione, equivale al divenire traccia differente e ricontestualizzabile dell’accadimento del pensare e
riferire l’evento attraverso la traccia.
Emerge l’imperiosa necessità di una originale incardatura del riferimento entro le forme di accoglienza, ripetizione e riflessione; ciò
che si pone all’origine non suscettibile di anamnesi, il punto che
eccede la totalità organizzata e le differenze, è anche il vortice in cui
non è sceverabile la pienezza dalla nullità, la cui effrazione-dizione
non è pensabile in maniera pura, senza una tecnica che ne progetti e
consenta, per esempio, l’enforcement, economizzando la sua eccezionalità; ed è attraverso l’economia, a partire dal differre intenzionale che
il vertice è detto e disdetto:
637
Questo voler dire l’iperbole-demoniaca non è un volere tra gli altri;
non è un volere che potrebbe essere occasionalmente ed eventualmente completato dal dire [...] scrive se stesso più che non dica se
stesso, si economizza, l’economia di questa scrittura è un rapporto regolato tra l’eccedente e la totalità ecceduta: la differanza dell’eccesso
assoluto (DERRIDA 1967b, p. 78).
Si può quindi riconoscere come il desiderio dell’evento, la sua attesa messianica, desideri più del desiderabile, e convergendo verso un
nulla di definito, come la richiesta d’amore, si disponga alla differenza infinita quanto all’impossibilità del tutto. Il progetto iperbolico
è allora solo denegabile e costituisce il movimento, assai poco concludente, della decostruzione, che più che intenzionarlo, lo reperisce
come un’asperità, una ruvidezza nella sequenza proposizionale che
enunciando la assoluta singolarità ne costituisce una pragmatica contraddizione, e la lascia non detta. Esaminando questa contraddizione
immanente al processo riflessivo, questa eterologia di passaggio, la
decostruzione scopre la paradossalità di una relazione che se fosse,
non potrebbe costituirsi, sicché i suoi termini piuttosto che costellarsi si abbandonano. Non si dovrà però intendere questo scacco nella
tonalità della nostalgia, della rêverie, o della Sehnsucht. Si appalesa
invece una condizione intrascendibile. Questa resistenza, scabra e indeterminabile, all’interno del nesso che ne consente l’esplicitazione è
pur sempre nel pensiero che, venendo meno, in modo palmare viene
detta. Interpretarne il movimento pertanto in termini intramondani,
come pre-istoria, sciamanesimo, progresso e fondazione dell’individuazione, implica che una metaforicità essenziale si è impadronita
di un plesso concettuale. Eppure scarne sono le alternative. Al grido
inarticolato si è, si deve dire, già sempre sostituito il principio consonantico d’economia. È solo da questa che è dis-dicibile l’aneconomico, vittima della significazione, di una ricezione che, se è conforme a sé stessa, lo depotenzia integrandolo nelle pratiche segniche di
rimando, lasciando in questa inapparenza l’unica sua fenomenologia.
Non potremmo mai raggiungere che per via narrativa l’evenemenzialità stigmatica, oltre la distinzione di energetica oscura e senso.
Questa incompatibilità-intrascendibilità della struttura differenziale
638
rispetto all’evento si potrà allora, assecondando il gioco analogico,
figurarla nella relazione tra la giganteggiante balena, il cui mistero
è un gorgo insondabile, e il destino di chi vuole, questo sovraccarico
indefinito, ossessivamente illuminarlo, nell’indistinzione di «ardore conoscitivo e appropriazione distruttiva»11, incontrando la fine di
Achab, che l’inseguimento conduce ai confini della terra e della civiltà, ove il contatto con la densità del mistero riconduce al di qua
della creazione.
Questa catastrofe non è necessariamente un male. Conduce in effetti, fuor di metafora, a un’epistrofe mutila della Ragione, e per ciò
stesso più attenta alle ragioni molteplici. Quel bordo abissale di radicale impossibilità, ablazione della donazione fenomenologica, che in
esso trova la propria frana, comporta la destituzione delle dinamiche cosali, sostanzialistiche. Bisognerà allora dire del messianico che
la sceverazione dai messianismi è un ufficio interminabile e senza
la concreta sostanza delle rivelazioni, degli istituti sedimentati, la
struttura della promessa/attesa non ne sarebbe depurabile, di fatto
abbisognandoli nel suo slancio oltre di essi. Agiamo nel solco di questa inafferrabilità al pensiero, la quale incide sulle forme finite in cui
organizziamo gli strumenti concettuali con cui incontriamo la marezzata realtà: biopolitica, diritto, corpo sociale, tecnica. Attraverso
l’inapparente che porta in superficie senza scalfirlo, la fenomenologia
derridiana allora si volge alla geografia degli enti senza possedere una
posizione fallica o sovrana che potrebbe eccettuarsi dalla possibilità
del venir revocata.
Si comprende così come da un lato non si può affermare il nulla
cui rimandano da ultimo le tracce, la sua inapparenza assoluta, il
ritrarsi costante dalla fenomenicità, senza che questo esser segreto
non faccia già mostra di sé colla sua enigmaticità senza spessore, né
tantomeno si può coerentemente enunciarlo in una definizione, poiché esso rappresenta attraverso il messianico esattamente ciò che è
auroralmente indicato come l’oltre di ogni autodeissi testimoniale,
mai dominabile, per lo meno al modo del semplice presente, dal pensiero decostruttivo e dall’esercizio critico su cui esso vuole vigilare.
Poiché l’evento proprio, la completa e non residuale coincidenza del
sé, o la sua forma fenomenica della decisione si trovano, come il pon639
te levatoio benjaminiano, dall’altra parte, esercitano sul pensiero, cui
non resta che frangersi in una gora di scienze speciali12, un’attrazione
entro la quale non si può distinguere se il singolare, nella sua incerta e indeterminabile natura, sia il bramato di un desiderio regressivo e mortifero o si rappresenti in un vitalistico, formativo rilancio;
ma quest’interrogazione è sempre e solo possibile dall’interno di un
orizzonte che per il fatto di esser aperto non può che costituirsi nella
destituzione fatale della evenemenzialità stessa, altrimenti insostenibile puntualità, corrispondente all’obumbramento della capacità di
ricezione. Cedendo, ove non sia già successo, al lessico derridiano, si
potrebbe dire che ne resta un’ombra, entro la cui amorfa densità si
potrebbe tentare solo una definizione che frequenti spettralmente il
concerto del pensiero, annominativa, come possibilità dell’impossibilità della possibilità.
Rimando che sospende, esautora una continuità, interrompendola,
dilacerandola. Non si è implicitato forse un orizzonte, temporale o
spaziale, un ambito altro che l’indiziato dalla traccia verrebbe a svellere? Ma non è questo ancora l’effetto di una messa in prospettiva,
l’estrema propaggine dell’apparente cui la fenomenologia giunge? Il
ritmo messianico, la revoca dell’essere come la renovatio creaturale di
Rom. 5 e I Cor. 15, dovrebbero venir interrogati nel loro statuto. È
possibile che l’altro dalla struttura iterante della traccia, causa solo di
sé stesso e causato da nient’altro che sé stesso, sia dissolutore o creatore? Non gli si sta ascrivendo un principio di finalità autoriale, la performazione di una demondificazione? Non è più semplicemente che
esso equivale al non esserci del mondo nel senso già proposto della sola
irrelatezza? Ma al lessico fin qui usato, in explicit si può solo porre una
domanda. Si può dire, assecondando l’apparenza, che al progredire del
tema corrisponda un inesorabile moto precessivo. Si dovrà intendere
che quanto meno vi è di coscienza/tracce, tanto più vi sarà di evento,
se in questo si vede non più il segno-di, ma il posizionarsi semplice
della giustificazione? Si potrebbe allora convenire con la chiusa che
Kleist appone a Sul Teatro di Marionette, che quanto più si digrada
verso l’incoscienza, ovvero si sale nel regno della riflessione, tanto si fa
intensa e naturale la grazia? Pedissequamente all’autore aggiungo, a
scanso di equivoci, che in effetti delle due solo una è percorribile13.
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In Die schöne Müllerin di W. Müller.
Si potrebbe osservare che la tangenza di questa domanda, l’interrogazione posta
alle archi-fattualità fenomenologiche è già un evento nella sua enigmaticità, con
tutta la densità e l’impenetrabilità che lo caratterizza. E il percorso necessariamente assegnato a ciò che cerca nel momento in cui lo domanda; una domanda
che sopraggiunge ma che non si può ardire di articolare e pensare nella sua pienezza sorgiva, pena il suo dileguare stesso. La presenza stessa del problema, pertanto, e della infondabile domanda succitata, denuncia un punto di tangenza già
sempre avvenuto con un elemento contraddicente ogni autoverifica del pensiero;
punto che questa domanda tonalizza senza tuttavia consentirle un compiuto e
razionale enunciare l’evento; una enunciazione esaustiva dell’evento, infatti, costituirebbe di nuovo lo scioglimento di quella problematicità, lampeggiante e
intrattabile, che si cerca qui di esaminare. Salvo però il suo riprodursi, perniciosa, a ogni giro. Il rimando allotrio nella traccia indica un orizzonte irrimediabilmente regressivo rispetto alle istanze che cercano di intenzionarlo. E allora come
coniugare l’evenemenzialità della domanda e la sua infinita, e probabilmente
solo metaforica, ricorsività? Per questa, ma in generale per tutta la problematica
che qui si solleva, cfr. MASCHIETTI 2004; per la periclitante natura del domandare, cfr. SASSO 1996.
S. Freud, Progetto di una psicologia, in Opere Vol. I, Bollati Boringhieri (1968) rist.
2003, pp. 193-284. Il Progetto è una elaborazione neurologica dello psichico nel
contesto di un quadro fisicalista, i cui paradigmi sono la valutazione quantitativa e le leggi di decorso della carica energetica, più alcune ipotesi operative.
Nel modello del Progetto rappresenta una determinata quantità di energia psichica, libera o quiescente presente nell’apparato psichico.
Ivi, pp. 202-203.
Ivi, p. 260.
Ivi, pp. 261-264.
Viandante su mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer 1818, Amburgo,
Kunsthalle).
La Grundnorm è allora, si deve ribadire non dicendo nulla di nuovo, il luogo di
una doppia lettura, tra l’ipotesi che consente al formalismo giuridico di cominciare disimpegnandosi nei confronti di questo momento inindagabile, e la necessità critica che ne consegna la pensabilità a un diverso ambito; è quell’elemento
non esplicitamente normativo che occorre abbattere se si vuol derogare alla fonte
costituente. Se in effetti fosse una norma, sarebbe per intero soggetta a volizione
giuridica. Il poter cambiare fonte costituente è una prerogativa che può nondimeno esser ancora giuridificata; sono i modi di questa capacità metamorfica e
duttile del diritto che nella Grundnorm vengono validati rispetto ad altri. Per
questo in essa emerge un contorno nebuloso: per operare talune trasformazioni
occorre andare oltre la perfettibilità normata, verso una perfettibilità esterna,
rimandata alla forza carismatica, non legale, né commerciabile. L’azione politica
641
e la visione profetica, per esempio quella che con chiarezza ci chiama, in Rom. 7,
fratelli oltre la legge, si dividono forse solo nella ricaduta che la prima, pena l’ineffettualità, impone in un diritto, il quale la seconda relativizza avendo stimato e
preconizzato l’indigenza cui è invariabilmente sottoposto.
10
S. Freud, in Opere Vol. I, Bollati Boringhieri (1968) rist. 2003, pp. 193-284.
11
C. Pavese, Hermann Melville, in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi,
Torino 1951, pp. 77-101; una lettura diversa, ma del pari suggestiva E. Paci, Il
mito di Moby Dick e altri saggi americani, E. Riuniti, Roma 1988.
12
Il pensiero nel suo risalimento si scontra e frange in una molteplicità di prese;
il porsi indifferibile del contingente accetta solo legalizzazioni e tematizzazioni
parziali, si sfaccetta in studi sociali, antropologici, economici, etc.; non accade
diversamente nella rivoluzione storiografica operata da M. Bloch e L. Fèbvre con
Les Annales, la cui influenza sul pensiero di Derrida mi sembra resti da misurare;
in particolare si potrebbe rinvenire ne I re taumaturghi di Bloch un momento
ispiratore dell’intreccio della forma di contatto credenziale con la solitudine decisionale sovrana.
13
Ci conquista a chiosare così anche il Serenus Zeitblom di Doktor Faustus, Th. Mann,
Mondadori, Milano 1996, p. 355.
TRASCENDENZA
di Draga Rocchi
1. La tunica di Nesso
All’origine stessa del pensare fenomenologico è posta la questione
della trascendenza, quale problema inaggirabile per la stessa possibilità che si dia, in generale, conoscenza di qualcosa. È come se, sul
modo precipuo di intendere questo concetto, trovasse il proprio fondamento la possibilità stessa di pensare le cose e, insieme, prendesse
corpo la messa in discussione del conoscere tradizionale, colpito al
cuore nella certezza delle sue capacità teoretiche più proprie, ovvero nella fiducia – accordata da sempre al pensiero – del possesso di
una certa strumentazione efficace alla presa della realtà esterna, il cui
tratto determinante peraltro risulta essere – così vuole la tradizione
– quello di rendersi sfuggente in maniera essenziale.
Nei termini di questo netto distinguo tra chi conosce e ciò che
deve essere conosciuto, è possibile conferire al concetto di trascendenza due diverse accezioni, peraltro strettamente legate fra loro: un
valore passivo, in base al quale intendere, con essa, qualcosa che sta oltre, ossia l’essere al di là di ogni possibile esperienza (nella storia della
filosofia, il caso forse più emblematico di questo tipo di trascendenza
intesa in senso passivo può essere considerato il sole platonico, defini642
643
to appunto come epekeina tes ousias, ossia come ciò che si trova «al di là
della sostanza») (Rep. VI, 509 b); oppure è possibile dare all’idea di
trascendenza un senso attivo e alludere perciò, con essa, a un oltrepassamento: più in particolare a quell’atto, messo in gioco dal processo
conoscitivo, di fuoriuscita da parte della coscienza da se stessa, funzionale al risanamento della frattura costituitasi dalla distanza esistente tra il soggetto che conosce e la cosa che si vuole apprendere. In
quest’ultimo senso, la trascendenza sarebbe dunque l’atto di stabilire
un rapporto tra due termini la cui piena identificazione e unificazione
risultano compromesse fin dall’inizio, e sembrano così da escludere in
partenza. A questa ferita mai chiusa il conoscere, interrogandosi sulla
trascendenza, cerca da sempre di conferire sollievo.
Alla luce di queste prime considerazioni, un punto allora appare
decisivo: come si muove la fenomenologia, nelle sue pretese di radicale innovatività, rispetto a questa idea di una duplice articolazione
della trascendenza che il pensiero tradizionale le ha consegnato in
eredità? Fin dai suoi esordi, la fenomenologia, con Husserl, sembra aver accolto il dono avvelenato della trascendenza, offerto dalla
tradizione filosofica, e appare aver indossato questa tunica di Nesso,
contro la cui violenza, nessun farmaco è dato conoscere. La fenomenologia, così, ai suoi inizi, seppure per confutarla, si vede costretta
ad ingaggiare una dura lotta con la definizione della trascendenza
che il conoscere tradizionale le ha lasciato tra le mani. In particolare è sul secondo senso – quello attivo – già dato al concetto, che il
lavoro di scavo husserliano, portato avanti a seguito della riduzione
fenomenologica, sembra appuntare la propria attenzione, nell’intento di pervenire a un’idea più originaria di quel movimento di oltrepassamento, compiuto dalla coscienza verso l’oggetto, che il termine
trascendenza sembra così patentemente chiamare in causa. Ed è sempre sul problema, evocato da questo «passare oltre», che ha lavorato
anche Heidegger nel tentativo di dar voce prima al vivere effettivo e
poi al modo di relazionarsi del Dasein con il suo mondo. A riunificare, in maniera del tutto originale, le analisi husserliane sulla trascendenza e le riflessioni heideggeriane in merito all’essere-nel-mondo e,
più in particolare, alla natura costitutivamente instabile del vivere
effettivo, sembra aver contribuito, in maniera decisiva, proprio per
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la questione della trascendenza, il pensiero di Michel Henry e la sua
radicale opera di riquestionamento della fenomenologia dall’interno
delle sue stesse carni avvelenate.
Sulla base di queste osservazioni preliminari, ho ritenuto di poter articolare la mia introduzione al problema della trascendenza nel
modo seguente.
Una prima parte, dedicata a Husserl, punterà l’attenzione su alcuni passaggi contenuti nelle lezioni del 1907, intitolate L’idea della fenomenologia (HUSSERL 1950b)1 e nel primo volume (1913) delle
Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (HUSSERL
1950c).
Le analisi di Husserl verranno poi integrate con alcune osservazioni di Michel Henry, tratte in particolare del suo lavoro del 1990,
Fenomenologia materiale (HENRY 1990).
Una terza parte, dedicata a Heidegger, prende in esame il problema della trascendenza alla luce di due testi: le Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele del 1921-1922 (HEIDEGGER 1985b) e Dell’Essenza del fondamento del 1929 (HEIDEGGER 1976a). Ho integrato queste
analisi con le riflessioni, fondamentali per il tema della trascendenza,
dedicate da Henry al concetto di “vita” nel suo lavoro intitolato: Vedere l’invisibile (HENRY 1988).
2. Conoscere la trascendenza: Husserl
Il punto di partenza della fenomenologia è l’immanenza della cogitatio. L’intera sfera della conoscenza è un fatto immanente in se
stesso. Qualsiasi contenuto del conoscere è sempre immanente al
conoscere stesso che può anche essere indagato mediante una riflessione, intesa come un atto di secondo grado. Husserl distingue due
accezioni del termine «trascendenza»:
1. La prima è quella che riguarda il vissuto intenzionale. La coscienza è sempre intenzionalità, «coscienza di…», è tesa verso qualcosa. In questo senso la cosa intenzionata è trascendente, poiché non
è materialmente compresa nella coscienza: se percepisco la porta non
ho la porta dentro la mia testa!
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2. La seconda è una forma di trascendenza più difficile da capire.
Con essa si allude a ciò che non è direttamente dato in un vissuto, in
assoluta chiarezza ed evidenza e, tuttavia, viene assunto come se fosse
dato. In questo senso l’essere della cosa è trascendente, ossia è più o
meno adombrato dalle apparizioni della cosa stessa alla coscienza:
percepisco chiaramente il piano del tavolo e suppongo le sue gambe.
In questo modo trascendo il contenuto effettivo diretto della mia
percezione attuale.
Il secondo tipo di trascendenza non è un enigma. Essa, non essendo di tipo materiale, è presente entro il vissuto di coscienza ed
è costitutiva della conoscenza intenzionale stessa. Dunque, secondo
Husserl, la prima forma di trascendenza va sospesa, la seconda no.
Infatti prendere in esame la prima equivarrebbe a compiere una metabasis eis allo ghenos, un passaggio a un altro genere, cioè un errore
logico. In questo caso, ad esempio, percependo una casa, tenderemmo a non prestare attenzione all’atto percettivo e a badare piuttosto
solo a quella «cosa di altro genere» che sarebbe la casa in sé e per sé,
esistente fuori dal conoscere. Nell’indagine fenomenologica, invece,
la credenza nella realtà in sé, chiamata in causa dal primo tipo di
trascendenza, è proprio ciò che deve venir sospeso e dotato di un
indice di neutralizzazione, dal momento che il terreno privilegiato
dell’analisi fenomenologica è proprio la coscienza quale residuo trascendentale dell’epochè esercitata su ogni presunta esistenza reale.
Ora, non è che la coscienza, così ottenuta, sia una realtà contrapposta
alla realtà del mondo, secondo la dicotomia, già cartesiana, tra una res
cogitans e una res extensa, come se dal dubbio fosse possibile pervenire
alla certezza ontologica dell’essere del soggetto pensante, ricavando
così, al pari di Cartesio, dall’immanenza del dubbio la certezza di una
trascendenza: quella dell’essere della coscienza. Non bisogna, infatti,
scambiare l’evidenza fenomenologica della cogitatio con una presunta
realtà data a una psyche: la coscienza è, per Husserl, l’intera sfera dei
fenomeni di conoscenza, cioè dei fenomeni del mondo ridotto a fenomeno di conoscenza. Così, per Husserl, è possibile distinguere tra
percezione psicologica e appercezione fenomenologica. La percezione
nomina un qualsiasi contenuto di coscienza vissuto in relazione al
mondo, ad esempio la percezione della casa che mi sta di fronte. Si
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tratta di un atto diretto, compiuto dalla coscienza, volto all’acquisizione conoscitiva di un oggetto esterno. Tale esteriorità chiama in
causa una trascendenza di tipo materiale o una pseudotrascendenza.
Con la percezione si ha a che fare con un vissuto psichico che procura, al pari delle cogitationes cartesiane, degli oggetti come «datità»
(Gegebenheit). Alla percezione, quale atto conoscitivo, si accompagna
sempre la possibilità di procedere a una dimostrazione teoretica, a
una de-mostratio, cioè a una possibilità di mostrare qualcosa a partire
da altro. Nella percezione è presupposto un movimento di «adeguazione», una corrispondenza tra interno ed esterno in grado di annullare la trascendenza. In questo senso è possibile considerare come
«assoluto» tutto ciò che risulta adeguato alla coscienza.
L’«appercezione» fenomenologica, o «puro guardare», investe invece gli stessi contenuti di coscienza, ma in quanto resi oggetto di
un’attenzione riflessiva. Con essa è in gioco perciò un atto riflesso
o indiretto, nella forma di un’azione compiuta dall’autocoscienza.
L’appercezione chiama in causa una forma diversa di trascendenza,
una trascendenza indiretta. Più che del vissuto di una psyche, per
essa potremmo parlare di un fenomeno puro, in quanto mediante
l’appercezione, si ha a che fare con «autodatità» (Selbstgegebenheit), o
datità assolute, cioè sciolte da ogni riferimento a una presunta realtà esterna. Infatti, nel caso dell’appercezione, viene a mancare ed è
ridotto a zero un “fuori” vero e proprio. Il tipo di sguardo, messo
in gioco da questo atto riflesso, ha il carattere dell’indimostrabilità.
Al livello dell’appercezione, l’aggettivo «assoluto», lontano dal voler significare «adeguato», come era invece per le cogitationes cartesiane, prende l’accezione di «evidente» alla coscienza. Ecco dunque
come la fenomenologia abbandona l’ambito dell’analisi della psyche
e se ne distacca. Ad ogni vissuto psichico, infatti, corrisponde, sulla
strada della riduzione fenomenologica, un fenomeno puro, una datità assoluta. Non si tratta, allora, di dimostrare nulla. «Intuitio sine
comprehensione», ovvero, «intelletto meno che si può e intuizione più
pura che si può» (HUSSERL 1950b, p. 103)2. Tutta l’abilità sta puramente in questo: lasciare la parola all’occhio che guarda e neutralizzare l’intenzionare trascendente (nel primo senso) intrecciato a quel
guardare. L’esempio che Husserl stesso utilizza, al fine di chiarire
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questo importante distinguo, è quello offerto dal caso dell’intuizione
del colore rosso.
Immaginiamo che io abbia un’intuizione particolare di rosso: mi
attengo alla pura immanenza e provvedo poi alla riduzione, tagliando via ciò che il rosso accidentalmente porta con sé, ad esempio la
copertina rossa del mio libro, quale elemento trascendente da sospendere in quanto esterno alla mia coscienza. Entro il puro guardare, si costituisce il senso del pensiero «rosso in generale», ossia di
quell’essenza, rilevabile, ogni volta, in questo o quel caso di rosso:
ora l’intenzionato non è più l’individualità, ma il rosso in generale. Il
fenomeno, nella sua singolarità, appare come l’occasione del manifestarsi dell’universale stesso. Con questo esempio, Husserl fornisce il
caso dell’incontro con un dato originario: l’essenza del rosso.
Attraverso la riduzione, la fenomenologia mette in atto la neutralizzazione dell’atteggiamento naturale3, su cui anche la psicologia,
come scienza della psyche, trova il proprio fondamento e, distaccandosi da esso, compie un’opera di messa in parentesi del mondo. In
questo modo, la fenomenologia sospende ogni presunta realtà in sé
che trascenda la coscienza: è importante capire che questo «sospendere» non significa annullare ogni realtà o cancellarne l’esistenza, quanto piuttosto, porla in parentesi. Husserl parla di «negazione del
mondo» (Weltvernichtung), ma ciò che viene negato o soppresso, attraverso l’epoché fenomenologica, è la tesi «naturale» e ingenua dell’esistenza o della realtà in sé del mondo, indipendentemente dagli atti
intenzionali del conoscere. Mediante la riduzione, infatti, il mondo
non è annientato ma, preservato come fenomeno di coscienza. Così la
fenomenologia non accoglie l’esistenza di un oggetto mondano, ma
l’oggetto che appare, l’oggetto vissuto. Il vissuto di coscienza non è
l’oggetto4: con la riduzione fenomenologica, Husserl attacca alla radice il problema della trascendenza. È come se, anche per la fenomenologia, erede del resto – l’abbiamo detto – del dono avvelenato della tradizione, sorgesse un’inaggirabile problema «del fuori» capace
di mettere a repentaglio la stessa possibilità che si dia conoscenza di
qualcosa. Eppure, in questo senso, in Husserl, il problema della trascendenza sembra risuonare come estremamente artificioso. Infatti,
nell’accezione per cui essa viene intesa come il titolo per tutto ciò che
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è esterno alla coscienza (il primo senso che avevamo distinto), la trascendenza risulta essere un problema che funziona solo al negativo,
ovvero che, per contrasto, invece di ostacolarci, ci aiuta a capire il
terreno originario conquistato dalla radicalità del gesto fenomenologico di sospensione del reale. Dopo l’epoché, infatti, con la realtà si
ha a che fare solo in quanto essa è divenuta realtà intesa, intuita e
pensata concettualmente5. È proprio il problema della trascendenza,
dunque, a catalizzare su di sé la questione della riduzione fenomenologica, quale tentativo di messa fuori gioco del conoscere tradizionale, ed a permettere una migliore definizione dell’atteggiamento fenomenologico rispetto a quell’atteggiamento «naturale» di cui la scienza, in tutte le sue possibili specificazioni, non sembra essere altro che
un raffinato prolungamento. È così allora che è possibile dire che se
l’atteggiamento naturale si fonda sulla domanda che chiede come sia
il mondo, invece, l’atteggiamento fenomenologico se ne distingue
radicalmente, ponendo la questione di come sia dato il mondo. In
questo senso, Husserl può dire che l’atteggiamento fenomenologico
sia «trascendentale», cioè fondato su una riflessione di secondo grado
o riflessione «costitutiva», tale da porre in questione le condizioni
dell’esperienza stessa del mondo, la cui possibilità è invece del tutto
ovvia per il pensiero naturale. Sospendere tutto ciò significa dotare di
un indice di questionabilità il mondo intero e non fondarsi su nulla
di esterno come se fosse già dato. Non si tratta però di pervenire,
cartesianamente, alla certezza assoluta e sostanziale, ovvero alla realtà
(substantia) indubitabile del cogito, quanto piuttosto di rendere oggetto di una riflessione osservante i modi del conoscere stesso, ossia il
modo in cui si intenziona qualcosa in ogni atto conoscitivo, e di accogliere, quindi, nello sguardo riflettente, ogni modalità dei nostri
vissuti e di porseli di fronte così come sono, in quanto datità assolute
del conoscere nella purezza del loro apparire. Husserl chiama Erlebnis
ogni fatto di coscienza, ossia uno qualsiasi dei contenuti del cogito ed
inserisce ogni Erlebnis all’interno del flusso di coscienza, rispetto al
quale lo sguardo riflessivo può riuscire ad afferrare intuitivamente il
loro contenuto essenziale. Ecco, così, che con questa idea di flusso di
coscienza, ci portiamo più vicini alla seconda accezione del termine
«trascendenza»: quell’accezione più sottile che con efficacia Husserl
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delinea in Idee I, dopo aver neutralizzato il mondo e la soggettività
empirica inerente a esso, e avere così ottenuto il residuo dell’io puro
come «una specie singolarissima di trascendenza – non costituita –, una
trascendenza nell’immanenza» (HUSSERL, 1950c, par. 57, p. 144). Questa trascendenza non va sospesa, anzi, per costituzione, con essa, la
fenomenologia non può non avere a che fare, se è vero che, a riduzione avvenuta, non è più possibile eludere il maelstrom nel quale il pensiero precipita. Con questa immagine, Husserl vuole avvertirci del
fatto che il terreno conquistato mediante l’epoché, pur possedendo
un carattere di evidenza assoluta, cioè sciolta da ogni riferimento a
una presunta realtà esterna, non deve affatto essere inteso come un
possesso stabile di qualcosa di staticamente dato. La sicurezza del
residuo fenomenologico, ottenuto con la riduzione, non va confusa
con la fissità di una sostanza inerte, attribuibile a tale residuo. La
coscienza ridotta, infatti, non è un sacco o una scatola che raccoglie le
datità come se fossero oggetti. Le datità non stanno affatto ferme.
