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Crepuscoli dello spettatore. Attività, inattività e lavoro dello spettatore nell’economia performativa. Marco Pustianaz 1. Crepuscoli Da qualche anno l’archiviazione dell’evento performativo è alla base delle mie riflessioni. Tale questione ha preso la forma non tanto della sua archiviazione in quanto azione artistica, ma dell’archiviazione della relazione che lo costituisce e lo fa apparire1. Pur essendo questa una relazione a due vie, tra performer e spettatore e viceversa, il mio sguardo è puntato non tanto sulla scena, vale a dire sulla parte luminosa e illuminata di una parola e di un gesto che si danno a vedere, ma sullo spettatore. Chi sia lo spettatore, sia durante l’evento sia dopo che ha visto, quando la sua condizione temporanea si è dissipata, mi pare una delle questioni più cruciali del teatro, sebbene sia una domanda che appartiene ai suoi limiti estremi, ai suoi margini spazio-temporali. L’enigma del teatro non è quanto accade sulla scena, ma quanto accade dall’altra parte e tra le due parti. Porre domande intorno allo spettatore oggi significa interrogarlo sulla soglia della sua mutazione, se non progressiva sparizione. In questa direzione il teatro si salda a buona parte dell’arte contemporanea, dove dominano i paradigmi dell’interazione, della collaborazione e della partecipazione (Bishop 2006; Miessen 2010; Jackson 2011; Alston 2013). Lo spettatore così come l’abbiamo conosciuto rischia di diventare un residuo mal tollerato. Del resto, la sparizione è sua abitudine e destino. La presenza spettatoriale è dichiarata necessaria a ogni evento performativo, eppure anche differente, separata, lasciata nell’ombra. La presenza l’uno all’altro di performer e spettatore, caratteristica ontologica della relazione teatrale secondo i più, è attraversata da una linea di demarcazione, per quanto mobile e costantemente rielaborata, senza la quale la scena del teatro non comparirebbe. Quindi, se di compresenza possiamo parlare essa è solo apparentemente irenica: seppure fondata su un generale consenso vi è comunque una impari visibilità dei due ordini di corpi e spazi. La linea che li demarca è anche il ricordo di una frattura e la relazione che ne risulta non può che essere una relazione di potere. Possiamo ragionare politicamente su questa divisione soltanto se accettiamo di considerarla non come accidente, ma come condizione costitutiva per l’apparizione stessa del teatro. Si tratta di una “partizione del sensibile” che, come ha mostrato Rancière, separa e distribuisce spazi, tempi e capacità rendendo conflittuale proprio ciò che viene definito terreno comune (Rancière 2011b). La politicità del teatro è radicata in questa divisione, mai suturata dall’evento. La marginalità dello spettatore che ne deriva ha una conseguenza profonda anche nella difficoltà di teorizzare chi o che cosa sia stato lo spettatore una volta che egli2, insieme con l’evento, non appaia più. Se il teatro è luogo delle ombre, non lo è per via degli attori – ombre ben attrezzate per il loro lavoro – ma per via di un’umbratilità spettatoriale che attende, sottende e sparisce. O forse proprio questa è la questione crepuscolare da interrogare, una questione al limite del visibile e invisibile: la sparibilità dello spettatore. È 1 Ho affrontato in modo più esteso la questione dello spettatore nell’ambito del teatro in Pustianaz (2011). La centralità della relazione performer-spettatore nella creazione di senso dell’evento è anche sottolineata da Fischer-Lichte (2014), soprattutto nel capitolo 3, “La co-presenza corporea di attori e spettatori”. Per un approccio socio-culturale alla spettatorialità teatrale si veda Bennett (2013). La spettatorialità è stata indagata in modo più esteso nel cinema: per un’utile rassegna italiana cfr. Somaini (2005). 2 Il genere maschile è naturalmente fuorviante: lo spettatore è anche spettatrice. Mentre il suo guardare gli assegnerebbe una posizione maschile, il suo essere soggetta allo spettacolo gliene confermerebbe una femminilizzata. Infine, quale soggetto transizionale possiamo pensarlo maschile e femminile, nonché transindividuale poiché generalmente non spettatore singolo ma co-spettatore. una questione di archiviazione affettiva3. È la questione di come lavorare nel crepuscolo e intorno al crepuscolo politico dello spettatore. Poiché, come sappiamo dalla lingua italiana, vi sono almeno due sensi ambivalenti nella temporalità crepuscolare, a seconda che il crepuscolo preluda al tramonto o all’alba. Nel primo crepuscolo lo spettatore si avvierebbe al tramonto insieme al dispositivo che l’ha storicamente forgiato; nel secondo lo spettatore rappresenterebbe una diffusa e tenue emergenza, fragile e appena percepibile. Insistere sullo spettatore significa affrontare il dubbio di una presenza che può ugualmente sparire nella luce o nel buio. Il primo crepuscolo è più agevole da descrivere in quanto sembra presentarsi come una mutazione inevitabile, con tutta la positività degli eventi riconosciuti come storici. In effetti, non possiamo dimenticare che lo spettatore, in quanto elemento di un dispositivo, deve essere teorizzato come funzione variabile e contingente, costituita in relazione a un particolare medium. La sua volatilità odierna non è un’eccezione e dipende dal fatto che la configurazione dello spettatore così come lo conosciamo è formazione estetica, politica ed economica prodotta da un dispositivo teatrale in continua trasformazione, soggetto alle pressioni di altri dispositivi e discorsi. In particolare, la costituzione dello spettatore occidentale moderno attraverso il suo collocamento spaziale – la sua messa in situ – e la sua modalità di incorporazione nell’evento rappresentano una forma di biopolitica, definibile come la messa a questione del corpo vivente come risorsa