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Verso una svolta teologica della fenomenologia ? Orientamenti Vittorio Perego 1. L’ipotesi di una «fenomenologia dell’inapparente». Se la fenomenologia è la storia delle eresie che si sono prodotte a partire dai testi husserliani, questa relazione vuole prendere in considerazione uno degli ultimi capitoli, vale a dire il dibattito sorto all’interno della filosofia francese negli anni Novanta a proposito di una presunta «svolta teologica» della fenomenologia francese. L’origine che sta alla base di questo dibattito risiede nel volume di D. Janicaud pubblicato nel 1990 Le tournant théologique de la phénoménologie française1, in cui si individua nella rottura con la fenomenalità immanente il tratto caratteristico che contraddistingue la fenomenologia francese contemporanea, i cui esponenti più significativi sono Michel Henry e JeanLuc Marion, rispetto alla prima ricezione di Husserl e di Heidegger condotta da parte di Sartre e Merleau-Ponty. Questa rottura con il piano di immanenza è accompagnata dall’«apertura all’invisibile, all’Altro, a una donazione pura o ad una “archi-rivelazione”»2. Nella filosofia francese la prima ricezione del metodo fenomenologico da parte di Sartre e Merleau-Ponty assume innanzitutto una valenza indubbiamente anti-idealista. L’intenzionalità viene vista come la soluzione che consente di superare la dualità soggetto-oggetto, lasciata in eredità dalla gnoseologia moderna. In questo senso il cogito perde ogni presunta purezza e appare come già da sempre correlato intenzionalmente a qualcosa d’altro. Certo la proposta husserliana non è immune dal ricostituire un idealismo trascendentale, e ciò viene giudicato come il persistere in Husserl di una tensione kantiana irrisolta. In ogni caso la fenomenologia apre un campo di ricerca estremamente produttivo che consente di restituire piena dignità filosofica al concreto in tutte le sue molteplici manifestazioni. Il ritorno «alle cose stesse» si presenta come la possibilità di portare a tema fenomeni quali l’alterità, la corporeità, la dimensione affettiva. Se Sartre successivamente abbandona la ricerca fenomenologica, Merleau-Ponty vi resta fedele; anche se in Le visibile e l’invisible si assiste ad uno spostamento di accento significativo. Oggetto della riflessione diventa ciò che sfugge ad ogni orizzonte di visibilità, e che nondimeno si inscrive nel visibile. Secondo Janicaud, non si tratta ancora di una rottura dei confini entro cui si muove il metodo fenomenologico, vale a dire il campo di fenomenalità che appare alla coscienza, in quanto l’invisibilità che viene intenzionata è sempre legata al visibile: per Merleau-Ponty, «l’idea è questo livello, questa dimensione, e quindi non un invisibile di fatto, come un oggetto nascosto dietro un altro, non un invisibile assoluto, che non avrebbe niente a che fare con il visibile, ma l’invisibile di questo mondo, quello che lo abita, lo sostiene e lo rende visibile» 3. È nella proposta teorica di Lévinas che secondo Janicaud si realizza la prima rottura dell’orizzonte intenzionale a vantaggio dell’affermazione di una trascendenza assoluta. In Totalità e infinito si assiste alla tematizzazione di un’alterità non riconducibile ad alcuna intenzionalità, che «suppone un montaggio metafisico-teologico preliminare alla scrittura filosofica»4. In questo senso Sartre e Merleau-Ponty, tenuto conto della loro personale appropriazione delle prescrizioni metodologiche husserliane, quanto meno erano rimasti fedeli al fondamentale principio, secondo cui l’immanenza fenomenale, ottenuta mediante la riduzione è l’orizzonte dell’indagine fenomenologica; ogni trascendenza intenzionale deve attestarsi nel vissuto della coscienza per poter essere presa in considerazione. Al contrario, in Lévinas si assiste ad una distorsione e ad un rifiuto della fenomenologia come metodo: l’esteriorità, l’esperienza assoluta, si configura come «pura», non costituita dalla coscienza, ma – si chiede Janicaud - «la nozione di “esperienza assoluta” è ammissibile ? […] Come l’esteriorità può essere pura, se è presente?» 5. In questo senso le analisi fenomenologiche presenti in Totalità e infinito non hanno nessun legame con le procedure metodologiche husserliane, più che con descrizioni fenomenologiche abbiamo a che fare con «incantesimi metafisici». Lapidario è il giudizio di Janicaud: «la fenomenologia è stata presa in ostaggio da una teologia che non vuole dire il suo nome» 6. Tutte le correlazioni noetico-noematiche sono espropriate da una trascendenza assolutamente altra e non attestabile fenomenologicamente. Questo slittamento della fenomenologia verso un’opzione metafisica è verificabile anche per la rinuncia alla neutralità delle descrizioni, regola fondamentale a cui Husserl è rimasto sempre fedele: la L’éclat, Combas 1990. Ivi, p. 8. Su i temi trattati nel presente articolo si veda V. Perego, La fenomenologia francese tra metafisica e ontologia, Vita e Pensiero, Milano 2004. 3 M. Merleau-Ponty, Le visibile et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, tr. it. di A. Bonomi, a cura di M. Carbone, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1999, p. 166. 4 D. Janicaud, Le tournanat théologique de la phénoménologie…, cit., p. 15. 5 Ivi, p. 31. 6 Ibidem. 1 2 1 neutralità del fenomenologo e la dipendenza esclusivamente alle procedure fissate sono la garanzia di un’apertura alla cosa stessa. In Lévinas l’altro è subito enfatizzato nell’Altro: «il Desiderio è immediatamente maiuscolizzato, enfatico fino all’estremo. In virtù di quale esperienza? Evidentemente metafisica. Questa circolarità è forse ermeneutica, certamente non fenomenologica»7. Secondo Janicaud, Totalità e infinito è la prima opera che attesta questa «svolta teologica» della fenomenologia francese. Qual è la base d’appoggio a partire dalla quale questa «svolta teologica» della fenomenologia francese possa essere legittimata ? Janicaud ritiene che il punto di riferimento di questi tentativi vada individuato nell’espressione programmatica «fenomenologia dell’inapparente», che Heidegger utilizza nel seminario di Zähringen del 1973 8. Sollecitato da una domanda di Jean Beaufret sull’assenza della Seinsfrage nella riflessione di Husserl, Heidegger sottolinea come nella fenomenologia husserliana l’essere sia inteso come un dato oggettivo. Di conseguenza la verità dell’essere, che Heidegger si sforza di pensare fin dall’inizio del suo cammino, può essere qualificata come «inapparente», in quanto si sottrae all’intenzionalità della coscienza e quindi alla sua comprensione nell’orizzonte della metafisica. Se quindi «inapparente» all’interno di questo contesto problematico può avere senso, risulta alquanto difficile da comprendere il riferimento alla fenomenologia. L’ultima fase del Denkweg heideggeriano può ancora essere qualificato come «fenomenologico»? Janicaud risponde negativamente a questo interrogativo, e giustifica il richiamo di Heidegger alla fenomenologia come il tentativo di presentare una certa continuità nel suo cammino rispetto alla sua ispirazione originaria. Le riflessioni del secondo Heidegger non hanno più nulla a che fare con l’intenzionalità, la riduzione, la costituzione trascendentale e sono al limite interessate, in una certa fase, a mostrare l’intrinseca dimensione metafisica della fenomenologia. L’abbandono di ogni fenomeno in concomitanza con la svolta (Kehre) procede con l’abbandono del metodo fenomenologico. In questo senso, per Janicaud «fenomenologia dell’inapparente», dal punto di vista rigorosamente husserliano, è una contraddizione in termini. Tuttavia se la qualifica di fenomenologia riferita alla riflessione del secondo Heidegger è qualcosa di estemporaneo e non pertinente, alcuni aspetti del suo pensiero a partire dagli anni Trenta, dedicati al sacro e ai commenti a Hölderlin, hanno indubbiamente condizionato e influenzato il «tournant théologique» francese: «senza la Kehre di Heidegger, nessuna svolta teologica»9. In definitiva, Janicaud vuole sottolineare che la risalita verso l’originario da parte di Heidegger coincide con il consapevole abbandono del metodo fenomenologico; al contrario, e in questo risiede la sua obiezione di fondo, i rappresentanti del «tournant théologique» avanzano la pretesa di essere fedeli alla fenomenologia e alle sue procedure metodologiche. Questa fedeltà alla fenomenologia è testimoniata dal fatto che Marion e Henry, ma anche Lévinas vogliono riprendere istanze presenti nei testi husserliani e radicalizzarli prescindendo dallo sviluppo ontologico intrapreso da Heidegger, che viene valutato come una dissoluzione della originalità della fenomenologia. In questi autori vediamo, quindi, all’opera una sorta di «ritorno a Husserl», guidato tuttavia dall’intento di liberare il metodo fenomenologico dai presupposti gnoseologici che legano la fenomenologia alla metafisica moderna. La radicalizzazione della fenomenologia husserliana viene giustificata dalla peculiarità e singolarità dell’ambito di esperienza preso in esame: non si tratta di meri fenomeni, ma dell’Altro come dimensione originaria (Lévinas), della donazione come struttura trascendentale dell’esperienza (Marion), dell’auto-rivelazione patica della vita divina (Henry). In questo senso la fenomenologia husserliana viene spinta ai limiti del proprio legittimo esercizio, fino ad interrogarsi sul darsi di qualcosa che propriamente non è più un «fenomeno». Ciò viene attestato dall’esigenza in Lévinas di interrompere la fenomenologia, perché non è possibile una fenomenologia del volto d’altri, e in Marion dall’introduzione della tipologia dei «fenomeni saturi». 2. Lévinas e Henry di fronte a Husserl. É quanto mai opportuno presentare un esempio di appropriazione e radicalizzazione della fenomenologia husserliana da parte di due protagonisti di questa “svolta”, le cui filosofie sono sicuramente divergenti. Infatti la comune appartenenza alla corrente fenomenologica consente di approfondire le posizioni di Lévinas e di Henry in relazione alla filosofia di Husserl, che resta normativa rispetto ad ogni posizione che si qualifichi come fenomenologica. Mentre la genesi del pensiero di Lévinas è strettamente correlata all’analisi e all’interpretazione dei testi husserliani, Henry solo recentemente ha sviluppato un confronto sistematico con la fenomenologia husserliana. Infatti, benché L’essence de la manifestation si qualifichi come riflessione fenomenologica, i riferimenti a Husserl sono generici e non permettono di comprendere fino a che punto Henry segua Husserl e quali specifiche obbiezioni ponga al fondatore della fenomenologia. Tutto ciò avviene, invece, in un libro pubblicato nel 1990 dal titolo Fenomenologia materiale. Per far emergere i rapporti di Lévinas e Henry con la fenomenologia husserliana, e per approfondire così le loro posizioni, facciamo riferimento alla specifica interpretazione che hanno offerto di un testo estremamente significativo della 7 Ivi, p. 16. M. Heidegger, Vier Seminare, Klostermann, Frankfurt 1986, tr. it. di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Seminari, Adelphi, Milano 1992, p. 179. 9 D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie…, cit., p. 19. 8 2 produzione di Husserl, vale a dire le Lezioni sulla coscienza interna del tempo del 190510. Si tratta di un testo nel quale proprio per lo specifico tema affrontato, emergono nodi teoretici che indubbiamente hanno sollecitato le riflessioni dei due filosofi francesi. Le Lezioni sono un approfondimento di un tema lasciato in sospeso nelle Ricerche logiche: il carattere «costituito» dei dati hyletici. Nelle Ricerche logiche Husserl mostra come i contenuti di sensazione non sono semplicemente dati, ma sono appresi attraverso un atto – un vissuto – che ha il carattere di renderli significativi. I dati di sensazione diventano un «oggetto percepito» mediante l’apprensione, o appercezione. Ora, secondo Husserl, questa appercezione è ciò che dà un significato specifico ai contenuti sensoriali, «l’appercezione è per noi l’eccedenza che sussiste nel vissuto stesso, nel suo contenuto descrittivo, di fronte all’informe esserci della sensazione, si tratta del carattere d’atto che, per così dire, anima la sensazione e per sua essenza fa sì che noi percepiamo questa o quella oggettualità, ad esempio, vediamo questo albero, udiamo quel tintinnio, sentiamo il profumo dei fiori, ecc.» 11. Questo ordine di questioni trova una propria sistematizzazione nelle Idee12, in cui Husserl qualifica questi singoli aspetti con una terminologia specifica. Il contenuto nel senso dell’oggetto intenzionale (la scatola) viene denominato noema; questo non è un contenuto reale (reell) del vissuto, non è effettivamente immanente al vissuto, bensì solo intenzionalmente. Invece il contenuto nel senso proprio, il contenuto effettivo del vissuto viene pensato nelle due dimensioni che sono la noesi, la morphé – l’appercezione che anima la sensazione – e appunto il contenuto sensibile, la hyle, che è inclusa nella morphé. Quindi hyle e morphé sono contenuti reali del vissuto; ma, mentre la hyle è, per così dire, la sensazione bruta e quindi non è intenzionale, la morphé è la componente intenzionale del vissuto. Il noema, che non è un componente reale del vissuto, si costituisce proprio attraverso la hyle sensoriale e la morphé (noesi) intenzionale. 