Costituendosi nella coscienza, le datità immanenti non sono semplicemente in essa, ma si presentano, di volta in volta, in qualcosa come
delle «apparenze» che non sono esse stesse oggetti, né li contengono
materialmente. Le apparenze, o cogitationes, non contengono materialmente e non sono le oggettualità essenziali, tuttavia è proprio la
continua trama mutevole, accidentale e temporale delle apparenze a
costituire gli «oggetti» per l’io. Il che significa che ogni oggetto
universale si costituisce entro i processi temporali che sono però vissuti individuali, via via fluenti. Se ad esempio guardo la facciata di
una casa, posso osservare i suoi fenomeni, le sue apparizioni, dal tetto
al piano basso. In questo modo ho un flusso di vissuti la cui sintesi mi
procura l’oggetto «facciata di una casa». Tale oggetto è un’essenza,
un «senso» complessivo che può costituirsi solo attraverso la temporalità di vissuti di coscienza e che, tuttavia, non è contenuto materialmente in alcuno di essi. È qui che entra in gioco il secondo tipo
di trascendenza, la cosiddetta «trascendenza immanente». Il problema, infatti, a riduzione avvenuta, non può più essere quello di una
realtà esterna esistente in sé ed inconoscibile. Conquistato il terreno
immanente dell’io puro, in quale misura è ancora possibile chiamare
in causa la trascendenza? L’esempio appena riportato chiarisce che
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ogni oggetto per l’io si costituisce attraverso una serie di vissuti, la
cui sintesi possibile soltanto dà l’oggetto nella sua pienezza essenziale,
la quale perciò non è mai contenuta materialmente in alcun vissuto,
ma è più o meno “adombrata” (il concetto di «adombramento», Abschattung è qui fondamentale)6 dalle apparizioni della cosa stessa alla
coscienza e, dunque, risulta sempre essere “trascendente” rispetto ad
ogni singolo vissuto che la costituisce. In questo modo la conoscenza,
ovvero gli atti intenzionali della coscienza concorrono a determinare
il «senso» delle datità, collegandosi tra loro e rinforzandosi secondo
finalità – Husserl parla di «solidarietà teleologiche» – volte a costituire oggettualità sempre più articolate. Da questa unità di senso
complessiva di molteplici atti di conoscenza nasce finalmente l’oggetto, come oggetto costituito dalla coscienza7. Allora, poiché ogni
atto di coscienza è sempre coscienza di qualcosa, ossia coscienza intenzionale che intende altro oltre sé, la trascendenza diviene un carattere essenziale immanente alla coscienza stessa e pervade così ogni
vissuto8. In questa seconda accezione, la trascendenza allude a ciò che
non è direttamente dato in un vissuto, in assoluta chiarezza ed evidenza e, tuttavia, viene assunto come se fosse dato. Ad esempio alla
percezione è dato, ora, il piano di questo tavolo, ma non le sue gambe. Ricordandole e supponendo che esse ci siano, io le considero come
qualcosa di certo, anche se esse trascendono il contenuto effettivo,
diretto e chiaro della mia percezione attuale, del mio Erlebnis. Questo
tipo di trascendenza, interna al vissuto di coscienza, non solo non è
enigmatica, ma è costitutiva di ogni vissuto o conoscenza intenzionale. Tale carattere trascendente, purificato dall’epoché, rimane come
un tratto distintivo dei fenomeni di coscienza. In quanto immanente
al fenomeno stesso, la trascendenza può essere intesa come il senso o
«portato» intenzionale di ogni Erlebnis. L’errore fatale, compiuto
dunque dalla filosofia, che invece la riduzione fenomenologica vorrebbe aggirare, consiste nell’aver confuso queste due diverse nozioni
di trascendenza e, associandole, nell’aver trattato ogni trascendenza
come un enigma. Così facendo, però, si è presupposto che ogni trascendenza non possa essere altro che reale. Vorrei qui chiarire il significato fondamentale dell’aggettivo «materiale», in opposizione a
quello di «reale», che Husserl associa spesso sia all’immanenza che
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alla trascendenza. Si è detto, parlando del secondo tipo di trascendenza, che nel vissuto intenzionale della coscienza non può trovarsi materialmente la cosa intenzionata. Qui l’aggettivo «materiale» traduce
il termine tedesco reell, con il quale Husserl intende la realtà dei vissuti della coscienza. Per indicare invece la realtà degli oggetti della
coscienza «naturale», egli utilizza i termini real e Realität, intendendo con essi alludere alla realtà positiva presunta e studiata dalle scienze obiettive. Ora, se su questo reale, come real, si deve esercitare
l’epoché fenomenologica, invece sul reell, come realtà dei vissuti di
coscienza, si deve indagare a fondo9. È, infatti, a questa «realtà» di
secondo grado, ottenuta mediante la riduzione, che appartiene, in
senso proprio, il secondo tipo di trascendenza venuto in luce: una
trascendenza non enigmatica, indiretta e, paradossalmente, immanente. Viene meno, così, la semplice considerazione, tipica dell’atteggiamento «naturale» e propria di quello che Husserl chiama il
modo di fare del «principiante», il quale si esprime così: «l’immanente è in me e il trascendente è fuori di me» (HUSSERL 1950b, p.
131). Contro questa ingenuità opera il metodo fenomenologico affinché tutto ciò che è esterno alla coscienza sia ridotto e tutto ciò che è
fuori del vissuto intenzionale sia invece accolto e studiato come costitutivo del modo d’essere stesso della coscienza fenomenologica, sempre paradossalmente immanente nel suo trascendere conoscitivo.
3. Sentire la trascendenza: Henry
La duplice accezione del termine «trascendenza», così come è
venuta delineandosi nelle analisi husserliane, è radicalmente rimessa in questione nella «fenomenologia materiale» di Michel Henry.
Non basta, secondo Henry, mirare, come vuole la fenomenologia,
alla fenomenalità pura, ma occorre interrogare la stoffa e la materia
fenomenologica di cui essa è fatta. Proprio da un evidente attacco
all’idea di trascendenza, ancora forse troppo colpevolmente presente
nel pensiero di Husserl, Henry può far sorgere un nuovo compito per
la fenomenologia:
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a essa è dato di scoprire che, prima dell’essere-al-di-fuori, dove tutto è posto a parlare propriamente fuori di sé, dove ogni realtà si
trova a priori svuotata e spossessata di se stessa e così a essere il suo
contrario, un’irrealtà di principio, prima di questa dimissione e di
questa disfatta che si chiama la morte e che per se stessa non sarebbe,
regna una fenomenalità che si edifica in modo così stupefacente che
il pensiero, il quale è sempre il pensiero del mondo, non vi pensa
in effetti mai. Alla struttura interna di questa manifestazione originale non appartiene alcun Di-fuori, alcuno Scarto, alcuna Ek-stasi:
la sua sostanzialità fenomenologica non è la visibilità, nessuna delle
categorie di cui fa uso la filosofia, dai greci in ogni caso, le conviene.
La fenomenologia materiale è capace di designare questa sostanza
fenomenologica invisibile. Questa non è un niente ma un affetto o,
per dir meglio, ciò che rende possibile ogni affetto, in ultimo ogni
affezione, e così ogni cosa. La sostanza fenomenologica vista dalla fenomenologia materiale è l’immediatezza (immédiation) patetica nella
quale la vita fa prova di sé (HENRY 1990, p. 62).
Con questa sorta di manifesto programmatico, Henry colpisce al
cuore la questione della trascendenza, associandola − per il modo
in cui è ancora intesa anche da Husserl − a un’irrealtà di principio,
a un fenomeno derivato e non originario, alla morte del pensiero
stesso, maturata dall’interno di quella che è possibile ritenere come
l’esigenza più propria della filosofia, dalle sue origini greche fino alla
stessa fenomenologia husserliana: un bisogno ineliminabile di visibilità. La ricerca spasmodica, secondo un modello teoretico e, quindi,
tutto improntato su un sapere come visione di ciò che è «Di-fuori»,
che trascende e che, stando di fronte, produce uno «scarto» rispetto
al pensiero, ha condizionato da sempre il conoscere filosofico, avvelenando così, ai suoi albori, anche le radici innovative della stessa fenomenologia. La non originarietà di questa trascendenza, colta
come derivata rispetto all’immediatezza patetica della vita, una volta
riconosciuta come vuota e spossessante, apre alla fenomenologia il
regno di stupefacenti fenomenalità, intrascendibili nella loro immediata invisibilità. È su tali fenomenalità, sottratte per principio a
ogni potere di visibilizzazione, che la fenomenologia dell’invisibile
impianta le proprie radici, nella speranza di un nuovo cominciamen653
to. La fenomenologia materiale ha per tema tutto ciò che il pensiero
greco non illumina della sua lucentezza estatica. Ecco così che ogni
approccio di tipo intenzionale, scaturito dal gesto della riduzione e
mirante all’evidenza di un «vedere puro», non ha alcuna presa sul
carattere «inestatico» (inextatique) della vita. Trovarsi di fronte ad
uno sguardo ed essere immersi nel pathos della vita costituisce una
dicotomia. Pensato a partire dall’estasi, il movimento della vita diviene quello di uno sguardo. Pervertita come coscienza intenzionale e
come pensiero oggettivo, la vita, perdendo il potere di accrescimento
del proprio pathos, mira piuttosto a piegare il flusso di immagini
che, colando dall’avvenire al passato, la compone, nel tentativo di
dominare la sua stessa esistenza, ridotta però, dallo sguardo intenzionale, ad un gioco controllabile di rappresentazioni. Ecco, allora, la
critica radicale di Henry al pensiero husserliano, responsabile, nella
sua identificazione della vita con la cogitatio, della ricreazione di una
trascendenza ineludibile:
lo spostamento della cogitatio, il suo venire sotto lo sguardo del pensiero, lungi dal poterne fare una datità assoluta, la fa svanire. […] lo
sguardo la de-realizza. […] Chi ha mai visto il suo pensiero, la sua
emozione, la sua passione, la sua angoscia, a meno di confonderle
con ciò che non ne è che l’indice o che si interpreta come tale? (HENRY 1990, p. 112).
Lo sguardo intenzionale perde la vita o, al più, ce ne riconsegna la
vuota effigie, dal momento che esso si fonda su un equivoco fondamentale: identifica l’evidenza della cogitatio, colta dal puro guardare,
con l’essenza di questa stessa cogitatio, ossia confonde il fenomeno
puro, ridotto, con l’essenza originaria della fenomenalità stessa: la
vita. Con la sua voglia di «dare nell’occhio», la fenomenologia perde la vita! A seguito del venir meno della vita nella cogitatio dal
guardare puro, secondo Henry, Husserl compie la «perversione» di
molti concetti della fenomenologia: prima fra tutti, la coppia immanenza/trascendenza, al punto che la prima viene a significare il suo
contrario:
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poiché nella trascendenza del guardare, lo abbiamo mostrato, la cogitatio non è appunto mai presente “in persona”, nella sua realtà;
una tale presenza della cogitatio non si effettua che in sé, nella propria immanenza. Per giustificare l’uso del concetto di immanenza
applicato al guardare della cogitatio, cioè alla trascendenza, Husserl
inventa un secondo concetto di trascendenza che si riferisce al caso
in cui la conoscenza, nell’intenzionare o nel porre un oggetto, non lo
guarda direttamente, in cui ciò che è intenzionato dunque non è più
effettivamente contenuto nel guardato. […] La prima trascendenza
è un’uscita fuori dalla realtà della cogitatio. La seconda trascendenza è
un’uscita fuori dal guardato del guardare. […] Il “tutto intero presente al guardare” dell’“immanenza” della prima trascendenza del
vedere che mira alla cogitatio non ha in ogni caso niente in comune
con la presenza della cogitatio nella sua immanenza, che non ha in sé
né orizzonte né mondo, niente che sia suscettibile d’essere visto e di
cambiarsi in un non-visto, o reciprocamente. Esso ne differisce così
completamente che, mentre l’ultima presenza resta una presenza infrangibile e appunto la datità assoluta d’una presenza assoluta, che è
la nostra stessa vita, al contrario, il tutto intero presente al guardare
dell’“immanente” allo sguardo non è, in ciò che concerne la cogitatio,
che un tutt’intero assente (HENRY 1990, pp.120-1).
Henry sostiene che, in questo continuo sdoppiarsi di significato e
sovrapporsi dei termini trascendenza e immanenza, sia rintracciabile il fallimento dell’intenzionare fenomenologico husserliano, volto
ad offrire allo sguardo l’evidenza della cogitatio. O meglio, l’errore
risiederebbe proprio nel voler insistere a identificare tale evidenza
con il fatto stesso della cogitatio: testimoni, o forse più letteralmente, martiri di tale idea sarebbero proprio i concetti di immanenza e
trascendenza, costretti a un significato costantemente oscillante dal
tentativo fallimentare di rendere visibile ciò che per essenza non lo
è. È, infatti, proprio questo tentativo a generare il paradosso per cui
ciò che doveva essere tutto intero guardato e contenuto nel guardare
puro, l’immanente, nel senso rassicurante del tutt’intero là sotto lo
sguardo, diviene, per la costituzione stessa del guardare, proprio il
suo contrario, ossia il trascendente, come presenza debordata della
cogitatio, gettata fuori di sé dallo sguardo della riflessione fenomenologica. Così, in questo rovesciamento, avvenuto a seguito della
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possibilità di considerare la cogitatio stessa come un «dato» offerto
al guardare puro, il senso della riduzione è sovvertito. Invece di essere una riduzione all’immanenza, essa diviene una riduzione alla
trascendenza, ossia a ciò che è là, davanti allo sguardo: non importa
che ad essere così, di fronte, ora sia proprio l’immanenza stessa della
cogitatio. In questo modo la vita, da immanenza originaria è divenuta
trascendenza assoluta e, come guardato del puro intenzionare fenomenologico, è colta nella vista, ma perduta nella sua realtà. È come
se la fenomenologia husserliana avesse sostituito d’istinto a questa
realtà sfuggente della vita, un suo «simulacro» essenziale, il quale, in
quanto dono per uno sguardo, non poteva non possedere il carattere
della trascendenza, essendo la trascendenza proprio il titolo per l’esser-guardato come tale. In realtà, secondo Henry, è solo sullo sfondo
di un’immanenza radicale che questa trascendenza è possibile: infatti
è solo in quanto non-vedere, non riferentesi a se stesso in un vedere,
che il vedere stesso può attuarsi. Questo non-vedere, come origine di
ogni fenomenalità, è la vita stessa nel suo pathos inestatico. Scrive
Henry: «la confusione del movimento immanente della vita con una
pro-iezione estatica dove un tale movimento, strappato dal suo sito
originale, è semplicemente annientato» non fa che
reinscrivere nel vecchio dominio della relazione soggetto/oggetto
– dell’intuizione e del suo riempimento e, più generalmente, dell’analisi noetico-noematica – fenomeni il cui senso decisivo e il potere di questionamento filosofico sono precisamente di costringerci a
uscirne (HENRY 1990, p. 189).
Quanto Henry, nel suo radicale riquestionamento della fenomenologia, e nella sua tematizzazione del problema della trascendenza
e dell’immanenza mediante il concetto di vita ha tenuto presenti le
riflessioni heideggeriane relative all’effettività e all’esser-nel-mondo
del Dasein, facendole dialogare, in maniera originale, con quel territorio inesplorato della cogitatio, conquistato per la prima volta da
Husserl mediante la riduzione fenomenologica?
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4. Essere come trascendenza: Heidegger
Il passo di Henry appena riportato sembra avere una straordinaria affinità con le parole utilizzate da Heidegger per descrivere il
vivere effettivo – in quanto «oggettualità» sui generis – in relazione
al mondo. Nonostante questa affinità (che dovrebbe far pensare a
una lontananza da Husserl), vorrei far notare come, nel brano che mi
appresto a citare, Heidegger utilizzi termini di evidente derivazione
husserliana:
la vita ha in se stessa il riferimento al mondo, “vita” e “mondo”
non sono due oggetti sussistenti ciascuno per sé, come un tavolo e
la sedia che gli sta di fronte e che si relaziona ad esso spazialmente.
La referenzialità è qui invece quella di un riferimento, ovvero una
referenzialità attuata, vissuta, che in quanto vissuta va intenzionata precognitivamente per l’interpretazione ed esplicitata quindi in
quella forma in cui è contenuta e appropriata nella precognizione
(HEIDEGGER 1985b, p. 119).
Il problema della trascendenza è qui in gioco come problema della
possibilità del vivere di riferirsi al mondo. Ma, con il sintagma «referenzialità attuata», Heidegger ci sta avvertendo di far attenzione a
non considerare la vita e il mondo come semplici oggetti contrapposti da mettere in relazione. Infatti, in quanto vissuta, questa referenzialità può essere intenzionata in modo precognitivo, ossia può
essere colta e descritta senza essere ridotta a una relazione obiettiva
tra enti rigidamente distinti. Nessuna azione teoretica può aver presa
sulla vita effettiva se non una «precognizione dell’interpretare» che,
in quanto articolazione determinata del vivere stesso può sviluppare
una comprensione autentica della vita, la cui visione invece risulta
sempre insufficiente a un conoscere obiettivante. Così l’interpretare autentico e le sue categorie, non sono qualcosa di estrinseco che
piomba sul vivere dall’esterno, ma sono la maniera prioritaria in cui
la vita «perviene a se stessa». In questo pervenire a sé della vita, il
problema della trascendenza sembra improvvisamente spostarsi dall’ambito conoscitivo a un ambito esistenziale più vasto, il quale, con
la messa in gioco dell’interpretare come modalità peculiare d’attua657
zione del vivere stesso, sembra in grado di ricomprendere in sé, originariamente, anche la questione, in fondo solo derivata, del conoscere.
In questo modo la conoscenza, intesa come una possibilità propria
della vita, smette di essere, per Heidegger, il terreno privilegiato
dell’incontro col problema della trascendenza, per lasciar spazio ad
un suo più radicale riquestionamento a livello dell’esistenza. Non si
tratta più di conoscere la vita, scelta quale caso emblematico valido
per qualsiasi altra oggettualità che trascendentalmente sfugge alla
coscienza, ma di riuscire ad interpretare il senso del suo trascendente
pervenire a sé. Tra il vivere e l’interpretare non c’è veramente soluzione di continuità: è proprio in questo venir meno di uno scarto netto
che, paradossalmente, va a radicarsi, in Heidegger, la questione della
trascendenza. Nell’interpretazione autentica, il vivere si rapporta al
mondo in base ad un suo «senso di riferimento» (Bezugsinn) fondamentale, che Heidegger individua nel «prendersi-cura» (sorgen).
Con quest’ultima espressione Heidegger vuole alludere, più che al
significato transitivo del termine Verhalten – ossia a quello che indica il «rapportarsi a qualcosa» – al valore intransitivo del termine, traducibile, secondo questa accezione, come «comportamento».
Il «prendersi-cura», infatti, non è il fare esperienza degli oggetti,
ma l’esperire il loro «venire incontro» (begegnen). Il termine «incontro» (Begegnis) indica il modo d’essere fondamentale degli oggetti
all’interno del mondo. Tale modo d’essere non va però separato dal
prendersi-cura, dal momento che gli oggetti mondani esistono solo
nel modo fondamentale del riferimento a essi da parte del vivere.
Ecco dunque che, con l’entrare in gioco, nell’interpretare, del tema
del senso di riferimento della cura, la questione dell’esperire, alla
quale ora evidentemente va ricondotto il problema della trascendenza, perde tutta la sua valenza teoretica e, con essa, la possibilità di
essere ridotta entro la tradizionale dicotomia tra percezione empirica
e pensiero razionale. Infatti l’approccio teoretico non è che un determinato modo di attuarsi del vivere nel prendersi cura: da qui il
valore precognitivo di ogni interpretazione dell’oggettualità. Non
è che gli oggetti esistano come delle nude realtà e che poi, nel caso
dell’esperienza, acquistino un carattere e si rivestano di un senso che
prima non avevano.
658
Il prendersi cura è il senso fondamentale di riferimento della vita.
Il senso di riferimento, che assume in ciascun caso una determinata
forma e un diverso segno, è in se stesso un segnalare ed ha in sé
una consegna che la vita dà a se stessa e di cui fa esperienza: in-segnamento. Senso pieno dell’intenzionalità nell’originario! La disposizione teoretica è sbiadita. Non è un’erronea universalità in quanto
formalizzazione teorica del senso di riferimento ciò che qui va impostato, ma il vero senso di riferimento esistenzial-formale (HEIDEGGER
1985b, p. 130).
Con il riferimento alla vita e il richiamo al «senso pieno» dell’intenzionalità è evidente l’esigenza heideggeriana di radicare in
un terreno più originario la questione della trascendenza, nell’accendersi di una prospettiva esistenziale, sorta proprio dallo sbiadire della disposizione teoretica. Mi sembra significativo il fatto che
questa nuova impostazione venga presentata attraverso l’utilizzo di
una terminologia di evidente matrice husserliana. Heidegger, infatti, pur avendo rifiutato l’approccio tradizionale del conoscere, parla
di «categorie» in grado di interpretare il senso di riferimento della
vita. Delle quattro categorie messe a fuoco, ovvero l’Inclinazione,
la Distanza, la Chiusura e la Facilità, senza dubbio è la prima, l’Inclinazione, a ereditare in maniera diretta il ruolo dell’intenzionalità
husserliana e, con essa, la questione della trascendenza. Il carattere
di senso dell’«Inclinazione» (Neigung) è, infatti, espresso proprio dal
direzionarsi della vita verso un mondo e insieme dalla presa di direzione che la vita stessa acquista in questo suo prendersi cura: nel
rapportarsi a qualcosa, la vita viene ad esperienza. La determinazione
fondamentale della vita prendente-cura è la «motilità» (Bewegtheit).
Inclinando verso il mondo, la vita, in realtà, si muove sempre verso
sé. Muovendosi oltre sé e radicandosi nel suo mondo, la vita non fa
che «rilucere» in tutte le maniere possibili del prendersi cura. L’incontro con il mondo non allude a un relazionarsi con qualcosa che sta
«intorno», quasi che il mondo fosse un contesto ordinato, in senso
obiettivo, di oggetti isolati, riuniti poi da vincoli relazionali imposti
da un soggetto, come se si trattasse della disposizione dei mobili
all’interno di una stanza. La possibilità di cogliere il mondo come
659
orizzonte in grado di permettere l’attività del vivere è legata alla
sua comprensione come determinazione categoriale della vita aventecura. Scrive Heidegger:
la motilità della vita fattizia ha dunque il carattere di una particolare
autosussistenza, un’auto-motilità che ha la sua autenticità proprio nel
fatto che la vita vive fuori-di-sé. La motilità è tale che, come movimento in se stessa, si porta a se stessa; è la motilità della vita fattizia
che costituisce questa vita stessa, ma in modo tale che a produrre il
movimento non è autenticamente (!) la vita fattizia in se stessa, in
quanto vive nel mondo, ma il mondo in quanto è ciò in cui, verso
cui e per cui la vita vive (HEIDEGGER 1985b, p. 160).
Nel suo essere coinvolta col proprio mondo, la vita avente-cura,
andando oltre sé, riluce nell’immanenza di una motilità che la fa maturare nella forma di una trascendenza irrisolvibile: per cui il movimento della vita verso l’altro è sempre – di riflesso – anche un tornare
a sé. Ecco dunque che tramite l’Inclinazione, la categoria husserliana
dell’intenzionalità sembra recuperata da Heidegger come struttura
formale originaria del senso d’essere della vita10. Radicato così nell’esistenza, il movimento verso qualcosa, e cioè il trascendere proprio
della vita avente-cura, perde i tratti oggettuali di un direzionarsi (nel
senso della spazialità) verso un dato esterno, per acquistare una più
originaria valenza effettiva, come determinazione concreta maturata
dal vivere stesso nel suo ineludibile riferirsi al mondo. Ecco un ulteriore riferimento a Husserl:
l’“immediatezza” delle datità del mondo vissuto […] non è né un
inizio né un criterio fondamentale, ma una maturazione all’interno
della vita fattizia; […] l’immediatezza del mondo dato è mediata,
ma questa mediazione non è semplicemente quella del “pensiero” di
fronte alla rappresentazione (HEIDEGGER 1985b, p. 178).
Infatti, in questa prospettiva, secondo Heidegger, resta del tutto in secondo piano, il problema, invece radicale, del senso d’essere
del mondo nel suo legame col vivere quale immediatezza originaria,
evidentemente non coglibile dal pensiero nella forma di una rappre660
sentazione. Attraverso l’ermeneutica del vivere effettivo, Heidegger
scalza il primato conoscitivo accordato da sempre al «rappresentare»
e al tipo di trascendenza che ad esso è associata. Interpretare il vivere non significa rappresentarsi un oggetto nella coscienza. La vita,
infatti, non essendo un’oggettualità statica, inibisce al pensiero la
possibilità di attuarsi come «rappresentare» (vorstellen), ossia letteralmente come un «porre-davanti» a sé qualcosa.
Questo attacco alla «rappresentazione», motivato dall’irrappresentabilità essenziale della vita è, ancora una volta, pienamente colto
e ripreso da Michel Henry nella sua analisi della pittura di Kandinskij in Vedere l’invisibile. Secondo Henry, tale pittura offrirebbe
l’eccezionale attestazione dell’esistenza di una nozione non univoca
dell’essere, in realtà lacerato e attraversato da due dimensioni:
quella del visibile in cui, nella luce del mondo, le cose si danno a noi
e sono da noi vissute come fenomeni esteriori; quella dell’invisibile
in cui, nell’assenza di questo mondo e della sua luce, prima del sorgere di questo orizzonte di esteriorità che mette ogni cosa a distanza
da noi e ce la pro-pone a titolo di ob-jectum (ob-jectum vuol dire:
ciò che è posto davanti), la vita si è già impadronita del suo proprio
essere, stringendosi in quella prova interiore e immediata di sé che
costituisce il suo pathos, che fa sì che essa sia la vita (HENRY 1988,
p. 16).
Nell’interno che rivela la vita non c’è alcuna messa a distanza,
nessuna messa in un mondo, nulla d’esteriore. Nella «notte» di questa soggettività radicale, non c’è né luce né mondo. Dal momento
che la vita si stringe interamente a se stessa senza mai separarsi da
sé e senza porsi davanti a sé, la conoscenza deve essere senza oggetto
e, più che un itinerario trascendente verso la vita, il conoscere deve
essere quel movimento, proprio della vita, attraverso il quale la vita
stessa si accresce e si sperimenta più intensamente: l’arte astratta,
perdendo, come suo fine precipuo, la rappresentazione della realtà
esterna, può essere espressione di tutto ciò e, dunque, può presentarsi come occasionale visione dell’invisibile, ossia di quell’Interno nel
quale originariamente la vita rivela se stessa. Eliminando qualsiasi
mediazione, ottenuta attraverso referenti oggettivi, la pittura fa a
661
meno della rappresentazione e di quel linguaggio e di quel pensiero
che da essa derivano. E così anche l’immaginazione, appartenendo
alla vita, non produce davanti a sé un mondo, ma è l’immanente possibilità del vivere di sperimentare se stesso come un’immediatezza
che mai si separa da sé, che sovrabbonda e alla quale nulla manca. «Il
movimento dell’immaginazione altro non è allora che il movimento
della vita, il suo interno divenire, l’instancabile processo della sua
venuta a sé» (HENRY 1988, p. 144).
In queste parole è contenuto lo scacco di qualsiasi capacità rappresentativa attribuibile al pensiero, e dunque anche il venir meno
di ogni struttura referenziale, quale possibile paradigma conoscitivo
in grado di cogliere quell’immediatezza patetica nella quale la vita
trova il proprio modo d’essere. Se vedere, dunque, originariamente significa essere la vita, il conoscere sarà chiamato a rispettarne la
sacralità, ossia il fatto che la vita «ci attraversa senza che ne siamo
la causa» (HENRY 1988, p. 170), ed a preservare quel puro dispiegamento di forza – la «vibrazione dell’anima» di cui parlava Kandinskij – che costituisce il Fondo della vita come affettività, e cioè
come capacità della vita di provare e sentire se stessa in modo da
coincidere con sé in ogni punto del proprio essere. Allo strabico tentativo del conoscere di far luce contemporaneamente su ogni punto
dell’essenza del vivere, Henry sostituisce, ponendosi così ai limiti
della stessa fenomenologia, un nuovo tipo di sguardo, in grado di
«vedere» in assenza di luce, più che l’appariscenza del vivere, trascendentalmente inteso come fenomeno, la pienezza essenziale della
vita come immanenza originaria del sentire se stessa. È, dunque, alla
forza di questa affettività tutta peculiare che approda il pensiero non
rappresentativo, quale attento custode dell’inesauribile venire a sé
della vita. È come se, con Henry, fossimo pervenuti, da un iniziale
approccio conoscitivo e ontologico del problema della trascendenza,
alla possibilità quasi di «sentire» la trascendenza nell’immediatezza
del pervenire a sé della vita. Ora, con questa sua messa a fuoco di
un’affettività tutta speciale – in quanto originaria – e nettamente diversa dalla sensibilità come facoltà conoscitiva in gioco nel pensiero
tradizionale, Henry chiude veramente con l’approccio conoscitivo e
ontologico alla questione della trascendenza?
662
Sulla inscindibilità di questi tre livelli del problema – identificabili come la questione del conoscere la trascendenza (Husserl),
dell’essere come trascendenza (Heidegger) e del sentire la trascendenza (Henry) –, già Heidegger sembra aver lavorato in Dell’Essenza del fondamento, testo nel quale la trascendenza è esplicitamente
posta a tema, come ambito della questione stessa dell’essenza del
fondamento. La trascendenza è così presentata da Heidegger come
quell’«ambito» all’interno del quale è possibile trattare l’essenza del
fondamento, secondo l’intrecciarsi, nell’interrogare filosofico, di «ciò
che è essenziale» (Wesen) – il fondamento chiamato in causa – con
«ciò che è inessenziale» (Unwesen): la trascendenza, appunto, intesa
come ambito del quale il pensiero non può fare a meno di fornire
l’attestazione. La trascendenza allora, più che essere vista – è qui che
risiede la sua inessenzialità – offre l’ambito, ovvero fa sì che al di
là di una «rappresentazione» indeterminata e generica, l’essenza del
fondamento diventi un problema. Eh già, perché il problema non ci è
dato fin dall’inizio, ma deve diventare tale! Heidegger inizia a determinare la trascendenza con un’osservazione d’ordine terminologico:
trascendenza significa oltrepassamento (Überstieg). È trascendente
(cioè, trascende) ciò che compie l’oltrepassamento, ciò che si mantiene nell’oltrepassare. Si tratta di un evento che è proprio di un
ente. Formalmente si può intendere l’oltrepassamento come una
“relazione” che va “da” qualcosa “a” qualcosa. Appartiene allora all’oltrepassamento ciò verso cui l’oltrepassamento si attua, ossia ciò che
per lo più, in modo inesatto, viene detto il “trascendente”. Infine
c’è in ogni oltrepassamento qualcosa che viene oltrepassato. Questi
momenti sono tutti desunti da quell’accadimento “spaziale” a cui
l’espressione fa innanzitutto pensare (HEIDEGGER 1976a, p. 93).
