L'incisione a Firenze
a ridosso della Grande Guerra:
spunti per gli esordi
di Carlo Sbisà
GIORGIO MARINI
Vado ogni mattina a disegnare e il pomeriggio all’ “acquaforte”.
Disegno molto per le strade e per le piazze, la gente, i cappanelli [sic] attorno
ai ciarlatani, i sensali che di venerdì s’assiepano in Piazza della Signoria.
Ho incominciato pure ad incidere, al caffè, direttamente dal vero […]
Carlo Sbisà, lettera da Firenze alla sorella Maria, 1921
Se «Carlo Sbisà è l’artista più “centrale” nell’arte triestina della prima metà del
Novecento»1, come è stato definitivamente stabilito dagli studi recenti, a partire
almeno dalla mostra monografica del 1996, verrebbe voglia allora di riuscire a
inquadrarne anche gli esordi all’insegna di quel delicato rapporto tra fenomeni
“centrali” e altri più “periferici” che attraversano l’arte del primo Novecento italiano; asse su cui muove pure la corretta valutazione del giusto peso da attribuire
al decennio della sua giovanile esperienza fiorentina, tra il 1919 e il 1928. Rischiose categorie in rapporto dialettico, i cui confini sono sempre difficili da definire
perché si ridisegnano di volta in volta in funzione del punto di vista da cui ci si
pone, esse vanno intese essenzialmente come una “scelta di campo”, quale certo
fu quella maturata nella cultura triestina a ridosso della Prima Guerra Mondiale,
e ancor più dopo la sua conclusione, con la fine della “perifericità” della città – pur
così cosmopolita per costituzione e per vissuto storico della sua popolazione –
rispetto alle vicende nazionali.
L'incisione a Firenze a ridosso della Grande Guerra
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Come è stato ben sintetizzato, «la nuova realtà esigeva una nuova pittura, e
la nuova pittura per essere significante doveva essere italiana. Italiana, quindi
fiorentina. Forse sull’attrazione che Firenze esercitò sui pittori triestini pesò anche il precedente dei letterati, che nella città toscana avevano fondato una vera e
propria colonia»2. Alla prodigiosa fioritura della “civiltà delle riviste” – dal “Leonardo” alla “Voce”, da “Lacerba” a “Solaria”– nei primi decenni del secolo aveva dato infatti straordinario impulso un folto gruppo di giovani “intellettuali di
frontiera” che sarebbero stati poi i maggiori esponenti della letteratura giuliana
del tempo. Essi presero a convergere su Firenze, seguendo il richiamo di quella
comune cultura “italiana” di cui la città poteva considerarsi, per tanti aspetti, la
fonte primaria. Quella stagione aprì quindi la strada a un autentico pellegrinaggio in riva all’Arno, alle radici della cultura visiva classica e rinascimentale, anche
da parte di molti artisti loro conterranei ma tutt’altro che provinciali – e alcuni
di fatto educati tra Vienna e Monaco – che rifiutarono gli sperimentalismi delle
avanguardie ricercando in terra toscana quella solida tradizione figurativa che
offriva loro un rifugio dalle inquietudini dell’epoca. Per essi, dunque
Firenze era la solarità, il Mediterraneo civilizzato dalle lettere, la Grecia antica superata dal Rinascimento. Ed inoltre, come per Stuparich, per Michelstaedter, per Morovich
era stata l’Università italiana, così per i pittori Firenze era l’Accademia, un’Accademia
italiana che affondava le proprie radici in Giotto, Masaccio, Michelangelo, luogo deputato alla trasmissione di quella “tradizione” della quale i triestini dovevano appropriarsi per diventarne parte integrante, per entrare nella memoria e diventare storia3.
Tra avanguardie e ripiegamenti regionalistici, chiusure locali e sguardi spalancati sui panorami internazionali quali potevano offrire le Biennali veneziane o
il fiorire di esposizioni dedicate al “Bianco e Nero”, quel momento documenta
anche per la grafica una stagione culturale per molti versi irripetibile: quella
dell’entusiasmo per la sprovincializzazione e per un dialogo cosmopolita tra diverse tradizioni figurative che il conflitto mondiale avrebbe poi di fatto spezzato.
In particolare in Toscana, il primo ventennio del secolo
si manifesta subito come fervido crogiolo di indirizzi estetici e filosofici avendo come
epicentro la Firenze mitteleuropea intenta a preservare i valori di una tradizione che
i residenti tedeschi e francesi recuperavano come via privilegiata all’espressione moderna dell’arte, mentre i toscani sapevano rispondere con coerenza a quelle sollecitazioni internazionali preferendo tuttavia l’orientamento del ‘classicismo’ di Costetti e
di Ojetti alla provocazione futurista, decisiva ma effimera4.