2.1. Lévinas: l’Urimpression come trascendenza assoluta. Il rapporto tra hyle sensuale e morphé intenzionale genera una serie di problemi di non facile soluzione, di cui anche Lévinas nel suo studio La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl sembra rendersi conto. Infatti, si tratta di chiarire lo statuto di questi vissuti reali ma non intenzionali, che costituiscono ogni percezione, tenendo presente che, da una parte essi sono immanenti alla coscienza – sono contenuti reali, mentre l’oggetto percepito è trascendente -, dall’altra non sono intenzionali. La questione che sorge è la seguente: come possono essere un vissuto prima di essere «animati dall’intenzionalità»? Un vissuto non intenzionale è concepibile nell’impianto fenomenologico husserliano? Tale tensione emerge chiaramente proprio nelle Lezioni sulla coscienza interna del tempo. Il filo conduttore che guida Husserl nella sua indagine è l’analisi di un oggetto temporale, che è un oggetto che include in se stesso una durata, una estensione temporale, come per esempio una melodia. La melodia percepita è l’oggetto temporale trascendente, che non fa parte realmente della coscienza, ma che si costituisce a partire dai vissuti intenzionali immanenti alla coscienza, che a loro volta sono temporali. Ciò significa che se l’oggetto trascendente - il suono della melodia – si costituisce attraverso l’oggetto immanente, vale a dire il suono della melodia appreso nella sua durata nei singoli vissuti, ne consegue che per chiarire il problema della costituzione temporale è necessario approfondire la struttura di questi vissuti immanenti. A questo proposito Husserl osserva che l’apprensione della durata di un suono deve essere intesa come un sentire (Empfindnis), mentre l’apprensione del suono – oggetto trascendente – come percezione. Come abbiamo già ricordato i vissuti sono costituiti dall’apprensione intenzionale (morphé) che «anima» il contenuto sensoriale (hyle); Husserl ritiene che l’origine fenomenologica della temporalità vada ricercata nella dimensione hyletica, vale a dire nella sensazione del suono che sta risuonando. Si tratta dell’impressione originaria (Urimpression), che tuttavia secondo Husserl non è in grado da sola di rendere ragione della continuità di una melodia ascoltata. Infatti, la possibilità di percepire una melodia risiede nel fatto che la mia coscienza abbia presente (senta) non solo il suono in atto, ma anche, in qualche modo, il suono passato e quello futuro. Dal punto di vista strettamente fenomenologico la conservazione del suono passato – la ritenzione – e l’anticipazione di quello futuro – la protenzione – non sono reali, e tuttavia essi sono il modo in cui la melodia viene appresa, percepita come melodia. Quindi l’impressione originaria (Urimpression) è in qualche modo indissociabile dalla ritenzione, nel senso che è grazie alla ritenzione che l’Urimpression entra in relazione con gli istanti precedenti costituendo un flusso omogeneo, pur nella continua successione degli istanti. In altri termini, la ritenzione è la condizione di possibilità dell’apparire dell’impressione originaria. Ora in questa struttura della coscienza interna del tempo Lévinas vede una 10 Pubblicate con altri materiali in E. Husserl, Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), a cura di R. Boehm, Husserliana, vol. X, Nijhoff, Den Haag 1966, tr. it. di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Franco Angeli, Milano 1985, pp. 37-160. 11 Ivi, p. 174. 12 Id., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, a cura di K. Schuhmann, Husserliana, vol. III, Nijhoff, Den Haag, 1976, tr. it. di V. Costa, a cura di E. Franzini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, Libro primo, Einaudi, Torino 2002, pp. 213-217 (paragrafo 85). 3 presenza che è sempre abitata da un’assenza, da una alterità. Infatti, l’impressione originaria non è mai coincidente con se stessa, ma sempre in transizione; Lévinas parla a questo proposito di scarto, di differenza: «lo scarto è ritenzione e la ritenzione è scarto»13. Certo la ritenzione è una intenzionalità, e tuttavia Lévinas vuole richiamare il fatto che si tratta di una intenzionalità particolare, una specie di pre-intenzionalità: «l’analisi del tempo della coscienza e della coscienza del tempo fa intervenire l’intenzionalità della protenzione e della ritenzione. Quest’ultima, a differenza del ricordo o della speranza, non è un’intenzione oggettivante. L’istante ritenuto o pro-tenuto, non è affatto pensato. Il “ritenente” o il “protenente” non rimangono immobili come nell’intenzione oggettivante; seguono ciò verso cui si trascendono e vengono determinati da ciò che ritengono o che pro-tengono»14. È possibile considerare la ritenzione-protenzione una dimensione non intenzionale ? Non si rischia di andare contro i testi husserliani nel caratterizzare in termini di scarto la sfasatura tra Urimpression e intenzionalità ? Husserl stesso parla della ritenzione come di una intenzionalità e tuttavia di una «intenzionalità sui generis»15; a questo proposito distingue il ricordo primario – la ritenzione -, dal ricordo secondario, la rimmemorazione o ri-presentazione. Il primo garantisce solo la continuità del flusso, è pre-oggettivo e Husserl lo caratterizza come «una coda di cometa che si associa via via alla percezione» 16. Il tema dello scarto, dell’alterità, della non presenza a sé della coscienza trova un’importante base d’appoggio nell’Appendice IX delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo. In queste pagine Husserl, dopo aver ribadito la specificità dell’intenzionalità ritenzionale, si pone il problema della fase iniziale di un vissuto che si costituisce, cioè della possibilità di pensare allo statuto della Urimpression considerata prima della sua modificazione ritenzionale. Infatti, la Urimpression non è un contenuto di sensazione che riempie una intenzionalità precedentemente data, ma si configura come una novità, altrimenti non potremmo percepire la variazione di note di una melodia o l’interruzionecominciamento di un suono. Certo, ogni Urimpression viene ricompresa ritenzionalmente, tuttavia resta da chiarire il senso dell’impressione originaria priva di ritenzione, appunto perché essa non coincide con la ritenzione 17, ma è ciò su cui interviene la ritenzione. Così Husserl affronta questo ordine di problemi: «che ne è della fase iniziale di un vissuto che si costituisce ? Viene anch’essa a datità solo in base alla ritenzione, e sarebbe “inconscia” se non vi si allacciasse alcuna ritenzione ? Al che bisogna rispondere: la fase iniziale può diventare oggetto solo dopo essere decorsa nel modo indicato, per mezzo di ritenzione e riflessione (o riproduzione). Ma se se ne avesse coscienza solo per mezzo della ritenzione, resterebbe incomprensibile da che cosa le sia conferito il carattere di “ora”»18. Ciò significa che, in linea teorica e solo in linea teorica, si può separare la Urimpression dalla ritenzione, in quanto la ritenzione è l’unico modo in cui può venire a presenza, darsi l’impressione originaria. Questa è senza dubbio originaria rispetto alla ritenzione, e tuttavia lo è in modo «inconscio». È il paradosso di una presenza che è originariamente un’assenza, di una coscienza (del presente) in primis «incosciente», di una coscienza che è coscienza solo nella ritenzione, quindi come già passata. Così Lévinas registra questa situazione: «la coscienza del tempo non è una riflessione sul tempo, ma la temporalizzazione stessa: il dopo della presa di coscienza è il dopo del tempo stesso»19. Dire che la coscienza della Urimpression è tale solo nella ritenzione significa che la coscienza impressionale non coincide con l’impressione originaria, «la coscienza è in ritardo su se stessa»20; in altri termini, l’Urimpression è l’alterità e la coscienza si dà solo come attestazione dell’alterità o, analogamente, la coscienza della presenza è non-coscienza. In definitiva la coscienza che misura l’alterità è ciò che si origina grazie all’alterità; Lévinas riassume efficacemente la sua posizione affermando che «lo sguardo che constata lo scarto è lo scarto stesso»21. Che la coscienza interna del tempo sia abitata da una alterità e sia non-coscienza, è ciò che Husserl intravede nella descrizione fenomenologica, ma che non può accettare. Dal suo punto di vista, «è infatti un assurdo parlare di un contenuto “inconscio”, che solo in un secondo momento diventerebbe conscio. Coscienza è necessariamente esser-conscio in ciascuna delle sue fasi»22. Accanto allo scarto della ritenzione vi è nelle Lezioni husserliane sul tempo lo scarto in seno all’Urimpression, al quale Lévinas riconoscerà sempre una certa fecondità. Nell’impressione originaria il nostro filosofo vede l’assoluta novità, l’istante irriducibile al flusso, la dimensione escatologica: «lo scarto della Urimpression è l’evento, in sé primo, dello scarto della sfasatura»23. In questo senso l’Urimpression viene considerata indipendentemente dalla modificazione ritenzionale, come puro dato hyletico, è sensibile prima di ogni intenzionalità, in essa non è possibile distinguere E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, tr. it di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p. 176. 14 Ivi, pp. 158-159. 15 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza…, cit., Appendice IX, p. 143, ma anche p. 66 16 Ivi, p. 69. 17 «Ogni ritenzione è necessariamente preceduta da un’impressione» (ivi, p. 68). 18 Ivi, p. 144. 19 E. Lévinas, Scoprire l’esistenza…, cit., pp. 175-176. Per un opportuno confronto tra Lévinas e Derrida si veda: V. Perego, Temporalità e responsabilità. Lévinas, Derrida e la fenomenologia husserliana, «Rivista di filosofia neoscolastica», 2-3 (2004), pp. 387-423. 20 E. Lévinas, Scoprire l’esistenza…, cit., p. 177. 21 Ivi, p. 175. 22 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza…, cit., p. 144. 23 E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijoff, La Haye 1974, tr it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1998, p. 175. 13 4 materia e forma, in quanto si dà prima di ogni apprensione intenzionale: «l’imprevedibile novità dei contenuti che sorgono all’interno di questa fonte di ogni coscienza e di ogni essere è creazione originaria (Urzeugung), passaggio dal nulla all’essere […] creazione a cui si addice il nome di attività assoluta, di genesis spontanea»24. Anche in questo caso Lévinas non fa altro che valorizzare una specifica opzione teorica che è presente nei testi husserliani; in particolare nell’Appendice I alle Lezioni Husserl sembra legittimare le riflessioni levinasiane, presentando la Urimpression come fonte e origine del continuum del flusso: «l’impressione originaria è l’assoluto inizio di questa generazione, la fonte originaria, quella da cui tutto il resto costantemente si genera. Essa non viene però prodotta a sua volta, non nasce come qualcosa di generato, ma per genesis spontanea: è genesi originaria»25. Si tratta di una creazione originaria, e non di uno sviluppo: «non ha alcun seme»26. Attraverso questa concezione della proto-impressione come Urquellpunkt non solo viene riaffermata la temporalità originaria come istante escatologico, ma il puro dato hyletico è anche la nascita del soggetto, in quanto il soggetto si individualizza nella sensibilità ante-predicativa. «La sensibilità contrassegna il carattere soggettivo del soggetto, il movimento stesso dell’indietreggiare verso il punto di partenza di ogni accoglimento […], verso il qui e l’ora a partire dai quali tutto si produce per la prima volta. L’Urimpression è l’individuazione del soggetto»27. Nel «qui e ora» dell’impressione originaria l’attività del soggetto (la nascita) si identifica con la passività. Infatti, essendo l’Urimpression l’origine assoluta, l’imprevedibile creazione originaria (Urzeugung), essa non può presupporre nulla, è il cominciamento, non può essere il riempimento (o la delusione) di una intenzionalità già in atto, seppure pre-oggettivamente, come la ritenzione. Tuttavia, per comprendersi come cominciamento, deve essere passiva di sé e, quindi, paradossalmente scarto a sé nell’identità «ricettività di un “altro” che penetra nello “stesso”»28. Auto-affezione che per essere tale deve essere sempre etero-affezione 2.2. Henry: l’Urimpression come immanenza assoluta. La lettura di Michel Henry delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo viene inserita nella prospettiva di una fenomenologia hyletica che egli considera come una premessa della sua posizione filosofica. Nel paragrafo 85 delle Idee Husserl tematizza la possibilità di una fenomenologia hyletica, che dovrebbe prendere in considerazione lo statuto fenomenologico del sostrato hyletico del vissuto, il quale, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, indica il momento materiale reale e si distingue dal momento intenzionale (morphé) che lo anima. Entrambi costituiscono l’aspetto reale dell’esperienza e si distinguono, pur essendone l’origine, dall’aspetto non reale che è il noema. I problemi generati dal rapporto tra hyle materiale e morphé intenzionale non sono di facile soluzione, tenendo conto del fatto che – afferma Husserl - l’«elemento sensoriale, […] non ha in sé alcuna intenzionalità»29. Ma allora i data di sensazione (la hyle) non essendo intenzionali come possono definirsi momenti reali della soggettività? In altri termini, come possono questi dati sensoriali – materiali, impressionali – unirsi e fare un tuttuno (il vissuto) con l’intenzionalità, essendo eterogenei all’intenzionalità? Secondo Henry, Husserl non ha saputo offrire alcuna soluzione accettabile di questo problema. E tuttavia si tratta di un argomento centrale per la fenomenologia, in quanto il sostrato hyletico è costitutivo di ogni noema e quindi ci troviamo di fronte alla costituzione ultima di ogni esperienza. In ultima analisi, il problema verte sull’apparire del materiale sensoriale, impressionale, sulla sua eventuale possibilità di manifestarsi non essendo intenzionale. D’altra parte, se l’intenzionalità finisce con l’agire su qualcosa che la precede e che è in una certa misura indipendente, ne consegue che il modo di apparire della hyle concerne anche l’origine stessa dell’intenzionalità, o, meglio, l’apparire dell’intenzionalità: «in quanto materia fenomenologica dell’atto intenzionale, essa permetterebbe la rivelazione di quest’ultimo»30. Innanzitutto, Henry osserva come in Husserl la difficoltà a risolvere tale questione produca uno slittamento di significato del concetto di materia; tale slittamento finisce con il sostituire la fenomenologia hyletica con una fenomenologia intenzionale e costitutiva. Infatti, all’inizio «materia» indica il sensoriale, la sostanza di cui è fatta l’impressione; data sensibili, momenti hyletici, pura impressione indicano tutti la materia, l’aspetto non intenzionale del vissuto. Nelle analisi husserliane questo primo significato di materia viene sostituito da un altro significato, che si genera proprio dalla sua funzione all’interno della totalità del vissuto noetico. Essa viene quindi intesa come ciò su cui si attuano le funzioni intenzionali, di conseguenza «la materia non è la materia dell’impressione, l’impressionale e l’impressionalità come tali, essa è la materia dell’atto che la informa, una materia per questa Id., Scoprire l’esistenza…, cit., p. 178. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza…, cit., p. 124. 26 Ibidem. 27 E. Lévinas, Scoprire l’esistenza…, cit., p. 134. 28 Ivi, p. 178. 29 E. Husserl, Idee..., cit., p. 213. 30 M. Henry, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000, tr. it. di G. Sansonetti, Incarnazione. Una filosofia della carne, SEI, Torino 2001, p. 56. 24 25 5 forma»31. Non è più la materia impressionale che si dona, che si offre da sé e per quello che è in sé, ma solo ciò che si offre attraverso la morphé intenzionale. In questo modo la hyle cessa di essere compresa in se stessa, come richiederebbe un approccio fenomenologico radicale, bensì viene interpretata nel suo essere materia per una forma. Questa interpretazione del rapporto materia-forma, non è altro che lo schema classico, accettato acriticamente da Husserl, in base al quale la materia in sé non è in grado di rivelarsi, di essere fenomeno e, di conseguenza, richiede una forma, che la illumini, la faccia apparire, la faccia diventare «fenomeno». Ciò significa che l’apparire della hyle può avvenire solo nella trascendenza dell’intenzionalità, nel di-fuori della visibilità, poiché la possibilità di apparire non è inclusa in sé, ma in ciò che è radicalmente altro da sé, appunto la morphé. In altri termini, la hyle per manifestarsi deve trovarsi nell’orizzonte di visibilità della trascendenza, relegando la propria immanenza originaria ad una dimensione di oscurità. Questa insufficienza nell’analisi husserliane appare in tutti i suoi limiti in relazione ai vissuti affettivi e pulsionali. Per rispondere alla questione dell’auto-donazione della hyle dell’impressione, anche Henry non può che volgersi verso le Lezioni sulla coscienza interna del tempo, in cui il tempo viene considerato come la costituzione originaria di ogni esperienza. L’assoluta importanza delle Lezioni sul tempo risiede nella messa in luce di una inversione del rapporto tra materia e forma; infatti, Husserl in alcuni passaggi è condotto ad affermare che l’intenzionalità è rivelata dall’impressione. Secondo Henry, nelle Lezioni, ed è questo il nucleo della sua esegesi, l’impressione non appare più come un dato, ma come ciò che origina l’intenzionalità stessa. In altri termini, la coscienza si rivela essere impressionale, prima che intenzionale. Certamente non tutto lo sviluppo delle Lezioni resta coerente con questa tesi, che portata alle estreme, ma logiche conseguenze, condurrebbe a non vedere più la fenomenologia hyletica, come una mera appendice della fenomenologia trascendentale intenzionale, bensì come la fenomenologia in quanto tale. Nelle Lezioni, secondo Henry, ancor prima di essere sottoposta alla modificazione ritenzionale, l’Urimpression, il puro dato hyletico è già sottomesso all’opera dell’intenzionalità e di conseguenza ha già perso la sua originaria auto-donazione. In altri termini, la coscienza del presente è la prima tappa del processo di travisamento che conduce all’oscuramento del darsi dell’impressionalità originaria: «la coscienza del presente, al pari di ogni coscienza secondo Husserl, porta in sé in quanto intenzionale, e come ciò stesso in cui fa vedere, lo scarto primitivo nel quale, separata da sé, ogni possibile impressione è già annullata»32. Ma se la ritenzione non può produrre l’impressione, in quanto ogni ritenzione per definizione è preceduta da una impressione e la coscienza del presente può, al limite, comprendere l’istante impressionale come un punto ideale, allora resta aperta la questione dell’origine della Urimpression. Henry, riferendosi all’Appendice VI delle Lezioni del 1905, mostra come Husserl sia costretto a sovvertire l’impostazione seguita fino ad affermare che l’Urimpression rivela la coscienza del presente e non è la coscienza del presente a donare l’impressione: «un “ora” si costituisce grazie a un’impressione» 33. L’importanza di tale affermazione consiste nel radicale cambiamento di prospettiva rispetto alla consueta costituzione noetico-noematica che ha guidato Husserl. Se ciò che costituisce (la coscienza del presente) risulta essere ciò che è costituito (l’impressione originaria), significa che la forma (morphé) è costituita dalla materia (hyle), e quindi che l’Urimpression è l’origine dell’intenzionalità stessa. Siamo arrivati al nodo di tutta la questione, in quanto la dimensione hyletica risulta avere una propria capacità di manifestarsi, a tal punto che è essa stessa che rivela l’origine di ogni intenzionalità. La hyle non solo si distingue a livello ideale dalla morphé, ma l’impressione è ciò che la forma deve sempre presupporre e senza la quale non può apparire. Nell’impostazione di Henry la «materia» non è il lato oscuro della fenomenalità, ma la sua essenza. La novità di tale posizione può essere misurata in relazione al puro dato hyletico affettivo. In questo caso infatti si vede come ogni materia affettiva o pulsionale sia in grado di manifestarsi da sé e in se stessa, è auto-donazione e in questa autodonazione si rivela la vita nella sua originarietà. Concretamente ciò significa che ogni stato affettivo, per esempio, il dolore rivela se stesso nell’immediatezza della vita e non richiede nessuna apprensione intenzionale che lo oggettiverebbe in una esteriorità. Ogni affezione è auto-affezione, è il sentire se stessa della vita. La passività della Urimpression non è la passività di fronte a qualcosa di esterno che è altro, ma è l’immanenza originaria, in cui la vita si auto-dona. Dunque l’auto-rivelazione della vita risiede nell’affettività, nel pathos originario: «l’Affettività originaria è la materia fenomenologica dell’autorivelazione che costituisce l’essenza della vita»34. 2.3. L’originaria passività della coscienza. 31 M. Henry, Phénoménologie matérielle, PUF, Paris 1990, tr. it. di E. De Liguori e M.L. Iacarelli, a cura di P. D’Oriano, Fenomenologia materiale, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 70. 32 M. Henry, Incarnazione…, cit., p. 65. 33 Ivi, p. 139. 34 Id., Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000, tr. it. di G. Sansonetti, Incarnazione. Una filosofia della carne, SEI, Torino 2001, p. 71. 6 Abbiamo visto come il tema della dimensione hyletica dell’esperienza, dell’Urimpression venga individuato da entrambi i filosofi francesi come il luogo critico in cui la fenomenologia husserliana ha fatto intravedere la possibilità di andare oltre se stessa. L’impressione originaria viene vista da Lévinas come la tematizzazione dello scarto insuperabile di ogni esperienza, la quale si trova già da sempre abitata da un’alterità, da una esteriorità, da una trascendenza irriducibile. In una prospettiva diametralmente opposta Henry individua nell’Urimpression l’assoluta immanenza del soggetto, il coincidere con sé della coscienza nel pathos originario della vita. In breve, l’Urimpression è per Henry la presenza della coscienza, mentre per Lévinas l’interruzione della coscienza. Paradossalmente Lévinas sembra imputare ad Husserl di aver perseguito la posizione di Henry, smarrendo la trascendenza in favore dell’immanenza. Così come, viceversa, Henry accusa Husserl di una deriva levinasiana, vale a dire di aver oscurato l’immanenza nella trascendenza. Posizioni così distanti, così opposte difficilmente sarebbero ipotizzabili. E tuttavia proprio nella loro assoluta speculare opposizione e nel comune obiettivo di andare oltre la fenomenologia husserliana emergono tratti in comune non accidentali. Come se lo sforzo di risalire ad un originario dell’esperienza, che la fenomenologia ha intravisto ma non accolto e tematizzato, conduca Lévinas e Henry a posizioni molto simili. Questa paradossale vicinanza emerge proprio in relazione alla Urimpression e alla sua possibilità di costituire una contestazione alla fenomenologia trascendentale husserliana. In particolare, vedremo come le posizioni di Lévinas e Henry siano assolutamente simili nel criticare alcuni aspetti centrali della fenomenologia: l’intenzionalità, l’apparire come presupposto originario, il mondo come orizzonte trascendentale. L’Urimpression è proprio ciò che consente di superare questi concetti cardine e di tematizzare un originario dell’esperienza che è non-intenzionale, che non appare e che decostruisce ogni orizzonte trascendentale. La condivisione di tutti e tre questi aspetti conduce Lévinas e Henry a far emergere un tipo di soggettività analoga, caratterizzata dall’assoluta passività. Infatti Totalità e infinito prende le distanze da ogni concezione che riduca l’essenza della coscienza all’intenzionalità. Questa, infatti, si configura comunque come una rappresentazione, come una riduzione dell’altro al medesimo: «l’intenzionalità, nella quale il pensiero resta adeguazione all’oggetto, non definisce quindi la coscienza al suo livello fondamentale»35. Mediante una meditazione sulla dimensione hyletica, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza rinuncia ad ogni impostazione che faccia riferimento all’intenzionalità teoretica e non. Questa è sempre un esercizio di oggettivazione, di appropriazione, di dominazione dell’identico; «il soggetto dunque non si descrive a partire dall’intenzionalità»36, in quanto originaria è l’alterità. Michel Henry definisce la propria proposta teorica, la fenomenologia materiale, come fenomenologia nonintenzionale. Il puro dato hyletico, l’Urimpression sono oggetto dell’analisi fenomenologica, in quanto sono il modo originario e fondamentale in base al quale la fenomenalità si fenomenalizza, diventa fenomeno. Al contrario, la fenomenologia intenzionale, in tutte le sue varianti husserliana o heideggeriana, non prende in considerazione la condizione ultima dell’intenzionalità che è il non-intenzionale. Lasciando in una totale indeterminatezza l’originario pre-intenzionale, la fenomenologia storica non è in grado di rendere conto della struttura primordiale dell’apparire. Henry ritiene necessario praticare una riduzione più radicale di quella messa in atto da Husserl, una riduzione che arrivi a mettere fuori gioco la stessa intenzionalità. Solo passando attraverso tale riduzione la struttura primordiale dell’apparire potrà manifestarsi da sé, cioè auto-apparire. La struttura primordiale dell’apparire, l’archi-rivelazione che si attesta è la vita ed essa è estranea ad ogni intenzionalità, nella misura in cui è pura auto-donazione. Se l’intenzionalità è un far vedere, un prendere di mira ciò che è già un di-fuori, un «porre davanti che fa vedere»37, la vita si rivela nell’immanenza a se stessa, è auto-affezione. Ma ciò significa che è radicale passività, «provarsi stesso senza differire da sé, al punto che questa prova è una prova di sé e non di altro, un’auto-rivelazione in un senso radicale»38. L’originario non solo è non-intenzionale, ma anche radicalmente estraneo ad ogni apparire. Per Lévinas apparire significa essere presente, essere sottomesso allo sguardo e all’apprensione del Medesimo. Di conseguenza il non-apparire, la non-manifestazione, l’invisibilità vengono considerati come la dimensione dell’alterità. L’altro è ciò che non posso mai ridurre ad una mia idea, ad una mia apprensione concettuale. L’alterità etica che innerva tutta la filosofia levinasiana è ciò che non si sottomette al regime dell’apparire. Il prossimo non si manifesta perché ha sempre un volto. Il volto è il concetto regolativo che Lévinas introduce e con il quale dimostra l’inadeguatezza di ogni registro fenomenologico. Non è possibile una fenomenologia del volto, in quanto il volto dell’altro eccede sempre la sua possibilità di essere un correlato oggettivo. La non visibilità della pura fenomenalità è ampiamente sostenuta in Henry già in L’essence de la manifestation. La rivelazione originaria è costitutivamente invisibile, il suo non apparire esprime la natura stessa della rivelazione, la sua effettività: «l’invisibile costituisce, nella positività della sua effettività fenomenologica specifica, il “Come” della rivelazione dell’essenza della rivelazione e lo determina fenomenologicamente»39. La non visibilità della fenomenalità è strettamente correlata all’impossibilità di darsi attraverso la rappresentazione; in questo senso Henry vede nell’immanenza dell’essenza della 35 E.Lévinas, Totalità e infinito…, cit., p. 25. Ivi, p. 68. 37 M. Henry, Généalogie de la psychanalyse. Le commencement perdu, PUF, Paris 1985, tr. it. di V. Zini, Geneaologia della psicoanalisi. Il cominciamento perduto, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, p. 8. 