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Pensare l'impossibile. Il cammino di Derrida attraverso la fenomenologia

I rapporti fra la decostruzione e la fenomenologia affrontati secondo la chiave del problema della storicità. In appendice un esercizio di decostruzione applicato ai paradossi di Zenone di Elea

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Studi Umanistici Corso di Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche PENSARE L’IMPOSSIBILE. IL CAMMINO DI DERRIDA ATTRAVERSO LA FENOMENOLOGIA Relatore: Chiar.mo Prof. Carmine DI MARTINO Correlatore: Chiar. ma Prof.ssa Rossella FABBRICHESI Tesi di Laurea di: Pietro BONOMI Matr. n. 809935 Anno Accademico 2014/2015 Indice Avvertenza………………………………………………………..p. 5 Capitolo primo. Tra fenomenologia e decostruzione 1.1 Tornare all’origine …………………………………………...p. 11 1.2 Derrida, la decostruzione e ciò che distingue Il problema della genesi nella filosofia di Husserl dalle successive opere su Husserl……………p. 18 Capitolo secondo. Un pensiero della storicità 2.1 L’Introduzione a L’Origine della Geometria…………………p. 38 2.2 L’orizzonte trascendentale e le condizioni di (im)possibilità…p. 54 2.3 L’irruzione della scrittura…………………………………......p. 64 2.4 L’oblio del senso e il senso di questo oblio………………….. p. 74 Capitolo terzo. Ai limiti della fenomenologia 3.1 La questione dell’Ego filosofante: condizioni di (im)possibilità della pratica decostruttiva……………………………………………………….p. 86 3.2 La voce e il fenomeno e l’impossibilità delle «distinzioni essenziali» come esperienza dell’impossibile………………………………………..p. 97 3.3 Il problema del compito infinito……………………………….p. 126 Appendice. Esercizio di decostruzione: i paradossi di Zenone di Elea e la différance incolmabile………………………………………………………..p. 138 2.1 Zenone nel Parmenide di Platone. L’impossibile della logica e la logica dell’impossibile……………………………………………………p. 143 2.2 Zenone nella Fisica di Aristotele. I paradossi…………………p. 156 2.3 Il paradosso dell’evento………………………………………..p. 172 Epilogo……………………………………………………………..p. 179 Ringraziamenti……………………………………………………..p. 186 Nota bibliografica………………………………………………….p. 187 Avvertenza Il presente lavoro ha preso le mosse dalla volontà di porre in relazione le origini fenomenologiche della decostruzione con gli esiti più maturi della riflessione di Jacques Derrida. In particolare, si è tentato qui di mettere metodicamente alla prova le nozioni, emerse via via con maggiore chiarezza nel percorso filosofico di Derrida, di evento e di condizioni di (im)possibilità nel contesto delle sue due prime e fondamentali opere, Introduzione a L’Origine della Geometria e La voce e il fenomeno, significativamente dedicate alla fenomenologia husserliana. Si è trattato in questo senso di assumere come metodo quello sguardo retroattivo (Rückfrage) che è al contempo uno dei temi fondamentali (e controversi) che si incontrano nell’intreccio tra fenomenologia e decostruzione: a partire dal risultato costituito indagare ciò che solo ora ci si dà a vedere come il “senso d’origine” del cammino di Derrida, permettendoci così di scorgerne l’unità di senso complessiva. Il primo capitolo del nostro lavoro è dedicato appunto alla esplicitazione e giustificazione di questo tipo di procedimento, al quale ci ha condotti una duplice convinzione. Da un lato riteniamo che attraverso l’elaborazione dei concetti di ‘evento’ e di ‘impossibile’ Derrida abbia sviluppato un vero e proprio dispositivo teoretico che si può vedere all’opera in tutti i suoi scritti e alla luce del quale si possono fecondamente rileggere anche le sue prime opere: si tratta di quella logica aporetica dell’impossibile che Carmine Di Martino ha mostrato essere, insieme alla nozione di ‘evento’, al centro della riflessione derridiana più recente Cfr. C. Di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Guerini e Associati, 2009. Qui Di Martino ha ricostruito l’emergere della questione dell’evento nel percorso di Derrida, restituendo, alle nozioni di «impossibile» e di «evento» il valore filosofico forte e il ruolo centrale e, a suo modo, sistematico che esse assumono nella filosofia di Derrida: filosofia che può essere legittimamente definita come una filosofia dell’evento. Di Martino ha inoltre mostrato la derivazione genuinamente fenomenologica del pensiero dell’evento derridiano, risposta impossibile alla domanda sul possibile, che si confronta con il limite estremo della questione delle condizioni di possibilità e della genesi del trascendentale. . La seconda ipotesi (solidale con la prima) che sta alla base di questo lavoro è appunto che il rapporto di Derrida con la fenomenologia non sia mai venuto meno e che nel suo variegato percorso egli sia sempre rimasto fedele, seppure da una posizione inevitabilmente eterodossa, al metodo e alle istanze profonde della fenomenologia. Intendiamo sostenere che, agli occhi di Derrida, la fenomenologia, ed essa sola, se spinta al suo punto di esaurimento, non può che portare di fronte a quella che egli ha chiamato «esperienza dell’impossibile» e trasfigurarsi in un’etica (e scoprire che lo è sempre stata). Nel secondo capitolo abbiamo cercato perciò di mettere in luce come il nocciolo di questo pensiero si affacci già, con prepotente chiarezza, nell’Introduzione a L’Origine della Geometria, la prima opera pubblicata da Derrida Oltre che in Figure dell’evento, anche in Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, Franco Angeli, Milano 2001 (cfr. in particolare il paragrafo intitolato La possibilità come impossibilità, p. 68), Carmine Di Martino aveva già ravvisato come nell’Introduzione, nel momento in cui si mettevano in relazione la necessità della scrittura e la genesi dell’identità del significato trascendentale, si delineasse già quella «struttura paradossale della condizione di possibilità» (Cfr. ivi, p. 69), ovvero quella logica aporetica per cui «ciò che rende possibile rende al tempo stesso impossibile la realtà che rende possibile» (ibidem). Questo ‘doppio legame’ che Di Martino ha fatto emergere dalla fitta trama in cui si intreccia l’opera di Derrida, mettendo in connessione gli esordi fenomenologici con la questione dell’evento e dell’impossibile e, contemporaneamente, le opere del (presunto) ‘secondo Derrida’ con l’eredità fenomenologica, è stato la principale guida per l’interpretazione del percorso teoretico di Derrida che abbiamo inteso proporre qui. . Attraverso la lettura del testo husserliano, quest’opera pone la questione di come articolare un pensiero della storicità di «stile inaudito», che si smarchi cioè, al contempo, da un formalismo metafisico che vede nella storia la mera «rivelazione» empirica di un senso anteriore ad essa e da uno storicismo ingenuo che pretenderebbe di spiegare l’apparizione del senso a partire da un’ispezione delle concatenazioni fattuali. Una «terza dimensione», secondo l’espressione di Merleau-Ponty, a partire dalla quale comprendere le condizioni di possibilità di ciò che formalismo a priori ed empirismo, «questi due spettri della fenomenologia», non erano in grado in nessun modo di pensare: la novità assoluta, ovvero quella Erstmaligkeit («essenza della prima volta»), quell’apparire del senso che non è mai pienamente deducibile dagli antecedenti fattuali, ma che allo stesso tempo non attendeva già costituito in qualche topos ouranios o in una «quinta della storia». A nostro avviso il pensiero derridiano dell’evento rappresenta la più matura risposta a questo problema; una risposta iperfenomenologica a un problema fenomenologico. È questo l’itinerario che conduce Derrida a elaborare la nozione di condizioni di (im)possibilità: le condizioni di possibilità della storia hanno esse stesse una storia e, lungi dall’imbrigliare l’evento nelle loro premesse, sono esse stesse un evento. Non si tratta dunque di abolire questi due eterni indirizzi della metafisica occidentale (formalismo ed empirismo), ma di cogliere, attraverso di essi, il nesso differenziale che rende possibili le operazioni dell’uno e dell’altro, ma impossibile la loro pretesa assolutizzante: l’ambizioso progetto della decostruzione consiste appunto nella frequentazione metodica di questo iato incolmabile che costituisce la fecondità della filosofia e che permette, sempre di nuovo, di scorgere al suo limite quella esperienza dell’impossibile che lega la ragione a una responsabilità assoluta proprio nel momento in cui le nega un fondamento di senso inconcusso che renderebbe la responsabilità un mero calcolo, traducendo la politica e l’etica in una semplice “tecnologia”. È questa radicale indecidibilità/responsabilità ciò che, nel nostro terzo capitolo, abbiamo tentato di rintracciare “ai limiti della fenomenologia”, attraverso cioè la discussione di tre “questioni sensibili” in cui si articola la convergenza divergente del discorso fenomenologico con la pratica decostruttiva e in cui abbiamo messo alla prova il “dispositivo teoretico” che abbiamo delineato rileggendo la prima opera di Derrida alla luce della questione dell’evento: la questione delle condizioni di possibilità della domanda filosofica stessa (questione del Sé filosofante, secondo la formula husserliana), il problema dell’impossibilità delle “distinzioni essenziali” e il problema, il più difficile ma al contempo forse il più decisivo nel rapporto tra fenomenologia e decostruzione, del compito infinito. La questione del compito infinito tornerà al fondo dell’ultimo episodio del nostro lavoro. In appendice tenteremo infatti un autonomo esercizio di decostruzione applicato ai paradossi di Zenone di Elea, seguendo un remoto ‘suggerimento’ dello stesso Derrida. Cfr. J. Derrida, Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, Presses Universitaires de France, Paris 1990, trad. it. di V. Costa, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Jaca Book, Milano 1992, p. 82. Riporteremo per esteso questo curioso riferimento di Derrida ai paradossi di Zenone di Elea in esergo all’Appendice che chiude il nostro lavoro. Dopo aver delineato i contorni del dispositivo teoretico che riteniamo essere emerso ai limiti della fenomenologia attraverso la pratica decostruttiva, proveremo dunque a praticarlo in concreto, nella convinzione di poter così contribuire a chiarirlo ulteriormente. Se la decostruzione è essenzialmente una pratica, solo entro certi limiti il suo senso può essere esposto in una dichiarazione di principio. Si tratta piuttosto di frequentarlo, di farne esperienza attraverso la differenza di una Parola: quell’esperienza dell’impossibile che Derrida vede schiudersi al limite del più rigoroso discorso fenomenologico. Come ha scritto Maurice Merleau-Ponty, proprio a proposito de L’Origine della Geometria di Husserl, «l’idealità è storicità perché riposa su degli atti, perché il solo modo di cogliere un’idea è produrla» M. Merleau-Ponty, Résumés de cours. Collège de France 1952-1960, Èditions Gallimard, Paris 1968; trad it. di M. Carbone Husserl ai limiti della fenomenologia, in Linguaggio, storia, natura. Corsi al Collège de France 1952-1961, Bompiani 1995, p.118.. I. Tra fenomenologia e decostruzione 1.1 Tornare all’origine Ciò che c’è di tragico nell’esistenza, non soltanto nella mia, è che il significato di ciò che viviamo – e quando uno ha avuto una vita lunga sono molte cose - non si determina che all’ultimo momento, al momento della morte, se vogliamo. La frase è tratta dal lungo monologo di Derrida che chiude il mediometraggio D’ailleurs, Derrida, diretto nel 1999 dalla regista egiziana Safaa Fahty. Tornare all’origine di Derrida, alla sua prima opera pubblicata, può e deve avere un significato che si intreccia consapevolmente con le linee del suo percorso di pensiero: una question en retour che si rende possibile solo a partire dal costituito, dalla traccia finale di ciò che si è già ricevuto e di cui siamo chiamati a farci carico. È con quello che Derrida definiva (in un complesso rapporto con il metodo husserliano che cercheremo di chiarire) un «movimento a succhiello» 6 J. Derrida, Introduction à L’Origine de la Géométrie de Husserl, PUF, Paris 1962; tr. it. di C. Di Martino, Introduzione a L’Origine della Geometria di Husserl, Jaca Book, Milano 2008, p. 80. che «procede retrocedendo» E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften un die transzendentale Phänomenologie, Husserliana, vol. VI, a cura di W. Biemel, Martinus Nijhoff, L’Aja, 1959; trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, p.87. che possiamo sensatamente indagare ciò che solo ora ci si dà a vedere come «origine» ed era in gioco fin dall’inizio. Il senso del percorso di Derrida non si trovava già pronto alle sue spalle, ma ha potuto e può manifestarsi solo come senso ‘a venire’. Mai come per Derrida la fortuna di un pensiero ha reso così difficile ritornarvi con occhio scevro da pregiudizi e riattivare l’intenzionalità propriamente filosofica che lo ha animato. La sua ricezione americana Cfr., a questo proposito, tra gli altri, R. Diodato, Decostruzionismo, Editrice Bibliografica, Milano 1996 e G. Benningdton, Deconstruction Is Not What You Think, and Other Short Pieces And Interviews, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2008., in particolare, ha prodotto una sedimentazione di impieghi strumentali o ‘giornalistici’ della nozione di decostruzione (o di ‘decostruzionsimo’) che ha rischiato di seppellire il terreno filosofico e il sistema di relazioni concettuali da cui essa è stata isolata. Il che non sarebbe poi un gran male - non si può disporre della disseminazione degli effetti del proprio lavoro - se questi utilizzi filosoficamente poco avvertiti (e spesso alieni da una seria frequentazione dell’opera di Derrida) non fossero tornati indietro come giudizi filosofici sull’intero percorso derridiano, qualificato ora come campione del nichilismo o scetticismo ‘post-metafisico’, ora come rivincita sofistica della retorica sulla logica, o, persino, come una filosofia che si dissolverebbe nella letteratura, rinunciando scientemente a trattare della verità. Derrida, al contrario, ha sempre esplicitamente inteso la sua ricerca come un tentativo di rilancio delle ambizioni e delle prerogative della filosofia; mai come un ripiegamento o un’abdicazione. Il suo ethos filosofico si è semmai distinto, come gli è capitato di dire, per una certa «hybris», per la sua ambizione e per il suo slancio «eccessivo», nel rifiuto di ogni conciliante operazione di retroguardia: ma la sua hybris non era che quella, appunto, di continuare a corrispondere in modo radicale alle domande della tradizione filosofica dell’Occidente. Si tratta di un gesto eccessivamente filosofico: un gesto che è filosofico e che è in eccesso rispetto al filosofico. E questo rilancio – come essere più che filosofici senza smettere di essere filosofici? – segna con la sua hybris tutti i temi che ho trattato. J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, tr. it. di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1997, p.6. Se il rilancio sia riuscito o meno, e quali conseguenze abbia portato con sé, è ciò che si tratta di valutare; ma è questo il piano, genuinamente filosofico, sul quale va misurata la sua opera. Perciò, seppur «abituato alle presentazioni giornalistiche della decostruzione» J. Derrida, Mémoires pour Paul de Man, Galilèe, Paris 1988; tr. it. di S. Petrosino e M. Oldorici, Memorie – per Paul de Man. Saggio sull’autobiografia, Milano 1995, p.182. , Derrida si ribellato più volte e con forza a tutte le connotazioni che, ai suoi occhi, pregiudicavano la comprensione di ciò che nella sua riflessione gli stava più a cuore. Perché si fa finta di non vedere che la decostruzione è tutto salvo un nichilismo o uno scetticismo, come si dice ancora spesso, malgrado tanti testi che esplicitamente, tematicamente, e da più di vent’anni, dimostrano il contrario? Perché gridare all’irrazionalismo non appena qualcuno pone una questione sulla ragione, sulle sue forme, la sua storia, le sue mutazioni? Ivi, p. 185. Il punto sta qui: per porre una domanda sulla ragione filosofica, per metterla radicalmente in questione, non si può uscire da essa per guardarla dal di fuori. La decostruzione si smarca dall’illusione di un pensiero ‘alternativo’ alla metafisica, che ricominci da zero su nuove basi: questi non sono che modi più ingenui di ‘stare dentro’ la metafisica e di essere soggetti a essa, ripetendone inconsapevolmente lo schema e le classiche opposizioni. In questo Derrida è stato fedele al detto heideggeriano, secondo cui non si tratta di uscire dal circolo, ma di «starvi dentro nella maniera giusta» M. Heidegger, Sein und Zeit, in Gesamtausgabe, Bd. 2, hrsg. von F. W. Von Hermann, Klostermann, Frankfurt 1976, tr. it. P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Longanesi, 2011, § 32, p. 189. . Che cosa ci resta da fare allora con la metafisica? Che cosa intende dire Derrida quando afferma di volersi mantenere «al limite del discorso filosofico»? Cfr. J. Derrida, Positions, Minuit, Paris 1972; tr. it. di M. Chiappini e G. Sertoli, Posizioni, Bertani, Verona 1975, p. 45: «Io cerco di mantenermi al limite del discorso filosofico. Dico limite e non morte, perché non credo affatto a ciò che oggi si chiama comunemente la morte della filosofia […]. Limite, dunque, a partire dal quale la filosofia è diventata possibile e si è determinata come episteme funzionante all’interno di un sistema di costrizioni fondamentali, di opposizioni concettuali al di fuori delle quali essa diviene impraticabile». L’attenzione decostruttiva si concentra programmaticamente su ciò che è stato relegato ai margini del testo metafisico occidentale, su ciò che, potremmo dire, non abbiamo visto per poter vedere, su ciò che non abbiamo pensato per poter pensare come abbiamo pensato: si tratta quindi di un limite, di un orlo impensato, non di un ‘errore’, che si tratterebbe di emendare, di superare, o che dovrebbe farci concludere che le ambizioni della filosofia e dell’Occidente sono, come nel titolo di un noto romanzo di Moravia, ‘ambizioni sbagliate’ perché impossibili e impossibili perché sbagliate. Al contrario si comprende qui come tale limite si dia a vedere come condizione di possibilità del testo metafisico stesso: è qualcosa che non si lascia configurare in esso, un punto di fuga sfuggente e impresentabile che rende però possibile il sistema e gli permette di avere ancora un avvenire. Il paradosso però, lo vedremo, è che il limite può offrire un avvenire solo travagliando il sistema dal suo interno e rendendolo impossibile come tale, ossia come in sé concluso e autofondato: è perciò che Derrida, proprio per una rigorosa fedeltà al metodo fenomenologico, è costretto a introdurre la categoria di condizioni di (im)possibilità Cfr. J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, prefazione a S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile (1983), Jaca Book, Milano 1997.e a configurare la decostruzione come esperienza dell’impossibile, ossia come una pratica filosofica che si realizza come postura etica di ospitalità incondizionata verso ciò che fa avvenire ogni significato e al contempo ne determina la finitezza e la costitutiva instabilità. Questo è il quadro della decostruzione che ci viene restituito dalle interpretazioni che tengono conto della continuità teoretica fra le opere più recenti di Derrida rispetto a quelle degli anni Sessanta e Settanta. In particolare, per questo lavoro, ci siamo giovati dell’impostazione del problema data da C. Di Martino nel già citato Oltre il segno. Il rapporto di Derrida con la fenomenologia non è mai interrotto, ma semmai portato alle sue estreme conseguenze: è proprio il concetto di condizioni di possibilità, caratteristico di ogni indagine trascendentale, a guidare le sue analisi e a fargli rivolgere una metodica Rückfrage, una domanda sulla domanda, alla stessa tradizione fenomenologica, contestandone dunque alcuni esiti particolari. Ma ne contesta le dichiarazioni alla luce del loro scarto rispetto ai terreni a cui conducono le descrizioni: non è e non può trattarsi di una critica, la quale, in quanto tale, presupporrebbe il canone filosofico, piuttosto che sconfessarlo. La decostruzione, se davvero è in grado di mettere in questione il testo metafisico, non è e non può essere semplice critica o opposizione: la critica e l’opposizione sono solidali al testo metafisico e lo presuppongono. Cfr. J. Derrida, Voyous. Deux essais sur la raison, Galilée, Paris 2003; trad. it. di L. Odello, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Cortina, Milano 2003, p. 214: «Devo insistere ancora una volta sulla differenza tra decostruzione e distruzione, come tra decostruzione e critica. La decostruzione non cerca di screditare la critica, ne legittima incessantemente la necessità e l’eredità, ma non rinuncia mai alla genealogia dell’idea critica». Da quale “fuori” opereremmo la critica? Derrida non salta fuori da Husserl per criticarlo o per mostrare l’insostenibilità delle istanze fenomenologiche: intende piuttosto far venire in luce ciò che la fenomenologia ha sempre portato con sé senza saperlo e ne costituisce la condizione di possibilità. Cfr. J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; trad. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969-1998, p. 70: «Un pensiero della traccia non può rompere con una fenomenologia trascendentale più di quanto non possa ridurvisi». Husserl riteneva che il compito della filosofia non fosse quello di attestarsi sul significato già costituito (in una metafisica astorica), ma nemmeno quello di lasciare l’indagine sul significato e sulla genesi delle validità allo psicologismo o all’empirismo: si trattava di guardare al fenomeno del significato, ossia all’evento del significato, l’unico terreno pienamente filosofico che permetta di rintracciare quella Ursprungsechtheit, quella «aderenza ultima e autentica alla propria origine che, una volta penetrata, lega a sé apoditticamente la volontà» E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 47. e la forza di dare un significato all’evento in cui siamo presi. Ma perché si dia un significato, questo deve anzitutto avvenire: perciò l’evento del significato è irriducibile al significato dell’evento. È in questo contesto che si può comprendere come la questione dell'evento, sebbene sia emersa in questi termini solo in un momento determinato del percorso di Derrida, Cfr. C. Di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, op. cit. non sia da interpretare come una 'svolta': in essa al contrario sembrano trovare la loro convergenza e la loro collocazione destinata tutte le istanze della filosofia derridiana; collocazione impossibile, come vedremo, ma, allo stesso tempo, l'unica possibile. È con lo sviluppo della questione dell'evento che tutti i tasselli disseminati nell'opera di Derrida - dagli esordi fenomenologici alla différance, dalla tanto chiacchierata decostruzione fino alla trattazione di temi più specificamente etico-politici - trovano posto in un mosaico complessivo possibile, proprio nel momento in cui rivelano come impossibile qualunque 'disegno complessivo', qualunque sistema. Ed è così che viene in luce il senso squisitamente etico dell'avventura di Derrida. Non nel senso di un'etica contrapposta alla teoresi: anche qui non si è trattato di una svolta, non c'è mai stato un Derrida nichilista, irresponsabile, avanguardista-esteta che poi si sarebbe dato una verniciatura etico-politica o, più bonariamente, un Derrida teoretico che avrebbe poi messo in pratica le sue conclusioni teoriche (se non altro perché la decostruzione è già di per sé una pratica che, a sua volta, mette in discussione l'opposizione classica fra theoria e praxis). Cfr. a questo proposito le analisi svolte da C. Resta in L'evento dell'altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri 2003. L’emergere della questione dell'evento mostra chiaramente quale sia sempre stata la posta in gioco dell'inesausta e minuziosa ricerca di Derrida, che è tutto fuorché un gioco estetizzante, un oscuro irrazionalismo o un relativismo ermeneutico accomodante e qualunquista. Se proprio avessimo bisogno di etichette si dovrebbe parlare piuttosto di un 'iper-razionalismo', che oltrepassa la fenomenologia proprio per essere fedele alle sue istanze - in primo luogo quella trascendentale; Cfr. J. Derrida, , Stati canaglia, op. cit., p. 214, dove si fa rifermento a «[…] l’iper- o ultra-trascendentalismo (che è quindi anche un iperrazionalismo) al quale, per evitare il positivismo empirista, mi richiamo espressamente fin da Della grammatologia». è appunto con il suo progressivo andare delineando una filosofia dell'evento che Derrida dimostra, una volta di più, la sua «eversiva fedeltà» C. Di Martino, Figure dell'evento, op. cit., p. 19. alle ambizioni della filosofia. Determinare se ci sia stata una svolta nel percorso di pensiero di un filosofo non è banalmente una questione di storia della critica o un ozioso accademismo. È una questione primariamente filosofica: come ha avuto modo di esprimersi Heidegger, un filosofo, se è tale, pensa sempre una cosa sola. Ciò che ci proponiamo qui è appunto di scoprire la questione dell’evento all’opera nello sfondo e nell’orizzonte che animavano la lettura husserliana di Derrida e, correlativamente, come il pensiero dell’evento sia l’esito di un gesto «iperfenomenologico» M. Vergani, Jacques Derrida, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 25., la risposta più radicale al problema del trascendentale. Come detto, la nostra ipotesi è che il rapporto di Derrida con la fenomenologia non sia mai venuto meno e che nel suo variegato percorso egli sia sempre rimasto fedele, seppure da una posizione inevitabilmente eterodossa, al metodo e alle istanze profonde della fenomenologia. Intendiamo sostenere che, agli occhi di Derrida, la fenomenologia, ed essa sola, se spinta al suo punto di esaurimento, non può che portare di fronte all’esperienza dell’impossibile e trasfigurarsi in un’etica (e scoprire che lo è sempre stata); e che anzi la fenomenologia, al limite, si configura come nient’altro che il pensiero puro di questa impossibilità, cioè come il pensiero puro del ritardo dell’origine e della differenza originaria. È in questo percorso, fenomenologico da parte a parte, che Derrida giunge necessariamente alla questione dell’evento e a quella postura etica che ha compreso e si è misurata in lungo e in largo col fatto che è impossibile racchiudere l’Evento in un significato; ma che si tratta di viverlo, per differenza dal significato, facendo esperienza del ritardo originario, ossia dell’impossibile che fonda ogni possibile e ogni avvenire. 1.2 Derrida, la decostruzione e ciò che distingue Il problema della genesi nella filosofia di Husserl dalle successive opere su Husserl Noi abbiamo oggi la possibilità (che è anche una responsabilità) di poter leggere testi come L’Introduzione a L’Origine della Geometria e La voce e il fenomeno a partire dall’orizzonte che si è tracciato nell’intera opera di Derrida; siamo cioè chiamati a metterne in luce lo sfondo e il senso a venire. Un’indagine di questo tipo deve prendere avvio da una messa tra parentesi (che è allo stesso tempo un isolamento e una esplicitazione) delle circostanze storico-fattuali in cui si è sviluppato l’interesse derridiano per Husserl, o meglio per un certo Husserl, ossia per alcune particolari trame che ricorrono nel testo husserliano: in una temperie culturale in cui Husserl veniva letto in Francia (sulla scorta dell’autorità dell’interpretazione di Sartre e Merleau-Ponty) soprattutto in relazione ai problemi della percezione, Derrida volle marcare uno scarto rispetto alla ricezione maggioritaria della fenomenologia, dedicandosi ai temi, per lo più ancora inesplorati, legati alla questione husserliana delle condizioni di possibilità dell’episteme, ossia alla questione della scienza e della genesi delle idealità matematiche e scientifiche. Cfr. P. Odifreddi, Intervista a Derrida su Repubblica del 7/3/2002: «Quand' ero studente, negli anni '50, in Francia c'erano due approcci tradizionali alla fenomenologia. Uno, dominato da Sartre e Merleau-Ponty, si concentrava sulle percezioni. L'altro, quello marxista, cercava di legare la fenomenologia alla politica. Io ero invece interessato alla scrittura, e nel suo libro Husserl affrontava precisamente il problema di come la scienza e la matematica possano parlare e scrivere degli oggetti ideali. Husserl pensava che solo attraverso il linguaggio gli oggetti ideali possano essere prodotti storicamente, ed entrare a far parte della tradizione scientifica». Si tratta di una circostanza estrinseca, dovuta alla «cultura empirica» di cui gli è capitato di far parte; ma essa nasconde e porta con sé l’emergere di un ethos filosofico che caratterizzerà la pratica decostruttiva e la sua attenzione metodica a ciò che rimane ai «margini della filosofia». È necessario a questo punto esplicitare, almeno in linea generale, le caratteristiche e le condizioni dell’abito interpretativo decostruttivista. Anzitutto bisogna cominciare col ribadire che per abito interpretativo non bisogna intendere una mera tecnica di analisi testuale: si tratta piuttosto di un atteggiamento e di una postura etica nei confronti di ciò che chiamiamo Occidente e di ciò che chiamiamo filosofia, metafisica, nella loro problematica coincidenza. È dunque in gioco, nelle intenzioni di Derrida, qualcosa di ben più importante e ambizioso di un protocollo di lettura, ossia l’istanza di una filosofia come responsabilità storica della nostra cultura: l’istanza di farci carico di quello che siamo e di riprendere in mano, attraverso la filosofia, il senso del nostro avvenire. Progetto che – lo si vede chiaramente se ci si confronta seriamente col testo di Derrida – si trova in una sostanziale continuità con l’idea di filosofia che emergeva dalle più intense pagine della Crisi delle scienze europee di Husserl, e che però, allo stesso tempo, in diversi punti marca uno scarto rispetto alla prospettiva husserliana e la mette radicalmente in discussione. In ogni caso non si tratta di ricominciare da capo o di vagheggiare un’alternativa assoluta: la decostruzione si concreta piuttosto in una frequentazione inesausta dell’eredità metafisica, che ne solleciti i limiti fino al loro punto di rottura, mostrando l’impossibilità del sistema metafisico e, con essa, beninteso, l’impossibilità costitutiva, e non accidentale, di qualunque sistema […] la decostruzione, pur non essendo anti-sistemica, è però non solo la ricerca, ma la conseguenza deliberata del fatto che il sistema è impossibile; spesso consiste, in modo regolare e ricorrente, nel fare apparire, in ogni preteso sistema, in ogni autointerpretazione del sistema, una forza di dislocazione, un limite alla totalizzazione, nel movimento di sintesi sillogistica. J. Derrida, Il gusto del segreto, op. cit., pp. 5-6. Non ha senso allora negare o tentare di emendare questo limite e questa impossibilità, o concludere che tale impossibilità determina la fine della filosofia e delle sue istanze Cfr. J. Derrida, Stati canaglia, op. cit., p. 213: «Non ho mai associato il motivo della decostruzione a quelli che sono stati così spesso evocati: il motivo della “diagnosi”, del “dopo”, della “morte” (morte della filosofia, morte della metafisica ecc.), […] In nessuno dei miei testi si troverà alcuna traccia di questo lessico. Non è casuale, credetemi, né irrilevante. Non è un caso che, fin da Della grammatologia (1965), io abbia esplicitamente dichiarato che non si trattava di fine della metafisica e che, soprattutto, la chiusura non era la fine».; questa impossibilità e questi limiti vanno pensati. La decostruzione, nella sua destinalità storica, non è che l’emergere di questi limiti e il loro mostrarsi come costitutivi: essi sono ciò che ci ha permesso di pensare quello che abbiamo pensato e di essere quello che siamo. Sono dunque limiti fecondi: non solo perché hanno reso possibile l’Occidente e la metafisica, ma, lo vedremo, anche perché (o proprio perché) ne hanno reso impossibile il loro compiersi senza residui. La loro più profonda e costitutiva fecondità risiede cioè nel permettere all’Occidente un avvenire e un possibile oltrepassamento di sé (attraverso sé): se il progetto della metafisica occidentale si fosse compiuto in maniera totale, saremmo davvero alla fukuyamiana fine della storia, non ci sarebbe alcun margine per la novità, per l’avvenire, ossia per l’evento, nei termini in cui l’ha pensato Derrida. Se questi limiti sono ciò che abbiamo di più prezioso, in quanto da essi dipende la possibilità di un avvenire del senso e della storia, non ha senso prendere posizione a favore o contro l’Occidente, la filosofia, la metafisica, né si tratta di fare il tifo per il declino o, al contrario, per una restaurazione metafisica dell’Europa. Perciò (bisogna essere precisi, se si vuole comprendere la specificità della pratica decostruttiva) Derrida, nei testi di cui ci occuperemo, non critica Husserl: non ne prende le distanze Vedi nota 11. . Non si tratta di mettere Husserl a distanza e di decidere di lui: noi siamo piuttosto già decisi dal testo metafisico di cui la filosofia husserliana rappresenta, secondo Derrida, la versione «più moderna, più critica e attenta» J. Derrida, Posizioni, op. cit., p. 44. . Derrida tende invece metodicamente a inserirsi nell’unico spazio che il testo metafisico lascia aperto all’avvenire, ossia il margine, il limite, l’orlo. Il limite che travaglia dall'interno le tesi di Husserl e le rende esposte alla decostruzione (sono in decostruzione già nel momento in cui si pongono) è lo stesso limite, lo stesso orlo invisibile che rende possibile ogni tesi, rivelandola però al tempo stesso impossibile come tale. Come ha scritto Silvano Petrosino, «si tratta, ad avviso di Derrida, di accostare ad un determinato concetto il suo altro, che lo eccede e lo definisce» S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Guida, Napoli 1983, p. 148.. Allo stesso tempo però, cercheremo di mostrare come Husserl non sia stato per Derrida «semplicemente il primo “oggetto”, successivamente abbandonato, della decostruzione» P. Marrati-Guènoun, La Genèse et la Trace: Derrida lecteur de Husserl et Heidegger, Kluwer Academic Publishers, 1998; english translation by Simon Sparks, Genesis and trace: Derrida reading Husserl and Heidegger, Stanford University Press, 2005, p. xiii-xiv (traduzione nostra). : in questo senso ci pare particolarmente appropriata l’interpretazione di Paola Marrati Guénoun, che ha sostenuto che è «attraverso l’interpretazione di Husserl che Derrida arriva a formulare le sue domande. Al di là delle ragioni storiche e biografiche che si potrebbero ricordare, c’è qualcosa nell’opera di Husserl che permette e in certo modo prescrive una tale elaborazione» Ibidem.. Secondo Marrati, la fenomenologia non è un qualunque bersaglio della pratica decostruttiva (sebbene, come abbiamo visto, essa non vada in ogni caso intesa come mera distruzione o critica In questo senso l’interpretazione di Vincenzo Costa (cfr. La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida, Jaca Book, Milano 1996), che per altri aspetti ci è stata di grande aiuto, ci pare fuorviante nel momento in cui, per mostrare la peculiarità del rapporto di Derrida con Husserl, si trova implicitamente a dover negare, almeno in parte, «che l’interesse di Derrida per la fenomenologia di Husserl sia motivato da un’istanza decostruttiva» (cfr. op. cit. p. 20). Se la decostruzione non è mera distruzione né critica non c’è alcun bisogno di negare che Derrida decostruisca Husserl perché si dia un legame tra fenomenologia e decostruzione. È evidente che il trattamento di Derrida nei confronti di Husserl è molto diverso, per esempio, da quello riservato a Rousseau in Della grammatologia; l’appartenere alla metafisica non rende impossibile un confronto e una differenza fra gli autori. Ma la differenza, nei termini di Derrida, starebbe nell’aver lasciato Husserl un maggiore margine di a-venire alla sua filosofia, avendo raggiunto con impareggiabile rigore il terreno di un confronto – seppure irrisolto – con i limiti estremi della razionalità occidentale stessa.). Husserl non è stato il primo interlocutore di Derrida solo, come dicevamo, per una mera circostanza storica legata alla «cultura empirica» di cui faceva parte: è stato il primo e l’ultimo, fin dall’inizio e fino alla fine, se si può dir così. Ai margini estremi del suo itinerario attraverso la fenomenologia, Derrida ha raggiunto il terreno più rigoroso sul quale ha potuto confrontarsi con alcune questioni limite e alcune illusioni prospettiche «quasi trascendentali» che non costituiscono limiti contingenti o ‘errori’, nei quali Husserl sarebbe incorso e che potrebbero essere in qualche modo emendati «attraverso un ampliamento dell’indagine o un riaggiustamento di metodo. Con i limiti della fenomenologia si toccano, secondo Derrida, i limiti del progetto filosofico stesso» P. Marrati-Guénoun, op. cit., p. 1. , scrive Marrati. A differenza di Paola Marrati non riteniamo però che la tesi di laurea di Derrida (Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, del 1953) sia da includere nell’unità complessiva ‘intrinseca’ del percorso teoretico di Derrida: è anzi valutando attentamente la differenza fra l’approccio di Derrida nella sua tesi di laurea e quello che caratterizzerà l’Introduzione a L’Origine della Geometria che si può comprendere come sia a partire da quest’ultima che si manifesta in Derrida quella visione unitaria che anima il progetto comune e si declina nel quartetto delle sue prime opere (Introduzione a L’Origine della Geometria, La voce e il fenomeno, La scrittura e la differenza, Della Grammatologia) e, in diversi modi, in tutto il progetto della decostruzione. Il problema della genesi non è a nostro avviso un’opera decostruttiva. È vero che molti dei temi di quest’opera verranno ripresi nelle opere successive e che, attraverso la guida destrutturante del problema della genesi, vi vengono segnalate già alcune incongruenze husserliane che avranno un grande futuro nel cammino di Derrida: ma queste sono pensate ancora come incongruenze appunto, come errori. Come impossibilità anche: ma senza che di fronte a tali impossibilità si manifesti, seppure embrionalmente, quel pensiero dell’impossibile che riteniamo centrale nella filosofia di Derrida e che ci proponiamo di illustrare. Per questo a nostro parere non si tratta ancora di decostruzione: la nostra tesi è che ciò che differenzia l’Introduzione a L’Origine della Geometria sia proprio lo schiudersi embrionale della questione dell’evento. Riteniamo inoltre che sia proprio un pensiero dell’evento a sostanziare la visione unitaria che apre e guida tutto il cammino di Derrida e che esso risulti illuminante, ora che possiamo guardare le cose dal punto di arrivo del processo, in particolare per quanto riguarda il cammino di Derrida attraverso la fenomenologia. In questo senso l’interpretazione di Di Martino, che ci ha restituito l’immagine della filosofia di Derrida come una filosofia dell’evento che giunge alla logica dell’impossibile come rigorosa risposta “iperfenomenologica” alla questione delle condizioni di possibilità, risulta dirimente per la nostra analisi e costituirà il motivo conduttore della nostra interpretazione Cfr. Di Martino, Figure dell’evento, cit.. A nostro avviso tra l’opera del 1953 e quella del 1961 (pubblicata nel 1962) avviene una differenza estremamente sottile ma decisiva, la stessa differenza che intercorre tra una circostanza estrinseca, dovuta a un determinato clima culturale e storico, e lo schiudersi di un destino e di una visione teoretica. Sarebbe sciocco negare i numerosi punti di contatto tematici tra le due opere: è ovvio che c’è una continuità, una continuità evidente in verità. Eppure tra le due opere accade qualcosa che fa sì che la seconda non sia leggibile semplicemente come uno sviluppo degli antecedenti contenuti nella prima: tra di esse si è interposto un evento, una singolarità assoluta che determina l’identità (sempre rinviata e impossibile) del pensiero di Derrida. Le nostre analisi mirano appunto a cercare di sfiorare tale singolarità assoluta e a farne in qualche modo esperienza: presupponiamo dunque che una singolarità assoluta caratterizzi il pensiero di Derrida, nonostante l’evidente trama di influenze e di continuità. È innegabile che le analisi di Marrati (oppure quelle svolte da Vincenzo Costa in La generazione della forma) su Il problema della genesi mettano in luce una preziosa trama di anticipazioni e di punti problematici della filosofia husserliana su cui Derrida punta sin da subito la sua attenzione. Così come è vero che, se dovessimo riunire sotto un titolo generale i motivi dell’interesse di Derrida per la fenomenologia, non si potrebbe fare di meglio che ripetere il titolo della tesi del 1953: “il problema della genesi”. Già qui inoltre è perfettamente delineata la necessità di una «complicazione originaria dell’origine»: lo nota lo stesso Derrida nella prefazione scritta nel 1990, aggiungendo che «tutti i limiti sui quali si costruisce il discorso fenomenologico si vedono così interrogati a partire dalla necessità fatale di una “contaminazione”» J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 51.. Allo stesso modo, la costituzione del significato era già mostrata dipendere da una «alterazione necessaria» e tutti i fenomeni dell’oblio e della perdita del senso erano già pensati come costitutivi del senso stesso. Nelle righe che seguono anche l’ingenuità oggettivista, su cui si appunta la critica di Husserl, è letta come un’illusione «quasi trascendentale», ovvero costitutiva della costituzione del significato Cfr. P. Marrati, op. cit., p. 24 (traduzione nostra): «L’ingenuità obiettivista dell’atteggiamento naturale che Husserl rimprovera, è inseparabile, secondo Derrida, dal carattere essenzialmente sintetico dell’intenzionalità, la quale è sempre coscienza di qualcosa». . La crisi è dunque, contrariamente a ciò che dice Husserl, una necessità interna della storia. La costituzione trascendentale dei significati produce, in qualche modo, le occasioni e le condizioni stesse della sua alienazione. […] non solamente rischia di perdersi, ma deve necessariamente perdersi; cosicché ogni intenzionalità comporta per essenza un’ingenuità e un postulato oggettivisti. Stupendosi di fronte al deterioramento dell’idea, non bisogna chiedersi “come una tale ingenuità abbia potuto effettivamente divenire possibile come fatto storicamente vissuto e come essa sia sempre possibile”, ma invece come una tale ingenuità sia sempre necessaria. J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 278-79. Non intendiamo nemmeno sostenere che si tratti di un’opera “immatura”: i problemi della tesi del 1953 sono trattati con lo stesso acume, la stessa profondità, la stessa precisione, la stessa ampiezza di riferimenti e di influenze che caratterizzeranno le trattazioni successive (capita di trovarvi formulazioni persino più efficaci talvolta). In effetti, i problemi di questo testo sono gli stessi che Derrida tratterà in seguito: non c’è nulla ne Il problema della genesi che possa essere considerato semplicemente in contraddizione rispetto alle elaborazioni posteriori, né all’interno di queste ultime c’è qualcosa che potremmo definire una ritrattazione. Salvo in un caso, circoscritto ma, come vedremo, decisivo, e dipendente, o meglio, coincidente con quell’im-presentabile e inafferrabile slittamento di prospettiva a cui stiamo cercando di riferirci. In quest’opera giovanile si possono forse ritrovare tutte le premesse del successivo sviluppo del pensiero di Derrida (e in diversi punti non mancheremo di farvi riferimento nel corso delle nostre analisi). Ciò che noi contestiamo è l’idea che da queste premesse si possa dedurre la direzione dello sviluppo successivo che Derrida imprimerà alle domande poste ne Il problema della genesi. Ciò è reso impossibile dal venire in luce di un’altra sottile differenza (la stessa di cui si parlava prima, per la verità): quella che intercorre tra il pensare la concatenazione originaria come «dialettica» e il concepirla come différance, tra la circostanza estrinseca che portò il giovane Derrida a utilizzare il primo concetto (dovuta, lo riconosce lui stesso, alla «carta filosofica e politica a partire dalla quale, nella Francia degli anni Cinquanta, uno studente di filosofia cercava di orientarsi» Ivi, p. 52.) e il destino di un pensiero. Non si tratta soltanto di un problema terminologico Sotto questo rispetto anche P. Marrati, op. cit. p. 18, riconosce che «abbandonare il linguaggio della dialettica e