Sul tema di un controverso ruolo-guida della cultura figurativa fiorentina esordiva Renato Barilli nell’introdurre il catalogo della mostra del 1996, forse considerandovi la componente prevalentemente orientata verso quei recuperi ‘primitivi’, segnata dall’orgoglioso radicamento di una ‘provincia’ nutrita ancora dalla
sintesi semplice e icastica degli affreschi del Medioevo e del Rinascimento. Si
arrivava così a valutare una «scelta sbagliata» quel trasferimento di Sbisà a Fi-
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renze, «dettato – secondo Barilli – da calcoli errati […], attratto dal falso mito di
centralità che a sua volta spirava dalla città del giglio, e che in effetti, prima di lui,
aveva sedotto altri triestini, soprattutto sul versante letterario. […] Era un commovente proposito di non accettare una collocazione periferica, rispetto ai valori
dell’unità nazionale»5. Resta comunque difficile stabilire quale sguardo fosse realmente “centrale” e quale “periferico” per chi arrivava a Firenze agli inizi del 1919
con gli occhi di chi, come Carlo Sbisà, “ragazzo del ‘99” scampato alla leva con
l’esercito austro-ungarico grazie al professore di disegno, che gli aveva trovato un
impiego come disegnatore tecnico nei cantieri navali di Monfalcone, poteva già
vantare esperienze internazionali. All’impiego a Monfalcone infatti era seguito,
al passaggio del fronte bellico sull’Isonzo, un trasferimento alla sede di Budapest
degli uffici del cantiere, fortunata occasione di visite ai grandi musei, e di puntate anche a Vienna, dove conoscerà probabilmente l’arte di Klimt e di Schiele.
Se dunque è innegabile la fascinazione esercitata da Firenze sul giovane Sbisà
non ancora ventenne e il suo sogno di potersi iscrivere, a guerra appena conclusa,
all’Istituto d’Arte fiorentino, complice la presenza in città di una zia e della nonna paterna sfollate da Trieste, è pure difficilmente condivisibile l’idea che questo
non avvenisse in forza di un richiamo irrinunciabile della cultura toscana e di
un ruolo egemone che essa avrebbe mantenuto per un buon tratto del Novecento, anche rispetto alle vicende dell’incisione in Italia. Ce lo viene confermando la
prospettiva di una storia più accurata, o semplicemente più ravvicinata e resa ora
meglio conoscibile dall’avanzare degli studi in quest’ambito, soprattutto quelli
di Emanuele Bardazzi e di Susanna Ragionieri6. E, da ultimo, la felice occasione
di una mostra organizzata lo scorso anno in collaborazione tra la Soprintendenza di Trieste, la Fondazione Palazzo Coronini Cronberg di Gorizia e il Gabinetto
Disegni e Stampe degli Uffizi, ha consentito degli approfondimenti sull’apporto
fondamentale di alcuni artisti “esterni”, provenienti in particolare dalle Venezie,
alla fioritura calcografica fiorentina nei tre decenni che vanno dal Concorso Alinari per la moderna illustrazione della Divina Commedia, bandito nel 1900, fino
alla Prima Mostra dell’Incisione Italiana Moderna, organizzata a Firenze nel 19327.
Rinata in città nel segno dell’eredità di Fattori, la grafica infatti si prestava assai
bene in quegli anni a dar forma a un nuovo intimismo inquieto, dove gli esiti del
naturalismo postmacchiaiolo venivano rivisti alla luce dei modelli internazionali.
Nei primi due decenni del secolo «l’attività incisoria fu tuttavia per molti un’esperienza a latere di valore sperimentale e marginale, un veicolo espressivo più
idoneo della pittura per toccare certe corde di sensibilità intima e accesa, piuttosto
che un mezzo alternativo rivolto a risultati compositivi e formali di valori segnici»8. Lasciando dunque al contributo di Susanna Ragionieri l’approfondire meglio
i rapporti di Sbisà con l’Accademia fiorentina e i pittori locali, si intende qui offrire essenzialmente un sintetico panorama del contesto vitale che al suo arrivo
a Firenze l’artista poteva aver incontrato, in particolare, nel campo dell’incisione.
Su questo versante, con la sua breve ma intensa esperienza calcografica, che non
mancò peraltro di segnarne decisamente gli esordi, si sarebbero infatti saldate da
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un lato la sua natura portata all’ordine, alla chiarezza di un’espressività improntata all’armonia lineare, e dall’altro una visione della pratica artistica intesa come
applicazione devota e costante a un esercizio condotto col metodo che richiede un
“mestiere”, interessato alla sperimentazione tecnica anche nella sua componente
sapientemente “artigianale”. E non ci si può esimere dal sottolineare quanto questo suo approccio alla cultura visiva fiorentina nel segno della pratica incisoria e
delle “arti del disegno”, forte della giovanile esperienza come cesellatore presso il
laboratorio degli orafi triestini Janesich, finisse ironicamente col tornare alla fonte di quella visione “mitizzata” della nascita della stampa figurativa che già Vasari
con fierezza toscana riferiva, nella seconda edizione delle Vite, proprio all’ambiente delle botteghe orafe di Firenze, tra Maso Finiguerra e i Pollaiuolo.