38 Id., Incarnazione…, cit., p. 70. 39 M. Henry, L’essence de la manifestation, cit., p. 551. 36 7 manifestazione l’origine del suo non-apparire. La vita è «invisibile. Nessuno ha mai visto la vita né la vedrà mai. Chi mai ha visto la propria pena, la propria angoscia, il proprio amore ? […] La vita è invisibile e tuttavia è tutt’altro che un nulla fenomenologico»40. In questo senso l’invisibile non deve essere inteso come un al-di-là del visibile, bensì come il carattere originario di auto-donazione della vita nella pura immanenza. La critica da parte di Lévinas del concetto di orizzonte trascendentale si configura come una conseguenza delle critiche mosse all’intenzionalità. L’altro non appare mai in un contesto, all’interno di un orizzonte, perché ciò significherebbe ridurre la sua assoluta trascendenza all’immanenza del pensiero che predispone tale orizzonte. L’attività trascendentale per eccellenza, la Sinngebung, è interamente pensata a partire dal rapporto tra senso e mondo. «La costituzione dell’oggetto è ospitata da un “mondo” ante-predicativo che tuttavia il soggetto costituisce; e, viceversa, il soggiorno in un mondo è concepibile solo come spontaneità di un soggetto costituente» 41. Il darsi di un senso richiede, per essere appropriato, di essere situato in un contesto, in un orizzonte che può illuminarlo; in questo modo è proprio il significato di tale orizzonte che viene appropriato. Infatti, «questo orizzonte non può risultare da una somma di dati assenti, poiché ciascun dato avrebbe già bisogno di un orizzonte per definirsi e per darsi» 42. L’altro, invece, viene pensato da Lévinas come la rottura di tale circolarità, come l’impossibilità di collocare in un mondo, in un contesto pena la riduzione dell’altro al medesimo. Non potendo esserci una fenomenologia del volto d’altri, questo non può essere intenzionato, non appare, non è riconducibile ad un orizzonte. Anzi, il volto d’altri è proprio ciò che fa esplodere ogni orizzonte, ciò che per la sua presenza o, più precisamente, per la sua assenza decostruisce ogni mondo, essendo portatore di un senso non deducibile, ma neanche irriducibile ad ogni orizzonte trascendentale. All’interno della proposta teorica di Henry il mondo rappresenta il Di-fronte per eccellenza a partire dal quale la fenomenologia ha compreso ogni fenomeno. Il mondo è l’orizzonte di visibilità che illumina ogni oggetto, senza il quale ogni ente non potrebbe manifestarsi; ma tale orizzonte è l’esteriorità e quindi è la perdita dell’assoluta immanenza, unico luogo in cui la vita prova se stessa. «Laddove non c’è trascendenza, non c’è né orizzonte né mondo. L’orizzonte del mondo, invece di essere una struttura universale di ogni manifestazione e di costituire di conseguenza l’essenza di questa, si trova al contrario escluso da questa essenza considerata in se stessa» 43. L’originario è ciò che si mostra prima di ogni apprensione intenzionale, prima di essere colto in un Di-fuori, vale a dire «prima del mondo, fuori dal mondo, [esso è] ciò che è estraneo a ogni “mondo” possibile, a-cosmico»44. Partendo da posizioni teoretiche diametralmente opposte, Lévinas e Henry convergono in un comune gesto fenomenologico che individua nell’Urimpression husserliana la dimensione originaria dell’esperienza. E paradossalmente entrambi configurano questa esperienza nel medesimo modo: è non-intenzionale, non appare (invisibile) e si pone oltre (o prima di) ogni orizzonte trascendentale, in particolare del mondo. Questa convergenza non è casuale; infatti, il tipo di soggettività che Lévinas e Henry arrivano a tematizzare è assolutamente identico: il soggetto si istituisce come pura passività. Questa passività è più radicale di quella che la fenomenologia husserliana e heideggeriana hanno portato alla luce. Questo incondizionato fenomenologico, o più precisamente, pre-fenomenologico, a cui approdano Lévinas e Henry, pur essendo denominato in modo radicalmente diverso sul piano empirico, ontico – per Lévinas l’alterità dell’altro, per Henry l’auto-donazione immanente della vita -, viene configurato secondo identiche categorie ontologiche e genera come correlato una concezione che individua nella passività la dimensione originaria della coscienza. 3. Marion: fenomenologia dell’incondizionato. La proposta filosofica di Marion si pone l’obiettivo di pensare il principio della donazione a partire dal superamento dei limiti imposti all’apparire da parte della precomprensione trascendentale (Husserl) e ontologica (Heidegger) della fenomenologia. È questo un aspetto decisivo della proposta di Marion, in quanto introdurre un limite all’apparire significa ricollocare la fenomenologia in un impianto metafisico. La metafisica, infatti, stabilisce a priori quali sono le condizioni di possibilità di un fenomeno e quindi anche stabilisce ciò che è possibile e ciò che non lo è. Secondo la metafisica la possibilità di apparire appartiene sempre ad una istanza esterna all’apparire, e mai all’apparire medesimo. Anche la fenomenologia ponendo dei limiti all’apparire diventa erede legittima della metafisica moderna. 40 Ibidem. E.Lévinas, Scoprire l’esistenza…, cit., p. 151. 42 Id., Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 36. 43 M. Henry, L’essence de la manifestation, cit., p. 349. 44 Id, Incarnazione…, cit., p. 65. 41 8 Marion si chiede se è concepibile una fenomenalità che non sia definita preventivamente secondo un criterio a priori di possibilità: «come concepire infine una donazione assolutamente incondizionata (senza limiti d’orizzonte) e assolutamente irriducibile (ad ogni Io costituente) ?»45. I fenomeni saturi rispondono positivamente a questa domanda. Si tratta di pensare ad una fenomenalità che non abbia il limite di un orizzonte e che non sia sottomessa ad un Io trascendentale; i fenomeni di tale donazione dovrebbero, quindi, oltrepassare l’orizzonte invece di iscriversi e ricondurre a sé l’Io, al posto di esservi ricondotti. Inoltre, questo genere di fenomeni deve sfuggire al primo limite che il metodo fenomenologico prevede: l’intuizione e la sua insuperabile finitezza. Il fenomeno saturo è ciò che realizza questa possibilità: esso si definisce saturo perché la sua intuizione supera ciò che l’intenzione prende di mira. È questa una conseguenza inevitabile del principio della donazione incondizionata: il poter ipotizzare l’apparire di un fenomeno che per principio sfugga alla possibilità di essere costituito e intenzionato e che ecceda l’intuizione saturandola, «un fenomeno che inversamente rispetto alla maggior parte dei fenomeni poveri in intuizione o definiti dall’adeguazione ideale dell’intuizione all’intenzione, [riceva] un accrescimento dell’intuizione, dunque della donazione sull’intenzione, sul concetto»46. Il fenomeno saturo viene caratterizzato seguendo lo schema delle categorie dell’intelletto di Kant: esso è nonintenzionabile (invisable) secondo la quantità, insopportabile secondo la qualità, assoluto secondo la relazione e inguardabile secondo la modalità. Poiché l’intuizione oltrepassa il concetto ne consegue che il fenomeno saturo eccede queste categorie. Per quanto riguarda la prima caratteristica, Marion sottolinea che il fenomeno saturo non può essere intenzionato in quanto è essenzialmente impre-vedibile. Il riferimento alla categoria di quantità si spiega con il fatto che il fenomeno saturo si sottrae alla possibilità di essere ricostruito attraverso la sintesi delle sue parti. Questa operazione, che Kant chiama «sintesi successiva», si fonda sull’omogeneità del campo fenomenico e quindi sulla sua pre-vedibilità. Al contrario, il fenomeno saturo oltrepassa sempre la somma delle parti finite, risultando essere incommensurabile. Lo stupore è l’atteggiamento che corrisponde a tale caratteristica del fenomeno saturo, in esso «la sintesi ha luogo senza conoscenza completa dell’oggetto, dunque senza la nostra sintesi; esso si libera così dell’oggettualità che noi gli imporremmo, per imporci piuttosto la sua propria sintesi, compiuta prima che noi la potessimo ricostruire (sintesi passiva dunque)»47. Oltre a non poter essere intenzionato il fenomeno saturo è insopportabile secondo la qualità, in quanto manifesta una grandezza intensiva senza misura, superando così ogni anticipazione concettuale della percezione. L’essere caratterizzato come non sopportabile intende sottolineare l’impossibilità per il nostro sguardo di sostenere la visione di tale fenomeno: «quando lo sguardo non può supportare ciò che vede, subisce l’abbagliamento. Perché non supportare non equivale semplicemente a non vedere: bisogna innanzitutto percepire, se non vedere nettamente, per provare ciò che non si può sopportare»48. In terzo luogo il fenomeno saturo è assoluto secondo la relazione, in quanto si sottrae ad ogni analogia dell’esperienza, la quale si configura come struttura a priori del fenomeno. Queste tre caratteristiche attestano come il fenomeno saturo si sottragga per principio dalla prima condizione di possibilità che la fenomenologia impone all’apparire, l’inscrivibilità in un orizzonte, e in ciò risiede la sua incondizionatezza. La seconda condizione di possibilità dell’esperienza – l’Io – viene contraddetta dalla quarta caratteristica del fenomeno saturo, l’essere inguardabile secondo la modalità. Esso è inguardabile poiché si sottrae allo sguardo oggettivante del soggetto; a questo proposito Marion sottolinea la differenza tra guardare (regarder) e vedere (voir): il vedere un fenomeno indica il ricevere ciò che si mostra da sé, invece guardare qualifica la trasformazione in un oggetto visibile di ciò che si mostra. Il fenomeno saturo non corrisponde alle condizioni soggettive dell’esperienza, poiché non si lascia costituire come un oggetto, perciò è inguardabile: «determinare il fenomeno saturo come inguardabile, riconduce a considerare che esso si impone alla vista con un tale eccesso di intuizione, da non potersi più ridurre alle condizioni dell’esperienza (dell’oggettualità), dunque all’Io che le fissa»49. L’intenzionalità dell’Io non può esercitare la sua azione di costituzione, ciò significa che abbiamo a che fare con una sintesi radicalmente passiva, non solo perché subita dal soggetto, ma anche perché si tratta di una sintesi realizzata dal fenomeno stesso. Attraverso il fenomeno saturo appare la vera determinazione di ogni fenomenalità, in quanto esso rivela più di ogni altro fenomeno la donazione da cui ha origine. La storia della filosofia ha offerto diversi esempi di fenomeni saturi tra i quali Marion indica l’idea di infinito in Descartes, il sublime in Kant, la coscienza intima del tempo in Husserl. In quest’ultimo caso anche Marion sottolinea l’originarietà della Ur-impression rispetto alla intenzionalità della coscienza. In base alla determinazione in rapporto alla quale la saturazione si realizza Marion distingue quattro tipi di fenomeni saturi. In primo luogo il fenomeno storico o evento, che satura la categoria della quantità: non esiste la possibilità di costituire un evento storico in un oggetto, in quanto è esso stesso che si mostra e può essere compreso solo attraverso una pluralità di orizzonti che generano una ermeneutica senza fine. Dal punto di vista della qualità il J.-L. Marion, Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1997, tr. it. di R. Caldarone, a cura di N. Reali, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001, p. 232. 46 Ivi, p. 245. 47 Ivi, p. 248. 48 Ivi, p. 251. 49 Ivi, p. 264. 45 9 fenomeno saturo per eccellenza è l’idolo, vale a dire l’opera d’arte. La saturazione della categoria relazione avviene per opera della carne, la quale realizza un’auto-affezione originaria che non solo oltrepassa ogni oggetto costituibile, «ma satura l’orizzonte al punto che nessuna relazione può più riferirlo ad un altro oggetto. L’affezione non rinvia a nessun oggetto, non rinvia ad alcuna estasi, ma a se stessa, perché le basta se stessa per compiersi»50. L’immediatezza dell’auto-affezione della carne elimina lo spazio di una distanza senza la quale l’intenzionalità non può istituirsi. Infine il quarto fenomeno saturo che Marion presenta è l’icona. Questo fenomeno, che satura la categoria della modalità, è ciò che destituisce l’Io, attuando una sorta di contro-intenzionalità. Il fenomeno in questione è il volto d’altri: questo si impone prima di essere guardato, è una manifestazione che si compie in sé e a partire da sé. L’Io perde la sua funzione trascendentale di costituzione e viene trasformato nel destinatario dell’apparire del volto. L’ambito dei fenomeni saturi ha una gradazione? Fino a che punto può dispiegarsi il fenomeno saturo? In altri termini, esiste un livello massimo della saturazione? Secondo Marion questo ordine di problemi non viene posto in sede fenomenologica non per una ragione teorica, bensì per il timore di reintrodurre la questione di Dio. In realtà si tratta di verificare la possibilità di un fenomeno e non di dedurre l’esistenza di Dio secondo un procedimento tipicamente metafisico: «con la questione di un fenomeno che conduce la saturazione al suo massimo, non si tratta immediatamente né sempre di un dibattito sullo statuto del teologico in fenomenologia, ma innanzitutto e primariamente di una figura possibile della fenomenalità come tale»51. Marion ritiene di ovviare ad un eventuale accusa di teologizzare la fenomenologia ponendo due condizioni: in primo luogo l’eventuale massimo di saturazione deve essere un fenomeno, vale a dire non deve rompere con il piano della fenomenalità; in secondo luogo, questo fenomeno deve restare una possibilità, nel senso che non può fissarsi in una figura definita