Mirella Schino
Copioni, frammenti e attori
Un uomo, in toga, guarda in avanti. La posa nobile, la cassa piena di rotoli ai
suoi piedi ne farebbero un buon esempio di oratore, raffigurato accanto ai suoi
discorsi. Invece l’iscrizione ci dice che è un attore. Anche per lui, come per gli
oratori, dunque, un segno distintivo sono i rotoli: copioni. O più probabilmente sono
frammenti di copioni – un testo senza parti corali, formato solo delle parti dialogate,
per esempio. Oppure una antologia di prologhi, o di canti lirici. In ogni caso: testi
incompleti. Comunque, in apparenza, testi. Accanto ai testi e agli attori spesso ci sono
maschere. Ma possono esserci anche solo i rotoli. Sembra una testimonianza sulla
importanza del testo –di importazione greca. Prevalenza della parte più nobile: in
apparenza. E viene in mente quanti problemi porterà questo rapporto complicato –
attore e testi – in tutti i secoli successivi.
Ma qui c’è un altro elemento dell’iconografia, un piccolo segno concreto,
materiale, misterioso come è l’arte dell’attore stessa: la cesta. La cassa, che lascia
intravedere i suoi rotoli come lo scrigno di un tesoro lasciato socchiuso a far brillare i
diamanti. La capsa dei papiri: cioè i testi, ma presi nel loro insieme.
Non si prende quasi mai in considerazione il fatto che il rapporto di un attore
col testo, e allo stesso modo il rapporto di un attore col personaggio, non è mai un
rapporto uno ad uno, ma è sempre (a seconda dei periodi in forma leggermente più o
meno accentuata) il rapporto con un insieme.
Questo insieme ha anche un nome tecnico, si chiama “repertorio”, lo si
potrebbe chiamare ipertesto, ma forse così si perderebbe la sua concretezza, la
materialità.
Perché allora di questo insieme, tanto concreto e materiale, evidente quanto la
cesta piena di rotoli ai piedi degli attori, tanto spesso non viene valutato il peso, l’
importanza, le conseguenze? La risposta è semplice: perché per farlo bisognerebbe
spostarsi dai problemi letterari a quelli dell’arte materiale dell’attore.
Nel teatro latino, nel periodo della Commedia dell’Arte. Nel teatro
elisabettiano. Nel teatro ottocentesco: i problemi della comprensione dell’arte
materiale dell’attore diventano più pressanti in tutti i periodi in cui gli attori sono i
padroni del loro lavoro, in cui non ci sono autori, intellettuali o direttori che
intervengono e organizzano, che allestiscono. In tutti i periodi in cui non solo
l’interpretazione ma l’intera organizzazione materiale del teatro passa nelle mani dei
raggruppamenti degli attori, gli spettatori ammirano, ma poi sono in difficoltà a
giudicare i percorsi. In tutti questi periodi (che sono poi la maggior parte della storia
del teatro) diventerebbe necessario spostare lo sguardo, abbandonare i problemi
letterari, e cercare di guardare il teatro da un punto di vista differente, dal punto di
vista della cesta.
La cassa, o cesta, insegna che l’idea che il teatro viva per costruzione di singole
“opere” è solo una illusione da spettatore. Forse è un modo per rendere lo spettacolo
omogeneo alle altre arti.
L’unità di misura del teatro d’attore, invece, non è mai un’opera singola: per
capire come funziona, bisogna ragionare piuttosto in termini di frammenti e di
insieme:
Forse il problema dei frammenti è ancora più difficile da capire
dell’importanza dell’insieme. Si potrebbe porlo così: più nel teatro ha importanza
l’insieme del repertorio, più quello che resta nella memoria dello spettatore sono
frammenti, flash, immagini, scene staccate dalla storia. Scene particolarmente
brillanti, quelle che restano a luccicare nel ricordo dello spettatore, e che si saldano
tra loro del tutto indifferenti alla cornice originale, alla storia da cui sono nate.
Ma anche il lavoro dell’attore si articola in frammenti, e non parte tanto da un
testo nel suo insieme quanto dalla costruzione di piccoli punti fermi, piccole
specialità che possono essere riutilizzate di frequente (e c’erano attori bravissimi a
morire, c’erano quelli che venivano considerati specialisti delle scene d’amore.
C’erano gli specialisti dell’ubriachezza, della malattia, della rabbia). Anche i
personaggi sono solo frammenti, rispetto alla storia nel suo complesso.
Così, la somma dei frammenti di un attore produce la sua opera, che non è il
singolo spettacolo, ma l’intera sua vita professionale. Dal punto di vista degli attori,
l’abitudine al vasto repertorio smussa i confini della serata, favorisce la fusione tra
una parte e l’altra all’interno dello stesso ruolo, attenua ancora di più il rapporto con
il singolo testo.