Per Heidegger questo modo tradizionale di pensare la trascendenza, come l’oltrepassamento di una distanza spaziale ad opera di un
ente che si muove da qualcosa a qualcos’altro, è del tutto inadeguato
e non originario. Nella nuova terminologia heideggeriana il concetto di vita è stato sostituito con quello di Dasein, ovvero di esserci,
proprio con l’intento di rendere manifesto, in modo più evidente, il
663
legame tra l’essere dell’uomo e la trascendenza. Quest’ultima, infatti,
appartiene all’uomo non come un suo possibile modo di comportarsi,
ma come la sua costituzione fondamentale. La trascendenza non è
dunque un attributo accidentale, ma il tratto necessario del Dasein,
del suo modo d’essere peculiare come esistenza. Mentre l’oltrepassamento, nel senso della semplice spazialità, è un comportamento, tra
i tanti possibili, derivato dal carattere originariamente trascendente
dell’esserci.
L’esserci che trascende (un’espressione, questa, già di per sé tautologica) non oltrepassa né una “barriera” posta davanti al soggetto,
in modo da costringerlo a restarvi dapprima dentro (immanenza),
né un “baratro” che lo separa dall’oggetto. D’altra parte neanche gli
oggetti, cioè gli enti oggettivati, costituiscono ciò verso cui l’oltrepassamento ha luogo. Ciò che viene oltrepassato è proprio e solamente
l’ente stesso, e precisamente qualsiasi ente che può essere o venire svelato all’esserci, e quindi anche e proprio quell’ente che “esso stesso” è
in quanto esiste (HEIDEGGER 1976a, p. 94).
Parlare di trascendenza del Dasein è vuota tautologia: il termine
infatti allude già ad un modo d’essere come oltrepassare: non – nel
senso spaziale e derivato – di evitare un ostacolo o superare un fosso,
ma nel senso originario di esistere come pervenire a sé. La trascendenza non costituisce soltanto l’«ipseità» (Selbstheit) del Dasein, ma
anche l’identità di qualunque altro ente che l’esserci «stesso» non
è. Ipseità e identità non sono già date, ma si costituiscono in quell’oltrepassamento mediante il quale il Dasein si rapporta all’ente che
Heidegger chiama «essere-nel-mondo». La trascendenza è l’esserenel-mondo e l’essere-nel-mondo è, come esistenza, la costituzione
essenziale dell’Esserci.
«Colui che oltrepassa e quindi si eleva, deve, in quanto tale, sentirsi situato nell’ente» (HEIDEGGER 1976a, p. 122). Perché vi sia oltrepassamento, ossia rapporto col mondo, l’esserci deve sentirsi già
radicato nel mondo. Solo in quanto si sente tale, è incluso nell’ente
in modo che, ricompreso in esso, viene da esso accordato a se stesso.
Nel sentirsi situato nell’ente e, dunque, nell’essere trascendente per
664
costituzione, il Dasein a tal punto è «coinvolto» nell’ente e pervaso
dal farne parte, da ricevere ogni volta, proprio dall’ente che non è,
l’accordo a se stesso: la propria instabile stabilità, ossia il riflesso di
quel costante pervenire a sé che fa del Dasein un’essenza estatica ed
«eccentrica» per costituzione. Nella trascendenza, come coinvolgimento originario nell’ente, l’esserci trova così il proprio fondamento.
La trascendenza è un «progetto» del mondo tale per cui colui che
progetta è dominato dall’ente che trascende ed è già in accordo con
esso. Con questo essere incluso dell’esserci nell’ente, l’esistenza è già
e sempre trascendenza. Nel mantenersi dell’esserci in mezzo all’ente,
accade la trascendenza. Il sentimento della costante sottrazione di
sé motiva lo slancio in avanti che marchia a fuoco il modo d’essere
del Dasein come un esistere: ossia che fa sì che nel comportarsi in
rapporto all’ente – trascendenza – ne vada sempre del poter essere
dell’esserci stesso.
E così l’uomo, che come trascendenza esistente si slancia in avanti
verso delle possibilità, è un essere della lontananza. Solo attraverso
lontananze originarie che egli si forma nella sua trascendenza rispetto ad ogni ente, cresce in lui la vera vicinanza (HEIDEGGER 1976a,
p. 131).
Non può sfuggire come, in questo testo heideggeriano del 1929,
la triplice articolazione che abbiamo dato al problema della trascendenza, nelle forme del conoscere (Husserl), dell’essere (Heidegger
con Le interpretazioni fenomenologiche di Aristotele) e del sentire (Henry),
riemerga in tutta la forza della sua unità originaria. Se, infatti, per
Heidegger, con la trascendenza chiamiamo in causa il rapporto tra il
Dasein e l’ente per evitare espressioni vuote e per non ricadere nell’interpretazione tradizionale dell’uomo come ente tra gli altri – pur
se dotato di certe capacità in quanto zoon logon echon – dovremo tener
presente che:
1. L’«evidenza» (Offenbarkeit) dell’ente è resa – ontologicamente
– possibile e accordata solo dall’originaria «svelatezza» (Enthülltheit)
dell’essere.
2. Ogni comportamento del Dasein in rapporto all’ente è origina665
riamente possibile solo perché il Dasein, in quanto esistente, è coinvolto nell’ente e già da sempre incluso in esso al modo del «sentirsi
situato» (Befindlichkeit).
3. La verità dell’ente, come evidenza antepredicativa, avente le
sue radici nel «sentirsi situati», non può essere concepita concettualmente, né colta intuitivamente (non concepita perché la si renderebbe un’essenza nominale e statica; non intuita perché, pur preservandola come essenza verbale, la si snaturerebbe nel suo carattere
«inessenziale» (Unwesen), portandola al rango di datità visibile).
È dunque per questo che ogni rappresentazione conoscitiva è destinata a fallire se non è radicata nell’effettività di un «progetto»
(Entwurf) del mondo che va oltre (Überwurf) l’ente rispetto al quale
l’esserci sente di trovarsi già, come trascendente pervenire a sé. Nell’originarietà di questo ambito privilegiato, offerto dalla trascendenza, come modo d’essere del pervenire a sé – e cioè come esistenza
– conoscere, essere e sentire riaffiorano nel loro scambievole appartenersi essenziale.
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In riferimento a questo testo vorrei segnalare il prezioso apparato di note, presente nella edizione italiana curata da Carlo Sini. Tale lavoro critico si è offerto
come importante punto di riferimento per la chiarificazione tentata, in queste
pagine, di alcuni concetti fondamentali della fenomenologia husserliana, legati
al problema della trascendenza.
Poco prima Husserl aveva detto: «All’intelletto non è lecito interferire in questo discorso e contrabbandare i suoi assegni scoperti fra quelli coperti; e il suo
metodo di cambio e conversione che si basa su dei semplici buoni, qui è del
tutto fuori questione». Per «ragione» (Vernunft), qui Husserl intende la conoscenza guardante, nettamente distinta dall’inadeguato «intelletto» (Verstand),
strumento privilegiato delle scienze obiettive.
«Pensiero naturale, nella vita come nella scienza, noncurante delle difficoltà circa
la possibilità della conoscenza – pensiero filosofico, definito dal prendere posizione
sui problemi circa tale possibilità» (HUSSERL 1950b, p. 129).
«Una cosa non può essere data come effettivamente immanente in nessuna possibile percezione e in nessun’altra possibile modalità di coscienza in generale.
Emerge così una differenza fondamentale tra l’essere come vissuto [Erlebnis] e l’essere
come cosa. All’essenza regionale “vissuto” (e specialmente alla particolarizzazione
regionale “cogitatio”) appartiene, per principio, di essere percepibile in una per-
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7
cezione immanente, all’essenza di una cosa spaziale di non esserlo. […] A questa
contrapposizione tra immanenza e trascendenza corrisponde, come è già apparso
dalla nostra esposizione, una differenza di principio nel modo di datità» (HUSSERL
1950c, par. 42, pp. 100-1).
«L’essere immanente è dunque indubitabilmente un essere assoluto nel senso che per principio
nulla “re” indiget ad existendum. D’altra parte, il mondo della res trascendente è
interamente riferito alla coscienza. Ma non a una coscienza concepita logicamente, bensì a
una coscienza attuale. […] Un essere trascendente è dato tramite certe connessioni dell’esperienza. […] la coscienza (il vissuto) e l’essere reale non sono affatto
modi di essere posti sul medesimo piano, che stiano pacificamente l’uno accanto
all’altro e all’occasione “entrino in rapporti” o addirittura “si intreccino” l’uno
con l’altro. A rigore, possono intrecciarsi e formare un intero solo esseri che siano
affini per essenza. […] Quanto al senso, tra coscienza e realtà si spalanca un vero
abisso. […] la coscienza, considerata nella sua “purezza”, deve essere considerata una connessione d’essere chiusa in se stessa, una connessione di assoluto essere, in
cui niente può penetrare e da cui niente può sfuggire; e che non ha alcun fuori spazio-temporale. […] D’altra parte, l’intero mondo spazio-temporale, al quale
l’uomo e l’io umano appartengono come singole realtà subordinate, è secondo il
suo senso un essere meramente intenzionale, quindi tale da avere il senso, meramente
secondario e relativo, di un essere per una coscienza» (HUSSERL 1950c, par. 49,
pp. 121-3).
Cfr. HUSSERL, 1950c, par. 41, pp. 97-9: «È allora evidente che l’intuizione e la
cosa intuita, la percezione e la cosa percepita, si riferiscono per essenza l’una
all’altra, ma per necessità di principio non formano effettivamente [reell] e per essenza un’unità e un legame. […] Per necessità essenziale, una coscienza dell’esperienza
della medesima cosa percepita “onnilateralmente” e che si conferma continuativamente in
se stessa in maniera da formare un’unità, comporta un complesso sistema di molteplici
manifestazioni e adombramenti. […] L’adombramento, sebbene porti lo stesso nome, non
è per principio del medesimo genere di ciò che è adombrato. L’adombramento è un vissuto [Erlebnis]. Ma il vissuto [Erlebnis] è possibile solo come vissuto [Erlebnis]
e non come spazialità. L’adombrato invece è possibile soltanto come spazialità
(è appunto spaziale nella sua essenza) e non come vissuto [Erlebnis]». I diversi
momenti reali della percezione come cogitatio si contrappongono ai momenti del
trascendente cogitatum.
Un caso emblematico di costituzione dell’oggetto percettivo tramite la sintesi,
offerta dall’unione di diversi vissuti di coscienza, è riferito da Merleau-Ponty
nelle sue analisi sul problema della percezione della realtà esterna, compiute a
proposito della pittura di Cézanne (MERLEAU-PONTY 1948). Nel testo Il dubbio
di Cézanne, contenuto in Senso e non senso, emerge con chiarezza come il pittore,
piuttosto che presupporre una realtà già data, si sforzasse di cogliere la realtà di
un oggetto nel suo stato nascente, nel momento del suo stesso apparire, con la
conseguenza di un’opera di rielaborazione del reale lunga e particolareggiata:
«Gli ci volevano cento sedute di lavoro per una natura morta e centocinquanta
667
sedute di posa per un ritratto» (MERLEAU-PONTY 1948, p. 27). In questo lavorio
interminabile, Merleau-Ponty individua, in piena sintonia con l’idea husserliana della coscienza come coscienza intenzionale, il significato più profondo del
processo percettivo. «Il pittore riprende e converte in oggetto visibile ciò che
senza di lui resta rinchiuso nella vita separata da ogni coscienza: la vibrazione
delle apparenze che è la genesi delle cose» (MERLEAU-PONTY 1948, p. 36); «Il
paesaggio, diceva, si pensa in me ed io ne sono la coscienza. Nulla è più lontano
dal naturalismo di questa scienza intuitiva» (MERLEAU-PONTY 1948, p. 36); il
paesaggio doveva “germinare” in Cézanne: «si trattava, dopo aver dimenticato
tutte le scienze, di riafferrare, valendosi di tali scienze, la costituzione del paesaggio come organismo nascente. Occorreva saldare le une alle altre le visioni
di tutti i punti di vista particolari che lo sguardo assumeva, riunire quel che
viene disperso dalla versatilità degli occhi, “congiungere le mani erranti della
natura”» (MERLEAU-PONTY 1948, p. 36). «Il senso di quanto l’artista sta per dire
non c’è in nessun luogo, né nelle cose, che non sono ancora senso, né in lui stesso,
nella sua vita informulata» (MERLEAU-PONTY 1948, p. 38). È come se la pittura
riuscisse ad essere non la rappresentazione, ma l’espressione del comparire e del
coagularsi di un oggetto sotto i nostri occhi: «La cosa vissuta non è ritrovata o
costruita in base ai dati dei sensi, ma si offre di primo acchito come il centro
donde essi s’irradiano. Noi vediamo la profondità, il vellutato, la morbidezza, la
durezza degli oggetti – Cézanne diceva perfino: il loro odore. Se il pittore vuole
esprimere il mondo, bisogna che la disposizione dei colori rechi in sé questo
Tutto indivisibile; altrimenti la sua pittura sarà un’allusione alle cose e non le
offrirà nell’unità imperiosa, nella presenza e nella pienezza insuperabile che è per
noi tutti la definizione del reale. È questo il motivo per cui ogni pennellata deve
soddisfare a un’infinità di condizioni, e per cui Cézanne meditava talvolta per
un’ora prima di darla; essa deve, come dice Bernard, “contenere l’aria, la luce,
l’oggetto, il piano, il carattere, il disegno e lo stile”. L’espressione di quel che
esiste è un compito infinito» (MERLEAU-PONTY 1948, p. 34).
8
Cfr. HUSSERL 1950c (Appendice X), p. 399: «Il termine trascendenza designa
quindi la peculiarità di quelle oggettualità intenzionali che travalicano l’essenza
propria singolare dei puri vissuti [Erlebnisse] e che quindi non possono venir
inserite, con la loro essenza, in questo àmbito».
9
Cfr. HUSSERL 1950b, p. 131: «Sulle prime si è inclini, e lo si dà per ovvio, a interpretare l’immanenza come immanenza materiale (reell) e addirittura, in senso
psicologico, come immanenza positiva (real). […] A una più attenta considerazione, tuttavia, immanenza materiale e immanenza nel senso della datità diretta
che si costituisce nell’evidenza si separano».
10
Cfr. a questo proposito HEIDEGGER 1985b, p. 161: «La cosa che mi ha sempre
turbato: l’intenzionalità è forse caduta dal cielo? Se è un che di ultimo, questo
esser-ultimo in che forma va preso? Non certo assicurandosene in una determinata esperibilità e reperibilità teoretica. Che io debba vivere ed “essere” nella
forma dell’intenzionalità va “spiegato”!».
668
UMANITÀ
di Edoardo Ferrario
Per Minou
1. Prologo
«Egregi Signori dell’Accademia! Mi concedete l’onore di invitarmi a presentare all’Accademia una relazione sulla mia precedente
vita di scimmia». È con queste parole che, in un racconto di Kafka1,
Peter il Rosso inizia la sua conferenza. Subito, però, egli si dichiara
impossibilitato a «ottemperare all’invito». Cinque anni, ci dice, lo
separano dal suo stato di scimpanzé; e, una volta passata la «barriera», dei «ricordi di gioventù» non restano che ombre. Se all’inizio –
così continua Peter – «la via del ritorno era tutta a mia disposizione e
occupava l’intera porta che il cielo forma sopra la terra», con il passar
del tempo e un’«evoluzione condotta a suon di frusta», «l’accesso si
faceva sempre più stretto»:
La tempesta che mi inseguiva soffiando dal passato si placò; oggi è
solo una corrente d’aria che mi rinfresca i talloni; e il buco in lontananza da cui proviene e attraverso il quale io un tempo venni è di669
ventato così piccolo che io [...] dovrei tosarmi la pelliccia dal corpo
per attraversarlo. Detto francamente [...]: il Vostro stato di scimmie,
miei Signori, per quanto Voi abbiate qualcosa del genere alle spalle,
non può essere più lontano di quanto lo sia il mio da me2.
Il discorso del relatore potrebbe concludersi qui. Tutto ciò che Peter può infatti ancora comunicarci della sua avvenuta antropogenesi è
– come per tutti “Noi” – basato su racconti altrui e su quelle risposte
che hanno sostituito le sue reazioni animali. E cioè: come, ancora
prigioniero sulla nave che lo trasportava dalla Costa d’Oro all’Occidente, avesse imparato dai marinai a sputare, a fumare la pipa e a
ubriacarsi come un «bevitore professionale»; come, dopo essersi scolato un’intera bottiglia di grappa, «davanti a un grande pubblico»
avesse gridato: «Salve!», balzando così all’improvviso nella comunità
degli animali razionali. C’è però una cosa che il Rosso desidera vivacemente segnalarci. Costretto e ferito nella sua minuscola gabbia,
egli – come ci dice traducendo e deformando le sue «sensazioni scimmiesche» in parole e facoltà umane – osservava ogni cosa «in tutta
tranquillità»; e un solo pensiero «covato con la pancia» occupava
ormai la sua anima animale: trovare «una via d’uscita». E l’unica via
che gli si presentò per uscire dalla «trappola» fu di penetrare «nel
mondo degli uomini». Sacrificare la scimmia.
2. Dalla ricerca dell’uomo all’antropologia e oltre
Da molto tempo, da parte di coloro che si sono chiamati o sono
stati chiamati filosofi, la filosofia è considerata una ricerca che riguarda l’uomo e le cose che riguardano l’uomo. Da molto tempo,
da quando – come ha scritto Cicerone – Socrate per primo «philosophiam delocavit e coelo et in urbibus conlocavit»3. Fu il motto
dell’oracolo delfico («conosci te stesso») a indurre Socrate a trasferire
la ricerca dell’uomo dalle stanze celesti alle città degli uomini e alle
piazze dei mercati; e a inaugurare così quel tipo di discorso che si è
chiamato “filosofia”. Nel volgere di pochi anni, un allievo della sua
scuola, Diogene il cinico, formulò una sentenza ancora più strana
670
delle domande che il suo maestro straniero (era lo stesso Socrate a definirsi così, per la sua vocazione a fare domande fuori posto) poneva
ai suoi interlocutori. Diogene aveva eletto domicilio nel ventre di
una botte, si considerava «cittadino del mondo» e andava in giro con
addosso i panni di un questuante. «Cerco l’uomo»: fu questa insegna, rivolta come un manifesto al mondo, a renderlo famoso. Alcuni
secoli dopo, Agostino d’Ippona riprese le sfide di Socrate e di Diogene di Sinope, mettendo in atto un’ulteriore, inaudita delocazione:
ricondusse le allegorie e le pubbliche dispute dei maestri greci «in
interiore homine». La sua «quaestio mihi factus sum» (sono divenuto io stesso una domanda, Confessioni, 10, 33) ritrae l’inquietudine
radicale dell’uomo che, a furia di cercarsi, fa di se stesso un punto
interrogativo (e una «malattia», precisa Sant’Agostino), finché non
trova dentro di sé la «verità» o non si trascende in Dio. Con la modernità assistiamo a un ultimo trasloco. La ricerca dell’uomo assume
ora la forma (metalinguistica e perciò metafisica, direbbe Heidegger)
della domanda sull’uomo. La questione: «Che cosa è l’uomo?» apre
le porte al soggettivismo e alla trasformazione della filo-sofia in antropo-logia. Un posto a parte in questa vicenda spetta a Nietzsche.
La traslazione che egli ci annuncia non riguarda più il luogo della
domanda dell’anthropos, ma la posizione o la natura medesima dell’uomo. L’uomo – ci dice – è l’«animale» che non si è ancora «festgestellt»: che non si è ancora posto (stellen) stabilmente (fest), che non si è
ancora accertato, assicurato, stabilito nel suo essere.
A differenza di Sant’Agostino, come Socrate, anche l’asiatico e
antisocratico Zarathustra tenne il suo primo discorso nella piazza del
mercato di una città: la prima che incontrò dopo essere sceso come
Mosè dalla montagna ed essersi stupito che il vecchio santo in cui si
era imbattuto non avesse ancora sentito parlare della morte di Dio.
Anche in quel luogo, nell’attesa delle esibizioni di un funambolo, si
era infatti radunata una gran folla. A cui così parlò Zarathustra:
Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato.
[...] Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna
dolorosa. E questo ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno
o una dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme al671
l’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia4.
«L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al
di sopra dell’abisso»5. Per potersi guardare allo specchio senza doversi vergognare del suo passato-presente, l’uomo della «terra della
sera» dovrà farsi «ponte» e «passaggio»: «tramontare», e così passare
oltre se stesso e il suo altrimenti insuperabile non aversi.
È per questa mancanza che l’uomo, nei panni di Diogene, non la
finisce di cercarsi (rischiando così di perdersi o di andar perduto)? È
per questo che Sant’Agostino diceva di essersi fatto una «terra difficultatis» da rivoltare infaticabilmente giorno dopo giorno (Confessioni 10, 16)? Riprendendo nel par. 9 di Essere e tempo questa metafora
euristica, ritraducendola dal linguaggio improprio (ontico-esistentivo) della confessione letteraria in quello proprio e originario dell’ontologia esistenziale, Heidegger ci fornirà un’indicazione diversa
(sia da Sant’Agostino che da Nietzsche) sul perché dell’instabilità
e dell’inquietudine dell’uomo. Che cosa infatti – fin che è – manca
essenzialmente all’esserci? La fine, la morte. Ed è in essa che egli deve
trovarsi, ritrovarsi e completarsi; stabilendosi in ciò che altrimenti
lo rende irrequieto e insieme distratto, alla ricerca di qualcosa e in
fuga da sé: quella «cura» (Sorge) che lo tiene a sé, e che lui stesso è
da parte a parte. La fine... La fine, non intesa però come quel «perire» (verenden) o crepare proprio degli animali (razionali o meno), ma
come quel «morire» (sterben) che è (il) proprio dell’esserci, di cui solo
egli è «capace». Per aversi nella sua «completezza» (Ganzheit), l’uomo non deve dunque passare-oltre-l’uomo, ma attendersi alla fine,
riempirsi della propria fine – prima che essa lo raggiunga e lo mandi
in rovina. Deve decidere di essere-per-la-sua-fine. Deve «divenire»
mortale.
3. Oltrepassamento della metafisica
C’è un filo che attraversa e lega tra loro queste (e le infinite altre)
metafore e metamorfosi dell’uomo? Si potrebbe rispondere: è l’uomo
672
stesso, no6? Detto questo, resterebbe da chiedersi: «Ma in che cosa
consiste l’umanità dell’uomo?» (HEIDEGGER 1976a, p. 273).
Questa domanda figura nelle prime pagine della Lettera sull’«umanismo», scritta da Martin Heidegger nel 1946 in risposta a un
quesito («Comment redonner un sens au mot “Humanisme”?») postogli
da Jean Beaufret. A questa domanda Heidegger rispondeva: «Essa
riposa nella sua essenza»: asserzione che, nell’apparenza di un truismo, racchiude un progetto ambizioso. Cercare l’umanità dell’uomo
nella sua essenza (senza frugare altrove) non significava per Heidegger inventare qualche nuova maschera dell’uomo o «raccontare storie
naturali e storiche sulla sua costituzione e la sua attività» (HEIDEGGER 1976a, p. 277): ciò che lo farebbe soltanto ricadere all’indietro
in quelle storie. Significava piuttosto (e conseguentemente) «risalire
alle esperienze originarie» che hanno determinato ciò che sta al fondo delle infinite vicende e vicissitudini con cui l’uomo ha cercato
di dire o definire se stesso; e dipanare il filo che le intreccia e fa di
esse un unico «destino». Significava mettersi sulle tracce di un evento accaduto in verità molto tempo prima del sorgere della moderna
antropologia; molto prima che l’humanismus soppiantasse la paideia
greca e si affermasse con questa voce nel mondo latino e poi cristiano.
Significava indicare e osservare il luogo (Erörtern) di un avvenimento
che aveva trasformato la nozione stessa di «essenza»; e perciò anche il
modo di esperire l’essenza «propria» dell’uomo. In che cosa consiste
questa trasformazione che, per Heidegger, coincideva con la nascita
stessa della «filosofia» o della «metafisica»?
«L’inizio della metafisica nel pensiero di Platone è nello stesso
tempo l’inizio dell’“umanismo”» (HEIDEGGER 1976a, p. 190). L’humanismus ha origine dalla trasmutazione della «verità» come «svelatezza» dell’essere nell’«idea» (teologica) del bene (HEIDEGGER 1976a, p.
181 sgg.). Già col platonismo, dunque, l’essere e la sua verità entrano
in quella fase d’ombra e di «oblio» che nessuna ricerca successiva è
stata più in grado di rischiarare, anzi ha reso via via più fonda e inaccessibile, sviando per ciò stesso dalla possibilità di cogliere l’umanità
dell’uomo. Un ruolo decisivo in questo sviluppo (o, piuttosto, inviluppo) ha la definizione aristotelica dell’uomo come zoon logon echon,
tradotta e reinterpretata ultra-metafisicamente mediante la fortunata
673
e infelice espressione animal rationale. Nell’epoca moderna, l’umanismo si è via via imposto nella sagoma «triste» del «soggettivismo»
cartesiano; per «compiersi» definitivamente nell’opera di Nietzsche7.
Chiudendo la parabola filosofica dello zoon logon echon, anche la profezia di Zarathustra – nonostante il suo proposito di distruzione del
platonismo (e del cristianesimo), nonostante la sua continua polemica con il cogito di Cartesio – si mantiene infatti nell’essenza della
«metafisica della soggettività». L’uomo oltre-metafisico di Nietzsche
non vede oltre la metafisica: è, anzi, ultra-metafisico. Resta cioè un
soggetto animale-razionale. A partire da Nietzsche
dimori nella dimensione dell’animalitas. Siamo in generale sulla via
giusta per determinare l’essenza dell’uomo come un essente vivente
tra gli altri, che si distingue rispetto alle piante, agli animali e a
Dio? Si può procedere così [...] Ma si deve anche avere ben chiaro
che così l’uomo è definitivamente cacciato nell’ambito dell’essenza
dell’animalitas, anche quando non lo si assimila all’animale, ma gli
si riconosce una differenza specifica. In linea di principio si pensa
sempre all’homo animalis anche quando l’anima è posta come animus sive mens, e quindi come soggetto, come persona, come spirito.
Questo modo di porre è il modo tipico della metafisica (HEIDEGGER
1976a, pp. 276-277).
l’essenza incondizionata della soggettività si dispiega necessariamente come la brutalitas della bestialitas. Alla fine della metafisica
sta la tesi: homo est brutum bestiale (HEIDEGGER 1996-97, p. 699).
Questo «modo» di deporre e di trasporre la questione dell’uomo
consente a Heidegger di raccogliere in una sola trama, e coinvolgere
in un unico gesto di decostruzione, posizioni e risposte che in verità
non hanno molto in comune tra loro; e sembrano perfino escludersi
di principio, come il cogito di Cartesio (che intenzionalmente sospende la questione dell’animalitas dell’uomo), l’anti-cogito Nietzsche, la determinazione aristotelica dell’uomo come zoon logon echon
(estranea a ogni soggettivismo), la definizione (né biologistica né
soggettivistica) dell’uomo come «persona» propria di Kant, di Husserl e di molti altri. Secondo Heidegger, queste differenti figure restano demarcazioni dell’antropologia filosofica e congiurano insieme,
rafforzandosi a vicenda (un dato che la tradizione filosofica ci attesta),
a far dimenticare quel «rapporto con l’essere» che, solo, consente di
scorgere e salvaguardare l’«essenza» propria dell’uomo: vale a dire il
suo essere – da parte a parte – «esserci», «esistenza», «mortalità».
Se infatti è vero «che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere,
e pensa anche così l’essere dell’ente», essa «non pensa l’essere come
tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente» (HEIDEGGER 1976a,
p. 276): così che tutte le soluzioni che è andata escogitando restano
in ogni caso un modo di accedere all’uomo a partire dal cogito, dall’anima o dalla psyche di un soggetto; dall’animalitas e dalla psico-antropologia. Queste interpretazioni mancano alla radice la questione
dell’essenza dell’uomo perché considerano l’ente «uomo» senza una
preliminare comprensione dell’essere; e, se lo fanno, mancano questa
Per guardare oltre questo tempo (davvero poco rassicurante), per
mettersi sulle tracce dell’homo humanus, non occorreva per Heidegger
interpretare diversamente l’uomo, continuando comunque a considerarlo – entro i confini della tradizione dell’animalitas e della rationalitas – come «un ente tra gli altri»; non occorreva oltrepassare
l’uomo (con quali risultati, abbiamo visto)8 quanto piuttosto l’interpretazione metafisica dell’uomo che – nelle controfigure dell’animale
razionale e del soggetto – domina il destino dell’Occidente e dell’occidentalizzazione del globo. Per Heidegger, la questione dell’uomo è
la questione dell’uomo solo se non è una questione dell’uomo. La questione dell’uomo è (la) questione dell’essere e del suo oblio.