dell’ontologia non è semplicemente una questione terminologica». . La stessa differenza si pone fra il pensare l’alterazione originaria come «necessità» (si confronti il passo succitato) e il pensarla come evento, come condizione di (im)possibilità. Non c’è contraddizione fra i termini posti in differenza: l’uno non contraddice l’altro, l’uno può essere lo sviluppo plausibile dell’altro. Ma allo stesso tempo è intervenuta una differenza, un evento singolare irriducibile alle premesse, che non permette di poter semplicemente dedurre l’Introduzione a L’Origine della Geometria (e gli altri testi degli anni Sessanta) dalla tesi del 1953. Peculiare è in questo quadro il trattamento riservato da Derrida ne Il problema della genesi a L’Origine della Geometria di Husserl, se confrontato con l’opera del 1961. Troviamo proprio in questo ambito il caso a cui ci riferivamo più sopra, il solo per cui si possa parlare di qualcosa che assomigli a una ritrattazione; ma, allo stesso tempo, anche stavolta le “parti in gioco” rimangono essenzialmente le stesse. Fatto salvo il caso particolare che andremo a segnalare, non c’è una frase che, presa isolatamente, possa essere considerata in semplice contraddizione rispetto a ciò che verrà detto nelle opere successive (alcune formulazioni sono riportate in maniera quasi identica nell’opera del 1961). Quella singola ritrattazione però cambia completamente il senso del rapporto di Derrida con la fenomenologia: tale ritrattazione coinciderà, lo vedremo, con l’irruzione della scrittura (il vero grande assente in questa analisi giovanile dedicata da Derrida all’Appendice III della Krisis) e con lo schiudersi di una nuova prospettiva che ricollocherà le parti in gioco in un diverso mosaico, proprio per via di quell’unica tessera mancante. Il «seducente progetto» dell’appendice husserliana consiste, spiega Derrida ne Il problema della genesi, in «una ricerca del senso originario mediante il metodo della riduzione trascendentale; riduzione che non ha più un senso semplicemente egologico, ma si pratica a partire da una comunità trascendentale. […] È attraverso una presa di coscienza dell’intero movimento genetico istituitosi a partire da queste produzioni fondamentali della coscienza che, mediante un ritorno radicale alla soggettività, si rianimerà l’idea della teleologia e si supereranno le crisi dell’oggettivismo naturalista» J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 267.. Derrida vede nell’Appendice husserliana un testo di capitale importanza, almeno nelle premesse, perché esso dovrebbe consistere nella esibizione «esemplare» di come, concretamente, sia possibile «a partire da un’analisi storico-intenzionale, “riattivare” il senso originario degli atti o delle produzioni storiche della coscienza» Ivi, p. 266.: una sorta di resa dei conti in cui sono implicati tutti i punti critici della fenomenologia che erano stati segnalati da Derrida nello svolgimento della sua opera giovanile, a cominciare dalla necessità di salvare l’obiettività dallo psicologismo e dall’empirismo e al contempo la sua origine storica nell’atto di una soggettività. Il problema fondamentale che anima il nucleo teorico di questo testo husserliano è già avvistato qui con grande chiarezza: la riattivazione può attuarsi (lo vedremo con maggiore ampiezza analitica quando ci addentreremo nella lettura dell’Introduzione) solo a partire da «una tradizione in qualche modo costituita» J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 269.. Ma come è possibile dalla «fatticità puramente empirica» Ibidem. di una tradizione o di un’indagine storica giungere a un’oggettività ideale sovratemporale e valida universalmente? «Mai», scrive Derrida, «e in nessun caso – ed è su questa certezza che si fonda il progetto stesso della fenomenologia – questi eventi empirici potranno, in quanto tali, spiegare la genesi delle essenze» Ivi, p. 272. . Tutte queste considerazioni torneranno immutate nell’Introduzione a L’Origine della Geometria. Come si diceva, le istanze che sono in gioco nell’Appendice III vengono descritte allo stesso modo: anche nell’opera del 1961 l’indagine husserliana viene descritta come radicata nello iato fra un «formalismo a priori» e un «empirismo assoluto» Ivi, p. 271. (sono le espressioni usate ne Il problema della genesi; saranno sostituite nell’Introduzione da formule come «platonismo astorico» e «empirismo storicista» o «psicologista»). Tuttavia nella tesi di laurea del 1953 queste due istanze contrapposte, a cui Husserl tenta di corrispondere mettendosi alla prova con il problema dell’origine della geometria, sono pensate da Derrida come i poli di una colpevole «oscillazione» Ibidem: «una descrizione che oscillerà tra un formalismo a priori o a un empirismo assoluto, a seconda che si consideri il concetto come assoluto o come costituito dall’atto di una soggettività». di Husserl, in cui «i due punti di vista sono confusamente mischiati» Ivi, p. 270. Cfr. su questo tema P. Marrati, Genesis and trace, op. cit., p. 5. Secondo Marrati, Derrida ritiene che «Husserl alla fine perderà la sua scommessa: cercando di emanciparsi sia l’empirismo sia il formalismo, egli si avvicinerà pericolosamente talvolta all’uno, talvolta all’altro». A nostro avviso, come si vedrà, questo tipo visione può essere attribuita senza riserve soltanto al Derrida de Il problema della genesi, mentre nelle opere successive il senso e il valore del progetto husserliano saranno concepiti in maniera sottilmente (ma, secondo la nostra interpretazione, decisivamente) differente. . Derrida afferma qui Derrida sembra qui condividere il giudizio di Tran-Dùc-Thào (cfr. Phénomenologie et matérialism dialectique, Editions Mihn-Tan, Paris 1951, trad. it. di R. Tomassini, Fenomenologia e materialismo dialettico, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1970, p. 167-68), secondo cui «le ultime analisi di Husserl, proprio in virtù del metodo genetico, si risolvono praticamente in un totale scetticismo», riferendosi in particolare a L’Origine della Geometria e concependo tale esito come strettamente dipendente da «un fondamentale errore nel progetto originario». Ma, lo vedremo, nell’Introduzione a L’Origine della Geometria Derrida critica esplicitamente Tran-Dùc-Thào proprio per questa conclusione (cfr. J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 94, nota 55). che «tutti i dettagli di questa curiosa analisi descrivono una genesi puramente tecnica» J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 274., in cui «Husserl associa confusamente un empirismo e una metafisica, questi due spettri della fenomenologia» Ibidem.. Conclude poi: «Confessiamo di non vedere la continuità fra questo apriorismo e la spiegazione tecnologica che abbiamo ora evocato» Ivi, p. 273.. L’orizzonte che si manifesta nell’Introduzione a L’Origine della Geometria meno di dieci anni dopo consiste a nostro avviso, ancora una volta, in un diverso modo di «stare dentro» al double bind, alla doppia istanza a cui è chiamata la fenomenologia e che rende il testo de L’Origine della Geometria uno dei suoi tentativi più alti. Ciò che Derrida confessava qualche anno prima di «non vedere» viene a costituire ora il campo differenziale in cui si manifesterà la visione di un nuovo modo di abitare l’irriducibilità di quello iato tra «questi due spettri della fenomenologia», e che verrà a coincidere con la condizione di possibilità dell’esperienza dell’impossibile: quell’esperienza dell’impossibile in cui consiste la decostruzione e al cospetto della quale, secondo la nostra interpretazione, Derrida era giunto già ne Il problema della genesi, non riuscendo però ancora a riconoscerla. Quello che prima gli pareva uno iato intollerabile, diventerà nell’Introduzione a L’Origine della Geometria il terreno rigoroso di un’«indagine storica di stile inaudito» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 72. che permette, esso solo, di far emergere l’irriducibile differenza originaria dell’origine: ora, agli occhi di Derrida, l’Appendice III, giudicata prima come il più evidente fallimento del progetto husserliano, assume invece il senso di una presa sul serio della pura fattualità che non è più un ritorno all’empirismo e alla non-filosofia. Essa compie, al contrario, la filosofia. Ivi, p. 212. «La filosofia della storia di Husserl, confondendosi con la più sospetta storia della filosofia, resta», scriveva invece Derrida ne Il problema della genesi, «al di qua del progetto fenomenologico» J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 285.. Anche nell’Introduzione a L’Origine della Geometria Derrida riterrà che il progetto fenomenologico non possa raggiungere il suo al di là: ma diverso è il modo di pensare tale al di là (ovvero l’impossibile della fenomenologia), così come diversamente è inteso il rapporto fra il suo al di qua e il suo al di là. La differenza sta nel diverso modo di concepire l’impossibilità della fenomenologia di fondarsi su se stessa, di autofondarsi. Tale impossibilità, ritenuta dapprima come la sanzione del fallimento del progetto husserliano, viene pensata ora come limite fecondo, come quell’indispensabile margine evenemenziale (o eventuale, come anche ci esprimeremo) che travaglia ogni testo, rendendolo possibile e impossibile, secondo la logica che cercheremo di chiarire in questo lavoro: ma in questa differenza sta tutto il senso della decostruzione. La fenomenologia è ora concepita come quel pensiero che, più di ogni altro, è in grado di metterci di fronte a quel margine oltre di sé in cui si dà l’esperienza dell’impossibile che ne costituisce «il suo punto di consumazione e di insorgenza, il suo irriducibile punto di fuga» C. Di Martino, Esperienza e intenzionalità. Tre saggi sulla fenomenologia di Husserl, Guerini Scientifica, Milano 2013, p. 147., come ha scritto Carmine Di Martino. Nelle ultime intense pagine dell’Introduzione a L’Origine della Geometria Derrida mostra di aver preso di mira l’orizzonte di una tale visione e, a partire da essa, rivaluta il ruolo e il senso ultimo della domanda fenomenologica: la domanda fenomenologica è quella domanda che permette sempre di nuovo di esporsi al suo al di là. Cfr. J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 200: «In questo senso, una fenomenologia non può, in quanto tale, fondarsi in se stessa, né indicare essa stessa i suoi limiti. Ma la certezza, senza evidenza materiale determinata, della determinabilità infinita della X o dell’oggetto in generale, non è forse un’intenzione senza intuizione, una intenzione vuota che fonda e si distingue da ogni intuizione fenomenologica determinata? […] Questo senso puro d’intenzione, questa intenzionalità è dunque certamente, in se stessa, l’ultima cosa che una fenomenologia possa descriver direttamente, altrimenti che nei suoi atti finiti, nelle sue intuizioni, nei suoi risultati, nei suoi oggetti; ma senza volere né potere descriverla, Husserl, nondimeno, la riconosce, la distingue e la pone come la più alta sorgente di valore». Tale al di là non potrà però mai essere esibito in una fenomenologia, perché esso coincide appunto con ciò che, unico, non è mai un correlato intenzionale, ovvero il puro accadere della correlazione intenzionale stessa. Cfr. C. Di Martino, Esperienza e intenzionalità, op. cit., p. 146: «Che cosa non è “intenzionale” nella rivelazione del mondo? Che cosa si sottrae alla correlazione e alla manifestatività? Potremmo rispondere: che il mondo accade, il puro e continuo accadere del mondo e della correlazione». Ogni risposta a una tale questione non può che nuovamente riemergere in un processo fenomenologico. L’ontologia non ha diritto che all’interrogazione. È nel varco sempre aperto di questa interrogazione che l’Essere stesso si mostra silenziosamente sotto la negatività fenomenologica dell’apeiron. J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 212. Ciò che ne Il problema della genesi era pensato come un’inconseguenza, come un appuntamento mancato con una rigorosa storia fenomenologica, o ancora come l’impossibilità della fenomenologia di trattare fenomenologicamente la linea differenziale che distingue l’empirico e il trascendentale, diventa ora la consapevolezza che la fenomenologia, ed essa sola, può giungere al cospetto di «questa impossibilità» in una «coscienza originaria e pura della Differenza» Ivi, p. 214.. Di conseguenza, Derrida rivaluta il senso della mancata pretesa della fenomenologia di tradursi in un’ontologia (nel senso non husserliano del termine). Mentre, lo nota anche P. Marrati, op. cit, p. 18, «ne Il problema della genesi Derrida afferma la necessità di fondare la fenomenologia su un’ontologia», nella fattispecie un’ontologia basata sulle analisi husserliane relative alla temporalità. Scrive Derrida nelle ultime pagine dell’Introduzione Si passa dalla fenomenologia all’ontologia – nel senso non husserliano – quando si interroga in silenzio in direzione dell’insorgenza della nuda fattualità e quando si cessa di considerare il Fatto nella sua «funzione» fenomenologica. Allora quest’ultimo non può essere esaurito e ridotto al senso da un lavoro fenomenologico, foss’anche perseguito all’infinito. Esso è sempre più o sempre meno, sempre altro in ogni caso, rispetto a ciò che Husserl definisce quando scrive ad esempio, in una formula che segna la più alta ambizione del suo disegno: «…il Fatto, il factum e la sua irrazionalità costituiscono un concetto strutturale nel sistema dell’apriori concreto». Ma solamente una fenomenologia può mettere a nudo la pura materialità del Fatto giungendo al termine della determinazione eidetica, esaurendo se stessa. Essa sola può evitare la confusione della pura fattualità con tale o talaltra delle sue determinazioni. Naturalmente a questo punto, per non ricadere nel non-senso filosofico dell’irrazionalismo o dell’empirismo, non bisogna in seguito far funzionare il Fatto, determinarne il senso fuori o indipendentemente da ogni fenomenologia. Perciò, una volta che si è preso coscienza della priorità giuridica della fenomenologia in ogni discorso filosofico, è forse lecito rimpiangere ancora che Husserl non abbia posto anche quella domanda ontologica di cui non vi è nulla da dire che la riguardi in proprio. Ma come rimpiangere che la fenomenologia non sia un’ontologia? J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 212-13, n. 241. Torneremo su questa pagina fondamentale al termine della nostra lettura dell’Introduzione a L’Origine della Geometria: riteniamo infatti che in questa lunga nota si concentri il senso del rapporto ‘speciale’ che lega Derrida alla fenomenologia. Ciò che ci interessa notare fin da ora è che Derrida sta ricordando qui come già Husserl avesse concepito l’«al di là» della fenomenologia come un «concetto strutturale» pur nella sua im-presentabilità o «irrazionalità», come si esprime Husserl. Quella «pura materialità del Fatto» che solo una fenomenologia «esaurendo se stessa» può portare in luce, quel margine non-fenomenologico che rende possibile la fenomenologia, erano già stati pensati da Husserl (seppure in maniera intermittente: più spesso nelle estreme conclusioni delle sue analisi che nelle dichiarazioni di principio) come qualcosa che non poteva essere oggetto di analisi fenomenologica (determinando per una fenomenologia l’«impossibilità» di autofondarsi), ma che al contempo la rendeva possibile, costituendo, utilizzando nuovamente le parole di Carmine Di Martino, il «suo punto di consumazione e di insorgenza» C. Di Martino, Esperienza e intenzionalità, op. cit., p. 147.. Ciò che sfuggiva alla fenomenologia andava pensato come qualcosa di «strutturale», come qualcosa di empirico che assumeva però un ruolo “trascendentale” nella costituzione stessa del significato trascendentale: più precisamente, come qualcosa che sfuggiva all’alternativa fra empirico e trascendentale proprio mentre la rendeva possibile. E questo ci porta a quell’unico caso di esplicita ‘ritrattazione’ che si può incontrare confrontando la tesi di laurea del 1953 con l’Introduzione a L’Origine della Geometria. Nell’Avvertenza scritta nel 1990 in occasione della pubblicazione de Il problema della genesi, fino ad allora rimasto inedito, Derrida afferma di non aver voluto in alcun modo apportare correzioni o aggiustamenti al testo del 1953: «Una regola era ovvia, per una tale pubblicazione, e non accettava eccezione alcuna: che la versione originale non fosse modificata. Questa regola è stata scrupolosamente rispettata (salvo, lo confesso, per alcuni errori di battitura o di grammatica e alcune incongruenze di punteggiatura)» J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 52. . Ebbene, solo in punto, nelle oltre duecento pagine del testo, Derrida non ha resistito alla tentazione, non di correggere, ma di segnalare almeno lo scarto tra quanto scriveva nel 1953-54 e ciò che è intercorso successivamente. Tale scarto, lo si noti, si deve essere manifestato proprio negli anni che vanno dalla stesura della tesi di laurea nel 1953 alla scrittura dell’introduzione all’Appendice III (1961), se si considera da un lato che esso era stato già segnalato con un’annotazione scritta a mano e dell’altro il fatto che Derrida afferma nel 1990 di non aver riletto il suo lavoro giovanile per «oltre trent’anni» Ivi, p. 50. . In una nota leggiamo: «Qualche tempo dopo ho annotato: “No, da rivedere!” a fronte di queste righe. J.D. 1990». Ivi, p. 269, n. 12. Il passo «da rivedere» è il seguente: Eppure, la «tradizionalità» in quanto tale è sempre definita da Husserl come un fenomeno empirico: è per esempio l’acquisizione di tecniche mediante le quali la trasmissione e il retaggio delle idee divengono sempre più facili. Ivi, p. 269. Ora, nell’Introduzione a L’Origine della Geometria Derrida sosterrà invece che Husserl introduce proprio nell’Appendice III la necessità di una «dottrina della tradizione», nella quale una storia fenomenologica, ricavata per differenza nello spazio fra uno storicismo empirista da un lato e da un epistemologismo astorico dall’altro, si rende possibile «al tempo stesso grazie alle sedimentazioni e malgrado esse» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 99. . Scrive Derrida: Una dottrina della tradizione come etere della percezione storica diviene allora necessaria: essa è al centro de L’Origine della Geometria. Ivi, p. 98. Nella sua opera giovanile invece, Derrida riteneva ancora che Husserl desse un significato meramente tecnico-empirico alla scrittura, ossia, lo vedremo, alla possibilità di trasmissione che, in definitiva, permette una tradizione (e lo stesso Derrida non sembrava contemplare l’ipotesi che le si potesse attribuire un significato differente). Come ha notato Vincenzo Costa, «siamo dunque molto lontani da quella affermazione in cui Derrida nota che L’Origine della Geometria introduce la tematica della scrittura e della traccia, “e senza dubbio per la prima volta con quel rigore nella storia della filosofia”, o dalla presa d’atto che “nel virtualizzare assolutamente il dialogo, la scrittura crea una sorta di campo trascendentale autonomo da cui ogni soggetto attuale può assentarsi”, e che è a partire da questo campo trascendentale “che la soggettività trascendentale può pienamente annunciarsi e manifestarsi”, dunque dal riconoscere un ruolo trascendentale alla scrittura. Paradossalmente sarà attraverso Husserl che Derrida giungerà dunque al problema della scrittura» V. Costa, La generazione della forma, op. cit., p. 124.. È questa la tessera che fa cambiare il senso complessivo del mosaico e permette di far venire in luce la logica aporetica dell’impossibile che riteniamo essere già inscritta nelle prime opere pubblicate da Derrida Cfr. a tal proposito P. Marrati, op. cit., p. 18: «I limiti della fenomenologia non sono esterni ad essa; piuttosto, è lo stesso progetto fenomenologico – che è, peraltro, il progetto sempre ripetuto di assegnare limiti invalicabili – che si rivela insostenibile. Le condizioni della sua possibilità sono allo stesso tempo le condizioni della sua impossibilità. È questa “legge della contaminazione” che, in un certo senso, rende il pensiero di Derrida molto fedele e rigoroso […]. Ed è proprio per questa ragione che tale discorso assomiglia più che mai a un discorso trascendentale, con la differenza che le condizioni di possibilità sono allo stesso tempo condizioni di impossibilità». È qui descritto molto bene il dispositivo teoretico sulla base del quale Derrida interpreta Husserl e le tensioni interne della fenomenologia; si tratta appunto di un dispositivo che trae la sua origine dalle questioni sollevate dalla fenomenologia e che sarà centrale nel pensiero della decostruzione. Anche qui, per le ragioni che abbiamo esposto, ci discostiamo dall’interpretazione di Marrati soltanto per quanto riguarda l’affermazione secondo cui tale strategia sarebbe all’opera già ne Il problema della genesi, «anche se ancora non denominata allo stesso modo» (ibidem). : la scrittura rende possibile e impossibile, al contempo, l’identità a sé del logos, così come (Derrida lo mostrerà ne La voce e il fenomeno) il fenomeno auto-affettivo della voce rende possibile la coscienza nel momento stesso in cui rende impossibile la purezza pre-espressiva dell’intenzione significante di un’interiorità immediatamente presente a sé. Per comprendere al meglio la differenza di prospettiva di cui abbiamo parlato sin qui e per mostrare l’insorgenza della concezione della scrittura come condizione di possibilità della storia (e della sua fondamentale relazione con il problema della Rückfrage husserliana), nel prossimo capitolo ci addentreremo finalmente in una lettura analitica dell’Introduzione a L’Origine della Geometria. II. Un pensiero della storicità 2.1 L’Introduzione a L’origine della geometria Ultima di fatto, nota Derrida, l’Appendice III alla Krisis (intitolata da Fink L’Origine della Geometria), E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 380. A seconda delle esigenze ci riferiremo alternativamente alla traduzione italiana di Emanuele Filippini o alla traduzione italiana di C. Di Martino sulla traduzione francese dello stesso Derrida. potrebbe essere iniziale di diritto nel percorso husserliano. In essa cioè si tocca, anche malgrado le intenzioni di Husserl, il terreno di una resa dei conti, finora sempre procrastinata, con alcuni presupposti impliciti della fenomenologia che non sembrano lasciarsi configurare all’interno di essa, ma ricorrono ostinatamente come nodi irrisolti. Perciò L’origine della geometria si presta perfettamente al proposito derridiano di esplorare tali presupposti e le incompiutezze strutturali della fenomenologia, cercando il terreno di una filosofia a venire nei margini impensati del testo metafisico stesso. Per mettere a fuoco, una volta di più, la specificità della pratica decostruttiva è interessante rileggere questo curioso passo husserliano: Di tanto in tanto, dopo lunghi sforzi, la chiarezza agognata ci fa segno, e noi crediamo i più splendidi risultati tanto vicini a noi da non avere che da tendere la mano. Tutte le aporie sembrano risolversi, il rasoio critico falcia le contraddizioni una dopo l’altra, ed ecco che resta ancora un ultimo passo: tiriamo le somme e cominciamo con un “dunque” ben consapevole di sé. È allora che scopriamo un punto nero, il quale diventa sempre più grande, cresce su se stesso come un orribile mostro che ingoia tutti i nostri argomenti e richiama a nuova vita le contraddizioni appena falciate. I cadaveri si rizzano in piedi e ci guardano sghignazzando. Il lavoro e la lotta ricominciano da capo. Citato in A. Marini, Postfazione a E. Husserl, Fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli Milano 1998, p. 402. L’attenzione di Derrida si concentra metodicamente e in primis proprio su questi «punti neri» che travagliano dall’interno e minano la conclusività di ogni sistema o argomentazione. I miei maggiori interessi si sono orientati verso il grande canone della filosofia – Platone, Kant, Hegel, Husserl; ma, allo stesso tempo, verso i luoghi cosiddetti “minori” di questi testi, verso problematiche inosservate o note a piè di pagina – verso tutto ciò che può intrigare il sistema e, insieme, render conto del sotterraneo in cui si costituisce reprimendo proprio ciò che lo rende possibile, e che non è sistemico. J. Derrida, Il gusto del segreto, op. cit., p. 6. È uno sguardo che, come è stato notato, presenta qualche somiglianza con l’atteggiamento psicanalitico Cfr. C. Di Martino, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, op. cit., p. 51.: la pratica decostruttiva si attesta sotto la soglia di ciò che è dichiarato e consapevole, esponendosi a ciò che nel testo “principale” è relegato ai margini, a ciò che è inteso come accessorio, supplementare, secondario o estrinseco, ma in cui si concentra l’energia di un rimosso che minaccia con i suoi tentativi di irruzione il tessuto “ufficiale” della vita cosciente. Il passo husserliano citato sembra far riferimento proprio all’irruzione nel sistema di ciò che in esso non si lascia configurare, ma che, in qualche modo, era sempre già lì a travagliarlo, a renderlo possibile da un lato, ma impossibile come tale, cioè come concluso in se stesso. E non è poco significativo, considerando ciò che vedremo caratterizzerà la lettura derridiana del testo husserliano, che questo elemento venga descritto con connotati mostruosi e mortuari: precisamente, Husserl parla di un risveglio dei morti (di ciò che si voleva relegare nella caducità del cadavere, del corpo e del segno) che richiama a nuova vita ciò che si era voluto separare rigorosamente dal principio vitale stesso. Tale “punto nero” che per Husserl assume tratti mostruosi è proprio ciò che Derrida interroga e ricerca con metodo e deliberatamente va ad abitare. Ma qual è il “punto nero” che deborda continuamente i limiti del testo husserliano ed eccede in ogni angolo il canone fenomenologico, comparendo talvolta anche a destabilizzare il suo centro gerarchico? A vedere le cose a posteriori (e in particolare, appunto, dopo l’attenzione che vi ha dedicato Derrida) la risposta appare quasi ovvia; eppure fino ad allora nessuno ci aveva pensato, o, almeno, nessuno aveva voluto accordare al problema del segno un ruolo decisivo e forse destabilizzante nella tenuta dell’edificio fenomenologico. L’unico prima di Derrida a farsene carico, seppure in maniera intermittente ed elusiva, era stato Husserl stesso, costretto a ritornarvi al culmine del suo progetto di rifondazione su basi autenticamente filosofiche del sapere scientifico. Ma già quando si era trattato di articolare i fondamenti di una logica pura, nelle Ricerche logiche E. Husserl, Logische Untersuchungen Bd. I e II, Husserliana, XVIII e XIX, tr. it di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968., vi si era dovuto scontrare: in quella occasione il tema del segno era stato più volte minimizzato, ma in definitiva, di fronte al suo incessante riproporsi, era stato rimandato a una successiva chiarificazione (mai avvenuta), in quanto lo si riteneva esulare dagli scopi dell’opera. Non era forse un caso però che la questione fosse esposta nella prima delle Ricerche (Espressione e significato), ossia come questione preliminare; né era un caso che una dissertazione del 1890, destinata, nelle intenzioni di Husserl, a comparire nel mai pubblicato secondo volume di Filosofia dell’aritmetica, fosse intitolata Semiotica. Sulla logica dei segni Cfr. C. Di Martino, Introduzione a E. Husserl, Semiotica, Spirali edizioni, Milano 1984, pp. 11-48. . È altresì significativo che la questione del segno in Husserl non faccia parte di un’interrogazione empirica sulla linguistica o sulla semiologia, ma emerga ogni volta che in gioco ci sono le condizioni di possibilità dell’episteme e del logos, ossia di una tradizione pura del senso, che in Husserl è legata, indissolubilmente e in modo particolarmente esplicito nella Krisis, alla possibilità del recupero dell’intenzionalità filosofica dell’Occidente, sullo sfondo del rischio di un oblio della responsabilità razionale, alienata nell’oggettivismo tecnicista della scienza e nell’empirismo. Ora, Derrida vede appunto ne L’origine della geometria un’occorrenza paradigmatica del rapporto di Husserl con il problema del segno. Da un lato si manifesta in quest’opera (come in molte altre peraltro) quella che potremmo definire l’onestà delle descrizioni husserliane e del suo ethos filosofico, che non può che portare Husserl a riconoscere l’essenzialità della mediazione segnica, indistricabilmente implicata nella genesi delle oggettività ideali e nella possibilità stessa di una tradizione del senso. Tale ‘onestà’ non fa che manifestare peraltro l’efficacia e le potenzialità del metodo fenomenologico; secondo Derrida, come vedremo, solo in una fenomenologia possono emergere quelle stesse questioni che rischiano di insidiare la fondatezza di certe assunzioni husserliane. D’altra parte, allo stesso tempo, Husserl si fa latore di un estremo tentativo di neutralizzazione del portato della questione del segno e della scrittura, al fine di salvaguardare la purezza del logos e la sua identità a sé, intesa come indipendente rispetto a qualsiasi mediazione sensibile ed estrinseca. Derrida da parte sua mantiene perciò uno sguardo duplice: segue i sentieri delle descrizioni husserliane che portano ricorsivamente al segno e alla scrittura, ma al contempo ne rileva anche i punti di arresto e i non sequitur, preoccupandosi lui stesso di mostrare dove avrebbero condotto e, correlativamente, l’inconsistenza e lo scarto rispetto a certe premesse alle quali Husserl non sembra voler rinunciare. Derrida nota fin da subito la contraddizione che si manifesta anche nello stile argomentativo del testo, in un perdurante conflitto fra esposizione e ricerca; conflitto stilistico che sembra ripetere in filigrana il conflitto tematico, in cui la scrittura (si tratta di qualcosa che Husserl scriveva primariamente per sé) è al contempo, indistricabilmente, strumento di esposizione di un senso che si presume pre-esistente ad essa, ma anche qualcosa di essenziale che contribuisce a costituire un senso che si cerca e che è ancora a venire. «Queste pagine di Husserl, dapprima scritte per se stesso, hanno il ritmo di un pensiero che, più che esporsi, si cerca» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 72, n. 2. scrive Derrida in nota. Tuttavia Derrida vuole che si riconosca anche un altro senso di tale asimmetria, che si intreccia con la nozione husserliana di Rückfrage e a cui lui stesso non intende rinunciare: Qui tuttavia la discontinuità apparente è anche legata ad un metodo sempre regressivo, che sceglie le proprie interruzioni e moltiplica i ritorni verso il suo cominciamento per riafferrarlo ogni volta sotto una luce che ricorre. Ibidem. È quello che Derrida definisce «un movimento a succhiello, che costituisce tutto il pregio del nostro testo» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p.80.. Ma non si tratta solo un metodo inteso come «la prefazione neutra o l’esercizio preambolare di un pensiero» Ivi, p. 210. : è già esso stesso un pensiero che ha valutato le condizioni di possibilità di un nuovo genere di indagine storica. Il tema de L’Origine della Geometria (ma che d’altra parta ha caratterizzato l’intera opera di Husserl, dalle Ricerche alla Krisis) è infatti quello di rendere conto dello statuto degli oggetti ideali della scienza, di cui la geometria costituisce uno dei più importanti esempi, e «della loro produzione attraverso atti di identificazione del “medesimo”, della costituzione dell’esattezza mediante idealizzazione e passaggio al limite a partire dai materiali sensibili, finiti e prescientifici del mondo della vita» Ivi, p. 71.. Si tratta, in altre parole, delle condizioni di possibilità delle oggettualità ideali: non certo un tema nuovo per Husserl. Ad avviso di Derrida però la peculiarità «sconcertante» Ivi, p. 72. di questa Appendice risiede proprio nella volontà di mettere in luce «un nuovo tipo o una nuova profondità della storicità» Ibidem., a cui corrisponde la necessità di approntare un nuovo tipo di indagine storica. Il problema è che la storicità peculiare delle oggettualità ideali (vale a dire la solidarietà del problema della loro origine con quello della loro tradizione, ovvero della loro trasmissione e persistenza) «obbedisce a regole insolite, che non sono né quelle delle concatenazioni fattuali della storia empirica, né quelle di un arricchimento ideale e astorico» Ibidem.: in questo ambito non si può dunque assumere né il metodo di una “storia della scienza” come storia-dei-fatti, né il metodo astorico e statico dell’epistemologia. A Husserl, anzitutto, non interessa la “geometria dei geometri”: il geometra dispone di un sistema di verità che egli presuppone e utilizza ma non tematizza mai; su di esse costruisce nuove verità, che però sono già sempre, nei loro problemi e nelle loro difficoltà, «possibilità geometriche» Ivi, p. 81. In alcune pagine dell’Introduzione (100-106) sulle quali non potremo soffermarci, Derrida riporta le analisi di Husserl in cui il senso d’essere della geometria (raggiunto tramite una opportuna riduzione delle occorrenze empiriche della geometria stessa) era stato determinato come «nomologia definita e deduttività esaustiva: a partire da un sistema di assiomi che “domina” una molteplicità ogni proposizione è determinabile o come conseguenza analitica o come contraddizione analitica». A questo punto Derrida si chiede se il noto teorema di Gödel, che ha messo in luce come in geometria siano possibili moltissime proposizioni indecidibili, smentisca la determinazione husserliana. La sua risposta, fedele allo spirito fenomenologico, è negativa: lo stesso teorema di Gödel «è intelligibile solo a partire dall’ideale della decidibilità, solo all’interno di qualcosa come la geometria o la matematica la cui unità è a venire a partire da ciò che si annuncia nella sua origine». L’indecidibilità cioè riceve il suo senso peculiare solo in relazione al telos della decidibilità, in quanto cioè è «intrinsecamente abitata nel suo senso d’origine dal telos della decidibilità, di cui essa segna la disrupzione». Come è noto, Derrida si servirà spesso dell’esempio del teorema di Gödel; tuttavia ne rimarcherà sempre il senso puramente accidentale-fattuale, intra-matematico, che ha delimitato nella sua prima opera. Nella già citata intervista di P. Odifreddi, Derrida precisa che «il teorema di Godel, che ho citato fin dal mio primo libro su Husserl, tratta di un tipo di limitazione che potremmo chiamare "omogenea": qualcosa che potrebbe essere decidibile o calcolabile in linea di principio, non lo è in pratica. A me interessa una limitazione più forte, di tipo "eterogeneo": ciò che non è decidibile o calcolabile nemmeno in linea di principio. E mi interessa per le applicazioni all' etica, o alla politica».. L’indagine genetica fenomenologica è dunque preclusa all’irresponsabilità tecnicista di colui che pratica la geometria (dovuta alla mancata posizione di una opportuna Rückfrage Derrida riporta qui (p.81) un passo del § 9b della Krisis, op. cit., p. 58: «Nell’atteggiamento del geometra manca quest’esigenza [della questione dell’origine]; egli studia la geometria, egli “comprende” i concetti e le proposizioni della geometria; gli sono familiari i metodi operativi, in quanto modi di procedere con formazioni ben definite». ). Ma l’indagine che ha in mente Husserl non assomiglia nemmeno a quella dell’«epistemologo classico», il quale è solo apparentemente più consapevole: egli studia, «in uno spaccato orizzontale e astorico» Ibidem. , la struttura sistematica della geometria costituita. Proprio come il geometra, comprende e utilizza i concetti geometrici, ma il loro senso d’origine rimane «inumato» Ibidem.. Già nella Filosofia dell’aritmetica E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica, tr. it. di G. Leghissa, Bompiani 2001. Husserl si chiedeva come il numero potesse costituirsi come idealità normativa a partire dalla sua origine nel vissuto concreto di una soggettività: già qui sottolineava con forza che le idealità non possono avere una genesi né convenzionale (qualsiasi convenzione presuppone le idealità piuttosto che fondarle), né ‘iperuranica’ – non cadono dal cielo come in un platonismo, ma sono storiche da parte a parte. In quest’opera tuttavia era ancora pervasiva l’influenza di Brentano e la genesi si configurava ancora in senso psicologista: «dopo cinquant’anni di meditazione», scrive Derrida, «L’Origine della Geometria ripete il progetto nella forma di una storia fenomenologica» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 74. . Non si può infatti indagare l’origine e la tradizione degli oggetti ideali con gli strumenti della storia empirica o della psicologia: esse si radicano su un terreno che presuppone le oggettualità ideali e non possono perciò accedere al terreno, l’unico genuinamente filosofico per Husserl, della costituzione delle idealità. Se anche determinassimo con certezza l’intero contesto psicologico e fattuale in cui agiva il proto-geometra, questo tipo di ricerche non ci informerebbero appunto che dell’ambiente storico e psicologico di fatto in cui si radicava, ma non ci direbbero nulla sul senso di origine e di verità della geometria, della nascita di una validità di diritto a partire da condizioni di fatto. Il punto è, per Husserl, che se si vuole determinare il fatto, bisogna prima presupporne il senso: come spiega Derrida, «la riattivazione intenzionale del senso dovrebbe precedere e condizionare – di diritto – la determinazione empirica del fatto» Ivi, p. 72. . Non si tratterà perciò, per quanto riguarda l’origine della geometria, di fare «l’inventario» Ivi, p. 84. dei primi “atti geometrici”, delle prime conoscenze geometriche, dei primi postulati ecc: come potremmo riconoscere e isolare questi atti come tali se non supponendo già noto il senso originario della geometria, se non a partire della nostra già costituita nozione di geometria? Il lettore ingenuo de L’Origine aspetterà invano che Husserl espliciti finalmente quali siano stati di fatto i primi atti geometrici, o che ci dica finalmente «ecco come è andata»: quand’anche una tale ricostruzione storica abbracciasse la totalità dei fatti storici che hanno costituito l’ambito empirico di una fondazione della verità geometrica, resteremmo comunque «ciechi sul senso stesso di tale fondazione» Ivi, p. 85. . Derrida, dal canto suo, condivide questo tipo di limitazioni e riconosce che solo un metodo siffatto è in grado di giungere a un terreno di indagine rigorosamente filosofico. Tuttavia segnala fin da subito l’emergere di un paradosso, che Husserl ha valutato solo in parte, o comunque senza derivarvi tutte le possibili conseguenze per il progetto complessivo della fenomenologia, e che avrà un grande avvenire nell’itinerario di Derrida: la questione dell’origine fenomenologica, anteriore di diritto, può essere posta solo «secondariamente e al termine di un itinerario che, metodologicamente, gode a sua volta di un’anteriorità di diritto» Ibidem. . Tutti i diversi tipi di indagine che Husserl ha appena congedato presupponevano i risultati della geometria già costituita, che l’indagine fenomenologica deve porre in epoché e ridurre: ma questa riduzione ha bisogno, come suo punto di partenza, del risultato costituito che essa neutralizza. Occorre sempre che vi sia già stata di fatto una storia della geometria perché la riduzione possa operarsi. Occorre che io abbia già un sapere ingenuo della geometria e che non cominci dall’origine. Qui la necessità giuridica del metodo recupera la necessità fattuale della storia. Ivi, p. 86. Già fin nelle considerazioni preambolari, già nelle questioni di metodo, si preannuncia il problema di fondo, che animerà le pagine finali e decisive dell’Introduzione di Derrida. La riduzione deve andare al di là della fattualità, ma, perché si dia un al di là della fattualità, deve appunto già esserci una fattualità in cui tale al di là si annuncia e da cui la riduzione possa prendere avvio. Vi è una fattualità diacronica irriducibile; anzi, precisamente, essa è proprio ciò che permette ogni riduzione verso il senso d’essere. E «solo una fenomenologia può mettere a nudo la pura materialità del fatto giungendo al termine della determinazione eidetica, ossia esaurendo se stessa» Ivi, p. 213. : la fenomenologia cioè, tutta tesa a determinare il senso e le essenze, non può che correlativamente delimitare con chiarezza il puro fatto, e, con esso, l’imprescindibilità del punto di partenza storico-fattuale. Non si tratta dunque di un’imprescindibilità di tipo meramente metodologico, di una primarietà di fatto che sarebbe sempre seconda de jure Cfr. P. Marrati, op. cit., p. 28: «Secondo Derrida, comunque, ciò che deve essere messo in questione è precisamente la distinzione tra fatto e diritto, una distinzione la cui rilevanza diventa sempre più incerta nel momento in cui si mette in gioco la necessità del ritardo del pensiero sull’essere». . C’è una storicità che abita irriducibilmente il senso d’essere delle idealità: esse hanno bisogno della storia per sorgere e per trasmettersi, così come, lo vedremo, senza la possibilità di idealità pure non potrebbe esserci storia. È precisamente in questo punto problematico che si apre la possibilità che l’indagine “regionale” sulla costituzione dell’oggettualità ideali di una scienza particolare, la geometria, ci proietti sullo sfondo di una questione ultima: quella della storicità del senso e del senso della storicità. La domanda husserliana classica – come è possibile in generale il senso e un’idealità pura a partire dalla singolarità storico-fattuale – viene ribaltata: come mai è sempre necessaria la fattualità costituita di una tradizione come punto di partenza della riduzione? Cfr. J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 284, in cui Derrida, seppure in maniera più analogica che dimostrativa, mette in relazione la peculiarità percorso intellettuale di Husserl con la necessità del punto di partenza fattuale storico-empirico, aprendo di fatto (ma non ancora di diritto, secondo la nostra interpretazione) la strada alla posizione della questione del rapporto tra fatto e senso così come è posta nell’Introduzione: «Rimarrebbe da mostrare come, in una forma che è qui più che simbolica, il pensiero di Husserl sia la “ripetizione” del movimento genetico di ogni storia e di ogni filosofia. Tutte le mediazioni metodiche, tutte le false partenze di Husserl corrispondono esattamente ai momenti critici quali egli stesso li definisce: partenza psicologista, riduzione a partire dall’atteggiamento naturale, riduzione eidetica e poi trascendentale, costituzione statica, eidetica della genesi, unità noematica della storia sono altrettanti momenti costituiti e secondi da cui Husserl ha dovuto partire nella sua regressione verso una primordialità trascendentale. Si possono considerare tutti questi momenti come delle crisi e dei ricoprimenti del senso originario e tuttavia, alla luce dei temi ulteriori, si riconosce nelle esitazioni e nei passi falsi iniziali, il fine ultimo della filosofia». Perché, e in che modo, il senso e il fatto sono indissolubilmente legati? «Che cos’è l’unità originaria del senso e del fatto della quale, da sé soli né l’uno né l’altro possono rendere conto?» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 212. Che tale questione possa emergere solo al limite o al punto di esaurimento di una fenomenologia, si può comprendere anche, e in primis, misurandosi con la differenza fra l’indagine trascendentale sull’origine delle matematiche svolta da Kant rispetto a quella husserliana: un punto su cui Derrida si sofferma a lungo. L’indifferenza di Husserl nei confronti delle circostanze storico-fattuali legate all’origine della geometria non ha e non può avere lo stesso significato di quella kantiana: per Kant infatti l’intuizione del primo geometra non sarebbe che il dispiegamento empirico di qualcosa che pre-esisteva ad esso, una «rivelazione». In Kant il concetto non ha storia, non essendo, in quanto tale, prodotto o fondato dall’atto di un soggetto concreto: esso può avere solo la storia empirica di una esplicitazione di qualcosa che era già in potenza. Come ha scritto Paola Marrati, Husserl ha sempre rifiutato «il formalismo kantiano, in quanto esso implica un divorzio fra storia e trascendentale» P. Marrati-Guénoun, op. cit., p. 3.. La riduzione eidetica, che libera l’idealità geometrica dalla figurazione sensibile e dal vissuto psicologico del geometra, «è per Kant sempre già effettuata» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 89. ; non avviene in una storia, non passa per la responsabilità di un soggetto, ma è già sempre resa possibile e necessaria dalla natura dello spazio e del tempo. Non si tratta però di un platonismo che aprirebbe la possibilità, correlativamente, a una metafisica astorica e a un empirismo storicista, perché Kant è appunto partito dalla denuncia di questa doppia implicazione: tuttavia, ad avviso di Derrida, Kant ha ritenuto primario e più urgente evitare l’empirismo, rinviando al futuro un’esplicitazione della genesi delle categorie e una chiarificazione del problema dello schematismo. Lo stesso Husserl, fino a Idee…I, si era limitato a un’indagine strutturale e statica, in cui era dapprima necessaria una critica puntuale di una teoria empirista dell’origine della geometria e, più in generale, di ogni storicismo che «riduce la norma al fatto»; per quanto concerne il senso d’essere delle operazioni geometriche, osservava Husserl, la storia delle sue eredità è del tutto irrilevante, quanto lo è, per quanto riguarda il suo valore di scambio, la storia delle vicissitudini di una banconota o di una quantità di oro: «per la questione del senso e del valore delle nostre conoscenze la storia di queste eredità è tanto indifferente, quanto lo è, per il valore del nostro oro, la storia delle sue» E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Vol. I, § 25, citato da Derrida a p. 92 dell’Introduzione a L’Origine della Geometria.. Husserl però, a differenza di Kant, non si ferma qui. Il riproporsi della questione della storia e della storicità del senso non è però da intendersi, in questo caso, come indice del fatto che la limitazione precedentemente sostenuta non abbia retto all’approfondirsi dell’indagine, e che lo storicismo, cacciato dalla porta, sarebbe rientrato dalla finestra, come invece Derrida sembrava ritenere, lo abbiamo visto, nelle pagine dedicate a L’Orgine della Geometria ne Il problema della genesi. Questa è anche l’interpretazione di Tran-Duc-Thao che, in Fenomenologia e materialismo dialettico, giungeva alla conclusione secondo cui, proprio ne L’Origine della Geometria, «le ultime analisi di Husserl, proprio in virtù del metodo genetico, si risolvono praticamente in un totale scetticismo» Tran-Duc-Thao, Fenomenologia e materialismo dialettico, op. cit., p. 168., in cui «il compito fenomenologico di giustificazione totale, che avrebbe dovuto infine porre la filosofia “sulla via sicura della scienza”, mette paradossalmente a capo un relativismo sensualista» Ivi, p. 173.. Derrida ora respinge invece l’interpretazione di Tran-Duc-Thao (anche con un esplicito riferimento al vietnamita in una nota), perché, in una storia fenomenologica, non è «il fatto come tale» prima della riduzione che viene interrogato. Al contrario, la riduzione di ogni storia-dei-fatti, che fa emergere l’indipendenza normativa dell’oggetto ideale rispetto a tale storia, è necessaria e metodologicamente primaria per aprirsi la strada al terreno di una storicità originale dell’oggetto ideale, in cui il fatto fondatore sia indispensabile, senza però alcun tipo di confusione storicista o psicologista. Come ha scritto Maurice Merleau-Ponty (op. cit., p. 118), in riferimento all’Appendice III, «idealità e storicità derivano dalla stessa origine. Per trovarla bisogna individuare una terza dimensione fra la serie degli avvenimenti e il senso atemporale». La fattualità fondativa a cui si giunge non è la fattualità “ingenua” precedente alla riduzione (è il movimento tipico della fenomenologia che parte dalla doxa per ritornarvi con occhi nuovi ed eticamente rinnovati). Infatti la riduzione riattivante presuppone la riduzione iterativa tipica della fenomenologia statica in cui «l’eidos geometrico si riconosceva in quanto resisteva alla prova dell’allucinazione» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 92.: la storicità verso cui si ridiscende dipende dalla riduzione del senso costituito non è quella ingenua di un empirismo. Non è questo o quel fatto empirico in quanto tale, «pur non essendo nient’altro che il fatto stesso»: «non è la fattualità del fatto, ma il senso del fatto; ciò senza cui esso non potrebbe apparire e non darebbe luogo ad alcuna determinazione e ad alcun discorso» Ivi, p. 97. . Il ritorno alla fattualità, a differenza di quanto sostiene Tran-Duc-Thao, non è una ricaduta nel relativismo e nello scetticismo, ma l’unico esito possibile di un percorso teoretico che prende avvio dal fatto solo per ritornarvi, «poiché», come scrive Derrida, «il senso non è nient’altro che il senso della realtà e della fattualità» Ivi, p. 95, n. 55.. Solo attraverso questo itinerario si raggiungono le basi legittime di quella che Derrida definisce una «dottrina della tradizione» Ivi, p. 98. , ossia una teoria delle modalità di tradizionalizzazione del senso, che sta al centro de L’origine della geometria e che dovrà delineare come una tradizione della verità e del senso sia possibile in generale, mettendo in luce la peculiare storicità che caratterizza l’aver-corso delle oggettualità ideali e le sue implicazioni. I valori, le oggettualità ideali, hanno una storia, un corso, dunque. Ma, così come la storia del suo tramandamento non fonda il valore dell’oro, nessuna storia empirico-fattuale può farci accedere al senso di questo aver-corso, perché, al contrario, lo presuppone. Su questo punto si è espresso splendidamente Maurice Merleau-Ponty (Husserl ai limiti della filosofia, op. cit., p. 119) nella sua breve ma significativa esegesi de L’Origine della Geometria: «La storicità di un’idea non è la sua inclusione in una serie di eventi a localizzazione temporale unica, nella psiche di un certo uomo che vive in un punto del tempo e dello spazio, è il porre, da parte di lui, un compito che non è solamente suo, e che fa eco a fondazioni anteriori». È appunto tale preliminare neutralizzazione dell’empirico che permette a Husserl di maneggiare consapevolmente un’indagine storica «di stile inaudito» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 72. , in cui, attraverso la riduzione eidetica, si riconosce il senso dell’idealità costituita, per poi poter rintracciare le condizioni di possibilità di tale costituzione in un atto fondatore, nascosto sotto le molteplici sedimentazioni e sotto le stratificazioni di utilizzi “irresponsabili” della geometria costituita (ossia utilizzi passivi che non riattivano l’intenzionalità dell’atto d’origine). Tale atto fondatore è raggiunto da un nuovo tipo di riduzione che mira a isolare una Erstmaligkeit, ossia una «essenza-della-prima-volta» Ivi, p. 96. dell’atto originario che ha posto in essere l’oggetto costituito il cui eidos è stato determinato dalla riduzione eidetica: si tratterà quindi di una riduzione storica, ossia riattivante. «Quale che sia stato il contenuto empirico dell’origine, è necessario – scrive Derrida – d’una necessità apodittica e apriorica, che la geometria abbia avuto un’origine», dato che non abita un qualche topos ouranios. Tale necessità è, al contempo, «necessità di aver avuto un’origine e di aver avuto tale origine, tale senso d’origine», ossia «è apriori necessario che i gesti instauratori abbiano un senso tale per cui la geometria ne sia nata con il senso che noi le riconosciamo» Ibidem.. È tale apriori «storico-concreto» (secondo la nota formula di Husserl), riconosciuto attraverso la riduzione dell’oggetto costituito (il punto di partenza è dunque sempre fattuale, storico), che fonda la possibilità di una fenomenologia storica. Si è così delineato l’itinerario e il metodo di un’indagine storica incommensurabile all’indagine storicista, la quale pretenderebbe, a partire da un ipotetico inventario totale dei fatti, di poter mostrare la genesi di una normatività. Nel campo delle normatività, ossia delle idealità, non è possibile risalire all’origine attraverso un’ispezione delle concatenazioni fattuali, ma l’origine costituente si può riconoscere come tale solo sulla base di una riduzione che prende avvio dall’oggetto costituito. Emerge qui il carattere “retroattivo” dell’origine, o, per essere precisi, il fatto che il senso d’origine è di necessità un effetto retroattivo di una riduzione e di una question en retour in cui senso d’origine e senso finale fanno tutt’uno in continuo divenire: «come la Rückfrage, la question en retour si pone a partire da un primo invio. A partire dal documento ricevuto e già leggibile, mi è data la possibilità di interrogare di nuovo e en retour l’intenzione originaria e finale di ciò che mi è stato lasciato dalla tradizione» Ivi, p. 99. . L’origine è dunque un effetto di rimbalzo, un fantasma suscitato dalla traccia presente che si riscrive continuamente. Vedremo come quest’ordine di considerazioni avrà importanti sviluppi sia in quest’opera sia nei futuri percorsi di Derrida. Ecco che, a seguito di plurime limitazioni, Husserl ha raggiunto il terreno, pienamente filosofico, sui cui articolare un’interrogazione sull’origine della geometria; tale terreno è però più ampio e generale e la geometria ne costituisce solo un campo determinato. La questione più comprensiva e preliminare è quella di determinare le condizioni di possibilità dell’oggettività in generale. Se il punto di avvio nell’interrogazione sull’origine deve essere l’oggetto costituito, bisogna allora prima di tutto chiedersi in che modo l’evidenza soggettiva egologica del senso possa divenire oggettiva e intersoggettiva. Come accade che essa diventi «un valore onnitemporale, normatività universale, intelligibile per tutti e sradicato da ogni fattualità empirica» Ivi, p. 113. ? Non è certo una domanda nuova per Husserl; ma qui è affrontata nel contesto di un corpo a corpo con il problema della storicità e dunque col problema dell’«ingresso nella storia» da parte di un’idealità. Quello che Husserl arriverà a pensare qui è che «le condizioni dell’oggettività sono dunque le condizioni della storicità stessa» Ivi, p. 114. È questo il nesso che lega il tema della scienza al tema della storicità.: un senso ‘entra’ nella storia «solo se è divenuto un oggetto assoluto, vale a dire un oggetto ideale», cioè, paradossalmente, avendo rotto ogni legame con una storia empirica. Perché si dia cioè una tradizionalizzazione del senso è necessario che esso si sia reso indipendente da ogni soggettività attuale e da ogni contesto empirico. È implicata così una doppia necessità: 1) perché ci sia una storia che abbia l’unità di una tradizione devono esserci oggettività ideali, 2) allo stesso tempo, le oggettività ideali sono storiche da parte a parte. Si potrebbe dire che le idealità devono necessariamente uscire dalla storia per poterne far parte e, al contempo, devono essere sempre state storiche per poter uscire dalla storia: ed è questa loro ‘uscita’ a determinare per differenza qualcosa come la storia, ovvero come ciò da cui esse si sarebbero affrancate. Come scriverà Derrida nelle pagine conclusive della sua Introduzione, la storia è possibile cioè soltanto nello spazio aperto dalla differenza originaria fra un’idealità che diviene onnitemporale e una fattualità che diviene senza posa. Ma l’una si determina solo per differenza all’altra: le oggettività ideali fondano la storia perché è solo rispetto ad esse che tutto cambia (o tutto muore). Anche le idealità nascono e muoiono però; ciò che è davvero immortale e originario è soltanto la Differenza stessa e il differenziarsi dell’Idea infinita e l’infinità di cui è Idea. Ivi, p. 200: «è l’intervallo fra l’Idea dell’infinità nella sua evidenza formale-finita, ma concreta, e l’infinità stessa di cui si ha l’Idea». 2.2 L’orizzonte trascendentale e le condizioni di (im)possibilità Prima di fare i conti con il punto nodale dell’Introduzione (l’irruzione nella fenomenologia della scrittura e del segno), è arrivato il momento di compiere un primo detour per confrontare queste osservazioni con le acquisizioni delle opere più recenti di Derrida e, in particolare, con i temi connessi alla questione dell’evento, come ci eravamo proposti. Come detto, ci appoggiamo qui all’interpretazione della questione dell’evento in Derrida proposta da C. Di Martino in Figure dell’evento, op. cit. Per fare questo dovremo iniziare un procedimento analogo a quello che Husserl nella Krisis definiva «a zig-zag» Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 87. : leggeremo le ultime meditazioni di Derrida in un continuo dialogo con il testo della sua prima opera e con l’eredità della fenomenologia. Abbiamo visto come L’Origine della geometria rappresenti, agli occhi di Derrida, il momento in cui Husserl si è trovato faccia a faccia con l’imprescindibilità del punto di partenza fattuale da cui deve necessariamente prendere avvio ogni riduzione, ossia con la finitezza e con la storicità della riduzione stessa. È necessario dunque partire dal costituito: non potremmo definire la necessità dell’origine, che fonda la possibilità di una fenomenologia storica, prima che la geometria costituita sia apparsa di fatto. La storicità irriducibile dell’oggettualità ideale si riconosce proprio da ciò, che tale necessità si dà a vedere soltanto «dopo il fatto dell’evento» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 98.: ogni significato deve cioè prima di tutto avvenire in una storia irriducibile, che non è un mero dispiegamento empirico di una potenzialità già presente. Se la storia della geometria non fosse che lo sviluppo di un disegno presente fin dall’origine nella sua totalità avremmo a che fare solo con un’esplicitazione. Avremmo da un lato un fondamento sincronico o eucronico, dall’altro una diacronia puramente empirica che servirebbe da rivelatore e non possiederebbe alcuna unità propria. Ma né la diacronia pura né la sincronia pura fanno una storia. L’ipotesi rifiutata è ancora una volta quella di una complicità fra platonismo ed empirismo. Ivi, p. 112. Confrontiamo ora il passo de l’Introduzione appena riportato con un brano tratto da un’intervista del 1999: Se un evento è solamente possibile, non fa che svolgere esattamente le possibilità che sono là e dunque non è evento. Un evento, per essere tale, deve essere una sorpresa assoluta, deve interrompere il corso della storia e di conseguenza l'intreccio delle possibilità. L'evento deve essere possibile come impossibile, non può essere un evento se non a condizione che giunga laddove non è anticipabile, dove sembrava impossibile. J. Derrida, L'ordine della traccia, intervista a cura di G. Dalmasso, in «Fenomenologia e società», XXII, 2/1999, p. 13. O ancora: E' persino questa, irrecusabile, la forma paradossale dell'evento: se un evento è possibile, se si iscrive in condizioni di possibilità, se non fa che esplicitare, svelare, rivelare, compiere ciò che era già possibile, allora non è più un evento. J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, op. cit., pp. 11-12. Ecco il contesto più opportuno per comprendere a quali istanze risponda il concetto derridiano di evento e di condizioni di (im)possibilità: anzitutto il rifiuto della possibilità solidale di un idealismo che manifesti una visione metafisico-destinale dell’accadere storico da un lato e di un empirismo non-filosofico dall’altro. Quello che Derrida stava cercando operare a margine del testo husserliano era il tentativo di pensare la storia, la storicità, la singolarità irriducibile, nello spazio lasciato fra queste due limitazioni, fra le quali si è sempre dibattuta la metafisica occidentale. Quello che Derrida chiama “platonismo” infatti neutralizza la storia, rendendola una mera esplicitazione: un’Idea astorica da una parte e il suo rivelarsi facto-storico dall’altra. D’altra parte però si tratta di tenersi ben lontani anche da un empirismo che mancherebbe l’incontro con un pensiero autenticamente filosofico della storia: senza un orizzonte di attesa, senza un orizzonte trascendentale non avremmo alcun rapporto al reale, non avremmo che una serie di fatti (e in verità nemmeno questi, se, come abbiamo visto, la fattualità si può determinare solo per differenza rispetto a un senso d’essere). Non avremmo una storia insomma, perché, lo abbiamo visto, se non c’è la possibilità di una tradizione del senso non può esserci nemmeno una storia empirica. Per Husserl la storia pura del senso è la possibilità più alta della storia emprica, ma appunto essa non si manifesta se non a partire da una riduzione della facto-storicità empirica, e anzi coincide con la possibilità di questa riduzione: perché, come scrive Derrida nelle pagine finali dell’Introduzione, «senza la Ragione non c’è storia, cioè trasmissione pura del senso come tradizione di verità», ma «reciprocamente, non c’è Ragione senza storia, cioè senza gli atti concreti e fondatori della soggettività trascendentale, senza le sue oggettivazioni e le sue sedimentazioni» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 205.. Il pensiero a cui Derrida inizia a esporsi già nell’Introduzione è appunto che il darsi di una tradizione del senso, o il darsi dell’orizzonte trascendentale, è un evento: le condizioni di possibilità non reggono e non imbrigliano ogni evento, ma, al contrario, avvengono esse stesse, sono cioè poste in essere da un evento irriducibile (coincidono con esso differendo da esso, dandoci così la possibilità di fare esperienza dell’evento). Sono questi i problemi a cui ci pone di fronte una fenomenologia al punto estremo del suo percorso: nel momento cioè in cui ci si interroga sulle condizioni di possibilità della storia non si può che incontrare il problema della storia delle condizioni di possibilità e dell’emergenza storica dell’orizzonte trascendentale. È il tentativo, esercitato ai margini del testo husserliano, di pensare la storicità in maniera radicale che porta Derrida a un pensiero dell’evento. Perciò il concetto di condizioni di (im)possibilità non vuole ribaltare la tradizione fenomenologica di critica trascendentale che pensa il reale a partire dai concetti di orizzonte e di condizioni di possibilità. Al contrario, con un gesto a suo modo «iperfenomenologico», Derrida opera così una «decostruzione pratica del motivo trascendentale» J. Derrida, Posizioni, cit., p. 140. mostrando come lo stesso presentarsi dell'orizzonte trascendentale sia esso stesso un evento: l'orizzonte è continuamente e costitutivamente riscritto e reso possibile dall'evento, il quale dunque lo eccede, «lo oltrepassa e vi sfugge» C. Di Martino, Figure dell'evento, cit., p. 24.. È perciò che l’evento dell’interpretazione riscrive e sposta continuamente senso d’origine e senso a venire; se l’indagine genetica prende avvio dall’oggetto costituito, se il senso d’origine è continuamente rideterminato dai suoi effetti, l’interpretazione non va psicologisticamente intesa come un Senso che viene estrinsecamente attribuito all’Essere, ma come l’evento della differenza e del ritardo infinito di Senso ed Essere. Del resto, che cosa ha sempre pensato Husserl sotto il titolo di “intenzionalità”? Come scrive Derrida, quando si parla di Ragione nascosta nell’uomo e nella storia, si fatica a «liberarsi dal fantasma psicologico della facoltà e del potere» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 205.: la critica husserliana dello psicologismo era tesa appunto a mostrare che la soggettività non è una sostanza e che la ragione non è una facoltà di una soggettività psicologica. Una fenomenologia però può solo descrivere le modalità e le condizioni di possibilità delle correlazioni intenzionali; non può descrivere l’Idea, ossia lo stesso rapporto all’oggetto, l’intenzionalità stessa. L’unica cosa che non è intenzionale, nella manifestazione del mondo è l’intenzionalità stessa: l’evento dell’intenzionalità, o della correlazione intenzionale, non può avere carattere fenomenologico. Cfr. su questo punto C. Di Martino, Esperienza e intenzionalità, op. cit., p. 146-47. Non di meno, scrive Derrida «senza volere né potere descrivere questa “intenzione senza intuizione”, Husserl non di meno la riconosce, la distingue e la pone, come la sorgente più alta del valore» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 200. . L’evento dell’intenzionalità, l’evento del senso non si raggiunge che nel punto in cui una fenomenologia esaurisce se stessa: l’evento è ciò che la rende possibile (ne è la fondazione) e impossibile al tempo stesso, perché non si lascia configurare in essa. La fondazione finale della fenomenologia, la sua giurisdizione critica ultima, ciò che dice a essa il suo senso, il suo valore e il suo diritto, non è dunque mai alla portata di una fenomenologia. Essa può dare accesso a sé in una filosofia soltanto nella misura in cui si annuncia in una evidenza fenomenologica concreta, in una coscienza concreta che se ne rende responsabile malgrado la sua finitudine, e nella misura in cui essa fonda una storicità e una intersoggettività trascendentali. È da questa anticipazione vissuta come una responsabilità radicale che parte la fenomenologia husserliana. Ivi, p. 201. L’evento cioè, non è mai il correlato di un’esperienza, ma si annuncia sempre in essa come il suo limite e il suo ‘impossibile’ punto di fuga: ma solo una fenomenologia «può dirlo» (in costitutivo ritardo e sempre nella differenza di una Parola) e «farlo affiorare in una filosofia» Ivi, p. 213. . Per arrivare a intravvedere l’evento della differenza e della correlazione bisogna sempre prima passare dalla pratica di una fenomenologia. Ma questo ‘intravvedere’ non sarà mai un vedere, ossia non sarà mai il correlato intenzionale di un’esperienza: sarà sempre un’«esperienza dell’impossibile», ossia un’esperienza senza intuizione in senso fenomenologico, un’esperienza della non-fenomenalità. L'esperienza dell'impossibile di cui parla l’ultimo Derrida non è dunque una bella trovata poetica o un'aspirazione mistica, ma il risultato coerente di un discorso sull'esperienza e sui suoi limiti tra i più rigorosi e radicali. Un discorso che è fenomenologico da parte a parte; si tratta anzi proprio della rivendicazione di poter trattare filosoficamente e rigorosamente quei temi e quei problemi (ad esempio quelli degli «incondizionati etici», come li definirà) che troppo spesso vengono lasciati alla mistica, all’irrazionalismo, alla parola poetica, o, peggio, semplicemente ignorati. Ed è un progetto che è già all’opera (e anche già piuttosto avanzato) nel primo libro pubblicato da Derrida: se egli qui, attraverso Husserl, non fa che esporsi al problema della storicità radicale del logos e del suo non essere «presente che differendosi senza tregua» (nel momento in cui «questa coscienza e questa impotenza e questa impossibilità si danno in una coscienza originaria e pura della Differenza» Ivi, p. 214. ), il primo problema che affronta è anche l’ultimo, non c’è nessuna svolta. Quello che Derrida ha pensato qui è che se le condizioni di possibilità o l'orizzonte di possibilità fossero un fondamento assoluto e puro non ci sarebbe più storia, perché la storia per essere possibile necessita l'accadere di quel double bind Derrida ricava, molto liberamente, la nozione di double bind dalla teoria psichiatrica di G. Bateson, esponente della cosiddetta scuola di Palo Alto, con la quale si indicava un particolare comportamento schizopatogeno. che lega continuità e interruzione imprevedibile di tale continuità; altrimenti non avremmo che variazioni graduali, additive, prevedibili e perenni su un continuum e non rimarrebbe nessun varco per la singolarità, l'unicità, l'alterità, l'imprevedibilità, la novità, in una parola per l'evento. L’evento è ciò di cui si fa esperienza quando ci scontriamo con la differenza di ciò che, nell’esperienza, non si lascia configurare in essa: è l’esperienza dell’impossibilità, in cui si comprende che non si può racchiudere l’evento in un significato, ma che si può solo viverlo, per differenza dal significato, ossia da ogni significato determinato. L’esperienza dell’impossibile dunque non è un’esperienza eccezionale, non è altro da ciò che chiamiamo vita: quella vita che eccede i nostri progetti e ogni orizzonte predeterminato, rendendoli allo stesso tempo possibili e impossibili come tali. Ed è dunque proprio la fenomenologia che, nel suo punto di consumazione, permette di giungere, con rigore filosofico, a trattare di un’esperienza dell’impossibile, e anzi lo prescrive. Di qui lo sfondamento interno dei limiti della fenomenologia e la radicalizzazione del concetto di condizioni di possibilità come condizioni di (im)possibilità: ma si tratta appunto di limiti da pensare nella loro inaggirabilità (e attraverso cui pensare il senso di tale inaggirabilità e la differenza originaria che la pone), non di errori da emendare. Fenomenologia portata al suo punto di esaurimento (in quel gesto «più che filosofico» in cui consiste la decostruzione), pensiero della differenza e questione dell’evento sembrano qui trovare la loro coincidenza. Il problema per Derrida è che il concetto tradizionale di possibile e di condizioni di possibilità proprio di ogni critica trascendentale non è in grado di pensare l'evento. Anzi, è in grado di pensare tutto fuorché l'evento: se l'evento è ciò che rende possibile, se è ciò che determina le condizioni di possibilità, deve necessariamente eccedere le condizioni di possibilità. Ma è proprio questo “fuorché” che mostra che tale impossibilità non è un banale accidente, né una debolezza del pensiero trascendentale, ma una sua necessità profonda e costitutiva. Solo un pensiero che frequenti l’istanza del trascendentale può far emergere e pensare (ma non intuire, in senso fenomenologico e kantiano) il senso di questo «fuorché». Se accade solo ciò che è possibile non c'è evento: si tratterebbe di un mero passaggio dalla potenza all'atto di ciò che si prefigurava negli antecedenti, di uno svolgimento programmato, di uno sviluppo causale già pre-visto, di una deduzione da premesse date. Derrida, come abbiamo visto, già nell’Introduzione a L’origine della geometria riconosceva in questo il problema di ogni platonismo e di ogni idealismo: se l’Idea è al di là della storia in senso assoluto (invece di differire da essa coincidendovi), la storia sarà sempre estrinseca, sarà sempre e solo un dispiegamento empirico che non aggiunge o toglie nulla all’Idea e non si potrà ammettere nessuna reale novità, alcuna singolarità che non sia da considerarsi puramente accidentale. Una storia che fosse solo lo svolgersi diacronico di un apriori sincronico non sarebbe appunto una storia: «la concatenazione delle necessità trascendentali sarebbe allora solo raccontata secondo le modalità del divenire, ma rimarrebbe uno schema statico, strutturale e normativo delle condizioni di una storia piuttosto che la storia stessa» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 116. . La questione dell’evento è un tentativo di corrispondere a questi problemi e di pensare la storia in ciò che la caratterizza e la rende tale, ossia irriducibile alle sue premesse. Si tratta, in altre parole, di rendere conto della novità radicale e di pensarla in termini filosofici rigorosi: come è possibile in generale la novità? Se ci troviamo già in un orizzonte di possibilità è davvero possibile una novità assoluta e irriducibile? O si tratterà sempre e soltanto di una novità apparente dovuta all’ignoranza delle potenzialità già presenti nell’orizzonte e idealmente anticipabili (cosicché la storia non sarebbe che la «rivelazione» empirica di qualcosa che era già in potenza)? Come si può pensare rigorosamente, ossia filosoficamente, qualcosa che sfugge all’orizzonte apriorico delle condizioni di possibilità, ma che, lo abbiamo visto, è necessario per farle accadere? Per Derrida se vogliamo pensare filosoficamente l'evento, se vogliamo abitare la soglia dell'evenemenzialità, dobbiamo necessariamente riconoscere che esso è possibile solo come im-possibile, come al di là del possibile, come ciò che lacera l'orizzonte di attesa. Lungi dall'essere una confutazione o un rifiuto irrazionalistico del discorso sull'orizzonte pre-compreso e sulle condizioni di possibilità caratteristico della fenomenologia e dell’ermeneutica, la questione delle 'condizioni di impossibilità' porta alle estreme conseguenze tale discorso mostrando come l'orizzonte del possibile derivi la sua esistenza proprio dalla possibilità di essere lacerato e interrotto dall'irruzione dell'evento, dell'impossibile, ossia dell'imprevedibile, dell'inanticipabile. L'evento perciò si definisce proprio come ciò che è irriducibile alle condizioni possibilità. Un pensiero dell'evento che sia davvero razionale, rigoroso, in una parola filosofico, deve abituarsi a frequentare questa logica aporetica che parla di condizioni di impossibilità: infatti l'impossibilità (ossia l'imprevedibilità, la mancanza di antecedenti e precedenti, l'eccesso nei confronti di ogni calcolo e di ogni programma) coincide con la possibilità dell'evento. Ogni volta che l'evento ha luogo è accaduto l'impossibile. «Ciò che cerco di pensare è l'idea che la sola cosa possibile, la sola “x” possibile, sia l'impossibile» J. Derrida, L'ordine della traccia, cit., p. 13. afferma Derrida. Se valutiamo il contesto di emergenza della riflessione di Derrida possiamo dunque cogliere con più precisione il significato filosofico della decostruzione. Essa si configura qui come un atteggiamento interpretativo che prima e più che interrogarsi sul senso dell'evento cerca di esporsi all'evento del senso: la decostruzione è, ed è sempre stata, un ethos di ospitalità incondizionata all'evento del senso, colto e accolto nella sua evenemenzialità e gratuità, al di là dei sensi storici e determinati che può assumere (ma anche, e solo, attraverso questi: oltrepassandoli), ossia al di là del possibile e delle condizioni di possibilità in un gesto di ospitalità iperbolica in questo senso impossibile, ma anche e allo stesso tempo l'unico possibile al limite della tradizione metafisica occidentale. In questo senso la decostruzione è esperienza dell’impossibile anche nella misura in cui incarna una volontà di esporsi al limite che rende impossibile (e al tempo stesso possibile) ogni testo: il testo husserliano e più in generale il testo della metafisica. Derrida non fa che essere fedele all'istanza trascendentale della fenomenologia husserliana, portando a compimento quel gesto «più che filosofico» in cui diceva consistere la decostruzione; ma per essere davvero fedele alla fenomenologia è costretto a portarla fino al suo punto di fuga, fino al suo punto di estinzione, facendola scontrare col suo limite, limite però che lungi dall'annullarla la rende possibile da un lato, ma dall'altro anche impossibile nella sua pretesa di conclusività, secondo la logica che abbiamo illustrato. Solo così possiamo cogliere il possibile nella sua soglia di evenemenzialità, ossia nel momento del suo scaturire e nel suo aprirsi; solo così, per la prima volta, possiamo pensare ciò che la filosofia ha sempre chiamato 'l'Essere' non più come una 'presenza', ma come qualcosa che sta accadendo, come puro accadere, ossia come evento. 2.3 L’irruzione della scrittura Ritorniamo ora al corpo a corpo di Derrida col testo husserliano nel punto in cui lo avevamo lasciato: il punto cioè in cui Husserl sembra proseguire «come se il suo tema non fosse più l’origine del senso geometrico, ma la genesi dell’oggettività assoluta, cioè ideale, del senso» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 113. . Qui l’Appendice III tocca il suo orizzonte più profondo e lascia intravvedere che cosa ci sia realmente in gioco agli occhi di Husserl. La geometria infatti non è che un caso, massimamente esemplare, di oggettualità assolutamente ideale; ma siccome la tradizionalità del senso, indispensabile per una storia autentica, presuppone l’esistenza di oggettualità assolutamente ideali, cioè totalmente indipendenti da una soggettività in atto o da qualunque elemento di ordine empirico-fattuale, è necessario determinare le condizioni di possibilità e la genesi fenomenologica di queste ultime. Allo stesso tempo però l’esistenza di un’oggettualità ideale è intrinsecamente legata alla possibilità della sua persistenza (da cui a sua volta dipende, inemendabilmente, la possibilità di una storia): «poiché questa perdurabilità è il suo senso stesso, le condizioni della sua sopravvivenza sono implicate in quelle della sua vita» Ivi, p. 144. scrive, molto efficacemente, Derrida. L’esistenza di oggettualità ideali coincide con la loro persistenza, in quanto il loro senso è appunto quello di essere, al contempo, (in un senso che andrà più profondamente esplicitato) sovra-temporali e onnitemporali, cioè di perdurare al variare delle condizioni facto-storiche e indipendentemente dal una soggettività che le pensi in atto. Nondimeno però le idealità non hanno da sempre dimorato in un iperuranio impermeabile alla storia: bisogna dunque determinare come sia possibile che esse divengano oggettive, intersoggettive e onnitemporali, sorgendo dall’hic et nunc di una soggettività egologica. Le condizioni di possibilità della storia sono esse stesse storiche: come sintetizza Derrida, «è la storia stessa che fonda la possibilità del suo apparire». Ivi, p. 117. Ma che cosa permette all’oggettività ideale di liberarsi dal «suo originario sorgere intra-personale», divenendo ciò che è, cioè appunto indipendente da ogni fattualità e da ogni atto soggettivo? La risposta a cui Husserl giunge è sorprendente, sia in assoluto, sia considerando i suoi percorsi precedenti e i suoi presupposti: prima infatti Husserl aveva mostrato come la possibilità di una storia autentica dipendesse dalla possibilità di una tradizione pura del senso, e come questa, a sua volta, fosse possibile solo nel momento in cui l’idealità scientifica guadagnasse la sua oggettività liberandosi da ogni legame con una soggettività psicologica e da ogni lingua, cultura o storia empiriche e determinate. Ebbene, Husserl scrive nell’Appendice III: «è per mezzo della mediazione del linguaggio che le procura, si potrebbe dire, la sua carne linguistica, che l’idealità giunge alla sua oggettualità» Ivi, p. 128. . Husserl, sorprendentemente, “ridiscende” verso la fattualità del linguaggio, come condizione di possibilità dell’oggettività ideale assoluta (non «incatenata») della verità stessa, «che sarebbe ciò che è solo mediante la sua messa in circolazione storica intersoggettiva» Ivi, p. 129. . La mediazione linguistica, lungi dal “contaminare” la purezza del senso, costituirebbe al contrario la condizione di possibilità di un senso puro, pienamente obiettivo, cioè permetterebbe, essa sola, la liberazione dell’idealità da ogni «incatenamento» a una soggettività psicologica o a un contesto empirico-fattuale determinato. Senza la possibilità del linguaggio e della circolazione intersoggettiva la formazione geometrica rimarrebbe ineffabile e solitaria. È allora che essa sarebbe assolutamente incatenata alla vita psicologica di un individuo fattuale, a quella di una comunità fattuale, perfino ad un momento particolare di questa vita. Essa non diverrebbe né onnitemporale, né intelligibile per chiunque: non sarebbe ciò che è. Che la geometria possa essere detta, non è dunque una possibilità estrinseca e accidentale di una caduta nel corpo della parola o di un lapsus nel movimento di una storia. La parola non è più semplicemente l’espressione (Ausserung) di ciò che, senza di essa, sarebbe già un oggetto: riafferrata nella sua purezza originaria, essa costituisce l’oggetto, è una condizione giuridica concreta della verità. Ivi, p. 129-130. Ed è questa, per Derrida, «la difficoltà più interessante di questo testo» Ivi, p. 129., difficoltà che egli aveva peraltro di mira fin dall’inizio. Il punto è che nell’Appendice III l’incarnazione storica si presenta insistentemente come un elemento costitutivo dell’idealità (anzi come sua condizione di possibilità), e non come una mera “espressione” o esteriorizzazione di qualcosa che potrebbe essere puro e intemporale prima di essa: «anziché incatenarlo, l’incarnazione storica libera dunque il trascendentale. Quest’ultima nozione deve dunque essere ripensata» Ivi, p. 130. . È questo lo spazio in cui si radica l’intero itinerario di Derrida: si tratta di ripensare la nozione di trascendentale husserliana alla luce delle premesse di Husserl stesso e alla luce di una nuova considerazione della mediazione linguistica e segnica. Se l’esistenza di oggettualità ideali coincide con la possibilità di una loro tradizione pura, allora il linguaggio non è e non può essere una mera «registrazione» o un «ausiliario» estrinseco del senso: esso coincide piuttosto con «la produzione di un oggetto comune». Il linguaggio non si limita cioè a conservare l’idealità, «poiché non vi sarebbe verità senza questa tesaurizzazione, che non è solamente ciò che registra e ritiene la verità, ma anche ciò senza cui un progetto di verità e l’idea di un compito infinito sarebbero inimmaginabili» Ivi, p. 131.. È in questo senso che il linguaggio è l’elemento fondamentale della tradizione e non solo un suo strumento; senza o prima di esso non vi sarebbe alcun oggetto comune. Tuttavia non si parla qui di un linguaggio o di una lingua determinati; Husserl si riferisce qui alla pura possibilità di un linguaggio in generale. Tutte le formazioni ideali devono infatti poter essere traducibili da una lingua all’altra per essere tali: non devono essere incatenate a questa o a quella incarnazione determinata. Il loro incarnarsi è costitutivo e costituente, come abbiamo visto, ma non lo è, e non deve esserlo, nell’ottica di Husserl (e di Derrida), l’incarnarsi in una particolare lingua o scrittura: la geometria è e deve essere la stessa in qualunque lingua sia espressa e, per essa, «la possibilità della tradizione si confonde con quella della traduzione» Ivi, p. 124. , scrive Derrida. Va notato per inciso come per Husserl non tutte le idealità permettano una tradizione (e dunque una traduzione) assolutamente pura: perciò egli distingue fra idealità «libere» e idealità «incatenate» Cfr. ivi, p. 123-124 (nota n.94). . Per esempio l’idealità indicata dalla parola “leone” non è traducibile universalmente, di principio: essa è costitutivamente incatenata al riferimento ostensivo ultimo all’incontro contingente con qualcosa come il leone. Dunque le idealità incatenate rimangono sempre legate a un contenuto sensibile, mentre le idealità libere valgono sempre, per chiunque, di principio. Il punto però è che Husserl riconosce che anche queste ultime fanno la loro “entrata in scena” nella storia e che non c’è nessun retroscena, nessuna «quinta della storia», in cui esse aspettavano, pure e incontaminate, di venire espresse o “rivelate” e che quindi sono anch’esse «fattuali e mondane»: ed è proprio sul senso da dare a questa fattualità irriducibile che, lo abbiamo visto, si concentra «la difficoltà cruciale di tutta la sua filosofia della storia» Ibidem. e si misura la radicalità del suo tentativo di pensare la storia. Ma, ecco il passaggio decisivo, secondo Derrida, de L’origine della geometria: l’oggettività, ovvero l’indipendenza dalla soggettività psicologica e dalla fattualità, che si guadagna con l’entrata/costituzione nel linguaggio dell’idealità non è ancora sufficientemente pura. L’incarnazione linguistica e la comunicazione orale mantengono l’idealità nella dipendenza da un atto, ossia da una comunicazione reale e immediata nell’hic et nunc di una determinata comunità di parlanti: «manca ancora», scrive Husserl, «un’esistenza permanente degli oggetti ideali, un’esistenza che duri anche attraverso quei tempi in cui lo scopritore e i suoi compagni non vivono nella vita desta, nella connessione comunicativa, oppure addirittura non vivono più affatto. Manca ancora, cioè, agli oggetti ideali, un essere persistente indipendente dal fatto che qualcuno li realizzi o meno» Ivi, p. 141. Mancano cioè di quella virtualità che permetterebbe loro di persistere indipendentemente da qualsiasi (o quasi) variazione fattuale, da cui dipende la possibilità di una «tradizionalizzazione assoluta». È proprio qui che emerge la necessità della scrittura: essa sola rende possibile quel grado superiore di obbiettività, massimamente indipendente dalla fattualità e dall’attualità, che distingue l’oggettualità ideale come tale. L’importante funzione dell’espressione linguistica scritta, documentata, sta appunto nel fatto di permettere la comunicazione anche senza un discorso personale immediato o mediato, di essere, per così dire, una comunicazione virtuale. Ivi, p.141, traduzione di Derrida di un passo husserliano de L’Origine della Geometria. Solo così «l’accomunamento dell’umanità» può proiettarsi fuori da ristrette cerchie di parlanti e dai limiti generazionali, realizzando una tradizionalizzazione assoluta che riguarda tutta l’umanità, passata, presente e futura; è questo infatti l’orizzonte che caratterizza e permette la tradizionalizzazione propria del progetto scientifico-filosofico e fa emergere l’unità di un telos universale. Solo a partire dalla scrittura è possibile il progetto comunitario della scienza: essa sola è in grado di costituire quell’oggetto comune, persistente e sempre “consultabile” sulla base del quale diverse soggettività, di ogni luogo e di ogni tempo, possono condividere un compito che ha per oggetto qualcosa che va al di là di loro stessi e della loro vita, in quella «catena aperta di generazioni di ricercatori noti e ignoti, che lavorano gli uni con gli altri e gli uni per gli altri». La possibilità della scrittura rientra dunque a pieno titolo fra le condizioni di possibilità della scienza, dell’episteme: «la spazio-temporalità scritturale […] compie e consacra l’esistenza di una pura storicità trascendentale» Ibidem.. La scrittura crea appunto «una sorta di campo trascendentale autonomo da cui ogni soggetto attuale può assentarsi» Ibidem. : ecco perché Derrida diceva che la nozione di trascendentale andava ripensata, sulle basi stesse della fenomenologia. A livello di descrizione fenomenologica non si può non constatare che l’orizzonte trascendentale si manifesta soltanto a partire dalla sua mediazione segnica (la quale peraltro non si potrà più chiamare «mediazione» senza far ricorso a molte precisazioni e riserve). Ovviamente torneremo su questo punto quando valuteremo gli approdi ultimi della ricognizione decostruttiva operata da Derrida sul testo di Husserl. È bene notare però come le conclusioni che Derrida raggiungerà nelle ultime pagine della sua Introduzione non richiedano di compiere molti passi oltre il sentiero tracciato da Husserl; molte di esse sono anticipate già molto presto nel testo. Si tratta di conseguenze quasi immediate, almeno nell’ottica di Derrida: a suo avviso bastava sporgersi appena più in là per mettere in discussione i centri gerarchici della fenomenologia. Senza la possibilità della scrittura dunque, rimarca Derrida, il linguaggio resterebbe ancorato all’intenzionalità fattuale di un parlante o di una comunità di parlanti e non si darebbe alcuna idealità piena, cioè indipendente dal suo realizzarsi in un’intenzionalità soggettiva. Pur coincidendo con la possibilità di un assentarsi dell’intenzionalità e di un senso non pensato in atto, la scrittura è però in qualche modo sempre abitata dal rapporto a una soggettività trascendentale e da una intenzionalità virtuale che permette sempre di diritto di rianimare attualmente tale intenzionalità; è perciò che Husserl non definisce la scrittura come Körper, ma come Leib, come corpo vivente e animato. È la scrittura dunque a portare a compimento l’oggettività e a costituirla come tale. Anche qui però, non si tratta di questa o quella iscrizione fattuale determinata: in Esperienza e Giudizio Husserl spiegava che, ad esempio, il Faust di Goethe compare, identico a sé, in tutti i suoi esemplari e in tutte le sue incarnazioni sensibili e scritturali, ma non è individuato da nessuna di queste sue incarnazioni. Se il senso «ha la sua origine in un puro diritto alla parola e alla scrittura», tuttavia, «una volta costituito», la scrittura e l’iscrizione in questo o quel sistema segnico condiziona il senso solo «come un fatto empirico». È la pura possibilità della scrittura Su questo punto Derrida aderisce senza scarti alla posizione husserliana. Cfr. a tale proposito C. Di Martino che, in Oltre il segno, op. cit., p. 60-68, ha messo a confronto le posizioni Derrida e quelle di Carlo Sini sul tema della scrittura: «Se per un verso l’adesione di Derrida alla posizione di Husserl è necessaria e condivisibile, al fine di scongiurare la caduta in una qualsivoglia forma di riduzionismo empirico – che resta intrinsecamente pre-filosofico -, per altro verso essa cela l’insufficiente comprensione di una questione decisiva». Come mai il pensiero logico-scientifico è apparso proprio nella antica Grecia? A meno che non si voglia dare una risposta che faccia capo all’idea husserliana di un eidos europeo (stigmatizzata dallo stesso Derrida, che la definisce «sinistra» e «razzista» in De l’esprit. Heidegger et la question, Galilée, Paris 1987; tr. it di G. Zaccaria, Dello spirito, Heideggere e la questione, Feltrinelli, Milano, p. 77 n.3), stando all’impostazione di Derrida non resterebbe che concludere che tale eidos poteva manifestarsi altrove, o non manifestarsi affatto. Ma questa sì che sarebbe un’abdicazione empirista agli obiettivi di una storia fenomenologica: si tratta piuttosto di prendere di mira, scrive Di Martino, «quell’apriori storico concreto, secondo la nota e significativa formula husserliana, che abbraccia tutto ciò che diviene storicamente ed è apparso una prima volta», quella Erstmaligkeit a cui abbiamo accennato prima. In questo senso appare più giustificata la prospettiva siniana secondo cui è la pratica della scrittura alfabetica a educare la mente logica e il pensiero logico-definitorio tipico della razionalità occidentale. che si configura come «condizione sine qua non» dell’oggettività e del suo «compimento interno»: Finché non può esser detta e scritta, la verità non è pienamente oggettiva, vale a dire ideale, intelligibile per chiunque e indefinitamente perdurabile. […] Senza dubbio essa non deriva mai la propria oggettività o la propria identità ideale da tale o talaltra incarnazione linguistica di fatto, e resta «libera» nei riguardi di ogni fattualità linguistica. Ma questa libertà non è precisamente possibile che a partire dal momento in cui la verità può in generale essere detta o scritta, cioè a condizione che lo possa. J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 144. Già lo stesso Fink si era però immediatamente impegnato a tentare di neutralizzare la portata delle affermazioni husserliane affermando, nella sua trascrizione de L’Origine, che «nell’incorporazione sensibile avviene la “localizzazione” e la “temporalizzazione” di ciò che, per il suo senso d’essere, è il-locale e in-temporale» Ivi, p. 143. . L’interpretazione di Fink è sottilmente depotenziante e sembra fatta apposta per assorbire e amalgamare le riflessioni dell’Appendice III nel tessuto “ufficiale” della fenomenologia. Derrida al contrario insiste proprio sul carattere eversivo del capovolgimento dei termini della questione, così come li ha messi Fink e così come li ha sempre pensati la metafisica: l’incorporazione linguistica non è estrinsecazione di un senso puro interno e indifferenziato, ma coincide con quella differenza che prescrive al senso di «diventare quello che è differendo da sé» J. Derrida, L’ecriture et la différence, Le Seuil, Paris 1967, tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002, p. 14. . Perciò Derrida può concludere, invertendo la formula di Fink, che «la non-spazio-temporalità non accade come senso che per la sua incorporabilità linguistica» J. Derrida, Introduzione a l’Origine della Geometria, op. cit., p. 144.. Derrida non si limita però a denunciare una posizione husserliana spesso dimenticata o minimizzata, ma si impegna da qui in poi a mostrare la valanga di gravi conseguenze teoretiche che sono implicate nel riconoscimento di un simile ruolo alla scrittura. Se prendiamo sul serio ciò che Husserl sta dicendo dobbiamo concludere che finché un senso non è scritto, o meglio, finché non può essere scritto, non esiste come tale, cioè come perdurante al di là del divenire dei suoi segni e del suo contesto fattuale: «l’atto di scrittura è quindi la più alta possibilità di ogni “costituzione”» Ivi, p. 143.. Come ha scritto, a questo proposito, Carmine Di Martino, «un senso disincarnato, senza segni, assolutamente anteriore a ogni incorporazione, a ogni gesto, scrittura, supporto, virtualmente presente come tale nell’interiorità, è in verità semplicemente nulla» C. Di Martino, Oltre il segno, op. cit., p. 60.. La stessa supposta evidenza soggettiva del senso che precederebbe il suo oggettivarsi rappresenta, secondo Derrida, «una sorta di finzione» J. Derrida, Introduzione a l’Origine della Geometria, op. cit., p. 115. che serve soltanto a scandire logicamente il processo di oggettivazione e a mostrare l’articolazione e la complessità dei caratteri dell’oggettività ideale: ma, «in verità, non vi è prima un’evidenza geometrica soggettiva che diverrebbe in seguito oggettiva. Vi è evidenza geometrica solo a partire dal momento in cui essa è evidenza di una oggettualità ideale e quest’ultima è tale solo dopo essere stata messa in circolazione intersoggettiva» Ibidem. Questo punto anticipa evidentemente alcuni sviluppi che avranno maggiore spazio ne La voce e il fenomeno.. Il senso non è dunque che un effetto di rimbalzo del segno: solo a partire dal segno possiamo venire a contatto con un senso. Non si tratta però di una limitazione fattuale, almeno non nel senso che la metafisica ha sempre dato a questa parola: non esiste e non può esistere, di principio, un senso che sia tale prima di ogni incarnazione e che solo secondariamente si esteriorizzerebbe, o si servirebbe di una “mediazione” segnica per essere “comunicato”. Perciò lo statuto degli oggetti ideali, che Husserl aveva di mira all’inizio, e il «campo trascendentale puro» in cui essi sono possibili, si rivelano sfuggire «all’alternativa del sensibile e dell’intelligibile, dell’empirico e del metaempirico. […] Husserl indica così la direzione di una fenomenologia della cosa scritta». Ivi, p. 145. 