Con passione d’autodidatta Sbisà affida alle lettere alla famiglia, già nelle
prime settimane fiorentine, questa chiarissima volontà di immergersi risolutamente nel tirocinio artistico, tanto che già alla fine di marzo scriveva alla sorella
Maria: «la mia prima preoccupazione è lavorare, la seconda è lavorare, e la terza
è ancora lavorare»9. Così, con grande lucidità d’intenti, questa sorta di incalzante
programma d’apprendistato lo portava immancabilmente a ricalcare le orme di
un simile “viaggio iniziatico” verso Firenze e la sua Accademia di Belle Arti percorso pochi anni prima, nell’estate del 1915, dal conterraneo e futuro amico Giannino Marchig. Anch’egli vi era stato senza dubbio attirato da una fioritura culturale singolarissima, che coinvolgeva non solo le riviste letterarie e le associazioni
artistiche ma anche le istituzioni, come la Società Leonardo da Vinci, fondata nel
1902, che ebbe tra i primi soci, oltre a D’Annunzio, anche Ugo Ojetti e Bernard
Berenson, o i molti punti d’aggregazione dei vari gruppi di intellettuali di stanza
in città, dal Caffè Paszkowski al Giubbe Rosse o al Caffè Michelangiolo.
Un clima d’inedito fervore verso la rinascita dell’incisione in Italia, alimentato dalle fitte presentazioni di opere grafiche alle Biennali e febbrilmente divulgato dalla prolifica penna di Vittorio Pica sulle principali riviste d’arte, si rifletteva
in città anche nelle istituzioni museali e nella loro attività, grazie alla presenza
di figure del rilievo di Ugo Ojetti e Corrado Ricci, che diresse le Regie Gallerie
fiorentine dal 1903 al 1906. Negli anni a seguire, la coraggiosa politica di acquisizioni di Giovanni Poggi alla direzione degli Uffizi promosse una decisa apertura verso la grafica contemporanea, recependo i fervidi sviluppi del panorama
internazionale10. A Firenze, occasioni quali le mostre organizzate da Ojetti sulle
acqueforti di Frank Brangwyn e le litografie di Joseph Pennell11, o le rassegne delle
Società Promotrici e la prima mostra internazionale del “Bianco e Nero”, nel 1914,
incontreranno un vastissimo consenso di pubblico. A ridosso della cesura causata di lì a poco dal conflitto mondiale, le acquisizioni degli Uffizi documentano
quindi un contesto ancora ampiamente europeo, attento agli esiti dell’Ottocento
francese e al contempo a quelli della moderna ricerca figurativa degli stranieri
attivi in Italia, tra cui Max Klinger, che ebbe dimora sui colli alle porte di Firenze.
Eloquente è l’opera dello svedese Anders Zorn, presentata in Italia con successo già dalle prime Biennali veneziane, e riconfermata agli Uffizi dall’interesse di
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Corrado Ricci, che nel 1905 scelse alcune sue acqueforti da destinare alla collezione fiorentina. In quegli stessi anni entravano nella raccolta anche gli autoritratti
di Max Liebermann, Lovis Corinth e Antonio Antony De Witt, poliedrico artista e
critico che negli anni Trenta sarebbe stato il riordinatore della collezione di stampe degli Uffizi.
Nella grande raccolta fiorentina le opere contemporanee venivano dunque a
mescolarsi ai capolavori dei maestri del passato, Dürer e Rembrandt in primis, che
attiravano l’attenzione dei giovani artisti altrettanto efficacemente della diretta
didattica in Accademia. Qui era stata costituita nel gennaio del 1912 la cattedra
della prima Scuola d’Incisione in Italia ad avere corsi ufficialmente riconosciuti,
nella continuità di un filone espressivo locale ispirato ai modelli acquafortistici
di Signorini e Fattori, il quale insegnò in Accademia fino alla morte, nel 1908. I
più giovani seguaci del maestro livornese cercheranno poi di conciliare gli orientamenti postmacchiaioli con le nuove sensibilità simboliste, e persino nelle
stampe dei suoi continuatori più fedeli, come Carlo Raffaelli o Ludovico Tommasi (fig. 1), «emergeva talvolta l’esigenza di comunicare il clima, la suggestione
poetica, di trasformare il paesaggio in stato d’animo»12. All’indomani della breve
direzione di Raffaelli, prematuramente scomparso, la direzione della scuola passò a Celestino Celestini (fig. 2), che formerà al suo «dolente crepuscolarismo»,
sviluppato sulla severa matrice fattoriana, una fitta schiera di allievi che esporranno compatti già in occasione delle iniziative subito promosse dall’Accademia,
come la Mostra d’incisione all’Istituto di Belle Arti di Firenze nel 1913 o la Prima
mostra di Bianco e Nero, tenutasi nello stesso anno a Pistoia, promossa dalla Famiglia Artistica locale13.