Se facciamo riferimento alla determinazione essenziale dell’uomo,
comunque si definisca la ratio dell’animal e la ragione dell’essere
vivente [...] ognora e ovunque l’essenza della ragione si fonda sul
fatto che, per ogni apprensione dell’ente nel suo essere, l’essere stesso è già diradato e avviene nella sua verità. Il termine “animal”,
zoon, sottolinea già un’interpretazione della “vita”, che riposa necessariamente su un’interpretazione dell’ente come zoe e come physis
nel cui ambito appare il vivente. Ma oltre a ciò, e prima di ogni
altra cosa, rimane finalmente da chiedersi se in generale l’essenza
dell’uomo, in senso iniziale e che decide anticipatamente di tutto,
674
675
stessa comprensione, dato che – non ponendo la questione della «differenza ontologica» – permangono nella determinazione dell’essere
come ente: come idea (è il caso, già visto, di Platone), come Dio
(riferimento ultimo e ineludibile dell’«animus sive mens» di Cartesio
o della «persona» in Kant), come volontà (Nietzsche) o come «spirito». Che si consideri l’uomo come un soggetto o un’intersoggettività
logica o empatica, che lo si riconduca a un fascio di pulsioni vitali,
che lo si innalzi alla libertà o alla persona: si tratta in ogni caso di determinazioni onto-teologiche o antropo-logiche. Nessuna di esse è in
grado di interrogare e di attingere «ciò che l’uomo è essenzialmente
(west) in quanto uomo» (HEIDEGGER 1976a, p. 326). Tutte accomunate da un’incomprensione essenziale, queste definizioni formano quell’unico disegno che costituisce la storia smemorata e smemorante
della metafisica. Muovendo dall’homo animalis di Aristotele o dalla
res cogitans di Cartesio, dall’anima o dall’anemos, dal pneuma o dallo
spirito, non si pensa il «proprio» dell’uomo. Per farlo occorre porsi
in una dimensione di interrogazione (e di ascolto) del tutto trascurata dalla metafisica animalista di Aristotele e da quella soggettivista
che, con Cartesio (anche se probabilmente suo malgrado), considera
il soggetto-uomo come origine e fondamento.
Come si esce allora, se si esce, da questo oblio? Che cosa comporta, per la questione-uomo, il tentativo heideggeriano di rimemorazione-oltrepassamento della tradizione della metafisica animalista
e soggettivista? Prima di dedicarci a questo compito, dovremo osservare un po’ più da vicino questa tradizione: cosa che costituirà
anche l’occasione per sollevare da subito – sulla scorta di alcune
interpretazioni di Jacques Derrida9 – alcuni interrogativi (o meglio «questioni di ritorno»10) alla Lettera inviataci da Heidegger nel
1946; e, in particolare, alla possibilità di iscrivere senza residui le
molte «storie naturali e storiche» che compongono il lascito della
metafisica nella cornice di un unico «destino», e alla possibilità di
oltrepassare senz’altro quella tradizione e quel destino (un dubbio,
vedremo, che lo stesso Heidegger ci inviterà a prendere in considerazione).
676
4. L’io-uomo e l’animale razionale
«E poi mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: “Tu, chi
sei?”. E ho risposto: “Un uomo”» (Confessioni, 10, 6).
È questa la prima questione dell’uomo che incontriamo nelle Confessioni di Sant’Agostino. La prima e – per lui – anche la sola, l’unica
a comportare la possibilità di una risposta: quella risposta che in
verità è già contenuta nel modo in cui è formulata la domanda. Qui
non è in causa alcuna definizione di una «natura» o di un «proprio»
dell’uomo, alcuna ricerca che miri a definire in «che cosa» egli si
distingua (in specie, essenza o differenza) dagli altri viventi o essenti
dotati di «anima» (psyche), alcuna antropologia o zoologia umana. La
questione riguarda il «chi» (quis) ed è rivolta dall’interrogante a se
stesso. A se stesso come altro, dato che si interpella con il «tu». Posta
così, la domanda è suscettibile di una risposta semplice, immediata
e, per quanto generica, significativa: sono un uomo. Questa risposta
suppone la mia singolarità o unicità («un») e al tempo stesso la mia
appartenenza, comune a ogni altro («uomo»), a un insieme, a una pluralità o a un genere (per il momento, non distinguiamo).
Ritroveremo questo modo di interrogare il «chi» dell’uomo in
quei filosofi – ricorderò qui soltanto i nomi di Hannah Arendt ed
Emmanuel Levinas – che hanno tentato di rimettere in discussione
il problema dell’umanità dell’uomo o della condizione umana dopo
la decostruzione heideggeriana della metafisica umanistica. E non
è forse superfluo sottolineare (mi è capitato altrove di farlo11) come
tanto l’una quanto l’altro (come del resto prima di loro Sant’Agostino), illustreranno l’anfibolia singolare-plurale implicita nel testo
delle Confessioni rifacendosi al passo della Genesi che narra della generazione degli uomini da Adamo: anche se poi – lo vedremo tra non
molto – Arendt attualizzerà il paradosso della Human Condition (la
«pluralità di essere unici») in una direzione (politica) che riconduce
alla tradizione aristotelica dello zoon politikon; mentre Levinas vi scorge la scaturigine etico-religiosa (già insita, dunque, nella questione
del «chi») del suo Umanesimo dell’altro uomo.
Ma restiamo alle Confessioni di Sant’Agostino. Quantunque giustificata o illustrata (come avverrà soprattutto nella Città di Dio) a
677
partire dai riferimenti teologici e scritturali (la generazione degli uomini a partire da un singolo), la formulazione che abbiamo letto più
sopra non ha nulla di metafisico, di umanistico, di soggettivistico e
di onto-teologico. Per questo modo di interrogazione, la questione
dell’umanità dell’uomo è tanto filosoficamente complessa (e infinitamente laboriosa) quanto semplice e chiara. Le sottigliezze e le molte
difficoltà dei passaggi descrittivi (questa volta puramente fenomenologici) attraverso cui Husserl la riformulerà nelle Meditazioni cartesiane – mostrando come io possa, nella sfera del mio ego, costituire
per «empatia» e «appresentazione analogica» un alter ego: condizione della possibilità di rivolgermi a me stesso come a un altro – nulla
tolgono al fatto che è solo da quel momento in poi che io posso dire a
me stesso: «Io sono un uomo»12. È l’altro, l’«estraneo» o lo «straniero» (Fremd) a fare di me stesso quel qualcuno che può rispondere alla
domanda: «Chi sei?» (domanda che già suppone l’altro avanti a sé e
dentro di sé) con la semplice risposta: «Un uomo». Ed è in questo
senso che Husserl può scrivere che il corpo fisico-animato (Leibkörper) dell’altro «è, per così dire, l’oggetto in sé primo, come l’uomo
estraneo è costitutivamente uomo in sé primo» (HUSSERL 1950a, p.
143).
Con differenze anche assai marcate, questa linea si ritrova nel
tentativo compiuto da Levinas di rispondere alla domanda di Jean
Beaufret in un modo che Heidegger non aveva preso in considerazione (o aveva considerato e rifiutato, ricompreso nella metafisica
soggettivistica dell’io-tu): e cioè come umanesimo dell’«altro». Ciò
che significava, dunque, a differenza di Husserl, muovere non più
dall’io (o del «medesimo) ma da altri; criticare (proprio come avveniva in Heidegger) il fenomeno dell’empatia e l’idea husserliana di
una sintesi per analogia tra ego e alter ego; trasformare la somiglianza in dissimiglianza, l’associazione archeologica di Husserl in socialità
an-archica (in senso, quindi, non heideggeriano). Lo «scandalo» che
Levinas introduce nella riflessione husserliana sullo «psichismo» lo
porta, da un lato, a prendere le distanze dalla tradizione aristotelica
dello zoon logon echon, e dall’altro a porre la questione dell’anima e
dell’animalità in termini religiosi.
678
Con il tempo del “risveglio dello psichismo” si tocca qualcosa di
assai antico, di teologico. Forse lo psichismo animale non è già teologia? Sarebbe scandaloso, no?... Ma nella Bibbia l’uomo non è un
animale ragionevole, assomiglia a Dio..., e questo non è affatto aristotelico! (LEVINAS 1984, p. 36).
Per Levinas, l’uomo incontra se stesso e la sua «nozione» solo
attraverso l’incontro con altri. L’umanità dell’uomo non è altro che
l’altro, questo volto, questo singolo, questo ogni-volta-unico uomo
che mi si fa incontro: un «per-l’altro» (e non, come in Heidegger,
un «con-essere») che non soltanto “mi manda a dire” di chiamarmi
“uomo”; ma fa anche sì che la comunanza in «genere» degli uomini
si risolva o si dissolva in una pluralità di singoli, meglio, nell’unicità
di ogni-uno. Ora: considerando il fatto che, per Levinas, è questo il
«punto della realtà in cui l’idea di Dio può venire all’uomo» (LEVINAS 1987, p. 125), resterebbe da chiedersi se, nonostante non sia
– o proprio perché non è – onto-teologica, la questione del «chi»
come due-in-uno (e perciò pluralità) non supponga già (come in Sant’Agostino) un terzo, un testimone non plurale. L’ego sum (dell’)uomo
non può aggiungere: qui sum. Ma tutt’al più: «Eccomi». Ed è per
questo che, opponendosi a gran parte della tradizione filosofica, Levinas pone l’ospitalità (e non l’ostilità o la lotta per il riconoscimento)
come origine anarchica dell’incontro con l’altro: anche se poi sarà proprio questo guadagno di me stesso, per inclusione ospitale dell’altro,
a rendere possibile lo scatenamento di ogni forma di esclusione, ogni
reazione allergica, immunitaria e co-immunitaria. Veniamo ora alla
seconda domanda dell’uomo presente nelle Confessioni di Sant’Agostino.
Questa domanda non riguarda più il «chi» ma il «che cosa»
(quid); e significativamente non è rivolta dall’interrogante a se stesso
(a se stesso come altro: come un altro, come uno degli altri o tra gli
altri), ma all’altro senz’altro altro, all’assolutamente Altro (a un testimone, l’unico, assolutamente singolare). «Che cosa sono dunque io
(Quid ergo sum), mio Dio? Qual è la mia natura?» (Confessioni, 10, 17).
A differenza della questione del «chi» dell’uomo, quella del «che
cosa», e cioè della «natura» o del «proprio» dell’uomo, è una do679
manda che, per Sant’Agostino, l’uomo non può porre a se stesso; e da
cui pertanto non è in grado di ottenere alcuna risposta. Sarebbe, ha
scritto Hannah Arendt, come «scavalcare la nostra ombra». Un’immagine a cui ha aggiunto queste notevoli osservazioni: «Se abbiamo
una natura o un’essenza, allora certamente soltanto un dio potrebbe
conoscerla e definirla»; «e il primo requisito sarebbe che egli fosse
in grado di parlare di un “chi” come se fosse un “che cosa”» (ARENDT
1958, p. 10).
«La questione della natura dell’uomo» è, per Arendt, «una questione teologica tanto quanto quella della natura di Dio» (ARENDT
1958, p. 243, nota 2). A differenza della domanda: «Chi sono?» (o
meglio: «Tu chi sei?») e della risposta: «Un uomo» – una domanda
che suppone semplicemente e insieme la mia singolarità e la mia pluralità – la domanda: «Che cosa sono?» o «Che cosa è l’uomo?» apre
un punto di osservazione esterno tanto al mio quanto a quello di
ogni altro appartenente all’insieme degli uomini (trascuriamo qui
il problema del testimone-terzo). È per questa ragione che Arendt
distingueva nettamente la questione della «condizione umana» da
quei discorsi che miravano a definire una «natura umana», osservando come, se anche possiamo identificare un insieme di «attività»
e di «capacità» tipiche dell’uomo (come l’agire, il pensare o il fabbricare oggetti), queste non «costituiscono caratteristiche essenziali dell’esistenza dell’uomo, nel senso che, se non ci fossero, questa
esistenza non sarebbe più umana» (ARENDT 1958, p. 9). Vicina, almeno su questo punto, a Nietzsche (che scongiurava i «fratelli» di
rimanere «fedeli alla terra»13), Arendt riteneva che il più «radicale
mutamento della condizione umana» sarebbe un’«emigrazione» degli uomini su un altro pianeta; ciò che «comporterebbe per l’uomo
il dover vivere in condizioni create dall’uomo» stesso (e forse, tra un
po’, non ci sarà neanche bisogno di andarsene dalla terra per ottenere
questo risultato). E, tuttavia, aggiungeva: «Anche questi ipotetici
emigranti sarebbero umani». Per tutto ciò, resta notevole osservare
come – parlando del mondo dell’azione come di ciò in cui si «rivela»
essenzialmente il «chi» di ogni-uno, e quindi l’«umanità dell’uomo»
(come «fiducia in ciò che è umano in tutti gli uomini») – Arendt ci
proponga una riflessione che sembra quasi una chiosa alla definizione
680
aristotelica del zoon politikon come zoon logon echon (Politica, I 1253 a
5; Etica nicomachea, I 1169b 18).
Se infatti nella Politica Aristotele osservava come l’uomo sia un
animale molto più disposto alla vita in comune «di qualsiasi ape e
di qualsiasi altro animale che viva in greggi» – dato che la sua voce
(phone), e cioè il logos, non si limita a «indicare» agli altri la «sensazione del piacere e del dolore», ma è fatta per «esprimere» ciò che è
«utile» e ciò che è «dannoso», e perciò anche «il giusto e l’ingiusto»
(Politica, I 1253 a) – Arendt, a sua volta, scrive:
La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha il duplice carattere dell’uguaglianza e della distinzione.
[...] La distinzione degli esseri umani non si identifica con l’alterità
[...] L’alterità nella sua forma più astratta è reperibile solo nella pura
moltiplicazione degli oggetti inorganici, mentre ogni vita organica
mostra già variazioni e distinzioni, anche tra gli esemplari di una
stessa specie. Ma solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed
esprimere se stesso, e solo lui può comunicare se stesso e non solamente qualcosa – sete o fame, affetto, ostilità o timore (ARENDT
1958, pp. 127-128).
Significa forse questo – per riprendere i termini heideggeriani
della decostruzione del logocentrismo della metafisica umanistica
– che Arendt pensa alla condizione dell’uomo muovendo dall’homo
animalis cui aggiunge il logos o la ratio? Non credo. Credo piuttosto
che qui ci stiamo imbattendo in un’altra, ineludibile questione. E
cioè questa: è un caso che per affrontare la questione del politico si
debba ricorrere a nozioni come quelle del vivere, del vivente e della
vita (zoe o bios)? Oppure questo ricorso sembra talmente ineluttabile
che senza di esso ci riesce addirittura impossibile individuare lo spazio stesso dell’«agire in comune» degli uomini?
Una problema di questo tipo doveva essere ben presente a Heidegger, se è vero che egli inizia la sua Lettera sull’«umanesimo» con un
riferimento esplicito a categorie politiche. Ora: il progetto heideggeriano di sospendere o interrompere ogni relazione con il «semplicemente vivente», per accedere all’essenza propria dell’uomo, comporta una simmetrica esclusione o reinterpretazione (piuttosto bizzarra)
681
di nozioni come l’azione, il discorso e la dimensione pubblica. Sulla
scia di osservazioni analoghe già presenti in Essere e tempo, il Brief
inizia infatti con queste parole: «Noi non pensiamo ancora in modo
abbastanza decisivo l’essenza dell’agire»; si preoccupa subito dopo
di definire il linguaggio, non come spazio di «distinzione» e di «rivelazione» del «chi» degli uomini (come diceva Arendt), ma come
«casa dell’essere»; per concludere con l’osservazione secondo cui un
«pensiero» capace di pensare l’agire «agisce in quanto pensa»; così che
questo «agire» nella solitudine del pensiero «è probabilmente il più
semplice e nello stesso tempo il più alto, perché riguarda il riferimento dell’essere all’uomo» (HEIDEGGER 1976a, pp. 267-268).
Ora: la definizione aristotelica (ilemorfica14) dello zoon logon echon
può davvero essere considerata una fondazione antropologica (umanistica e soggettivistica) dell’uomo (e cioè un modo di determinare
l’«essenza» umana a partire dallo «strato» o dalla «dimensione dell’animalitas»)? Non è invece piuttosto (senza nasconderci i problemi che contiene, ma anche senza poterli qui analizzare) una formula
descrittiva per aprire al cum dell’essere politico e alla possibilità di
un discorso sulla politeia? Se tuttavia la metafisica (e la decostruzione della metafisica) l’ha assunta in questo modo (e le ha attribuito
un’importanza smisurata), una ragione dovrà pur esserci. Si tratta allora di cercare questa ragione dimenticata (o rimossa); della quale, in
verità, le pagine iniziali della Politica ci forniscono una chiave significativa. Aristotele inizia il suo trattato osservando come ogni polis sia
una koinonia, e come gli uomini abbiano una tendenza «naturale» a
vivere in comunità15. Per questo motivo, colui che «vive fuori» della
polis, colui che non ne entra a far parte «per natura e non per qualche
caso», è «inferiore» o «superiore» all’uomo (Politica, I 1253 a). Nel
volgere di poche righe, questo meno-e-più che umano, questa figura
di extracomunitario, si precisa così: «O bestia o dio».
Forse, allora, a fare problema (o piuttosto paura?) nella vicenda
dello zoon logon echon è questa figura: la gravitazione satellitare, la
vibrazione che produce in noi un paradigma antropo-zoo-teomorfico diffuso – ben al di qua di ogni metafisica umanistica o destino
dell’Occidente – in tutte le mitologie, le religioni, le narrazioni mitiche? Paura, mysterium tremendum. Ci prendono i brividi, ci viene la
682
pelle d’oca. All’oca la pelle d’oca viene soltanto dopo che ci ha lasciato le penne, una volta che sia stata spiumata e sacrificata per bene.
Forse, ciò che ci fa tremare nel perimetro della definizione aristotelica, non è tanto l’interpretazione metafisica dell’uomo come homo
animalis, quanto piuttosto la logica sacrificale o supplementare che,
come un totem o uno spettro, abita (ossessiona e frequenta: «hante»,
scriverebbe Derrida) il recinto del rapporto uomo-animale-dio.
E chi, se non la bestia, verrà convocata in qualche illustre Accademia a interpretare suo malgrado la parte della nostra vita animale, lo
strato o sottostrato pre-umano, in-umano e dis-umano dell’uomo?16.
Chi se non un animale (diciamo un capro), verrà chiamato in scena,
anzi già disposto sull’altare del sacrificio, magari al posto di un primogenito?
Su questo rapporto tra il sacrificio e la struttura della supplenza
o del supplemento si aprirebbe un capitolo immenso17. Mi limito a
osservare (nella speranza di tornarci in un altro seminario) che non
c’è sostituzione o supplemento (tecnico, simbolico, economico, semiotico, sintomatico) senza struttura sacrificale, né sacrificio senza
struttura supplementare o emissaria: supplenza del sacrificato (un
uomo al posto di un altro o altri uomini, un animale al posto di un
uomo, un uomo al posto di un dio; e perfino un dio, o un dio-uomo,
al posto dell’uomo o degli uomini); supplenza anche del sacrificatore
nella sua protesi tecnica (è il coltello a uccidere) e in quella verbale
e proverbiale che invoca il processo di discolpa («nessuno ha ucciso
il bue»).
Forse nell’ombra dello zoon aristotelico – sia che quell’ombra venga scontornata dal nostro corpo umano, sia che, come una frontiera
oscura, lo attraversi – si nasconde un processo di esclusione e di cattura, di addomesticamento e sacrificio: «Un sacrificio perfino fondatore», scrive Derrida (DERRIDA 2006, p. 139).
Senza entrare nelle infinite questioni che si dovrebbero qui aprire,
merita ricordare che, in Totem e tabù, le sostituzioni o i sintomi del
sacrificio sono stati ricondotti da Freud a uno solo, «il grande avvenimento con il quale ebbe inizio la civiltà»18: l’omicidio di un uomo
divinizzato e totemizzato, zoo-teo-morfizzato. Inizio della civiltà: un
inizio destinato a ripetersi, nella storia degli uomini, tutte le volte
683
che una comunità deve indennizzarsi, immunizzarsi, co-immunizzarsi dagli estranei e dai fantasmi che sono e abitano da sempre in
casa nostra e in noi (in verità prima di noi, prima di poterci dare del
“Noi”, prima di istituirci e istituzionalizzarci come ipseità sovrane).
Forse non si oltrepassa la tradizione dell’animale-razionale pensando
all’uomo (o annunciandolo come) qualcosa di più, o di diverso, da
uno zoon logon echon. Forse non ci si porta oltre quella tradizione (ammesso che lo si possa o abbia un senso farlo) considerando l’uomo,
non più come homo animalis, ma come «pastore dell’essere». Forse si
tratta, piuttosto, di decostruire questa logica o questa retorica sacrificale (compresa la pastorizia).
Torniamo indietro, torniamo a colui che ha tristemente deciso
dell’interpretazione dell’uomo come soggetto. Ebbene, è la tradizione che muove da Aristotele che nelle Meditazioni metafisiche Cartesio
(proprio come Heidegger) mira a rompere e a interrompere. Qui non
è riproposta alcuna questione dell’animalità dell’uomo. Non solo:
la sospensione, l’epoché delle nozioni di uomo e di vivente (animal)
costituisce la posta in gioco per l’accesso alla scoperta del cogito-sum.
Ciò avviene attraverso una ripresa appena modificata delle due domande sull’uomo che abbiamo incontrato nelle Confessioni. La prima
quaestio agostiniana è però formulata da Cartesio al passato; ed è per
questa sua coniugazione che l’oggetto della domanda può essere per
lui (a differenza di Sant’Agostino) un «che cosa» e non un «chi».
«Che cosa dunque (Quidnam), prima di tutto ciò, ho ritenuto di essere? Certamente un uomo», scrive Cartesio. Ora: anche ammettendo
di prendere per buona questa antica risposta (in realtà già sospesa dal
dubbio, dato che il passato – ciò che comunque si coniuga al passato:
siano esse le «testimonianze» dei sensi o i «ricordi» – è proprio ciò
che si tratta di escludere per accedere all’evidenza presente del cogito),
resta da chiedersi:
Ma che cosa è l’uomo (quid est homo)? Dirò forse che è un animale razionale? No, poiché poi bisognerebbe ricercare che cosa sia un
animale, e che cosa sia razionale, e in tal modo da un solo problema
incapperei in parecchi ancora più difficili; né ormai ho tanto tempo
libero da volerlo spendere per sottigliezze di tal fatta (Meditazioni
Metafisiche, II, 25-30).
684
Anche Kant, per guadagnare la nozione di uomo come «fine in
sé», riteneva opportuno sospendere (con un gesto fenomenologico
ante litteram, simile a quello di Cartesio, e prima ancora di Sant’Agostino) ogni riferimento alla natura di un essere particolare chiamato
«uomo», «alla particolare proprietà della natura umana», come dice
ad esempio nella Metafisica dei costumi. Ciò non toglie che assistiamo
in lui a una ripresa della tradizione della metafisica antropocentrica;
di più, a una coniugazione della linea (diciamo continuista) dell’animale-rationale e di quella (discontinuista) del cogito-sum di Cartesio
(e del Dasein di Heidegger). Anche se Kant si impegnerà nella più
radicale decostruzione dell’ontologia del cogito-sum di Cartesio, l’«io
penso» continua ad agire in lui come distintivo antropologico. Come
evidenzia l’incipit della sua Antropologia pragmatica:
Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Per questo egli è una persona e, in forza dell’unità di coscienza persistente
attraverso tutte le alterazioni che possano toccarlo, egli è una sola e
medesima persona, cioè un essere del tutto diverso, in grado e dignità,
dalle cose, quali sono gli animali irragionevoli, dei quali si può disporre ad arbitrio19.
Marcando il tratto di una elevazione («in grado») e di una superiorità (in «dignità»), questa discontinuità nella continuità può farsi
altrettanto (se non più) discriminatoria e crudele (come le ultime
parole del passo che ho citato ci inducono a presentire) di ogni gesto
di discontinuità, differenza e persino esclusione. E riprodursi anche
all’interno di supposti diversi gradi di umanità. Molte delle violenze
(pubbliche o private) che gli uomini commettono verso altri uomini
suppongono la medesima logica di continuità territoriale e di dominanza coloniale.
Come riprenderà e come modificherà Husserl la linea pre-fenomenologica cartesiana a cui dichiarava di rifarsi? Come e perché Heidegger criticherà l’impostazione del suo maestro che pure aveva aperto
la strada alla sospensione di ogni discorso «naturalistico» (e perciò
anche biologistico e psico-antropologico)? Sono queste le domande
che ora ci attendono.
685
5. Esistenza e vita
È attraverso le sue caratteristiche procedure di «neutralizzazione»
che – come per ogni altro titolo delle sue descrizioni – la fenomenologia si avvicina alla questione «uomo». A differenza però di come
accadeva nell’ego-cogito di Cartesio, in Husserl il problema della
vita, dell’anima e dell’animalità, rientra nell’abito delle analisi costitutive condotte a partire dalla «vita trascendentale» dell’«Io». Anche
se sulle prime la cosa può sorprendere, per Husserl la «vita» non è
pensata come condizione per definire un «vissuto»; ma – esattamente al contrario – è il vissuto (Erlebnis), con i sui caratteri temporali (il
«presente vivente») e le sue intenzionalità, a permetterci di accedere
a qualcosa come la vita o il vivere (Leben); compreso il «corpo proprio» o «corpo vivo» (il Leib). Il vivente è ciò che si dà come tale a un
vissuto. Il Leben si apre a partire da un Erlebnis, e non viceversa. Allo
stesso modo, non è muovendo dal concetto di «natura» che è possibile guadagnare il campo della «vita psichica animale» e delle realtà
naturali e spirituali (ciò che Husserl considerava «un controsenso»:
anche qui, la cosa va affrontata esattamente a rovescio). È per questo
che – pur facendo leva come Cartesio sulla presenza del «presente»
per accedere al cogito-sum – a differenza di Cartesio, l’«io sono» è per
Husserl anche un «io vivo» («io sono, questo vivere è, io vivo: cogito», Ich bin, dieses Leben ist, Ich lebe: cogito) (HUSSERL 1950c, p. 111).
A partire da qui si potrebbe confrontare la nozione husserliana di
Lebendigkeit («vivenza»?) con quella heideggeriana di Ek-sistenz («esistenza»), e paragonare tra loro la nozione husserliana di «parallelismo» o «duplicazione»/«ricoprimento» tra ciò che si dà a livello
del «vivere trascendentale» e ciò (e cioè quello stesso) che si offre nello
spazio del mondo (una nuance che, non separando nulla di reale,
resta – come scriveva Derrida – una differenza tanto «radicale» che,
senza di essa, «nessun’altra differenza al mondo avrebbe senso né
possibilità di apparire come tale»20) con la «differenza ontologica» di
Heidegger. Proprio in quanto pensato come corrente di vissuti (Erlebnisstrom), come flusso di vita o vita fluente (strömende Leben), e non
meramente ipostasi di un cogito senza cogitationes (come succedeva in
Cartesio), l’ego di Husserl si apre infatti al suo sum o al suo Dasein
686
in termini di vita, di Leben animale. Proprio in quanto è un «Ich
lebe», l’«Io» di Husserl non è un «io penso» né nel senso di Cartesio, né in quello di Kant. E non è certamente il mero «Io», ma la
Lebendigkeit e la Leiblichkeit del «corpo vivente» a rendere possibile
l’accesso alla nozione costitutivamente intersoggettiva o plurale di
«uomo». Dato che tuttavia, anche per lui, l’«io» ha la possibilità (o
la necessità?) di obiettivarsi, di rappresentarsi e di mondanizzarsi
(via via come psyche, io-uomo, ratio, persona), la stratigrafia husserliana dell’«Io» alla fine rispecchia (o proprio riproduce) quella
kantiana. Ed è per questo che (come Kant e a differenza di Cartesio)
Husserl accoglieva e considerava – e si capisce perché – la definizione aristotelica dell’uomo come animale-razionale una «buona
vecchia definizione».
Abbiamo visto come la particolarità del tentativo heideggeriano
di affrontare la questione dell’uomo (portandosi nello stesso tempo al di
là e al di qua della metafisica umanistica) consiste (come per Husserl)
nel «sospendere» i diversi modi e le diverse (e perfino alternative)
vie di accesso al problema dell’uomo che la tradizione filosofica ci ha
consegnato; a partire proprio dalla sagoma animata dell’animale-razionale. La via che egli ci traccia consiste nel vedere nell’«e-sistenza»
l’«essenza» propria dell’uomo21. Dire che il «proprio» dell’uomo altro non è che il suo medesimo «esistere» significa accogliere questo
residuo fenomenologico come chiave di accesso per compiere una
svolta ontologica decisiva nell’ambito della filosofia fenomenologica, e lasciarsi alle spalle ogni tentativo (biologistico, non meno che
spiritualistico o personalistico) di determinare la natura umana muovendo dall’anima (e quindi dall’animalitas) dell’uomo, così come anche dalla psyche, dall’ego, dalla persona, dalla vita e dall’«esperienza
vissuta della vita» (come voleva Husserl).
Muovendo, come il suo maestro, dalla capacità di aprire – grazie
al movimento delle riduzioni fenomenologiche – un accesso all’essere dell’ente non viziato da presupposizioni vitalistiche, naturalistiche
e obiettivistiche, la fenomenologia di Heidegger tenta di guadagnare
la stessa cosa, scavalcandone però dall’origine l’impianto egologico (e
perciò soggettivistico): un progetto davvero ambizioso, dato che per
Husserl la riduzione alla «vita trascendentale» dell’ego era la sola
687
via capace di aprire quell’accesso. Che cosa implica la nozione di esistenza, che definisce da parte a parte l’esserci dell’uomo? Risposta:
il rapporto con l’essere. È da questo rapporto, infatti, che l’esistenza
– che è propria dell’uomo e ne definisce il proprio – assume ogni senso.
Citiamo ancora dal Brief:
La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l’uomo si dispiega solo nella sua essenza (west) in quanto è chiamato
dall’essere. Solo a partire da questo reclamo, l’uomo “ha” trovato
dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare egli “ha” il
“linguaggio” come dimora che conserva alla sua essenza il carattere
estatico (HEIDEGGER 1976a, p. 277).