2.4 L’oblio del senso e il senso di questo oblio È evidente però (anche qui la conseguenza è relativamente immediata nella mente di Derrida) che se la scrittura è la condizione di possibilità del senso e di una tradizione, tale possibilità coincide anche con un radicale e costitutivo mettersi pericolo del senso stesso. Cfr. su questo punto Merleau-Ponty, Husserl ai limiti della fenomenologia, op. cit.. p. 121: «è esso [lo scritto] che – come una comunicazione “virtuale” che non è portata da alcun soggetto vivente e per principio appartiene a tutti – evoca una parola totale, tramuta definitivamente in essere ideale il senso delle parole, e trasforma peraltro la socialità umana. Orbene, il senso puro dello scritto che sublima la solidità delle cose e la comunica ai pensieri è anche un senso pietrificato, sedimentato, latente o dormiente, finché uno spirito vivo non viene a svegliarlo. Nel momento in cui tocchiamo il senso totale, tocchiamo anche l’oblio e l’assenza». Se, infatti, la scrittura è condizione per la tradizionalizzazione delle oggettualità, allo stesso tempo – Derrida lo nota di schianto, non appena gli viene incontro la “scoperta” della scrittura – essa rende possibili anche la perdita di senso, «la passività, la dimenticanza e tutti i fenomeni di crisi» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 141.. L’incorporabilità segnica e linguistica è, lo abbiamo visto, condizione di «ogni oggetto assolutamente ideale, cioè per la verità» Ivi, p. 147.: ma questa stessa verità, una volta costituita, è continuamente messa in pericolo, in quanto «non appena, come gli è prescritto, il senso è raccolto in un segno, quest’ultimo diventa la residenza mondana ed esposta di una verità non pensata». Ibidem. Perciò Husserl distingueva fra «segno-significante», o «segno-espressione», e «segno-indice» (distinzione sulla quale Derrida si soffermerà a lungo ne La voce e il fenomeno): è nello spazio di una sempre possibile degradazione del primo verso il secondo, in cui «un’intenzione chiara» degrada a «simbolo vuoto», che egli ha sempre individuato la possibilità ricorrente di una crisi della ragione e dell’umanità europea, in cui la struttura di rimando segnico collasserebbe su se stessa, facendo del segno un specie di cadavere del senso. In una splendida e profonda pagina dell’Introduzione a L’Origine della Geometra, immediatamente successiva all’enunciazione della scrittura come condizione della verità e dell’idealità, Derrida descrive in che senso e in che modo la scrittura porti con sé la possibilità di una tale degradazione e il rischio di un oblio del senso, accennando per la prima volta alla questione che si proietta sullo sfondo dell’interrogazione sul ruolo della scrittura e del segno: la questione della morte. Il campo della scrittura ha come carattere originale di poter fare a meno, nel suo senso, di ogni lettura attuale in generale; ma senza la pura possibilità giuridica di essere intelligibile per un soggetto trascendentale in generale, e se il puro rapporto di dipendenza nei confronti di uno scrittore e di un lettore in generale non si annuncia nel testo, se una intenzionalità virtuale non lo abita, allora, nella vacanza della sua anima, esso si riduce a una letteralità caotica, all’opacità sensibile di una designazione defunta, vale a dire privata della sua funzione trascendentale. Il silenzio degli arcani preistorici e delle civiltà sepolte, il seppellimento delle intenzioni perdute e dei segreti custoditi, l’illeggibilità dell’iscrizione lapidaria svelano il senso trascendentale della morte, in ciò che unisce all’assoluto del diritto intenzionale nell’istanza stessa del suo scacco. Ivi, p. 142. Come si vedrà più esplicitamente ne La voce e il fenomeno, nella cancellazione o nella minimizzazione del ruolo del segno da parte della metafisica, Derrida legge fin dall’inizio «la dissimulazione di questo rapporto alla morte che tuttavia produce il significato»: il segno, o la sua possibilità, coincide per Derrida, in un senso che cercheremo di chiarire più avanti, con il rapporto alla morte, alla quale Husserl concede sempre e solo un significato empirico e mai trascendentale. Ma già qui la scrittura, e la sua necessità, si danno a vedere come una costitutiva minaccia dell’integrità e dell’identità a sé del senso; il segno travaglia dall’interno tale identità. La necessità della mediazione segnica e della sedimentazione è infatti prescritta a ogni tradizionalizzazione del senso; ma, in Husserl, «questa prescrizione è ora valorizzata (come condizione della storicità e dell’avvento progressivo della ragione), ora svalutata come messa in letargo delle origini e del senso ricevuto» Ivi, p. 83, nota 30. . Essa è per Husserl «un valore che porta con sé una minaccia» Ibidem. , un pharmacon direbbe Derrida; e la minaccia che si presenta qui è «una possibilità che, fin qui», scrive Derrida, «si accordava solo con l’empirismo e con la non-filosofia: quella di una scomparsa della verità» Ivi, p. 147.. Se infatti il senso è legato indissolubilmente alla finitudine del segno non può che trovarsi sempre esposto al rischio radicale di una sua «scomparsa». Bisogna però capire come vada inteso il termine «scomparsa». Qual è il senso di questa scomparsa? In che modo Husserl pensa la storicità del senso e il costitutivo lasciarsi minacciare del senso da parte di tale storicità? Questo per Derrida «è il più difficile dei problemi posti da L’Origine e da tutta la filosofia husserliana della storia» Ibidem.. Qui affondano la loro possibilità gli estremi etico-teoretici del progetto della Krisis: dalla possibilità della riattivazione dell’intenzionalità filosofica delle scienze europee, al rischio di una deresponsabilizzazione e di un oblio del senso originario (possibilità della crisi della ragione). Come si configuri però la possibilità di un tale oblio è una domanda che, nota Derrida, non trova, o non trova facilmente, una risposta univoca stando alla lettera del testo husserliano. Prima di tutto, senza dubbio, in Husserl è sempre presente e cogente il problema dell’alienazione tecnicista e oggettivista che, nell’Occidente contemporaneo, riduce, o rischia di ridurre, la scienza «ad arte o a gioco» Ivi, p. 153. Cfr. anche E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., § 9, f, p. 72-74. , cioè a un sistema di segni autoreferenziali sprovvisti di un significato che non sia quello iscritto in un “gioco” particolare, privo di ogni fondamento di senso nelle comuni pratiche di vita. Il «senso logico» “intra-scientifico” della scienza costituita è sempre disponibile, ma il suo senso originario e costituente rischia costantemente di perdersi nelle progressive sedimentazioni insieme con il suo telos. In questo senso è paradigmatica l’interpretazione del gesto galileiano svolta nella Krisis: Galileo (o la sua figura emblematica) rappresenta il genio che scopre ma al contempo “ricopre”, in quanto si dedicò senz’altro all’infinitizzazione di una geometria e di una matematica di cui non era stato indagato il senso d’origine, ossia l’«archi-terreno» del mondo-della-vita in cui erano avvenute le prime idealizzazioni e l’originario «conferimento di senso» Ivi, p. 83, nota 30. Cfr. sempre § 8 e 9 de La crisi delle scienze europee. che avevano costituito le formazioni geometriche e matematiche. Per questo motivo, a partire da Galileo, le idealizzazioni matematiche sono intese come realtà ontologiche che vanno ricoprire senza residui la realtà dei fenomeni. Con la matematizzazione galileiana della natura, la realtà viene idealizzata nella sua totalità sotto la guida della nuova matematica: anzi, la realtà diventa, viene a identificarsi, con una molteplicità matematica. Le idealizzazioni sono divenute prodotti abituali e sempre disponibili: come tutti i prodotti culturali nati dal lavoro umano esse rimangono obiettivamente conoscibili e disponibili anche senza che la formazione del loro senso debba venire esplicitamente rinnovata; «grazie a una incarnazione sensibile, per es. attraverso la lingua e la scrittura, esse vengono colte appercettivamente e trattate operativamente». Diventano come «tenaglie o trapani» 111 Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 56. , scriveva Husserl nella Krisis: vengono cioè comprese e usate per gli scopi immediati del momento «senza che si produca una rinnovata intuizione di ciò che ha dato il senso proprio a queste proprietà» Ibidem. . Le sedimentazioni sono il resto inerte di un’intenzionalità Cfr. su questo punto P. Marrati, op. cit., p. 23, quando scrive che in Husserl «l’interruzione o “corruzione” dell’idea filosofica ha sempre la stessa forma: prendendo il prodotto costituito come assoluto, originario e costituente, l’attività trascendentale disconosce se stessa. Prigioniera delle sue stesse produzioni, essa perde la sua strada». : esse possono però venire usate e comprese senza che sia riattivata l’intenzionalità e il senso che le ha poste in essere. È precisamente questo che la scrittura permette: essa rende possibile e sempre disponibile una «residenza mondana di una verità non pensata» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit. p. 147. , che tuttavia può essere sempre usata come uno strumento senza che il suo senso d’origine venga riattivato, ossia, dal punto di vista di Husserl, irresponsabilmente, nichilisticamente. Galileo non si pone il problema dell’origine delle idealizzazioni matematiche a partire dal mondo pre-scientifico; di conseguenza procede senz’altro alla costituzione di «un campo di lavoro che coincide con un mondo, infinito e tuttavia in sé concluso, di oggettualità ideali» E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 56. . In altre parole, ad avviso di Husserl, la «negligenza fatale» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit. p. 83. di Galileo fu quella di «non porre la question en retour». Tuttavia Derrida, avendo di mira nella sua indagine il senso della storicità, domanda come vada intesa «la “fatalità” di questa “negligenza”». Di fatto, nelle varie occorrenze del tema nel testo husserliano, si confondono diversi significati e diverse connotazioni, non consentendo, in ultima analisi, di fare chiarezza sul fenomeno dell’oblio del senso e sul senso di questo oblio. Già per quanto riguarda il caso di Galileo, Derrida, con grande acume analitico, individua almeno tre sensi diversi in cui la negligenza galileiana viene intesa da Husserl: Cfr., per questa disamina, ibidem, nota 30. come una necessità empirica, ossia «nell’ordine della psicologia individuale, sociale o della storia fattuale» (che per Husserl rappresenterebbe solo una disfatta «apparente» della ragione, sempre, di principio, riparabile); come un «errore etico-filosofico radicale: fallimento della libertà e delle responsabilità filosofiche» (invero la connotazione più frequente, e forse la principale agli occhi di Husserl); tuttavia già in Husserl l’oblio del senso si configura anche come una necessità eidetica: siccome la sedimentazione è consustanziale a ogni tradizionalizzazione, c’è una necessità intrinseca che prescrive che, perché il senso sia storico da parte a parte (come Husserl non mancherà mai di riconoscere), esso debba accettare il pericolo della sedimentazione e della perdita dell’intenzionalità originaria. Non si tratta dunque solo di un errore o di un incidente empirico: l’oggettivazione linguistico/scritturale e la simbolizzazione matematica sono pensate da Husserl come l’occasione (strutturale e non accidentale) di un’alienazione tecnica e oggettivista. Esisterebbe dunque una necessità strutturale dell’alienazione e dell’oggettivazione del senso che emerge non appena si vuole pensare la storicità irriducibile del senso. L’immagine geologica della sedimentazione viene così chiarita da Derrida, con un brillante gioco etimologico volto a metterne in luce la necessità che lega in un irriducibile double bind posizione del senso e sedimentazione: «ogni avanzata, ogni pro-posizione (Satz) di una senso nuovo è nello stesso tempo un balzo (Satz) e una ricaduta sedimentaria (satzartig) del senso» Ivi, p. 154. . Per Derrida non si tratta di scegliere fra questi tre significati. Essi hanno o devono avere un fondamento unitario: a suo avviso, se si riuscisse a pensare il punto abissale in cui essi convergono «si penserebbe la storia stessa» 118 Ivi, p. 83, n. 30. . Ma, date queste premesse, resterebbe la reale possibilità di una crisi della ragione così come la pensa Husserl, nella sua «negatività»? Ibidem. Bisogna forse distinguere, a questo punto, il concetto di “crisi della ragione”, così come è pensato da Husserl, e il concetto di oblio del senso. Perché, se si seguono certi sentieri delle descrizioni husserliane, l’oblio del senso e delle origini sarebbe da intendersi come un fenomeno costitutivo che, lungi dall’essere uno smarrimento accidentale, si darebbe a pensare come «l’ombra fedele al movimento della verità» Ivi, p. 162. . Se così fosse, nella misura in cui l’oblio del senso fosse cioè un fenomeno connaturato alla tradizionalizzazione della verità, pensare la “crisi della ragione”, nella sua negatività puntuale (ovvero come fenomeno puramente empirico ed eticamente “negativo”), non avrebbe più senso. Husserl sembra invece più propenso a pensare il pericolo dell’oblio del senso anzitutto come un’abdicazione di responsabilità da parte di una soggettività o di una comunità intersoggettiva; tende invece correlativamente a respingere l’ipotesi che porta a concludere che, se la scrittura è al tempo stesso «evento fattuale e insorgenza del senso» Ivi, p. 152., Körper e Leib, la distruzione del segno o una eventuale variazione totale della fattualità non potrebbero che minare in maniera sostanziale l’identità del senso. Cfr. su questa sottile differenza fra la prospettiva husserliana e quella di Derrida, P. Marrati, op. cit, p. 23-24, che scrive che per Husserl «La crisi della filosofia coincide con “l’oblio” o il “ricoprimento” della soggettività trascendentale che era nata con essa e che ha corso di fianco ad essa per la sua intera storia. Husserl vede tutto ciò abbastanza chiaramente, ma, secondo Derrida, non si espone al senso e alla possibilità di questa onnipresente minaccia. Sebbene l’idea teleologica sia trascendentale, la sua crisi è empirica: questa è, per Husserl, un’evidenza che non può essere rifiutata, una distinzione fondativa e irrefutabile». Qui Marrati mette in luce la profonda solidarietà fra l’idea teleologica di compito infinito e il significato puramente empirico della “crisi”. Ci occuperemo di tale questione al termine del nostro percorso attraverso le pieghe del rapporto tra Husserl e Derrida. Husserl vi oppone tenacemente la fede incrollabile in una storicità intrinseca (Geschichte) irriducibile a ogni storicità estrinseca (Historie), alla quale si ferma invece ogni empirismo; deve pur sempre esserci un’univocità che rende possibile ogni fraintendimento e ogni equivocità empirica. Tuttavia questa opposizione tende a sfumare nel momento in cui lo stesso Husserl ne prende di mira (come fa appunto ne L’Origine) quel punto di fuga in cui il senso della storicità si dà a vedere precisamente come «la possibilità di essere intrinsecamente esposti all’estrinseco» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 150.. Quello che Derrida sembra aver compreso qui, portando alle estreme conseguenze il cammino di Husserl, è che è proprio per questa strada che si può arrivare a pensare con rigore filosofico l’assoluto della Storia e del Senso; quello che si lascia vedere ai limiti di una fenomenologia è quel punto abissale in cui Fatto e Senso coincidono e che siamo soliti chiamare Assoluto. A questo punto, se Husserl intendeva la responsabilità filosofica come baluardo e argine all’oblio del senso, Derrida fa piuttosto coincidere la responsabilità filosofica col farsi carico e con l’abitare questa stessa inevitabilità dell’oblio e della perdita di senso. Se il problema del nichilismo o, come si esprime Husserl, della crisi della ragione, è il problema della perdita di senso, Derrida invita a scoprire il senso che era, da sempre, già perduto, Dipende da questa mancata consapevolezza lo «sconcerto idealistico» di Husserl di fronte ai fenomeni di crisi; cfr. P. Marrati, op. cit., p. 24-25: se si dà all’oblio del senso un significato solo empirico, «di fronte all’alterazione o alla decomposizione del senso nella storia “empirica”, non ci resta che lo sconcerto. Uno sconcerto idealistico, secondo Derrida, nel quale il senso della crisi, della temporalità e della storicità sfugge». che è un perdersi: «la storicità è il senso» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 211.. Non è difficile vedere qui, sulla scorta delle analisi svolte in precedenza, come questi temi, che già in questo testo si delineano con grande chiarezza, saranno poi tradotti da Derrida nei concetti che fanno capo alla questione dell’evento: la responsabilità filosofica coincide in altre parole con il sapersi esporre all’evento del senso, ossia alla storicità come senso, e il concetto condizioni di (im)possibilità non è che una traduzione, più radicale e consapevole, dell’orizzonte oltre-fenomenologico (perché iper-fenomenologico) che Husserl aveva sfiorato ne L’Origine della geometria. L’esposizione all’estrinseco è originaria: è condizione di possibilità di ogni intrinsecità nel momento in cui rende quest’ultima impossibile come tale, mantenendo quel margine di non chiusura e di imprevedibilità che rende possibile la storia. Anche qui il pensiero dell’evento sembra essere la filiazione più o meno diretta di un’interrogazione fenomenologica sulla storicità: verso tale pensiero sembrano convergere tutte le linee di una riflessione sulla fenomenologia situata al limite della fenomenologia stessa. Derrida può ora così aprirsi la via per una riconsiderazione della questione dell’origine ancora più radicale di quella husserliana. Se la «negligenza fatale» di Galileo sta, agli occhi di Husserl, nel non aver posto la questione dell’origine, bisogna dunque chiarire il senso di questa “originarietà”; ed è appunto ciò che Derrida e Husserl hanno tentato di fare. Husserl però è costantemente preoccupato che il senso “d’origine” si perda e venga ricoperto dalle sue sedimentazioni. Per Derrida invece il problema della storicità e della tradizionalità consiste appunto nel determinare come accade che il senso “originario” si perda nella sua tradizione, nel suo proceduralizzarsi e istutuzionalizzarsi: ossia, più semplicemente, nella sua scrittura, con tutte le conseguenze e i rischi che essa comporta. Abbiamo visto però anche che questa “perdita” è la condizione stessa perché accada qualcosa come il senso o il valore. Ma in che senso allora il senso sarebbe “originario”? Qual è il senso di tale originarietà? Partendo dal problema fenomenologico della costituzione degli oggetti ideali, Derrida, attraverso e oltre Husserl, è giunto appunto alla scoperta che la perdita, l’alterazione, lo scarto (la differenza) sono originari: il senso è un fantasma dell’origine che vive nei suoi segni. Non c’è un senso identico a sé che solo successivamente si esporrebbe al suo altro, alla perdita e alla differenza. La purezza o anteriorità del senso rispetto a ogni mediazione sensibile è un effetto retroattivo del movimento di differenza prodotto dalla scrittura: la scrittura produce il senso, si configura cioè come «una possibilità che produce a ritardo ciò a cui è detta aggiungersi» J. Derrida, La voix et le phénomen, Presses Universitaires de France, Paris 1967, trad. it. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 2010, p. 131. . Si tratta di un’illusione costitutiva, «quasi trascendentale»: ma è un’illusione (seppure strutturale) pensare al senso come a un primum e la scrittura come uno strumento estrinseco; il senso invece non è un’illusione, ma nient’altro che ciò che accade senza posa nella differenza del segno. Se infatti la materialità del segno marca la differenza rispetto al senso mostrando l’impossibilità di un suo raccogliersi presso di sé, al contempo gli rende possibile il suo essere quello che è (il senso) differendo da sé, secondo la logica aporetica delle condizioni di (im)possibilità. La contaminazione fra dentro e fuori, fra esterno e interno è sempre già avvenuta; la differenza è all’origine, «l’Assoluto è il Passaggio» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., p. 210. , come scrive Derrida nelle conclusioni dell’Introduzione. L’alterità decostruiva sin dall’inizio l’identità del senso. L’assoluto coincide perciò con l’avvenire di questa differenza fra dentro e fuori, fra segno e senso, tra fatto e diritto, ossia con l’evento dell’orizzonte trascendentale. Tutto ciò, lo si noti, è emerso abitando e sollecitando quel «punto nero» rappresentato dalla scrittura, pensando con rigore la questione della scrittura, costantemente posta ai margini e minimizzata dal pensiero metafisico occidentale. La metafisica ha sempre avuto una concezione puramente strumentale della scrittura; l’ha sempre intesa come un fatto, come una contingenza. Non ha mai pensato la scrittura come condizione di possibilità dell’idealità, in cui si iscrive al contempo però l’alterità originaria e la possibilità della morte. Ciò che Derrida scopre già qui è appunto la differenza (e dunque l’alterità) originaria: la necessità della mediazione segnica porta con sé la necessità per il senso di differire da sé per essere sé. «Scrivere è sapere che ciò che non è ancora prodotto nella lettera non ha altra dimora, non ci attende in qualche topos uranios o in qualche intelletto divino. Il senso deve attendere di essere detto o scritto per abitare se stesso e diventare quello che è differendo da sé: il senso. È quello che Husserl ci insegna a pensare ne L’Origine della Geometria» J. Derrida, Forza e significazione, in La scrittura e la differenza, op. cit., p. 14. . È la scrittura che rende impossibile l’identità a sé del logos, proprio nel momento in cui si configura come condizione di possibilità della costituzione di un’oggettività ideale: la scrittura è condizione di (im)possibilità. Queste acquisizioni saranno gravide di conseguenze sia nell’immediato (ne La voce e il fenomeno), sia a lungo termine, nel momento in cui ne saranno tratte le conseguenze che schiuderanno, lo vedremo, una via di liberazione etico-politica ai problemi del nichilismo, della fine della filosofia e del destino dell’Occidente, non rinunciando mai al terreno di assoluto rigore filosofico guadagnato nelle prime opere di Derrida e nel suo confronto con la fenomenologia, ma anzi sviluppandolo coerentemente. III. Ai limiti della fenomenologia 3.1 La questione dell’Ego filosofante: condizioni di (im)possibilità della pratica decostruttiva Prima di affrontare le ultime pagine dell’Introduzione a L’Origine della Geometria, nelle quali Derrida fa convergere tutte le trame emerse nell’andamento di questo testo e in cui si può ritrovare, con chiarezza disarmante, l’intreccio di direzioni che delineeranno il successivo percorso di Derrida, vogliamo proporre una seconda deviazione. A partire dalle due principali opere di Derrida dedicate alla fenomenologia (Introduzione a L’Origine della Geometria e La voce e il fenomeno) affronteremo alcuni temi più generali, relativi al senso complessivo della pratica decostruttiva e del percorso filosofico di Derrida, riannodandoli alle linee interpretative che abbiamo seguito sinora, ovvero in un continuo confronto con la fenomenologia, da un lato, e con il concetto di condizioni di impossibilità e il pensiero derridiano dell’evento, dall’altro. Anzitutto ci soffermeremo su una questione che è senza dubbio di genuina derivazione fenomenologica e che Derrida non manca di affrontare, a suo modo, ma anche in maniera costante e intendendola come costitutiva della pratica decostruttiva: si tratta di quella che Husserl definiva la questione del “Sé filosofante”, ossia la domanda sulla possibilità stessa della domanda filosofica, la domanda sulla domanda, la necessaria Rückfrage che, agli occhi di Husserl, distingue la cifra di un pensiero autenticamente filosofico e responsabile. La decostruzione è in grado di farsi carico del senso delle sue stesse operazioni? Qual è il senso dell’operazione decostruttiva? Dove si colloca? A partire da che e da dove noi possiamo (o dobbiamo) decostruire? Chi decostruisce? Sono queste le domande che una seria posizione della questione dell’Ego filosofante e del senso delle proprie pratiche porta con sé. Ma partiamo da lontano. Come è noto, Derrida muove i suoi primi i passi in uno scenario filosofico e culturale che, in Francia più che mai, è dominato in ogni campo dallo strutturalismo, anche sulla scorta del successo riscosso da un lato dalla psicologia della Gestalt e dall’altro dalla linguistica strutturale di De Saussure. Ricostruendo gli anni della sua formazione, lo stesso Derrida ha avuto modo di sottolineare ad esempio l’importanza dell’insegnamento di uno storico della filosofia come Martial Gueroult, pioniere di un approccio strutturalista al testo filosofico, volto a studiarne il funzionamento e i presupposti strutturali più che a prendere posizione sui contenuti. Una sorta di «tecnologia filosofica» J. Derrida, Memorie – per Paul de Man. Saggio sull’autobiografia, p. 112-113. Cfr. anche, a proposito dell’influenza dello strutturalismo, p. 91-93. , la cui influenza sulla formazione di Derrida sarà di certo non indifferente. Non vogliamo qui proporre un’analisi puntuale del rapporto fra l’opera di Derrida e lo strutturalismo; ci interessa però il motivo principale che segna lo scarto tra l’abito decostruttivo e il metodo strutturalista, cioè l’aspetto statico, tassonomico e astorico del concetto di struttura. Derrida non può accontentarsi dello strutturalismo per un motivo assai preciso, perché in esso è assente, o non è sufficientemente valutata, l’istanza genetica, il fatto cioè che i concetti e gli elementi del sistema hanno una storia, non sono caduti dal cielo già fatti: in altre parole, non viene affrontata la questione dell’origine. Problema della genesi delle oggettualità ideali del sistema scientifico (dei termini del sistema che lo strutturalismo indaga sì nella loro relazione reciproca, ma sempre come già dati, «in uno spaccato orizzontale e astorico» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 81. ), questione dell’origine e, di conseguenza, tutti gli annessi problemi di cui un’indagine storica dovrebbe farsi carico: sono queste appunto le tematiche e le domande che Derrida ricerca con ostinazione nel testo husserliano all’origine del suo cammino filosofico. Quello che Derrida primariamente cerca nella fenomenologia (e oltre la fenomenologia, attraversandola) in questo momento, è appunto un più avvertito e rigoroso pensiero della genesi e della storicità. Nell’Introduzione a L’Origine della Geometria, lo abbiamo visto, Derrida si concentra in modo particolare sulle modalità con cui Husserl ha delimitato il campo in cui esercitare un’indagine storica «di stile inaudito», che si smarchi sia dall’astrattezza di quello che Derrida definisce un «platonismo» che vede nella storia una mera «rivelazione» empirica di Idee astoriche, sia dalle ingenuità di ogni empirismo storicista e di ogni storia-di-fatti che non frequenti la problematica del trascendentale e dell’origine, sottolineando la potenza e il rigore filosofico che caratterizzano il pensiero delle condizioni di possibilità. Ciò che Derrida ha di mira qui, all’incrocio fra lo strutturalismo e la fenomenologia, è il tentativo di delimitare a sua volta il campo della decostruzione, cioè di un tipo di indagine storica che si faccia carico sia del motivo strutturalista (indagare i concetti nella loro relazione sistemica) sia del motivo genetico-trascendentale di derivazione fenomenologica: una «genealogia strutturata», come la definirà in una delle interviste riportate in Posizioni, attraverso la quale mettere in luce i margini impensati della metafisica. […] “decostruire” la filosofia diventa un pensare la genealogia strutturata dei suoi concetti nella maniera più fedele e interna possibile, ma anche da un certo al di fuori che essa non può qualificare e nominare; diventa un determinare ciò che tale storia ha potuto dissimulare o interdire, quando si è fatta storia, appunto, attraverso questa repressione interessata. J. Derrida, Posizioni, op. cit., p. 46. Per intraprendere questo tipo di indagine è però indispensabile fare i conti con quei paradossi in cui si trova intrecciata ogni operazione genealogica e che costituiscono il cuore della questione del “Sé filosofante” di ascendenza husserliana. Anzitutto quello che potremmo definire il problema dell’impossibilità dell’‘occhio esterno’: dove si colloca il decostruttore rispetto a ciò che dovrebbe decostruire? Come scrivere la storia di cui si è il risultato e rispetto a cui si è perciò inemendabilmente interni? Il punto di vista è sempre interno (non c’è alcun fuori), mai ‘panoramico’. Inoltre si presenta qui il problema dell’origine nei termini in cui Derrida lo ha trattato, come abbiamo visto, già nella sua prima opera pubblicata: l’origine si costituisce solo retroattivamente a partire dall’apertura di senso del costituito, di modo che il senso d’origine è sempre costitutivamente rinviato e fa tutt’uno con il senso a venire. Come abbiamo imparato seguendo con Derrida il percorso di Husserl verso l’origine della geometria, non si tratta di andare a vedere “come sono andate le cose in realtà”: questa è la superstizione e l’ingenuità di ogni empirismo storicista. L’origine non è mai un in sé, ma si costituisce, sempre di nuovo, in una struttura di rinvio infinito: come potremmo stabilire il punto di insorgenza fattuale, il «fatto fondatore» di un senso d’essere, se non appunto a partire dal senso che ora riconosciamo alla geometria costituita? Come potremmo riconoscere e isolare come tali i “fatti” geometrici originari, se non supponendo già noto il senso originario della geometria, se non a partire della nostra già costituita nozione di geometria? Cfr. J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., cap. II. Si tratta però di concepire questo paradosso come costitutivo e non come qualcosa che andrebbe in qualche modo emendato o evitato. Bisogna prima di tutto riconoscere e affrontare questa necessaria Rückfrage (cosa che ogni empirismo storicista è strutturalmente portato a non fare; né, per lo più, si pone il problema) e successivamente comprendere come non si tratti in nessun modo di superare o di lasciarsi alle spalle il paradosso, ma, ancora una volta, di «starvi dentro nella maniera giusta» Vedi nota 8. , di abitarlo consapevolmente. Perché non vi è alcun fuori. La decostruzione derridiana trova il suo terreno precisamente nella frequentazione tematica e consapevole di questo «movimento retrogrado del vero» (secondo l’espressione di Bergson Cfr. C. Sini, Idoli della conoscenza, Cortina, Milano 2000, cap. 6. ), mostrato all’opera come coincidente con il movimento del pensiero stesso: solo in questo tipo di rinvio costitutivo e infinito può accadere qualcosa come il senso. L’evento dell’origine non si dà mai come tale, ma sempre e solo come effetto retroattivo del punto di arrivo: la distanza temporale/spaziale, la mediazione segnica, la scrittura, la sedimentazione non sono il luogo della perdita del senso e dell’origine, ma l’unico luogo a partire dal quale senso e origine possono emergere come tali, l’unico luogo in cui possiamo incontrarli e farne esperienza. È ciò che Derrida ha pensato oltre Husserl (ma anche attraverso Husserl, seppure a dispetto delle dichiarazioni di Husserl): il senso/l’origine non è mai disponibile a un’intuizione immediata. Di qui l’inevitabilità e l’importanza della Rückfrage (di cui però già Husserl era profondamente consapevole): solo un genealogizzare che si ricomprende nella trama genealogica che mette in luce può assurgere a un pensiero rigoroso e autenticamente razionale. È precisamente in questo senso che la decostruzione intende se stessa come una pratica che è a sua volta effetto di decostruzione e sempre in via di decostruzione: ed è qui che, facendo un certo percorso, ci pare di poter scorgere, attraverso il pensiero di Derrida, il motivo profondo per il quale la decostruzione si distingue da un metodo o da una procedura (come il metodo strutturalista ad esempio) e, più in generale, che cosa distingue l’esercizio filosofico da una tecnica formalizzabile e serializzabile e non permette mai che la filosofia si traduca in una tecnica. Vediamo come. Derrida si è più volte preoccupato di ribadire che la decostruzione non è, non vuole essere e non sarà mai un protocollo di regole applicabili a qualunque testo: «la decostruzione non è un metodo e non può essere trasformata in metodo. Soprattutto se si accentua in questa parola il significato procedurale e tecnico» J. Derrida, Lettre à un ami japonais, in Psyché. Invention de l’autre, Galilée, Paris 1987, p. 391. . Ma la decostruzione non è un metodo o una procedura prima di tutto perché non è qualcosa che qualcuno può decidere di fare, non è una “corrente di pensiero”, non è l’iniziativa di qualcuno. La decostruzione, sostiene Derrida, è ciò che avviene: ma non, si badi, ciò che sta avvenendo adesso, in una particolare epoca storica in cui il sistema metafisico e l’Occidente perverrebbero alla loro decostruzione. La decostruzione, per Derrida, è la legge dell’esperienza: tutto è attraversato e istituito da una differenza, tutto, da sempre, accade decostruendosi e la differenza è originaria. La decostruzione ha luogo, è un evento che non attende la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, e nemmeno della modernità. Ça se deconstruit. […] E intorno al “si” del “decostruirsi”, che non è la riflessività di un io o di una coscienza, si pone tutto l’enigma. Ibidem. La condizione di possibilità della decostruzione si radica dunque nella costitutiva impossibilità del sistema da decostruire, ossia nel suo essere già da sempre in decostruzione: «La condizione di possibilità di qualsiasi decostruzione si trova “all’opera”, se così possiamo dire, all’interno del sistema da decostruire, vi si trova già situata, già al lavoro (…) La decostruzione non è un’operazione che sopraggiunge a posteriori, dall’esterno, un bel giorno; essa è sempre all’opera nell’opera» J. Derrida, Memorie – per Paul de Man. Saggio sull’autobiografia, op. cit., p. 68.. In altre parole, la decostruzione è possibile perché il sistema è impossibile: è qui che, come ci eravamo proposti di mettere in luce, il tema del “Sé filosofante” si riallaccia, oltre che all’eredità husserliana, anche al concetto di condizioni di (im)possibilità e, come stiamo per vedere in un passaggio ulteriore, alla questione dell’evento. Che cosa lega infatti la questione del “Sé filosofante” alla questione dell’evento? È proprio attorno all’«enigma» del “si” del “decostruirsi”, a cui Derrida faceva riferimento nel passo succitato, che le due tematiche convergono. Ci si potrebbe chiedere: se la decostruzione è «ciò che avviene» perché raddoppiarla (accelerarla?) con una pratica decostruttiva? Ma pensare così è ancora pensare come se la decostruzione fosse una deliberazione: essa è invece già all’opera, è un evento, e praticare la decostruzione ha il senso di corrispondere all’evento del continuo disaggiustamento ad opera della differenza originaria: «si sta decostruendo e bisogna risponderne» J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, p. 98.. Come ha scritto Carmine Di Martino la decostruzione si trova così ad essere, consapevolmente «nello stesso tempo ospitante e ospitata: offre ospitalità alla différance, all’evento, all’impossibile, ma nello stesso momento, in quanto discorso e pratica determinata, essa replica in sé quell’evento cui intende lasciare il passaggio, è preceduta da ciò che attende, è attraversata e posta in opera dalla différance cui vorrebbe dar luogo» C. Di Martino, Oltre il segno, op. cit., p. 220.. È questo che Derrida intendeva dire quando ne La voce e il fenomeno affermava che «il linguaggio ospita la differenza che ospita il linguaggio» J. Derrida, La voce e il fenomeno, op. cit., p. 43.: in Derrida il tentativo di vedere correttamente il rapporto fra linguaggio ed evento coincide con un’istanza etica (che peraltro non è semplicemente l’esito del tentativo teoretico di “vedere correttamente”, ma, più originariamente, ne costituisce il presupposto). La decostruzione mostra così l’originario carattere etico della pratica filosofica, come esercizio di esposizione all’evento, all’altro e all’avvenire. In questo modo il senso della pratica filosofica come decostruzione perde in gran parte il significato del theorein e della theoria, o almeno il significato metafisico di theoria nell’opposizione – e perciò nella solidarietà – con la praxis e con l’etica, intese come qualcosa che sopraggiungerebbe dopo, come “messa in pratica” di una teoria: come sempre la decostruzione non si limita a ribaltare la direzione dell’opposizione, ma disarticola i termini della questione stessa a partire dalla quale si giungeva all’opposizione, lasciando av-venire un nuovo significato dei concetti, invece di capovolgerli o sopprimerli. Se da teoria la decostruzione si traduce da ultimo in un’etica, bisogna specificare in che senso lo faccia: si tratta di un’etica prima dell’etica, cioè non di un’etica prescrittiva, poiché la responsabilità, ossia il dover corrispondere all’evento della decostruzione, non è una prescrizione o un fine che potremmo decidere di prefiggerci, ma un destino a cui siamo già sempre affidati. E così il trasfigurarsi della teoria nell’etica è l’esito di un percorso teoretico, è il punto di consumazione (e insieme di insorgenza) di ogni progetto teoretico, e, al contempo, la ricerca e la frequentazione deliberata e metodica di questo punto di fuga. Un sapere che, come peraltro sapeva già Husserl, parte dalla vita (Lebenswelt) per ritornarvi con occhi nuovi. Dire che un rigoroso pensiero dell’evento non può che tradursi in un’etica significa pensare che il senso dell’avventura teoretica e del sapere sia sempre un vivere, e, precisamente, un aver-da-vivere: un pensiero dell’evento non mira a imbrigliare la libertà dell’evento nel pensiero, ma ad esporsi ad essa, esporsi a vivere l’evento. Se lo si imbriglia non avviene; tuttavia è solo per differenza dal significato, per differenza dal sapere che lo si può vivere; solo attraverso una rinnovata domanda, solo praticando sempre di nuovo l’atteggiamento teoretico si potrà non dirlo (chi l’ha detto che il suo senso sarebbe quello di essere detto?), ma viverlo; solo attraverso l’avventura nel segno e nel significato si può “star vicino” all’evento del significato, farne esperienza e corrispondergli. Come ricorda Derrida ne La voce e il fenomeno la fenomenologia è sempre stata ai suoi occhi «un ritorno (…) all’attività di una vita che produce la verità ed il valore in generale attraverso i suoi segni» Ivi, p. 56.. Il «vivere» è dunque il nome di ciò che precede la riduzione e sfugge in ultima istanza a tutte le divisioni che quest’ultima fa apparire. E ciò perché è esso stesso la sua propria divisione e la sua propria opposizione al suo altro. Ivi, p. 44. È anche questo il senso dell’avventura di Derrida all’interno della fenomenologia: come leggiamo nelle ultime pagine dell’Introduzione a L’Origine della Geometria, che ciò che Derrida lì chiama ritardo sia qualcosa di costitutivo, e anzi una condizione dell’esperienza, «soltanto una fenomenologia può dirlo e farlo affiorare in una filosofia» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, p. 213., «solo essa può far apparire la storicità infinita» Ibidem., ossia l’evento. L’esperienza dell’impossibile non si raggiunge tramite una fuga poetica e non è affatto impossibile: anzitutto perché essa coincide con il limite che si traccia in ogni esperienza e perché se ne può trattare secondo rigore filosofico solo attraverso un pensiero radicale sui limiti dell’esperienza (ne è anzi l’esito destinato). È questo che Derrida intende dire quando, sempre nel finale dell’Introduzione, afferma che per questa via, come peraltro voleva Husserl, «la fenomenologia si compirebbe come propedeutica filosofica ad ogni decisione filosofica» Ivi, p. 211., cioè si risolverebbe (senza dissolversi) in un’etica, in un itinerario che parte dalla vita (dal mondo-della-vita) per poi ritornarvi, eticamente rinnovato (secondo il movimento di quella Ursprungsechtheit «che lega a sé apoditticamente la volontà» Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 47. di cui Husserl parlava nella Krisis). Fatto questo percorso possiamo tentare di rispondere alla domanda che avevamo lasciato in sospeso e ora riproponiamo: qual è il motivo profondo per cui la decostruzione si distingue da un metodo o da una procedura (come il metodo strutturalista ad esempio)? Riteniamo che seguendo i pensieri di Derrida questa domanda porti di fronte alla questione più generale di che cosa distingua l’esercizio filosofico da una tecnica formalizzabile e serializzabile e che cosa non permette che la filosofia si traduca mai in una simile tecnica. La differenza sta appunto nel fatto che la pratica filosofica consiste nel corrispondere a un evento: il pensiero filosofico non è mai circoscrivibile in un protocollo o in un sistema di regole perché sarebbe costitutivamente chiamato a rendere conto ogni volta dell’evento di quel determinato protocollo o sistema di regole. La filosofia non sarà mai una tecnica o una procedura circoscrivibile e replicabile indipendentemente dagli eventi: non sarà mai serializzabile e assolutamente ripetibile proprio nella misura in cui frequenta l’irripetibile e l’inanticipabile in un rapporto in qualche modo ineludibile. In definitiva è il suo tratto eventuale ciò che rende la decostruzione una filosofia e non una tecnica, un metodo di cui si potrebbe scrivere il manuale; è il tratto di imprevedibilità che caratterizza ogni autentico esercizio filosofico e che gli impedisce di tradursi in una tecnica. Di qui anche il tratto di vitalità della filosofia che è precluso a ogni tecnica che cerchi di imbrigliare e di dominare l’evento: una tecnica conclusa, di cui si può scrivere il manuale, non lascia alcun margine all’a-venire, all’imprevedibile, alla novità, in una parola alla vita. Ancora una volta, è la stessa impossibilità del sistema che rende possibile un avvenire a una filosofia che non si confini nell’alternativa fra il negare l’impossibilità e il lamentarsene, ma che se ne faccia carico e promuova l’esperienza dell’impossibile come fonte di ogni vitalità. Anche in questo senso la questione del “Sé filosofante”, ovvero la questione del senso e della collocazione delle proprie pratiche, e la questione dell’evento convergono nel punto in cui è proprio la consapevole e metodica esposizione all’evento a garantire l’efficacia e il rigore di un terreno di ricerca autenticamente filosofico: la pratica filosofica giunge ad auto-comprendersi nel momento in cui giunge al pensiero dell’evento, ovvero giunge a inscriversi nell’evento che l’ha messa in opera. All’interno di questa convergenza, emerge una volta di più come il testo metafisico sia sempre stato abitato dal germe della sua decostruzione: la decostruzione non è il segno di una determinata epoca o di un esaurimento nichilistico del discorso dell’Occidente, ma il venire in luce di un’originaria apertura all’evento, al disaggiustamento, all’alterità. L’alterazione, l’oblio, la perdita vanno pensati come condizioni di possibilità dell’accadere del senso. Derrida, di contro a un certo «tono apocalittico di recente adottato in filosofia» Cfr. J. Derrida, D’un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, trad. it. di A. Dell’Asta e P. Perrone, Di un tono apocalittico di recente adottato in filosofia, in AA. VV., Di-segno. La giustizia nel discorso, Jaca book, Milano 1984. che discetta dell’imminenza della fine della Storia e dell’Occidente, ribadisce che non abbiamo perso niente di cui dovremmo avere nostalgia: se qualcosa si è perso era già perduto in origine, già da sempre abitato dal suo principio di decostruzione. Non c’è mai stato un senso originario identico a sé che poi si sarebbe estrinsecato nella Storia esponendosi alla perdita: la distanza, la mediazione, il segno sono il luogo di insorgenza del senso e la sua condizione di (im)possibilità, non il luogo di alterazione di una sua presunta identità originaria. 