Dagli sviluppi di questi fenomeni si evince quanto l’acquaforte in ambito toscano fosse saldamente concepita nel segno di Fattori: e a questa tecnica
si dedicarono i suoi allievi più ossequienti, Giovanni Bartolena e Carlo Raffaelli che
aderirono in modo letterale ai temi e modi del maestro. Altri artisti appresero da lui
l’insegnamento e sperimentarono l’incisione, chi in modo saltuario e discontinuo,
chi con assidua dedizione. L’acquaforte coinvolse tutta la corrente post-macchiaiola
e i giovani che frequentavano l’Accademia di Belle Arti fiorentina: Plinio Nomellini,
Ludovico Tommasi, Galileo Chini, Baccio Maria Bacci, Moses Levy, Giuseppe Graziosi,
Guido Colucci, Luigi Michelacci, Emilio Mazzoni Zarini, Guido Spadolini, Celestino
Celestini, Gino Romiti, Renato Natali. Spesso la lezione naturalistica del maestro veniva rivista alla luce delle nuove urgenze primonocentesche. Ecco quindi gli echi divisionisti, simbolisti, espressionisti fare breccia fra i paesaggi e le figure di una Toscana
abitualmente restia a sottomettersi ai linguaggi figurativi internazionali14.
Ma più che a Celestini, richiamato per il servizio al fronte tra l’agosto del 1916 e
l’inizio del 1919, gli allievi della scuola d’incisione saranno debitori, negli anni a
ridosso della guerra, a Emilio Mazzoni Zarini (fig. 3), che sostituì gratuitamente
il collega nella cattedra per poi continuare autonomamente dei “corsi liberi” che,
proprio perché rimasti tali, ci risultano oggi difficili da documentare in merito alla frequenza degli allievi. Nella sua attività didattica Mazzoni Zarini riuscì
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infatti a incanalare una linea “modernista moderata” che privilegiava soggetti
paesaggistici, mediando abilmente tra le nuove atmosfere crepuscolari e la componente rustica e “paesana” di ascendenza macchiaiola, arrivando a meritare di
lì a poco il giudizio di «migliore forse, e più meditato e più fino fra gli incisori
italiani d’oggi»15, che gli avrebbe riservato Roberto Papini, recensendo dalle pagine di «Emporium» la grande rassegna fiorentina della Seconda Mostra Internazionale dell’Incisione Moderna, tenutasi nel nuovo edificio del Parterre di San
Gallo nel 1927. Se gli scarni elementi critici in nostro possesso faticano a sostanziare un’affermazione tanto impegnativa, di certo la figura di Mazzoni Zarini risultava centrale nel saper aggiornare a quelle date le ispirazioni di derivazione
rembrandtiana offerte dagli incisori nordici – soprattutto belgi e olandesi, fin
dall’inizio fittamente rappresentati alle mostre di grafica, soprattutto alle biennali di Venezia16 – e le contemporanee sperimentazioni nel campo dell’acquaforte “mobile”, o “monotipata”. Le attenuate atmosfere dei suoi luminosi paesaggi,
col segno lieve delle sottili gradazioni tonali a puntasecca, rivelano comunque i
loro debiti alla vibrante produzione grafica di Whistler, così come era stata riproposta dai molti acquafortisti anglosassoni attivi a Firenze, da John Taylor Arms a
Ernest David Roth (fig. 4) o Charles Robert Goff (fig. 5)17. In particolare quest’ultimo aveva avuto in città un’intensa attività acquerellistica e incisoria che gli meritò la nomina a membro dell’accademia di Firenze quando ancora vi insegnava
Fattori, alle cui stampe si accostano alcune di Goff per la capacità di modulazione
chiaroscurale (fig. 6). I ritratti femminili di Mazzoni Zarini, come il di Profilo di Lisetta (fig. 7), che sarà inviato anche all’Esposizione d’incisione italiana di Londra, nel
1916, traducono invece le sofisticate figure di Helleu o Chahine, assai popolari tra
il pubblico delle rassegne internazionali, secondo la cifra di una più quotidiana e
malinconica psicologia, che sarà certo di riferimento anche per l’analoga produzione di Marchig (fig. 8) e Sbisà.
L’eleganza contenuta di tali raffigurazioni, la ricerca degli effetti resi possibili
da una tecnica acquafortistica coltivata nelle sue componenti più insondabili e
misteriose, ne facevano l’ideale corrispettivo a Firenze delle contemporanee ricerche grafiche del friulano Fabio Mauroner, con una visione compositiva tanto
simile da arrivare a una singolare coincidenza di atmosfere, di soggetti e di impaginazione delle immagini (figg. 9-10). Le sue ricerche incisorie si alimentavano
inoltre della vicinanza agli americani attivi tra Venezia e Firenze, come i menzionati Roth, Pennell o Taylor Arms, ma pure dell’amicizia con Edward Millinton
Synge, che aveva portato in laguna l’esperienza acquisita a fianco dello stampatore Frederick Goulding, collaboratore di Frank Brangwyn. Nella prospettiva che
più qui ci interessa, il contributo di Mazzoni Zarini è però tanto più significativo
in quanto esemplifica appieno quel clima di rinnovato interesse per la grafica che
coinvolgerà molti giovani artisti attivi in riva all’Arno, tra cui la figura di Giannino Marchig resta forse quella più emblematica di tutta una temperie culturale.