disponibile, trasformabile, aggregabile o separabile: in breve, mobilizzabile. Nel periodo moderno le arti performative sono state un campo privilegiato di technè dei corpi, sino a diventare, come sappiamo, “laboratori” in cui il corpo attorale è stato messo al lavoro per saggiare le sue capacità di riproduzione e rappresentazione. Il corpo messo esplicitamente a lavorare è stato quello del performer ed è per questo motivo che sia l’attenzione teorico-pratica sia la speculazione critica si sono concentrate sull’efficacia del corpo attorale performativo: è il suo agire – e l’estensione del suo agire – ad aver trasformato l’attore nel corpo privilegiato della relazione performativa. Tuttavia, se questo è il corpo esplicito oggetto di disciplina biopolitica, l’efficacia del suo lavoro non potrà che misurarsi rispetto a un corpo implicito e virtuale, potenzialmente modificabile, che è quello dello spettatore, corpo affettivo implicato nell’evento e introdotto nelle sue pieghe – un evento predisposto per modularne una riconfigurazione. Ogni pratica teatrale, così come ogni riflessione sull’attore, è – in modo neanche troppo dissimulato – pratica e riflessione intorno al corpo spettatoriale in quanto corpo in transizione, disponibile al cambiamento. Con il termine spettatorialità possiamo indicare la condizione affettiva in cui il soggetto rende disponibile il proprio corpo a una soggettivazione temporanea, in eccesso rispetto alla quotidiana: un incorporamento inedito, aperto al nuovo e alla discontinuità che, tenendone a mente la connessione con altri corpi spettatoriali, possiamo interpretare come agencement4. La riconfigurazione di tale corpo temporaneo e in divenire è l’obiettivo sempre sfuggente del teatro. La performance artistica, dunque, sembra innescare una connettività tra due ordini di corpi – l’uno posizionato come attivo e agente, l’altro come reattivo e patente – il cui obiettivo è la trasformazione consensuale del secondo. Tale consensualità, tuttavia, non è da intendersi in senso contrattualistico, bensì come consenso a un assoggettamento che apre le porte a una discontinuità affettiva non predeterminabile (Clough 2010). In quanto corpo per definizione manipolabile, e tuttavia secondo una potenzialità aperta che lo rende corpo su cui nessuno – nemmeno ella stessa – può vantare un controllo preventivo, il corpo spettatoriale è dunque il corpo che fa problema nella relazione teatrale. Intorno alla sua mobilità e posizionamento rispetto agli assi di attività e passività, controllo e autocontrollo – oltre che sugli assi già accennati di visibilità e invisibilità, di riconoscimento e disconoscimento – si gioca una parte importante delle relazioni estetico-politiche tra performer e spettatore. Non è un caso se nell’unico saggio esteso dedicato al teatro il filosofo francese Jacques Rancière abbia scelto di concentrarsi sul destino politico dello spettatore contemporaneo, proponendone una genealogia esteticopolitica che affonda le sue radici in epoca precedente (Rancière 2008). Dal titolo del saggio, Le spectateur émancipé, il primo impulso sarebbe quello di attendersi un manifesto a favore dell’emancipazione dello spettatore, un’attesa smentita nelle prime pagine, quando appare chiara la tesi contro-intuitiva del saggio: l’emancipazione promessa allo spettatore odierno equivale all’uscita dalla condizione di spettatore, alla rinuncia dell’ombra, dell’inerzia e della passività – secondo una partizione del sensibile che vorrebbe attività e 3 Se l’archivio è il luogo in cui l’oggetto memoriale è costituito in documento da consegnare al futuro, l’affetto è il moto che scompagina l’oggettualità e la chiusura dell’archivio. Lo spettatore è corpo-soggetto archiviante: il suo archivio affettivo non conserverà l’evento performativo, ma la propria relazione in divenire con esso. All’archiviazione affettiva è stato dedicato il convegno internazionale Archivi affettivi / Affective Archives (Vercelli-Torino, 11-13 novembre 2010): cfr. Palladini-PustianazSacchi 2013. 4 “Concatenamento” o “articolazione” (agencement) è il concetto introdotto da Deleuze e Guattari per riferirsi a costellazioni eterogenee e temporanee di corpi, oggetti, qualità, espressioni e territori. Secondo questa prospettiva lo spettatore non è dunque soggetto autonomo bensì corpo senza organi e macchina desiderante. passività ordinatamente attribuite ai due diversi ordini di corpi. Tuttavia, la promessa di emancipazione si fonda su un presupposto inferiorizzante, nella misura in cui costituisce lo spettatore come assoggettato in senso reatroattivo. Soltanto poiché sino ad ora lo spettatore è stato passivo ha senso la promessa che cambia il segno del suo presente e del suo futuro: per poter emancipare presente e futuro sarà necessario aver asservito formalmente il passato. Perciò la promessa è letteralmente ancipite; un crepuscolo si traduce nell’altro, un’alba produce un tramonto, a ritroso. Lo spettatore “emancipato” si troverà a essere pienamente libero tranne nella condizione in cui è stato interpellato dalla promessa: la promessa rende nulla ogni altra possibilità di emancipazione che la preceda. Il paradosso politico per cui un’emancipazione si sdoppia anche in asservimento fa di questa transizione una conversione che viaggia nei due sensi e produce sia il futuro che il suo relativo passato. Di contro a tale emancipazione in realtà anti-spettatoriale il tentativo di Rancière è quello di ristabilire una attività pregressa, o meglio postulata, dello spettatore “qualunque”, in modo da rendere nulla un’offerta emancipativa che serve piuttosto a sventare il pericolo di eguaglianza radicale incarnato dalla figura dello spettatore. L’offerta di emancipazione che lo porta oggi a divenire partecipante e collaboratore non è per Rancière elemento nuovo, ma al contrario l’effetto a lungo