Il dimorare estaticamente nella radura (Lichtung) dell’essere è appunto ciò che Heidegger chiama «e-sistenza»22:
Solo all’uomo appartiene un tal modo di essere. [...] Di e-sistenza si
può parlare solo in relazione all’uomo, cioè solo in relazione al modo
umano di “essere”; perché solo l’uomo, per quanto ne abbiamo esperienza, è coinvolto nel destino dell’e-sistenza. Perciò l’e-sistenza non
può mai essere pensata come una specie particolare tra le altre specie
di esseri viventi, dato che l’uomo è destinato a pensare l’essenza del
suo essere, e non solo a raccontare storie naturali o storiche sulla sua
costituzione e la sua attività (HEIDEGGER 1976a, p. 277).
Chiediamoci: questa formulazione che sospende l’animalitas come
via d’accesso all’humanitas dell’uomo – segnando una frontiera impermeabile tra esistenza (umana) e vita (animale), tra Dasein e Leben,
tra il «condursi» dell’uomo e il «comportarsi» dell’animale – non
sembra qui ritrovarsi su quella linea cartesiana (umanistica e metafisica) che vuole oltrepassare? Si tratta di una domanda che Derrida ha
sollevato in numerosi testi, cui non posso qui far altro che rinviare23.
Il sum cartesiano (che non è nulla di vivente, che non significa in
alcun modo “io vivo”, ma, al contrario: cogito, penso) e il Dasein o
l’Ek-sistere di Heidegger (che, anche se non è un sum, dato che non
rinvia a un ego, resta pur sempre una Jemeinigkeit, un «esser-sempre-mio») non hanno davvero nulla in comune tra loro? E ancora:
688
se l’esserci non è un vivere o una vita, la soluzione anticartesiana di
Heidegger non è su questo punto molto più cartesiana di quella (cartesiana) di Husserl? La differenza ontologica – che è all’origine di
ogni cosa, ed è tanto pura da non autoaffettarsi mai da se stessa, da
differire se stessa – non riconduce il discorso di Heidegger nell’orbita
o nella parabola di quella differenza antropo-logo-centrica che voleva
oltrepassare? Citiamo ancora un passaggio del Brief, dove Heidegger
riassume impostazioni che aveva affrontato in un seminario di diversi
anni prima (HEIDEGGER 1983a):
gli esseri viventi sono come sono, senza che, a partire dal loro essere
come tale, stiano nella verità dell’essere e, in questo stare, salvaguardino ciò che dispiega l’essenza (das Wesende) del loro essere. [...]
Potrebbe invece sembrare che l’essenza del divino ci sia più vicina di
quanto non lo sia l’estraneità degli esseri-viventi [...] Ai vegetali e
agli animali manca il linguaggio perché essi sono ognora imbrigliati
nel loro ambiente, senza mai essere liberamente posti nella radura
dell’essere che, sola, è “mondo” (HEIDEGGER 1976a, p. 279).
A differenza dell’uomo, l’animale («imbrigliato» nel suo ambiente, «stordito» all’interno del suo «cerchio disinibitore») non
ha propriamente un «mondo». All’animale è infatti precluso l’accesso
all’«ente in quanto tale»; e perciò a un pensare che «lascia essere
l’ente». Ma se – in quanto capace di esperire l’ente in quanto («als»)
ente, e così lasciarlo essere – l’uomo ci appare qui in grado di rapportarsi all’essere, resta da chiedersi: che cosa (vedremo che non si
tratta di alcuna cosa) apre all’«esistente» quella verità dell’essere che
gli consente si dimorare nella sua essenza? Si tratta, vedremo, della morte: esperienza o «capacità» di esperienza preclusa all’animale (una preclusione che fa tutt’uno con la sua mancanza di parola);
della morte e di quel «sacrificio essenziale» che, solo, ci fa accedere
all’esperienza del sacro (e alla possibilità di incontrare il divino).
Un’esperienza che poi non è che un modo diverso (poetico) per dire
(filosoficamente) la verità dell’essere. È su tali questioni che mi avvio
a concludere.
689
6. Morte e sacrificio
Abbiamo detto: l’uomo, e lui solo, ha accesso all’ente «in quanto»
ente. Chiediamoci ora: che cosa suppone questo accesso? Non una
“cosa”, appunto, ma – lo si consideri o lo si trascuri, lo si ammetta o
lo si dimentichi: e questa dimenticanza è la storia o il destino della
metafisica – una preliminare apertura all’essere dell’ente, e perciò all’essere stesso come differenza essere-ente. E che cosa apre questa stessa apertura, e cioè l’aperto stesso, o la Lichtung? Che cosa ci dispone a
essa? Una «disposizione», appunto. Questa disposizione, che è anche
una sospensione (un’epoché), distoglie lo sguardo dall’ente e lo orienta verso... nulla. Come tale, però, essa non è il frutto, come la «riduzione», di un esercizio, di una disciplina, di un atteggiamento metodico, quanto piuttosto del «destarsi» di una particolare Stimmung o di
una Befindlichkeit: l’angoscia, la noia... Ora: in queste tonalità, che ci
pongono di fronte a(l) nulla, noi non ci troviamo occasionalmente, ma
– sempre. Solo che non ci badiamo, non ci prestiamo attenzione, le
rimuoviamo o le copriamo con altre più tranquillizzanti (per quanto
fondamentale una tonalità è cosiffatta da essere sostituita e da lasciar
posto a un’altra). Come custodire e mettere al riparo il bene prezioso,
il segreto, la reliquia impareggiabile di quel «nulla», di quel ni-ente
in cui si dispiega l’essere stesso? Con una decisione che ci decide a
essere-per (quel) nulla. I nomi di questa decisione sono «essere per
la morte» e «sacrificio essenziale». La morte e il sacrificio sono i reliquiari dell’essere e l’introduzione all’esistenza umana.
I mortali sono gli uomini. [...] Solo l’uomo muore. L’animale perisce. [...] La morte è lo scrigno del nulla, ossia di ciò che, sotto tutti i
rispetti, non è mai qualcosa di semplicemente essente, e che tuttavia
è (west), e addirittura si dispiega come il segreto dell’essere stesso.
La morte, in quanto scrigno del nulla, alberga in sé ciò che è essenziale dell’essere (das Wesende des Seins). In quanto scrigno del nulla la
morte è il riparo dell’essere. I mortali ora li chiamiamo mortali non
perché la loro vita terrena finisce, ma perché essi sono capaci della
morte in quanto morte. [...] La metafisica, invece, si rappresenta
l’uomo come animal, come essere vivente. Anche se la ratio penetra
di sé e domina l’animalitas, l’uomo viene definito in base alla vita e
690
al fatto di vivere. Gli animali razionali devono innanzitutto divenire
mortali (HEIDEGGER 2000a, p. 119).
Il «sacrificio essenziale» è l’altro nome di ciò che consente, custodendo l’essere come differenza, di salvaguardare l’essere dell’uomo.
Il sacrificio è il congedo dall’ente sulla via che salvaguardia il favore
dell’essere. [...] Il sacrificio è di casa nell’essenza dell’evento in cui
l’essere reclama l’uomo per la verità dell’essere. Questa è la ragione
per cui il sacrificio non tollera alcun calcolo in base al quale di volta
in volta lo si conta come utile o come inutile, siano gli scopi posti in
alto o in basso (HEIDEGGER 1976a, pp. 264-265).
È per questo motivo che la «cosa» – prima di essere on, res, Ding,
thing – è cosa sacrificale e consacrata, come la brocca posta nel sacrario dell’essere o nel quadrato (Geviert) del mondo. Resta da chiedersi,
però: c’è davvero «sacrificio essenziale» (e cioè «come tale»), sacrificio senza economia e ordine del simbolico? Il sacrificio non è proprio
ciò che produce inter-esse, e de-limita così la purezza dell’esistenza e
della morte? Non è ciò che economizza la morte e la rende fruttifera?
E non è così che assicura ammortamenti e realizza interessi vitali?
Siamo sicuri di comprendere la parola «sacrificio» in modo puramente ontologico ed esistenziale? Siamo sicuri che la sua stessa promessa
di indennità salvifica non sia sovraordinata a un plusvalore vitale?
E che abbia un senso immune dall’enorme e temibile risonanza esistentiva (del capro, del vitello o dell’agnello) che la vincola ai vissuti
e alle vite degli uomini? È possibile pensare l’uomo come «pastore
dell’essere» senza una storia della pastorizia? E la pastorizia dell’essere potrà davvero indennizzarsi e immunizzarsi dall’economia sacrificale
della pecora-pecunia? Se il sacrificio è interamente comandato dal
dispositivo della supplenza e del simbolico (proprio perché, come
Heidegger diceva in Essere e tempo, non c’è sostituzione nella morte);
se esso è il modo di economizzare e co-immunizzare l’aneconomia e
l’in-comunicabilità della morte, come potrà resistere al passaggio e
alla divisione della frontiera ontico-ontologica? Forse la morte e il
sacrificio costituiscono lo «scrigno» dell’essere perché ne sono stati,
da sempre, l’affermazione.
691
7. Congedi
Tutta l’enorme partita della decostruzione heideggeriana della
metafisica si gioca, abbiamo visto, sulla differenza ontologica. Essa
traccia ogni frontiera che divide, come l’uomo dall’animale, il proprio dall’improprio, il sacrificio autentico (ontologico-esistenziale)
da quello inautentico (economico-vitale), il «morire» dal «perire»,
l’esistenza dalla vita, l’azione dal comportamento, il mondo dall’ambiente e così via. Ma se la differenza originaria fosse al tempo stesso
– come la différance di Derrida – una differenza d’origine, un’origine
che differisce e supplice se stessa; se questa differenza dif-ferisse la
stessa differenza essere-ente, se ne ri-piegasse la purezza, allora la
differenza ontologica sarebbe presa in un movimento imprevedibile:
un movimento che non la annulla, certo; anzi, ogni volta la traccia,
la rintraccia e la ri-traccia. E, come la differenza, anche tutte quelle
coppie distintive. Come la differenza, anche l’esistenza dell’uomo si
costituirebbe per differenza, restando così un progetto consegnato
alla vita e alla sua indifferenza e inesistenza.
Che cosa resta, quando – come Heidegger ci dice, ad esempio,
in Tempo ed essere – l’essere «svanisce» e la sua storia si «conclude»?
Quando con l’essere «scompare anche la differenza ontologica»?
Quando è la stessa pulsione o «intenzione» di oltrepassamento della
metafisica a denunciarsi come metafisica? Possiamo forse dire che
l’ultimo pensiero che Heidegger ci ha lasciato – quel pensiero dell’Ereignis che, come gioco di appropriazione-dispropriazione, portava
con sé il «congedo dall’essere», la fine della differenza come differenza pura, indifferibile e indivisibile, e l’abbandono della logica e
della retorica dell’oltrepassamento come abbandono all’abbandono
– ci invita a percorrere la via che, seguendo Derrida, ho cercato qui
di indicare? Non lo sappiamo.
Essere e tempo aveva esplorato la morte come (in-)condizione di ogni
possibile pienezza o riempimento (Ganzheit) della «cura» del Dasein, della sua mancanza mancante. Ciò che al tempo stesso apriva alla
possibilità di ogni «lasciar essere» (Seinlassen) e di ogni rapportarsi
all’ente «come» o «in quanto tale» (als solchem). Nelle ultime parole
de L’animale che dunque sono (parole che ormai dettava a voce), Derrida
692
si chiedeva se tutte quelle frontiere che ho qui ridisegnato (tra l’esistenza e la vita, tra la condotta e il comportamento, tra il con-esistere
e il con-vivere ecc.) e – prima tra tutte – quella che divide l’animale
(o l’animot) e l’uomo passano per la differenza tra l’«in quanto tale»
(proprio dell’uomo) e il «non in quanto tale» proprio dell’animale.
Si chiedeva se si può «sciogliere il rapporto del Dasein (per non dire
dell’uomo) dallo stato di ogni progetto vivente, utilitario, di messa
in prospettiva». Si chiedeva se, come e quando l’esserci acceda all’«in
quanto tale» in quanto tale.
Per rapportarmi al sole così com’è, bisogna che in un certo modo io
mi rapporti al sole così com’è in mia assenza e in effetti è così che
si costituisce l’oggettività, a partire dalla mia morte. Aver rapporto
alla cosa in quanto tale, ponendo che sia possibile, è conoscerla come
essa è, come sarebbe se io non fossi qui. Posso morire o semplicemente uscire dalla stanza, io so che questa continuerà a essere ciò che
è e resterà ciò che è. Per questo la morte è anche una linea di demarcazione così importante, è a partire dalla morte e dalla possibilità di
essere morto che è possibile lasciar essere le cose così come sono, in
mia assenza in qualche modo, e la mia presenza serve solo a rilevare
ciò che la cosa sarà in mia assenza (DERRIDA 2006, pp. 221-222).
Condizione di ogni «in quanto tale», l’«in quanto tale» della
morte non è sempre de-limitato e il-limitato da un «come se» (als
ob)? Non lo è ogni anticipazione, precorrimento o preferimento di
un fine e di una fine? Ma in tal modo, la mia stessa morte non vanifica ciò che promette in quanto lo suppone, e lo ripromette come un
«come se»? Come se quest’«attimo» fosse proprio l’«ora» della mia
morte, come se io fossi già dopo di lei, e mi differissi sopravvivendo
o sovraesistendo in un dopo-giorno. Come se le cose si offrissero a me
come tali solo a condizione della mia assenza, della mia mancanza
anticipata o della mia dipartenza differita. Come se solo allora gli
enti si liberassero dagli intrecci o dagli intralci oscuri e insondabili
della vita e potessero così cantare il loro essere. Ed è proprio così, come
se fosse proprio così. Ma l’«in quanto tale» non si scopre in tal modo
come il supplente o il fantasma di un «come se», che ne cancella da
principio e per principio la purezza? Come se un «come se» abissale
693
operasse per differenza entro la differenza e la differisse dall’origine;
come se la costituisse per differenza, ferendo e differendo la sua sorte.
Come se... come se... o anche, semplicemente come (als), quando,
come quando (als). Per esempio, così:
Quando (Als) nella bianca stanza dell’ospedale della Charité
mi svegliai verso il mattino
e udii il merlo cantare
mi resi conto: da tempo
non avevo più paura della morte. Poiché
nulla può più mancarmi,
posto che io manchi. Ora
riuscivo a rallegrarmi di tutti
i canti dei merli anche dopo di me24.
1
2
3
4
5
6
7
Relazione per un’Accademia, in F. Kafka, Cinque storie di animali, Donzelli, Roma
2000, pp. 7-16.
Ivi, pp. 7-8.
Tusculanae Disputationes, V, 4,10. Il passo di Cicerone è riferito per esteso in CALVO
1989, p. 20: un libro da cui ho preso a prestito numerosi spunti argomentativi,
riferimenti e titoli.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, I, p. 6.
Ivi, p. 8.
Ma l’uomo “chi”? «Ombra di un sogno è l’uomo», diceva Pindaro nell’VIII
Pitica. Sogno di chi? Non lo sappiamo. Questo «sogno», in ogni caso, lo sognano molti uomini. Dopo Pindaro, ad esempio, Calderón de la Barca, Leopardi...
Come recita un’epigrafe inserita nella trasposizione cinematografica delle Mille e
una notte di Pier Paolo Pasolini, «la vita non è un sogno ma molti sogni». Innumerevoli sono le favole degli uomini. E non ce n’è una – per quanto ontologica ed
esistenziale – che lo sia anche in quanto tale (sarà questa la mia tesi). In nessuna
di queste favole, in nessuno di questi sogni troveremo mai una risposta alla domanda dell’uomo, alla domanda sull’uomo. È per questo che quelle favole e quei
sogni sono innumerevoli, come i granelli di sabbia di una spiaggia e come le
vite degli uomini: una per una, uno per uno, infinitamente belle, infinitamente
belli. Und venig Wissen, aber der Freude viel/ Ist Sterblichen gegeben (E poco sapere
ma molta gioia è data ai mortali), diceva Hölderlin. Cfr. F. Hölderlin, Le liriche,
Adelphi, Milano 1993, p. 892.
Questo compimento (Aufhebung?) non significa che, dopo Nietzsche, non ci saranno più discorsi antropologici, ma al contrario che ogni discorso sull’uomo sarà
694
ricompreso da questo punto finale e, quindi, non esprimerà più alcuna questione
metafisicamente o filosoficamente rilevante. «Con la metafisica di Nietzsche la
filosofia è compiuta. Ciò vuol dire che ha percorso tutto l’arco delle possibilità
che le erano assegnate» (HEIDEGGER 2000a, p. 54).
8
Anche se, dopo il lungo e duro confronto con Nietzsche, qualcosa di questo progetto è rimasto invischiato nella filosofia di Heidegger. Relativamente a questo
punto, sarebbero necessarie interminabili analisi, ma qui mi preme piuttosto
ricordare come, nella filosofia del nostro tempo, il pensiero di Nietzsche sia stato
ripreso attraverso altre e persino alternative interpretazioni in Massimo Cacciari, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Giorgio Colli, Didier Franck (solo per fare
alcuni nomi).
9
Di questa scorta, che spero continui ad avere la benevolenza di non abbandonarmi, mi avvarrò, senza poter richiamare i suoi testi se non di scorcio. Per quanto
riguarda la questione che stiamo qui affrontando, ricordo in particolare: Fini
dell’uomo (in DERRIDA 1972a) e DERRIDA 1987a e 2006. Sulla questione della
«macchina antropologica», cfr. AGAMBEN 2002.
10
«Questione di ritorno» è la traduzione di una traduzione derridiana di quella
Rückfrage di Husserl, in cui Derrida rimarcava il tratto della «risonanza postate
ed epistolare di una comunicazione a distanza»: «Come la Rückfrage, la question
en retour si pone a partire da un primo invio. A partire dal documento ricevuto e già
leggibile, mi è data la possibilità di interrogare di nuovo e en retour l’intenzione
originaria e finale di ciò che mi è stato lasciato dalla tradizione» (DERRIDA 1962,
p. 99): un carattere particolarmente opportuno, mi pare, nel caso di un Brief.
11
FERRARIO 2006, p. 300 sgg.
12
Certamente non potremo dire a partire da quando un uomo abbia potuto rispondersi così. Questa risposta – lo sappiamo con una sicurezza che va al di là di
ogni dubbio – è stata raggiunta molto prima che si formasse la nostra coscienza
(o «cattiva coscienza», come a volte la chiama Levinas) di Europei; molto prima
di ogni esplorazione di continenti (ben presto colonizzati) e dell’incontro con
popolazioni fino ad allora sconosciute; e naturalmente molto prima di ogni costruzione di psicologie o antropologie umane; molto prima dell’invenzione di
biologie o zoologie discriminatorie, razziste o sessiste. “Uomo”, in qualunque
lingua lo si designi, e qualunque cosa questa parola (o questo quasi-nome proprio)
designi (o non propriamente designi) nelle diverse lingue parlate dagli uomini,
dice semplicemente questa relazione. Anche se di certe azioni diciamo che sono
inumane, disumane, “bestiali” (giustificazione ipocrita, tipicamente umana),
sappiamo in realtà benissimo che coloro che le hanno compiute (e che definiamo
“lupi”, “bruti”, “mostri”) sono uomini proprio come coloro ai quali sono state
inflitte (anche se venivano chiamati “cani” o dichiarati degni di null’altro che di
essere “schiacciati come pidocchi”). Nessuna delle peggiori cose che gli uomini
fanno (e di questi tempi, i limiti al peggio che si credevano insuperabili crollano
come castelli di carte) è meno che umana. È banale, ma non inutile ricordarlo.
L’incontro tra gli europei “civilizzati” guidati da Colombo e gli indigeni “sel-
695
vaggi” dell’America fu un incontro tra uomini che si sapevano perfettamente tali
(tali e quali). Come dimostra anche semplicemente il fatto che, sulle prime, fu un
incontro ospitale, basato sul rituale – con ogni probabilità non esclusivamente
umano – dello scambio di doni. L’imprevisto incontro faccia a faccia, narrato
nel Girasole di Wiesenthal, tra il “superuomo” Karl (il giovane SS la cui mente
era stata sconvolta dall’ideologia nazista, e che aveva da poco trucidato bambini
ebrei come fossero maiali) e il “sottouomo” Simon (prigioniero nello spazio o
nel macello di un lager) è un incontro tra due uomini. Come avvertivano – perfettamente – entrambi. Come altrimenti giustificare la richiesta di perdono? Su
alcuni aspetti della scena di questo incontro cfr. FERRARIO 2006, p. 345 sgg.
13
F. Nietzsche, op. cit., p. 6.
14
Cfr. CALVO 1989, p. 215 sgg.
15
La parola “comunità” rende male l’originale greco. A differenza della communitas
latina (come co-immunitas) l’espressione greca koinonia esprime semplicemente
(almeno in quanto espressione) il tratto del “con” o dell’“insieme”.
16
Anche se questa è la più grande delle bestialità umane: quella che per l’appunto
ci fa definire bestiali, per discolpare noi stessi, le cose umane-disumane di cui
siamo capaci. Lo sappiamo tutti, soprattutto i bambini: «Il bimbo non mostra
alcuna traccia di quella alterigia che più tardi induce l’adulto civilizzato a tracciare una rigida demarcazione tra la propria natura e quella di tutte le altre creature». Cfr. S. Freud, Totem e tabù, in id., Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989,
vol. 7, p. 131 (ma tutto il capitolo andrebbe riletto parola per parola).
17
In numerose opere – tra cui in particolare ricordo GIRARD 1978 e 1982 – René
Girard ha fatto propria, “applicandola” all’interpretazione del fenomeno del sacrificio, la logica derridiana del supplemento. La breve osservazione a cui si riferisce questa nota, e che ho incluso nel mio testo come invito a una futura ricerca,
ci indica forse perché questa applicazione sembri essere tanto promettente. Un
capitolo notevole sulla questione del sacrificio si aprirebbe a partire da un confronto delle tesi di Girard e di Derrida con quelle contenute in numerosi testi di
Agamben, a partire da Homo sacer (AGAMBEN 1995).
18
S. Freud, op. cit., p. 148.
19
I. Kant, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 9. Corsivi miei.
20
Cfr. DERRIDA 1967a, pp. 40-41. Questo confronto aprirebbe un discorso immenso, che tuttavia credo sarebbe opportuno incominciare a fare. Si tenga anche
presente che è a partire da nozioni come quelle che ho richiamato che Husserl e
Heidegger si sono reciprocamente scambiati l’accusa di una ricaduta della fenomenologia nell’antropologia; e che le parole che ho citato nel testo fanno eco a
quella différance attraverso cui Derrida metteva in questione la stessa «differenza
ontologica» di Heidegger.
21
Ciò che significa «mettere fuori gioco» la tradizionale opposizione tra essenza
come «possibilità» (distinta dalla «realtà» o «effettività») e «attualità» (intesa
come oggettività o «semplice presenza»); e così far saltare ogni impostazione
antropologica e umanistica.
696
Ek-sistenz: disortografia a cui ricorre Heidegger per distinguere in «contenuto» e
«forma» l’esistenza umana da quell’existentia che la tradizione metafisica intende
come actualitas o realtà in contrapposizione alla possibilità.
23
Cfr, specialmente, DERRIDA 1987a e DERRIDA 2006.
24
B. Brecht, Poesie, Einaudi, Torino 1992, p. 287.
22
697
VERITÀ
di Paolo Vinci
Heidegger, nel dipanare il suo cammino di pensiero dalla prima guerra mondiale fino agli anni Settanta, ininterrottamente parla
della verità, intrecciandola inestricabilmente al centro propulsore di
tutta la sua filosofia, alla questione dell’essere. Vorrei, per quanto mi
riguarda, prendere le mosse dai primi anni Trenta, dal testo La dottrina platonica della verità (HEIDEGGER 1976a, pp. 159-192), in cui troviamo un decisivo commento del mito della caverna. Il centro della
posizione di Platone in ordine alla questione della verità, a giudizio
di Heidegger, risiede nel fare della visione delle idee la condizione di
possibilità del percepire questa o quella cosa. Abbiamo qui il primo
elemento essenziale per una ricognizione sul tentativo heideggeriano
di prendere le distanze dal come la verità sia venuta a presentarsi
all’interno della tradizione metafisica. In Platone l’idea è l’evidenza che costituisce l’orizzonte di visibilità delle cose, essa costituisce
quel centro di illuminazione a partire dal quale possiamo incontrare
ciò che ci circonda (HEIDEGGER 1976a, p. 176). In questa prospettiva
risulta fondamentale saper guardare in modo giusto: è l’evidenza a
fornire il paradigma di quell’esattezza, in virtù della quale il vedere
ed il conoscere diventano qualcosa di corretto. La visione è un «dirigersi» (Richtung) verso ciò che deve essere visto e un conformarsi ad
698
esso. In questo corrispondere della visione si costituisce una omoiosis,
una concordanza del conoscere con la cosa. La verità come adaequatio
nasce dalla verità come Richtigkeit, come orthotes, cioè come correttezza dello sguardo rispetto all’idea come evidenza, come ciò che si offre
alla vista. A partire da qui la verità avrà a che fare con la concordanza dei nostri enunciati e delle nostre asserzioni con ciò a cui questi
enunciati e queste asserzioni si riferiscono.
Tutto lo sforzo heideggeriano circa la questione della verità consisterà, allora, nella messa in questione di questa concezione della
verità come adaequatio, nel problematizzarne l’«ovvietà», nel considerarla un retrocedere di fronte all’essenza originaria della verità,
intesa come aletheia, non-nascondimento1. Prima dell’imporsi di una
visione della verità come concordanza, la nostra tradizione ci ha dunque consegnato un’altra esperienza della verità, in cui essa assumeva
i tratti dell’aletheia, la quale non ha a che fare innanzitutto con l’atteggiamento dell’uomo, con i suoi discorsi e giudizi, ma coincide
con il presentarsi stesso degli enti. Heidegger ci segnala dunque un
cambiamento decisivo, uno spostamento rispetto al luogo della verità, che originariamente non viene considerato come attenente al
Logos, ma agli enti stessi. Platone sancisce così una «secessione del
logos», nel senso che a partire dalla sua filosofia il discorso umano si
stacca da ciò che si manifesta, venendo ad assumere una dimensione
autonoma (HEIDEGGER 1983b, p. 185). Vediamo così che nel pensiero heideggeriano la metafisica, oltre che come storia dell’essere,
deve venir considerata come un ininterrotto confronto con l’essenza
della verità, la quale viene a indicare la coappartenenza originaria fra
l’essere e l’uomo. Quel che Heidegger si propone è allora, innanzitutto, dar conto della forma inevitabilmente metafisica che il legame
inscindibile fra l’essere e l’uomo è venuto ad assumere.
Per approfondire l’intento heideggeriano, vorrei ora prendere in
considerazione il seminario tenuto a Le Thor nel 1969, che rappresenta uno dei luoghi in cui appare esplicita, da parte di Heidegger, una
disposizione auto-interpretativa, vale a dire il tentativo di offrire un
chiarimento di se stesso, la volontà di presentarci in modo concentrato il decorso della propria filosofia (HEIDEGGER 1986b, pp. 89-144).
Nella visione heideggeriana la domanda della metafisica coincide
699
con la domanda dell’essere, inteso, però, come essere dell’ente: la
metafisica, assumendo l’essere come fondamento, lo riduce all’enticità dell’ente, si interroga solo sulla specificità dell’esser-ente e perde
la possibilità di rivolgersi all’essere in quanto essere. La concezione
platonica dell’idea rientra in questa impostazione, per cui l’essere è
l’orizzonte, l’ambito di visibilità degli enti. In questo modo, però,
tra essere ed enti resta un’omogeneità di fondo, l’essere risulta inindagato nel suo “proprio”, si produce quello che Heidegger definisce
l’oblio dell’essere, il venir meno della differenza ontologica.
Parlando di se stesso, Heidegger precisa che la domanda sul senso
dell’essere, propria di Essere e tempo, sollevava già la questione dell’essere in quanto essere, proponenendosi una «distruzione» (Destruktion) della storia dell’ontologia. Egli precisa però di essere andato
oltre questa domanda per porre al centro del suo pensiero la «domanda sulla verità dell’essere» e approdare, infine, a interrogarsi sul
«luogo o località dell’essere» (HEIDEGGER 1986b, p. 112). Da queste
scarne, ma incisive affermazioni, ricaviamo innanzitutto che lo sforzo
di pensiero heideggeriano può venir configurato come un cammino
in tre tappe, che si interroga in successione sul senso dell’essere, sulla
verità dell’essere e infine sfocia in una visione del pensiero come topologia dell’essere. L’insieme di questo decorso deve essere interpretato come un tentativo, sempre più radicale, di messa in questione
dei presupposti della tradizione metafisica.
Rispetto a questi diversi momenti della riformulazione heideggeriana della questione fondamentale della filosofia, ci interessa in
particolare vedere come la «correttezza dell’asserzione» risulti assolutamente non all’altezza della domanda sulla «verità dell’essere».
Heidegger è perentorio:
l’espressione verità dell’essere, se si intende correttezza dell’asserzione non ha nessun senso. Verità, al contrario viene intesa qui come
‘svelatezza’, e ancora più precisamente, se ci si pone nell’ottica dell’esserci, come radura (Lichtung). Verità dell’essere significa radura
dell’essere (HEIDEGGER 1986b, p. 112).