Per sottrarsi alla leva con l’Austria, Marchig era giunto a Firenze nell’estate
del 1915, cercandovi le fonti, formalmente rigorose, di una “italianità” figurativa
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mirabilmente sintetizzata nell’arte toscana dei secoli passati. Così, rivissuto nei
comuni ricordi dell’amico bellunese Sergio Ortolani, compagno di studi in quegli anni, l’incontro con la città fu un’esperienza definitiva e trasfigurante:
Firenze, a pena conosciuta, fu una novella patria del tuo spirito. E l’antica parve dimenticata. Qui l’aria sottile cristallizzava le forme, disegnava con un fil di capello spigoli
e profili… e i tre e quattrocentisti affrescatori ti insegnarono le squisitezze del nuovo
idioma idealizzatore della linea di contorno. […] La tua veneta sensibilità […] ritrovava in questo spiritual paese di Toscana una castità e una affettuosità tutte fresche e
gentili: ribeveva ad una antica vena profonda di poesia: quel gusto del disegnare e del
delineare ch’era tuo fin dall’adolescenza e di cui ti sentivi ormai quasi signore18.
Vale quindi la pena d’insistere su questa fascinazione per le geometrie lineari,
nel solco dell’insegnamento ricevuto giovanissimo già a Trieste, tra il 1906 e il
1907, da Bruno Croatto nel campo dell’incisione, perché sarà carattere condiviso
poco più tardi anche da Carlo Sbisà, secondo una formulazione che condizionerà
inevitabilmente gli inizi di quest’ultimo negli anni fiorentini. Si tratta di un accentuato grafismo le cui diverse componenti sono state lucidamente individuate
da Susanna Ragionieri per quanto riguarda Marchig, che
da Croatto apprenderà il gusto per un segno analitico, unito a sicurezza d’impaginazione, atmosfere sature di un sottile sortilegio simbolista, fra Prencipe e Grassi, ed
echi whistleriani. Quanto alle sollecitazioni ricevute da Parin, non avrà che l’imbarazzo della scelta fra l’esuberante tavolozza monacense, struttura e cadenze disegnative
esemplate su Schiele e Klimt, ed una evidente devozione a Khnopff19.
Nel dicembre di quello stesso 1915 si iscriveva ai corsi di Figura all’Accademia
di Piazza San Marco anche il roveretano Carlo Cainelli, pure proveniente quindi
da ambienti segnati da umori mitteleuropei, e da un clima di entusiasmi futuristi vissuti all’inizio nell’ombra di Depero. Ma una volta in Toscana, piuttosto
che aderire alle pulsioni dell’avanguardia futurista, egli aveva preferito iscriversi all’Accademia, accostandosi poi al magistero di Mazzoni Zarini nel campo
dell’incisione20. La sua capacità di documentare graficamente la realtà della vita
fiorentina resta testimoniata da straordinari taccuini in cui appunta le opere più
ammirate nelle visite a chiese e musei, ma anche il brulicare delle folle ai mercati,
degli spettatori a teatro, gli incontri ravvicinati ai caffè cittadini (figg. 11-12). Con
un simile percorso e coerenti esiti grafici, tra il 1913 e il 1917 si era trasferito a
Firenze anche l’udinese Antonio Coceani, da subito attivo come incisore nell’ambito dell’insegnamento di Mazzoni Zarini, al cui gusto si assimilano i suoi minuti
paesaggi (fig. 13).