termine della posizione paradossale da lui occupata tradizionalmente nel teatro occidentale. Egli riassume questo paradosso nel modo seguente: da una parte, 1) non esiste teatro senza spettatore; dall’altra, 2) essere spettatore è una condizione di difetto, nella misura in cui guardare significa non agire e non produrre sapere. In confronto alla programmata, ripetuta e intenzionale attività dell’attore (definita come arte dell’agire)5, l’inattività dello spettatore lo condanna a un’inferiorità di fatto. Rancière insinua persino il sospetto che la diffidenza del teatro nei confronti della spettatorialità sia sintomo di una teatrofobia interiorizzata dislocata sulla figura dello spettatore. Questo varrebbe persino per le avanguardie teatrali del Novecento, tutte vòlte, seppure in modi diversi se non opposti (si vedano Brecht e Artaud), a convertire lo spettatore in qualcos’altro, come se la spettatorialità nominasse una mancanza costitutiva da sanare per il tramite del teatro stesso. È la logica della connessione tra arte e vita che il filosofo francese ha definito “regime estetico delle arti”, in cui la vita deve essere rinnovata dal surplus di vita dell’arte (Rancière 2011b). Se il posizionamento dello spettatore come soggetto passivo è stato biopoliticamente utile a immaginarne la capacità di conversione in altro, affermarne come postulato l’attività, come fa Rancière, potrebbe rappresentare una sorta di emancipazione preventiva, quasi a protestare dicendo, “non siamo mai stati passivi”. È importante distinguere l’affermazione dalla rivendicazione, poiché per il filosofo francese l’eguaglianza è un principio che va verificato, un metro di misura da cui partire, non un ideale a cui aspirare. In questo senso la temporalità dell’eguaglianza non è proiettata in un futuro, ma radicata come fondamento per misurare qualsiasi gesto politico. Oggi, tuttavia, siamo entrati in un’altra fase. Il problema che resta aperto dopo la lettura di Le spectateur émancipé è il seguente: ammesso che la spettatorialità vada positivamente postulata come attività, come farlo senza collassarla nell’attività definita dal paradigma emancipativo della partecipazione? Rancière identifica l’attività dello spettatore con la generale capacità degli anonimi di associare e dissociare, di produrre senso comparando e traducendo parole, immagini, storie – una capacità interpretativa che risiede innanzitutto nello stabilire relazioni sensibili capaci di allacciare i tempi diversi dell’esperienza e attraversare le partizioni date del sensibile. Ci si può chiedere se questa eguaglianza delle capacità sia sufficiente. Far emergere un’attività dalla passività potrebbe costituire in sé e per sé un passo ambiguo e insufficiente nel contesto odierno, a meno di non introdurre una differenza interna alla definizione stessa di attività nella nuova economia performativa. Infatti, estrarre attività dalla passività spettatoriale nel momento in cui tale passività è già in processo di conversione implica l’onere non solo di rovesciare quella passività in attività, ma di produrre un’attività altra e divergente, non ricompresa nell’alveo di quella dominante. Una simile produzione è del tutto simile a un’invenzione creativa, o meglio a un’autopoiesi: l’attività dello spettatore consiste oggi nella produzione di sé come spettatore. Tale attività lo situa dentro la transizione e lavora in una doppia direzione, producendo non solo un’attività divergente nel tempo presente, ma anche di una capace di essere vera per il passato. Il postulato sull’attività dello spettatore resta inerte se non è prodotto dallo stesso spettatore come verità innanzi tutto producibile e prodotta nel presente, per poi divenire postulato che torni a verificarla apriori, per la seconda volta. In questo senso, la produzione di spettatorialità divergente rispetto all’evento, inevitabilmente sottratta alla partecipazione, entra a pieno diritto nel novero delle pratiche creative che costituiscono lo spazio possibile per 5 Un rovesciamento di questa figura attivista è proposto da Romeo Castellucci, secondo il quale l’attore è piuttosto un corpo posseduto da altri corpi e passivizzato, persino inchiodato sulla scena dallo sguardo dello spettatore: cfr. la performance, esito del laboratorio condotto nel 2010 e 2011 alla Biennale Teatro di Venezia, Attore, il tuo nome non è esatto. una politicità del teatro (Pustianaz 2012). Tale divergenza, per poter mostrarsi, ha necessità di un crepuscolo in cui lo spettatore, lungi dallo sparire o dall’essere catturato in scena, persista, vale a dire si prenda il suo tempo. Non basta più valorizzare il crepuscolo dello spettatore, bisogna innanzi tutto produrlo come intervallo. Va letteralmente inventato di contro a un’economia che riconosce il lavoro spettatoriale soltanto nella forma della collaborazione e nel tempo illusoriamente simultaneo della co-creazione di evento. Per questa ragione diventa cruciale oggi interrogare criticamente il luogo comune sia di questa simultaneità che di questa cocreazione. Tale luogo comune non può più essere riconosciuto come comune, se serve a ottundere o cancellare le differenze tra il lavoro del performer e quello dello spettatore per creare lo spazio liscio e transitivo della collaborazione. Una simile configurazione dello spazio-tempo teatrale contribuisce a totalizzare lo spettatore, trasformandolo in membro di un corpo collettivo assimilabile tout court come pubblico, laddove né il tempo dello spettatore né il suo guardare comune potranno mai essere simultanei o identici a se stessi. Mettere in evidenza le diffrazioni, le differenze e i differimenti all’interno dello spazio-tempo dell’evento performativo può apparire controproducente rispetto alla valorizzazione del teatro come arte comunitaria e socialmente utile. Questa è tuttavia una delle conseguenze del