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Antonio Guacci, un friulano che disegnò Trieste con arte di Diana Barillari L'opera di Antonio Guacci, «ingegnere umanista» come lo definisce efficacemente Marco Pozzetto, si svolge in massima parte nella città di Trieste, dove progetta e insegna, lasciando segni materici - edifici - e ricordi ancora vivi nei suoi numerosi «scolari» presso la facoltà di Ingegneria, nella quale opera per circa un quarantennio. La sua vocazione architettonica si sviluppa grazie all'alunnato presso Giuseppe Samonà suo docente alla facoltà di Ingegneria di Padova (si laurea nel 1939) e prosegue nel secondo dopoguerra quando il maestro aderisce alla lezione dell'architettura organica di Frank Lloyd Wright. È proprio l'architettura wrightiana, che ha in Bruno Zevi un appassionato promotore, il luogo nel quale Guacci individua quella particolare relazione tra forma, natura e struttura dalla quale deriverà la propria cifra espressiva. Ma non occorre guardare oltreoceano dato che fin dagli anni '30 l'Italia poteva vantare una tradizione di ricerca e sperimentazione nel campo dei nuovi materiali - in primis il calcestruzzo armato - che ha punte di eccellenza quali Pier Luigi Nervi. E non a caso uno dei primi a intuire la valenza architettonica delle ardite strutture di Nervi è un osservatore attento e poco ortodosso quale Giuseppe Pagano che su «Casabella» si affretta a pubblicare lo stadio Berta a Firenze. Quello che la storiografia architettonica definisce «espressionismo strutturale» si sviluppa tra il 1955 e il 1965 ed è il risultato della confluenza dell'architettura organica e di quella che subisce il fascino dell'ingegneria. È sostanzialmente questo il quadro nazionale entro il quale le opere di Guacci possono essere inserite, poiché egli è compagno di strada di progettisti che ritengono la struttura un valore, pertanto si rifiutano di nasconderla e la rendono manifesta, trasfigurandola in vero e proprio linguaggio espressivo. In quanto all'influenza di Wright a Trieste negli anni del Gma se ne fa portavoce Marcello D'Olivo che progetta il Villaggio del Fanciullo (1950-57) che costituisce l'unico esempio di dialogo con il maestro d'oltreoceano nella città dominata dagli angloamericani, meritandosi lui - che triestino non è in quanto «furlano» - di rappresentare la città sulle riviste nazionali di architettura. Più agevole rintracciare a Trieste un filone di architetture che fanno riferimento all'ingegneria, ma siamo pur sempre nella città che nei magazzini di Porto vecchio ha conseguito un primato a livello europeo nella sperimentazione del calcestruzzo armato, ancora alla fine dell'800: nessuna sorpresa quindi che qui si sappia costruire bene e questo lo conferma ancora Pagano, riscontrando negli edifici triestini più solidità che bellezza. Ma vi è un altro aspetto dell'attività di Antonio Guacci che va tenuto presente, vale a dire l'iniziale amore per la pittura e la scultura che si integra armoniosamente con la progettazione: in questo egli è veramente architetto secondo i dettami rinascimentali, vale a dire artista completo e poliedrico, capace di padroneggiare diversi linguaggi figurativi, che al pari dei suoi maestri e ispiratori, tra gli altri Leon Battista Alberti, riconduce al disegno, il mezzo principe per esplorare l'universo delle forme e fissare l'idea creativa. E proprio questa originalità oltre al connubio ingegneria-architettura che ancora oggi impedisce di collocare Guacci nella storia dell'architettura, più per carenza della disciplina che dei suoi edifici. Nel santuario di Monte Grisa (1959-1966), l'edificio che domina lo sky-line della città e costituisce forse la sua opera più conosciuta, l'ingegner Guacci svela la predilezione per il triangolo isoscele, un modulo che guida non solo la composizione ma è allo stesso tempo struttura, originando un'architettura nella quale è «quasi impossibile separare i fatti statici da quelli spaziali» secondo la definizione che pronuncia Sergio Musmeci, il grande ingegnere strutturista che viene chiamato a certificare i calcoli statici. Ed è proprio la marcata cifra «strutturale» e l'adozione di reticoli compositivi basati sul triangolo a segnare gli edifici di Guacci, i quali sono caratterizzati da una libertà espressiva che riesce difficile assimilare a uno stile, poiché ognuno riesce diverso e con una precisa identità. Se il Tempio di Monte Grisa nella versione che è stata realizzata tradisce le originarie intenzioni del progettista, che avrebbe voluto ben altro dialogo con la natura circostante - ma sappiamo a quali difficili mediazioni e cambiamenti è soggetta un'opera di architettura, nonché di quali amarezze sia fonte per il suo progettista (e ne sapeva sicuramente qualcosa Carlo Scarpa autore del tormentatissimo progetto di ampliamento del museo Revoltella) - pure le regole compositive dominate dal principio della proporzione ci raccontano molto sulla cultura di Guacci. Ci pensa l'ingegnere militare Vitruvio a chiarire che la distanza ideale tra le colonne di un tempio è configurata da un rapporto proporzionale basato sul diametro della colonna come modulo, dove bellezza e solidità si equivalgono. Le proporzioni non sono quindi astrazione poiché il loro obiettivo è assicurare che la costruzione si regga, dato che un edificio bello è allo stesso tempo stabile. Questo è anche il grande insegnamento del mondo della natura dove gli organismi dei viventi sono riconducibili a forme geometriche, cosicché le case di Wright con il modulo esagonale sono ispirate alle strutture degli alveari, mentre i triangoli e i solidi riportano al mondo fantastico dei cristalli e proprio ai cristalli si ispirava la prima versione del Tempio Mariano. Anche un'architettura che sembra solo una compenetrazione di volumi quale l'Edificio centrale aule, attuale sede della facoltà di Ingegneria (1969-1971), che si erge con le sue pareti in cemento grezzo solcate da file di finestre continue, quando è stato abbinato da Giovanni Ceiner a una maschera-scultura, ha rivelato la propria natura di oggetto dotato di anima e abitato da un principio vitalistico. Ascrivibile al catalogo delle opere che fanno parte del filone «brutalista» che si sviluppa in Italia negli anni '60 e '70, l'edificio Aule appartiene a un periodo di grande ottimismo verso le potenzialità espressive, oltre che strutturali, del calcestruzzo armato lasciato a vista, ora rientrato dopo aver constatato lo stato di degrado di molti edifici. Se si guarda al progetto quale avrebbe dovuto essere e non si è realizzato di questo edificio - due strutture con pianta a forma di rombo, la prima poggiata su un basamento parallelepipedo, l'altra ancorata al declivio retrostante del monte Valerio - si viene pervasi dal rimpianto per una grande occasione persa, una delle tante purtroppo svanite senza che nessuna voce riuscisse a arrivare nelle stanze giuste. Resta al professor Guacci a dieci anni dalla scomparsa l'affetto di tanti «scolari» che ne hanno ammirato l'insegnamento e ne tengono vivo il ricordo oltre a proseguire nella propria attività fondandosi sul suo magisterio, mentre anche la città comincia a conoscerne meglio le opere: è questo il senso dell'ideale passaggio di testimone della giornata di studio, dagli allievi di allora agli studenti di adesso. Il Piccolo 13 gennaio 2006