In questo perimetro si iscrive dunque l’ambiente degli artisti che a Firenze
erano giunti a ridosso della guerra, in gran parte dalle terre non ancora redente,
così come poté incontrarlo Carlo Sbisà al suo arrivo in Toscana a conflitto appena
concluso, nel gennaio 1919. L’intensità e la fertilità di un’immediata condivisione
d’interessi coi suoi giovani conterranei, all’insegna di una linearità quasi purista,
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41
che proviene da un incessante esercizio grafico, si misura soprattutto nel legame con Giannino Marchig e si esplica in uno stretto giro d’anni che resteranno
fondamentali anche per gli inizi di Sbisà, parimenti segnati dal disegno, dal paesaggio, dalla scena di strada colta dal vero ma filtrata dalla propria sensibilità, rispecchiando tutto un mondo interiore. Almeno fino al 1921 i due giovani triestini
sembrano condividere interessi, alloggio, frequenza ai corsi di incisione, lavorando fianco a fianco negli stessi luoghi – da Piazza San Gallo a Porta Romana, dai
mercati di strada ai palchi di teatro e ai tavolini dei caffè (figg. 14-16) – servendosi
persino della la stessa modella, detta «asiatica», che appare in disegni di entrambi in una incisione di Sbisà (figg. 17-19)21. È un fervore di esercizio grafico che ben
emerge dalle lettere ai familiari pubblicate da Nicoletta Comar, se nell’aprile 1920
scriveva:
cara mamma [...] ora mi sono buttato corpo morto a fare disegni dal vero. Più si lavora,
e più si dovrebbe lavorare perché non basta mai. Qualche settimana fa ero un po’ depresso. Ora sono completamente rinnovellato». E ancora, scrivendo alla sorella Maria,
l’anno successivo, delineava questo intenso piano di lavoro, che comprende ora anche
l’incisione in una diretta ripresa dal vero: «Vado ogni mattina a disegnare e il pomeriggio all’ “acquaforte”. Disegno molto per le strade e per le piazze, la gente, i cappanelli
[sic] attorno ai ciarlatani, i sensali che di venerdì s’assiepano in Piazza della Signoria.
Ho incominciato pure ad incidere, al caffè, direttamente dal vero22.
In particolare i monumenti antichi, la vita di strada, ai mercati rionali, le impressioni di pubblico a teatro o le figure nei caffè, corrispondono alla contemporanea
produzione grafica di Cainelli (figg. 20-21), e le incisioni di Sbisà ne riprendono
sostanzialmente il segno geometrizzante, partendo da Marchig, secondo «quel
gusto del disegnare e delineare» che Sergio Ortolani riconosceva come carattere
peculiare della attività di quest’ultimo, fin dalla sua giovinezza23. A tali interessi
si affianca con sempre maggiore evidenza nella produzione del giovane artista
triestino quello per il ritratto e la figura (figg. 22-23), e di ritratto saranno infatti le incisioni, non altrimenti individuabili, presentate alle Biennali di Venezia
del 1922 e 1924. Nascono così delle rappresentazioni improntate a una purezza
di contorni taglienti, che pur nella cifra moderna tendono a un modello “classico”, come immaginiamo dovesse essere l’omaggio al pittore Giovanni Colacicchi,
oggi non rintracciato, e un altrettanto raro, affilato ritratto maschile esposto nel
1977 alla galleria Cartesius o ancora quello del pittore e xilografo Bruno Bramanti
(fig. 24), ripreso con grande forza emotiva in un’acquaforte segnata dal dialogo
dello sguardo e dall’intreccio delle grandi mani. Infatti «il segno, in parte di questi lavori, si sofferma soprattutto sulle mani, che appaiono nervose, graficamente
plastiche […] Sono immagini che acquistano interesse per la palese dicotomia tra
le valenze costruttive del volto e delle stesse mani e la piattezza dei corpi contenuti in linee, forti e incisive, come cesellate»24. Da esse si evince il peso e il
significato della pratica incisoria nello sviluppo espressivo del giovane Sbisà, che
nell’intelaiatura architettonica neorinascimentale della puntasecca Alla finestra,
42
del 1928 (fig. 25), inserisce un ritratto dolcemente tagliente, come un busto scolpito da Desiderio da Settignano. Essa verrà esposta a Milano nel 1929, e trova ora
un ideale pendant in un’inedita Suonatrice di chitarra (fig. 26)25, puntasecca giocata
su una delicatissima linea di contorno, ancorché preparata da un più vigoroso
e chiaroscurato disegno a carboncino26 che la raffigura inquadrata da una tenda
contro un tipico paesaggio toscano dai dolci profili. Perfette sintesi formali dello
stile grafico di Sbisà verso gli ultimi anni Venti, queste incisioni marcano, nel
segno di una linearità antica, gli esiti estremi della sua esperienza fiorentina, a
testimoniare la validità di un percorso dettato da tutt’altro che una «scelta sbagliata», ma anzi fondamentale per gli sviluppi a venire.