e deve invece costituirsi indipendentemente da ogni realizzazione intramondana di questo massimo. «Il massimo della fenomenalità satura deve restare una possibilità ultima del fenomeno – l’ultima, ma ancora a titolo di possibilità»52. Questa esigenza viene rispettata da quel fenomeno che è la rivelazione. In esso si trovano ricompresi tutti i quattro tipi di fenomeni saturi prima esaminati (l’evento storico, l’opera d’arte, la carne e l’icona) e tuttavia la rivelazione non si pone sullo stesso piano di questi, in quanto realizza una saturazione di secondo livello, una saturazione della saturazione. Si tratta comunque di una semplice possibilità e non di un fenomeno effettivamente costituito; così, Marion ritiene di poter descrivere questo fenomeno senza dover far riferimento alla sua effettività ontica: «se una rivelazione effettiva deve, può o ha potuto darsi nell’apparizione fenomenale, essa ha potuto farlo, lo può, o lo potrà soltanto donandosi secondo»53 la figura di un fenomeno saturo di secondo livello. La fenomenologia non deve farsi carico dell’effettività di questo fenomeno – cosa che compete alla teologia -, ma deve soltanto tenere aperta la possibilità della rivelazione. Solo in questo modo la fenomenologia resta fedele fino in fondo all’esigenza secondo la quale «più in alto della realtà si trova la possibilità». Questo modo di procedere, secondo cui la rivelazione non è altro che una variante della saturazione, non introduce una nuova forma di trascendentalismo, cioè una pre-determinazione delle condizioni di possibilità di un fenomeno, in quanto la condizione che viene messa in campo consiste proprio nel liberare la possibilità da ogni limite. Se il trascendentalismo moderno e husserliano stabilivano la condizione di possibilità di un fenomeno delimitandolo a priori secondo ciò che è impossibile, in relazione al principio di ragion sufficiente e all’Io costituente, la rivelazione, invece, si configura come la sospensione di tutte le impossibilità prestabilite. Perciò «il fenomeno della rivelazione si definirebbe, anch’esso, come la possibilità dell’impossibilità» 54. Come esempio di rivelazione viene indicata la manifestazione di Gesù Cristo, così come viene descritta nel Nuovo Testamento; in questa figura si realizza in modo paradigmatico la saturazione della saturazione. L’indicazione della figura di Gesù Cristo viene interpretata sul piano della possibilità, il suo statuto ontico resta tuttavia un affare della teologia. « La Rivelazione (come effettività) non si confonde mai con la rivelazione (come fenomeno possibile)» 55. La fenomenologia, quindi, non può avanzare la pretesa di decidere sul fatto della Rivelazione, sulla sua storicità o sul suo senso, che è invece compito della scienza teologica. A questo proposito Marion sottolinea come la teologia, se vuole essere all’altezza del suo compito, deve essere costruita solo a partire dalla Rivelazione e dalla sua specifica fenomenalità, senza sottomettersi all’esigenza di un qualche a priori ad essa esterno. K. Barth e H. U. Balthasar sono riusciti a elaborare una scienza teologica a partire esclusivamente dal fatto della Rivelazione; R. Bultmann e K. Rahner, al contrario, hanno cercato di comprendere la Rivelazione mediante una delimitazione trascendentale dell’esperienza. Questa posizione è in perfetta continuità con quanto già sostenuto da Marion in Dio senza l’essere: la Rivelazione di Dio non è comprensibile se viene affrontata all’interno della metafisica o della Seinsfrage. La destituzione del soggetto dalla sua funzione trascendentale e la sua correlativa trasformazione in destinatario della donazione viene visto da Marion come una logica conseguenza della prospettiva delineata. 50 Ivi, p. 284. Ivi, p. 288. 52 Ibidem. 53 Ivi, p. 289. 54 Ivi, p. 290. 55 Ivi, p. 290, nota 355. 51 10 «L’attributario viene dunque dopo il “soggetto”, nel doppio senso di succedere alla sua figura metafisica e soprattutto di procedere dal fenomeno, senza prevenirlo né produrlo»56. La spontaneità costitutiva dell’ego, elemento caratterizzante della metafisica moderna e della fenomenologia husserliana, viene sostituita dalla ricettività verso la donazione. Ciò non significa un assorbimento del soggetto nella donazione, in quanto è grazie al destinatario che la donazione si mostra, si manifesta. «L’attributario non riceve dunque solo ciò che si dà – permette al dato di mostrarsi in quanto si dà»57. La trasformazione della donazione in manifestazione non è mediata da nessuna comprensione, da nessun esercizio ermeneutico, da nessun orizzonte storico, in quanto «la fenomenalità non si comprende, essa si riceve» 58. È a questo livello del discorso che Marion rilancia il tema della forma pura dell’appello. Essendo la donazione l’essenza stessa della fenomenalità in quanto tale, il soggetto si destituisce nella forma dell’attributario in relazione ad ogni apparire fenomenico in quanto donato. Quando il fenomeno è donato in quanto saturato, l’apparire si configura come un appello e il destinatario come «adonato». Facendo proprie le riflessioni di Lévinas, l’appello viene presentato come una contro-intenzionalità esercitata non solo dal volto altrui (l’icona), ma anche – cercando di generalizzare l’intuizione lévinasiana – da tutti i fenomeni saturi: «la chiamata caratterizza di fatto ogni fenomeno saturo come tale»59. L’attributario-adonato viene convocato e sorpreso da questo appello irriducibile e non deducibile dalla sua struttura, anzi, più precisamente, non esiste nessuna struttura dell’adonato prima di essere rivendicato dall’appello. Ciò significa che la chiamata individualizza l’adonato: «la chiamata, e non l’io, decide di io/me prima di me - io non è che in quanto la chiamata l’ha sempre già rivendicato»60. Come abbiamo visto la donazione si manifesta nel destinatario, di conseguenza «la chiamata si mostra nella risposta»61. L’adonato diventando il luogo di manifestazione dell’appello si configura come testimone: «il testimone succede all’Io»62. La tematizzazione dei fenomeni saturi e la sua radicalizzazione nel fenomeno della rivelazione ha ulteriormente alimentato il dibattito intorno al «tournant théologique» della fenomenologia francese. In particolare Janicaud trova nell’introduzione dei fenomeni saturi una conferma dello sfondamento metafisico-teologico operato da Marion e della sua debolezza metodologica. Richiamarsi al paragrafo 7 di Essere e tempo, in cui Heidegger definisce il fenomeno come «ciò che si mostra in se stesso», non è legittimo se non si puntualizza che Heidegger non afferma mai la possibilità di un’assoluta e pura donazione della fenomenalità (dell’essere). Lo svelamento della verità dell’essere, infatti, è contraddistinto da un insuperabile velamento, da una riserva che appartiene alla verità stessa dell’essere. D’altra parte la sovrapposizione che Marion opera tra la problematica husserliana, mossa da un intento metodologico e quella heideggeriana, finalizzata alla elaborazione della Seinsfrage, produce un risultato alquanto discutibile: «l’amalgama tra l’orizzonte husserliano e l’analitica del Dasein si realizza qui a vantaggio di una concettualità imperiosa (in fondo molto poco heideggeriana) utilizzando il quadro categoriale kantiano solo per capovolgerlo» 63. Janicaud giudica sorprendente il richiamo costante a Kant nell’elaborazione del fenomeno saturo, in quanto viene inserito in una proposta teorica che si pone espressamente l’obiettivo di sovvertire le condizioni dell’esperienza fenomenale – giudicate come limitative per il fenomeno – al fine di liberare una donazione incondizionata, svincolata da ogni orizzonte finito. In questo senso l’indicazione del sublime come antecedente del fenomeno saturo è fuorviante, in quanto non tiene conto del fatto che Kant accede a questo particolare fenomeno solo dopo aver introdotto il giudizio riflettente. La Critica del giudizio, preso atto dei limiti del sapere teoretico-oggettivante, interroga una dimensione della fenomenalità che sfugge al giudizio determinante; tutto ciò però non avviene attraverso un semplice superamento dei limiti ed una liquidazione di ogni orizzonte. Il sublime ha comunque lo statuto di un condizionato-incondizionato, perché si produce sempre all’interno di un orizzonte. «Confondere questo tipo d’eccessi con una “donazione intuitiva assolutamente incondizionata” significa annullare di colpo tutto il lavoro critico e reintrodurre sotto l’etichetta di “fenomeno saturo”…il noumeno!»64. Il problema, quindi, è di verificare se un fenomeno, come quello saturo, che oltrepassa tutte le condizioni della fenomenalità può ancora essere definito un fenomeno. In realtà Marion attraverso la fenomenologia ricostituisce un procedimento di pensiero tipicamente metafisico. Nonostante le differenze formali tra rivelazione e Rivelazione, concepire un fenomeno come un’apparizione assoluta, non sottomessa ad alcuna determinazione ontica è un’operazione senza dubbio metafisica, che tra l’altro – nota Janicaud – fa completa astrazione di ogni dimensione simbolica e storica della Rivelazione: «quanto a sapere se una concezione così “semplice” può convenire alla Rivelazione, senza referenza né alla contingenza delle circostanze, alla loro incarnazione, né ad una qualche riserva, né al mistero, né alla scrittura (con o senza maiuscola), lascio ai teologi la cura di deciderlo» 65. 56 Ivi, p. 305. Ivi, p. 322. 58 Ibidem. 59 Ivi, p. 327. 60 Ivi, p. 331. 61 Ivi, p. 346. 62 Ivi, p. 267. 63 D. Janicaud, La phénoménologie éclatée, cit., p. 65. 64 Ivi, p. 66. 65 D. Janicaud, La phénoménologie éclatée, cit., p. 69. 57 11 Le obiezioni di Janicaud vogliono, quindi, porsi su un piano prettamente metodologico; il superamento iperbolico messo in atto da Marion produce uno slittamento della fenomenologia verso la teologia, quando invece «fenomenologia e teologia fanno due»66. Ciò non significa che la fenomenologia non possa occuparsi di «oggetti» appartenenti all’ambito religioso o descrivere i fenomeno religioso in quanto tale. A questo proposito Janicaud sottolinea come la riflessione di Ricoeur non rientri nel «tournant théologique» proprio per lo scrupolo e il rigore metodologico che non viene mai meno67. Ciò che viene criticato è quindi la rivendicazione e la pretesa di Marion di porsi esclusivamente su un piano rigorosamente fenomenologico: «la fenomenologia non è necessariamente tutta la filosofia: essa deve il suo interesse e la sua portata al rispetto delle sue proprie regole»68. In una direzione analoga a quella di Janicaud si muovono le obiezioni che J. Benoist formula nei confronti della proposta di Marion, qualificandola come una «deduzione fenomenologica della Rivelazione»69. Il tentativo di pensare la donazione oltre la «donazione di senso» (Sinngebung), della coscienza costituente, oltre la verità dell’essere comporta un supplemento, un’eccedenza dell’apertura del campo fenomenico. Questo supplemento di donazione, che pretende di essere costitutivo, immanente alla donazione stessa, si trasforma nel fenomeno saturo. Per Benoist «l’apparato di concetti mobilizzati sembra più dell’ordine della costruzione metafisica che della ostensione fenomenologica, nel senso in cui Husserl oppone questi termini»70. Questo uso improprio del metodo fenomenologico viene introdotto dalla pretesa di considerare la donazione senza il dato (donné); la donazione è sempre donazione di un dato e, d’altra parte, la donazione in se stessa non ha alcun significato. Ciò significa che non è possibile una ostensione della donazione. La fenomenologia husserliana misura i propri enunciati attraverso la riconduzione alla loro determinazione sensibile. «Da nessuna parte si eccede il sensibile, e entrare in fenomenologia significa installarsi definitivamente sul terreno del sensibile senza alcuna speranza di uscirne (questo potrebbe essere uno dei sensi – positivi – della riduzione)»71. Un ulteriore problema si prospetta, secondo Benoist, quando la struttura della donazione viene presentata attraverso la figura dell’appello: in un certo senso quella che è una fenomenologia del vedere viene trasformata in una filosofia della parola. Marion, tuttavia, non offre nessun quadro teorico per pensare il fenomeno della parola (o Parola); una parola infatti ha quanto meno un contenuto specifico, che nasce in un contesto storicamente determinato. In questo senso Benoist, ma anche altri interpreti come J. Greisch e J. Grondin, giudicano inevitabile una riconfigurazione in chiave ermeneutica della fenomenologia della parola. 4. Henry: la verità fenomenologica del Cristianesimo. Il risultato che Michel Henry si propone di raggiungere con Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo è di mostrare come il cristianesimo sviluppi una comprensione della verità che è in perfetta conformità con quanto conseguito in sede di riflessione fenomenologica: l’assoluta immanenza patica della vita come essenza della manifestazione. Si tratta, quindi, di una lettura filosofica del cristianesimo, che prescinde da ogni confronto con la tradizione teologica e che porta alla luce il fatto che il movimento di pensiero immanente al cristianesimo, la sua autocomprensione è di carattere fenomenologico. Per comprendere e concettualizzare il genere di verità che il cristianesimo propone è necessario innanzitutto stabilire che cosa si intende per cristianesimo: «per cristianesimo s’intende tutto ciò che si trova espresso in un insieme di testi designati come Nuovo Testamento»72. In particolare per la specifica interpretazione che Henry presenta, un posto fondamentale è occupato, come avremo modo di verificare, dal Vangelo di Giovanni. Per Henry l’unico modo per accedere alla verità di Dio è la sua automanifestazione, che non dipende da nessun a priori ontologico o antropologico. La difficoltà di comprendere la rivelazione di Dio risiede nel fatto che questa rivelazione non si mostra al pensiero, al sapere speculativo, il quale inevitabilmente costituisce una mediazione all’autoapparire di Dio. Solo quando il pensiero viene meno può compiersi l’autorivelazione di Dio secondo la propria specifica fenomenalità. Ebbene, Henry ritiene che l’autorivelazione di Dio si realizza nella vita, la quale si configura come l’essenza stessa di Dio, il contenuto della sua manifestazione: «la Vita non è altro che ciò che si autorivela, non Id., Le tournant théologique de la phénoménologie…, cit., p. 85. Ricoeur non rientra dentro il tournant théologique, proprio in virtù «dei suoi scrupoli metodologici [che] l’hanno condotto a moltiplicare le precauzioni ermeneutiche preliminari ad ogni passaggio dalla fenomenologia alla teologia» (ivi, p. 13), si veda anche id., La phénoménologie écletée, cit., p. 14. 