rovesciamento di sguardo portato sullo sguardo marginale dello spettatore. Introdurre il margine nel teatro significa mettere al centro il dissenso spettatoriale, quello che potremmo chiamare mésentente, riprendendo uno dei termini chiave del pensiero estetico-politico di Rancière (2007), qui applicato all’attività dello spettatore. Tale concetto, generalmente tradotto in italiano con “disaccordo” ma che preferisco in questo frangente tradurre con “dissenso”, è importante perché configura l’attività emancipata dello spettatore come singolarità dissensuale. Per quanto l’evento appaia unico e si offra come esperienza unificante, lo spettatore non vede, non sente e non percepisce la stessa cosa; l’evento è attraversato da una molteplicità di atti spettatoriali che ricostituisce a sua volta l’evento come non identico a se stesso. Il mantenimento di questa non identità è cruciale per la possibilità stessa di una virtualità politica. Il dissenso spettatoriale è dunque una esperienza estetica – un sentire divergente, un dis-sensus – che opera di traverso rispetto alla partizione del sensibile che si vorrebbe data. È una dissensualità che precostituisce un atto di dissidenza rispetto alla partizione teatrale che vorrebbe, ad esempio, gli spettatori tutti dalla stessa parte. Propongo perciò di teorizzare la dissensualità spettatoriale in almeno tre direzioni. Nella prima direzione lo spettatore postumo dissentirà dallo spettatore che fu durante l’evento: la questione qui è sino a che punto dopo l’evento l’esperienza spettatoriale sarà o meno assorbita in una sfera eminentemente privata – in pratica che cosa avverrà del surplus non consumato dall’evento. Il corpo affettivo e archiviante dello spettatore lascia in sospeso il destino e il futuro di ciò che avrà visto. In questo senso si può parlare di un “teatro superstite” la cui apparizione è archiviata da un testimone impossibile: lo spettatore, infatti, è testimone nella misura in cui non è più lì dov’era ciò che dovrebbe ora testimoniare (Pustianaz 2009). Nella seconda direzione lo spettatore dissentirà in quanto singolarità dalle altre singolarità con cui è temporaneamente incorporato durante l’evento: la sua è infatti una condizione ibrida che potremmo definire con il paradosso di esposizione segreta. In modo analogo Samuel Weber afferma la non identità a se stesso del cosiddetto “pubblico”: «The audience is no more – nor less – identical with itself than the actors are identical with their roles» (Weber 2004: 271). La sua non identità pone la questione dell’identità dello spettatore come necessità figurale, vale a dire la scelta di quali figure poetiche e teoriche possano nominare la “parte” dello spettatore al fine di contrastarne la generalizzata elisione impolitica. Nella citazione menzionata Weber suggerisce come la spettatorialità produca nello spettatore una sorta di doppiezza, paragonabile al corpo doppio dell’attore. Nella terza direzione, infine, lo spettatore dissente rispetto alla creazione dell’evento stesso. La sua attività di creazione, pur legata all’evento, non lo garantisce affatto; in questo senso è problematico parlare di collaborazione e co-creazione, se non innestando in questi termini il senso cruciale di una divergenza insita nell’evento stesso. La questione dello spettatore è intrattabile dal sapere disciplinare perché lo spettatore non soltanto co-crea l’evento, ma lo derealizza anche, vale a dire lo collassa in una evenienza incapace di essere totalizzata 6. Parlare dello spettatore è l’inciampo che impedisce di parlare dell’evento come di una unicità. Del resto il teatro non ha a che fare con la produzione di un’opera, ma con un “coming to pass”: lo spettatore è lì per ricordarcelo. Radicalizzando questo punto di vista, persino il lavoro del performer diventa, da unica certezza del teatro, dubitabile, essendo il suo un lavoro senza esito certificabile, un lavoro di ripetizione che si realizza in gran parte provando senza la presenza dello spettatore. Non un lavoro, dunque, ma piuttosto una prova di lavoro, una preparazione al teatro. L’incompiutezza del lavoro teatrale risuona nelle bellissime parole di Roberto Latini che ritrovo sul programma di sala relativo alla prima parte dei suoi Giganti della montagna: «L’incompiutezza 6 Per un approccio che discute l’evento performativo come temporalità in divenire non totalizzabile si veda Massumi (2011). Ho sinteticamente dato conto di alcuni snodi concettuali in Pustianaz (2011). è per la letteratura, per il teatro è qualcosa di ontologico». Se l’incompiutezza è ontologica rispetto al lavoro attorale, che cosa diremo del lavoro, così incerto e a maggior ragione incompiuto, dello spettatore? La mutazione della figura dello spettatore per effetto della trasformazione del dispositivo teatrale spinge la questione del suo lavoro alla luce del giorno. È come se il teatro non potesse più permettersi né l’alterità dello spettatore, né la sua sospensione in un limbo di apparente inoperosità – come se fosse finita la tolleranza verso il margine oscuro e il limite poroso della spettatorialità. Entrando sulla scena lo spettatore annuncia da sé il proprio crepuscolo aderendo a un nuovo orizzonte: la disponibilità immediata dell’affetto spettatoriale alla produzione di valore. Nella nuova divisione del lavoro performativo tutti, anche chi fu spettatore, devono visibilmente collaborare. È evidente, dunque, come il nuovo regime del lavoro teatrale dislochi la politica performativa su un terreno nuovo e conflittuale: la questione della messa al lavoro dell’affetto. In questo scenario è il postulato stesso dell’attività a mutare di segno. Parlare dello spettatore come lavoratore non è dunque una semplice provocazione ma una prospettiva di analisi secondo la quale la frattura costitutiva tra performer e spettatore può essere riformulata in termini espliciti di divisione del lavoro. 