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43
1
Ludovico Tommasi, Paesaggio toscano, acquaforte, 1910 ca., Firenze, Gabinetto disegni
e Stampe degli Uffizi
2
Celestino Celestini, A Porta Borgna – Perugia, acquaforte, 1912, Firenze, Gabinetto
disegni e Stampe degli Uffizi
44
3
Emilio Mazzoni Zarini, Autoritratto,
acquaforte, 1910 ca., Firenze, Gabinetto
disegni e Stampe degli Uffizi
4
Ernest David Roth, Ponte Vecchio
– Evening, acquaforte e puntasecca,
1906, Firenze, Gabinetto disegni e
Stampe degli Uffizi
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45
5
Robert Charles Goff, La strada per Fiesole, acquaforte, 1905, Firenze, Gabinetto
disegni e Stampe degli Uffizi
6
Robert Charles Goff, L’Arno alle Cascine, acquaforte e puntasecca, 1906, Firenze,
Gabinetto disegni e Stampe degli Uffizi
46
7
Emilio Mazzoni Zarini, Profilo di Lisetta, puntasecca, 1915 circa, Firenze, Gabinetto disegni
e Stampe degli Uffizi
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47
8
Giannino Marchig, Ritratto di signora (Francesca Cinelli), acquaforte e puntasecca, 1922 ca.,
Firenze, Gabinetto disegni e Stampe degli Uffizi
48
9
Emilio Mazzoni Zarini,
Fontana dell’Oceano a
Boboli, acquaforte e
puntasecca, 1908 ca.,
Firenze, Gabinetto disegni
e Stampe degli Uffizi
10
Fabio Mauroner, Fontana
dell’Oceano a Boboli,
acquaforte e puntasecca,
1908, Firenze, Gabinetto
disegni e Stampe degli Uffizi
L'incisione a Firenze a ridosso della Grande Guerra
49
11
Carlo Cainelli, I fidanzati a teatro,
acquaforte, 1922, Firenze, Gabinetto
disegni e Stampe degli Uffizi
12
Carlo Cainelli Uomo seduto al caffè, matita
nera su carta, 1917, Firenze, Gabinetto
disegni e Stampe degli Uffizi
50
13
Antonio Coceani, Paesaggio lungo il Mugnone,
acquaforte, 1919, Firenze, Gabinetto disegni e
Stampe degli Uffizi
14
Giannino Marchig, Fiera in Piazza San Gallo, acquaforte e puntasecca, 1919, Firenze,
Gabinetto disegni e Stampe degli Uffizi
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51
15
Carlo Sbisà, Mercato a Porta al Prato, acquaforte, 1920 ca., collezione privata
16
Carlo Sbisà, Fuori Porta Romana, matita nera su carta, collezione privata
52
17
Carlo Sbisà, Ritratto di donna, acquaforte, 1921 ca., collezione privata
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53
18
Giannino Marchig, La modella asiatica,
matita nera su carta, 1921, collezione privata
19
Carlo Sbisà, Ritratto femminile,
matita nera su carta, 1921 ca.,
collezione privata
54
20
Carlo Cainelli, Mercatino a Firenze, acquaforte e puntasecca, 1922, Firenze,
Gabinetto disegni e Stampe degli Uffizi
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55
21
Carlo Sbisà, Santa Maria Novella, acquaforte, 1920 ca., collezione privata
56
22
Carlo Sbisà, Ritratto della sorella,
acquaforte e puntasecca, 1921 ca.,
Firenze, Gabinetto disegni e Stampe
degli Uffizi
23
Carlo Sbisà, Ritratto maschile di profilo,
acquaforte, 1924, Firenze, Gabinetto
disegni e Stampe degli Uffizi
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57
24
Carlo Sbisà, Ritratto del pittore Bruno Bramanti, acquaforte e puntasecca, 1921-24, Firenze,
Gabinetto disegni e Stampe degli Uffizi
58
25
Carlo Sbisà, Alla finestra, acquaforte e puntasecca, 1928, collezione privata
L'incisione a Firenze a ridosso della Grande Guerra
59
26
Carlo Sbisà, Suonatrice di chitarra, acquaforte e puntasecca, 1928 ca., colelzione privata
60
note
1 R. Barilli, “Un artista ‘centrale’ del Novecento”, in: Carlo Sbisà,
catalogo della mostra a cura di R.
Barilli e M. Masau Dan, Milano,
Electa, 1996, pp. 11-25.
aprile – 30 giugno 2013, a cura di
G. Marini, C. Bragaglia Venuti,
M. Malni Pascoletti, Gorizia,
Fondazione Coronini Cronberg,
2013, pp. 108-133.
2 N. Comar, “Vogliono fare un
endecasillabo di me che sono un
verso libero. Verso Firenze, Roma
e oltre”, in: Il mito sottile. Pittura e
scultura nella città di Svevo e Saba,
catalogo della mostra a cura di R.
Masiero, Trieste, B & MM Facchin, 1991, p. 26.
7 Cfr. Una novella patria dello spirito. Firenze e gli artisti delle Venezie
nel primo Novecento, cit., dove il
contributo in catalogo relativo a
Carlo Sbisà è a firma di Susanna
Gregorat.
3
Ivi, p. 27.
4 C. Sisi, “Prefazione” in: Motivi e
figure nell’arte toscana del XX secolo, a
cura di C. Sisi, Ospedaletto, Pacini,
2000, p. 8.
5 R. Barilli, “Un artista ‘centrale’ del Novecento”, cit., p. 11.
6 Si vedano in particolare, tra gli
altri contributi: E. Bardazzi, “La
mostra del Bianco e Nero a Pistoia
nel 1913 e la rinascita dell’incisione
italiana nel primo Novecento”, in:
Cultura figurativa fra le due guerre.
Pistoia e la situazione italiana, atti
del corso di aggiornamento a cura
di C. Sisi, C. d’Afflitto, F. Gattini,
A.L. Giachini, Firenze, 1998, pp.