68 Id., Le tournant théologique de la phénoménologie…, cit., p. 70. 69 J. Benoist, L’idée de phénoménologie, Beauschesne, Paris 2001, p. 90. 70 Ivi, p. 97. 71 Ivi, p. 93. 72 M. Henry, C’est moi la vérité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996, tr. it. di G. Sansonetti, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997, p. 19. In generale si veda V. Perego, La filosofia della religione di Michel Henry, «La scuola cattolica», 131 (2003), pp. 533-564. 66 67 12 qualcosa che in più avrebbe la proprietà di autorivelarsi, ma il fatto stesso di autorivelarsi, l’autorivelazione come tale. C’è Vita ovunque avvenga una tale autorivelazione. Dovunque c’è Vita avviene una tale autorivelazione». 73 È la vita e solo essa il luogo nel quale Figlio rivela se stesso e rivela se stesso appunto come vita, come origine della vita. Facendo riferimento a numerosi passi neotestamentari in cui viene esplicitato questo legame tra Dio e la vita, Henry può costruire un chiasmo per cui «Dio è la vita, egli è l’essenza della Vita o, se si preferisce, l’essenza della Vita è Dio» 74. La conoscenza di questo verità non appartiene all’ordine speculativo, non è il risultato di un ragionamento, ma dell’assoluta immanenza patica della vita. Se questa è la verità del cristianesimo, essa si pone in radicale alternativa alla verità del mondo. La filosofia fin dal suo sorgere presso i Greci ha definito le cose come «fenomeni», vale a dire come ciò che si mostra venendo alla luce. Questa luce, questo orizzonte nel quale i fenomeni si mostrano, è il mondo. In questo modo il mondo si configura come l’a priori originario di ogni fenomeno, come la condizione trascendentale senza la quale il fenomeno non può manifestarsi. «I fenomeni del mondo sono le cose in quanto si mostrano nel mondo, il quale è la loro propria “mostrazione”, la loro apparizione, manifestazione, rivelazione» 75. L’ontologia greca si sviluppa secondo questo principio, per cui ciò che esiste è ciò che si mostra nel mondo. Questa interpretazione della verità viene confermata e assolutizzata dalla filosofia moderna, per la quale ciò che esiste è ciò che viene rappresentato, letteralmente seguendo l’etimologia tedesca, posto-davanti (vorstellen) alla coscienza. Ciò che è posto-davanti alla coscienza è l’oggetto e l’esercizio di questa Vorstellung è ciò che consente alla verità di manifestarsi. In questo modo viene riaffermata l’istanza che sorregge l’ontologia greca, infatti «l’essere posto davanti è pure l’essere posto al di fuori, il “di fuori” come tale. Il “di fuori” come tale è il mondo»76. La coscienza, quindi, non introduce una verità diversa dalla verità del mondo, in quanto conferma che esiste solo ciò che è davanti-a-noi, questo essere-davanti è appunto il “di fuori”, il “mondo”. In questo modo viene impedito alla verità di auto-manifestrasi secondo la propria fenomenalità: la coscienza, anche nella sua riformulazione husserliana, è la trascendenza che proietta al di là del fenomeno l’orizzonte senza il quale il fenomeno non appare: «la messa dell’ente in condizione d’ “oggetto” o di “posto-di-fronte”, quindi di fenomeno, è possibile solo mediante la produzione dell’orizzonte trascendente di visibilità che è il mondo stesso»77. Secondo Henry questo orizzonte di visibilità che è il mondo ha talvolta assunto il nome di «tempo», confermando in ogni caso il medesimo processo di messa-a-distanza come fenomenalità originaria: «il modo di rendere manifesto del tempo è quello del mondo»78. Spingendo fino alle estreme conseguenze questa interpretazione della filosofia occidentale, Henry giunge a sostenere che tutto ciò che appare nel mondo (e/o nel tempo) è una mistificazione della verità del cristianesimo, come auto-rivelazione della vita nella vita, una verità radicalmente alternativa a quella del mondo. La verità del mondo non è la verità del cristianesimo e, viceversa, la verità del cristianesimo non è la verità del mondo. La proposta teorica di Henry presente in Io sono la verità rientra a pieno diritto nel Tournant théologique della fenomenologia francese e sembra confermare lo schema di Janicaud di uno sfondamento del piano di immanenza da parte della fenomenologia francese contemporanea. Tuttavia Janicaud ritiene che questa «teologizzazione» della fenomenologia esplosa con Io sono la verità sia ampiamente in opera già in L’essence de la manifestation; in qualche modo è in questo libro che vengono gettati i presupposti di un uso improprio del metodo fenomenologico. La struttura dell’immanenza attorno a cui si costruisce la filosofia di Henry, pur avendo origine da una problematica fenomenologica, si configura come il tentativo di reintrodurre posizioni chiaramente metafisiche. Infatti, se l’immanenza in Husserl assume un significato anti-metafisico, in L’essence de la manifestation essa diventa una autorivelazione assoluta, che fa astrazione da ogni singolo e concreto fenomeno. «La struttura dell’immanenza è dunque la sua pura autoreferenza […]; è una interiorità tautologica»79. La risalita verso l’originario coincide con l’abbandono dell’esperienza nella sua empiricità; in questo modo la fenomenologia si trova rovesciata nel suo contrario, vale a dire nella metafisica e in particolare nella metafisica idealista. Secondo Janicaud, molte conclusioni di Henry sono perfettamente assimilabili alla metafisica della vita e del sentimento del giovane Hegel. La fenomenologia diventa così «porta-parola dell’assoluto»80. All’interno di questa circolarità tautologica, per cui l’essenza della manifestazione è la manifestazione stessa, la vita viene investita di una valenza assoluta, che sembra porla sullo stesso piano di Dio: la vita è senza limiti, eterna, si identifica con tutta la realtà. «Henry ritrova su questo punto l’immanenza dello spirito assoluto alle sue manifestazioni fenomenali»81, nonostante il correttivo di sottomettere il sapere all’affettività, in cui la vita prova se stessa. Il risultato è il medesimo: una perfetta parousia dell’assoluto. Janicaud ritiene che anche il riferimento a Eckhart vada nella medesima direzione, verso una unità patica tra l’umano e il divino. Si tratta di verificare non tanto la legittimità di M. Henry, Io sono la verità…, cit., p. 47. Ivi, p. 48. 75 Ivi, p. 33. 76 Ivi, p. 34. 77 Ivi, p. 35. 78 Ivi, p. 38. 79 D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie…, cit., p. 60. 80 Ibidem. 81 Ivi, p. 61. 73 74 13 queste posizioni teoriche, quanto la pretesa di conseguirle restando all’interno del metodo fenomenoogico, così come è stato tematizzato da Husserl e Heidegger. Come abbiamo visto la fenomenologia materiale di Henry rigetta la «fenomenologia storica» di Husserl e di Heidegger, in quanto fondata sull’intenzionalità, cioè sul presupposto che guida il logos occidentale e che individua nel «far vedere nel di-fuori» l’essenza della fenomenalità. Questo presupposto impedisce alla fenomenologia storica di riconoscere nell’immanenza patica l’autorivelazione della vita. Nella ricerca di un logos alternativo a quello greco, che superi la pretesa della fenomenologia husserliana nella sua aspirazione eidetica, secondo Janicaud, Henry ripercorre il gesto heideggeriano, senza tuttavia assumere fino in fondo le inevitabili conseguenze di tale gesto: la messa in questione dell’essenza della metafisica e l’abbandono del metodo fenomenologico. «Michel Henry contemporaneamente mima questa presa di distanza heideggeriana di fronte al logos greco (facendo economia della messa in questione storico-destinale della metafisica che dovrebbe tuttavia implicare) e giunge a ridarsi una positività fenomenologica»82. Soltanto la distinzione operata dal secondo Heidegger tra pensare e metafisica può far emergere la logica metafisica presente nella fenomenologia husserliana e nel movimento concettuale dell’analitica esistenziale di Essere e tempo. Evitando di confrontarsi con la riflessione heideggeriana sull’essenza della metafisica, Henry non arriva a cogliere che l’eidetizzazione perseguita da Husserl non può essere ridotta ad un semplice «errore», ma al destino della filosofia occidentale come fondatrice dell’épistémè. «Non si può contemporaneamente voler correggere un “errore” e imputare questo ad una deviazione fondamentale della storia del pensiero» 83. Non è possibile una riflessione sull’aspirazione eidetica della fenomenologia senza una chiarificazione con la meditazione heideggeriana per «presentare come originale la messa in causa del “far vedere” del logos greco, quando è proprio lo choc heideggeriano, sostituito e ridisegnato da Lévinas, Derrida e qualche altro, che ha permesso di aprire tante brecce nel progetto eidetico e nella visione classica dell’essenza»84. Janicaud sottolinea inoltre che la riflessione dell’ultimo Husserl, quello della Crisi delle scienze europee «manifesta chiaramente che l’essenzialismo non è l’ultima parola della fenomenologia husserliana»85. D’altra parte la contestazione di Henry del logos occidentale si risolve nella riappropriazione e riabilitazione di un’armatura concettuale fortemente caratterizzata dal punto di vista metafisico, tale da riprendere alcune istanze hegeliane. La contestazione di Janicaud verte, quindi, «sulla strana ostinazione a voler installare questa ricerca (essenzialmente fragile, segreta, se non esoterica) nel centro di un dispositivo disciplinare, i cui principi sono propriamente formulati in termini razionali, unificatori, occidentali che si intende rifiutare» 86. La problematicità di questo impianto diventa ancor più evidente con Io sono la verità, in cui la fenomenologia della vita viene assorbita nell’insegnamento dottrinale di Gesù: «senza nessuna precauzione storica ed ermeneutica, senza neanche il ricorso esplicito alla fede, la fenomenologia si fa religiosa ed evangelica» 87. La rivelazione cristologia viene identificata nel processo di automanifestazione della vita e la fenomenologia, superando ogni limite metodologico, si configura come il logos originario che porta alla luce in assoluta trasparenza la logica interna della rivelazione cristiana: «la teologizzazione della fenomenologia diventa qui letterale, poiché essa è visione di Dio in Dio»88. In definitiva, l’obiezione di Janicaud non concerne la possibilità di una riflessione filosofica sul cristianesimo, ma sull’uso improprio del metodo fenomenologico e sulle evidenti forzature a cui viene sottoposto «Michel Henry procede ad una sorta di espropriazione della casa fenomenologia e dei suoi strumenti metodologici» 89, quando invece i fondatori della fenomenologia non hanno mai abbandonato la riflessione sui presupposti del metodo fenomenologico: «la fenomenologia non può fare economia della questione del metodo. Husserl e Heidegger hanno insistito su questo punto»90. La mancata tematizzazione da parte di Henry dell’essenza della metafisica e del rapporto che questa intrattiene con la fenomenologia è un aspetto sul quale insiste ampiamente anche Michel Haar. L’obiettivo dichiarato di L’essence de la manifestation è quello di una fenomenologia dell’assoluto e tale scopo viene perseguito senza tener presente la distruzione heideggeriana della metafisica. In tal modo il progetto di Henry conduce inevitabilmente ad operare una restaurazione della struttura tradizionale della metafisica. D’altra parte, si chiede Haar, «una fenomenologia dell’assoluto non è una contraddizione in termini? […] Se l’essenza della manifestazione costituisce, come viene detto, una “rivelazione” ab-soluta, questo modo di donazione rientra ancora nel campo di una fenomenologia?» 91. Né Husserl, né tantomeno Heidegger hanno ritenuto possibile utilizzare il metodo fenomeologico per descrivere la manifestazione dell’assoluto, se non altro per l’impossibilità di ridurre l’assoluto a fenomeno. In realtà la tesi della parousia dell’assoluto nell’immanenza patica dell’ego attesta il fatto che la filosofia di Henry si configura come una riappropriazione dell’idealismo soggettivo postkantiano e di conseguenza non può che ripercorrere la logica interna di 82 Ivi, p. 66. Ivi, p. 67. 84 Ivi, p. 68. 85 Ivi, p. 69. 86 Ivi, p. 21. 87 Id., La phénoménologie éclatée, cit., p. 15. 88 Ibidem. 89 Id., Le tournant théologique de la phénoménologie…, cit., p. 21. 90 Ibidem. 91 M. Haar, La philosophie française entre phénoménologie et métaphysique, PUF, Paris 1999, pp. 114-115. 