Il punto sta dunque nel comprendere che cosa significa la trasformazione della domanda sul senso dell’essere in quella sulla verità del700
l’essere, vale a dire perché la posizione di Essere e tempo, in cui il senso
aveva a che fare con il progetto, in quanto movimento di attuazione
dell’esserci, di quell’ente che noi stessi sempre siamo, ha dovuto essere abbandonata. Il disvelare, che in Essere e tempo costituisce la verità,
risultava legato innanzitutto alla possibilità dell’uomo di accedere al
proprio essere e, a partire da qui, di formare un orizzonte in cui gli
enti venissero a manifestarsi. In un clima filosofico prevalentemente
neokantiano la domanda sul senso dell’essere assumeva certo, già di
per se stessa, un carattere dirompente, ma poi i modi di svolgimento
della questione e, in particolare la centralità del Dasein, rischiavano
di riprodurre un’impostazione di tipo trascendentale. Abbandonare
il punto di vista di Essere e tempo voleva dunque significare mettersi
in cammino verso l’apertura dell’essere stesso e non limitarsi a considerare l’apertura dell’esserci nei confronti dell’essere: «la svolta» è rivolgersi «sempre più risolutamente all’essere in quanto essere» e, in
questa prospettiva, non si deve più pensare un senso dell’essere, ma
una sua apertura (HEIDEGGER 1986b, p. 113). Questa apertura però,
così come il senso, – è questo un punto interpretativo che considero
decisivo – continua ad avere a che fare con noi, con la posizione dell’uomo, così che la questione della verità risulta sempre connessa con
la determinazione del rapporto fra l’uomo e l’essere. La «svolta» del
mettersi «più risolutamente» dalla parte dell’essere consiste essenzialmente nella capacità dell’uomo di pensare l’apertura come una
dimensione che è, contemporaneamente, sua e dell’essere. L’apertura
si dispiegherà – come vedremo – solo se i comportamenti umani
verso gli enti si configureranno secondo modalità inedite: se il nostro
pensare, parlare e fare si presenteranno come un abbandono dell’autosufficienza dell’uomo, come il riconoscimento del loro necessario
venir ricompresi nell’essere.
Un aspetto essenziale di questo intento, che Heidegger dispiega
a partire dagli anni Trenta, comporta il fare i conti con il «grande
inizio» della nostra tradizione, vale a dire il misurarsi col significato
originario che i greci attribuivano agli enti, interpretandoli come
ta alethea, ciò che è manifesto nella svelatezza o, il che è uguale,
assumendoli come ta phainomena, ciò che si mostra da se stesso (HEIDEGGER 1986b, p. 90). Il fenomeno in senso greco viene dunque a
701
coincidere con la cosa in sé: ciò che è presente e ciò che si mostra da
sé si rivelano un tutt’uno. Questa visione originaria degli enti è da
contrapporre a quella propria della metafisica soggettivistica e trascendentale della modernità: per i greci le cose appaiono, per Kant e
per noi moderni, le cose ci appaiono (HEIDEGGER 1986b, p. 92).
La domanda da porsi nei confronti dell’atteggiamento ontologico
dei greci diventa allora: per mezzo di che cosa sono possibili i fenomeni? Qual’è la loro condizione di possibilità? A questo interrogativo dobbiamo rispondere individuando nell’aletheia la dimensione
che presiede e determina la manifestatività degli enti. Impostando la
cosa in questi termini, facendo coincidere la verità con la condizione
di possibilità dei fenomeni, Heidegger, nonostante tutti i suoi sforzi di rottura con la tradizione, mostra di restare comunque legato,
nell’interpretare la metafisica, a un’idea di verità come orizzonte di
manifestazione degli enti, intendendola come ciò per mezzo di cui i
fenomeni possono apparire. Questa visione trascendentale si impone
comunque come la chiave di lettura heideggeriana del “destino” metafisico della verità.
L’essere della metafisica, così inestricabilmente avviluppato alla
visione della verità come aletheia, è interpretato in un’accezione trascendentalistica, così che il fare i conti heideggeriano con l’ontologia tradizionale si configura innanzitutto come un intervento sul
carattere di questo orizzonte che, come essere e verità, costituisce lo
sfondo del venire alla presenza degli enti. Esso è all’opera in ogni
rivolgersi umano agli enti, ed è a partire da questo orizzonte che capiamo perché i greci ebbero «la capacità estatica di lasciarsi rivolgere
la parola dei fenomeni», mentre «l’uomo moderno rivolge la parola
solo a se stesso» (HEIDEGGER 1986b, p. 94). L’aletheia accade a partire
dal thaumazein, che è la tonalità emotiva che spinge l’uomo a rivolgersi estaticamente fuori di sé, così che gli enti possano esprimersi,
manifestarsi partendo da se stessi, senza una predeterminazione del
nostro intervento, che dovrà assumere il carattere di un lasciare apparire e di un accogliere.
I greci ci hanno dunque consegnato questa esperienza originaria
dell’ente come fenomeno e, quindi, una visione dalla verità come
l’orizzonte che lo rende possibile, in altre parole, per loro la verità
702
come manifestatività costituisce lo sfondo ineludibile di ogni manifestarsi. L’inizio greco appare allora come qualcosa su cui continuare
a meditare, è alla sua altezza che comprendiamo che cos’è la metafisica e quale possa essere il significato della verità come aletheia2. Sulla
scorta di questa convinzione di fondo una domanda diventa centrale,
essa riguarda esattamente l’interpretazione dell’alpha privativo posto
dinanzi all’a-letheia, la quale va intesa non come negazione, ma come
«eccedenza». In questo modo l’aletheia ci induce a pensare che gli
enti che si manifestano vengono alla presenza dalla non-presenza e
che dunque la velatezza, coincidente con l’alpha privativo, è la fonte
da cui scaturiscono gli enti nel loro essere fenomeni. La privazione si
esprime attraverso la mancanza e questa si dischiude nella differenza
fra eidos ed eidolon (HEIDEGGER 1986b, p. 97). Ogni ente determinato
è un eidolon e non è eidos e così è un me on, in quanto non è ciò che lo
fa essere quell’ente che è, ma, nello stesso tempo, non è un ouk on, un
niente, un non ente, perché ha un esistenza. La differenza tra la verità
e gli enti che appaiono in essa, si esprime dunque in un “non” che
riguarda entrambi: ad esserci sono gli enti, i quali tuttavia rimandano a un’assenza di ciò che costituisce la loro dimensione originaria,
assenza che li confina in se stessi, li segna della negatività del loro
essere semplicemente degli enti. La mancanza dell’essere, in questo
modo, è piena di quella che potremmo chiamare una nuda onticità.
In Aristotele compare la medesima distinzione fra il piano degli enti
e quello che conferisce loro essere: gli enti sono kinomena, ciò che
appare come movimento sulla base della kinesis che poi è energheia,
la massima determinazione dell’essere stesso (HEIDEGGER 1986b, p.
123).
Qualsiasi interpretazione di questo discorso sulla verità deve fare i
conti con la sua «eccedenza» rispetto agli enti che ci appaiono. Tutto
ciò rende possibile affermare che nella verità, così come è intesa da
Heidegger, c’è un lato traumatico, perché essa implica l’assunzione,
per noi uomini, del vivere nella non-verità, nel senso che la nostra
storia ha a che fare sempre solo con gli enti e mai con l’essere in
quanto tale. Se la verità è storicamente accaduta come non-verità,
affermarlo significa interpretare come tali tutte le “soluzioni” ultime
che le filosofie e le religioni ci hanno offerto. La storia della metafisi703
ca, in questa luce, appare allora come una traduzione dell’essere nel
pensiero e nel linguaggio umano e, quindi, come un venir meno del
suo “proprio”. Il nominare heideggeriano la mancanza dell’essere, la
perdita della eccedenza non vuole rimandare a un “Dio nascosto” da
invocare o attendere, ma piuttosto portarci ad ammettere il nostro
soggiornare nella nuda onticità.
Si tratta di non equivocare sul significato dell’assenza dell’essere:
innanzitutto essa è “piena” dell’onticità costituita dagli enti e dall’essere, così come è stato pensato nella tradizione, ma – ed è questa
la cosa decisiva – l’assenza, il venir meno dell’essere costituiscono la
forma della sua presenza, così che diventa impossibile prescinderne.
L’alternativa riguarda esclusivamente la consapevolezza o meno che
si può avere del sottrarsi dell’essere. La metafisica interpreta se stessa
come il venire alla presenza dell’essere e ignora che ciò coincide con
la sua assenza. Il pensiero preparatorio, che Heidegger ci prospetta,
vuole indurci a meditare su questa assenza, liberando, sulla base della
sua accettazione, un nuovo modo di rivolgerci agli enti.
Heidegger cerca di esprimere tutto ciò nell’Ereignis, sulla base del
quale dovremmo riuscire a pensare che il «proprio» dell’essere è il
suo traspropriarsi nella storia umana, la quale a sua volta può venir
intesa solo nella suo venir appropriata all’essere3. Nel pensiero dell’Ereignis, che corrisponde alla nozione con cui Heidegger riformula
dal suo punto di vista la questione della verità, c’è innanzitutto lo
sforzo di assumere la co-originarietà fra uomo ed essere in una relazione immanente che non collega due termini già determinati nel
loro “proprio”, ma li fa essere in un legame che implica per ognuno
una differenza interna, vale a dire una non coincidenza con se stesso.
In questo senso il “proprio” è una traspropriazione, per cui sia la
nozione di sostanza, per l’essere, che quella di soggetto, per l’uomo,
vengono meno, nell’impossibilità di una loro indipendenza e autosufficienza rispetto all’altro.
Questo modo di prospettare le cose dovrebbe impedire di leggere unilateralmente Heidegger come un pensatore solo dell’essere
o, sulla base del suo venir meno, solo della esistenza o della storia umana. Affermare che la nostra storia è segnata dal nichilismo
e da una «erranza necessaria» vuol dire essenzialmente destituirla
704
di quell’“istinto” di autosufficienza che si è espresso nella metafisica
e nella sua pretesa di raggiungere, di volta in volta, il fondamento
ultimo e onnicomprensivo degli enti. L’intento di Heidegger è decostruttivo e relativizzante, cioè si configura, per un suo aspetto, come
un invito a rileggere i grandi filosofi del passato, interrogandosi sul
loro «impensato» e non detto, sui presupposti impliciti che li hanno,
loro malgrado, condizionati. Tutto ciò però non significa interpretare
il «congedo» dell’essere, vale a dire ciò che la metafisica non vede in
quanto per così dire lo “incarna” in se stessa, come l’inizio di una
salutare stagione post-metafisica e post-moderna. Accettare il piano
della finitezza, tanto dell’uomo, quanto dell’essere, vuol dire essere
in grado di non ricorrere a quella grande protesi protettiva che è
stata l’onto-teo-logia e, sulla base del riconoscimento che l’assenza
dell’essere è la forma della sua presenza, preparare un «altro inizio».
Questo lavoro, affidato a un pensiero che prende dimora nell’Ereignis,
implica essenzialmente un modo inedito di rivolgersi alle cose, che
costituisce il versante, per così dire, positivo della presa di distanza
delle modalità con cui la verità è stata pensata nella tradizione.
La verità, abbiamo visto, è sempre per Heidegger l’apertura nella
quale gli enti vengono alla presenza, e ciò vale anche per l’aletheia
del pensiero aurorale, che costituisce nella sua manifestatività la dimensione sempre già data e determinante nel nostro rivolgerci agli
enti. Nel corso della metafisica, poi, dall’aletheia si è arrivati a quella
forma di verità costituito dal Ge-stell, l’orizzonte della tecnica dominante nella nostra epoca. Per lasciar essere gli enti, cioè non ridurli a
utilizzabili, a oggetti, a fondi disponibili, a rappresentazioni, occorre
togliere alla verità ogni carattere di orizzonte ontologico-trascendentale. Ciò significa non ricondurre gli enti a una struttura anticipante
che siamo noi a mettere in campo e che ne determina a priori la manifestatività. Quando Heidegger parla di una nuova «dislocazione
del pensiero» ha in mente proprio questo, prospettare un’apertura
che non sia un orizzonte di senso precostituito e disposto da noi, ma
che accada simultaneamente all’apparire delle cose stesse.
Per mostrare questo che mi sembra il risultato più significativo
della messa in questione heideggeriana delle accezioni tradizionali
della verità vorrei soffermarmi sulla conferenza del ’51 dal titolo: Co705
struire, abitare e pensare (HEIDEGGER 2000a, pp. 96-108). Qui è possibile prendere le mosse da tre affermazioni heideggeriane da cogliere
nella loro unità immanente:
L’abitare è il tratto fondamentale dell’essere in conformità del quale
i mortali sono.[…] I mortali sono sempre ancora in cerca dell’essenza dell’abitare: che essi debbono innanzitutto imparare ad abitare.
[…] appena l’uomo riflette sulla propria sradicatezza, questa non è
più una miseria. Essa invece, considerata giustamente e tenuta da
conto, è l’unico appello che chiama i mortali all’abitare (HEIDEGGER
2000a, pp. 107-108).
Innanzitutto bisogna dunque aver chiaro che l’abitare è il modo
d’essere dell’uomo nella sua costitutiva appartenenza all’essere. Non
possiamo parlare dell’essere dell’uomo se non in questo legame, per
cui noi siamo un’apertura che è anche una fenditura dell’essere, un
suo differenziarsi da se stesso. Heidegger in un altro testo molto significativo che raccoglie le conferenze di Brema parla di una sorta di
spaccatura interna all’essere per cui esso «si trova da sé in una contrapposizione», così che «dà la caccia a se stesso» (HEIDEGGER 1994,
p. 80). Solo una «topologia dell’essere» può allora determinare il
nostro luogo, in una sorta di spazialità costitutiva della verità e dell’uomo, a partire dalla quale sarà poi esperibile un modo inedito di
intendere lo spazio. L’apertura è dell’essere, ma questa apertura siamo
noi e ciò comporta uno Zwischen-fall, un incidente, una lacerazione
costitutiva dell’essere.
L’abitare è il nostro modo d’essere, ciò che siamo, ma ciò è finora
rimasto nascosto lungo quel grande coprimento che è stata la metafisica. Per noi l’abitare è dunque un “già-non ancora”, esprime quel
che siamo, ma che finora è rimasto impensato e distorto nella nostra
storia. L’oblio dell’essere è così coincidente col fatto che l’uomo si è
autointerpretato in modo inadeguato, così da mancare l’accesso al
proprio essere e da non realizzare il proprio genuino dispiegamento.
Tutto ciò, la dimenticanza dell’essere e la perdita del nostro essere,
accade in massimo grado in quella forma di vita in cui ci troviamo
oggi e che Heidegger chiama l’epoca della tecnica, tentando di pensarne l’essenza attraverso la nozione di Ge-stell4.
706
La terza affermazione da cui siamo partiti può illuminare un punto essenziale che è stato quasi sempre frainteso nelle interpretazioni
della filosofia heideggeriana. L’«appello dell’essere» non è altro che
un nostro rivolgimento, una metamorfosi dell’uomo, quel lasciare
manifestare il nostro essere per cui occorre una meditazione, Besinnung, che vuol dire un «impegnarsi nel senso» e «seguirne la via»5.
L’appello non implica nessuna voce mitica dell’essere, ma coincide
con la nostra capacità di avvertire, nell’onnipotenza della tecnica,
una mancanza decisiva: l’appello è il nostro meditare sulla nostra
indigenza e sradicatezza, coincide con la nostra capacità di accettarla,
pur all’interno dell’onnipotenza della tecnica.
Il Ge-stell è per Heidegger una dimensione di auto-referenzialità,
esso come stadio più alto della metafisica mostra una «onnipotenza»
che coincide con un rassicurante presentarci tutto ciò che incontriamo come qualcosa di disponibile illimitatamente. Certo, noi uomini
come singoli individui non viviamo immediatamente questa onnipotenza. Heidegger non nega che il nostro vissuto individuale sia sotto
il segno del pluralismo, della frammentazione, del relativismo, ma
ciò accade comunque a partire da un nostro soggiacere a qualcosa di
unico, di compatto, di onniavvolgente che è appunto il dispiegamento planetario della tecnica. Possiamo come individui esperire un radicale senso di insicurezza, ma per Heidegger le risposte di fondo in cui
inscriviamo la nostra precarietà, siano esse di tipo filosofico, religioso
o scientifico, non l’assumono in quanto tale, ma la trasfigurano, operando una irrimediabile rimozione della nostra indigenza e finitezza.
Allora, cogliere l’abbandono dell’essere significa “ferire” la pretesa
di iscrivere gli enti in una dimensione che li riconduce a noi. Mettere
in questione la verità diventa il tentativo di prendere le distanze dal
suo presentarsi tecnico come un orizzonte di senso predeterminato
e onnicomprensivo. Abitare significa proprio questo: riorientare i
nostri comportamenti essenziali al di fuori di ogni struttura ontologico-trascendentale che si impone a priori su tutto ciò che incontriamo. Il nostro modo di pensare, parlare, fare deve dispiegarsi a partire
da uno sfondamento dell’orizzonte di senso in cui ci muoviamo.
Tutto ciò richiede il risveglio di una tonalità emotiva adeguata
che Heidegger individua nella Verhaltenheit, nel ritegno, intendendo
707
una disposizione che accompagna l’avvertire l’indigenza, la precarietà, rinunciando a ricorrere a qualcosa che colmi la mancanza e dunque la rimuova6. Solo in questo modo abbandoneremo l’«incuria»
verso le cose e riusciremo a farci concernere da esse:
Pensando così noi siamo chiamati dalla cosa come cosa. Siamo, nel
senso più letterale della parola i Be-Dingten, coloro che hanno cose,
e sono perciò condizionati (bedingten). Abbiamo lasciato alle spalle
ogni pretesa di incondizionatezza (HEIDEGGER 2000a, p. 121).
L’abitare è dunque «un soggiornare presso le cose» ed accadrà
esclusivamente in un loro aver cura risparmiante (HEIDEGGER 2000a,
p. 101). Detto questo, Heidegger sottolinea che «le cose albergano
e danno riparo alla Quadratura solo quando esse stesse sono lasciate
essere nella loro essenza di cose», prospettandoci una decisiva simultaneità fra il manifestarsi delle cose in se stesse e l’aprirsi di una
dimensione veritativa, che depone ogni carattere ontologico-trascendentale (HEIDEGGER 2000a, p. 101).
Il Geviert, la Quadratura, appare, allora, come una radicale messa
in questione della verità così come si è configurata nella tradizione.
Esso esprime una dimensione che non preesiste alle cose, ma si dispiega a partire da un comportamento umano capace di salvaguardarle. Nell’accadere dell’essere delle cose verranno a raccogliersi le
mobili direzioni aperte della terra, del cielo, dei divini e dei mortali,
che Heidegger prospetta come “ciò che resta” una volta che ci sia sottratti a qualsivoglia fondamento avente un carattere onto-teo-logico.
Il prendersi cura delle cose richiede che l’uomo non padroneggi e
sfrutti la terra, ma la salvi come l’indischiudibile, come quel sostegno del nostro abitare che bisogna saper custodire. Contemporaneamente l’uomo ammetterà, nell’«accogliere» il cielo, che vi è qualcosa
di “più alto” di lui, a partire dal quale attendere, nella loro «estraneità», i divini, diventando, nello stesso tempo, capace di essere mortale, cioè di non coprire la propria finitezza. L’abitare ha dunque come
carattere essenziale un’apertura verso le cose, in un auto-limitarsi
del comportamento dell’uomo che si configura come una rinuncia ad
iscrivere le cose preventivamente in un nostro orizzonte.
708
Siamo davanti all’esito ultimo del discorso heideggeriano sulla
verità che viene a modularsi di volta in volta sulle nozioni di Mondo,
Quadratura ed Ereignis:
L’unità della Quadratura è lo squadrare (die Vierung). […] Lo squadrare si dispiega come facente-avvenire-traspropriante gioco di
specchi dei Quattro che sono affidati l’uno all’altro nella semplicità.
Lo squadrare si dispiega come mondeggiare del mondo. Il gioco di
specchi del mondo è la danza circolare del far-avvenire-traspropriante (der Reigen des Ereignens) […] L’essenza raccolta di questo inanellantesi (ringende) gioco di specchi del mondo è il ‘giro’ (Gering) (HEIDEGGER 2000a, p. 120).
Il rivolgersi alle cose capace di far accadere questa dimensione
che Heidegger nomina in termini di Mondo, Quadratura ed Ereignis assume una modalità simile a quella a cui ricorrono i poeti nel
trattare le parole: si tratta di un lasciar manifestare che parte dalle
cose e non da se stesso e che, nell’autolimitarsi, salvaguarda un loro
tratto ineliminabile di estraneità. In questo modo diventa possibile
guadagnare la ricchezza delle cose, il loro carattere non saturo, l’inesauribilità della loro riserva di senso. Quando Heidegger afferma che
«nella misura in cui noi prendiamo cura della cosa come cosa, noi
abitiamo la vicinanza» prospetta una prossimità che è distanziamento, perché le cose sono lasciate essere, salvaguardate nel loro carattere
inassimilabile (HEIDEGGER 2000a, p. 121). In questo modo, rinunciando ai nostri comportamenti violenti e appropriativi, produciamo
un rivolgimento decisivo rispetto al nostro modo consueto di pensare
e parlare: invertiamo la via che va dalle cose ai simboli. Ciò significa
ammettere che partendo sempre dalle nostre teorie e dai nostri concetti abbiamo volto le spalle alle cose stesse, alla quota di estraneità
che esse sempre contengono.
Heidegger parla di un «abbandono» alle cose, il manifestarsi del
loro essere ci farà guadagnare la loro ricchezza, ma nello stesso tempo
si mostra come «qualcosa di poco conto» (gering) (HEIDEGGER 2000a,
p. 121). Questo è il risultato ultimo dello sforzo heideggeriano di
sottrarsi alla inevitabilità metafisica insita nel carattere ontologico709
trascendentale della verità. Il Mondo, la Quadratura e l’Ereignis costituiscono dunque quell’inedita dimensione della verità che potrà
accadere solo simultaneamente al manifestarsi delle cose, in un apparire, di volta in volta, di una singola cosa come «qualcosa di modesto,
non appariscente e docile nella sua essenza» (HEIDEGGER 2000a, p.
121). In questo modo le cose si mostreranno piccole, di poco conto,
modeste, ma solo così potranno essere finalmente se stesse. Tutto ciò
ci rimanda alle conclusioni del saggio sulla tecnica, che si sviluppano
a partire dalla domanda:
Ma a che cosa serve guardare entro la costellazione della verità? Noi
guardiamo dentro il pericolo e scorgiamo il crescere di ciò che salva.
Con ciò non siamo ancora salvati. Ma siamo richiamati da un appello ad aspettare con speranza nella luce crescente di ciò che salva.
Come è possibile? Qui ed ora e in ciò che è di poco conto questo può
accadere, se custodiamo ciò che salva nella sua crescita (HEIDEGGER
2000a, p. 27).
A noi contemporanei è concesso solo questo, dentro l’intrascendibile orizzonte della tecnica, qui ed ora possiamo rivolgerci in modo
diverso alle cose. Questa trasformazione nel nostro atteggiamento è
l’unica risposta possibile al pericolo insito nella modernità. In questo
modo non andremo certo al di là della metafisica e della tecnica, ma
produrremmo comunque una svolta decisiva nella quale le cose potranno manifestarsi. Così esse verranno a rivelarsi «modiche e di poco
conto […] anche nel numero, in confronto all’innumerabilità degli
oggetti ovunque indifferenti» (HEIDEGGER 2000a, p. 122). Il Gering,
ciò che è «poco» viene così ad essere il contrassegno di un’esperienza
possibile delle cose stesse a cui possiamo attribuire il carattere di un
esercizio fenomenologico. Esso sarà un incontro determinato con un
numero finito di cose, un «passo indietro» rispetto al “troppo” di
oggetti, prodotto dal fare della tecnica e dallo sguardo idealizzante
della scienza. Nel liberarci della loro illimitatezza e uniformità riusciremo, di volta in volta, ad ottenere la preziosa unicità di ogni singola cosa. Per realizzare questo intento Heidegger si mostra fino alla
fine del suo cammino di pensiero fedele a quanto aveva annunciato
programmaticamente agli inizi degli anni Trenta:
710
siccome l’essenza della verità, nella sua pienezza, include la nonessenza e si impone e domina innanzitutto come velamento, la filosofia, in quanto domandando cerca questa verità, è in sé discorde. Il
suo pensiero è l’abbandono alla mitezza, che non rifiuta la velatezza
dell’ente nella sua totalità. Il suo pensiero è ancor più la ri-solutezza
del rigore che non sfonda la velatezza, ma costringe la sua essenza
intatta nello spazio aperto del capire e quindi nella sua propria verità
(HEIDEGGER 1976a, p. 154).
Una risolutezza-mite deve dunque improntare ogni nostro pensare, parlare e fare che, solo così, accadranno come un “riferirsi a” che
non si chiude nella cerchia del proprio, ma nell’orientarsi alle cose,
mantiene quella distanza che permette loro di mostrarsi7.
1
2
3
4
5
6
7
Cfr. Esserci, apertura e verità, § 44 di Essere e tempo (HEIDEGGER 1977, pp. 258278).
Sul «primo inizio» greco e sull’«altro inizio» oltre ai Beiträge (HEIDEGGER 1989),
cfr. M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia (HEIDEGGER 1984b).
Sull’Ereignis cfr. M. Heidegger, Tempo ed essere (HEIDEGGER 2007).
M. Heidegger, L’impianto (HEIDEGGER 1994, pp. 45-70).
Sulla meditazione cfr. Scienza e meditazione (HEIDEGGER 2000a, pp. 28-44).
Per la Verhaltenheit cfr. HEIDEGGER 1989, pp. 14 sgg.
Sono convinto non solo delle confrontabilità, ma della particolare sintonia fra la
radicalizzazione heideggeriana della fenomenologia, volta a lasciar manifestare
le cose stesse, e il discorso che Walter Benjamin fa sull’aura e sul carattere unico e irraggiungible dell’opera d’arte prima della sua riproducibilità tecnica. In
particolare nel saggio su Baudelaire, Benjamin parla della memoria involontaria
come sguardo sulle cose che non può mai esaurirsi, perché in essa è implicita
l’attesa di esser riguardati da ciò che si offre. Le immagini che costituiscono il
prodotto di questa forma di memoria, rompono con qualsivoglia orizzonte di
senso totalizzante e cercano nel loro sforzo di concentrazione e intensificazione
di “salvare” ciò che è assolutamente individuale. Esse devono essere capaci di
salvaguardare le cose come «apparizioni uniche di una lontananza», mantenendo quella «guaina» che impedisce il loro possesso ed evita il «vacillare» della
loro «autorità». Cfr. W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus
Novus, ed. it. a cura di R. Solmi., Einaudi, Torino 1981, pp. 89-130 e W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini,
Einaudi, Torino 1991.
711
VITA
di Isabella Aguilar
Nei primissimi anni Venti, Martin Heidegger è un giovane professore dell’università di Friburgo; tra i tanti temi ricorrenti delle sue lezioni, spesso incentrate sulla critica degli accademismi, c’è
l’attacco appassionato al termine Leben, “vita”. Quel che sta a cuore
a Heidegger denunciare è il fatto che nella filosofia del suo tempo
sull’espressione “vita” regni una «singolare confusione» (HEIDEGGER
1985b, p. 114). Se ne parla, si lamenta Heidegger, con «l’intenzione
di riferirsi ad una realtà più ampia, ultima e al tempo stesso significativa: “la vita”» (HEIDEGGER 1985b, p. 114), ma questa troppo
ambiziosa intenzione di fatto si diffrange in una confusa “plurivocità” (Vieldeutigkeit): in particolare, predomina quella «peculiare
accentuazione del suo contenuto che si rivela in espressioni come:
“esperienza di vita” (Lebenserfahrung), “intensificazione della vita”,
“originarietà di vita”, “vita realizzata” e simili» (HEIDEGGER 1985b,
p. 115): espressioni proprie soprattutto delle Lebensphilosophien1. La
cosiddetta filosofia della vita era l’orientamento dominante nella
Germania di inizio Novecento e, come ha scritto il noto storico della
filosofia Schnaedelbach, il concetto di Leben era allora un vero e proprio kultureller Kampfbegriff2, un concetto con cui da più parti veniva
condotta una battaglia culturale, un’arma con cui sferrare attacchi
712
contro l’atteggiamento oggettivante alla base di ogni razionalismo,
idealismo, intellettualismo e convenzionalismo. Il dinamico contro
lo statico, l’organico contro il meccanico, il concreto contro l’astratto, l’intuizione contro l’astrazione dell’intelletto puro: questi erano
i binomi in lotta, una lotta ereditata dal romanticismo che poi però,
sotto l’influsso dell’ultimo Schelling, di Schopenhauer e di Nietzsche
aveva finito per contrapporsi anche e proprio all’idealismo assoluto
della conciliazione tra essere e pensiero; «lo spirito non è che uno
strumento a servizio della vita, sebbene tale che la vita tenda strutturalmente ad autoalienarvisi» (SCHNAEDELBACH 1983, p. 176): questo
nel resoconto di Schneaedebach è il Leitmotiv del primo Novecento,
declinato nei modi più vari da Bergson, Dilthey, Klages, Spengler,
fino anche a Jaspers. Ma proprio questa varietà di declinazione è ciò
che tiene ben presente Heidegger: “spirito” e “vita” sono concetti
incommensurabilmente diversi in ciascuno di quegli autori, come
diverso è il loro rapporto reciproco.
La plurivocità del termine vita quasi cento anni dopo la ritroviamo come cifra distintiva anche del nostro tempo. Il concetto di vita
che domina la fenomenologia materiale di Michel Henry, quello che
difende il più noto erede di Merleau-Ponty, Jan Patočka, quello di
cui parla la filosofia dell’organismo di Hans Jonas o quello a cui si
riferisce Levinas sembrano concetti tra loro inconciliabili. Per non
dire della complessa stratificazione di accezioni che il termine Leben
acquisisce in Husserl, dal corpo vivente (Leib) al mondo-della-vita
(Lebenswelt).