1. Lo spettatore al lavoro Far emergere la questione del lavoro spettatoriale significa tradurre il paradosso rancièriano dello spettatore nei termini espliciti di divisione del lavoro, tornando a fare pressione sul luogo comune dello spettatore come co-produttore. L’effetto di straniamento che ne risulterà sarà una prova ulteriore di quanto sia produttivo insistere con lo sguardo sullo spettatore proprio mentre transita da un regime di relativa invisibilità a uno di massima visibilità. Questo passaggio permette infatti di cogliere nell’istante storico in cui se ne percepisce la discontinuità il ruolo per così dire infrastrutturale dello spettatore rispetto all’economia dell’evento performativo. Inoltre, seguire la traiettoria dello spettatore in questo transito ha anche il vantaggio di destituire i fondamenti disciplinari dei saperi che si sono costituiti intorno alla visibilità delle forme riconosciute di partizione del sensibile; in altre parole, lo spettatore può fungere da operatore transdisciplinare a causa della sua obliquità e del suo statuto nuovamente instabile. Il paradosso dello spettatore in termini di divisione del lavoro è il seguente: da una parte, 1) lo spettatore è parte integrante della produzione di evento; dall’altra, 2) la sua capacità di produzione è secondarizzata. In breve, il performer lavora, lo spettatore emancipato coadiuva. Seppure ritradotta in attività, l’emancipazione dello spettatore in collaboratore tende nuovamente a mascherare o a sfumare una dissimmetria. La relazione collaborativa viene fraintesa come complementarietà caratterizzata dal mutuo riconoscimento. Ciò sembrerebbe indicare che il prodotto principale del lavoro di collaborazione teatrale è la produzione di un terreno comune, in cui la spettatorialità emancipata è sussunta interamente come collaborazione all’interno di una più generale e valorizzata operatività consensuale. A restare immutata, tuttavia, è la priorità data al lavoro visibile del performer. Più raffinati sono gli strumenti per descrivere, valutare e analizzare il lavoro di chi è lavoratore, più scarsi rischiano di essere quelli che potrebbero analizzare il lavoro richiesto a chi lavoratore primariamente non è. Sarà il lavoro collaborativo di quest’ultimo riconducibile alla medesima economia performativa? Oppure la loro congiunzione biopolitica suggerisce piuttosto una sostanziale inassimilabilità, tenuta insieme da un differenziale di potere? Questo spiegherebbe come mai il lavoro dello spettatore continui a contare primariamente come tempo libero, semplicemente perché il valore del suo lavoro non può trovare un esatto corrispettivo nell’economia della performance7. Da questo punto di vista, il suo lavoro sembra essere paragonabile ad altri tipi di lavoro, formalmente assai diversi ma analogamente non teorizzati, secondarizzati e, naturalmente, non pagati: il lavoro riproduttivo delle donne, il cosiddetto lavoro domestico, e, in termini contemporanei, il lavoro di cura e più in generale il lavoro affettivo 8. 7 Ho ragionato pubblicamente sulla contraddizione tra lavoro spettatoriale e sua gratuità nell’economia performativa intervenendo al progetto di Thomas Hirschhorn “Flamme éternelle” al Palais de Tokyo di Parigi (7-8 giugno 2014): http://www.palaisdetokyo.com/en/exhibition/flamme-eternelle (ultimo accesso 02.07.2015). Sul tempo libero dello spettatore e la sua convertibilità in performance si veda Palladini (2011) che analizza l’emergere di performance amatoriali tra le due guerre mondiali, tra cui le maratone di ballo. Nel 2012-13 al festival di Santarcangelo il collettivo Zapruder ha prodotto una performance amatoriale di ballo a coppie per girarne poi il bellissimo film «I topi lasciano la nave? Yes Sir, I can boogie». 8 Uno dei contributi storici del femminismo italiano sul lavoro riproduttivo è Fortunati (1981). Una definizione di “lavoro affettivo” è stata data da Hardt-Negri (2004: 132): «Il lavoro affettivo è un lavoro che produce e modifica degli affetti, come l’essere a proprio agio, il benessere, la soddisfazione, l’eccitazione e, più in generale, la passione». Questo concetto è una riformulazione Quale politica si manifesta attraverso il disconoscimento o il riconoscimento del lavoro spettatoriale? Queste due alternative sono opposte come sembrano? Delle due l’una: o disconosciamo l’attività produttiva dello spettatore, come se lo spettatore fosse consumato dal suo assorbimento nell’evento, oppure dobbiamo presumere che la sua presenza sia produttiva sì, ma in attesa di essere organizzata e convertita in lavoro visibile: in collaborazione. La seconda opzione è se possibile ancor più sintomatica poiché testimonia anche indirettamente come la spettatorialità sia comunque collegata al lavoro; la differenza è che ora viene riconvertita da latente e implicita virtualità – il lavoro affettivo dello spettatore – a esplicita capacità di lavoro formalizzata nei termini di una performance collaborativa. Per questo motivo le forme partecipative di teatro e performance sono divenute un sito cruciale in cui il lavoro sommerso dello spettatore è contemporaneamente affermato e negato: affermato in quanto estratto come risorsa, negato in quanto la sua forza è prestata alla cornice performativa. L’affetto dello spettatore, in realtà, non è riducibile alla capacità di amplificare con il suo feedback la relazione con il performer, ma produce una molteplicità di mutevoli e temporanee connessioni, centrifughe rispetto all’evento, vere e proprie “linee di fuga” per utilizzare un concetto deleuziano. Infine, l’affetto spettatoriale eccede la definizione positiva di attività; ugualmente attivo e passivo, è prodotto in un circuito di relè consci e inconsci che si sottrae a ogni definizione di pura agentività. Tuttavia, la trasformazione di affetto in