83 14 ogni onto-teologia: «la filosofia di M. Henry è una ricaduta, senza dubbio prefigurata dalla struttura della fenomenologia husserliana stessa, nella metafisica postkantiana della soggettività assoluta» e perciò «si inscrive nella struttura ontoteologica della metafisica»92. Le obiezioni che vengono mosse all’impianto della filosofia di Henry e alla specifica appropriazione della fenomenologia vengono messe in relazione all’interpretazione del cristianesimo, così come emerge in Io sono la verità. Rudolf Bernet conviene con Janicaud nell’individuare nella fenomenologia francese un «tournant théologique»; in particolare ciò emerge con la riflessione di Henry, in cui la fenomenologia è chiamata a descrivere il «fenomeno» della Rivelazione divina, affermando in modo apodittico che una fenomenologia autentica deve avere come unico oggetto la Vita divina. La teo-fenomenologia di Henry si sorregge su una concezione della fenomenologia che Bernet qualifica come «iper-trascendentalismo», in cui ogni fenomeno concreto viene riassorbito nella struttura della Vita divina. Infatti, il significato di riduzione operante nella fenomenologia di Henry è radicalmente alternativo rispetto a quello husserliano. «Per Husserl la riduzione del mondo e la riconduzione dell’uomo all’esperienza della vita trascendentale si realizza in vista di una costituzione trascendentale del mondo, di una rifusione del senso del mondo attraverso un soggetto trascendentale che si sente responsabile della sorte del mondo»93. Tuttavia Bernet vuole soffermarsi non tanto sulle difficoltà filosofiche dell’«iper-trascendentalismo» di Henry, ma sulle difficoltà teologiche a cui la sua posizione approda. La concezione dell’autoaffezione come rivelazione della Vita divina non solo produce un abbandono del mondo, ma anche un’astrazione, se non svalorizzazione, dell’effettività, della concretezza umana. Ogni dimensione empirica della vita umana viene assorbita e svuotata di senso mediante la condizione di figlio di Dio. D’altra parte la stessa concezione del primo Vivente, dell’Archi-Figlio oltre a ricordare nella sua genesi dal padre una processualità di matrice neoplatonica, fa astrazione di ogni dimensione ontica della vita di Gesù: «è dunque indifferente che l’ArchiFiglio sia nato ebreo, che abbia preso carne nel corpo di Maria e che sia morto sulla croce del Golgota ?» 94. L’esito inevitabile di questa impostazione consiste nel configurare un’indifferenza del divino per l’umano, nella sua dimensione ontica, mondana: l’uomo empirico risulta separato da Dio, proprio a causa di «una concezione fusionale della Vita trascendentale»95. Secondo Bernet «il libro di M. Henry è l’espressione di una comprensione “barocca” del cristianesimo»96, nel senso che giudicando impossibile trovare tracce del divino nel mondo dominato dalla scienza, Henry ripiega verso una fenomenologia che vuole dar voce all’autorivelazione di Dio nell’intimità della vita. «Si tratta dunque di una concezione estetica del cristianesimo, preoccupata prima di tutto di celebrare la gloria della Vita divina sulla base della sua manifestazione nell’intimità di una sensibilità umana che è sublimata dalla presenza di Dio che la abita a partire dalla sua nascita».97 5. Considerazioni conclusive. È possibile riconoscere un elemento che contraddistingue tutti questi recenti percorsi filosofici: si tratta di una sorta di «ritorno a Husserl», vale a dire una rilettura e un nuovo confronto con i testi fondativi del metodo fenomenologico. Questo «ritorno a Husserl» è motivato da specifiche istanze che non sono più quelle gnoseologiche, di fondazione di una teoria della conoscenza, poiché in tale problematica viene individuato un limite della fenomenologia husserliana e la sua dipendenza dalla filosofia moderna. Nei testi di Husserl, infatti, vengono cercati percorsi che consentano una riconfigurazione del sapere filosofico in chiave post-metafisica. Il progetto di Marion a questo proposito è chiaro: considerare la fenomenologia l’unica possibilità per riproporre una «filosofia prima» in epoca post-metafisica. E tuttavia proprio questa ricomprensione della fenomenologia husserliana avviene senza la mediazione della riflessione heideggeriana, la quale per prima aveva aperto la questione dell’essenza della metafisica. In questo senso il «ritorno a Husserl» avviene facendo astrazione dall’interpretazione che Heidegger aveva elaborato della fenomenologia husserliana, e che per molto tempo era stata presa come l’ultima parola del confronto tra Husserl e Heidegger. Possiamo, quindi, legittimamente parlare di una fenomenologia francese postmetafisica, ma anche post-heideggeriana, nel senso che la prospettiva con la quale Heidegger si era appropriato del metodo fenomenologico viene considerata una deviazione se non una sovrapposizione alle finalità proprie della fenomenologia. Sia Marion, sia Henry, sia lo stesso Lévinas concordano nel sottolineare come l’interrogazione ontologica, che innerva fin dalla sua genesi la riflessione heideggeriana, invece di essere uno sviluppo inevitabile del metodo fenomenologico impedisce di cogliere le potenzialità presenti nei testi husserliani. La Seinsfrage si sovrappone 92 Ivi, p. 139. R. Bernet, Christianisme et phénoménologie, in AA.VV., Michel Henry, l’épreuve de la vie, cit., pp. 181-201, in particolare p. 199. 94 Ibidem. X. Tilliette, Le Christ du philosophe, «Communio», 127 (1996), pp. 94-99, in particolare p. 98-99. 95 R. Bernet, Christianisme et phénoménologie, cit., p. 200. 96 Ibidem. 97 Ivi, p. 201. 93 15 alla questione originaria per la fenomenologia dell’apparire a tal punto che Heidegger stesso è obbligato ad abbandonare il metodo fenomenologico. Senza dubbio il primo che compie questo gesto di rottura nei confronti della collocazione della fenomenologia in una problematica ontologica è Lévinas, che individua nella Seinsfrage un impedimento per l’essenza stessa della filosofia. L’ontologia viene vista come il tentativo sempre presente nella storia della filosofia di costruire una intelligibilità onnicomprensiva del reale, tentazione a cui non si è sottratto Heidegger nel suo porre il problema dell’essere al centro dell’interrogazione filosofica. La fenomenologia husserliana, invece, attenendosi rigorosamente soltanto all’apparire, ha aperto uno spazio di ricerca che consente alla filosofia di incontrare il proprio «altro». «La fenomenologia e il suo altro» potrebbe essere l’istanza programmatica che guida questa nuova fase della filosofia francese. Solo la fenomenologia apre all’«altro» della filosofia, che poi di volta in volta viene interpretato in maniera diversa. La divisione tra questi autori non avviene solo in relazione all’identificazione di questo «altro», per Lévinas l’altro uomo, per Marion l’appello, per Henry la vita, ma sulla possibilità che la fenomenologia con le sue procedure metodologiche consenta un accesso diretto a questo «altro». Se da una parte Lévinas ritiene necessaria una interruzione della fenomenologia, una sua sospensione per non ridurre l’altro al medesimo, al contrario Marion e Henry ritengono che questo «altro» sia attestabile sul piano fenomenologico, radicalizzando e purificando le intuizioni di Husserl. Infatti, Henry reputa che questo «altro», questo impensato della filosofia sia l’assoluta immanenza affettiva della vita, a cui solo la fenomenologia materiale apre, mentre Marion identifica nella donazione l’incondizionato fenomenologico che Husserl ha sempre presupposto, senza mai tematizzare. In sintesi, se solo la fenomenologia apre all’«altro» della filosofia, per Lévinas questo «altro» non è di natura fenomenologica, mentre per Marion e Henry è rigorosamente fenomenologico. E tuttavia una riconduzione di queste problematiche alla loro origine husserliana, come questo «ritorno a Husserl» configura, ci sembra molto istruttiva. Abbiamo visto come le specifiche problematiche che affrontano i protagonisti del tournant théologique hanno origine da alcune questioni presenti nei testi husserliani. In particolare appare evidente che il nucleo tematico concernente lo statuto dell’Ur-impression e quindi della dimensione hyletica della coscienza occupa un posto privilegiato. L’indubbia fecondità di tale questione risiede nel fatto che il modo in cui Husserl cerca di comprendere lo statuto dell’Ur-impression può essere considerato come il modo in cui Husserl tematizza la relazione della fenomenologia con il suo «altro». È per questo motivo che Henry e Lévinas concentrano la loro attenzione sulla dimensione hyletica della coscienza; in essa si può verificare se e come la fenomenologia husserliana sia in grado di portare alla luce una dimensione capace di resistere al potere trascendentale del soggetto. La fenomenologia husserliana non può perdere il punto di vista del soggetto e quindi anche la prima dimensione radicalmente estranea che il soggetto incontra – la hyle – per darsi deve relazionarsi alla coscienza o, quanto meno, presupporlo. La pre-donazione passiva si configura perciò come una forma virtuale di ragione, e ciò si conferma anche quando Husserl la identifica con la pulsione, l’istinto primordiale della natura, che ultimamente viene pensata in termini di teleologia latente. Da questo punto di vista si può comprendere come le posizioni di Henry e Lévinas optando per la non originarietà dell’intenzionalità costituente, finiscono entrambi con il tematizzare un’assoluta passività del soggetto, che inevitabilmente comporta una perdita del punto di vista del soggetto nell’istituzione del senso. Come abbiamo avuto modo di vedere per Henry e Lévinas il soggetto si riduce alla semplice coscienza impressionale e ciò comporta l’identificazione tra passività e soggettività; entrambi risolvono la tensione interna ai testi husserliani scegliendo di escludere dalla sfera originaria l’intenzionalità del soggetto e mettendo fuori gioco le condizioni stesse che permettono di parlare di soggetto. Se per Lévinas ciò realizza il deliberato proposito di affidare interamente all’altro le condizioni di individuazione dell’ipseità, per Henry resta da chiarire come dall’immanenza dell’auto-manifestazione della vita si generi un’ipseità. Dal punto di vista husserliano entrambe le posizioni sono a loro modo aporetiche, ma mentre Henry ritiene di muoversi sempre in un orizzonte fenomenologico, Lévinas riconosce questa aporia come la necessaria interruzione della fenomenologia di fronte al suo altro. È possibile trovare in questi autori una figura della soggettività che non sia semplicemente identificata con la passività ? A nostro avviso tale figura può essere rintracciata nella struttura del desiderio così come viene pensata da Lévinas. Le prime pagine di Totalità e infinito sono dedicate alla presentazione della dinamica della trascendenza e significativamente il primo paragrafo si intitola Desiderio dell’invisibile. La dimensione del desiderio viene individuata da Lévinas come la matrice originaria, saremmo tentati di dire, la struttura trascendentale dell’esperienza umana. Infatti, nel desiderio si realizza quell’apertura verso una trascendenza mai raggiungibile, che per definizione si sottrae ad ogni rappresentazione oggettiva. «Il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso l’assolutamente altro»98. Il desiderio, quindi, non si confonde con il bisogno, che invece si presenta come l’appropriazione di ciò che manca al soggetto, in questo senso «il bisogno è il primo movimento del Medesimo»99. Al contrario il desiderio è aspirazione a ciò che sfugge ad ogni riduzione eidetica, è aspirazione all’alterità assoluta: «il Desiderio è desiderio dell’assolutamente Altro»100. La dinamica del desiderio è oltre il regime dell’intenzionalità oggettivante, in quanto l’Altro è ciò che non può mai essere intuito. In uno dei passaggi in cui Lévinas si confronta con Henry, dopo aver sottolineato come il desiderio è un avvicinarsi «al di là del pensiero», precisa che «distinto dalla E. Lévinas, Totalità e infinito…, cit., p. 31. Ivi, p. 116. 100 Ivi, p. 32. 