3.2 La voce e il fenomeno e l’impossibilità delle «distinzioni essenziali» come esperienza dell’impossibile Anche per quanto riguarda La voce e il fenomeno ci concentreremo sulle tematiche a partire dalle quali possiamo svolgere un’interpretazione del rapporto della decostruzione con la fenomenologia e, dall’altro lato, con gli sviluppi successivi del pensiero di Derrida. Tralasceremo almeno alcuni importanti aspetti dei molteplici strati di problemi che questo testo, dibattutissimo e divenuto ormai un vero ‘classico’, non smette di rivelare agli interpreti testimoniando, proprio per la sua inesauribilità nel provocare il pensiero, la sua ‘classicità’ e la radicalità delle sue domande, indipendentemente da qualsiasi posizione si prenda rispetto ad esse. La questione del rapporto di Derrida con la fenomenologia, se valutata in relazione questo testo, diventa particolarmente controversa e si è in effetti prestata a interpretazioni assai differenti tra loro. Si è talvolta considerato, implicitamente o tematicamente, La voce e il fenomeno come un testo (il testo) in cui Derrida regola una volta per tutte i conti con Husserl per poi avviarsi verso nuovi percorsi, rispetto ai quali le istanze della fenomenologia, contaminate da parte a parte da presupposti metafisici, sarebbero state del tutto inservibili e irrimediabilmente compromesse: in ogni caso, un testo contro Husserl e contro la fenomenologia, sia che si considerasse positivamente quella di Derrida come una compiuta e definitiva liquidazione della fenomenologia, sia che si ritenesse la sua critica come un grossolano fraintendimento, basato su errori esegetici e filologici più o meno consapevoli. Abbiamo già sottolineato come la categoria della “critica” sia, questa sì, troppo compromessa con il canone metafisico per non essere a sua volta messa in questione da una pratica decostruttiva che abbia i caratteri che Derrida ha delineato a più riprese: si possono poi valutare gli esiti particolari del suo lavoro sul testo di Husserl, ma è scarsamente giustificabile attribuirgli senza riserve un’intenzione semplicemente “critica”, che contraddirebbe l’istanza genealogica che abbiamo appena mostrato essere al cuore dell’operazione decostruttiva. Ma, oltre e al di là di ciò, è necessario a nostro avviso – e anzi la nostra interpretazione si basa su questo presupposto – mettere in stretta relazione questo testo con l’altro grande confronto di Derrida con la fenomenologia e con il pensiero husserliano, ovvero l’Introduzione a L’Origine della Geometria. Questo rapporto tuttavia è stato spesso pensato dagli interpreti come la radicalizzazione di una presa di distanza iniziata con quest’ultima opera e culminata nella definitiva liquidazione de La voce e il fenomeno; o, addirittura, a partire dall’idea di un Derrida ancora imbrigliato nell’eredità fenomenologica (ai tempi dell’Introduzione) e poi finalmente liberatosi per seguire una strada più propria, aliena fra l’altro dal rigore metodico proprio della fenomenologia. Cfr. a tale proposito J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. di Elena ed Emilio Agazzi, Laterza, Bari 1987, p. 311. Tuttavia la categoria ermeneutica dello sviluppo (che sia radicalizzazione o deviazione, ripensamento) non può essere applicata al rapporto fra queste due opere per almeno due ragioni. Anzitutto perché diverse pagine de La voce e il fenomeno sono una ripresa quasi letterale delle analisi svolte nella recensione di Phänomenolgische Psychologie Cfr. J. Derrida, Phänomenolgische Psychologie, de E. Husserl, in «Les ètudes philosophiques», n 2, 1963, aprile-giugno, pp. 203-206. Il testo di Husserl è: Phänomenolgische Psychologie, Vorlesungen Sommersemester 1925, Husserliana, vol. IX, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 1962. , apparsa nel 1963, solo un anno dopo la pubblicazione dell’Introduzione a L’Origine della Geometria: e non si tratta di pagine qualunque, magari dedicate a un problema circoscritto, ma delle pagine centrali dell’introduzione de La voce il fenomeno, in cui Derrida esplicita le linee interpretative generali che lo guideranno nei capitoli successivi e affronta da par suo il problema fenomenologico fondamentale della differenza fra Io empirico e Io trascendentale, ossia di quel «nulla» che li distingue e «senza il quale nessun problema trascendentale, cioè filosofico, potrebbe ricevere il suo respiro» J. Derrida, La voce e il fenomeno, op. cit., p. 41.. La coappartenenza delle due opere va peraltro anche nel senso inverso: anticipando qui le conclusioni della prima opera pubblicata da Derrida, su cui torneremo a più riprese, risulta difficile pensare che Derrida non avesse già allora messo in radicale discussione la presenza a sé e l’immediatezza del vissuto fenomenologico. «L’impossibilità di riposarsi nel mantenimento semplice di un Presente Vivente, […] l’impotenza a chiudersi nell’indivisione innocente dell’Assoluto originario, perché esso non è presente che differenziandosi senza tregua […]» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, op. cit., p. 214.: affermazioni di questo genere suggeriscono già come le due opere, pur seguendo sentieri differenti, manifestino un atteggiamento unitario e vadano valutate pariteticamente nel loro concorso a determinare il carattere dell’itinerario di Derrida all’interno e oltre la fenomenologia. Se questo non bastasse – ed ecco la seconda ragione che ci spinge a vedere le due opere su Husserl come appartenenti alla medesima prospettiva – lo stesso Derrida ha esplicitamente affermato che La voce e il fenomeno rappresenta l’altra faccia (recto o verso, come si preferisce) di un precedente saggio pubblicato nel 1962 quale introduzione a L’origine della geometria di Husserl. J. Derrida, Posizioni, p. 45. Derrida non poteva essere più chiaro nel puntualizzare come i due testi siano stati scritti (e vadano interpretati) a partire da una strategia comune: due diversi tipi di grimaldello coi quali introdursi all’interno dell’edificio fenomenologico, smontarne le fondamenta e saggiarne la tenuta. Se poi si considera che Derrida ha dichiarato, all’interno della stessa intervista, che avrebbe potuto collegare La voce e il fenomeno «come una lunga nota, a una delle due altre opere» Ivi, p. 44., cioè a La scrittura e la differenza e a Della grammatologia, e si è spinto addirittura a parlare di «un’architettura filosofica classica» Ibidem. di cui ciascuna delle tre opere coeve sarebbe un tassello, risulta chiaro come qualsiasi interpretazione che non si basi sul presupposto di dover scorgere l’accordo strategico di questi testi sarebbe fuorviante e priva di fondamento, di qualunque tenore essa fosse. È vero, come è capitato di dire allo stesso Derrida a proposito del testo heideggeriano, che nessun testo è «omogeneo, continuo, e ovunque all’altezza della forza e di tutte le conseguenze delle sue domande» Ivi, p. 48.; ma è bene appunto sapere che, almeno nelle intenzioni, queste opere erano una risposta allo stesso ordine di domande, e, in particolare, il testo sull’Appendice III e La voce e il fenomeno si proponevano di interrogare il testo husserliano secondo una strategia unitaria e ben precisa. Recto o verso: la metafora indica con chiarezza che le due letture husserliane non solo sono compatibili, ma complementari e la “o” rappresenta un vel vel, non un aut aut. Vanno perciò lette all’insegna di un complementarietà assolutamente paritetica. Non si può dunque nemmeno sostenere semplicemente che Derrida riserverebbe ciò che vede di ‘buono’ in Husserl (istanza genetica, indagine sulle condizioni di possibilità dell’episteme, posizione del problema della Rückfrage) al testo del ’62, mentre La voce e il fenomeno rappresenterebbe il verso, nel quale invece si denuncerebbe finalmente l’inemendabile appartenenza di Husserl alla metafisica e perciò stesso il definitivo distacco di Derrida dalla tradizione fenomenologica. Il rapporto fra i due testi (e implicitamente fra la decostruzione e la fenomenologia) deve essere molto più complesso di così. Se si legge con attenzione, lo dice lo stesso Derrida Il destino storico della fenomenologia sembra in ogni caso compreso tra questi due motivi: da un lato la fenomenologia è la riduzione dell’ontologia ingenua, il ritorno ad una costituzione attiva del senso e del valore, all’attività di una vita che produce la verità ed il valore in generale attraverso i suoi segni. Ma nel medesimo tempo, senza giustapporsi semplicemente a questo movimento, un’altra necessità conferma anche la metafisica classica della presenza e segna l’appartenenza della fenomenologia all’ontologia classica. È a questa appartenenza che abbiamo scelto di interessarci [corsivi nostri]. J. Derrida, La voce e il fenomeno, op. cit., p. 56. «Senza giustapporsi semplicemente»: non c’è dunque un rapporto semplice tra le due opere in questione, tra la decostruzione e la fenomenologia, e tra quei motivi fenomenologici che rompono con la metafisica della presenza e quelli che la confermano. Non si può pensare dunque, come già ci eravamo espressi, a dei semplici errori commessi da Husserl; si tratta di un limite costitutivo (una «necessità» scrive Derrida) e perciò fecondo, all’interno del quale Derrida cerca lo spazio a venire per un pensiero che conservi il rigore e l’ambizione che caratterizzano il progetto fenomenologico. Se si guarda però più in generale alle interpretazioni più diffuse de La voce e il fenomeno e del pensiero di Derrida, mentre l’ascendenza heideggeriana di tale pensiero è raramente messa in discussione (egli stesso l’ha più volte dichiarata, seppur non senza marcare alcune specifiche – e forse decisive – distanze), il rapporto che lega Derrida e la decostruzione alla fenomenologia è sempre apparso più problematico e più difficilmente determinabile nelle categorie tradizionali della storia del pensiero, fossero quella della filiazione, dell’opposizione, del superamento o dello sviluppo: a proposito di questo strano rapporto sono sorte perciò interpretazioni molto diverse fra loro, talvolta apertamente contrastanti. Anzitutto, lo abbiamo già notato, esiste l’opposizione tra coloro che si richiamano a Derrida e vedono Husserl come il bersaglio preferito della decostruzione derridiana (in questo caso mera distruzione, si direbbe), rappresentante per eccellenza della metafisica della presenza che il pensiero della differenza avrebbe finalmente smascherato e superato, e dall’altra parte i fenomenologi ortodossi che rifiutano in blocco il lavoro di Derrida sulla fenomenologia, ritenendo impraticabile un serio confronto tra prospettive in quanto la lettura di Derrida si baserebbe su distorcimenti e sostanziali fraintendimenti, dovuti a una conoscenza poco approfondita dell’opera di Husserl, a errori interpretativi, o addirittura – secondo alcuni – a un uso deliberatamente strumentale di Husserl come fantoccio monolitico contro il quale scagliarsi; in ogni caso una sfasatura tale da rendere semplicemente inutile per il fenomenologo il misurarsi con le domande derridiane. Un esempio di questo tipo di lettura lo possiamo trovare in Joseph Claude Evans, che basa la sua critica del decostruzionismo proprio sulla denuncia di un’errata interpretazione di Husserl da parte di Derrida: «Di una lettura che distorce il testo che si suppone stare interpretando – scrive Evans in Derrida and the Myth of the Voice – non si può dire che stabilisca qualcosa riguardo a questo testo» J. Claude Evans, Strategies of Deconstruction, Derrida and the myth of the voice, University of Minnesota Press, Minneapolis, Oxford 1991, p. 143. Cfr. anche, per quanto riguarda le interpretazioni che accusano Derrida di fraintendere Husserl, Alan White, Reconstructing Husserl: A Critical Response to Derrida’s «Speech and Phenomena», in «Husserl Studies», n 4, 1987.. Ora, è vero che, sul piano dell’esegesi filologica husserliana, almeno alcune delle dichiarazioni derridiane non sono del tutto ovvie e possono anzi talvolta suonare grossolane e difficilmente sottoscrivibili alle orecchie dei più fini e attenti conoscitori della sterminata mole di scritti lasciatici da Husserl (una parte dei quali, va però ricordato, non era facilmente disponibile a Derrida nel 1967); in particolare l’idea che si possa trovare «nelle Untersuchungen la struttura germinale di tutto il pensiero husserliano» J. Derrida, La voce e il fenomeno, op. cit., p. 32. e che «nella Krisis e nelle appendici le premesse concettuali delle Untersuchungen sono ancora all’opera» Ivi, p. 31. è quanto meno azzardata, in quanto nelle Ricerche logiche sono ancora assenti la prospettiva genetica (e con essa tutta la problematica delle sintesi passive), nonché la stessa riduzione fenomenologico-trascendentale. Inoltre Derrida sembra poco incline a valutare nella sua importanza il progetto di una fenomenologia trascendentale così come esso è ripensato e proposto da Husserl nella Crisi delle scienze europee, opera rispetto alla quale Derrida sembra interessarsi solo ad alcuni temi circoscritti e mai al suo impianto complessivo, con tutto ciò che esso porta con sé; non è detto che una valutazione più precisa dello sviluppo del pensiero husserliano avrebbe cambiato il carattere del rapporto di Derrida con la fenomenologia, ma è difficile negare che alcune sue affermazioni in merito siano quanto meno discutibili sul piano filologico. Tuttavia è forse il caso di chiedersi: una risposta critica giocata sul terreno dell’esegesi husserliana e dell’interpretazione filologica ha un qualche valore rispetto a questo testo? È questo che Derrida sta facendo, proporre un’interpretazione sinottica delle opere husserliane e dello sviluppo del suo pensiero? Anzitutto forse, rispetto a tale questione, sarebbe meglio seguire il detto di Husserl: alle cose stesse. Non siamo «filosofi letterari» Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, op. cit., p. 46., non ci interessiamo di dispute filologiche, discutiamo direttamente i problemi. Non chiediamoci se Derrida ha interpretato Husserl in maniera condivisibile o meno; chiediamoci se le sue domande e il suo lavoro raggiungono la radicalità filosofica e se hanno qualcosa da dirci, indipendentemente dal fatto che vadano contro, oltre o al di là di Husserl. Ma quello che soprattutto ci preme sottolineare, lo avevamo già accennato, è che questo tipo di ricezione è in realtà solidale con quella, per dir così, “filo-derridiana” che abbiamo richiamato: entrambe muovono dal presupposto che la lettura derridiana di Husserl sia una lettura critica, e per di più orientata a una liquidazione della fenomenologia. Entrambe inoltre, l’una nella forma del plauso, l’altra con intento polemico, attribuiscono a Derrida una rinuncia al rigore argomentativo, che peraltro va a coincidere con la nota critica di Habermas Cfr, J. Habermas, op. cit., p. 311. che accusa Derrida di giungere a eliminare ogni differenza fra la logica e la retorica (curioso che Derrida venga accusato di eliminare la differenza). Dopo aver enunciato alcuni nodi problematici legati all’interpretazione de La voce e il fenomeno rispetto alla fenomenologia, rispetto all’itinerario di pensiero di Derrida e più in generale rispetto ai problemi della ragione occidentale nel suo complesso, ci accingiamo ora a valutarli uno per uno, in relazione a questo testo, mantenendo però sempre un dialogo con l’Introduzione a l’Origine della Geometria, coi testi di Husserl e, anche qui, con la questione dell’evento così come Derrida l’ha trattata nelle sue ultime opere. Ripartiamo anzitutto dal problema del rigore, l’ultimo a cui abbiamo accennato. Derrida ha sempre dichiarato di non voler in alcun modo rinunciare al rigore argomentativo; ma al di là delle sue dichiarazioni è bene andare a vedere perché, sulla base stessa del suo pensiero, non poteva rinunciarvi. L’accusa di Habermas, a differenza di quella di Rorty Cfr. R. Rorty, La filosofia come genere di scrittura. Saggio su Derrida, in Rorty, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1997. ad esempio, non è infatti rivolta allo stile argomentativo derridiano; quand’anche Derrida argomentasse in maniera formalmente ineccepibile (o anzi proprio per ciò), sarebbero proprio gli esiti della sua filosofia a smentire la possibilità di una logica pura o di un linguaggio puramente espressivo, dissolvendo la logica nella retorica. Tale dissolvimento affonderebbe le sue radici proprio nella dimostrazione, svolta da Derrida ne La voce e il fenomeno, dell’impossibilità della «distinzione essenziale» che Husserl pone fra il segno espressivo e il segno-indice: ma dovremmo ormai sapere che Derrida ha un rapporto “speciale” con l’impossibile. L’impossibile non è mai in Derrida il punto di approdo di una reductio ad absurdum, il luogo di un annichilimento del senso, di una sua riduzione al nulla; se di un nulla si tratta, si tratta di quel nulla che distingue, cioè di quel nulla che costituisce la differenza impresentabile e indeterminabile come tale che permette l’apparire dei due poli di una distinzione, di quel «nulla senza il quale», come scrive Derrida nell’introduzione a La voce e il fenomeno in un passo che abbiamo già richiamato, «nessun problema trascendentale, cioè filosofico, potrebbe ricevere il suo respiro» J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 41.. Si tratta di qualcosa di simile a quel nulla che congiunge e separa a cui si allude nel noto enigma peirciano del quadrato per metà rosso e per metà blu: la linea di distinzione è rossa o è blu? Quella linea né rossa né blu che rende possibile la differenza e impossibile il suo presentarsi come tale è appunto un modo, quello di Peirce, di pensare l’evento della differenza, che non è nessuno dei suoi effetti (il rosso o il blu), ma non è niente prima o al di fuori di essi, e si coglie semmai per differenza da essi (la differenza si coglie per differenza: traccia di traccia) Cfr. in proposito R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione: dal modello veicolare al modello conversativo, Mondadori, Milano 2003, p. 17.. È nell’ostinata e metodica ricerca di quel punto irriducibile che Derrida affronta le “distinzioni essenziali” di Husserl. Ogni passo è una dimostrazione dello stesso argomento. Se non si tiene conto di questo non si può comprendere il lavoro che Derrida opera ai margini del testo husserliano e in particolare la decostruzione delle «Distinzioni essenziali» che aprono la prima delle Ricerche Logiche E. Husserl, Logische Untersuchungen Bd. I e II, Husserliana, XVIII e XIX, trad. it. di G. Piana, Ricerche Logiche, 2 voll., Il Saggiatore, Milano 1968.: nel mostrare l’impossibilità della distinzione essenziale fra pura espressività e indicalità, egli non mira a sostenere l’indistinzione. Non nega l’apparente distinzione, ovvero l’apparire della distinzione, ovvero il fenomeno del distinguersi: ma appunto li intende come un evento, come qualcosa di cui bisogna esplicitare la genesi, ovvero le condizioni di (im)possibilità, ossia ciò che rende possibile l’apparire della distinzione, ma impossibile il pensarla come il sussistere di due essenze pure differenti (l’espressione e l’indice), o, meglio, come il sussistere di un’essenza pura originaria rispetto a cui la differenza e l’alterità mediata del segno-indice sopraggiungerebbe solo in seguito e accidentalmente. L’intento di Derrida non è quello di abolire la differenza (sarebbe questo semmai ciò contro cui si è battuto per una vita intera), ma di mostrarne il movimento generativo, e la sua impossibilità a configurarsi come distinzione essenziale: l’orizzonte problematico non risiede, per Derrida, nella “distinzione”, ma nel suo qualificarsi come “essenziale”. Cerchiamo di comprendere meglio questo punto, provando innanzitutto a ricostruire la distinzione fra espressione e indice nei termini posti da Husserl. Nella prima delle Ricerche logiche Husserl si impegna a delimitare l’idealità del significato rispetto a ogni compromissione empirica, sia essa psicologica o linguistica: di conseguenza intraprende una complessa dimostrazione della purezza della funzione espressiva volta ad affermare correlativamente la purezza pre-espressiva dell’intenzione significante. Ad avviso di Derrida, questo progetto è legato indissolubilmente proprio alla fondatezza della distinzione fra segno espressivo e segno-indice. Il segno-indice, secondo Husserl, è l’istanziazione di un tipo di rinvio che possiede un carattere meramente associativo ed empirico: il legame con ciò a cui il segno-indice rinvia è di ordine solo psicologico. A ciascuno richiama cose diverse; se vi è un accordo esso dipende solo da una convenzione istituita empiricamente (si stabilisce che il semaforo rosso indica che ci si deve fermare). L’espressione invece porta intrinsecamente con sé un significato, un voler-dire (Bedeutung): il segno-espressione coincide grosso modo con il segno linguistico, ed è perciò costitutivamente pubblico e universale. L’espressione dunque è necessariamente significativa, mentre l’indice può non esserlo; l’espressione come ha scritto Rudolf Bernet, «è l’organo, più che la rappresentazione del significato, è prossima al significato come lo è l’occhio al vedere» R. Bernet, Derrida et la voix de son maître, in «Revue Philosophique», 2, 1990, tr. in inglese dallo stesso Bernet, Derrida and his master voice, e-book, p. 5.. Si potrebbe dire che l’indice richiama il significato, mentre l’espressione lo offre immediatamente: il segno espressivo è il segno linguistico che dice quello che vuole dire e che si cancella prima del suo divenire significato, dove invece il segno indicativo è un autonomo oggetto di percezione, che in più, segnala qualcosa, ti ricorda, ti ammonisce ecc, ma questo non sarebbe il suo senso d’essere essenziale. Il fatto che l’indice sia significativo è solo accidentale e si richiama, come detto, a un ordine di associazioni di tipo psicologico-empirico, secondo l’immagine, tratta da Idee…I, che Derrida riporta in esergo a La voce e il fenomeno: Un nome pronunciato davanti a noi ci fa pensare alla galleria di Dresda e all’ultima visita che vi abbiamo fatto: giriamo per le sale e ci arrestiamo davanti a un quadro di Teniers che rappresenta una galleria di quadri. Supponiamo inoltre che i quadri di questa galleria rappresentino a loro volta dei quadri che a loro volta rappresentino delle iscrizioni che fosse possibile decifrare, ecc. Citato in J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 29. Il segno indice può essere il fumo che ci fa inferire l’esistenza di un fuoco, oppure segni convenzionali privati o comunque condivisi solo sulla base di una comunità di associazione o di una convenzione empiriche e limitate, come la bandiera che ci fa pensare al paese d’origine, o il nodo al fazzoletto che Husserl diceva di usare per ricordarsi di diventare un uomo migliore. Inoltre, secondo Husserl, il segno-indice mette in relazione associativa due esistenze (il fumo e il fuoco, la bandiera e il paese), mentre l’espressione metterebbe in correlazione univoca due irrealtà, ovvero due idealità, la parola espressiva e il suo significato: ad esempio, le parole «nodo al fazzoletto» sarebbero dunque un segno-espressivo, mentre il nodo al fazzoletto reale non sarebbe che un indice. Per raggiungere l’espressione nella sua purezza bisogna ridurre tutto ciò che nel linguaggio è comunicazione e rapporto a un’alterità. In questa possibilità di una sempre possibile riduzione, in questa univocità de jure del segno risiede la condizione di possibilità della riattivazione; il segno-indice è invece la condizione di possibilità di tutti i fenomeni di fraintendimento, perché porta con sé rimandi che non appartengono all’intenzione significante e sfuggono alla giurisdizione della responsabilità personale su quello che si dice: gli effetti e rinvii particolari che le mie parole suscitano negli altri non dipendono dalla mia intenzione significativa, ma da un contesto di associazioni empiriche accidentali. Husserl ritiene però di poter, almeno in linea di principio, isolare un linguaggio puramente espressivo senza alcun riferimento a un “fuori” comunicativo; in altre parole deve essere sempre possibile distinguere nella sua purezza l’originario voler-dire dell’emittente al di là di ogni accorgimento retorico o comunicativo e al di là di tutte le risonanze “indicali” che le sue parole suscitano negli altri. Il segno espressivo è infatti dotato di Bedeutung: ma anche il segno-indice significa (altrimenti non sarebbe un segno) ed è perciò che Derrida puntualizza che Bedeutung, nel sistema di opposizioni concettuali husserliano, non può essere semplicemente tradotto con ‘significato’: la Bedeutung dipende dall’intenzionalità in modo tale che il segno espressivo può essere visto come l’involucro corporeo di questa Bedeutung. Cfr. Ivi, p. 47-48. Nel discorso espressivo i suoni verbalizzati sono infinitamente vicini alla loro Bedeutung; i gesti che accompagnano l’espressione verbale sono invece per Husserl meramente indicativi. Di conseguenza, Derrida afferma che ciò che distingue il segno espressivo dal segno indicativo è la sua prossimità allo strato pre-espressivo del pensiero, così come al suo carattere esplicito, immediato e volontario. Perciò Derrida traduce Bedeutung con “voler-dire”. Il segno espressivo sarebbe dunque l’efficace verbalizzazione di un significato che precede il linguaggio. Per Husserl la differenza fra espressione e indice sta nel diverso grado di prossimità al pensiero di una coscienza presente a sé, che sa che cosa vuole dire ed esprime senza residui o rinvii la sua intenzione significante. È bene notare però che tutta questa costellazione tematica non emerge ne La voce e il fenomeno per la prima volta; a nostro avviso, le pagine dell’Introduzione a L’Origine della Geometria dedicate al problema dell’univocità, possono concorrere a chiarire le modalità con cui Derrida si espone a tali questioni, mostrando, contestualmente, il nesso di continuità/differenza che unisce le due opere, articolandole, secondo una reciprocità ancora da chiarire, in un rapporto fra il recto e un verso dello stesso sguardo, come ha affermato lo stesso Derrida nell’intervista già citata. Nell’Introduzione a L’Origine della Geometria il tema dell’univocità appare da un lato (come ne La voce e il fenomeno) in relazione alle condizioni di possibilità della riattivazione del senso originario (nei termini de La voce e il fenomeno: condizione di possibilità dell’isolamento di uno strato puramente espressivo dell’espressione, nel quale poter ristabilire, nella sua purezza, l’intenzione significante originaria), dall’altro in relazione al tema, a nostro avviso centrale nell’opera, della storicità. Questa continuità si basa però, va detto, sulla dubbia identificazione di Derrida del soliloquio interiore con il linguaggio assolutamente univoco a cui dovrebbe pervenire la riduzione fenomenologica: molti interpreti hanno mosso dei rilievi proprio a proposito di questo punto, taluni ritenendo che questa ambiguità invalidasse le tesi di Derrida nella loro interezza, a partire dall’asserzione che la distinzione espressione/indice e la possibilità della riduzione dell’indice siano indispensabili alla riduzione fenomenologico-trascendentale. Cfr. in proposito la Postfazione di V. Costa a La voce il fenomeno, cit., pp. 155-160. A nostro avviso, anche questo nodo problematico può essere opportunamente valutato solo considerando l’intreccio di argomentazioni che unisce le due opere derridiane dedicate al testo di Husserl. Nel capitolo VII dell’Introduzione Cfr. J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., pp. 156-163. Derrida affronta direttamente la “scoperta” della scrittura come condizione di possibilità della costituzione degli oggetti ideali; insieme alla possibilità però, emerge anche, quasi immediatamente, la correlativa impossibilità che la «virtualità» della scrittura porta con sé, esponendo il senso all’oblio «alla passività, alla dimenticanza e a tutti i fenomeni di crisi» Ivi, p. 141.. La scrittura è necessaria per garantire la completa idealità delle oggettualità ideali, ma le espone al contempo al rischio di essere cristallizzate in una cieca ripetizione e ricopiatura in cui il senso originario può perdersi nell’opacità del segno-indice e non venire più riattivato: come si legge sempre nel capitolo VII, «non appena, come gli è prescritto, il senso è raccolto in un segno, quest’ultimo diventa la residenza mondana ed esposta di una verità non pensata» Ivi, p.147.. Già qui Derrida faceva cenno alla distinzione secondo la quale Husserl nelle Ricerche logiche definiva il segno-espressivo opponendolo al segno “indicativo” e pensava tale distinzione come la base a partire dalla quale, ancora nella Krisis, Husserl concepiva la possibilità e il punto di insorgenza della crisi della ragione che riteneva caratterizzare l’Occidente contemporaneo: «si potrebbe, a partire da questa distinzione, interpretare il fenomeno di crisi – che rinvia sempre, per Husserl, ad una malattia del linguaggio – come degradazione del segno-espressione a segno-indice, di una intenzione “chiara” (klar) a simbolo vuoto» Ibidem, nota 128.. Derrida aveva dunque già ben presente il problema legato alla «distinzione essenziale» delle Ricerche logiche: da questo ordine di idee Husserl giungeva poi a pensare la crisi come un fenomeno puntuale, accidentale e negativo, dipendente essenzialmente dall’irresponsabilità di una coscienza, in quanto, di principio, il senso originario può sempre essere isolato e riattivato, poiché si è originariamente costituito nell’assoluta disponibilità di una coscienza presente a se stessa. Per Husserl deve sempre essere possibile rintracciare uno strato del senso assolutamente univoco sotto le molteplici sedimentazioni, fraintendimenti e alterazioni. L’equivocità dell’esprimere si fonda sulla plurivocità associativo-empirica del segno-indice e costituisce «il terreno d’elezione dei depositi sedimentari» Ivi, p. 156. che alterano o offuscano il senso dell’evidenza originaria. Come nota Derrida, Husserl opera nelle Untersuchungen una distinzione preliminare tra una plurivocità contingente da una plurivocità essenziale. Contingente è per esempio il fatto che in tedesco “cane” significhi sia una specie di animale sia una specie di carrello in uso nelle miniere (è l’esempio di Husserl nelle Ricerche logiche Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, cit., R. 1, § 26.). Ma questa è una plurivocità che «non inganna nessuno e noi siamo sempre liberi di ridurla» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., p. 156., come scrive Derrida. La plurivocità essenziale dipende invece dalle «esperienze sempre nuove che animano l’identità del senso oggettivo e lo fanno entrare in imprevedibili configurazioni». Questa è una plurivocità che Husserl stesso definisce «inevitabile» Ibidem. e ineliminabile almeno nel linguaggio naturale, dove segno-espressivo e segno-indice sono sempre «concatenati». Tuttavia per Husserl la possibilità della scienza e della filosofia dipende dalla possibilità di una riduzione di questa equivocità del linguaggio naturale. Questo, si badi, è appunto il problema che Derrida affronta ne La voce e il fenomeno: per Husserl il «concatenamento» (Verflechtung) della funzione espressiva e della funzione indicativa nello stesso segno è sempre e solo accidentale, una contaminazione fortuita, da cui è necessario e sempre possibile, almeno in linea di principio, astrarre in direzione di un linguaggio interamente espressivo. Derrida tuttavia – ecco il punto che ci interessa – non intende negare l’esistenza della distinzione propugnando, come pensa Habermas, l’indistinzione fra logica e retorica, o, peggio, un primato della seconda sulla prima, Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 22, nota 9: «Il “primato” o la “priorità” del significante sarebbe una espressione insostenibile e assurda che dovrebbe formularsi illogicamente nella stessa logica che vuole, con tutta legittimità distruggere. Il significante non precederà mai di diritto il significato, altrimenti non sarebbe più significante e il significante “significante” non avrebbe più nessun significato possibile. Il pensiero che si annuncia in questa impossibile formula senza riuscire a dimorarvi deve dunque enunciarsi diversamente: non potrà certo farlo che diffidando dell’idea stessa di segno, di “segno-di” che resterà sempre attaccata al fatto stesso che qua è messo in questione. Dunque, al limite, distruggendo tutta la concettualità ordinata attorno al concetto di segno (significante e significato, espressione e contenuto ecc.)». in uno ‘schiacciamento’ dell’espressione sulla superficialità del segno-indice. Quello che sfugge a molti lettori de La voce e il fenomeno, o che comunque spesso non perviene a una chiara tematizzazione, è che Derrida e Husserl sono d’accordo sulla necessità del concatenamento e dunque sull’esistenza di una distinzione (senza presupporre la quale non si potrebbe parlare di concatenamento). Si tratta però di comprendere la natura di tale distinzione e, soprattutto, il sistema concettuale che la presuppone. Anzitutto Derrida si chiede se essa possa essere pensata come una differenza specifica: Ogni espressione sarebbe dunque presa, come malgrado se stessa, in un processo indicativo. Ma il contrario, riconosce Husserl, non è vero. Si potrebbe dunque essere tentati di fare del segno espressivo una specie del genere «indice». J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 51. Se così fosse, osserva Derrida, si potrebbe considerare la parola come un tipo particolare di gesto: l’espressione sarebbe una particolare specie del genere “indice”. Se non si accorda un privilegio particolare alla parola (quel privilegio che Derrida designerà col nome di logocentrismo o fono-logocentrismo), essa non sarebbe che un segno fra gli altri e la distinzione espressione/indice non si porrebbe, o, meglio, non si porrebbe nei termini indicati da Husserl: «il sistema generale della significazione si confonderebbe col sistema dell’indicazione» Ibidem.. Ma questo è precisamente ciò che Husserl contesta ed è perciò che tenta di esibire una «situazione fenomenologica» nella quale l’espressione non sia concatenata nell’indicazione: egli la individua nel soliloquio interiore, nella «vita solitaria dell’anima» (im einsamen seelenleben). Nel colloquio reale infatti le parole espressive sono comunque prese come indici dagli interlocutori (in quanto l’espressione esprime appunto un contenuto che è sottratto alla nostra intuizione – il vissuto altrui – e perché il contenuto spirituale si contamina con il segno sensibile): per me invece, nel mio monologo interiore, quello che dico e quello che voglio dire sono di principio identici, non c’è dispersione comunicativo-indicativa. Sarebbe dunque il rapporto all’altro il principio di ogni fraintendimento e di ogni offuscamento del senso. Il soliloquio dell’anima con se stessa è per Husserl l’unico fenomeno in cui la natura del segno espressivo si manifesta in tutta la sua purezza: sarebbe dunque possibile una distinzione essenziale fra indice ed espressione. Ed eccoci al punto in cui interviene il sottile lavoro di Derrida ai margini della distinzione husserliana: ma egli non ha qui di mira solo la specifica distinzione fra espressione e indice. Derrida intende tale distinzione come un’occorrenza paradigmatica di un intero sistema di opposizioni concettuali, all’interno delle quali far emergere il motivo di una différance irriducibile che, pur mantenendo la differenza e i termini differiti, li pensa secondo un nuovo significato che non si lascia pensare all’interno del regime anteriore in cui emergeva l’opposizione, mostrando al contempo le condizioni di possibilità del sistema e l’impossibilità radicale delle sue conclusioni, ovvero, lo vedremo, l’impossibilità del sistema di porsi in un al di fuori rispetto al suo stesso evento e di proporsi in grado di imbrigliare tale evento all’interno dei suoi concetti. Che cosa significa distinzione essenziale? Anzitutto si potrebbe pensare come una distinzione fra due essenze o sostanze che differiscono appunto per i loro attributi: in effetti per esporre la distinzione husserliana che cosa abbiamo fatto? Abbiamo elencato i differenti attributi rispettivamente del segno espressivo e del segno indice. Poi abbiamo dovuto però segnalare, sulla scorta dell’interpretazione di Derrida, che questo tipo di procedimento non giungeva a chiarire il modo in cui Husserl pensa tale distinzione: la differenza è pensata a partire da un diverso grado di prossimità a una supposta purezza. Alla base della distinzione c’è l’idea di una presenza a sé: la distinzione è essenziale nel senso che è pensata a partire dall’idea di una essenza/sostanza identica a sé che solo poi differisce e si rappresenta nella mediazione segnica, accidentalmente. Come scrive Derrida, «tutta l’analisi avanzerà dunque in questo scarto tra il fatto e il diritto, tra l’esistenza e l’essenza, la realtà e la funzione intenzionale» Ibidem.. Tutto si gioca sulla possibilità di distinguere un concatenamento di fatto dalla possibilità di diritto di stabilire una priorità essenziale di uno dei due termini della distinzione: è sull’emergenza di «questo scarto che definisce lo spazio stesso della fenomenologia» Ibidem. che Derrida intende riflettere. Si tratta di comprendere a partire da quali fenomeni è accaduto questo scarto, questa differenza: una fenomenologia della fenomenologia. Come si è costituita fenomenologicamente la “distinzione essenziale” e con essa tutte le distinzioni che vi sono strutturalmente implicate? Ecco all’opera, si può notare a margine, il congiungersi del motivo strutturalista e di quello fenomenologico che hanno segnato la formazione di Derrida: il singolo problema è pensato sempre nella sua connessione intrinseca con la totalità di un sistema di relazioni/opposizioni, ma anche corrispondendo a un’istanza genetica, mirando alla soglia evenemenziale del costituirsi della struttura. Questo sfondo va sempre tenuto presente, per non cadere in facili schematizzazioni che tradirebbero i veri obiettivi che guidano l’analisi derridiana. Si potrebbe infatti concludere che Husserl pensa il concatenamento tra funzione espressiva e funzione indicativa come accidentale, mentre per Derrida il concatenamento sarebbe essenziale (come fa Rudolf Bernet Cfr. R. Bernet, Derrida and his master’s voice, cit., p. 5-6.). Se prima non si chiarisce con precisione il senso dell’operazione di Derrida, la verità o falsità di quest’ultimo enunciato rimane indeterminabile e pretendere di liquidare così la questione sarebbe semplicemente un errore interpretativo: è errata l’interpretazione e non l’enunciato, proprio perché all’interno di tale interpretazione l’enunciato risulta indecidibile in quanto confronta due prospettive in base a termini che sono appunto messi in questione da tali prospettive. Se Derrida infatti mira per l’appunto a tematizzare le condizioni di possibilità dell’opposizione tra accidentalità ed essenzialità non si possono giudicare i suoi argomenti presupponendo l’opposizione come già valida. Così non si perviene a nessuna chiarezza. Mettendo in discussione la distinzione fra espressione e indice Derrida non vuole dissolvere la distinzione, magari rovesciando