lavoro affettivo si fonda in prima istanza sulla premessa della sua riducibilità ad attività organizzabile e spendibile. Il lavoro affettivo dello spettatore è dunque prodotto due volte: in primo luogo recuperato, e quindi trasferito (“alienato”) per essere integrato nella cornice della performance, se non addirittura come suo fine. Se questo è vero, l’attività postulata da Rancière come emancipazione radicale dello spettatore rischia di non contestare la premessa di attività che apre la porta alla conversione in lavoro. Non è infatti soltanto l’attività dello spettatore a essere oggetto di contesa, è anche la sua inattività – un doppio conflitto che rende ambigua la questione dell’emancipazione e la partecipazione nelle arti performative cruciale nella sua ambivalenza. Il fatto che lo spettatore diventi una risorsa impiegabile significa che il lavoro estratto (o distratto) dalla sua spettatorialità era già calcolato come latente e operante nell’ombra. Per questo motivo la partecipazione non cancella la spettatorialità: piuttosto la riscrive, ne cattura l’affetto rendendolo visibile in una nuova economia della performance. Mentre nella precedente divisione del lavoro il lavoro spettatoriale non contava affatto come tale, il campo ridisegnato dalla partecipazione implica che esso debba essere formalmente elevato (emancipato) alla dignità di lavoro. Ma la partecipazione non cancella il conflitto; ne innalza la posta in gioco spostando il terreno sul tipo di lavoro che viene condiviso, sulle condizioni di tale lavoro e sul tipo di capacità e di ruoli che vengono distribuiti. Possiamo forse concludere che nel regime partecipativo il termine “spettatore” è svuotato di senso, vale a dire che attraverso il suo lavoro collaborativo lo spettatore si è definitivamente emancipato dalla spettatorialità? Al contrario, la spettatorialità può ancora nominare il residuo della partecipazione, il surplus sottratto al lavoro messo in comune nella performance. Fare questo significa riattivare altrimenti lo spazio politico dello spettatore interpellandolo con un’altra figura rancièriana: la “parte che non ha parte”, quello che egli chiama il demos (Rancière 2011a). Se partecipare implica la possibilità concessa a chi fu spettatore di prendere parte a un’attività che gli era negata, il punto cruciale di una politica dissensuale sta nel lavorare intorno al residuo negato di tale partecipazione, interrogando ciò che la partecipazione lascia fuori per produrre la “parte che non ha parte”. È residuo negato perché la partecipazione si definisce come ciò che non lascia alcun resto. Se di spettatore avrà senso parlare, invece, è chiaro che bisognerà verificare un resto escluso dalla partecipazione, non attraverso una verifica empirica, ma attraverso una produzione di vero (letteralmente, un verum facere): lo spettatore va prodotto come resto, quella parte che non ha parte una volta sottratta la parte che partecipa – surplus improduttivo persino rispetto al lavoro senza prodotto finale che è l’evento performativo. Volendo superare la divisione tra performer e spettatore l’agenda inclusiva della partecipazione installa un’altra soglia: quella che divide ciò che lo spettatore può condividere nel lavoro comune da ciò che invece non produce nulla di immediatamente socializzabile, nulla che possa essere scambiato. Mentre nell’economia tradizionale lo spettatore rappresentava l’alterità crepuscolare ai margini del teatro, ora lo spettatore nomina la parte che letteralmente non ha parte e che va attivamente prodotta. Il passaggio rappresentato dalla svolta partecipativa non va né rifiutato né liquidato. Va interrogato rispetto ai suoi resti attivabili. In effetti essa richiede un nuovo tipo di spettatorialità autoprodotta: guardare a sé e agli altri come partecipanti situati e sottrarre con ciò alla partecipazione la spettatorialità per attivarla come resto in termini post-marxisti delle teorie dell’affetto (cfr. Gregg-Seigworth 2010) ed è legato alla riflessione sulla categoria di “lavoro immateriale”. non messo in comune9. In questo modo la partecipazione costringe la politica del teatro a tornare alle sue origini: al terreno contestato di ciò che può dirsi comune tra performer e spettatore. Investendo esplicitamente nella spettatorialità come risorsa preziosa integrabile nel processo collaborativo di produzione performativa – un processo venduto agli stessi partecipanti come prodotto culturale immateriale – il teatro partecipativo si colloca all’interno di un generalizzato investimento postfordista nell’affetto, nella vita stessa. Paolo Virno ha descritto in modo analogo la trasformazione del lavoro in disponibilità al lavoro e la produzione di una forza lavoro precaria, flessibile e capace di una generica adattabilità: «Poiché la cooperazione sociale precede ed eccede il processo lavorativo, il lavoro postfordista è sempre, anche, lavoro sommerso. […] Lavoro sommerso è in primo luogo la vita non retribuita, ossia la parte di attività umana che, omogenea in tutto all’attività lavorativa, non è però computata come forza produttiva» (Virno 2001: 73). Questo tipo di forza lavoro è impiegabile in virtù di capacità che attingono a risorse che non sono proprietà esclusive del lavoro stesso, ma pertengono all’incalcolabile ‘mestiere di vivere’ e alla dimensione relazionale dell’affetto. La tesi di Virno sul lavoro sommerso trasformato in risorsa esplicita anche quando non effettivamente svolto (pensiamo in generale al precariato come esemplificazione di questo paradossale lavoro non-lavoro), suggerisce che anche il teatro può diventare un’officina sperimentale biopolitica – un laboratorio – nel quale l’accento sul dressage del corpo attorale lascia posto al dressage del corpo flessibile e temporaneo di chi fu spettatore. Leggendo la trasformazione del lavoro spettatoriale attraverso la lente politica della moltitudine di Virno, potremmo dire che la questione del teatro è cambiata: la domanda “Cosa fare dello spettatore?” si è mutata in “Che cosa può fare lo spettatore?”