Per assicurarci un punto di partenza sulla questione della vita,
propongo di pensare le infinite accezioni filosofiche del termine dividendole in base a un criterio distintivo: da un lato, quelle concezioni
della “vita” che la attribuiscono esclusivamente all’uomo; dall’altro,
quelle che in diversi modi la comprendono come un concetto inclusivo dei cosiddetti “viventi” tutti (animali, piante: ciò che la scienza
si sforza di definire e che già il senso comune riconosce pacificamente
come “vivente”). Da un lato della nostra partizione vivere è il modo
d’essere dell’uomo, il nostro modo di esistere, di essere nel mondo,
in senso olistico, irriducibile a qualsiasi somma di fattori e non coglibile attraverso un metodo esplicativo. Dall’altro lato della par713
tizione il vivere è inteso come un processo, un automovimento (in
senso aristotelico), che riguarda non solo noi ma tutti i viventi. Da
entrambi i lati della partizione i concetti di metodo adeguati a comprendere il vivere possono essere diversissimi e oscillano a loro volta
tra un estremo naturalistico o empiristico ed uno trascendentale o
coscienzialista. Ma in ogni caso la partizione è indice di un diverso
concetto di responsabilità nei confronti del mistero della vita, del
vivere: l’esigenza di assicurare la vita all’uomo, assicurandogli così
la sua specificità, la sua unicità, e l’esigenza di assicurarla a tutti i
viventi, anche a quelli che non possono propriamente farlo “da sé”,
rispondono, potremmo dire (declinando un concetto derridiano in
termini heideggeriani) a due “tonalità emotive fondamentali” differenti. Ossia, si tratta di due esigenze che sembra tanto proficuo
distinguere quanto comprendere come due aspetti entrambi irriducibili del nostro modo di sentire la nostra condizione e il compito del
pensiero. Ci inoltreremo nella questione della vita utilizzando come
guida il pensiero del primo Heidegger, che sebbene in apparenza non
sia il filosofo più centrale in merito alla nostra voce fenomenologica,
come vedremo ha invece scandagliato profondamente il concetto di
vita in tutta la sua complessità.
1. La prima vita della vita. Heidegger e le Lebensphilosophien
Davanti alla «plurivocità della vita», Heidegger già nei suoi primissimi corsi universitari si pone il compito di risalire, attraverso un
metodo “distruttivo” o “decostruttivo” della tradizione filosofica occidentale, all’origine più autentica di questo concetto. Non si trattava
allora per Heidegger di mostrarne l’inconsistenza, quanto piuttosto
di «abdicare a tutte le certezze precostituite» su di esso, attraverso il
confronto con le grandi e diverse filosofie della vita (Nietzsche, Bergson e Dilthey soprattutto) per recuperare il Leben come fenomeno
originario e farne un concetto chiave del suo pensiero in quanto Urphänomen o Grundphänomen: a partire dalle lezioni del semestre invernale 1919-20, alla locuzione di faktisches Leben, vita “effettiva” o “fattizia”, è infatti affidato il compito di indicare ad un tempo l’origine,
714
l’oggetto e la meta della filosofia; in una parola: il suo elemento, il
suo insuperabile Ursprungsgebiet. La distruzione della tradizione deve
portare il pensiero a divenire Ursprungswissenschaft vom Leben an sich,
«scienza originaria della vita in sé»: una fenomenologia “assoluta”
della vita in quanto fenomeno primordiale, onnicomprensivo e invalicabile. Ma cosa intendeva allora Heidegger con “vita”?
Tra i tanti filosofi che influenzano Heidegger in questa fase di
formazione del suo pensiero, quello verso cui il debito è maggiore
nell’elaborazione della nozione di vita è probabilmente Dilthey. Com’è noto, Dilthey sosteneva la necessità di distinguere una volta per
tutte le scienze dello spirito e le scienze della natura: per Dilthey le
une sono irriducibili alle altre; l’uomo è oggetto delle scienze dello
spirito ed è per essenza fondamentalmente estraneo alle scienze della
natura e impermeabile al loro metodo, il metodo della spiegazione
causale. A partire dal secondo libro del suo monumentale progetto incompiuto, l’Introduzione alle scienze dello spirito3, Dilthey parla
di “vita” riferendosi al modo d’essere dell’uomo in quanto totalità
unitaria e intrascendibile, strutturata nell’immanenza. Il Leben è una
«connessione strutturale» di vissuti (Erlebnisse), e allo stesso tempo
una «connessione di scopo». Quando si arriva a comprendere l’uomo
come vita si arriva a comprenderlo come questa unità strutturata
che a sua volta sta a fondamento del sistema articolato e solidale delle scienze dello spirito: tra il vivere come atteggiamento spontaneo
(Erleben) e i vari modi della sua espressione o autocomprensione c’è
un rapporto di circolarità ermeneutica; di continuità, reciprocità e
autopotenziamento.
Ora, nel giovane Heidegger questa considerazione del vivere è in
gran parte ripresa, ma, piuttosto che come base per le varie scienze
dello spirito, come fondamento di un pensiero filosofico originario;
come per Dilthey, il vivere faktisch è radicalmente e irriducibilmente
riferito al mondo, inteso come ambito originariamente significativo.
Già nel 1919 Heidegger conia il neologismo es weltet, “si fa mondo”,
per indicare come ogni esperienza vissuta (Erlebnis) ci si dia in primo luogo come qualcosa di praticamente significativo e ambientale
(umweltlich); il dato d’esperienza, preso in quanto tale, richiama già
sempre un intero contesto unitario, e non in quanto compagine di
715
oggetti, né in quanto concatenazione di fatti reali o eventi mentali,
né in quanto struttura razionale di valori; se si vuole restare fedeli al
suo originario modo di datità, si può e si deve dire semplicemente,
preteoreticamente, formalmente: es weltet4. Ed è il Leben che weltet.
«La nostra vita è il mondo» (HEIDEGGER 1992, p. 34): è dal mondo, letteralmente, contornata (weltlich gesäumt) (HEIDEGGER 1992, p.
157); è al mondo, letteralmente, accordata (weltlich gestimmt) (HEIDEGGER 1992, p. 250). Vivere implica sempre il vivere in qualcosa o fuori da qualcosa; per, con o contro qualcosa; verso e da qualcosa.
Il mondo è proprio questo comunque qualcosa. Ma così la vita non è
dipendente da altro da sé, bensì «è autosufficiente (selbstgenügsam), si
interpella e si risponde sempre nel suo stesso linguaggio»: non ha
bisogno di «uscire fuori da se stessa» per ottenere il suo stesso senso,
bensì genera e colma in sé le sue incompiutezze, si lacera e cicatrizza
internamente5.
Dall’altro lato, sostenere che la vita è immediatamente e costitutivamente espressione di senso, significatività, implica che, se la
si vuole definire nei termini di un élan vital – chiarisce Heidegger
– lo si deve fare «in un altro senso rispetto a quello misticamente
confuso di Bergson»: «la vita non scorre lì, sorda come un flusso
(come la presenta Bergson, per via della sua compromissione con concetti biologici), bensì è comprensibile» (HEIDEGGER 1992, p. 231).
E ancora: «La vita [non è] una confusione di fluttuazioni oscure, né
un sordo principio di forza, né una mostruosità (Unwesen) illimitata
che divora tutto, bensì essa è ciò che è solo come figura concreta dotata di
senso» (HEIDEGGER 1992, p. 148). Si tratta di togliere di mezzo con
un unico colpo non solo Bergson, ma anche i Willen di Schopenhauer
e Nietzsche, le tendenze irrazionalistiche proprie di alcune varianti
della Lebensphilosophie e le varie forme di vitalismo biologico ormai
in declino. Il rifiuto di attribuire un valore filosofico positivo a qualsiasi idea di un principio energetico-dinamico puro concepibile in-sé
caratterizza da subito la filosofia heideggeriana e ne resterà un punto
fermo fino alla fine.
Certamente è anche grazie al concetto husserliano di intenzionalità che Heidegger può elaborare il pensiero di questa solidarietà
ultima tra vita e mondo: ma per Heidegger è già molto chiaro che la
716
posizione di Husserl resta infondata. Nel semestre invernale 1920-21
già scrive: «Quel che mi ha sempre disturbato: l’intenzionalità cade
forse da cielo? e se è qualcosa di ultimo: in quale ultimità deve essere
considerata?». E la prima certezza di Heidegger in merito al metodo
adeguato di comprensione del fondamento autentico della struttura
intenzionale, in grado di strapparla all’arbitrarietà delle conclusioni
sul suo statuto ultimo, è che non potrà trattarsi di un modo d’approccio teoretico; già nel 1919 la modificazione dell’atteggiamento
teoretico che il mero essere-diretti-verso husserliano rappresenta è indicata come «una devitalizzazione dell’esperienza pratica vissuta» (ed è
proprio per evitare di venire accomunato all’approccio teoreticista di
Husserl che già a partire dal 1920 Heidegger preferisce sostituire lo
stesso termine di intenzionalità con quello di Sorge).
Ma per Heidegger non si tratta tanto di andare oltre il concetto
di intenzionalità per individuarne un fondamento ulteriore (in un
certo senso non si tratterà mai di questo), quanto piuttosto di radicalizzare il senso attribuito a tale concetto. È l’intenzionalità stessa
a venire traslata su un piano che in senso lato è possibile definire da
subito come ontologico e antimetafisico: si tratta appunto del piano della vita in quanto autosufficiente o, ancor più precisamente,
faktisch, fattizia. E la mossa fondamentale del primo Heidegger può
esser compresa proprio nei termini dell’istituzione di un legame interno, di una solidarietà indissolubile tra il concetto di intenzionalità
e quello di fatticità (o autosufficienza), ossia i due “attributi” fondamentali della vita. La radicalizzazione dell’uno è raggiunta e si regge
per via della radicalizzazione dell’altro. Vale a dire che, nella vita,
per un verso la fatticità è sempre e solo da comprendersi come fatticità dell’intenzionalità, quale struttura originariamente polarizzante,
cosicché ciò che “si dà” nel nostro vivere non può essere compreso
propriamente né come un oggetto inteso nel senso del realismo ingenuo né tantomeno, come dicevamo, nei termini di una forza cieca
senza oggetto. Correlativamente, l’intenzionalità viene subito pensata da Heidegger guardando nella direzione opposta rispetto a quella
divaricante cui, in quanto struttura polare/polarizzante, essa tende
naturalmente: il pensiero deve essere ri-volto verso il movimento del
generarsi dell’intenzionalità dall’unicità della sua origine effettiva.
717
Questo sforzo di Heidegger è motivato dalla sua convinzione che sul
piano dell’ente la vita finisca invece per essere determinata o come
pura forza originante, anteriore ed esteriore ai suoi oggetti, o come
risultante di interazioni complesse fra oggetti, della cui origine non
si può avere affatto un concetto altro. Se ci si arresta al piano dell’ente
si finisce per ridursi all’aut-aut vitalismo/meccanicismo, potremmo
dire grossolanamente. Al contrario, Heidegger vorrebbe risalire alla
radice di queste opposizioni per arrivare a un concetto originario di
vita che non la comprenda né come flusso assoluto, né come compagine di oggetti pietrificati.
Per arrivare a questo concetto originario di vita, secondo il primo
Heidegger è necessario un peculiare modo di afferramento ed uno
soltanto. E un tale metodo appropriato, ossia la filosofia autentica,
non ci è affatto immediatamente dato bensì ci è dapprima «lontano»
(fern), cosicché dovremo avvicinarci progressivamente ad esso (Näherkommen)6. E così facendo, ci allontaneremo da ciò che ci era prima
vicino, ossia dalla vita in sé effettivamente esperita, proprio per poter da questa lontananza comprenderla. L’espressione ermeneutica della
fatticità di questi primi anni friburghesi indica appunto che fattizio
non significa in alcun senso: immediato, bensì al contrario: irrimediabilmente mediato, ossia immerso nello storico, nella storia, come suo
elemento. Nello stesso momento in cui inaugura l’uso del termine
vita, Heidegger introduce così anche quella circolarità ermeneutica
di matrice diltheyana, una sorta di cinetica paradossale che lungo il
suo intero cammino di pensiero determinerà il movimento proprio
dell’esistere: «la filosofia scaturisce (entspringt) dall’esperienza effettiva della vita, per poi farvi ritorno rimbalzando (zurückspringen) al suo
interno» (HEIDEGGER 1995, p. 40).
La filosofia, nella sua possibilità e necessità, è così esplicitamente
inscritta nel Leben. In primo luogo, se la vita tende immediatamente a coprire il come del manifestarsi del mondo, ossia il modo d’essere
dell’intenzionalità e dei suoi modi specifici, considerandolo ovvio,
proprio da ciò la filosofia deriva la sua necessità a priori in quanto
possibilità, proprio così si determina lo spazio che le spetta di diritto. Inoltre, solo dalla vita quale occasione può partire il movimento
controrovinante della filosofia realizzata, cosicché questa possibilità
718
di realizzazione effettiva deve pure essere in qualche modo compresa
a priori (precompresa) nella vita stessa: la vita resta prinzipiell fraglich anche quando sembra rifiutare qualsiasi forma del domandare7; resta destinata a riconoscere se stessa anche e proprio «dove non
se lo aspetta, e soprattutto nel suo mascheramento (stato larvale)»
(HEIDEGGER 1985b, p. 138). E infine, nel momento in cui la filosofia
si realizza, essa non si distacca mai propriamente dal mondo, che
piuttosto da questa realizzazione viene modalizzato diversamente in
ogni suo aspetto. Per quanto scateni al suo interno un movimento
teso e paradossale, la filosofia appartiene alla vita nella sua possibilità e necessità; nasce contro di essa ma entro essa, da essa e per essa.
L’ermeneutica fenomenologica della vita effettiva non è altro che la
vita effettiva che interpreta se stessa in quanto fenomeno. L’idea di
vita non sembra poter essere strutturalmente separata da quella di
filosofia senza che si operi una violenta astrazione snaturante il suo
stesso senso, e senza che si spezzi un circolo ermeneutico eminente e
necessario.
Ma questo significa che la “vita” al centro della filosofia di Heidegger tra il 1919 e il 1923, che è originariamente intenzionale e
implicata nel mondo come ambito articolato di esperienza e la cui
possibilità più propria è la sua modalizzazione nel come dell’autoafferramento, tanto in Heidegger quanto in Dilthey è solo ed esclusivamente la nostra: si tratta della vita dell’esserci umano, dell’ente che
noi stessi siamo, come si esprimerà Heidegger. Questa “vita” non è un
concetto che possa tollerare una flessione in gradazioni interne, tale
da renderlo atto a definire anche il modo d’essere di altri enti che pure
comunemente definiamo “viventi” come le piante e gli animali.
Tale apparente esclusione è un problema? Che la vita animale,
al di fuori delle favole e dei miti, non tenda ad autoafferrarsi attraverso il logos filosofico appropriato, non c’è dubbio; ma gli animali
non sembrano forse tendere almeno a vivere in una qualche sorta di
“mondo”, in qualche modo “significativo”. E se Heidegger, come di
fatto sembra chiaro, non concepisce la vita al pari di una coscienza
in senso idealistico, come una sfera solipsistica, ma come un modo
d’essere che spetta di diritto anche agli altri nostri “simili”8, niente si
legge tra il 1919 e il 1923 riguardo all’eventualità che esseri viventi
719
come gli animali possano anch’essi vivere, similmente a noi, «sempre in una Richtung» (anche se «non esplicitamente consapevole»)9;
eppure l’idea che una qualche forma di intenzionalità operante sia,
per così dire, all’opera anche nel loro mondo, non è affatto presa in
considerazione, nemmeno solo come problema.
Se Heidegger in questi primi anni avesse ammesso esplicitamente
che una qualche forma di intenzionalità vive ed opera anche nel regno
animale, non si sarebbe insinuato un peculiare fattore problematico
nel pensiero di quella solidarietà interna fra i due concetti radicali di
effettività e intenzionalità di cui si è detto prima? La vita dei primi
corsi friburghesi, compresa nel suo proprio modo d’essere, è la vita
dell’esserci, fattiziamente mondano e potenzialmente “filosofo”, che
noi stessi siamo. Ma che ne è di quelle “forme di vita” che sebbene
non abbiano propriamente un mondo – se per mondo si intende quel
complesso articolato di significati che intende qui Heidegger – si
rapportano in certi casi a qualcosa di simile ed analogo ad un mondo,
e che però non tendono al rivolgimento ermeneutico della loro stessa
vita fino ad una fenomenologia esplicita di essa? Che ne è degli altri
esseri “viventi”: delle piante e, soprattutto, degli animali?
Heidegger non affronta affatto la questione del vivente inteso in
questo senso almeno fino al 1924. Ma negli appunti per il semestre estivo 1921, leggendo il libro X delle Confessiones, riporta un
dubbio di Agostino: perché la natura non parla come a noi anche
a tutti gli altri, per esempio, agli animali? Animalia interrogare nequent, si risponde il filosofo cristiano; gli animali non possono porre
domande, poiché interrogare è giudicare e decidere, ossia in qualche
modo sovrastare10. Per quanto Heidegger non aggiunga nulla, la sua
posizione è evidentemente vicina a quella agostiniana: gli animali
non possono fare domande alla natura, e laddove non si progettano
domande non si odono risposte. Che questo progettare sia fattizio o,
come Heidegger arriverà presto ad esprimersi, «gettato», non avvicina affatto l’uomo all’animale; infatti l’impotenza assoluta di domandare dell’animale e la fatticità su cui si fonda il domandare umano,
anch’essa una forma di impotenza, sono già comprese a priori come
di un altro ordine.
Ci si potrebbe però per lo meno aspettare a ragione di incontrare
720
un qualche riferimento agli altri viventi laddove Heidegger si sofferma nella descrizione dell’articolazione strutturale del nostro mondo,
ossia dei modi diversi della nostra vita di entrare in rapporto con i
diversi tipi di enti – e così sempre e comunque con se stessa. Come
incontriamo gli animali, e in generale i viventi? Esiste un modo peculiare di rapportarci ad essi, differente dal modo di rapportarci da un
lato agli altri esserci umani e dall’altro lato agli oggetti inanimati?
Heidegger non affronta esplicitamente questo problema, nonostante si tratti di un problema chiave del suo tempo, col quale Husserl, Bergson e Scheler si stanno confrontando in quegli stessi anni11.
2. La vita in comune (1924)
«Per quanto Heidegger inveisca contro la filosofia della vita la
sua ontologia fondamentale e poetica dell’essere lo spinge verso la
Lebensphilosophie ancora e ancora» (KRELL 1992, p. 10). Così scrive
David Farrel Krell, l’autore della fortunata monografia Daimon Life:
Heidegger and Life-philosophy. Secondo Krell, che si muove su un tracciato inequivocabilmente derridiano, il concetto di vita delle prime
lezioni friburghesi non basterà ad Heidegger a liquidare la questione
del vivente non umano. E quando il Leben diverrà Dasein (grossomodo a partire dal 1923) e si comincerà a delineare il piano sistematico
di Essere e tempo, il procedere filosofico fondato sull’analitica dell’esistenza, Heidegger riprenderà il concetto di vita stavolta affrontando
la problematica esigenza di rendere conto attraverso di esso altresì
del vivente non umano e, soprattutto, dell’animale.
È nel corso di lezioni tenuto a Marburgo nel semestre estivo del
1924, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (HEIDEGGER 2002b),
che Heidegger affronta per la prima volta la questione del modo
d’essere del vivente in generale. Cos’è la vita in quanto ciò che è comune all’uomo e all’animale? Questa è la domanda che si pone, sulla
scorta della Politica di Aristotele e a partire dalla definizione dell’uomo come zoon logon echon. Secondo questa definizione, l’uomo sarebbe
innanzitutto uno zoon, un vivente (genere), e in secondo luogo dotato
di logos (differenza specifica). Lo scopo di Heidegger è già qui quello
721
di capovolgere il valore di queste due determinazioni: comprendendo il senso originario del logos (impegno che Heidegger protrarrà
fino alla fine del suo cammino di pensiero) questo si rivelerà il modo
d’essere dell’uomo in un senso che, per così dire, “neutralizza” la zoé.
Questo è il percorso attraverso cui già nelle lezioni del 1924 Heidegger guida i suoi studenti; ma prima di intraprenderlo, sulla scorta di
Aristotele determina qui per la prima volta la vita in quanto “comune” ad animale e uomo in modo analitico e approfondito.
Posto che quello di vita-vivente non deve affatto essere inteso
come un concetto biologico o scientifico in generale, né d’altra parte
si deve cedere a quelle interpretazioni che lo vedono come qualcosa
di «selvaggio, profondo e mistico», Heidegger passa ad occuparsi
della zoé in quanto «concetto d’essere: “vita” indica un modo di essere», «un come, una categoria dell’essere», un concetto ontologico
(HEIDEGGER 2002b, p. 21). In quanto tale, esso è, afferma Heidegger
senza esitazioni, l’essere-in-un-mondo: «Un vivente non è semplicemente presente (vorhanden), bensì è in un mondo nel modo dell’avere
il suo mondo». «Un animale non è semplicemente piazzato in mezzo
alla strada e si muove sulla strada, quando è schiacciato da un qualunque apparato. Esso è nel mondo nel modo dell’averlo» (HEIDEGGER 2002b, p. 18).
Il vivente non è semplicemente un ente presente per noi, bensì ha un mondo.
Ma che tipo di relazione è indicata da questa espressione? Se il rapportarsi al mondo nel modo dell’averlo è una determinazione strutturale, essenziale e necessaria della vita, a priori, e non una mera
proprietà di un ente semplicemente presente che si possa aggiungere
o togliere; se essa non è un principio oscuro, né una proprietà del soggetto, che determinino il rapporto al mondo come una conseguenza;
e se infine l’essere-nel-mondo è un modo d’essere nel senso di una
categoria a priori e d’essenza; allora, concludiamo noi, per Heidegger
deve esistere un modo di definire il rapporto al mondo che sia essenzialmente
comune all’uomo e all’animale.
Aristotele determina il modo di essere del vivente nel De Anima
come un modo dell’ousia: la psyché o anima. I due momenti fondamentali della psyché sono il kinein e il krinein. Il corso del 1924 si sofferma
poco su queste determinazioni ma esse verranno riprese spesso negli
722
anni successivi, e particolarmente nella parte conclusiva del corso
del semestre estivo del 1926 (HEIDEGGER 1993a, pp. 273-279), dove
Heidegger approfondisce l’ontologia della vita che Aristotele avrebbe sviluppato nel De Anima. In breve, il krinein è definito da Heidegger come un Abheben, un distinguere di contro ad altro; il kinein è
invece il movimento che orienta la vita in un ambiente determinato.
Si vive quando si ha percezione di qualcosa, muoversi, arrestarsi, nutrirsi, crescere e deperire (quindi, in questo senso, è vivente anche la
pianta). Vive ciò che può «muoversi in direzione di qualcosa che può
rivestire un qualche interesse per la vita; un muoversi orientato nell’ambiente di volta in volta dato» (HEIDEGGER 1993a, p. 412).
Sulla scorta di un passo della Politica qui Heidegger giunge ad
almeno altre tre conclusioni estremamente interessanti:
1. Sia per l’animale che per l’uomo vivere è avere un mondo non
nel senso di averlo come mero oggetto da conoscere; al contrario, esso
si dà innanzitutto e per lo più attraverso delle disposizioni emotive
(pathos): nella phoné (il verso animale) il mondo si rende accessibile
nelle disposizioni del «piacevole» e del «doloroso», e nel logos (umano) nelle disposizioni del «giovevole» e del «funesto». Per quanto diversi, si tratta in entrambi i casi di modi di darsi degli enti, di forme
originarie della datità, indirette piuttosto che oggettive e frontali, e
che hanno il carattere della possibilità come carattere «determinante
per l’esserci del mondo». Ripetiamo, questa possibilità è la possibilità di una determinazione non frontale, oggettiva, teoretica, bensì
emotiva: è la possibilità del determinarsi di una specifica Befindlichkeit
(come diathesis, disposizione, stato d’animo, o katastasis, condizione,
situazione emotiva probabilmente, stato)12. Così Heidegger non fa
che continuare quel processo di radicalizzazione in senso ontologico
e antiteoretico dell’intenzionalità husserliana, servendosi della filosofia pratica aristotelica. Ma nell’economia di questa radicalizzazione,
si badi, il modo d’essere dell’animale è a ben guardare esemplare: il
modo di vivere animale mostra esemplarmente il carattere né necessario né originario dell’atteggiamento teoretico-contemplativo nell’essere in rapporto originario col mondo. Certo, come nota Heidegger, «incontrare il mondo nel carattere del piacevole per l’animale è
ad esempio un buon posto per mangiare e non una sinfonia, è sempre
723
qualcosa che si dà nel suo mondo-ambiente», ma a maggior ragione
esso è la dimostrazione più chiara di come non sia necessario un filtro teoretico interpretativo all’agire originario nemmeno per l’uomo,
immerso nel suo «mondo-ambiente: il mondo con cui ho a che fare
innanzitutto e per lo più» (HEIDEGGER 1992, pp. 47-48).
2. Per Aristotele sia l’uomo che l’animale, poi, vivono nel mondo nel modo dell’avere originariamente e strutturalmente aperta la
dimensione della comunità intersoggettiva dell’essere l’uno con l’altro attraverso la comunicazione. «Entrambe queste possibilità [della
phonè e del logos] sono i modi in cui i viventi sono l’uno con l’altro, nei
quali si costituisce la koinonia» (HEIDEGGER 1992, pp. 47-48). Infatti
anche l’animale ha la possibilità di indicare (anzeigen), di dare un segno (Zeichen, semeion) del piacevole e dello spiacevole, e così di comunicare la sua disposizione emotiva. Essa non è una condizione privata
ma strutturalmente comunicabile, già sempre pubblica. Le funzioni
della phoné di mettere in guardia (Warnen) o attrarre a sé (Locken) l’altro animale sono modi dell’essere l’uno con l’altro e si fondano nella
struttura originaria e comune a uomo e animale del Miteinandersein13.
Ma così non è né noto né comunicato l’esserci di qualcosa in quanto
tale. «Gli animali non arrivano a constatare qualcosa come semplicemente presente, essi lo indicano/segnalano solamente nel circolo
ambientale del loro animalesco avere a che fare» (HEIDEGGER 1992,
p. 55). L’essere l’uno con l’altro non dipende dunque affatto originariamente dall’atteggiamento teoretico in nessun senso. L’essere l’uno
con l’altro è parte dell’essere-nel-mondo come un essere disposti
emotivamente da esso e un comunicare queste disposizioni. In questo senso non solo il modo d’essere animale e quello umano hanno un
fondamento comune, ma quello animale di nuovo costituisce un caso
esemplare del carattere non necessario del ricorso alla dimensione
teoretica per il naturale orientarsi nel mondo.
3. Il mondo e l’altro si danno sia a noi sia agli animali innanzitutto
attraverso un originario coinvolgimento pratico nel mondo-ambiente di tipo del tutto peculiare, che Heidegger chiama Belanglosigkeit,
indifferenza. Il mondo riguarda sempre l’animale e l’uomo, ma innanzitutto e per lo più esso riguarda entrambi nel modo del non
riguardarli, dell’esser loro indifferente. Anche nel mostrare indiffe724
renza, questo specifico carattere di incontro quotidiano del mondo,
l’animale è esemplare.
Insomma, sia nel caso del modo d’essere dell’uomo sia nel caso
del modo d’essere dell’animale, si tratta per Heidegger, interprete di
Aristotele e apparentemente con esso del tutto solidale, di un vivere
comune in quanto: essere-nel-mondo, l’uno con l’altro, emotivamente determinati e quotidianamente deietti nel modo dell’indifferenza.
Eppure tutte queste esemplari analogie vengono poi rifiutate da
Heidegger, giunto il momento, nelle lezioni del 1924, di determinare meglio la distinzione dell’uomo dall’animale sulla base del logos14.
Ogni analogia viene schiacciata sotto il peso della necessità di individuare tra i vari modi del prendersi-cura dell’uomo, nella molteplicità dei suoi fini (tele), un modo del prendersi-cura in cui si dia di
fatto un telos in quanto tale, ossia in cui il telos giunga a compimento
(Vollzug); che coincide, nei termini di Essere e tempo, col modo in cui
nel suo fare il Dasein può essere un tutto. Per Aristotele questa praxis
eminente è la politica (polis) e il suo oggetto è l’agaton, il bene sommo. Heidegger evidenzia la caratterizzazione aristotelica dell’agaton
come ciò che è oikion, di casa all’esserci e autarkes, autosufficiente,
cosicché infine l’unico telos autentico dell’esserci è l’esserci stesso15.
Al contrario, «nell’edoné il Dasein non arriva a se stesso, la vita è vissuta dal mondo nel quale essa si muove, è pienamente dipendente dal
mondo, il suo proprio essere non è vissuto» (HEIDEGGER 1992, p. 95).
Ma l’animale conosce solo questo status, e dunque non può avere una
vita autenticamente vissuta, non gli è data la possibilità di decidersi
per il bene o meno.