la gerarchia e accordando la priorità al segno-indice, ma intende a nostro avviso anzitutto decostruire il concetto stesso di “distinzione essenziale” e, secondo l’istanza strutturalista prima evocata, tutto il sistema di opposizioni concettuali entro il quale tale concetto può costituirsi. Nel dimostrare l’infondatezza della distinzione egli non vuole sopprimere e negare la differenza per consegnare il pensiero al labirinto dell’indifferenziato, ma mostrare appunto che la differenza non si basa su un ulteriore fondamento, ma è essa stessa originaria: ogni presunto fondamento, non è che un effetto prospettico proiettato dal movimento generativo della (genitivo sia oggettivo che soggettivo) differenza. Né differenza specifica (genere-specie), né differenza essenziale, ma différance. A questo punto si può ancora affermare che Derrida ritiene il concatenamento fra indice ed espressione come essenziale, solo se si pensa l’essenza come la legge aporetica che fa apparire come tali il significato e l’incarnazione significante nell’effetto, unico ma sdoppiato, della différance. Derrida non può porre lui stesso una “distinzione essenziale” nel momento in cui mette in questione il sistema concettuale che permette di pensare la distinzione essenziale nei termini husserliani: si tratta al contrario di pensare non più a un’essenza che poi differisce, ma al differire originario dell’essenza, a un’essenza che coincide con se stessa solo «differendosi senza tregua» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., p. 214.. In altre parole non a una distinzione essenziale ma a un distinguersi essenziale che costituisce la condizione di possibilità dell’esperienza: la condizione di possibilità dell’apparire di qualcosa non risiede nella coscienza di un soggetto presente a sé, ma nel concatenamento infinito del gioco della différance tra segno espressivo e segno indicativo. Il fenomeno non trova la sua possibilità nella priorità di un senso inteso come primum, ma nel segno inteso come traccia; sempre dunque con l’avvertenza che non si tratta di ribaltare la gerarchia senso/segno in favore del segno, ma di decostruire l’alternativa facendo emergere dai margini dell’alternativa metafisica, un nuovo concetto di segno. Si comprende così come la tesi di Habermas secondo cui Derrida dissolverebbe la logica nella retorica si basi non solo su un presupposto errato quanto all’interpretazione del testo derridiano, ma anche su un concetto ancora metafisico di logica, di retorica e di differenza: come ha scritto Vincenzo Costa in una bella postfazione a La voce e il fenomeno, «la critica da Derrida rivolta all’idea di un linguaggio ideale puramente logico non mira a rovesciare semplicemente le gerarchie e a mostrare che non esiste differenza specifica tra logica e retorica. […] Si tratta invece di scoprire all’opera una contaminazione originaria tra i due, di mostrare che una lingua puramente logica non sarebbe reperibile nemmeno se si sospendesse l’aspetto comunicativo del linguaggio, ed è proprio per questo che, se va rifiutata l’idea di un linguaggio ideale, lo stesso occorre fare rispetto all’idea di un linguaggio meramente metaforico. Per Derrida non si tratta di sostituire il privilegio che il discorso logico si è tradizionalmente visto riconoscere con il privilegio del discorso retorico, ma di mostrare l’intreccio che vi è tra i due, o meglio ancora: di cogliere il movimento originario che genera la differenza tra logica e retorica» Cfr. V. Costa, Saperne di più. Intenzionalità e produzione del significato, Postfazione a La voce e il fenomeno, cit., p. 151 (corsivi nostri).. Non si tratta né di rovesciare la direzione gerarchica della differenza (ribaltare un’opposizione vuol dire pensare ancora nei termini del sistema entro cui essa è possibile: schierarsi con uno degli opposti vuol dire essere già decisi e già giocati dall’opposizione stessa), né di sopprimere la differenza: è del resto piuttosto strano attribuire a un “pensiero della differenza” l’obiettivo di sopprimere la differenza nell’indistinzione (il che andrebbe interpretato semmai un come un suo fallimento o come un’eterogenesi dei fini; ma non è il caso dell’interpretazione di Habermas). Anche un linguaggio assolutamente metaforico sarebbe impossibile: ma si vede qui che ciò che è propriamente impossibile è appunto l’isolare nella loro purezza l’aspetto metaforico/retorico e l’aspetto logico del linguaggio, o l’accordare una priorità essenziale all’uno o all’altro. Col che Derrida intende mostrare due cose contemporaneamente: necessità della differenza e impossibilità di un pensiero metafisico della differenza come “distinzione essenziale”, secondo la logica aporetica che lega possibilità e impossibilità di cui possiamo scorgere qui l’ennesima e coerente occorrenza. Dato che però tradizionalmente la metafisica ha accordato la priorità essenziale ad un lato della differenza, Derrida si dedica dunque a decostruire l’idea di un discorso puramente logico; solo se non si tiene presente il contesto dell’operazione di Derrida (peraltro più volte da lui ostinatamente esplicitato) si può pensare che egli intenda semplicemente ribaltare il privilegio, accordandolo alla retorica. L’operazione è sempre la stessa e mantiene una sua continuità, questa sì, ‘essenziale’ con il metodo e il senso della fenomenologia, sebbene la ecceda da ogni lato (ma, anche qui, non per negarla, ma per comprenderla): volgersi sempre di nuovo a guardare con attenzione i fenomeni come essi si danno e nei limiti in cui si danno. Portare alla luce i fenomeni a partire dai quali si può pensare secondo un determinato sistema di opposizioni concettuali, ovvero guardare alle condizioni di possibilità di ogni formazione ideale: nel caso delle due opere di Derrida su Husserl comprendere in virtù di quali fenomeni si può giungere a formare l’idea di un linguaggio logicamente puro, indicando nel fenomeno auto-affettivo della voce il luogo di insorgenza di questa illusione «quasi-trascendentale». Non ci soffermeremo in maniera esaustiva sulle analisi che Derrida propone a proposito del fenomeno della voce: in questo secondo capitolo, come detto, stiamo semplicemente mostrando all’opera la pratica decostruttiva cercando di chiarirla in relazione del suo applicarsi ad alcuni temi particolari trattati da Derrida, tralasciandone o dandone per scontati perciò molti altri, talvolta anche strettamente legati a quelli che affrontiamo più da vicino. Ci occuperemo invece di come vada pensata questa «illusione» o «apparenza» «quasi-trascendentale» che viene resa possibile dal fenomeno della voce. Prima però ci resta da tornare al problema dell’univocità e della possibilità di una logica pura, mettendolo però in relazione con la questione derridiana dell’evento (della storicità o novità irriducibile) e delle condizioni di impossibilità. Un’eventuale purezza assoluta del senso coinciderebbe infatti con la paralisi della storia e con la chiusura di quell’apertura differenziale in cui avviene l’esperienza; nei termini dell’ultimo Derrida, non ci sarebbe più evento, ovvero non ve ne sarebbero le condizioni di (im)possibilità. Di questo trattano le pagine dell’Introduzione a L’Origine della Geometria del capitolo VII a cui abbiamo già accennato: queste pagine costituiscono a nostro avviso un’argomentazione assolutamente complementare alle tematiche de La voce e il fenomeno testé richiamate. Qui Derrida afferma che sia un’equivocità assoluta sia un’univocità assoluta renderebbero impossibile la storia e la storicità del senso. Un’equivocità assoluta renderebbe infatti del tutto impossibile ogni traduzione e ogni tradizione, di modo che il senso rimarrebbe del tutto intrasmissibile; al contrario «l’univocità assoluta avrebbe solo la conseguenza di sterilizzare o di paralizzare la storia nell’indigenza di una iterazione indefinita» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., p. 158. . A questo punto Derrida propone un interessante paragone fra Husserl e James Joyce, per quanto riguarda il tentativo di farsi carico dell’equivocità della storia: ci sono due modi di affrontarla, afferma. Uno è quello di Joyce appunto e consiste nel far apparire l’unità strutturale della cultura empirica totale nell’equivoco generalizzato di una scrittura che non traduce più una lingua nell’altra a partire da nuclei di senso comuni, ma circola attraverso tutte le lingue contemporaneamente, coltiva le sintesi associative anziché fuggirle e ritrova il valore poetico della passività. […] una scrittura che, anziché ridurlo, si installa dentro il campo labirintico della cultura “incatenata” dai suoi equivoci, al fine di percorrere e di riconoscere il più attualmente possibile la più profonda distanza storica possibile. Ibidem. Quello di Joyce è insomma un itinerario che intende fare esperienza della totalità della storicità attraverso l’attuale frequentazione della dispersione «indicale»/ comunicativa, in una sorta di inventario totale dei rinvii e delle risonanze; ma «l’altro polo è quello di Husserl» ridurre o impoverire metodicamente la lingua empirica fino alla trasparenza attuale dei suoi elementi univoci e traducibili, al fine di riafferrare nella sua sorgente pura una storicità o una tradizionalità che nessuna totalità storica di fatto potrà fornirmi e che è da sempre presupposta in ogni ricognizione odisseica di tipo joyciano. Ibidem. La possibilità del percorso di Joyce riposa pur sempre nel presupposto di una univocità, «non poteva che riuscire riconoscendo all’univocità il suo ruolo […]. Senza questo il testo stesso della sua ripetizione sarebbe stato inintelligibile» Ivi, p. 159.: anche qui, le sintesi associative coltivate da Joyce sono possibili solo a partire dall’autorità di un’univocità che rende (paradossalmente) “comprensibile” e possibile ogni equivoco come tale. A nostro avviso si può vedere in questo strano confronto fra Husserl e Joyce il modo in cui Derrida intende la differenza fra letteratura e filosofia e il loro “concatenamento”, l’impossibilità di una “distinzione essenziale” fra le due. In questo senso si devono intendere quei testi in cui Derrida sembra così vicino all’operazione di Joyce (così come è qui descritta dallo stesso Derrida) e in cui molti ravvisano un dissolversi della filosofia nella letteratura: questi testi vanno letti come “recto o verso” dei testi più classicamente “teoretici”. In altre parole, quando Derrida si dedica all’operazione di Joyce lo fa sempre in un dialogo ideale con la fenomenologia e il desiderio di univocità della filosofia: anche qui, si tratta di mostrare la loro co-implicazione e di praticare l’evento del loro differenziarsi, non di abolire la differenza, né di dissolvere la filosofia nella letteratura. Tuttavia, scrive Derrida, anche il progetto husserliano conosce una sua relatività. Come il progetto di Joyce dipendeva in realtà dall’univocità, così «Husserl deve ammettere nella sua pura storicità un’equivocità irriducibile, arricchente e sempre rinascente» Ibidem.. Modello dell’univocità è per Husserl ovviamente l’oggettualità ideale della scienza, sempre «riattivabile nell’identità del suo senso autentico» Ivi, p. 160.. Ma questa identità del senso che coinciderebbe con l’univocità e sarebbe condizione della riattivazione, è sempre minacciata da un’equivocità risorgente che dipende da almeno due aspetti: 1) essa è relativa a un sistema mobile di relazioni e aperto all’infinito (struttura), in cui ogni nuova singola acquisizione modifica l’intero, 2) le idealità sorgono dal «fare di tutti e di ciascuno» e sono soggette, per il loro essere costitutivamente affidate al segno, a una loro peculiare “vita segreta delle parole” (come recitava il bel titolo di un film) che le re-inscrive ad ogni momento in un evento sempre nuovo. È quella che Husserl stesso definiva una plurivocità essenziale che affonda la sua possibilità nelle «esperienze sempre nuove che animano l’identità del senso oggettivo e lo fanno entrare in imprevedibili configurazioni» Ivi, p. 156, già citato (corsivi nostri).. Se, come abbiamo visto prima, la scienza stessa ha bisogno della scrittura e dunque della storicità per raggiungere la sua idealità, vi è un’equivocità «che si incrementa al ritmo stesso della scienza» Ivi, p. 160.. Un’univocità assoluta è dunque impossibile proprio in ragione della storicità radicale del senso che lo stesso Husserl non rinuncerà mai ad affermare e a voler comprendere (e che rappresenta, secondo la nostra tesi, il punto della sempre risorgente vicinanza tra Husserl e Derrida). Sia un’equivocità assoluta sia un’univocità assoluta renderebbero impossibile la storia; ed è perciò che la storicità (l’evento) rende impossibili l’equivocità e l’univocità assolute proprio nel momento in cui le rende possibili nella loro differenza e relatività. Ma è proprio qui che ci viene incontro quel punto così difficilmente determinabile, sempre risorgente ma anche sempre sfuggente, in cui Husserl e Derrida convergono. O divergono? Si tratta senza dubbio di un punto di incontro: più difficile stabilire se si tratti del punto infinito in cui due linee parallele convergono o della scaturigine (comune) di una divergenza che mostrerebbe però di conseguenza una connessione indissolubile e una comunanza. Cercheremo di penetrare in questo punto abissale, sapendo tuttavia che si tratta di una questione labirintica, soggetta al rischio di opposte illusioni prospettiche. Dicevamo che l’evento, ossia la storicità irriducibile del senso, rende impossibili l’equivocità/univocità assolute rendendole però possibili nella loro differenza e relatività. Se però torniamo al capitolo VII che stavamo ripercorrendo, Derrida, tornando sull’esempio in cui opponeva l’operazione di Joyce a quella husserliana scrive che Se l’univocità ricercata da Husserl e l’equivoco generalizzato di Joyce sono di fatto relativi, essi non lo sono dunque simmetricamente, perché il loro telos comune, il valore positivo di univocità, si rivela solo nella relatività definita da Husserl. Ibidem. Ecco un punto molto difficile. Va sempre sottolineato che la differenza così come l’ha pensata Derrida è sì irriducibile, ma non ha mai un carattere simmetrico. È vero che egli, come abbiamo cercato di illustrare, mira a decostruire la priorità essenziale che viene tradizionalmente assegnata a uno dei due termini delle opposizioni metafisiche classiche, senza al contempo ribaltare semplicemente la gerarchia assegnando la priorità all’altro termine; tuttavia non ci sarebbe niente di più lontano dal pensiero della différance che pensare la differenza come simmetrica o quantitativa, come un “50 e 50”. Non è una spartizione operata sull’indistinzione di un continuo numerico; non sarebbe differenza. Probabilmente le accuse di relativismo rivolte a Derrida derivano proprio dal pensare la relatività in questi termini, ovvero come indistinzione: sono relativi, dunque “uno vale l’altro” (indifferenza). La differenza (o più precisamente il movimento di différance così come lo ha pensato Derrida) stabilisce al contrario una radicale ineguaglianza, quale ad esempio (ma non è un esempio fra gli altri) l’ineguaglianza incolmabile che si stabilisce nella relazione (nella differenza) fra colui che dona e colui che riceve il dono. Non solo la relatività non è l’anticamera dell’indifferenza, ma, lo dice la stessa parola, è ciò che appunto stabilisce una relazione, un legame, ciò che rende possibile il venire in luce dei due poli dell’intenzionalità e impossibile il loro corrispondersi totalmente (il che sarebbe peraltro un dissolversi l’uno nell’altro, l’uno e l’altro; l’adeguazione totale corrisponderebbe con la morte; l’assolutamente vivo è identico all’assolutamente morto. Cfr. J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 143: «La storia della metafisica è il voler-sentirsi-parlare assoluto. Questa storia è chiusa quando questo assoluto infinito appare a sé come la sua propria morte. Una voce senza dif-ferenza, voce senza scrittura è nello stesso tempo assolutamente viva e assolutamente morta». È questo peraltro uno dei nuclei tematici fondamentali de La voce e il fenomeno: «la determinazione e la cancellazione del segno nella metafisica è la dissimulazione di questo rapporto alla morte che tuttavia produceva il significato» Ivi, p. 88.). Ora, quando Husserl pensa, come scrive Derrida, che «l’univocità è anche l’orizzonte assoluto dell’equivocità» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., p. 160. pensa la relatività di una differenza che non sarà mai simmetrica, o intende ridurre la differenza e la relatività in direzione di una priorità essenziale di tipo metafisico? L’univocità, ci chiedevamo, coincide con il linguaggio puramente logico del soliloquio dell’anima immediatamente presente a sé? E Derrida pensa davvero, come sostengono molti interpreti convinti che su questo punto ci sia un suo fraintendimento, che Husserl li faccia coincidere? Che rapporto ha l’impossibile univocità che rende possibile la storicità del senso della quale Derrida parla nell’Introduzione a L’Origine della Geometria con il linguaggio puramente espressivo la cui “impossibilità” viene asserita ne La voce e il fenomeno? Che cosa viene pensato all’incrocio fra queste due opere e nell’incrocio fra la decostruzione e la fenomenologia? Come si vede, in questo punto sembrano riemergere e intrecciarsi tutte le domande da cui eravamo partiti. Non riteniamo che si possa dare una risposta univoca a queste domande, prese singolarmente. Proveremo invece a proporre un breve itinerario all’interno della questione che ci sembra costituire la fonte unitaria delle alternative che esse pongono: la questione del compito infinito. Questione che nasconde poi, appunto, la questione dell’infinito stesso, e di come esso vada pensato. 3.3 Il problema del compito infinito Scrive Derrida nell’Introduzione a L’Origine della Geometria che Conferendole il senso di un compito infinito, Husserl non fa dunque dell’univocità, come potevamo temere, il valore di un linguaggio sottratto alla storia per impoverimento, ma la condizione al tempo stesso apriorica e teleologica di ogni storicità. Essa è ciò senza di cui gli equivoci della cultura e della storia empirica non sarebbero possibili. Ibidem. Questo passo va forse letto in relazione a un passo analogo presente nel capitolo introduttivo de La voce e il fenomeno, di intonazione forse leggermente diversa (ma il punto è proprio questa differenza). Ogni volta che questo valore di presenza sarà minacciato, Husserl lo risveglierà, lo richiamerà, lo farà ritornare a se stesso nella forma del telos; cioè dell’Idea in senso kantiano. […] Nella sua purezza, questa presenza non è presenza di nulla che esiste nel mondo, essa è in correlazione con degli atti di ripetizione essi stessi ideali. Si vuol dire con questo che ciò che apre la ripetizione all’infinito o vi si apre quando si garantisce il movimento dell’idealizzazione, è un certo rapporto di un «esistente» alla sua morte? E che la «vita trascendentale» è la scena di questo rapporto? J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 38. Il fare della ragione o del senso non un presupposto o un fondamento, ma un compito (infinito) costituisce la grandezza del pensiero husserliano o il suo alienarsi in quella che Hegel avrebbe chiamato una «cattiva infinità» (di cui accusava Fichte e, appunto, Kant)? P. Marrati, op. cit., p. 41-42 (trad. nostra) ritiene ad esempio che «Derrida sottolinei il ruolo decisivo che l’Idea infinita gioca nelle analisi husserliane, un ruolo, a suo avviso, essenzialmente difensivo. Affermando l’evidenza dell’Idea infinita, nonostante l’impossibilità a priori di averne un’adeguata intuizione, Husserl trasgredisce infatti il “principio dei principi” […] Per Derrida questo è un prezzo troppo alto». Marrati sostiene in altre parole che Derrida consideri l’appello husserliano al compito infinito come una semplice scappatoia per salvare un altrimenti insostenibile idealismo. Come si vedrà, noi cercheremo di seguire una strada almeno in parte differente. È questo pensiero ciò che proietta la fenomenologia oltre la metafisica e nel cuore eterno e mai esauribile del senso della filosofia per la vita umana, È ciò che afferma Carlo Sini in Husserl sempre di nuovo, in Il segreto di Alice e altri saggi, Edizioni AlboVersorio, Milano 2006, p. 56-57: «Husserl rimase costantemente dalla parte della ragione e non smise di frequentare l’intenzionalità filosofica della cultura europea, senza ‘scivolare’ (come diceva) in un sin troppo facile irrazionalismo e relativismo. Aveva, a mio avviso, più di un motivo per farlo, perché quella ragione a cui si appellava non era un presupposto, ma invece un compito, e anzi un compito infinito: […] il compito di ogni vita umana desiderosa di affrancarsi dalla sua costitutiva finitudine: perché la vita umana è l’apodittico punto di partenza e fondamento di ogni progetto e di ogni pretesa verità ed evidenza, ma quale sia poi il ‘senso’ di questa apoditticità e di questo esser ‘vita umana’ è ciò che in nessun modo è prestabilito o pregarantito; è anzi qualcosa che si deve sempre di nuovo costituire nel dialogo vivente fra una tradizione pregressa che è sempre all’opera in noi e un possibile futuro razionale […]. In questo senso la fenomenologia si annuncia come un progetto oltrepassante la stessa intenzionalità filosofica, per divenire piuttosto una “prassi teorica di nuovo genere”; cioè un modo nuovo di intendere la teoria e di abitarla». La valtuazione di Sini e quella che Marrati attribuisce a Derrida non potrebbero essere più lontane. costituendo, come si espresse Heidegger (il cui rapporto con la fenomenologia è peraltro anch’esso meno semplice di quanto si creda), «la possibilità stessa del pensiero»? Cfr. M. Heidegger, Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, in Tempo ed essere, trad. it. di E. Mazzarella, Guida editore, Napoli 1990, p. 180: «L’epoca della filosofia fenomenologica sembra essere finita. La si ritiene già come qualcosa di passato, che può essere caratterizzato solo storiograficamente accanto ad altri indirizzi filosofici. Ma la fenomenologia in ciò che le è proprio non è affatto un indirizzo filosofico. Essa è la possibilità del pensiero – possibilità che si modifica a tempo debito e solo perciò permane come tale – di corrispondere all’appello di ciò che si dà da pensare». Oppure ancora è il caso di vederlo come un pensiero sì metafisico, ma che porta con sé e fa emergere il limite della metafisica, aprendola al suo avvenire? E, a margine, qual è il rapporto di Derrida con la filosofia di Hegel? Arrivati a questo punto diventa sempre più difficilmente determinabile (e forse meno rilevante) la questione filologica di come Derrida in realtà si ponga o si sia posto rispetto a queste domande: del resto, oltre un certo limite, voler stabilire “che cosa voleva dire in realtà” si rivelerebbe un’ottica manifestamente contraria alla decostruzione dell’idea stessa del voler-dire e della presunta purezza dell’intenzione significante operata dallo stesso Derrida ne La voce e il fenomeno. Del resto, anche al di là delle specifiche premesse teoriche di Derrida, resta pur sempre vero quello che scrive Merleau-Ponty nel già citato Husserl ai limiti della fenomenologia (p. 117): «Non essendo il Nachlass di Husserl completamente pubblicato, in queste lezioni non poteva trattarsi di essere “obiettivi” – di dire quanto è detto o immediatamente sottinteso da Husserl nell’insieme dei testi esistenti. Ma, anche una volta ultimata la pubblicazione, quel metodo ci darebbe “il pensiero” di Husserl? Lo farebbe solo se il pensiero di Husserl e in generale quello di un filosofo fosse un insieme di nozioni definite in modo restrittivo, di argomenti in risposta a problemi invariabili e di conclusioni che pongono fine ai problemi. Se la meditazione cambia il senso delle nozioni e anche dei problemi, se le conclusioni sono il bilancio di un progredire trasformato in “opera” dall’interruzione, sempre prematura, del lavoro di una vita, il pensiero del filosofo non può essere definito soltanto da ciò che esso ha padroneggiato, bisogna tener conto di quanto ancora tentava di pensare in ultimo. Questo impensato deve, beninteso, essere attestato da parole che lo definiscano o lo circoscrivano». Ma non solo: questa è inoltre una questione che si raddoppia, in un difficilmente districabile gioco di specchi, nell’interrogazione sul modo in cui si dovrebbe intendere l’atteggiamento di Derrida nell’ascoltare, come si è espresso Rudolf Bernet in un articolo così intitolato, «la voce del maestro» Cfr. R. Bernet, Derrida and his master’s voice, cit., ovvero la voce di Husserl. Come se non bastasse, e segnando così un ulteriore raddoppiamento e una co-implicazione, l’interrogazione sul senso della «voce del maestro» costituisce un tema classico della filosofia, se non addirittura il suo luogo di nascita: non forse è nata la filosofia nell’inquieto arrovellarsi platonico sul significato delle ultime parole del suo maestro («dobbiamo un gallo ad Asclepio»: anche se Platone si limita a riportare enigmaticamente queste parole senza farle oggetto di una esplicita interrogazione, non sarebbe difficile intendere l’intera filosofia platonica come un tentativo di rispondere all’appello socratico e di intendere il senso della sua vita e del suo detto) e, come scrive Carlo Sini in una bella (seppur critica) introduzione a La voce e il fenomeno, dalla «meditazione sulla morte di Socrate e sul significato di quell’evento» C. Sini, prefazione a La voce e il fenomeno, cit., p. 22.? Tuttavia non si possono non fare i conti col fatto che Derrida, in particolare nelle ultime pagine de La voce e il fenomeno (ma sono temi che si possono ritrovare, quasi come un esito destinato, anche in fondo al percorso tracciato nell’Introduzione a L’Origine della Geometria), si confronta direttamente ed esplicitamente con la questione in oggetto. Qui vengono apertamente confrontati l’ideale inteso da Husserl come Idea kantiana e il differimento infinito del senso di cui parla Derrida: Dato che l’ideale è sempre pensato da Husserl nella forma dell’Idea nel senso kantiano, questa sostituzione dell’idealità alla non-idealità, dell’oggettività alla non-oggettività, è differita all’infinito. Ivi, p. 140. È questo il punto in cui fenomenologia e decostruzione convergono? Si può vedere in queste pagine anche, in controluce e lateralmente, un indice di alcune prese di posizione di Derrida nei confronti del pensiero hegeliano. Si tratta di un confronto che ha al suo centro il problema dell’infinito e di come esso vada pensato. Non siamo ovviamente in grado qui di affrontare esaustivamente una questione così complessa e che si espone, anch’essa, a molti diversi tipi di illusioni prospettiche (in alcune delle quali è caduto forse lo stesso Derrida, almeno in alcune dichiarazioni, nel momento in cui ha voluto distanziarsi da Hegel e giustificare la distinzione tra différance e dialettica Cfr. su questo tema l’interessante lavoro di P. Beretta, L’assoluto contraccolpo in se stesso. La questione dell’origine tra Hegel e Derrida, in Noema – Rivista online di filosofia, n. 4-2 (2013).). Ci limitiamo a richiamare ciò che interessa ai nostri fini: non c’è dubbio che qui Derrida veda nell’appello di Husserl a un compito infinito una positiva, ai suoi occhi, diffidenza husserliana nei confronti del “sapere assoluto” hegeliano. Egli [Husserl] non ha mai creduto al compimento di un «sapere assoluto» come presenza accanto a sé, nel Logos, di un concetto infinito. Ivi, p. 142. Più ambiguo invece è il riferimento allo stesso tema in una nota dell’Introduzione a L’Origine della Geometria: Esso [l’infinito] si dà come una Idea in senso kantiano, come un «indefinito» regolatore la cui negatività lascia alla storia i suoi diritti. Non soltanto la moralità ma anche la storicità della verità stessa verrebbe salvata qui da questa «falsificazione» dell’infinito attuale in un indefinito o in un all’-infinito, falsificazione di cui Hegel accusava Kant e Fichte. J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., p. 93 n.53. Tuttavia non si può non ricordare (e lo stesso Derrida lo fa, sempre nelle ultime pagine de La voce e il fenomeno) che Hegel non si «affanna instancabilmente a far derivare la differenza» (è il limite che Derrida attribuisce a Husserl) e che agli occhi di Derrida, «all’interno di questo schema l’hegelismo appare più radicale» J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 142., in quanto pone anch’esso a suo modo la differenza all’origine. Ma quando si legge Derrida bisogna stare attenti ai dettagli: «all’interno di questo schema», scrive. Quale schema? Basta rileggere la frase che precede: «nello schema di una metafisica della presenza che si affanna instancabilmente a far derivare la differenza» Ibidem.. Vi è ancora all’interno. Come sintetizza Derrida, Hegel mostra che deve prima essere pensato un infinito positivo perché possa apparire qualcosa come l’indefinità della differenza. Questo rapporto differenziale fa apparire l’infinito come un indefinito. Ma Derrida decostruisce questo tipo di prospettiva proponendo una diversa descrizione fenomenologica dell’apparire del differimento infinito: l’«apparire dell’Ideale come dif-ferenza infinita non può che prodursi che in un rapporto alla morte in generale» Ibidem.. Dunque prima il rapporto alla morte mi fa apparire la distanza e il differimento infinto della presenza; solo a quel punto «paragonato all’idealità dell’infinito positivo questo rapporto alla mia-morte diventa accidente dell’empiricità finita». Non intendiamo certo esaurire così una questione infinitamente complessa come quella del rapporto o di un confronto di prospettive tra la decostruzione e la dialettica hegeliana: ci interessa però sottolineare che quello appena descritto da Derrida è lo stesso meccanismo per cui la voce può essere pensata come un significante solo dopo essere presa nella relazione con il “dentro” pre-semiotico che essa stessa istituisce. Questo non significa però che la voce come significante abbia una priorità e sia la “causa” metafisica del processo (che è invece, secondo Derrida, quello che fa Hegel con l’«infinito positivo»: siccome l’infinito come indefinito presuppone l’infinito positivo, allora l’infinito positivo ne è la causa ed è prioritario). La voce, come l’infinito positivo, deve prima di tutto accadere: nessuna essenza prima dell’evento. Anche l’apparire dell’ideale come dif-ferenza infinita è un fenomeno: in questo senso è finito. È un evento: è questo, nella nostra interpretazione, il significato della famosa affermazione di Derrida secondo cui «la dif-ferenza infinita è finita». J. Derrida, La voce e il fenomeno, op. cit., p. 143. Allo stesso modo, la metafisica della presenza non è, ancora una volta, un errore di qualcuno; è un evento del mondo, l’accadere di una differenza. Si tratta dunque di mostrarne la genesi a partire dai fenomeni come essi si danno e nei limiti in cui si danno, non di confutarla a partire da un impossibile al di fuori. È questa l’operazione iper-fenomenologica che Derrida porta avanti: alcuni esiti della fenomenologia vengono ricompresi a partire da una più radicale fedeltà ai fenomeni, coerentemente al senso del progetto fenomenologico. L’illusione «quasi-trascendentale» per cui l’auto-affezione fonica si intende «nella massima vicinanza al luogo in cui suona e sembra fare a meno della deviazione attraverso l’esteriorità dello specchio o del corpo» è appunto un’apparenza. Apparentemente la voce si cancella lasciando spazio alla pura espressione del voler-dire interiore. Ma l’apparenza non è un nulla: è appunto la sua fenomenalità, è l’apparire di un’apparenza. Essa è appunto ciò che fa apparire un’origine, fa cioè apparire «a ritardo ciò a cui è detta aggiungersi», nel retroflettente punto di arrivo del processo. Ma il punto di arrivo esiste; l’apparenza è pur sempre un qualcosa; è un fenomeno. La decostruzione di Derrida non intende negare ciò che appare (nemmeno l’apparenza di un originario e puro voler dire promossa dal fenomeno della voce), ma indagarne le condizioni di possibilità. L’apparenza legata all’autoaffezione vocale è un evento, l’accadere di una differenza che segna l’apparire della metafisica. Il pensiero, genuinamente fenomenologico, è che non esiste un essere presente a sé rispetto al quale dichiarare l’«illusorietà» di un apparire, di un fenomeno, del risultato di un processo. Tutti i fenomeni sono in un certo senso illusori; ma, come sapeva Husserl, non esiste un criterio di verità che non parta dai fenomeni stessi. Verità e realtà sono nozioni definibili attraverso l’esame dei modi specifici del darsi dei fenomeni. Sono le obiezioni che Husserl pone allo scetticismo classico proprio nelle Ricerche Logiche. Si tratta allora piuttosto di abitare eticamente il risultato che siamo, il punto di arrivo, ricomprendendoci nella trama che lo ha prodotto (che ci ha prodotto): non c’è alcun al di là dei fenomeni che non sia l’evento che li ha fatti accadere. Nelle ultime pagine de La voce e il fenomeno, così come nelle ultime pagine dell’Introduzione a L’Origine della Geometria, Derrida sembra voler dire appunto che solo una fenomenologia può portare a fare i conti con quell’illusione prospettica che ci fa apparire la differenza «dopo come ciò che c’era già prima» C. Sini, Immagine e conoscenza, Cuem 1996, p. 220.. È questo uno dei «pensieri inauditi che si cercano attraverso la memoria dei vecchi segni» J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 143. , ossia all’interno del vecchio concetto di segno in cui è ancora invischiata la fenomenologia husserliana. Ma è solo all’interno di essa che, secondo Derrida, si poteva pervenire a un pensiero che la esponesse al suo limite che «è anche la condizione di possibilità di ciò stesso che si trova così limitato». Questo pensiero iper-fenomenologico si delinea potentemente nelle conclusioni delle due opere. Il punto è che le «distinzioni essenziali» sono per Husserl una «struttura puramente teleologica» Ivi, p. 141.. Da questo momento, queste «distinzioni essenziali» sono prese nella seguente aporia: di fatto, realiter, esse non sono mai rispettate, Husserl lo riconosce. Di diritto e idealiter, esse si cancellano poiché non vivono, come distinzioni, che della differenza tra il diritto e il fatto, l’idealità e la realtà. La loro possibilità è la loro impossibilità. Ivi, p. 142. Si vede qui in maniera sempre più evidente quello che sostenevamo all’inizio: mostrare l’impossibilità della distinzione essenziale husserliana non significa per Derrida ridurre la distinzione stessa al non-senso, ma esibirne il funzionamento, mostrare che il linguaggio e la tradizione del senso possono avvenire (e avere un avvenire) solo se non viene mai colmato lo scarto tra il fatto e il diritto. È la legge aporetica delle condizioni di impossibilità di cui Derrida parlerà in opere più recenti: non è la possibilità a permettere l’evento, ma il mantenersi di un’apertura che determina l’impossibilità di adeguazione. Nell’appello a un Telos infinito risiede la più grande possibilità per fenomenologia di oltrepassarsi e, insieme, il suo senso più profondo, «la sua sorgente e il suo fine», al di là delle sue “distinzioni essenziali”, o di certe inevitabili illusioni prospettiche che però sono tutt’uno col suo evento stesso (e che peraltro non costituiscono altro per noi che un’occasione per ritrovare il Telos infinito). Si potrebbe allora vedere forse che questa Idea è l’Idea o il progetto stesso della fenomenologia, quello che la rende possibile, oltrepassando il suo sistema di evidenze o di determinazioni attuali, oltrepassandolo come sua sorgente o suo fine. J. Derrida, “Genesi e struttura” e la fenomenologia, in La scrittura e la differenza, cit., p. 217. Ma solo se il Telos (come l’origine) non è puro, solo se non è più l’aspirazione a un’epifania della presenza, solo se non è un presupposto astorico da realizzare nella storia, è possibile la verità come storicità, ovvero l’evento della verità. Per Husserl la ragione è un compito infinito proprio perché essa non è né prima né al di là della storia: come scrive Derrida a proposito di ragione e storia, non c’è la storia e al di là di essa il Telos, «non c’è Ragione senza storia», altrimenti «o la storia non avrebbe che un significato empirico ed estrinseco, o la Ragione non sarebbe che un mito» J. Derrida, Introduzione a L’Origine della Geometria, cit., p. 205.. «Poiché il Telos è completamente aperto, è l’apertura stessa» J. Derrida, “Genesi e struttura” e la fenomenologia, in La scrittura e la differenza, cit., p. 217. , l’apertura differenziale non è altro che l’intenzionalità, con un’attenzione particolare a ciò che, unico, non è intenzionale nell’esperienza, ovvero l’evento stesso dell’intenzionalità. Ci pare che queste chiarificazioni di Derrida, contenute in Genesi e struttura, smentiscano almeno in parte l’interpretazione di Paola Marrati (op. cit., p. 41-42, già citato) secondo cui l’appello al compito infinito e alla teleologia Husserl «neutralizza, secondo Derrida, ogni storicità». Marrati sostiene che «Derrida sottolinea il ruolo decisivo che l’Idea infinita gioca nelle analisi husserliane, un ruolo, a suo avviso, essenzialmente difensivo. Affermando l’evidenza dell’Idea infinita, nonostante l’impossibilità a priori di averne un’adeguata intuizione, Husserl trasgredisce infatti il “principio dei principi” […] Per Derrida questo è un prezzo troppo alto». Ma se, come noi sosteniamo sulla scorta dell’interpretazione di Di Martino, l’evento e l’esperienza dell’impossibile si configurano in Derrida proprio come esperienza della non-fenomenalità, come intenzione senza intuizione, come ciò che, unico, «non è “intenzionale” nella rivelazione del mondo» pur essendo presupposto di ogni intenzione (Cfr. Di Martino, Esperienza e intenzionalità, op. cit., p. 146), risulta difficile accogliere l’interpretazione di Marrati su questo punto. Del resto anch’ella riconosce che per Derrida (ivi, p. 42) «non si tratta tanto di un disaccordo con Husserl, ma di modulare il suo discorso verso una nuova direzione». Secondo questo disegno la verità della vita e la vita della verità fanno tutt’uno, in una storicità irriducibile che costituisce la condizione di possibilità di qualcosa come la «responsabilità». L’anafora «non sappiamo» che ricorre più volte a sigillo delle conclusioni de La voce e il fenomeno si riferisce a questo: si tratta di una teleologia di genere «inaudito», in cui il Telos e l’origine sono differiti all’infinito, non preesistono alla storia, ma ne sono il prodotto sempre inaccessibile e non provengono dunque da un “sapere” posto a presupposto dell’azione, come suo Telos appunto. Il Telos che rende possibile la storicità della verità e la responsabilità è di genere completamente diverso. Come scrive Vincenzo Costa a proposito della convergenza fra il compito infinito di Husserl e il differimento infinito di Derrida, «se si sa già, la responsabilità diviene irresponsabile, la morale e la politica si trasformano in tecnologia. La responsabilità risiede invece forse nell’agire quando nessun sapere offre certezza, quando nessuna teleologia comanda» V. Costa, postfazione a La voce e il fenomeno, cit., p. 172. . Costa intende dire che solo se telos e origine non sono puri può esserci vera responsabilità, cioè solo a partire da una radicale indecidibilità. Cfr. a tale proposito P. Odifreddi, Intervista a Derrida, cit.: «Se sappiamo cosa fare, si tratta solo di realizzare un programma. E' quando non sappiamo cosa fare, che siamo costretti a prendere delle vere decisioni: ad esempio, quando due persone stanno annegando e noi possiamo salvarne una sola. La responsabilità etica, giuridica o politica passa attraverso questa indecidibilità, che è di un tipo diverso da quello logico». È qui che si può vedere la differenza fra il modo di pensare l’incondizionato che a nostro avviso accomuna (seppure con le riserve che abbiamo esposto) Husserl e Derrida distinguendoli invece dalla concezione kantiana dell’incondizionato: l’impossibile derridiano e (seppure con alcune esitazioni) il compito infinito di Husserl presuppongono un pensiero dell’infinito più radicale e anti-metafisico che distingue tali nozioni «tanto da un’idea regolatrice in senso kantiano quanto da una utopia» C. Di Martino, Oltre il segno, op. cit., p. 212. , come ha scritto Carmine Di Martino a proposito del “telos ideale” della democrazia. L’infinito è pensato da Derrida come un evento, come l’evento; da Kant come una presenza al di là della storia: l’inaccessibilità dell’ideale regolatore ha in Kant «la forma temporale del presente futuro, di una modalità futura del presente vivente». J. Derrida, Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Cortina, Milano, p. 86. L’impossibile derridiano non è un ideale regolatore né un’utopia (se non altro perché “ha luogo” sempre e ovunque): è una impossibilità strutturale, che permette il sempre di nuovo della fenomenologia (permette sempre l’avvenire del nuovo), non un telos già deciso che (pre)ordina in una linea di perfettibilità tutta la storia, neutralizzandola nella sua singolarità. È in questo senso che si può dire che l’incondizionato è per Derrida «la cifra del finito», in quanto la finitezza è ciò che permette l’esperienza aporetica dell’incondizionato, l’esperienza dell’impossibile: come è stato notato, «se per l'ermeneutica la condizionatezza è la cifra del finito, per la decostruzione derridiana la cifra del finito è, si potrebbe dire, l'incondizionato, l'impossibile, l'evento, la différance» Ivi, p. 167.. Di qui l’interesse di Derrida nel mostrare la finitezza della riduzione fenomenologica: è nella misura in cui incontra la sua stessa finitezza che la fenomenologia permette e prescrive l’esperienza dell’impossibile, giungendo alla sua compiuta problematizzazione e auto-comprensione razionale, reinscrivendosi cioè nel suo stesso evento. È in questa sottile ma decisiva piega che si gioca il rapporto tra il differimento infinito di Derrida e il compito infinito husserliano: nella misura in cui la teleologia husserliana fa capo a un telos e a un’origine che sono storiche da parte a parte e costantemente reinscritte nel loro duplice evento, nella misura in cui il compito infinito è pensato non come perfettibilità o come un’approssimazione indefinita a un senso puro ma come un «sempre di nuovo», si realizza la concordia “discorde” fra il pensiero husserliano e quello di Derrida. Concordia discors: la loro (im)possibile coincidenza deriva da quello che abbiamo chiamato il loro “tratto eventuale”, che permette insieme la loro unità (fanno parte dello stesso evento) e la loro differenza (l’evento che le attraversa determina il loro differenziarsi e la novità dell’una rispetto all’altra, che riposa nel margine a-venire che si nasconde e vivifica ogni autentica filosofia). Del resto, se, fatto un certo percorso, siamo davvero in grado di pensare la fenomenologia e la decostruzione come significati o effetti particolari di un unico evento, come due forme di vita, la questione filologica della loro coincidenza o non-coincidenza non può che sfumare nella presa in carico etica di ciò che esse ci hanno lasciato da pensare e da vivere, e nella gratitudine per l’a-venire del senso che ci hanno con-segnato. Appendice. Esercizio di decostruzione: i paradossi di Zenone di Elea e la différance incolmabile Dopo aver visto all’opera la pratica decostruttiva nei due principali testi di Derrida dedicati alla fenomenologia, ci proponiamo ora un’ulteriore deviazione in cui metteremo in relazione la figura di Zenone di Elea e i suoi paradossi con la logica aporetica dell’impossibile così come l’ha pensata Derrida. Come detto, la sollecitazione ci proviene da un accenno, a prima vista piuttosto oscuro, presente nell’opera più remota del filosofo francese, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl. La questione emerge nelle ultime righe della Premessa, nelle quali Derrida denuncia la strutturale difficoltà di restituire la realtà del movimento: nello specifico, il movimento di un pensiero, quello di Husserl. Saremo fedeli all’intenzione fenomenologica esponendo – a proposito del problema della genesi – il movimento del pensiero di Husserl secondo una fenomenologia del movimento quale ci è fornita da una percezione originaria di quest’ultimo. Ogni descrizione di un movimento (o di una genesi) che non acconsente alla dialettica inciampa davanti ai paradossi di Zenone di Elea: da una parte si tenterebbe di rendere totalmente intelligibile il movimento come tale e lo si riduce per questo all’unità ideale della