. La sua partecipazione collaborativa è diventata parte di una più ampia valorizzazione di capacità che, come fa osservare Virno, precedono ed eccedono il processo lavorativo. Nel passo citato egli pone l’accento sulla natura politica dell’improduttività nascosta tra le pieghe delle generiche capacità umane, le quali non solo precedono il lavoro – e quindi lo possono sempre adombrare come virtualità in attesa di impiego – ma lo eccedono anche, costituendone anche il resto. Se questa capacità di mobilizzazione – sintetizzabile con il concetto di affetto – è oggi al centro dell’investimento biopolitico, non è tuttavia a motivo della sua implicita produttività, bensì per il fatto che «è difficilmente descrivibile in termini economico-produttivi». Virno sottolinea che «appunto per ciò (non: malgrado ciò) è una componente fondamentale dell’odierna accumulazione capitalista» (Virno 2001: 78). Alle fondamentali componenti di tale accumulazione possiamo certamente aggiungere l’affetto spettatoriale. Virno ci ricorda che le capacità virtuosistiche della creatività, della flessibilità, dell’improvvisazione e della precarietà sono passate dall’essere qualità caratteristiche del settore culturale e artistico a essere qualità desiderabili in tutta la forza lavoro postfordista, così come nei lavoratori del terziario e dei servizi. Il teatro partecipativo mostra come la centralità virtuosistica del performer stia recedendo dal centro della scena. L’accumulazione capitalista attrae nel suo regime di produzione non tanto i soggetti già disponibili come lavoratori, quanto i soggetti il cui lavoro non è ancora tale. Ecco perché il soggetto precedentemente noto come spettatore diventa più interessante del performer. Se Virno suggerisce come il concetto di performance ha invaso il terreno della politica attraverso l’appropriazione economica della vita e dei corpi, una simile invasione di campo ha investito anche il teatro post-spettatoriale, che elide i confini con il management, le politiche sociali, il campo educativo e, in ultima analisi, l’ingegneria politica 10. La svolta partecipativa nell’arte contemporanea ha attirato l’attenzione di numerosi studiosi che hanno sottolineato come contesti diversi producano un diverso significato delle pratiche partecipative. Se negli anni Sessanta e Settanta la partecipazione si alleava a una domanda di democrazia e di contestazione delle divisioni sociali, sessuali e di genere, nell’ultima dozzina di anni il concetto di partecipazione è stato oggetto di critiche proprio nei campi di utilizzo dove prima era considerato strumento di agentività politica: ad esempio, nel campo della pianificazione dei processi di sviluppo, dei progetti sociali e di comunità, dell’attivismo e delle arti performative chiamate a coadiuvare in tali processi. Molte critiche rilevano che la partecipazione è messa in atto come strumento per smussare i conflitti, costruendo una finzione comunitaria che può contribuire positivamente alla gestione e integrazione di gruppi sociali secondo processi primariamente eterodiretti. Markus Miessen, ad esempio, sostiene che la svolta sociale nelle pratiche artistiche si presta spesso a una politica depoliticizzata del consenso che ha abbandonato ogni nozione conflittualità, nel senso agonistico in cui la intende Chantal Mouffe (Miessen 2010: 83-104). L’effetto principale della partecipazione sarebbe in 9 La questione della messa in comune, di che cosa e in comune con chi, non è limitata soltanto alla spettatorialità durante l’evento, ma si trasferisce a quella post-evento, dove si dà per scontato che lo spettatore si ritragga sparendo nella propria privatezza. Lavorare sugli spazi e tempi post-spettatoriali, su un’archiviazione affettiva capace di riattivare una spettatorialità che si sottragga sia alla socialità puramente ricondotta ai social network sia alla semplice privatizzazione dell’esperienza significa immaginare performance liminari che lavorino dentro e per il crepuscolo spettatoriale. 10 Sul nesso novecentesco tra performance e rendimento nei campi gestionali, industriali e tecnologici cfr. McKenzie 2002. questi casi di persuadere soggetti marginalizzati intesi come target passivi di politiche sociali a vedersi invece inclusi quali attori di processi collaborativi volti a un bene comune la cui definizione è predeterminata. Così il linguaggio progressista del coinvolgimento sociale, dell’empowerment e dell’inclusione si è mutato in risorsa retorica e gestionale di una governamentalità che satura la socialità neo-liberista. In quanto pratica emergente non spettatoriale, o post-spettatoriale, la partecipazione contribuisce alla produzione specifica di un campo di relazioni in cui i differenziali di potere, lungi dall’essere sospesi, continuano a dipendere da un insieme di divisioni mobili (spesso meno visibili rispetto alla violenta frontalità del teatro tradizionale), dalla conseguente rimodulazione di agentività e da partizioni estetiche che costituiscono le nuovi cornici dello spazio collaborativo della performance. In effetti, se con la sua strategica benevolenza la partecipazione sembra mettere in ombra le divisioni, la conseguente perdita di potenziale politico suggerisce al contrario che è forse in atto una divisione più violenta. La performance consensuale sembra essere il segnale di quello che Rancière ha chiamato “polizia” (Rancière 2011, vale a dire una distribuzione ordinata (partage) che ha già calcolato le risorse disponibili: il dicibile, il visibile e il distribuibile – ciò che può essere messo in comune. Tale partage ha già allocato le rispettive capacità tra i soggetti riconosciuti come aventi parte. Un