Il passaggio essenziale a determinare la differenza tra modo d’essere di animale e uomo è poi connesso all’approfondimento di uno specifico momento strutturale del logos: non il suo carattere apofantico,
né quello intersoggettivo ma quello che con una prima approssimazione gravemente inadeguata potremmo definire riflessivo: il parlare
nel senso di esprimersi riguardo a qualcosa è altrettanto «un parlare a
se stessi [ein Zu-sich-selbst-Sprechen]», cosicché «la determinazione del
logon echon racchiude in sé anche la possibilità dell’uomo di ascoltare se
stesso, il suo proprio parlare». E «l’akouein, l’ascoltare, è l’autentica sensazione (aisthesis)» (HEIDEGGER 1992, pp. 104-105). «Il logos è au725
tenticamente tale solo fintantoché ascolta il logos stesso. Finché non
è autentico parlare, Aristotele lo indica come alogon» (HEIDEGGER
1992, p. 105). Ma laddove il modo d’essere caratterizzato dalla phoné,
il modo d’essere dell’animale, è assolutamente alogon, per quanto un
uomo possa usare il linguaggio in modo acritico e possa non udire ciò
che parla in lui, la sua stessa essenza, la voce dell’amico di cui parlerà
Essere e tempo, essa sussisterà già sempre per lui come possibilità alternativa aperta. E costituirà la sua possibilità più propria: quella di
appropriarsi della sua stessa essenza. Siamo tornati al Leben come Dasein, separato da un abisso d’essenza dal Leben che accomuna l’uomo e
l’animale, a discapito di tutte le nuove analogie tematizzate da Heidegger tra l’uno e l’altro. Si inaugura così una tensione fondamentale
del pensiero di Heidegger in merito al problema dell’animalità: da
un lato si riconosce un modo di essere comune all’uomo e all’animale, dall’altro si pretende di fondare questo stesso modo di essere
nel caso dell’uomo in ciò che in nessun senso è condiviso dagli altri
viventi: nel logos, il cui carattere più proprio è individuato già qui
attraverso la possibilità di lasciarsi ascoltare da se stesso per se stesso
nel suo essere. La sensibilità autentica è considerata questo ascoltare, non sono i sensi ma la passività pura e originaria (che possiamo
attivamente riguadagnare) nei confronti di ciò che ci determina originariamente: il logos. La fatticità della vita umana è così separata da
un abisso di essenza dalla fattualità della vita animale e il rapporto
tra le due vite ha uno statuto che legittimamente è solo analogico (se
il fondamento dell’analogia è empirico ma sul piano ontologico non
si dà). Ma resta aperta la questione di dove e se si dia un fondamento
del modo d’essere dell’animale.
3. La struggente attesa delle creature (1929/30)
Heidegger non darà mai una risposta a questa questione: da un
lato continuerà a dichiarare l’impossibilità di principio di uscire dalla
sfera del Leben umano, del Dasein, per comprendere l’alterità animale;
dall’altro lato continuerà pure a problematizzare, sebbene sporadicamente, la questione del vivere animale e del vivente non umano in
726
generale, se non altro in quanto ben consapevole che questa questione
riguarda allo stesso tempo l’uomo in quanto essere vivente e la possibilità di estromettere dalla considerazione essenziale del suo modo di
essere la sua stessa corporeità. In particolare, Heidegger si occuperà
del vivente non umano – e inevitabilmente della sua relazione con
l’uomo in quanto vivente e dello statuto di questa condizione – nel
ben noto corso del semestre invernale 1929/30 Concetti fondamentali
della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine (HEIDEGGER 1983a).
Heidegger dedica un terzo delle lezioni del 1929/30 allo sviluppo di una «osservazione comparata» del modo di essere dell’animale rispetto a quelli dell’uomo e della pietra (dell’ente inanimato),
a partire dall’ingenua constatazione del loro carattere comune di
enti semplicemente presenti “nel” mondo16. Si tratta di considerare
i differenti modi in cui l’uomo, l’animale e la pietra si rapportano
al mondo: vale a dire che si tratta di assumere un punto di partenza
«ingenuo», «naturalistico», violando ogni indicazione metodologica
data in Essere e tempo e negli scritti degli stessi anni. Infatti, se in questo delicato periodo Heidegger sembra ancora propenso a considerare un’ontologia della vita – e così pure altre «ontologie regionali»
– come una possibilità e finanche una necessità per il pensiero filosofico, ne rimanda però decisamente l’elaborazione, subordinandola
all’analitica dell’esserci: solo dopo aver guadagnato una comprensione del Dasein nel suo carattere unitario, a sua volta preliminarmente
orientata dal problema del senso dell’essere, sarà possibile indagare
il campo della natura vivente, ripete più volte Heidegger in Essere e
tempo17. Ora, a dispetto di queste indicazioni, nel corso del 1929-30
non si ha propriamente lo sviluppo di una ontologia regionale, quanto piuttosto una lunga analisi del modo d’essere dell’animale che in
qualche modo vorrebbe preparare tale ontologia; e che prescinde di
proposito dallo sviluppo dell’analitica esistenziale. Heidegger sembra voler tentare una descrizione essenziale dell’animale, articolata
ed esauriente, in grado di conciliarsi con i risultati della più moderna
biologia ed anzi di renderne conto, senza presupporre esplicitamente
i traguardi di Essere e tempo.
Questa analisi del modo d’essere animale trae il suo orientamento
da quella che a detta di Heidegger rappresenta la tesi guida del senso
727
comune in merito all’animalità – e che si rivelerà filosoficamente vera,
seppure ad un livello per il senso comune insospettato. La tesi afferma:
«l’animale è povero di mondo» (das Tier ist weltarm), ed è introdotta
in correlazione e opposizione alle altre due tesi «l’uomo è formatore
di mondo» (der Mensch ist weltbildend) e «la pietra è senza mondo»
(der Stein ist weltlos) (HEIDEGGER 1983a, p. 232). Rispetto ai modi di
essere dell’uomo e della pietra, l’animale sembra così in qualche modo
trovarsi “nel mezzo”. Questa posizione intermedia, come ora sembra
essere ben chiaro ad Heidegger, non è che il segno del fatto che l’indagine sull’animale costituisce per noi l’unico vero caso in cui si dia legittimamente una questione dell’alterità, vale a dire un problema relativo alla
possibilità di trasporre noi stessi (sich versetzen), mediante l’empatia,
in un ente altro da noi18. Infatti, se riguardo alla pietra è impossibile
anche solo concepire per noi una «sfera di trasponibilità» con essa, e
se per motivi opposti nemmeno la questione dell’alter ego, a differenza
che per il maestro Husserl, costituisce per il suo allievo un autentico
problema, ma è piuttosto una questione superflua, perché già “essere
uomo” significa: essere trasposto nell’altro (Versetztsein in den Anderen),
essere-con l’altro (Mitsein mit den Anderen) (HEIDEGGER 1983a, p. 268);
allora ecco che la questione dell’alterità consiste, si riduce a e si identifica con
la questione dell’alterità tra uomo ed animale. Infatti, sostiene Heidegger,
da un lato possiamo sempre legittimamente tentare una descrizione
del modo d’essere dell’animale, poiché la possibilità di accompagnarci ad esso è da noi considerata non problematica a priori; dall’altro
però non possiamo mai essere sicuri della riuscita, dei limiti della
trasposizione e del metodo più appropriato, cosicché tale alterità costituisce effettivamente e legittimamente un problema.
Se l’uomo «può e non può» rapportarsi all’animale, se «può concedere una trasposizione» ma «deve negare un accompagnarsi», come
si esprime Heidegger (HEIDEGGER 1983a, p. 272), è per via del modo
d’essere dell’animale stesso, a sua volta duplice o ambiguo: l’animale
non è semplicemente «senza mondo» come la pietra. Se così fosse,
per esso non vi sarebbe possibilità di alcun rapporto con l’uomo. Il
suo “non avere” è piuttosto fondato su una qualche forma di possibilità, su un enigmatico “poter avere”; che a sua volta è la condizione
di possibilità del suo «poter concedere una trasposizione» (HEIDEG728
1983a, p. 272). Il punto per Heidegger sta nella necessità di
pensare questa forma di possibilità al di fuori dell’alternativa tra la
libera scelta – la possibilità in senso umano, in “prima persona” – e
la possibilità “in terza persona” – oggettiva, determinata da una forza
vitale e animata da una qualche forma di teleologia. Nel primo caso
si antropomorfizzerebbe l’animale, nel secondo lo si considererebbe
un mero meccanismo. In entrambi i casi, avverte Heidegger, la sua
essenza verrebbe radicalmente fraintesa.
Ora: quella che Heidegger intraprende a seguito di queste indicazioni di metodo è proprio la descrizione di questa nuova e problematica forma di possibilità di avere un qualche tipo di rapporto col
“mondo” per l’animale; possibilità che a sua volta fonda l’opportunità per noi di avere un qualche tipo di rapporto con l’animale. L’analisi del vivere animale è presentata così da un lato come legittima e
affidabile ma dall’altro come costitutivamente destinata a mantenere
un lato oscuro, intrinsecamente non svelabile. Infatti, l’oggetto della
descrizione è un modo di essere parzialmente altro da quello dell’esserci umano, e in questa misura solo parzialmente comprensibile: il
lato oscuro della descrizione, la sua problematicità intrinseca, non
potranno mai essere risolti, eliminati. D’altro canto, come vedremo,
pur senza smettere di costituire un enigma, il lato oscuro della vita
animale e della vita in generale a detta di Heidegger potrà essere
compreso in modo autentico solo effettuando un passaggio su un piano totalmente altro da quello descrittivo. Ma giunti su questo piano,
il piano del pensiero originario, sembra aprirsi una falla nel sistema filosofico heideggeriano. Una falla corrispondente a quel punto
oscuro che costituiva il residuo della descrizione. Non possiamo che
procedere per gradi: innanzitutto, finalmente, dove conduce l’analisi
del 1929/30?
Se in Essere e tempo il modo d’essere dell’esserci era determinato
come essere-nel-mondo (In-der-Welt-Sein) e, nel suo carattere unitario, come Cura (Sorge), nei Concetti fondamentali della metafisica il
modo d’essere dell’animale è indicato con il termine Benommenheit,
stordimento19. Ciò che più preme a Heidegger in queste pagine come
da sempre è di mostrare che, come nel caso dell’esserci, neppure il
modo di essere dell’animale deve essere compreso separatamente dal
GER
729
rapporto con il suo ambiente. Ma il polo “oggettivo” cui l’animale si
rapporta non può essere il mondo (Welt), e nemmeno un mondo-ambiente (Umwelt) come quello di cui parlava il biologo von Uexküll.
Piuttosto Heidegger – avvalendosi di prove empiriche tratte dall’esperienza quotidiana come da quella scientifica – definisce questo
polo come un Ring o Umring, un “cerchio” o “cerchio ambientale”20:
entro questo cerchio l’animale sarebbe incessantemente sospinto (getrieben, umgetrieben) da un comportamento all’altro da continui stimoli ambientali in grado di disinibire i suoi istinti (Triebe), senza
alcuna possibilità estatica di fuga: come stordito, appunto. Il modo di
comportarsi animale (Benehmen), completamente altro dalla condotta
(Verhalten) o agire (Handeln) propri dell’uomo, è descritto come «il
lottare [Ringen] dell’animale con il suo cerchio ambientale» (HEIDEGGER 1983a, p. 329), una lotta cieca in cui l’animale è assorbito dagli
“oggetti”, piuttosto che apprenderli, rap-presentarli in quanto tali.
L’Io animale, polo “soggettivo” della struttura unitaria dello stordimento, correlativamente deve potere in qualche modo “essersi-proprio”, autopossedersi: ciò è espresso da Heidegger con il termine di
“proprietà” (Eigentum); ma questa sorta di identità deve essere nettamente distinta dall’ipseità o dalla “personalità” (Personalität) propriamente umana – dotata di «autocoscienza e riflessione», nota Heidegger limitandosi sempre al piano della descrizione, dell’intelletto
comune21.
La lunga descrizione di cui si sono esposti a grandi linee i risultati, in conclusione, fornisce un ritratto dell’animale come di un essere
dotato di quelli che potremmo definire uno pseudo-io, una pseudo-intenzionalità, degli pseudo-comportamenti ed uno pseudo-mondo popolato
da pseudo-oggetti. Con questa caratterizzazione Heidegger vuole principalmente impedire un’interpretazione del modo d’essere animale
basata su un concetto di istinto quale forza cieca e svincolabile a
priori dai suoi “oggetti”, ed evitare così la legittimità del ricorso
nella spiegazione a forze vitali e teleologie di qualsiasi sorta.
Ora, il punto è che sulla base dell’analisi heideggeriana nulla sembra poterci impedire di parlare, nel caso dell’animale, piuttosto che
di pseudo-, di proto-intenzionalità, proto-oggetti etc. Niente nella descrizione sembra obbligarci a riconoscere una differenza abissale ed
730
essenziale piuttosto che una mera differenza di grado a separare, per
quanto eclatantemente, l’uomo dall’animale. Su questo piano non si
può ancora affatto giustificare la posizione che Heidegger ha mantenuto con sorprendente costanza lungo il corso di tutto il suo pensiero:
l’idea che l’uomo e l’animale siano separati da un abisso d’essenza22.
Il punto è che questo abisso non può però trovare giustificazione
sul piano della descrizione; nemmeno di quella fornitaci ex novo dallo stesso Heidegger. Certo, l’animale è privo di autocoscienza, del
linguaggio e della sua struttura elementare: l’«in quanto» (als); esso
non è in grado di comprendere le cose in quanto cose: per la lucertola
che si crogiola al caldo su un sasso il sole non è in quanto sole e la
pietra non è in quanto pietra. Ma basandosi sulla mera osservazione è
impossibile dire, per esempio, che l’uomo faccia altrimenti, che egli
abbia davvero la possibilità di vedere il sole in quanto sole e così via;
è Heidegger stesso ad averci insegnato, in Essere e tempo, che il modo
in cui innanzitutto e per lo più ci rapportiamo agli oggetti è piuttosto quello del “prendersi-cura maneggiante-usante”: atteggiamento
molto simile a quello con cui la formica si rapporta al sassolino, e rispetto al quale la considerazione in base alla mera semplice-presenza
è secondaria e derivata tramite un processo di astrazione depauperante. Il punto è che il piano della descrizione zoologica e antropologica
non può affatto bastare di per se stesso al fine di scardinare una volta
per tutte, come vuole Heidegger, l’idea antichissima e resistente che
l’uomo sia un animale, in più dotato di ragione, di linguaggio.
Dunque, per quanto si possa e si debba ammettere in virtù della
nostra stessa esperienza empirica che per l’animale si dia una qualche apertura (Offenheit), ciò che è aperto all’animale, per Heidegger,
non è il mondo, non sono gli enti in quanto tali, non è l’ambito della
manifestatività (Offenbarkeit); è invece il cerchio all’interno del quale
l’animale si trova rinchiuso, in cui è condannato a girare e girare,
stordito, sospinto da un comportamento istintuale all’altro, in una
«lotta attraverso l’oscurità» (HEIDEGGER 1989, § 154). Ma il cerchio
per Heidegger non deve essere inteso affatto come un ambito di manifestatività di tipo diverso e però anche solo in minima parte coincidente con quello umano (di nuovo, come una proto-maifestatività); e
ciò non più in forza di ciò che l’empiria può o potrà mai mostrarci.
731
La manifestatività per Heidegger è compresa nella sua origine solo
quando è compresa nel suo emergere dal nascondimento e in originaria
unità con esso. E l’animale, come si esprime Heidegger, «è escluso dall’ambito del conflitto essenziale di velatezza e svelatezza» (HEIDEGGER 1982, p. 282); preso nella sua lotta per la vita, esso non ha alcun
rapporto con un’altra ben più essenziale lotta: la lotta di velamento e
svelamento in cui propriamente consiste la verità, compresa nella sua
essenza originaria di a-letheia, ossia come rapporto originario dell’uomo con l’essere. L’animale è escluso dal rapporto originario con l’essere, per l’animale non si dà aletheia, ed è per questo che nel suo caso
non ha senso parlare del darsi di un ambito di manifestatività, di un
mondo di qualsiasi genere, fosse anche il più misero dei mondi-ambiente. «Nello stordimento l’ente per il comportamento dell’animale
non è manifesto, non è dischiuso, ma appunto per questo neppure chiuso.
Lo stordimento si trova al di fuori di questa possibilità» (HEIDEGGER
1983a, p. 317). E se l’uomo, più propriamente, non ha bensì è rapporto con l’essere, quella tra l’uomo e l’animale non potrà in nessun
caso essere compresa come una differenza accessoria, e nemmeno in
generale come una differenza, poiché essa si fonda su un piano radicalmente altro da quello dove si situano differenze qualitative e
quantitative specifiche: essa si fonda nel luogo dell’essenza unitaria e
originaria dell’esser uomo dell’uomo, della sua umanità. L’originario
luogo ove solo può trovare fondamento la distinzione abissale tra
uomo e animale, come si legge nelle lezioni più tarde sul principio di
ragione, è quel luogo assoluto in cui si gioca eternamente il gioco del
sorgere del mondo come ambito della manifestatività, un differenziarsi a partire dal sottrarsi originario dell’essere stesso. Un gioco che
l’uomo gioca con l’essere affinché l’essere possa giocarvi con l’uomo.
E che può essere giocato in modo più o meno appropriato. Un gioco
ultimo, in cui naufraga ogni ulteriore possibilità di fondazione23.
Solo a partire dalla «logica originaria» del fondamento infondato
– logica che Heidegger stesso guadagnerà via via nel corso del suo
pensiero – è possibile comprendere quel che intende nei Grundbegriffe 1929/30 quando afferma che «all’animale è sottratta [genommen] la
possibilità di apprendere qualcosa in quanto qualcosa, e non qui e
ora, bensì sottratta nel senso di non data affatto […] e per questo esso
732
non è semplicemente non-riferito ad altro, bensì appunto assorbito
da ciò, stordito» (HEIDEGGER 1983a, p. 316): il vero senso e fondamento della Benommenheit, dello stordimento, è la Genommenheit, la
sottrazione del mondo. Sottrarre, esser povero, fare a meno, non avere
nel poter avere: tutti questi termini non sembrano affatto presentare
la condizione animale con neutralità, bensì valutarla negativamente. E non potrebbe esserci fraintendimento maggiore del pensiero
di Heidegger che quello di considerare la sua descrizione del modo
d’essere animale e questa sorta di valutazione negativa come l’esito
di un punto di vista “soggettivo”: la povertà di mondo non è un
carattere desunto dal confronto con l’uomo (come ente dotato di capacità empiricamente constatabili). Al contrario, afferma Heidegger
verso la conclusione dei Grundbegriffe, «se in certe sue varianti il fare
a meno è un soffrire, allora, se il fare a meno del mondo e l’esserpovero fanno parte dell’essenza dell’animale, la sofferenza e il dolore
dovrebbero aggirarsi per l’intero regno animale e per il regno della
vita in generale», e che «forse soltanto i poeti, di quando in quando,
ne parlino è un argomento che la metafisica non può gettare al vento.
In fondo non è necessaria la fede cristiana per comprendere qualcosa
di quella parola che Paolo (Romani VIII, 19) scrive della […] struggente attesa delle creature e del creato le cui vie, come dice anche il
libro Esdra, IV, 7, 12, in questo Eone sono divenute anguste, tristi e
faticose» (HEIDEGGER 1983a, p. 348).
S. Paolo e un testo apocrifo, trattati come testi poetici, alluderebbero a ciò che le scienze non potranno mai vedere: che in qualche modo l’animale è stato privato di “qualcosa”, e ciò in un senso
assoluto. Questo “qualcosa” è definibile, se non forse come “grazia”,
certamente come una peculiare specie di “salvezza”. Nelle lezioni del
1942-43 su Parmenide non a caso Heidegger riprende la questione
dell’animale proprio in occasione della accentuazione del motivo del
«salvamento» (Bergung) come carattere intrinseco alla aletheia pensata
come «disvelamento» (Entbergung). «In termini iniziali lo svelato è
ciò che […] viene salvato e messo in salvo nello svelamento»; quanto
è dischiuso [das Augegangene] e svelato viene “accolto nella svelatezza”, ne viene “salvato” e vi “resta in salvo”: «Das Unverbogene [lo svelato] ist das also Geborgene [salvato]» (HEIDEGGER 1982, p. 239). Ma
733
«l’aperto salva il sito essenziale dell’uomo, se non altro perché solo ed
esclusivamente l’uomo è quell’ente per cui l’essere si apre nella radura» (HEIDEGGER 1982, p. 268); «solo ed esclusivamente l’uomo vede
nell’aperto», sebbene ciò possa poi avvenire o meno «nello sguardo
essenziale del pensiero autentico»; solo ed esclusivamente l’uomo è in
rapporto con l’essere nel modo del lasciar essere la manifestatività, e
reciprocamente e a un tempo e proprio in questo modo solo ed esclusivamente per l’uomo si dà salvezza dell’ente nella sua totalità – e così
a un tempo della sua stessa essenza. L’aperto è innanzitutto quello che
«giammai la creatura potrà vedere, dal momento che il poterlo scorgere costituisce il contrassegno essenziale dell’uomo, e dunque il confine essenziale e invalicabile tra uomo e animale». Da parte sua, come
già si è detto, «l’animale è escluso dall’ambito essenziale del conflitto
fra svelatezza e velatezza, e il segno di tale esclusione essenziale è il
fatto che nessun animale e nessuna pianta “ha la parola”»: l’assenza di
linguaggio non è affatto una causa (empirica), ma un segno: la traccia
visibile di ciò che è determinato una volta per tutte sul piano dell’essenza, e che possiamo chiamare una tragica assenza di salvezza.
Se ci permettiamo di saltare indisciplinatamente da un riferimento testuale all’altro è perché, a dispetto dei mutamenti linguistici e
degli slittamenti concettuali attraverso cui il pensiero di Heidegger
non smette mai di riguadagnare la radicalità del proprio compito, è
sorprendente la costanza con cui nel corso dei decenni questo filosofo
ha affrontato il tema della vita animale. Ma tutt’altro che risolta,
tale questione resta piuttosto irresolubile. E questa irresolubilità è
ben chiara ad Heidegger, e a ben guardare è sempre esplicitamente
ribadita in questi luoghi: «La vita è un ambito che nel suo esseraperto ha una ricchezza che forse il mondo dell’uomo non conosce
per nulla» (HEIDEGGER 1983a, p. 327), scrive Heidegger nel 192930. «Unicamente accennando all’esclusione dell’animale dall’ambito
essenziale della svelatezza, l’enigma di tutto il vivente comincia per
noi a chiarirsi in quanto enigma» (HEIDEGGER 1982, pp. 282-283), si
legge nelle lezioni su Parmenide. Il pensiero originario della aletheia
non risolve né liquida affatto l’enigma dell’alterità animale e in generale del vivente. Al contrario, ne pone in luce il carattere di enigma assoluto, puro e ultimo. Gli animali e più in generale i viventi si
734
muovono in ciò che in Parmenide viene indicato – in una sostanziale
identità col Ring di quindici anni prima – come una Erregbarkeit, un
ambito di eccitabilità; d’altro canto, essi sono esclusi dall’ambito della
manifestatività (Offenbarkeit). Questa contrapposizione di due ambiti
in definitiva assolutamente altri sembrerebbe però, così espressa, un
ultimo baluardo della metafisica, una sorta di punto cieco ove a qualcosa di metafisico ancora si accede all’interno del pensiero di Heidegger. L’allodola non vede l’aperto; ma allora «Che cosa essa “veda”,
come vede, e che cosa intendiamo per “vedere” attribuendole occhi,
questo resta da domandare». L’enigma del vivente non è altro che
questa domanda residua, in quanto è destinata a restare tale. Infatti,
come si potrebbe «intuire tale lato nascosto [Verbogene] del vivente»?
«Vi sarebbe bisogno di una facoltà poetica innata, cioè di un poetare a cui fosse dato qualcosa di più, di più alto e di più essenziale,
perché intrinsecamente essenziale» (HEIDEGGER 1982, pp. 282-283),
ben diverso da quel poetare che antropomorfizza piante e animali; ma
questa facoltà poetica, che è quella di Paolo e dei testi apocrifi citati
quindici anni prima, non costituirebbe appunto una sorta di ristretto spazio concesso ad un pensiero metafisico? Nella misura in cui il
vivente è cacciato in modo radicale fuori dall’ambito della manifestatività, nella misura in cui si vuole mantenere il “mondo” mondo
dall’animale, in questa misura l’enigma del vivente è e resta fuori di
noi, e questo “fuori” sembra non potersi comprendere che come un
luogo metafisico. Se in Heidegger resta spazio per qualcosa come una
dimensione noumenica, in un senso paragonabile a quello kantiano,
la si trova qui; non nel mistero dell’interiorità, e nemmeno tanto,
paradossalmente, nel mistero dell’essere con la sua “logica salvifica”,
quanto nell’enigma del vivente. Entro i confini del Ring, come uno di
quei cerchi magici tracciati dagli antichi stregoni per ospitare forze
misteriose, resta forse un luogo residuo per quell’antichissima stregoneria del pensiero che per Heidegger è in fondo la metafisica. E la
possibilità parziale di comprendere l’animale, raggiungibile a partire
dal nostro punto di vista attraverso una legittima «osservazione privativa» (come la chiama Heidegger in Essere e tempo e nei Grundbegriffe), piuttosto che trovare una giustificazione essenziale infine finisce
per somigliare ad una sorta di armonia prestabilita24.
735
Di denunciare la Vieldeutigkeit della parola Leben e più in generale di criticare
radicalmente le filosofie della vita nel loro complesso si era già occupato efficacemente Rickert nel 1920, col suo Die Philosophie des Lebens. In quest’opera, che
Heidegger mostra di conoscere (HEIDEGGER 1985b, p. 114), Rickert si scagliava contro le Lebensphilosophien di Schelling, Scheler, Simmel, Dilthey, Bergson,
Nietzsche, Spengler, William James e persino Husserl, tutti considerati alla
stregua di ciechi adepti al “potere dell’intuitivo”. Se la separazione del vivere
dal conoscere è criticata da Heidegger con toni che ricordano Rickert e la scuola
neokantiana, lo è però in nome di concetti di vita e conoscenza del tutto diversi,
e tali che la “ripetizione” che determina il modo del loro reciproco “rapporto”
muta totalmente. Per un approfondimento della questione Rickert-Heidegger
in merito a Die Philosophie des Lebens cfr. KRELL 1992, pp. 37-38.
2
Cfr. SCHNAEDELBACH 1983, p. 176.
3
W. DILTHEY, Introduzione alle scienze dello spirito [1882-83], tr. it. di G. A. De
Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974.
4
Cfr. HEIDEGGER 1987b, § 14. Heidegger ricorrerà ancora alla verbalizzazione del
termine Welt, mondo, lungo il suo cammino di pensiero (cfr. per es. Dell’essenza
del fondamento, 1929, in HEIDEGGER 1976a), ma è in questo primo corso di lezioni
che se ne comprende la genesi, come risposta analoga e opposta all’es wertet della
filosofia di Lask, Natorp e Rickert.
5
Cfr. HEIDEGGER 1992, pp. 31 e 231.
6
Cfr. HEIDEGGER 1992, p. 26.
7
Cfr. HEIDEGGER 1985b, p. 181.
8
Cfr. HEIDEGGER 1992, p. 32: «Tu, lui, lei, noi viviamo sempre in una direzione
[Richtung] (in modo tale che innanzitutto la direzione non ci è esplicitamente
consapevole)».
9
Vedi nota precedente.
10
Cfr. HEIDEGGER 1995, p. 235.
11
Nella tripartizione, tentata in quegli anni, della Welt, in base al nostro modo
immediato di rapportarci ad essa, in Selbstwelt (mondo del sé), Mitwelt (mondo
degli altri o con-mondo) e Umwelt (mondo-ambiente), sembra evidente dalle
scarne indicazioni sparse qui e là negli scritti di Heidegger che l’animale e il
vivente non umano in generale si debba trovare, fra le tre, nella “regione” della
Umwelt, «accanto agli altri enti colti in quanto parte dell’ambiente» (cfr. per
es. HEIDEGGER 1995, pp. 43-44). Se gli animali (magari solo alcuni, o anche
solo uno, il proprio cane) fossero stati inseriti nella Mitwelt, si sarebbe dovuta
attribuire a questi stessi viventi una Umwelt «in prima persona» e ciò avrebbe
implicato la nascita di un’autentica questione dell’alterità animale, e da qui forse
la legittima questione dello statuto di un punto di vista altro e più complesso
sulla nostra stessa fatticità.
12
Cfr. HEIDEGGER 2002b, pp. 53-54.
13
Cfr. HEIDEGGER 1992, p. 55: «Già nell’attrarre a sé e nel mettere in guardia si
1
736
mostra che l’animale è con un altro. Il Miteinandersein diventa esplicito proprio
nello specifico carattere d’essere dell’animale come phoné» in quanto «autentico
essere dell’animale in quanto tale».
14
Per quanto segue cfr. in particolare HEIDEGGER 1992, §§ 12-14.
15
HEIDEGGER 1992, p. 95: «L’essere a cui si giunge alla fine può essere per il Dasein
solo il suo stesso essere. Si mostra qui una determinazione fondamentale dell’esserci come quell’ente che originariamente o non originariamente giunge al suo
stesso essere; l’aplos teleion è quindi ciò che determina la compiutezza dell’esserci,
la sua possibilità eminente».
16
Cfr. HEIDEGGER 1983a, p. 230.
17
HEIDEGGER 1977, in particolare § 10.
18
Cfr. HEIDEGGER 1983a, §§ 49-50.
19
Cfr. HEIDEGGER 1983a, § 58 e ss.
20
Cfr. HEIDEGGER 1983a, § 60 e ss.
21
Cfr. HEIDEGGER 1983a, § 56.
22
Cfr. HEIDEGGER 1983a, p. 337; HEIDEGGER 1980: «Il salto [Sprung] dall’animale
che vive all’uomo che parla è tanto ampio se non più ampio di quello dalla pietra
senza vita all’essere vivente» (ed. ted. p. 75), afferma Heidegger nelle lezioni del
1934-5 dedicate all’inno Germanien di Hölderlin; e ancora HEIDEGGER 2002a, p.
108: «La mano si distingue da ogni altro organo prensile, come zampe, artigli,
zanne, infinitamente, ossia tramite un’abissalità essenziale». Ma i riferimenti
analoghi sono davvero innumerevoli.
23
La caratterizzazione del fondamento in termini di “gioco” è in realtà successiva
al 1930, e la si incontra sovente nell’Heidegger della maturità; cfr. in part. HEIDEGGER 1997a, pp. 192-193.
24
Per una trattazione più approfondita degli argomenti e delle tesi di quest’ultima
parte del saggio, mi permetto di rimandare al mio La rosa senza perché. Heidegger
e la questione del vivente, AGUILAR 2005.
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