sua «intenzione», del suo senso; si assimila cioè il punto ideale di arrivo al punto ideale di partenza; idealmente, in effetti, e dal punto di vista del senso puro di un movimento, nessuna differenza storica e reale è possibile: tutti i punti e i momenti sono analoghi; la loro originalità è contingente. Ma la temporalità effettiva del movimento, la sua esistenza, è soppressa: il movimento è diventato immobilità. Inversamente, si vorrà restituire al movimento tutta la sua consistenza effettiva, reale, ontologica, mostrando che esso non può essere che la somma di momenti pieni, di istanti perfetti, di totalità compiute irriducibile a qualche senso ideale che le trascenda. E di fatto, la realtà «obiettiva» del movimento potrebbe sembrare così fedelmente descritta. Ma accade che questa realtà oggettiva del movimento è il contrario del movimento poiché lo costringe all’immobilità. Si vede qui come la pretesa della scienza obiettivista sia investita dall’assurdità per non aver voluto riconoscere il proprio radicamento nel terreno della percezione originaria. J. Derrida, Il problema della genesi, op. cit., p. 82. Derrida sembra mettere qui in relazione l’impossibilità di pensare la storicità del senso che caratterizza tanto il «formalismo a priori» quanto ogni «empirismo» («questi due spettri della fenomenologia» Ivi, p. 274., come li definisce in quest’opera), con l’impossibilità di pensare rigorosamente il movimento a cui conducono i famosi paradossi di Zenone. Sia che si pensi lo spazio come discreto, sia che lo si pensi come continuo, la realtà esperienziale del movimento risulta tradita e, da un punto di vista razionale, inintelligibile. I due problemi sembrano in qualche modo costituire altrettanti luoghi aporetici della razionalità occidentale, due figure dello stesso scacco. Intendiamo qui sviluppare l’intuizione derridiana, mettendo alla prova la logica dell’impossibile in un esercizio di decostruzione applicato alle aporie zenoniane. Non si tratterà, come è ovvio, di una trattazione esaustiva della figura di Zenone, né potremo dedicarci a una riepilogazione di tutte le tracce (importantissime) che i suoi paradossi hanno lasciato nella storia della nostra cultura, e ancora meno a un’analisi puntuale di come la sua prospettiva teoretica si accordi (o non si accordi) con quella di Parmenide; tratteremo approfonditamente soltanto i problemi che Zenone ha sollevato, tentando di mostrarne la contiguità con lo spazio teoretico in cui si situa la decostruzione di Derrida. Ci interesserà altresì suggerire come già nelle questioni poste da Zenone si manifestasse una tendenza auto-decostruttiva interna alla razionalità occidentale, sempre risorgente e sempre repressa: Zenone rappresenterebbe, nella nostra interpretazione, un punto di emergenza archetipico di quel limite che travaglia il logos metafisico dal suo interno, quel limite di cui abbiamo parlato fin qui seguendo i percorsi di Derrida all’interno della fenomenologia. «Se questo è vero», ha scritto Giorgio Colli, «il “logos” zenoniano rappresenta un vertice della teoria della ragione, forse il punto estremo della razionalità greca» G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2009, p. 97.. Ci appoggeremo in questo senso all’interpretazione complessiva del pensiero di Zenone proposta da Giorgio Colli in diversi suoi testi: egli riteneva infatti che l’interpretazione canonica classica (già presente in Platone) del pensiero di Zenone come soccorritore apologetico del pensiero del maestro Parmenide fosse quanto meno da ridimensionare. Il punto, affrontato da Colli con grande acume e precisione filologica, sta nel comprendere all’interno di quale milieu teoretico e filologico vadano collocati gli argomenti di Zenone così come li possiamo leggere nelle fonti indirette che ce li hanno tramandati. In un pensiero dialettico (Aristotele attribuisce a Zenone la nascita della dialettica) ogni argomento andrebbe valutato in relazione a quelli che sono posti all’interno della stessa argomentazione: l’impossibilità storico-filologica di ricostruire il contesto dell’opera di Zenone non ci permette di valutare a cosa mirassero i suoi paradossi. Ma al di là della questione filologica di “che cosa voleva dire veramente Zenone”, si pone in ogni caso la questione teoretica di come vadano intese in assoluto le conseguenze delle aporie zenoniane, soprattutto se è vero che queste, come ritiene Colli (e non solo lui, lo vedremo), «aspettano tuttora di essere confutate» Ibidem.. Seguiremo la straordinaria analisi teoretica delle argomentazioni zenoniane svolta da Giorgio Colli, ma ne contesteremo le conclusioni proprio alla luce della prospettiva derridiana. Si tratterà però di una contestazione sui generis, simile a quella tipica della decostruzione di cui abbiamo ricostruito i caratteri nei capitoli precedenti: la tesi non verrà semplicemente ribaltata o dichiarata errata, ma reinscritta in un orizzonte problematico differente, nel quale i termini della questione continuano a esistere, ma non stanno più nello stesso rapporto. In altre parole, manterremo la prospettiva di Colli quando interpreta la figura di Zenone come situantesi al «vertice» o al «punto estremo della razionalità occidentale»: ma si tratterà appunto di una discussione sul modo di intendere e di abitare questo «punto estremo», che è potuto emergere come tale solo in un determinato sistema di opposizioni che Zenone ha portato, con straordinario rigore teoretico, alle sue estreme conseguenze. Quando Colli considera quella di Zenone una «ragione distruttiva» che perverrebbe a un «nichilismo teoretico» (ancora «velato» in Zenone e sfociato poi nel nichilismo schietto e dichiarato di Gorgia), Cfr. ivi, p. 91 e 99. egli non è in errore (eventualmente – non siamo in grado di determinarlo – si potrebbe trattare di un errore filologico, non teoretico): si situa così però ancora all’interno del sistema di opposizioni da cui prende le mosse Zenone, e, significativamente, del sistema di opposizioni concettuali in cui consiste la stessa razionalità occidentale, se accettiamo l’affermazione secondo la quale tali paradossi sono rimasti inconfutati nell’intera tradizione occidentale, fino nelle sue propaggini contemporanee. Nei capitoli precedenti, riflettendo sui paradossi caratteristici dello sguardo storico e dello sguardo genealogico, abbiamo sostenuto che non c’è nessun fuori da cui potremmo giudicare questo «interno» entro cui si situa a nostro avviso l’interpretazione di Colli; c’è però un diverso modo di «starvi dentro» e di guardare all’evento del sistema stesso o all’evento del nostro stesso guardare. La nostra ipotesi di lavoro è che la distanza incolmabile fra Achille e la tartaruga sia proprio la différance di cui parla Derrida. Allo stesso modo Zenone e Derrida portano tenacemente al punto di rottura le categorie concettuali della metafisica occidentale; insieme ci mettono di fronte al rischio del nichilismo, ossia del collasso del significato sul significante e della chiusura dell’apertura differenziale. 2.1 Zenone nel Parmenide di Platone. L’impossibile della logica e la logica dell’impossibile Le fonti da cui traiamo notizia di Zenone e del suo pensiero sono essenzialmente tre: 1) I frammenti autentici: ma si possono ridurre al massimo a tre, di esigua portata peraltro. 2) Il Parmenide di Platone in cui Zenone appare come personaggio nella parte introduttiva del dialogo. 3) Le pagine della Fisica in cui Aristotele discute le aporie zenoniane. È la testimonianza più importante. Inoltre ci sono alcune notizie isolate, tra cui qualche cenno nel Commento alla Fisica di Aristotele di Simplicio. Nel Parmenide Socrate ricorda che Zenone ha scritto diversi logoi (argomenti, in senso tecnico) contro la molteplicità, nei quali mostrava, contro l’opinione comune, l’impossibilità logica dell’esistenza dei molti, «perché», afferma Socrate, «se esistessero soggiacerebbero a condizioni impossibili». Plat. Parm., 127 d-128, trad. it. di G. Pasquinelli in I Presocratici I, Torino 1976. Da questa testimonianza possiamo congetturare che il libro di Zenone (nel dialogo la discussione inizia a partire da una lettura da parte di Zenone stesso del «primo logos» del suo libro) fosse composto di diversi logoi: una parte dei quali potrebbe dunque non esserci pervenuta. Un altro aspetto della testimonianza del Parmenide che è importante rilevare è che esso ci fa ritenere che negli argomenti zenoniani sia stato adottato, per la prima volta nella storia del pensiero, il procedimento della dimostrazione per assurdo. A tale proposito Colli scrive che «tale procedimento logico – la dimostrazione per assurdo – è per la prima volta enunciato in una forma inequivocabile in questo passo platonico Plat., Parm. 128 a-e, cit.: «“Parmenide” aveva detto Socrate “vedo che Zenone, qui, vuole essere unito a te non solo in amicizia, ma anche nell’opera. In un certo modo ha scritto le stesse cose che hai scritto tu, ma con alcuni cambiamenti cerca di indurci a pensare di aver detto un’altra cosa. Tu nel tuo poema dici che tutto è uno e ne porti a sostegno molte e belle prove; Zenone a sua volta afferma che i molti non esistono e ne offre anche lui tutta una serie di prove di gran peso. Perciò quando Parmenide sostiene l’esistenza dell’uno, e Zenone a sua volta l’inesistenza dei molti, parlano tutti e due in modo da sembrare di non aver affatto detto la stessa cosa e dicendo in realtà pressappoco lo stesso, mi sembra che le vostre proposizioni siano state dette con una sopraffazione di tutti noi altri”. Zenone rispose: “Va bene, Socrate, ma tu non hai capito interamente la vera intenzione del mio libro. Eppure vai incalzando e inseguendo i discorsi come fanno le cagne laconie. E in primo luogo ti è sfuggito che il libro non ha affatto tante pretese da essere scritto con le pretese che tu dici, nascondendola però agli uomini come se conseguisse un gran risultato. Con quel che hai detto non tocchi niente di essenziale: in verità questo mio libro vuol essere in certo modo un aiuto alla dottrina di Parmenide contro quelli che cercano di metterla in ridicolo sostenendo che la tesi dell’esistenza dell’uno va incontro a molte conseguenze ridicole e contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio libro quelli che asseriscono l’esistenza dei molti e rendere loro la pariglia e anche di più, cercando di dimostrare che la loro ipotesi dell’esistenza dei molti va incontro a conseguenze ancor più ridicole della tesi che l’uno esiste, se si vuole andare in fondo nella ricerca». in cui lo si fa risalire a Zenone. Dobbiamo perciò ritenere la dimostrazione per assurdo una innovazione di incalcolabile portata di Zenone, che non può essere fatta risalire a Parmenide come il principio di contraddizione. L’enunciazione di tale procedimento, come la ricaviamo dal passo platonico, è sostanzialmente identica all’enunciazione aristotelica e a quella di tutta la logica posteriore» G. Colli, Zenone di Elea. Lezioni 1964-1965, a cura di Enrico Colli, Adelphi, Milano 2011, p. 44.. Allo stesso tempo però, secondo Colli, emerge nella regia platonica di questo passo il fastidio (ma forse anche una condanna morale-teoretica) per l’«oscurità» dei filosofi presocratici (cfr. «con alcuni cambiamenti cerca di indurci a pensare di aver detto un’altra cosa»). Tale riserva nei confronti dei presocratici si manifesta più esplicitamente in altri dialoghi, ad esempio nei confronti di Eraclito: secondo Colli, «sotto queste parole c’è una critica di Platone a tutto il mondo della filosofia precedente: i presocratici – e per alcuni di essi ciò è evidente – nella loro espressione sembrano in qualche modo voler nascondere apposta ciò che dicono». Ivi, p. 51. A questo proposito Colli ricorda il detto di Eraclito (22B93 DK) secondo cui «il dio, cui appartiene l’oracolo che sta a Delfi, non parla e non tace, ma accenna (semaìnei)», Ivi, p. 52. fa segno: così il sapiente. Non siamo in grado di sviluppare qui una riflessione ampia e puntuale su questo punto: è però assai interessante ai nostri fini notare il disprezzo di Platone nei confronti di un sapere che si limita a «fare segno» (semaìnein), invece di manifestare immediatamente senza alcun nascondimento la verità (alétheia), o quello che realmente si vuole dire. Per altro verso, nello stesso passo è presente, secondo Colli, una delle ricorrenti allusioni platoniche che manifestano la sua diffidenza nei confronti della scrittura: Zenone viene accusato da Socrate di essersi limitato a riscrivere ciò che aveva già detto (e scritto) Parmenide (vi è insieme una svalutazione dello scritto e della copia, nonché la concezione dello scritto come copia, o copia della copia). «In un certo modo» dice Socrate, «[Zenone] ha scritto le stesse cose che hai scritto tu [Parmenide], ma con alcuni cambiamenti cerca di indurci a pensare di avere detto un’altra cosa». Questa accusa platonica non è trascurabile per la nostra interpretazione: è nel momento in cui la sapienza presocratica viene scritta che si giunge ad inevitabili paradossi interni e alle conclusioni di Zenone, qualificate come nichilistiche da Colli. È la scrittura che, lo abbiamo visto, permette l’iterazione e l’idealità, e, con essa, fa nascere il relativo concetto metafisico di segno che abbassa la scrittura stessa a copia o supplemento estrinseco di valore puramente registrativo e mnemonico. Ma non possiamo precorrere i tempi. Torniamo al passo platonico. È da qui infatti che nasce e trae alimento la tradizione dossografica, fatta propria in gran parte anche dalla storiografia moderna, che inquadra Zenone nella categoria dell’«allievo difensore»: Platone attribuisce al personaggio Zenone l’affermazione «in verità questo mio libro vuol essere in certo modo un aiuto alla dottrina di Parmenide». Tuttavia nello stesso passo Platone apre anche a una prospettiva diversa, secondo Colli. La frase appena citata va contestualizzata in ciò che la segue: Vuole confutare perciò questo mio libro quelli che asseriscono l’esistenza dei molti e rendere loro la pariglia e anche di più, cercando di dimostrare che la loro ipotesi dell’esistenza dei molti va incontro a conseguenze ancor più ridicole della tesi che l’uno esiste, se si vuole andare in fondo alla ricerca. Vedi nota 217. A parere di Colli in questo modo «Zenone ha ammesso implicitamente che le tesi di Parmenide erano attaccabili dal punto di vista razionale […]. L’“aiuto” che Zenone porta a Parmenide non arriva a concludere quale sia la dottrina vera: egli mostra solo che gli avversari sono ancor più criticabili» G. Colli, Zenone di Elea, cit., p. 53.. Qui allora si apre una questione «di capitale importanza: si tratta di capire che valore aveva la dialettica per il suo “inventore”» Ibidem.. Due sono le ipotesi, secondo Colli: 1) l’interpretazione di Zenone come “aiuto” al maestro Parmenide, così come l’abbiamo già richiamata. Questa categorizzazione però, nota con grande acume Colli, ci porterebbe a pensare che Zenone stesso intendesse la dialettica in generale come un mero “aiuto” o strumento che mostrerebbe la bontà razionale di un’argomentazione senza dire nulla della sua verità, la quale si apprenderebbe in un assoluto altrove, in una “visione” diretta e immediata della verità, che poi si sarebbe liberi di ripresentare (scrivere) e sistematizzare analiticamente in un’argomentazione dialettica. 2) interpretare l’intento o le conclusioni zenoniane come uno scetticismo assoluto, come un nichilismo. «Questa ipotesi», scrive Colli, «è appoggiata dalla vicinanza indiscutibile di Zenone e di Gorgia» Ivi, p. 54.. In questo senso, la dialettica, portata alle sue estreme conseguenze, si dissolverebbe nella retorica. È appena il caso di far notare come la questione, espressa in questi termini, sia assolutamente pertinente rispetto al contesto opposizionale in cui abbiamo visto muoversi Derrida: da un lato una metafisica della presenza del senso a sé anteriore a ogni linguaggio e indipendente dal rinvio segnico, dall’altro l’alternativa di un nichilismo assoluto, che sarebbe ciò a cui perviene la ragione occidentale al suo culmine (non va dimenticato, a questo proposito, che Colli, insieme a Mazzino Montinari, ha curato, in Italia e non solo, l’edizione critica delle opere di Nietzsche). Inoltre vi è il motivo del dissolvimento della differenza fra logica e retorica (è l’accusa di Habermas a Derrida che abbiamo trattato nel capitolo precedente). Ora, è nostra intenzione mostrare che l’alternativa posta da Colli non è errata, ma si situa, posta in questi termini, interamente all’interno della metafisica e del concetto di segno metafisico: è solo in una nostalgia del senso pieno e immediatamente presente a cui si allude nel primo corno dell’alternativa che si può concludere per l’affermazione di quel nichilismo che non si avvede di essere preso esso stesso negli effetti differenziali dell’alternativa e promuove allora (senza saperlo) l’abolizione di quella stessa differenza che lo ha reso possibile (che ha reso cioè possibile la dichiarazione di impossibilità del sapere propria di questo tipo di nichilismo). Si tratterebbe allora di comprendere che il senso che pretende di aver perduto, era già perduto: è un perdersi (sono alcune delle conclusioni che avevamo tratto dalla lettura dell’Introduzione a L’Origine della Geometria). La posizione dell’alternativa da parte di Colli non sarebbe dunque errata, in quanto non può essere semplicemente corretta, sottoposta a correzione: c’è tuttavia un modo diverso di abitarla, inscrivendola all’interno di nuove e più ampie relazioni, inscrivendola nel suo evento (nell’evento che la scrive e si scrive in essa, cancellandosi in essa). Abbiamo anticipato così, molto sinteticamente, le linee generali che guideranno la nostra interpretazione: torniamo ora alla testimonianza platonica sulla base della quale Colli aveva tratto la posizione del problema interpretativo così come lo abbiamo appena riportato. Anzitutto, è il caso di precisare che il fatto che qui, attraverso il personaggio di Zenone, sia sempre Platone a parlare, più che farci congetturare su eventuali distorcimenti o su un uso puramente strumentale della figura di Zenone, dovrebbe farci porre attenzione sull’atteggiamento di Platone stesso nei confronti di Zenone e della dialettica in generale. Si potrebbe riassumere così la prospettiva platonica nei confronti di Zenone: «o ti limiti a soccorrere razionalmente la visione parmenidea, oppure sei certamente un sofista, un nichilista. Ergo, la dialettica è solo uno strumento che va usato a fin di bene (in vista del Bene): le Idee infatti sono al di là della dialettica, si colgono per intuizione». Si vede qui come Colli, nella sua interpretazione, si limiti in un certo senso a raddoppiare lo sguardo platonico: o Zenone aiuta Parmenide con lo strumento della dialettica, oppure la usa distruttivamente come se fosse un fine in se stessa, quindi nichilisticamente. Tertium non datur. È per altro verso scarsamente giustificabile, a nostro avviso, pensare che Platone distorca semplicemente il pensiero zenoniano, data l’importanza dei motivi che animano il confronto: più che distorcerlo, lo affronta, col timore e il rispetto dovuto a una questione in cui c’è in gioco la possibilità del sapere e il rischio del sofismo, ossia del nichilismo. Ciò che avevamo inteso segnalare con i nostri corsivi nel passo platonico succitato erano due cose. Anzitutto l’intento ancipite delle argomentazioni di Zenone (detto, non a caso, «dalla duplice lingua»). Uno dei punti principali dell’interpretazione di Colli consiste nel negare la prima alternativa della questione che aveva posto: Zenone non viene in aiuto di Parmenide. A questo proposito cita un passo di Eudemo di Rodi, discepolo di Aristotele, riportato da Simplicio (che a sua volta leggeva Eudemo attraverso la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) nel suo commento alla Fisica: Si dice che Zenone affermasse che se qualcuno gli avesse saputo dimostrare la natura dell’uno, sarebbe stato in grado di spiegare il mondo reale [ta ònta]. Simpl., 29A16 DK. Questa è una testimonianza assai difficile da valutare se si assume l’intento “soccorritore” di Zenone nei confronti di Parmenide. Qui sembra che Zenone attacchi l’uno: e l’uno è, indubitabilmente, uno degli attributi fondamentali dell’essere parmenideo. Tuttavia molti commentatori sono rimasti spiazzati da questa testimonianza (a cominciare da Simplicio stesso), perché si assumeva che Zenone dovesse essere o “dalla parte” dell’Uno o dalla parte del molteplice. Colli asserisce che «dal passo che abbiamo letto risulta in modo inequivocabile che Zenone è il primo a muovere attacco contro l’unità» e che «questa difficoltà resta ancor oggi per i moderni sostenitori della tesi che vede Zenone difensore ed esegeta di Parmenide». G. Colli, Zenone di Elea, cit., p. 68. Ma dopo aver letto il Parmenide platonico dovremmo avere qualche indizio su come valutare la testimonianza di Eudemo riportata da Simplicio. Secondo Colli, «l’affermazione di Zenone si capisce se la si intende detta contro la molteplicità: il mezzo che qui viene usato contro la molteplicità è l’impossibilità di definire l’uno» Ivi, p. 62.. Dal che si vedrebbe confermato ciò che non si poteva fare a meno di dedurre leggendo quel «conseguenze ancora più ridicole» del passo platonico. Questo è un punto fondamentale per noi: secondo Eudemo, Zenone «negando l’uno arrivava a negare la molteplicità, in quanto questa presuppone l’uno» Ivi, p. 68., scrive Colli. Dall’impossibilità di definire l’uno derivava, in un rapporto circolare, l’impossibilità di definire razionalmente il molteplice. Non si trattava per Zenone di mettere in discussione taluni presupposti razionali per sostituirli con altri più adeguati (ad esempio confutare la molteplicità per sostenere il monismo): si trattava di una messa in discussione radicale dell’alternativa uno-molti. Di qui lo sconcerto di Simplicio, che è così portato a negare fede alle testimonianze di Alessandro ed Eudemo. Scrive Colli: È un passo illuminante. Simplicio qui muove ad Alessandro di Afrodisia la critica di aver frainteso Zenone ed Eudemo: in realtà è lui che non ha capito. […] Alessandro di Afrodisia riportava il passo di Eudemo e aveva ben capito come Zenone, negando l’uno, riuscisse a negare il molteplice sensibile, cosa che invece non ha capito Simplicio, il quale, senza riferire alcun elemento, afferma soltanto che qui Zenone sosteneva la molteplicità, ingannato dal fatto che negava l’unità. Ivi, p. 67. È curioso notare, lo abbiamo visto nei capitoli precedenti, come questo tipo di fraintendimento sia spesso toccato anche a Derrida e sia divenuto quasi canonico in una certa cerchia di interpreti: siccome mostra i presupposti “impossibili” della logica intende dire che non esiste altro che la retorica; siccome si dedica a decostruire l’idea di segno puramente espressivo allora intende dire che non vi sono che indici; siccome mostra l’inadeguatezza del concetto metafisico di segno e di scrittura intende ribaltare il rapporto fra pensiero e scrittura, fra significato e significante. Basterebbe la citazione di Della Grammatologia che abbiamo già riportato Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 22, nota 9: «Il “primato” o la “priorità” del significante sarebbe una espressione insostenibile e assurda che dovrebbe formularsi illogicamente nella stessa logica che vuole, con tutta legittimità distruggere. Il significante non precederà mai di diritto il significato, altrimenti non sarebbe più significante e il significante “significante” non avrebbe più nessun significato possibile. Il pensiero che si annuncia in questa impossibile formula senza riuscire a dimorarvi deve dunque enunciarsi diversamente: non potrà certo farlo che diffidando dell’idea stessa di segno, di “segno-di” che resterà sempre attaccata al fatto stesso che qua è messo in questione. Dunque, al limite, distruggendo tutta la concettualità ordinata attorno al concetto di segno (significante e significato, espressione e contenuto ecc.)»., per mettere in discussione tutto ciò, oppure tutti i passi dello stesso tenore che si ritrovano con cadenza regolare nell’intera opera di Derrida (anche prima che fosse costretto a difendersi dal fiorire di interpretazioni di questo genere); ma si vede qui forse la forza e la potenza di certe opposizioni concettuali e di certi presupposti teoretici che sono in grado di offuscare e di vanificare anche la buona fede del commentatore che voglia attenersi filologicamente al testo. Lo stesso Colli, pur rilevando l’incongruenza degli interpreti di Zenone, rimarrà vittima a sua volta di un pregiudizio teoretico (lo stesso di Platone): se Zenone nega entrambe le alternative, allora è un nichilista; se si dimostra l’impossibilità di definire l’uno quanto il molteplice, allora il sapere stesso è impossibile; in conclusione, se i paradossi di Zenone sono realmente inconfutabili, l’esito della ragione occidentale è inemendabilmente nichilistico, è il baratro infinito dell’irrazionale. Al di là di quali potessero essere le intenzioni di Zenone, è a nostro avviso di estrema importanza strappare al nichilismo (o all’irrazionale) lo spazio teoretico che Zenone incontra (e noi incontriamo con lui) in fondo ai suoi paradossi, lo spazio che si incontra quando ci si spinge «fino in fondo alla ricerca», ovvero al «punto estremo della razionalità occidentale»; per fare questo vi applicheremo la logica aporetica derridiana, che intendiamo appunto come l’approccio più adatto a recuperare alla ragione questa “situazione teoretica”, non lasciandola preda di qualche misticismo, nichilismo o irrazionalismo. Si tratterebbe dunque di pensare più a fondo l’«impossibilità» a cui pervengono le aporie zenoniane; di pensare tale impossibilità non metafisicamente come il luogo di annichilimento del pensiero, ma come la sua sorgente, come la sua condizione di possibilità. Si tratterebbe di unire l’ethos zenoniano, caratterizzato dal tenace rigore nell’andare «fino in fondo», con l’appello a una ragione che sappia oltrepassare la sua finitudine, riconoscendola come la sua stessa possibilità. È proprio tale ethos zenoniano l’altro aspetto che intendevamo sottolineare con i nostri corsivi nel testo platonico («se si vuole andare fino in fondo alla ricerca»): lo straordinario rigore razionale delle sue argomentazioni gli è stato riconosciuto, lo vedremo, anche da Aristotele. È andando «fino in fondo» alla dialettica e alla ragione occidentale che si incontrano irriducibili paradossi. Scrive Colli Dopo un esame approfondito delle testimonianze aristoteliche su Zenone, si può tentare una schematizzazione di questo raffinatissimo metodo dialettico zenoniano: ogni oggetto sensibile o astratto, che si esprime in un giudizio, viene provato anzitutto essere e non essere al tempo stesso, e inoltre viene dimostrato come possibile e insieme impossibile. G. Colli, La nascita della filosofia, cit., p. 91. In Zenone ogni cosa, nel momento in cui si esprime in un giudizio, non è solo dimostrata essere impossibile; viene dimostrata insieme come possibile e impossibile. A tal proposito è esplicita anche la testimonianza di Isocrate (Colli ne mette in discussione la precisione filosofica, ma poi si serve, nel passo de La nascita della filosofia riportato più sopra, della sua stessa espressione): […] Zenone che cerca di provare che le stesse cose sono insieme possibili e impossibili. Isocr. Hel. 3; testimonianza A13 M. Untersteiner, Zenone. Testimonianze e frammenti, Firenze 1963. Colli, pur contestando qui l’efficacia del lessico filosofico di Isocrate, spiega così l’affermazione di Isocrate: «dimostrare che una certa cosa è al tempo stesso possibile, perché dedotta per via di rigorosa discussione, e non-possibile, perché la conclusione dedotta è assurda – questo è il metodo della dimostrazione per assurdo» G. Colli, Zenone di Elea, cit., p. 57.. È un punto di straordinaria importanza per noi: all’interno di uno strumento che rappresenta uno dei vertici della razionalità occidentale, la dimostrazione per assurdo, si annida una logica che lega in un double bind il possibile e l’impossibile. Quello che Colli, attraverso Zenone e Isocrate, sta dicendo, alle nostre orecchie suona più o meno così: seguendo la strada della rigorosa discussione razionale, seguendo la strada delle condizioni di possibilità, si raggiunge come esito l’impossibilità delle “distinzioni essenziali” su cui si basa la rigorosa discussione razionale stessa. Era proprio questo, secondo la nostra interpretazione, il senso del percorso di Derrida all’interno della fenomenologia: è la fenomenologia che, al suo limite, porta all’esperienza dell’impossibile che rende possibile la fenomenologia stessa. È attraverso di essa che si arriva a intendere (senza intuire) l’impossibile, cioè l’evento; è la fenomenologia che ci fa “apparire” l’esperienza della non-fenomenalità. In questo senso ci pare interessante rileggere alla luce di tutto ciò un altro passo platonico, questa volta del Fedro, in cui si fa una breve allusione a Zenone: E non sappiamo che il Palamede eleatico parlava con un’arte tale a far apparire le stesse cose agli ascoltatori simili e nello stesso non-simili, una e molte, immobili e in moto? Plat. Phaedr. 261 d. Con «Palamede eleatico» Platone si riferisce a Zenone. L’attribuzione di questo epiteto ha suscitato molte perplessità negli interpreti. Palamede è un personaggio del ciclo post-omerico, che venne falsamente accusato di tradimento da Ulisse; è inoltre tradizionalmente considerato autore di importanti scoperte culturali e tecniche, tra cui le lettere dell’alfabeto. Il motivo dell’epiteto rimane oscuro, anche perché nel 415 a.C. era stata messa in scena una tragedia di Euripide andata perduta che vedeva Palamede protagonista; i connotati della sua figura in quella rappresentazione erano sicuramente il riferimento più vicino e immediato per Platone e per l’Atene del V secolo, ma non ne possiamo sapere quasi nulla. Colli ritiene che Platone si riferirebbe alla fama di inventore di Palamede per sottolineare l’invenzione della dialettica. Siamo nel campo della pura speculazione; ma, a titolo di pura suggestione, il legame di Palamede con la scrittura (lettere dell’alfabeto) e con una falsa accusa di tradimento non possono non costituire per noi un particolare, seppur cauto, interesse. «Far apparire», “faìnesthai”, scrive Platone: ovviamente per lui è un modo di suggerire la non-realtà di ciò che Zenone porta a riconoscere attraverso le sue aporie. Ma per noi il segno è un altro: come dicevamo nel capitolo precedente, l’apparenza è pur sempre qualcosa (è pur sempre un’esperienza; anzi, non vi è altro di cui si possa fare esperienza). Il cammino razionale che porta all’assurdità e all’impossibilità fa apparire qualcosa, fa fare un’esperienza, l’esperienza di ciò che non si lascia ridurre alla razionalità, ma al contempo la rende possibile; non si tratta di una resa della ragione di fronte al suo limite (è sempre l’esito di un cammino razionale), ma al contrario del tentativo di una ragione iperbolica che vuole continuare a occuparsi razionalmente del proprio limite e a farsene carico, invece di applicarsi soltanto a questioni interne alla razionalità stessa, condannandosi a ridursi a una tecnica, a una ragione calcolante in cui non avviene niente, in cui non vi è e non può esservi evento, ma solo un’iterazione indefinita (abbiamo visto nel capitolo precedente come la differenza fra una tecnica e la filosofia stia proprio nel tratto “eventuale” che non manca mai di travagliare e vivificare dall’interno ogni autentica filosofia). Non può che essere questo il «punto estremo» e il vertice della ragione: la sua capacità di oltrepassarsi riconoscendo la propria finitudine e riconsegnandosi sempre di nuovo alla fonte, sempre risorgente, dell’evento che la rende possibile. Che sia questo il cammino che Zenone ci porta a fare; che seguendo la sua strada iper-razionale possiamo giungere a tale esperienza di pensiero, è ciò che intendiamo provare seguendo pazientemente il filo dei suoi logoi. Contestualmente, intendiamo sostenere che Derrida abbia offerto con la sua opera uno straordinario sistema di strumenti razionali per trattare con rigore i limiti dell’esperienza e della ragione, per trattare i problemi dell’assurdo logico e dell’impossibilità, per affrontare, come si diceva, lo spazio teoretico aperto, con straordinario anticipo (ma ciò testimonia semplicemente che ciò che si mette in luce è il limite che travaglia da sempre la razionalità occidentale), dagli esiti, paradossali ma mai pienamente confutati e risolti, delle aporie Zenone di Elea; lo stesso spazio che oggi è avvenuto che si presentasse e si realizzasse nel suo pieno dispiegamento storico. Diofanto di Alessandria, il padre dell’algebra, nel III secolo a.C. riteneva che x= -4 fosse una soluzione assurda per l’equazione 4x + 20 = 4. Cfr. J. Mazur, Zeno’s paradox, Penguin Group Inc. 2007, trad. it. di Claudio Piga, Achille e la tartaruga. Il paradosso del moto da Zenone a Einstein, Il Saggiatore, Milano 2012, p. 24. Solo cinquecento anni dopo i numeri negativi saranno introdotti come strumenti razionali per indagare e permetterci un’esperienza di ciò che appariva impossibile, assurdo, aporetico, ma al contempo coincideva con quella sola x che rendeva possibile la razionalità dell’equazione. Forse non è qualcosa di molto diverso da ciò che Derrida ha di mira seguendo il sentiero delle condizioni di possibilità fino al fondo in cui si incontra la logica aporetica delle condizioni di impossibilità, o quando afferma: «ciò che cerco di pensare è l'idea che la sola cosa possibile, la sola “x” possibile, sia l'impossibile» J. Derrida, L'ordine della traccia, cit., p. 13.. 2.2 Zenone nella Fisica di Aristotele. I paradossi Nel commento di Simplicio alla Fisica sono presenti citazioni originali dei logoi zenoniani; si tratta degli argomenti di Zenone contro la pluralità. Uno di tali argomenti è quello in cui dimostra che «se gli esseri sono molti, sono grandi e piccoli insieme: tanto grandi da avere grandezza infinita, tanto piccoli da non avere più grandezza affatto». Simpl. in Arist. Phys. 139, 5. (29B2 DK) Poniamo che esista una molteplicità di cose e che ogni cosa sia composta da molte unità: se le unità non hanno grandezza anche la cosa da esse composta non avrà grandezza. La somma di unità inestese non può dare qualcosa di esteso: «“se infatti [questo essere inesteso] fosse sommato a un altro essere”, egli dice, “non lo renderebbe più grande”» Ibidem.. Allo stesso tempo però se invece le unità avessero grandezza la cosa da esse composta avrebbe una grandezza infinita, perché infinito sarebbe il numero delle unità aventi grandezza: infatti, scrive Simplicio citando direttamente Zenone, affinché non si riduca a essere nulla, è necessario che ogni cosa abbia grandezza e spessore e che in essa una parte abbia una certa distanza dall’altra. Anche rispetto a ciò che è al di là di essa vale lo stesso ragionamento: anche quello infatti avrà grandezza e vi sarà qualcosa oltre esso. Ma è lo stesso dir questo una volta o dirlo sempre: infatti nessuna siffatta parte del tutto costituirà il limite estremo, né di conseguenza non sarà una parte precedente all’altra. Così se gli esseri sono molti è necessario che essi siano tanto infinitamente piccoli quanto infinitamente grandi: piccoli in modo da non possedere grandezza, grandi così da non essere definiti. Simpl. In Arist. Phys. 140, 34 (29B1 DK) In altre parole, se si parte dalla premessa che gli esseri sono composti da una pluralità di parti, il ragionamento, se è rigoroso, ci porta ad ammettere, con eguale rigore, che esse devono essere di grandezza infinita e privi di grandezza. Ma entrambe le conclusioni sono impossibili se riferite all’idea di parte costituente. Colli ricostruisce il raffinato metodo dimostrativo zenoniano: 1) posizione dell’ipotesi: «se i molti sono»; 2) introduzione del concetto direttivo di grandezza; 3) bipartizione: se non ha grandezza allora…, se ha grandezza di conseguenza… L’altro famoso argomento contro la pluralità è citato sempre da Simplicio: Se gli enti sono molti è necessario che siano tanti quanti sono e non più né meno. Ma se sono tanti quanti sono saranno limitati. Se gli enti sono molti sono infiniti: sempre infatti in mezzo agli enti ve ne sono altri e in mezzo a questi di nuovo degli altri. E in tal modo gli enti sono infiniti. Pasquinelli, I presocratici I, op. cit., p. 104. Se esistono due cose deve esistere anche una terza cosa che le separi. Altrimenti sarebbero una cosa sola. Se dunque le cose sono tre ne deve esistere una quarta che le distingue, una quinta ecc. Allo stesso tempo le cose che sono non possono essere né più né meno di quelle che sono: ma non possono essere allo stesso tempo finite (né più né meno di quelle che sono) e infinite (per la necessità del “separatore”). Secondo Colli questi argomenti vanno letti unitamente a quelli riportati nel paragrafo precedente che andavano a contestare l’idea di Uno e l’essere parmenideo: anch’esso, essendo un’unità, sarebbe o privo di grandezza o infinitamente grande; se fosse indivisibile poi non sarebbe nulla. Scrive Alessandro di Afrodisia, nella citazione di Simplicio: «Come Eudemo attesta, Zenone, il discepolo di Parmenide, cerca di dimostrare che non è possibile che esista la molteplicità, per il fatto che negli esseri non vi è l’uno, mentre la molteplicità è una pluralità di unità» Simpl. in Arist. Phys. 97, 13 (29A21 DK). . In questo senso va anche la testimonianza di Seneca, considerata da Colli affidabile. Scrive Seneca: «…se devo credere a Parmenide, nulla esiste all’infuori dell’uno; se a Zenone, neppure l’uno…» Seneca Ep. 88, 44 (29A21 DK). Colli si oppone qui all’interpretazione di Pasquinelli, il quale sostiene che Zenone non andrebbe contro Parmenide perché distingue l’uno come componente del molteplice, contro il quale sarebbe indirizzata l’argomentazione zenoniana, dall’uno metafisico di Parmenide: «Io», scrive Colli, «non mi sento di accettare una simile distinzione; in primo luogo perché una testimonianza aristotelica (29A14 DK) dice che Zenone sbagliava proprio nel non distinguere i vari significati di uno ed essere; in secondo luogo perché una distinzione tra concetti della sfera metafisica e concetti della sfera logica non si può sostenere neppure in Aristotele, figurarsi se la si può sostenere per Parmenide e Zenone». Colli arriva addirittura ad ipotizzare che «le grandi ipotesi di tutta l’opera di Zenone fossero due: 1. «se esistono i molti»; 2. «se esiste l’unità». Per ciascuna di queste ipotesi erano sviluppati vari logoi» G. Colli, Zenone di Elea, op. cit., p. 88. . Non siamo in grado di stabilire se l’ipotesi sia filologicamente sostenibile; ma, da un punto di vista teoretico, è difficile negare che Zenone metta in crisi, con estrema radicalità, l’intero dispositivo opposizionale che si fonda sulla “distinzione essenziale” uno/molti. Questo è peraltro il tema della seconda parte del Parmenide platonico: se si rimane all’interno della logica parmenidea sia l’idea di uno sia l’idea di molteplice sono esposte a gravi paradossi e ad aporie da cui lo stesso Platone fatica ad emanciparsi. La logica parmenidea sembra rivolgersi contro se stessa e contro la stessa idea di uno, in una precoce tendenza auto-decostruttiva che viene a manifestazione in Zenone, ma che anche Platone non manca di affrontare nel Parmenide. Tali paradossi infatti travagliano significativamente la questione del rapporto fra le idee e cose sensibili: se esse sono davvero un’unità assoluta e incontaminata dal sensibile non se ne può dire né sapere nulla, se non sono indipendenti dalla fattualità non c’è alcuna garanzia dell’univocità del senso. In entrambi i casi le pretese della scienza si darebbero a vedere come impossibili: non è una problematica nuova per noi, visto che l’abbiamo affrontata in merito al problema dell’equivocità/univocità del senso in Husserl (attraverso Derrida). Anche Aristotele affronterà da par suo i paradossi che discendono dalla logica/metafisica parmenidea. Non possiamo seguire le soluzioni che l’uno e l’altro opporranno a tale problema. Quello che possiamo sostenere è che senza dubbio la logica parmenidea rende difficile pensare la differenza, e in tal modo è sì difficile pensare il molteplice, ma anche il concetto di uno da cui dipende: in altre parole, se c’è una cosa che gli argomenti di Zenone sembrano mostrare è l’assoluta solidarietà dei termini dell’alternativa, proprio attraverso la dimostrazione dell’impossibilità di definirli nella loro assolutezza. Allo stesso modo, lo stiamo per vedere, vi è una solidarietà irriducibile fra i concetti di spazio e di tempo, di continuo e discreto, nei quattro argomenti contro il movimento: quattro aporie con le quali si sono cimentate le migliori menti della storia del pensiero occidentale e che sembrano dar vita a un turbine di assurdità in cui la realtà esperienziale del movimento viene risucchiata. Anche qui, ad avviso di Colli, «queste aporie potrebbero essere state inquadrate in un contesto dialettico – così come nelle aporie contro la molteplicità si negava anche l’unità (…) In questo caso le aporie contro il movimento sarebbero solo la metà di altrettanti logoi, di cui però non conosciamo la tesi iniziale, né lo sviluppo dell’argomentazione» Ivi, p. 101.. Ma se anche così non fosse gli argomenti contro il movimento porterebbero con sé una carica aporetico-dialettica già abbastanza ricca. Aristotele li riporta nella Fisica e tenta di confutarli. Ne proponiamo una riesposizione sintetica. Achille e la tartaruga. Achille piè veloce, sfidato nella corsa dalla tartaruga, le concede un vantaggio, convinto della sua superiorità. Ma, sostiene Zenone, la sua presunzione gli sarà fatale, perché una volta dato un margine di vantaggio non potrà mai colmarlo e raggiungere la tartaruga. Poniamo che egli abbia concesso alla tartaruga il vantaggio di un metro. Quando lo avrà colmato la tartaruga si sarà spostata di un centimetro; quando egli avrà colmato anche questa distanza, la tartaruga si sarà spostata di un millimetro, e così via all’infinito. Così Achille si avvicinerà sempre di più alla tartaruga senza mai poterla raggiungere. Dicotomia. Un mobile non raggiungerà mai nessun punto assegnato: infatti, per quanto vicino possa essere al punto, per andare da A a B, dovrà prima percorrere la metà del percorso (1/2 di AB), poi la metà della metà (1/4 di AB) e così via (1/8, 1/16 ecc.). Aristotele lo espone così: per percorrere un certo tratto bisogna sempre percorrerne la metà, ma le metà di un tratto sono infinite ed è impossibile attraversare un numero infinito di tratti – oppure, come altri argomentano seguendo lo stesso ragionamento […], mentre si muove, il mobile ad ogni metà che raggiunge deve contare prima la metà di ogni metà, cosicché, percorso l’intero tratto, si trova ad aver contato un numero infinito, il che non si può ammettere. Arist. Phys. 263 a 4-11 (2922 DK). La freccia e l’istante. Per giungere al bersaglio, la freccia deve attraversare una serie di istanti. La freccia nell’istante deve essere ferma (non può occupare più dello spazio che occupa); dunque il movimento risulterebbe da una somma di istanti di quiete, il che è assurdo («la freccia che si muove è ferma» Arist. Phys. 239 b 7 (29A27 DK).). Lo stadio e i carri. In uno stadio ci sono tre carri paralleli. Due di questi corrono in direzione contraria. Il carro restante resta fermo. Supponiamo che, rispetto al carro fermo, i due carri si allontanino alla velocità di 50km/h. Fra di loro i due carri si allontanerebbero alla velocità di 100 all’ora: così Zenone conclude che «la metà del tempo è uguale al doppio» Arist. Phys. 239 b 33 (29A28 DK).. Si dice che molti di coloro che ascoltavano i discorsi di Zenone prendessero a camminare in su e in giù davanti al suo naso per mostrargli l’assurdità di quel che andava dicendo: ma così non dimostravano un bel niente. Zenone non negava il movimento, ma si chiedeva come fosse possibile pensarlo in termini razionali rigorosi, senza contraddirsi (secondo la logica parmenidea). È ovvio che Zenone non intendeva negare ciò che vediamo, per esempio il molteplice e il movimento: certo che li vediamo, ma la nostra ragione (o almeno la logica parmenidea a cui si attiene Zenone) non è in grado di spiegare o giustificare razionalmente ciò che vediamo, secondo principi fissi e certi, secondo distinzioni essenziali. Non negava il fenomeno, ma metteva in discussione le categorie secondo le quali noi lo pensiamo. In altre parole, è il problema della scienza, come ancora la intendiamo. Era dunque necessario risolvere i paradossi