Talvolta, perfino, alcuni attori particolarmente grandi hanno lavorato al
repertorio per costruirlo come un buon insieme, alternanza di riso e lacrime, amori e
lazzi.
Basterebbe rassegnarsi, per capire, all’idea che gli attori per molti secoli siano
stati padroni, e che i testi alla fin fine non siano che materiali come gli altri.
Basterebbe rassegnarsi all’idea che nella cesta di un attore ci sia un po’ di tutto. Ma
questo non è successo praticamente mai.
Ogni volta che i padroni del teatro non sono più autori o intellettuali, ma sono
gli attori, ogni volta che l’organizzazione e non solo l’interpretazione passa nelle loro
mani, la struttura del lavoro teatrale si assesta dunque fino a basarsi su questi due
elementi chiave: l’insieme (cioè il repertorio, o ipertesto) e i frammenti.
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Quest’attore qui, l’attore con la cesta, è come se costruisse un unico
personaggio surdimensionato, che si evolve nel tempo. Diventa lui stesso un’opera
d’arte, che è unitaria e al tempo stesso in movimento. Ed è questo il senso per cui, per
tanti attori, si è parlato della vita –professionale- costruita come un capolavoro.
Perché questo accada, il repertorio –o ipertesto, o cesta- deve venire costruito
con grande cura, come un’architettura, come uno spazio al cui interno interagivano
tra loro elementi diversi: i personaggi, la natura e le specializzazioni dell’attore, le
sue visioni sceniche, persino la sua figura privata. La costruzione del repertorio, la
buona relazione tra le sue parti, era un segno determinante di maturità artistica. Ma
solo agli occhi degli altri attori, non a quelli degli spettatori, perché questa
architettura non veniva esplicitata mai. Quel che lo spettatore poteva vedere, perciò,
era solo un mucchietto di testi, che a lui sembravano in genere riuniti alla rinfusa,
disomogenei dal punto di vista letterario. Non vedeva la cesta, l’insieme. Vedeva
l’attore ammassarli con apparente casualità, mano a mano che la vita glieli porgeva, e
doveva essere un po’ come vedere una massaia che ammucchia acquisti nella sua
borsa della spesa. E’ facile, allora, specie per un passante ignaro di cucina, non
rendersi conto che questo sedano e questo pacco di farina, questo mucchio
apparentemente disomogeneo è stato messo insieme pezzo a pezzo per impastare una
magnifica cena.
I criteri in base ai quali veniva scelto un repertorio rispondevano a necessità
materiali e complicate, interne alla storia degli attori. Ma storicamente sono stati
quasi sempre criteri diversi, e in genere inconciliabili rispetto a quelli che guidavano
invece gli spettatori colti nel selezionare dalla produzione drammatica un’ideale
antologia di capolavori.
E almeno la capsa del teatro latino contiene rotoli di papiro, frammenti nobili.
In periodi successivi la cesta degli attori conterrà di tutto. Per secoli la “cesta” è stato
uno degli oggetti più ricorrenti negli aneddoti sul teatro – e uno di quelli meno
considerati quando se ne doveva parlare seriamente.
Continuava a contenere i testi, naturalmente. Cioè frammenti: le “parti
scannate”, le parti di ogni singolo attore, che venivano estratte dalla pièce, e copiate a
suo uso e consumo, perché le imparasse a memoria, da sole, rompendo i legami con
gli altri personaggi, con la storia. Ma nelle ceste, quelle dell’aneddotica teatrale, non
c’era solo quello. Erano il mezzo di trasporto con cui l’attore si portava a teatro tutto
quel che gli era necessario: la sua parte, il costume, il trucco, atri testi, tutto
mescolato. Stava tutto insieme, parti nobili e parti molli, pezzi casuali e pezzi
raffinati.
Nella cesta non esisteva la separazione tra “testi”, “frammenti di testo” e
“materiali” (come costumi oppure oggetti). E questa mancanza di separazione, una
volta che smettiamo di giudicarla sciatteria, dovrebbe farci riflettere parecchio
sull’arte dell’attore, e anche su quanto sia difficile capirla, comprenderne e accettarne
il funzionamento.
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Nella cesta svuotata, durante la rappresentazione, i comici più “guitti” ci
mettevano a dormire i neonati. Se non avevi dormito nella cesta non eri figlio d’arte
per davvero, non appartenevi a quel livello basso che, in realtà, costituiva il filo di
continuità di un’arte che si è sempre trasmessa muta. In silenzio.
In una iconografia ideale del teatro, un posto d’onore dovrebbe essere dato alla
cesta.
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