effetto di questo ordinamento poliziesco (contrario alla politica, secondo Rancière) è che non prevede né eccesso né surplus. Al livello della quotidiana distribuzione di possibilità nella realtà sociale la partecipazione tende a funzionare come una forma amministrativa, allo scopo di distribuire ciò che esiste (quella parte che è resa disponibile e comune) in modo che ciascuno possa essere incluso secondo quanto gli compete. Scambiare la parte di spettatore con quella di partecipante parrebbe inserirsi in un’analoga agenda di inclusione, beneficiando così del riconoscimento di una capacità attiva in precedenza negata. Anche la moltitudine di cui parla Virno incarna il potenziale di vita continuamente attratto e convertito in forza lavoro; ciò avviene perché le capacità convertite in lavoro hanno la loro fonte nel non-lavoro. In ogni caso, è precisamente il confine tra lavoro e non lavoro, tra tempo del lavoro e tempo libero che viene eroso, anzi capitalizzato. Lo scenario, tuttavia, non deve essere normativizzato né stabilizzato come egemonico. Al contrario, esso va messo in gioco come politicizzabile. Se il Capitale capitalizza la parte di vita non riducibile a esso, la politica non può che politicizzare ciò che della vita non è politico (Esposito 1999). Mentre il concetto rancièriano di “polizia” presuppone che non vi sia né resto né esteriorità – che il sociale comprenda tutte le parti che ne prendono parte -, il suo concetto di “politica”, invece, verifica che un resto esiste, non calcolato e dunque incalcolabile, non rappresentato nella distribuzione esistente. Come abbiamo visto, Rancière chiama questa parte non calcolata e sotto certi aspetti inesistente demos, la parte che non ha parte. Anche la moltitudine, nei termini in cui la teorizza Virno, sebbene catturata come forza lavoro persino quando non lavora – o forse specialmente quando non lavora – esprime capacità o virtualità non riducibili al “puro” lavoro. La loro irriducibilità fonda il diritto a un surplus negativo, vale a dire non quello in attesa di essere valorizzato, bensì il surplus al quale verrà rifiutato ogni valore, che si tratti di valore di uso o di scambio. Mentre il valore di scambio aumenta con la relativa scarsità e il valore di uso incrementa in relazione alla capacità di soddisfare i bisogni sociali, il valore di ciò che eccede entrambi e manca la valorizzazione non può che essere incalcolabile, nella duplice accezione di senza valore e di superiore ad ogni valore. Il fatto di non essere rappresentato non significa che giaccia in un vuoto astorico; al contrario, una parte di esso sarà sempre convertita e soggetta a investimento e mobilizzazione. In un certo senso, ciò che non ha valore è doppiamente risorsa, positiva e negativa, grazie all’interna separabilità tra parte catturabile e parte che non ha parte. L’analogia che ho suggerito tra lo spettatore, la moltitudine di Virno e il demos di Rancière non intende proporre un’equivalenza di figure, semmai moltiplicarle per contribuire a verificare in che modo lo spettatore sia stato – e continui a essere – il punto cieco più persistente del teatro, una presenza indispensabile eppure disattesa persino quando emancipata, o forse proprio quando emancipata. Il fatto è che lo spettatore è irriducibile a una piena integrazione o valorizzazione dal punto di vista della performance. All’interno dell’evento eppure ai suoi margini e sempre eccedente, lo spettatore può rappresentarne il soggetto paradossalmente politico; la sua soggettivazione affettiva e costituzione temporanea richiedono una risposta che non può esaurirsi né nel suo riconoscimento, né nel suo recupero in termini partecipativi. Venire in soccorso dello spettatore integrandolo come co-produttore può significare sprecarne il valore incalcolabile e depotenziarne l’attività improduttiva. L’attività senza prodotto e senza esito dello spettatore rimette in gioco la crepuscolarità non tanto di un agire positivo, ma di un segreto lavorìo. Verificare la crepuscolarità dello spettatore – una verifica che non può che partire dallo spettatore stesso – significa sdoppiarlo, produrlo in entrambe le direzioni della sua sparibilità. Emergendo come spettatore nel momento in cui viene incluso nella scena egli/ella capitalizzerà il resto eccedente alla propria valorizzazione. Il suo tramonto sarà così anche la sua alba, poiché avrà emancipato con la seconda il primo. Avrà emancipato l’inclusione con la forza dell’esclusione. Come l’Angelus Novus commentato da Walter Benjamin, lo spettatore annuncia il crepuscolo con la forza di una promessa retroattiva che lo sospinge come una tempesta oltre l’evento; con «il viso rivolto al passato» (Benjamin 1997: 80) fisserà lo spazio evacuato del teatro, in cui lampeggiano le rovine che egli/ella non cessa di produrre. Chiamare lavoro questa tempesta spetta solo a noi. Riferimenti bibliografici Alston Adam, 2013, “Audience Participation and Neoliberal Value. Risk, Agency and Responsibility in Immersive Theatre”, Performance Research 18:2, pp. 128-38. Benjamin Walter, 1997, “Tesi di filosofia della storia”, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino. Bennett Susan, 2013, Theatre Audiences, London, Routledge. Bishop Claire, ed., 2006, Participation, Cambridge (MA), MIT Press. Clough Patricia T., “The Affective Turn: Political Economy, Biomedia, and Bodies”, in Gregg Melissa, Gregory J. Seigworth, eds., 2010, The Affect Theory Reader, Durham NC, Duke University Press, pp. 206-225. Esposito, Roberto, 1999, Categorie dell’impolitico, Bologna, Il Mulino. Fischer-Lichte Erika, 2014, Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, Roma, Carocci. Fortunati, Leopoldina, 1981, L’arcano della riproduzione: casalinghe, prostitute, operai e capitale, Venezia, Marsilio Editori. 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