di Zenone, se si voleva fondare una scienza del molteplice e del movimento: vediamo allora come Aristotele tentò di confutare Zenone, anticipando la soluzione generale che sarà adottata, nei suoi tratti essenziali, anche dalla scienza moderna. Anzitutto bisogna fare per l’argomento dello stadio un caso a parte. Esso è stato da più parti accostato alla relatività einsteiniana di cui sarebbe un precursore: in particolare Pasquinelli ha messo in relazione tale argomento con il famoso esempio dei due treni di Einstein. Pasquinelli, op. cit., p. 423 nota 51: «…è stato notato (tra gli altri anche da DK I 254 nota) come nel ragionamento di Zenone sia invece da vedere una forma embrionale della “relatività” di Einstein, la scoperta cioè della relatività del tempo a seconda che l’osservatore si trovi su uno dei corpi in quiete o su uno dei corpi in moto. Effettivamente c’è nell’argomentazione di Zenone la scoperta dell’importanza del punto di riferimento, in quanto la tesi paradossale è raggiunta fondendo i risultati delle osservazioni fatte considerando ora A, ora B, ora C (e la cosa diventa più chiara se si traduca la figura zenoniana dello stadio in uno dei famosi esempi dei treni: siano i corpi A dei vagoni fermi; i corpi B dei vagoni in moto lungo A: un viaggiatore al primo finestrino del primo vagone B, che non abbia alcun punto di riferimento immobile, vedrà passare un vagone A, mentre nello stesso tempo vedrà passare riflessi in uno specchio fissato al finestrino e rivolto verso l’interno del suo vagone due vagoni del treno C che si muove in senso contrario a B. è chiaro che vedrà passare i due vagoni lungo un vagone A, e dal suo punto di vista non potrà che pensare che i vagoni C si muovono con velocità doppia di A)…». Ma il paragone appare a Colli (e a noi) del tutto improprio: non c’era bisogno della relatività einsteiniana per confutarlo, la confutazione di Aristotele è già valida (e, lo vedremo, è, delle quattro, probabilmente l’unica valida). Infatti in Zenone non c’è affatto la coscienza del fatto che la simultaneità vale solo in un sistema di riferimento; a differenza (lo vedremo) degli altri tre, questo argomento non pare all’altezza di confrontarsi con la relatività einsteiniana. Per risolvere il paradosso dello stadio, basta la considerazione di Aristotele che eccepisce sul fatto che Zenone non abbia distinto la velocità rispetto a un corpo in quiete e uno in moto: «l’errore di questo ragionamento consiste nel pensare che una grandezza uguale, con ugual velocità, impieghi un tempo uguale sia a passare lungo un corpo in moto che lungo un corpo in quiete, il che è falso» Arist. Phys. 239 b 33 (29A28 DK).. La meccanica antica era sufficiente a risolvere questo paradosso, che, invero, appare «di una debolezza sconcertante» G. Colli, Zenone di Elea, op. cit., p. 125. , scrive Colli, rispetto agli altri. Esso è facilmente confutabile perché si basa su quello che Aristotele è solito definire un paralogismo, su una errata sovrapposizione di termini uguali su significati differenti: in questo senso è «prettamente sofistico, e della seconda sofistica» Ibidem. , afferma Colli spingendosi addirittura a dichiarare che «questo argomento è soltanto sciocco, e la critica di Aristotele è definitiva» Ivi, p. 124.. Colli si chiede dunque se sia possibile che un pensatore «di altissimo livello», quale ci è apparso Zenone in tutte le altre testimonianze, possa essere incappato in un errore così grossolano, neppure degno di un grande sofista (degno per Platone di stare al fianco di Parmenide), ma di un sofista da strapazzo. Colli ipotizza che Aristotele avesse letto questo argomento attraverso intermediari, ovvero attraverso opere di diffusione sofistica: «si potrebbe così spiegare la commistione di argomenti forti con altri, come questo, di marca sofistica. Non è nulla più che un’ipotesi» Ivi, p. 126.. Quale che sia la provenienza dell’argomento dello stadio è comunque indubbio che esso non abbia la dignità degli altri tre. Per quanto riguarda questi ultimi infatti il tentativo di confutazione da parte di Aristotele è molto più difficoltoso. Il primo tentativo di confutazione che leggiamo nella Fisica riguarda l’argomento della dicotomia e si basa su una distinzione semantica fra infinito nel senso di infinitamente divisibile e infinito come illimitato: Di conseguenza, l’argomento di Zenone assume come base qualcosa che è un errore, cioè suppone che in un tempo finito non si possano percorrere o toccare successivamente una per una infinite posizioni nello spazio. Infatti sia la lunghezza che il tempo e in generale ogni continuo vengono detti infiniti in due accezioni, infiniti per la divisione, o per gli estremi. Degli infiniti secondo la quantità non è certo possibile toccare i vari punti in un tempo finito, ma degli infiniti secondo la divisione invece è possibile, perché anche il tempo è infinito allo stesso modo. Così che in un tempo infinito e non in uno finito ci si trova a percorre l’infinito e a toccare posizioni infinite nello spazio in momenti temporali infiniti e non in momenti finiti. Arist. Phys. 233a 21 (29A25 DK). Per esemplificare: un segmento è infinito per la divisione, mentre una retta è infinita per gli estremi. Anche qui Aristotele ricorre a uno dei suoi abituali metodi di critica, la distinzione dei significati. Secondo Aristotele Zenone sbaglia a impostare il problema come se si trattasse di attraversare posizioni infinite in un tempo finito: anche il tempo è infinito per divisione. Tempo e spazio fra A e B sono infiniti per divisione, ma finiti per gli estremi (il percorso ha comunque un termine). La confutazione aristotelica seppur acuta non sembra però risolvere alcunché: essa richiederebbe, come premessa, di dimostrare come si possa realmente attraversare uno spazio infinito in un tempo infinito (per divisione), o, in altre parole, come gli infiniti per divisione possano essere considerati finiti per gli estremi. È proprio ciò che Zenone mette in dubbio: se lo spazio fra due estremi è infinitamente divisibile non si può giungere in un tempo finito da un estremo all’altro. Come scrive Colli, «la spiegazione razionale del movimento deve essere la somma di infiniti termini 1+1/2+1/4…, somma che, in un’espressione matematica al limite, darebbe 2, ma che di fatto non lo dà perché non ci si arriva» G. Colli, Zenone di Elea, op. cit., p. 104-105.: un oggetto in movimento dovrebbe “contare” un numero infinito di numeri prima di arrivare alla fine del suo percorso. In altri termini, come ha notato Joseph Mazur nel suo libro Achille e la tartaruga, si potrebbe dire che qui viene decostruita da Zenone la nozione di numero successivo. Qual è il numero successivo di un numero? Si consideri, per esempio, il numero ½. Qual è il successivo di questo numero, in ordine di grandezza? Sarà ¾, o 5/8, o 9/16, oppure 17/32, o ancora qualche altro numero che si possa scrivere nella forma 2n + 1/2n+1? Ogni numero, determinato introducendo in questa formula diversi valori di n intero non negativo, sarà maggiore di ½, indipendentemente dal valore di n. Inoltre, maggiore è il valore di n, più il valore fornito dalla formula si approssima a ½, ma non c’è nessun valore di n che possa fare di questa frazione l’espressione del numero successivo di ½. […] Ma allora, com’è che ci muoviamo da un punto numerizzato a quello successivo, se non c’è nessuna cosa che possa dirsi un numero successivo? Questa è la freccia micidiale che Zenone ha in serbo nella sua faretra. Se un percorso è costituito da un insieme di punti, allora il moto di un oggetto non può generare un percorso. J. Mazur, Achille e la tartaruga, op. cit., p. 33 nota 28. Se si ragiona in termini di punti discreti e spazi infinitamente divisibili diventa davvero difficile spiegare come avvenga il movimento (e come sia possibile la pluralità). Una volta che si scrive lo spazio come un insieme di punti (geometria), un movimento finito è logicamente difficile da immaginare. Peraltro lo stesso Aristotele riconosce che la sua confutazione all’aporia posta dal logos zenoniano non è definitiva: Ma se, lasciando perdere la lunghezza e la questione se è possibile attraversare uno spazio infinito in un tempo finito, uno ponesse la questione per il tempo stesso (giacché anche il tempo è infinitamente divisibile), quella confutazione non sarebbe più sufficiente. Arist. Phys. 263a 18-22. Peraltro non è neppure vero che la domanda di Zenone fosse come percorrere uno spazio infinitamente divisibile in un tempo finito: come dicevamo Zenone mette appunto in discussione la possibilità della distinzione concettuale fra infinitamente divisibile e infinito riguardo agli estremi. Aristotele cerca allora una nuova confutazione, mettendo in campo i due concetti metafisici fondamentali della sua filosofia: atto (entelécheia) e potenza (dynamis). Secondo Aristotele la dicotomia non può avvenire nel continuo, perché «se si divide un continuo in due metà, ci si serve di un punto unico come di due: si fa infatti lo stesso punto inizio e fine» Ivi, 263 a 23-25.: il punto di mezzeria in pratica viene “contato” due volte, alla fine di un segmento e all’inizio dell’altro, arrestando così il continuo e, di conseguenza, il movimento. Con questa divisione però non sarà più un continuo, né una linea, né un movimento: un movimento continuo appartiene al continuo, e nel continuo ci sono infinite metà, ma non in atto, bensì solo in potenza. Ivi, 263 a 25-28. Se fossero anche in atto, secondo Aristotele, non ci sarebbe più un continuo: assumere uno stesso punto come fine della prima metà e come inizio della seconda, «fare due quello che è un punto solo» G. Colli, Zenone di Elea, op. cit., p. 109. interrompe il continuo. Se la divisione avviene realmente, non si ha più un moto continuo. Perciò a chi domandasse se è possibile percorrere l’infinito nello spazio e nel tempo, bisogna rispondere che in un senso è possibile, in un altro no. Se gli infiniti sono in atto non è possibile; se sono in potenza è possibile. Colui che si muove in modo continuo attraversa cose infinite per accidente, ma in modo assoluto no. Al segmento infatti accade di essere infinitamente metà: ma la sostanza è una cosa e l’essere empirico un’altra. Aris. Phys. 263 b 3-9. Ma il richiamo alla potenza, come quello alla limitatezza degli estremi non è che un appello all’esperienza: è come dire “va bene, sarà infinitamente divisibile da un punto di vista razionale, ma di fatto ha un termine”. Come scrive Colli, qui «troviamo una sorprendente ammissione di Aristotele, ossia che queste “aporie” si possono superare soltanto “per accidente”, con un richiamo cioè a quello che accade. È chiara la debolezza di una tale confutazione, di fronte a un problema che non riguarda i fatti, ma la ragione» G. Colli, La nascita della filosofia, op. cit., p. 93.. È evidente però che il richiamo all’esperienza è qui del tutto illegittimo e circolare: il problema era quello di spiegare razionalmente ciò che vediamo e non di addurlo come prova a conferma della nostra ipotesi. Questo significherebbe assumere il movimento come un dato di fatto sulla base del quale spiegare il mondo: è, per l’appunto, quello che fa la fisica moderna. Il paradosso però rimane, perché non si capisce in base a che il movimento verrebbe assunto come reale, mentre rispetto ad altri “fatti” la fisica moderna non si sognerebbe mai di farlo: ad esempio non accetterebbe di considerare un dato di fatto che le cose siano colorate, ma, al contrario, ha elaborato precise teorie per spiegarlo. Non si tratta di appellarsi al fatto che ci si muove, ma di spiegare come questo sia possibile: quando Aristotele dice che «colui che si muove in modo continuo attraversa cose infinite per accidente, ma in modo assoluto no» dice semplicemente che il movimento è avvenuto, ma la ragione non lo spiega, da un punto di vista razionale esso si dà a vedere come impossibile. Così quando dice che «al segmento accade di essere infinitamente metà: ma la sostanza è una cosa e l’essere empirico un’altra» ammette che il segmento di fatto è limitato e insieme somma di infinite metà, mentre la «sostanza» lo proibirebbe: in pratica sta ripetendo il paradosso di Zenone. Di fatto il segmento è sia finito sia infinito, anche se la ragione lo proibirebbe: sembra quasi una spiegazione dell’argomento di Zenone, più che una sua confutazione. C’è l’evento del movimento, ma la ragione non è in grado di ricostruirlo: ciò che è sempre possibile si dà a vedere come impossibile. I paradossi di Zenone mostrerebbero così che ogni volta che accade qualcosa accade l’impossibile: è questo il paradosso. Zenone non vuole negare che, di fatto, Achille raggiunga la tartaruga; mostra però che questo stesso evento, se si cerca di racchiuderlo razionalmente in modo rigoroso e conseguente, si dà a vedere come impossibile: è impossibile dirlo, definirlo, senza contraddirsi. Questo si può vedere anche nell’argomento della freccia. Come sarebbe possibile un movimento dato da una somma di istanti presenti, da una somma di “ora”? Ma al contempo questo argomento parte da presupposti completamenti diversi: come nota Colli, «l’unica cosa comune a tutti i logoi zenoniani che possiamo constatare è l’attribuzione a uno stesso soggetto di due predicati contraddittori» G. Colli, Zenone di Elea, op. cit., p. 119. , in questo caso «la freccia in moto è ferma». Qui l’attribuzione di predicati contraddittori si raddoppia però nel rapporto fra questo logos e gli altri: qui infatti, nella nozione di istante, il tempo è pensato come fatto di “ora” (nyn) indivisibili, mentre gli altri due che abbiamo affrontato si basavano su un tempo infinitamente divisibile. Zenone sembra voler dire così che il raggiungimento (ovvero ciò che immancabilmente accade) sarebbe impossibile in entrambi i casi: sia che il tempo fosse composto di istanti indivisibili sia che fosse infinitamente divisibile. Così raddoppia, a sua volta, anche l’ideale controreplica di Zenone ad Aristotele: l’infinito appare nel momento in cui si pone uno dei due (spazio o tempo) come punto di riferimento finito. Spazio e tempo sono concetti che emergono uno a partire dall’altro, e l’infinito appare nell’impossibilità di determinarne la differenza: il concetto della somma delle infinite parti divisibili comporta infatti l’idea del tempo finito che servirebbe per “contarne” ciascuna, facendo così apparire, per differenza, l’idea di un tempo indefinito come somma dei tempi finiti che servirebbero per attraversare ogni ulteriore divisione. Tutto ciò potrebbe apparirci un turbine di assurdità; ma, direbbe Zenone, il modo in cui “se la cavano” Aristotele e, a partire da lui, la fisica moderna, è, da un certo punto di vista, ancora più assurdo; essi sembrano aver abdicato, riguardo a questo problema, alla pretesa scientifica per, in un certo senso, “lasciarsi andare all’azione”, approntando soltanto degli strumenti pragmaticamente efficaci per “trattare” il movimento, senza però risolvere in alcun modo la questione e accettando, per così dire, il paradosso. La “soluzione” aristotelica (distinguere il piano logico da quello della realtà esperienziale) è alla base della soluzione “scientifica” che è poi diventata canonica in Occidente. Noi moderni infatti abbiamo risolto il paradosso distinguendo fra estensione fisica ed estensione matematica (o fra insieme discreto e insieme continuo): la matematica moderna afferma che in un segmento esistono infiniti punti, ma afferma al contempo che questi punti non hanno dimensione. Al contrario i punti fisici hanno dimensione, ma appunto per questo non sono infiniti. I paradossi di Zenone invece si basano sul fatto che lo spazio è pensato come un insieme di punti infiniti che hanno una dimensione: il paradosso allora sarebbe il fatto che la scienza moderna, che è nata dalla dichiarazione di una congruità assoluta tra pensiero matematico e realtà fisica del mondo, si appoggerebbe sotto questo rispetto alla soluzione aristotelica (che è una non-soluzione) delle aporie zenoniane, la quale si basa invece proprio su una distinzione del piano matematico da quello reale. Significativamente, questa ambiguità si ritrova poi, in tutta la sua imbarazzante paradossalità, nei fondamenti della meccanica e della geometria. La meccanica infatti spiega il movimento come una somma di posizioni successive fisse (proprio ciò che nell’argomento della freccia è mostrato essere paradossale): «in altre parole», come nota acutamente Colli, «la meccanica può spiegare il movimento solo attraverso l’immobilità» Ivi, p. 121. (ricordiamo come le parole di Derrida citate all’inizio della nostra Appendice fossero pressoché le stesse). Come scrive Mazur, «Zenone riconoscerebbe senza remore che la matematica applicata ai suoi paradossi è ragionevole e che essa può mettere in evidenza con precisione assoluta dove e quando si compia ciascuno dei fenomeni da lui esaminati» J. Mazur, Achille e la tartaruga, op. cit., p. 219. , in quanto la meccanica è in grado appunto di associare una posizione nel tempo a una posizione nello spazio: ma non spiega come, dalla somma di queste posizioni fisse, si possa concepire un movimento. In modo simmetrico la geometria, a partire da Aristotele ed Euclide, ha dovuto introdurre la nozione di punto senza dimensioni: la geometria spiega dunque l’estensione attraverso l’inesteso. Questa, osserva Colli, è un’aporia anche negli stessi termini aristotelici: secondo il sistema aristotelico infatti, «di una scienza bisogna indagare quale sia il ghenos, cioè il genere particolare, e quali le archai, cioè i princìpi propri di questo ghenos, validi solo nell’ambito di questa scienza (i princìpi validi per tutte le scienze sono solo quello di contraddizione e del terzo escluso). Il ghenos della geometria è appunto la “grandezza”: la geometria è la scienza dell’estensione pura. Aristotele, ponendo il punto alla base della geometria, mette una arché particolare di questa scienza al di fuori del ghenos medesimo» G. Colli, Zenone di Elea, op. cit., p. 80.. Poiché né Aristotele né Euclide sanno spiegare come l’estensione possa avere a fondamento il punto inesteso, l’aporia zenoniana non viene minimamente scalfita, ma soltanto aggirata sulla base di motivazioni pragmatiche. Le due vie che i greci tenteranno per provare, inutilmente, a superare i paradossi zenoniani, quella aristotelico-euclidea (punto geometrico indivisibile e inesteso), e quella atomista (atomo reale indivisibile ed esteso), convergeranno nella scienza moderna che assume aporeticamente, per funzionare, entrambe le cose. Se così è, aveva ragione il fisico premio Nobel Eugene Wigner, quando scrisse nel 1960 un libro dal titolo L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali Eugene Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, in Communication in Pure and Applied Mathematics, 1960, vol. XIII, n.1. , nel quale ammetteva con grande onestà che «l’enorme utilità della matematica nelle scienze naturali è qualcosa che confina con il mistero, non c’è alcuna spiegazione razionale che la giustifichi» Citato in J. Mazur, cit., p. 226.; così come aveva ragione Giorgio Colli quando affermava che le aporie zenoniane «aspettano tuttora di venire confutate». G. Colli, La nascita della filosofia, op. cit., p. 97. Si potrebbe pensare anche alla relatività einsteiniana come a un riconoscimento dei paradossi di Zenone: l’assurdo a cui giunge Zenone è appunto la legge aporetica secondo cui tutto accade. Oppure si potrebbe dire che in un certo senso Einstein è tornato a Parmenide affermando che dal punto di vista del Tutto (il punto di vista “panoramico” che costituisce il polo ideale del pensiero scientifico) il movimento è puramente relativo, non è una realtà assoluta, mentre assoluto e reale è soltanto il Tutto, cioè l’Uno. Solo che, potrebbe eccepire Derrida, non si può pensare l’Uno se non a partire dall’illusione «quasi-trascendentale» del movimento (che è poi, se lo si ricostruisce fenomenologicamente, anche il percorso che Einstein, come tutti noi, fa). Una scienza del movimento che si fonda sull’immobilità, una scienza dell’estensione che si basa su un punto inesteso, dall’intreccio delle quali dovremmo spiegarci la realtà del movimento: ecco il turbine di assurdità messo in movimento da Zenone, nel quale ci troviamo immersi fino al collo. Ed ecco perché un filosofo e matematico come Bertrand Russell riteneva che quelli di Zenone non fossero (come molti pensarono nell’antichità e in tempi più recenti) rompicapo giocosi o paralogismi di intento meramente polemico: Zenone aveva posto all’attenzione di tutti un’effettiva difficoltà del pensiero occidentale, dando a vedere quest’ultimo come una sorta di insaziabile macchina autodistruttiva che rende in ultima analisi impossibile e annichilisce tutto ciò che permette. 2.3 Il paradosso dell’evento. Come si diceva, Zenone porta a riconoscere che ciò che accade immancabilmente (Achille raggiunge la tartaruga) si dà a vedere, se si vuole definirlo senza contraddirsi, come radicalmente impossibile: se qualcosa accade, accade l’impossibile, ecco il paradosso. Se però non si vuole lasciare questa conclusione a un esito irrazionalistico o nichilistico, bisogna pensare forse che tale impossibilità non dipende da un errore della ragione occidentale ma da un suo limite costitutivo: l’impossibile a cui giunge la ragione al suo limite non ne determina la bancarotta o la fine, ma il suo aver da pensare la propria finitudine come ciò che la rende possibile e la vivifica. Analizzando i paradossi di Zenone e la loro influenza sul sistema della razionalità occidentale ci è parso che l’impossibilità a cui essi giungevano sia in un certo senso rimasta alla base delle nostre scienze fondamentali: un’impossibilità che rende possibile la scienza. È una sorta di necessità differenziale indispensabile per il funzionamento della scienza: aporeticamente, solo attraverso l’inesteso ci è possibile pensare l’estensione e solo attraverso l’immobilità ci è possibile pensare il moto; solo attraverso lo spazio sappiamo pensare il tempo, e solo attraverso l’impossibilità della loro distinzione essenziale pensiamo l’infinito. Tale impossibilità fondamentale, mentre continua ad alimentare la possibilità della scienza, non smette però di tormentare tutti i nostri sistemi razionali, poiché ci si scontra con essa ogni volta che «si va fino in fondo alla ricerca»: la ricerca sull’estensione porta all’inesteso, come il movimento all’immoto, la ricerca sullo scambio economico al dono, ogni concetto «al suo altro che lo eccede e lo definisce» S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Guida, Napoli 1983, p. 148.. Si manifesta perciò all’interno della ricerca razionale stessa una tendenza auto-decostruttiva della razionalità occidentale, sempre risorgente e sempre repressa, che mostra immancabilmente una radicale distanza e una radicale inappropriabilità dell’evento: se si cerca di racchiudere l’evento all’interno del programmabile, del prevedibile, ci si scontra con paradossi ineludibili. Come ha scritto Carlo Sini, «Achille, posto a consapevole distanza dalla tartaruga, non può raggiungerla […] Ovvero: può raggiungerla, ma, per così dire, solo chiudendo gli occhi e lasciandosi andare all’azione» C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 93.. La ragione non ci arriva mai, l’evento sì, fin dall’inizio. Ma l’evento appare (ma non è un’intuizione, è un’esperienza del possibile come razionalmente impossibile) proprio per differenza da questo scacco della ragione: l’incolmabilità della distanza (“l’impossibilità») è necessaria perché l’evento sia possibile. Se tale impossibile non fosse possibile, l’unico possibile, non avremmo che lo sfero immobile di Parmenide, il quale renderebbe davvero tutto impossibile: questo sembra dire la logica aporetica di Zenone. L’impossibilità non rappresenta l’annichilimento del senso, ma la coincidenza del suo punto di consumazione e di insorgenza, il suo mostrarsi iscritto in un evento: il senso dell’evento non potrà mai racchiudere l’evento del senso. C’è un modo diverso di abitare l’impossibilità inscrivendola nel suo evento (nell’evento che la scrive e si scrive in essa, cancellandosi in essa). Quando si cerca di scrivere l’evento, esso si dà a vedere come impossibile. Ma che cosa dobbiamo pensare di questa impossibilità? Non si tratta di rimpiangere la possibilità di un’adeguazione, ma di continuare a scrivere per incontrare questo limite e abitarlo: infatti questa impossibilità della scrittura coincide con il suo evento, ovvero con ciò che al tempo stesso rende possibile la scrittura e la rappresentazione, mentre si traccia, cancellandosi, in essa. La raffigurazione è impossibile perché non coinciderà mai con l’evento, proprio perché è lo stesso evento a farla accadere, rendendola possibile. Esso si dà solo tracciandosi in ogni scrittura, negandosi in ogni sua raffigurazione, in ogni sua figura, rendendole al tempo stesso possibili e impossibili. La filosofia di Derrida rappresenta allora, ai nostri occhi, un arsenale di strumenti teoretici per continuare a pensare e a scrivere questa impossibilità: non si tratta di cancellarla o di tentare di appropriarsene. Non ci arriveremo mai: ma continuare a scrivere, continuare a pensare è un modo per starle vicino, per abitare il nostro stesso evento, per viverlo. Ma si tratta appunto di un arsenale teoretico, non di un abbandono mistico: ci spingiamo addirittura a sostenere che Derrida è in grado di darci strumenti, se non per confutare le aporie zenoniane, almeno per farne qualcosa, per farne emergere, attraverso un percorso teoretico, il senso etico. Prendiamo l’argomento (esprimiamoci così per capire meglio il nostro proposito) della “necessità del separatore”: se ci sono due cose sarà necessaria una terza che le distingua e così via, all’infinito. Mentre la metafisica non sa che ripetere l’aporia mettendo un fine (o un principio; è la soluzione di Aristotele) al regresso, oppure consegnandosi all’irrazionalismo per l’impossibilità di risolvere razionalmente la questione, Derrida avrebbe ben altri argomenti da opporre: ciò che va decostruito, potrebbe rispondere, è la stessa nozione di distinzione essenziale. Zenone ha mostrato appunto l’infondatezza della distinzione; ossia, come dicevamo, che non c’è un fondamento ulteriore su cui si basa la differenza. È inutile, argomenterebbe Derrida, cercare sempre un’ulteriore essere che distingue (il “separatore”): la differenza non è una cosa ma un evento, non bisogna cercare un fondamento oltre la differenza. Parmenide ci fa pensare che ciò che è differente da essere non esiste; ma è la differenza che fa apparire l’essere. Non si possono porre distinzioni essenziali, perché porre distinzioni essenziali presuppone il tentativo di «far derivare la differenza»: ciò che è primario è l’evento della differenza che fa apparire gli opposti, non due essenze differenti (ci vorrebbe sempre un “terzo uomo” che ne incarni la somiglianza o la differenza), o un’essenza che solo poi differisce. Anche l’argomento della freccia potrebbe essere affrontato con grande interesse nella prospettiva derridiana. Oltre alle interessanti osservazioni che si potrebbero fare in merito alla concezione del tempo come formato da una successione di attimi presenti (di “ora”, nyn), si potrebbe articolare una riflessione sulla fenomenologia del tempo. Ci si potrebbe chiedere infatti: poniamo, secondo il ragionamento di Zenone, che la freccia sia ferma nell’istante t=2. Esiste qualcosa che sia esattamente due secondi o anche un punto ben preciso? Come scrive Mazur, noi «sappiamo che se veramente vogliamo fare una fotografia della freccia in t=2, dobbiamo tenere l’otturatore della macchina fotografica aperto per un intervallo di tempo nell’intorno di t=2. Ma l’otturatore non può essere aperto e chiuso nello stesso istante» J. Mazur, Achille e la tartaruga, cit., p. 33.. Il tempo è sempre misurato come discreto (come l’intervallo scandito fra due segnali che si ripetono: sempre in un’iterazione, nel fenomeno di un “eccolo di nuovo”), ma lo pensiamo come qualcosa di continuo, che c’era già prima e che c’è “in mezzo” ai due segnali. È una retroflessione che abbiamo già visto all’opera nella formazione delle idealità: la rappresentazione (ripresentazione) non si aggiunge in un secondo momento ad un senso presente a sé stesso, ma lo costituisce. Come scriveva Derrida nell’Introduzione a L’Origine della Geometria, è solo per «una sorta di finzione» e solo dopo l’iterazione che possiamo pensare l’evidenza del senso come qualcosa che stava già prima, che sarebbe poi libero di ri-presentarsi. Ma alla luce di ciò non possiamo fraintendere il discorso fatto fin qui: non è che prima c’era l’evento e poi la ragione finita che, purtroppo, non riesce a definirlo. L’evento, la sua radicale inappropriabilità, si dà solo per differenza da questo scacco della ragione: l’evento pensato come impossibile e la ragione che lo pensa sono a loro volta un unico evento. È solo attraverso l’impossibilità per la ragione di ricostruire l’evento o di ridurlo alle condizioni di possibilità che l’evento ci si dà nell’esperienza dell’impossibile, come ciò che era già lì, immediato, irraggiungibile attraverso le mediazioni del segno. È un rapporto a spirale quello fra l’evento e il senso: questa spirale, questa Rückfrage è l’evento stesso, l’evento del senso e il modo razionalmente più alto di pensarlo, di pensare il movimento. Quando Zenone pensa che il movimento è impossibile pensa che l’evento è l’impossibile. Non accade altro che quello, ma se cerchi di ricostruirlo con la ragione non ci arrivi mai, come il valente e presuntuoso Achille non raggiungerà mai la banale placidità della tartaruga. L’impossibile a cui giunge la ragione al suo limite non è altro che l’inappropriabilità dell’evento: quella inappropriabilità che è ben descritta dalla insensata (perché viene prima del senso) lentezza e impenetrabilità “animale” della tartaruga (quando si tratta dei greci, è difficile pensare che l’esempio sia casuale; l’aporia può essere letta anche come un’allegoria del movimento della ragione). L’unico modo per la ragione (per l’umano) di riconquistare la spontaneità “animale” (l’evento) è reinscriversi, attraverso la ragione, nel suo stesso evento, sempre di nuovo (immer wieder). La ricostruzione razionale non arriverà mai a coincidere con l’evento in quanto essa stessa è un evento: pensare questo, percorrerlo in lungo e in largo, è il più alto esercizio di razionalità che si possa tentare. Altro che nichilismo. Il destino di Achille può essere visto anche come la metafora (ma è ben più che una metafora, è la dimostrazione) del fatto che nessun compito razionale, se è razionale, può mai giungere a termine. Lo diceva Nietzsche, se il movimento del mondo (l’evento) avesse un fine lo avrebbe già raggiunto: è l’assenza di fini, l’inappropriabile gratuità dell’evento a permettere la teleologia della ragione, il suo non avere fine. Ancora una volta il compito infinito di Husserl e il differimento infinito di Derrida trovano un punto di incontro che riapre la filosofia al suo a venire. Epilogo Alla fine del nostro percorso decostruttivo attraverso i paradossi di Zenone è questo ciò che ci è sembrato venire in luce: il nesso essenziale tra assenza di fini dell’evento e teleologia della ragione. È l’assenza di fini dell’evento che permette la teleologia della ragione (ovvero la rende possibile e, al contempo, impossibile, cioè mai conclusa): è necessaria la radicale gratuità dell’evento, la mancanza assoluta di un fondamento inconcusso, perché si diano fini autenticamente razionali, perché la ragione sia quel compito infinito che dà senso alla vita di tutti noi. È questo l’estremo paradosso. In questo senso l’impossibile è quanto mai lontano da un’ideale regolatore già dato, da un Telos pre-garantito, che neutralizzerebbe ogni possibilità rendendo la storia nient’altro che un’esplicitazione. Di qui anche la necessaria indefinitezza dell’Idea (che non può essere intuita, in senso fenomenologico; non si può appropriarsene, non si può vedere) che le permette sempre di nuovo di aprire sensi determinati. Qualsiasi fine razionale è autenticamente razionale solo se riconosce la sua finitezza permettendosi di mantenere sempre un rapporto con l’incondizionato (ovvero con ciò che non ha fini che lo condizionino): è questo riferimento al gratuito, all’incondizionato, che permette il venire in luce di un Telos autentico che, nella sua visione più chiara e più alta, si mostra essere nient’altro che coincidente con «l’apertura stessa» che rende possibile ogni fine, non avendo essa alcun fine. È con la posizione della questione dell’evento la ragione giunge alla sua auto-comprensione, ovvero a reinscriversi nel suo stesso evento. A tale esito Derrida è stato condotto dal tentativo di articolare un pensiero della storicità che pensi la storia come tale, nella sua immotivata abissalità, nel suo essere quello che è, ovvero irrudicibile alle sue premesse. Si trattava al contempo però di pensare una storicità delle oggettualità ideali che sfuggisse all’empirismo che «riduce la norma al fatto» e che coinciderebbe, per Husserl come per Derrida, con una non-filosofia, con l’abdicazione di ogni responsabilità filosofica. A nostro avviso il pensiero derridiano dell’evento rappresenta la più matura risposta a questo problema; una risposta che emancipa il problema fenomenologico sia dalla sua ricorrente “auto-neutralizzazione” in cui talvolta Husserl, secondo Derrida, ricade, sia da quella che, ancora in Merleau-Ponty per esempio (ma è un’accusa che è stata rivolta allo stesso Derrida), si configurava ancora come un anelito confuso, in una sorta di “teologia negativa” (non è né empirico né trascendentale); una risposta iperfenomenologica a un problema fenomenologico, l’esito più che mai rigoroso di un discorso sui limiti dell’esperienza e sulle condizioni di possibilità. Pensare che il presentarsi dell’orizzonte trascendentale sia esso stesso un evento significa raggiungere il terreno dell’evento del significato, il terreno che, per Derrida, è proprio di un’indagine rigorosamente filosofica: è questo il terreno che Husserl cercava per poter pensare la storicità assoluta nello iato irriducibile fra «i due spettri della fenomenologia», al di là cioè di ogni empirismo (il fatto viene prima del senso) e di ogni platonismo (il senso viene prima del fatto), quel terreno in cui Fatto e Senso coincidono differenziandosi e che siamo soliti chiamare Assoluto. La solidarietà di empirismo e platonismo, il loro nesso differenziale che avvolge il pensiero nella virtuosa spirale di una sempre rinascente Rückfrage, è ciò che rende possibile la determinazione correlativa del fatto e del senso (per determinare il senso devo partire dal fatto e per determinare il fatto devo presupporre un senso già costituito), ma al contempo mostra l’impossibilità di portare alle estreme conseguenze tanto un empirismo quanto un platonismo (l’esperienza dell’impossibile a cui essi giungono al fondo del loro discorso). Si tratta allora secondo Derrida di abitare questo iato: la filosofia è l’esercizio di abitare questo punto di esaurimento, perché l’evento della differenza continui ad accadere e ad essere riconosciuto e vissuto. Tracciare sempre di nuovo nel corpo della scrittura la possibilità del significato, senza pretendere di dominare la loro differenza, ma vivendola, facendo esperienza dell’impossibile. Tuttavia per Derrida non si tratta di saltare fuori dalla filosofia per ridursi al misticismo o al silenzio: il suo discorso sulle condizioni di possibilità come condizioni di impossibilità è il tentativo iper-razionalista di non abbandonare all’irrazionalismo o all’empirismo quei problemi che sono fondamentali per un’umanità autentica (come diceva Husserl) evitando il collasso nichilista dell’apertura differenziale e mantenendo così l’apertura a un avvenire. La decostruzione è sin dall’inizio un’etica: la différance è fin dall’inizio la questione dell’evento e la frequentazione di quel legame con l’incondizionato che permette l’avvenire del senso. Solo esponendosi sempre di nuovo all’evento del senso è possibile ritrovare il senso dell’evento, secondo il movimento di quella Rückfrage che giunge al suo limite a ciò che Husserl definiva Ursprungsechtheit, cioè «quell’aderenza ultima e autentica alla propria origine che, una volta penetrata, lega a sé apoditticamente la volontà». La decostruzione è appunto un ethos di ospitalità incondizionata all'evento del senso, colto e accolto nella sua evenemenzialità e gratuità, al di là dei sensi storici e determinati che può assumere (ma anche attraverso questi: oltrepassandoli), ossia al di là del possibile e delle condizioni di possibilità in un gesto di ospitalità iperbolica, in questo senso impossibile, ma anche e allo stesso tempo l'unico possibile. Decostruire la metafisica, fin dall'inizio, non significava per Derrida demolire la filosofia, ma lavorare per portare alla luce ciò che non si lasciava configurare in essa, ciò che restava altro e a-venire. Derrida non ha fatto che rilanciare le aspirazioni della filosofia, non volendo cedere all'irrazionalismo da una parte, né a un mero empirismo dall'altra. Essi sono come la morte e il diavolo che sempre minacciano il cammino del cavaliere-filosofo (è l’immagine di Albrecht Dürer che Husserl teneva nel suo studio): l'irrazionalismo in quanto è una negazione tout court della filosofia e delle sue istanze, e non può che portare a quella bancarotta della verità, dell'etica, della giustizia che ha spesso avallato le peggiori aberrazioni; ma anche un empirismo che rifiuta di confrontarsi con l'impossibile sarebbe un'abdicazione, si ridurrebbe a un pensiero puramente calcolante incapace di fare i conti con ciò che pure lo eccede e lo rende possibile, ma anche impossibile come tale, ossia come conchiuso in se stesso senza riferimento al suo limite, a ciò che lo eccede. Derrida è sempre stato ed è sempre rimasto un razionalista: solo che ha sempre considerato la ragione non come un presupposto ma come un compito (impossibile) e non ha mai temuto di esporre la ragione al suo altro e al suo limite, ma si è proposto consapevolmente di abitare e interrogare tale limite. Solo così il pensiero dell'evento derridiano e il discorso sulle sue condizioni di (im)possibilità permettono di conservare la possibilità di trattare con rigore filosofico quei temi etici, politici e giuridici che per principio cadono al di fuori di ogni positivismo empirista, la cui ragione calcolante si applica solo a questioni 'interne' e mai a quelle che si situano al limite. La nostra stessa possibilità coincide con l'essere affidati a un destino di impossibilità. Siamo affidati al destino di abitare uno scarto incolmabile; il che è come dire che la nascita ci affida a un destino di morte; ma non può che essere così se vogliamo che continui a esserci nascita. Nel momento in cui diventasse possibile l'adeguazione totale nulla sarebbe più possibile; se il possibile non riposasse nell'impossibilità allora sì che l'esperienza sarebbe impossibile; al contrario ogni esperienza, per essere possibile, per poter essere messa in moto, non può che essere esperienza dell'impossibile, esperienza dell'incolmabilità, della finitezza la cui cifra è però l'incondizionato: infatti «se per l'ermeneutica la condizionatezza è la cifra del finito, per la decostruzione derridiana la cifra del finito è, si potrebbe dire, l'incondizionato, l'impossibile, l'evento, la différance» C. Di Martino, Oltre il segno, op. cit., p. 167.. Dunque anche la questione dei valori, della morale ecc., che si sono sempre voluti fondare in un fondamento ontologico identico a sé e che sono sembrati venir meno nel momento della 'morte di Dio', cambia del tutto di segno. Se l'incondizionato è la cifra della finitezza, se la finitezza è l'esperienza aporetica dell'incondizionato, l'unico valore per cui vale la pena di sacrificare la vita è la vita stessa, ossia vale la pena di sacrificarsi solo affinché l'evento possa ancora aver luogo, perché ci sia ancora vita, affinché la finitezza, ossia l'esperienza dell'incondizionato, sia sempre possibile (affinché l'impossibilità sia sempre possibile si potrebbe dire; o affinché il possibile sia sempre impossibile), affinché una nuova nascita possa sempre di nuovo dare speranza, e scardinare con la sua alterità irriducibile ogni sistema del proprio, dell'identico, che altrimenti si avvierebbe alla sua morte. Difficile non pensare qui alla venuta di Cristo che, col suo sacrificio alla vita e per la vita, col suo gesto di perdono incondizionato che perdona l'imperdonabile, è l'emblema (o, senz’altro, l'incarnazione) dell'evento, di una nascita che viene a disaggiustare con la sua alterità un sistema che si credeva in sé concluso e coerente (e appunto perciò si avviava a concludersi e a morire) e in tal modo ridona slancio, possibilità, avvenire. Solo che quello di Derrida è un messianismo senza messia, che non aspetta qualcosa di già deciso, non dà un nome all'altro per appropriarsene, che non si aspetta se non ciò che non si aspetta e non idolatra una determinata figura dell'evento, perché l'evento è proprio l'alterità irriducibile che non si trova mai dove ci si aspetta di trovarla e che non si può rinchiudere in un nome per poterla controllare: a questo allude l'episodio del Vangelo di Luca sui Discepoli di Emmaus, riportato in esergo al libro di Caterina Resta L'evento dell'altro, in cui i discepoli sono increduli perché hanno trovato il sepolcro vuoto C. Resta, L'evento dell'altro, cit., pp. 9-11. L’episodio è ritratto in un noto quadro di Caravaggio: la versione più famosa è conservata alla National Gallery di Londra, ma ve n’è un’altra, più intima ed essenziale, conservata alla Pinacoteca di Brera. . Le loro menti sono tanto abbacinate dall'immagine di quel sepolcro vuoto (dal ‘segno’ svuotato dalla presenza a sé dello Spirito che tanto angustiava Husserl) che non riescono a vedere che lo Straniero in cui si sono imbattuti, e che li invita ad attendere con fiducia la risurrezione, è proprio il Messia risorto che tanto desiderano di poter vedere e toccare. È sotto i loro occhi ma non lo vedono. Tuttavia gli offrono ospitalità, un'ospitalità senza condizioni, senza neppure chiedergli il nome (ovvero senza imporgli la violenza del nome e della nominazione come appropriazione). Ed è allora che lo riconoscono e riescono a vedere nello Straniero che ripete i gesti dell'Ultima cena, spezzando il pane e dividendolo fra i presenti, il loro Maestro. Ma proprio nel momento in cui lo riconoscono e lo nominano «egli divenne a loro invisibile». I discepoli si sono fissati feticisticamente sul sepolcro e sulla lettera della Parola; così non sanno vedere nello Straniero, nell'altro, in chiunque altro a cui offrono ospitalità incondizionata, quel che hanno sempre atteso e desiderato ma che hanno superstiziosamente e feticisticamente cercato in una presenza identica a sé o in una parola conclusiva. E non appena lo cristallizzano in una parola o in uno schema o credono di averlo ben presente, quello che cercano diviene invisibile e sfugge di nuovo. Quello che cercano si ritrova in un gesto spontaneo di ospitalità, un gesto a cui nemmeno fanno caso, compiuto nell'oblio assoluto che si dimentica di sé mentre offre e si offre all'altro; quello che cercano non si trova in una cosa o in una parola (queste non sono che effetti allucinatori di una pratica oggettivante), ma accade ogni volta che sappiamo accogliere l'altro e ci facciamo «risvegliare a noi stessi» Ivi, p. 10. dalla carica di imprevedibilità che egli porta con sé. Ringraziamenti Vorrei ringraziare il mio maestro, prof. Mauro Mocchi, per aver acceso in me la fiamma della filosofia e per il suo esempio vivente. Ringrazio inoltre il prof. Di Martino per avermi introdotto al pensiero di Derrida secondo la chiave del suo senso etico profondo, che a molti è sfuggito e sfugge tuttora. Nota bibliografica Opere di Derrida: Introduction à L’Origine de la Géométrie de Husserl, PUF, Paris 1962; tr. it. di C. Di Martino, Introduzione a L’Origine della Geometria di Husserl, Jaca Book, Milano 2008 Phänomenolgische Psychologie, de E. Husserl, in «Les ètudes philosophiques», n 2, 1963, aprile-giugno La voix et le phénomen, Presses Universitaires de Frances, Paris 1967, trad. it. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 2010 L’ecriture et la différence, Le Seuil, Paris 1967, tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002 De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; trad. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. 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