31-52; Idem, “La civiltà delle riviste
e lo sviluppo della grafica”, in: Motivi e figure nell’arte toscana, cit., pp.
54-103; Idem, “Grafica italiana e
straniera alle mostre degli Amatori
e Cultori 1902-1929”, in: Bianco e
Nero alle esposizioni degli Amatori
e Cultori 1902-1929, catalogo della
mostra, Roma, 2001, pp. 5-39; S.
Ragionieri, “Giannino Marchig:
l’attività grafica dopo il trasferimento in Toscana”, in: Giannino
Marchig, catalogo della mostra a
cura di J. Marchig, S. Ragionieri,
Milano, Skira, 2000, pp. 113-173;
Eadem, “Giannino Marchig”, in:
Una novella patria dello spirito. Firenze e gli artisti delle Venezie nel primo
Novecento. Opere dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, catalogo
della mostra di Gorizia, Scuderie
di Palazzo Coronini Cronberg, 13
L'incisione a Firenze a ridosso della Grande Guerra
8 E. Bardazzi, “La civiltà delle
riviste e lo sviluppo della grafica”,
cit., p. 58.
9 Lettera di Carlo Sbisà alla
sorella Maria, (20.3.1919), ora in
N. Comar, Carlo Sbisà Catalogo
generale dell’opera pittorica, tesi
di Dottorato di Ricerca, Università degli Studi di Trieste, a.a.
2008-2009, relatore M. De Grassi,
Trieste, 2009, p. 271.
10 Cfr. da ultimo, su questi temi,
M. Fileti Mazza, Storia di una collezione. I disegni e le stampe degli Uffizi
dal periodo napoleonico al primo
conflitto mondiale, Firenze, Leo S.
Olschki, 2014, pp. 113 e sgg.
11 Si veda N. Maggi, Ugo Ojetti e
il «Bianco e Nero»: quattro esposizioni fiorentine (1910-1914), in: “Arte
Musica Spettacolo”, v, 2004, pp.
251-279.
12 E. Bardazzi, “La civiltà delle
riviste e lo sviluppo della grafica”,
cit., p. 58
13 Id., “La mostra del Bianco e
Nero a Pistoia nel 1913 e la rinascita dell’incisione italiana nel primo
Novecento”, cit.
14 Ivi, p. 36.
15 R. Papini, Stampe moderne
d’ogni paese alla mostra di Firenze,
in: “Emporium”, xlv, 390, giugno
1927, pp. 349.
16 Si veda su questo tema G.
Marini, “Incisori belgi e olandesi
alle mostre del «Bianco e Nero»
del primo Novecento in Italia”, in:
Uno sguardo a Nord. Scritti in onore di
61
Caterina Virdis Limentani, a cura di
M. Pietrogiovanna, A. Castellani, Padova, Il Poligrafo, in corso di
stampa.
17 Cfr. G. Marini, Emilio MazzoniZarini, maestro toscano del «Bianco
e Nero», in: “Grafica d’arte”, xxv,
n. 98, aprile-giugno 2014, p. 41;
recensione a Emilio Mazzoni-Zarini:
dipinti, disegni e incisioni, 1900-1945,
a cura di P. Pacini, G. Bacci di
Capaci, Pacini, Ospedaletto, 2013.
18 S. Ortolani, Pittori giovani, in:
“Delta”, a. i, n. 3, maggio 1923, pp.
76-77; ora in S. Ragionieri, “Giannino Marchig”, in: Una novella
patria dello spirito. Firenze e gli artisti
delle Venezie nel primo Novecento,
cit. p. 111.
19 S. Ragionieri, “Giannino
Marchig”, in: Una novella patria dello
spirito. Firenze e gli artisti delle Venezie
nel primo Novecento, cit., p. 109.
20 Cfr. M. Malni Pascoletti,
“Carlo Cainelli”, in: Una novella
patria dello spirito. Firenze e gli artisti
delle Venezie nel primo Novecento,
cit., pp. 134-143.
21 S. Ragionieri, “Giannino Marchig”, in: Una novella patria dello
spirito. Firenze e gli artisti delle Venezie
nel primo Novecento, cit., p. 112.
22 Lettera di Carlo Sbisà alla sorella Maria, ora in N. Comar, Carlo
Sbisà: catalogo generale dell’opera
pittorica, cit., pp. 274-275.
23 Si veda più sopra, alla nota n. 14.
24 P. Fasolato, “‘Io sono stato
sempre, per sentimento, un
neoclassico’. Carlo Sbisà. Opere
1920-1945”, in: Carlo Sbisà, cit., p. 27.
25 Cortesemente segnalatami da
Massimo De Grassi, in collezione
privata.
26 Si veda a questo proposito l’introduzione di Massimo De Grassi.
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Sbisà a Firenze
SUSANNA RAGIONIERI
Sbisà a Firenze
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