98 99 16 tendenza e dal bisogno, il Desiderio non appartiene all’attività, ma costituisce l’intenzionalità dell’affettivo»101. In questa struttura del desiderio, contrariamente a quanto sostiene Henry, è necessariamente implicato un movimento di trascendenza, che non si identifica con la correlazione noetico-noematica, poiché «l’intenzione mira a ciò che si rifiuta alla correlazione che ogni intenzione, in quanto tale, instaura; a ciò che, di conseguenza, non può essere in alcun modo, nemmeno concettualmente, rappresentato»102. Arrivando a definiere il desiderio come «intenzionalità dell’affettivo» Lévinas non fa altro che riformulare e interpretare in termini diversi la pre-donazione passiva della pulsione, dell’istinto primordiale con cui Husserl tenta di determinare la dimensione hyletica della coscienza. Si tratta appunto non di un’attività del soggetto, cioè di un’intenzionalità oggettivante, ma di una tensione della sfera pre-soggettiva, guidata da una ragione latente. Nel riconoscere la verità del desiderio, Lévinas sembra accettare di individuare, analogamente a Husserl, un’intenzionalità implicita nella hyle. Il desiderio, d’altra parte, inteso non come un bisogno, configura un tipo di soggettività che non è semplice presenza a sé, pura auto-affezione, ma apertura ad una alterità che non può mai darsi in una auto-donazione compiuta e definitiva, pena l’estinzione del desiderio medesimo. Per Henry, invece, non può esserci alcuna «intenzionalità dell’affettivo», perché ciò significherebbe reintrodurre una trascendenza nel processo di auto-rivelazione della vita. E in effetti nessuna verità del desiderio viene riconosciuta da Henry, che, pensando il desiderio solo come mancanza, lo riduce a mero bisogno, il quale, nella misura in cui viene soddisfatto, si estingue. «Il desiderio è desiderio solo in funzione di una mancanza»103. Nel tentativo di difendere l’originarietà dell’affettività, il desiderio non può che essere una dimensione secondaria: «l’affettività si propone piuttosto come una determinazione a priori della volontà stessa, in quanto la volontà è desiderio e bisogno, e in quanto non c’è né desiderio né bisogno che non sia, fin d’ora, determinato affettivamente, che non sia, fin d’ora, una modalità dell’affettività e ciò che la presuppone» 104. Non riconoscendo alcuna intenzionalità all’affettivo, Henry non può che separare in un dualismo insuperabile affettività e desiderio, cioè immanenza e trascendenza, e in questo modo escludere il punto di vista del soggetto. L’affermazione dell’auto-affezione pura dell’auto-donazione della vita è inconciliabile con la struttura del desiderio, che introduce uno scarto nel soggetto, una contemporanea presenza e assenza a sé della coscienza. D’altra parte è possibile pensare ad un’affettività pura, cioè svincolata da ogni mediazione storica o simbolica? Se è vero che solo «il dolore mi istruisce sul dolore»105, è anche vero che già l’esperienza del dolore – e non solo la sua tematizzazione – è sempre mediata dall’esperienza passata, dall’attesa futura. In altri termini, in Henry, ma ciò vale anche per la donazione incondizionata di Marion, è esplicitamente ricercata una via diretta che conduca all’originario, nella convinzione che l’originario possa presentarsi in un’auto-donazione pura e assoluta. Questa auto-esibizione diretta è raggiunta sul piano riflessivo attraverso la radicalizzazione della fenomenologia husserliana; si tratta di una radicalizzazione, ma in realtà è una semplificazione, in quanto, come abbiamo visto, in Husserl non viene mai meno il punto di vista del soggetto. Questo postulato di un’auto-donazione pura, infatti, implica in Henry la perdita del soggetto o in Marion la sua accidentalità. La mediazione della coscienza all’accesso dell’originario è, invece, necessaria perché la sua evidenza è indeducibile, cioè non può essere conseguita sul piano riflessivo attraverso il gesto della riduzione. Ciò comporta l’impossibilità di fare completa astrazione dalla co-implicazione, dal coinvolgimento del soggetto nella tematizzazione del fondamento. Il fondamento ha un carattere fenomenologico, vale a dire si manifesta, non perché è accessibile direttamente sul piano riflessivo – la riduzione resta per definizione un’operazione riflessiva, teoretica -, ma in quanto l’evidenza che gli è propria non è deducibile al di fuori dell’atto della coscienza in cui si realizza. Per quanto riguarda Lévinas il problema sorge nella composizione delle due istanze sopraindicate: da una parte l’identificazione nell’Altro della verità dell’io, e dall’altra il riconoscimento nella dinamica del desiderio della figura originaria della soggettività. Il non aver saputo comporre queste due istanze ed aver soltanto progressivamente accentuato l’assolutezza dell’Altro ha condotto anche Lévinas a ripiegare verso una identificazione di soggettività e passività, assecondando il presupposto secondo il quale la risposta umana pregiudica l’incondizionatezza dell’assoluto. Quanto più l’alterità è sottratta alla mediazione della coscienza, tanto più è garantita la sua assolutezza. In questo senso l’accento posto sulla Ur-impression diventa quanto mai comprensibile. La rivelazione dell’Altro rende irrilevante la dinamica del desiderio – quindi del punto di vista del soggetto – in ordine alla relazione con l’Altro. Se è vero che il desiderio, distinguendosi dal bisogno, non pò essere la mera appropriazione di ciò che manca, pena l’assorbimento dell’Altro nel Medesimo, è altrettanto vero che il desiderio può accendersi solo in vista di un compimento. L’appagamento del desiderio non è la distruzione del desiderio, in quanto la trascendenza dell’Altro è salvaguardata dalla sua inogettivabilità e dalla sua impossibile auto-esibizione pura. L’appagamento è il riconoscimento dell’implicazione del desiderio nella relazione con l’Altro. Anche in questo caso il gesto levinasiano di identificare la verità dell’io nell’Altro non può che condurre ad una frustrazione del desiderio: «Desiderio senza soddisfazione» 106 precisa Lévinas in Totalità e infinito. Id., Scoprire l’esistenza…, cit., p. 237 nota 3. Ibidem. 103 M. Henry, Genealogia della psicoanalisi…, cit., pp. 171-2. 104 Ivi, p. 170. 105 Id., Fenomenologia materiale, cit., p. 86. 106 E. Lévinas, Totalità e infinito…, cit., p. 32. 101 102 17 Proprio in un contesto problematico di questo tipo diventa legittimo interrogarsi sul legame tra desiderio e dono. Infatti, il dono non può forse essere compreso come forma di compimento del desiderio? Nel dono, infatti, si mette in moto la dinamica del riconoscimento reciproco, ma ciò può avvenire solo se il dono non solo non impedisce lo scambio, ma ne presuppone sempre la possibilità. Un dono che non può per definizione essere ricambiato non è altro che un’affermazione narcisistica. Tale aspetto ci sembra che non venga adeguatamente sottolineato dalla fenomenologia del dono di Marion, il quale cercando di garantire la purezza del dono, vale a dire la sua irriducibilità allo scambio, perde di vista l’originario legame tra donatore e destinatario che precede il dono. Al contrario di quanto sostiene Marion non c’è evidenza del dono, proprio perché il dono si presenta con un’insuperabile ambiguità, può essere per esempio esercizio di sottomissione e questo è proprio il caso in cui il dono non può essere contraccambiato. La non evidenza del dono, e su questo ci sembra che la riflessione di Derrida pur nella sua paradossalità e astrattezza tocchi un punto decisivo, implica la necessaria mediazione della libertà – ed è per questo che il dono è qualcosa di originario -, la quale può affidarsi all’apprezzamento del dono in virtù del legame tra donatore e destinatario che precede il dono. Dunque la dinamica del desiderio individua nel dono un proprio compimento, in quanto nel desiderio dell’Altro (genitivo oggettivo) viene richiesto un riconoscimento della dignità della propria posizione di interlocutore, che solo un dono che può essere ricambiato realizza. Il tentativo di Marion di bilanciare l’assolutezza della donazione mediante l’introduzione della figura dell’«adonato» appare giustapposta rispetto al procedimento riflessivo messo in atto per conseguire l’incondizionatezza della donazione. Con questo dispositivo Marion cerca di attenuare la sua impostazione fortemente lévinasiana. Infatti, sin dai primi lavori, L’idolo e la distanza e Dio senza essere, Marion si situa nel solco tracciato da Lévinas di una critica alla differenza ontologica heideggeriana e più in generale dell’impossibilità di raggiungere l’originario se questo originario viene pre-compreso dal punto di vista ontologico. Sostanzialmente il cammino di Marion si modifica passando da una teologia senza ontologia ad una fenomenologia senza ontologia. Inoltre identificando nell’appello della donazione ciò che precede e istituisce il soggetto o, meglio, l’interlocutore Marion dimostra di condividere il gesto lévinasiano, che assolutizza l’alterità – in questo caso la donazione – rispetto alla dinamica intenzionale del soggetto. La radicalizzazione della riduzione è dettata dall’esigenza di mettere fuori gioco ogni possibile esercizio intenzionale, al fine di accedere ad un assoluto non contaminato dalla relazione con il soggetto. L’adonato o il testimone non sono altro che il tentativo di riguadagnare a posteriori la possibile implicazione del soggetto in ordine al manifestarsi della verità. E tuttavia l’adonato non concorre a determinare il senso della donazione, in quanto il suo primato è conseguito sul piano riflessivo proprio grazie alla messa fuori gioco della dinamica del soggetto, del riconoscimento, della mediazione della coscienza. Tuttavia vi è comunque un aspetto essenziale che distingue la fenomenologia di Marion da quella di Lévinas; si tratta di un aspetto a partire dal quale è possibile sollevare delle obiezioni all’impostazione del rapporto tra fenomenologia e teologia così come si configura in Marion. Appoggiandosi ad una famosa indicazione heideggeriana Marion in più riprese sottolinea che in fenomenologia «la possibilità resta la norma, e non l’effettività» 107, al contrario la fenomenologia di Lévinas vuole attestare «il “reale” che precede e sorprende il possibile» 108. Come abbiamo avuto modo di vedere Marion ritiene che lo spazio di ricerca più significativo aperto dalla fenomenologia consiste nell’aver messo fuori gioco ogni pre-comprensione che possa pre-determinare l’apparire. Ed è proprio in questo aspetto che Marion individua nella fenomenologia una filosofia prima non più metafisica. La metafisica, infatti, ha sempre stabilito a priori le condizioni di possibilità di un fenomeno, i criteri necessari a cui il fenomeno deve sottostare per essere possibile. In questo senso la fenomenologia husserliana diventa erede legittima della metafisica moderna perché ricostruisce dei limiti a priori dell’esperienza (l’intuizione, l’io costituente, l’orizzonte trascendentale). Ebbene, Marion ritiene che per ovviare a questo rischio la possibilità debba fondare e precedere la realtà. Lévinas, invece, sfruttando il concetto di Ur-impression sottolinea che la fenomenologia ha come orizzonte di ricerca l’esperienza effettiva e non ciò che è possibile: l’effettività precede sempre ogni possibilità. Per Lévinas il volto dell’altro è l’esperienza effettiva che non può mai essere messa fuori gioco, in quanto precede sempre e istituisce la tematizzazione dell’esperienza: il volto «sorprende» ogni senso possibile. A nostro avviso in questo Lévinas resta fedele al dettato husserliano della precedenza assoluta dell’esperienza effettiva: che cos’è infatti la Ur-impression se non l’alterità che impedisce di subordinare la realtà alla possibilità? Fin dalle Ricerche logiche senza un contenuto reale del vissuto (il contenuto primario o la hyle) non si costituisce alcuna esperienza e quindi non si può porre in essere alcuna analisi fenomenologica. Il primato del possibile sul reale assume un ruolo centrale nella speculazione di Marion, in quanto diventa il punto d’appoggio con il quale viene introdotto il fenomeno saturo di secondo grado, la rivelazione. Questa dal punto di vista fenomenologico viene definita paradossalmente (o aporeticamente) un fenomeno, che non rompe con il piano della fenomenalità, ma comunque meramente possibile. L’effettività della Rivelazione, infatti, non è oggetto di indagine fenomenologica, ma compete alla teologia. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno che può essere analizzato dalla fenomenologia esclusivamente nella sua possibilità, mentre la sua effettività è oggetto di indagine della nonfenomenologia, appunto la teologia. Nonostante tutti gli accorgimenti presi questa posizione riproduce un atteggiamento tipico della metafisica razionalistica moderna, in cui la ragione elabora a priori le condizioni di possibilità della rivelazione, che infatti viene intesa come una variante del fenomeno saturo: «se rivelazione deve esserci (e la 107 108 Id., Dato che…, cit., p. 290. E. Lévinas, Altrimenti che essere…, cit., p. 41. 18 fenomenologia non ha alcuna autorità per deciderlo), allora essa prenderà, prende o ha preso la figura del paradosso dei paradossi, seguendo una legge d’essenza della fenomenalità» 109. In questo senso secondo Marion «la Rivelazione (come effettività) non si confonde mai con la rivelazione (come fenomeno possibile)» 110; ma il problema è appunto se fenomenologicamente ha senso analizzare un fenomeno nella sua possibilità indipendentemente e anteriormente alla sua realizzazione effettiva. La novità della fenomenologia non è stata invece quella di integrare nell’interrogazione filosofica l’esperienza effettiva? Con la fenomenologia non diventa proprio l’esperienza effettiva l’unica base a partire dalla quale si legittima il sapere filosofico? Queste perplessità sono sorte anche in ambito teologico, in cui si accusa Marion di voler operare una deduzione della rivelazione cristologica o nel migliore dei casi di pensare alla verità teologica come integrazione della verità filosofica, cioè razionale. In questo senso la teologia, seguendo lo schema di Marion, non può ultimamente giustificare la propria verità, in quanto l’effettività della rivelazione non è indagabile sul piano razionale: la ragione, che per Marion è solo fenomenologica, può al limite esprimersi sulla sua possibilità. A questo punto assolutamente accidentale diventa la storicità dell’evento cristologico, che non può aggiungere nulla a quanto la ragione ha già stabilito a priori in ordine al fenomeno saturo di secondo grado. L’evento indeducibile della rivelazione cristologica, che la teologia del Novecento ha elevato a punto di partenza imprescindibile contro la ragione moderna nel suo compimento hegeliano, implica il necessario riferimento all’effettività, cioè alla vicenda storica di Gesù. Il dualismo tra fenomenologia e teologia implicito nell’impostazione di Marion non può che riprodurre il dualismo tipico della filosofia moderna tra fede e ragione, secondo cui la fede non è altro che l’integrazione ultimamente non giustificabile – irrazionale quindi -, di ciò che la ragione ha già acquisito autonomamente. Tale esito è riscontrabile anche nell’interpretazione del cristianesimo di Henry, in cui la fede «non appartiene all’ambito della coscienza, ma del pathos»111, e perciò è assoluta passività pre-egologica. La radicale esclusione di ogni dinamica intenzionale del soggetto, per non pregiudicare l’assolutezza dell’originario, implica una soppressione dell’atto di fede, inteso come la forma autentica richiesta per corrispondere alla verità. J.-L. Marion, Dato che…, cit., p. 289. Ibidem. 111 M. Henry, Io sono la verità…, cit., p. 231. 109 110 19