afriche e orienti
rivista di studi ai confini tra africa, mediterraneo e medio oriente
Trimestrale dell’Associazione Afriche e Orienti
C. P. 41 - 40100 Bologna centro
Registrazione al Tribunale di Bologna n. 6875 del 7/1/1999
numero 3/2005
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a cura di Alessandro Porreca, Fulvia Tinti
Progetto grafico e impaginazione
Mario Breda
>
in questo
numero
In copertina
4 La Venezia nera di Fred Wilson: storie fittizie e verità sommerse
Salah Hassan
dossier
Migranti africani in Italia: etnografi e
a cura di Bruno Riccio
12 Presentazione
13 Senegalesi nella fabbrica. Spazi di lavoro e di rappresentazione in un’impresa
metalmeccanica del territorio bergamasco
Sebastiano Ceschi
27 Città senegalesi: il caso di Zingonia
Giulia Sinatti
41 Migrazioni transnazionali e cooperazione decentrata:
ghanesi e senegalesi a confronto
Bruno Riccio
54 Rappresentazioni migranti: il Concert Party ghanese
Roberta Altin
68 Migranti nigeriani e associazionismo: il caso di Torino
Pietro Cingolani
82 I viaggi verso l’esilio:
l’elaborazione dell’identità eritrea tra esperienza e narrazione
Anna Arnone
96 Donne di una diaspora.
Le migranti somale in Italia tra vincoli di continuità e identità traslate
Francesca Decimo
110 Appartenenze etniche, affiliazioni religiose ed associazioni
Micol Pizzolati
121 Vai e vieni, il lavoro di migrante. Senegalesi tra Louga e Torino
Eleonora Castagnone
C ronach e
133 New Deal in Iran
Anna Vanzan
138 Il “torneo delle ombre” in Asia Centrale. Cronache del consueto
Michele Chiaruzzi
144 Il Sud Sudan perde il suo controverso leader
Massimo Zaccaria
Ricerch e
148 Gheddafi e il mondo dalla guerra fredda alla decolonizzazione:
visionario e radicale, anzi realista
Giampaolo Calchi Novati
172 L’obiettività nell’informazione giornalistica
Enrico de Angelis
180 Questioni irrisolte: il PKK e la lotta del popolo kurdo in Turchia
Daniele Campari
Temi
192 Da Windrush a oggi: emigrazione e cultura in Gran Bretagna
Mike Phillips
Strumenti
201 cinema
La 62^ Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia
Anna Vanzan
204 recensioni
>
dossier
Roberta Altin
Rappresentazioni migranti:
il Concert Party ghanese
Flussi ghanesi nel nord-est italiano
Nella primavera del 1991 stavo iniziando la tesi di laurea con una ricerca a Zugliano,
paese della cintura periferica a ridosso di Udine, dove era sorto uno dei primi centri
di accoglienza del Friuli-Venezia Giulia. Pierluigi di Piazza, parroco e fondatore del
centro “Balducci”, quell’anno a Pasqua celebrava il battesimo di Luis, figlio di una
coppia ghanese. Erano i primi arrivi, a cavallo tra la fine degli anni ’80 e primi anni
’90, segnali evidenti che il Friuli, regione di emigranti per consolidata tradizione,
stava invertendo la rotta. Nel 1997 i ghanesi soggiornanti nel Friuli-Venezia Giulia
erano già saliti a 629, praticamente tutti concentrati nelle due province di Udine e
Pordenone (Caritas 1998; Altin, Vatta 1999) e iniziava a prefigurarsi uno spaccato
dell’immigrazione dall’Africa sub-sahariana abbastanza difforme dal resto d’Italia. Lo
scenario, che accomuna il Friuli a una parte del vicino Veneto, è quello di un’immigrazione africana poco incline al commercio e ambulantato, che si insedia stabilmente fin dai primi anni in un territorio economicamente forte, ma ben distribuito in piccoli centri produttivi e residenziali. Il quadro locale va tuttavia contestualizzato e
agganciato a dinamiche socio-economiche di dimensioni più ampie, che travalicano
i confini regionali e nazionali.
Il primo flusso di ghanesi verso l’Italia si verificò subito dopo la crisi petrolifera del
1983, che fece deviare in direzione europea le rotte precedentemente dirette verso la
5 4 afriche e orienti
5 5 Migranti africani in Italia:
etnografie
dossier
vicina Nigeria. Come per la maggior parte degli immigrati non solo africani, l’Italia
rappresentava generalmente nel progetto migratorio una nazione di seconda scelta,
auspicabilmente una tappa intermedia prima di approdare in Gran Bretagna, Olanda
o nei paesi scandinavi. Ma le politiche di chiusura agli ingressi stranieri messe in atto
in quel periodo dalla maggior parte di questi paesi, in particolare dalla Gran Bretagna,
costrinsero numerosi ghanesi a una permanenza più lunga del previsto in Italia, dove
si insediarono soprattutto in Campania, trovando facile impiego con lavori stagionali nel settore agricolo. Sul finire degli anni ’80 questo primo gruppo di immigrati ghanesi, spesso studenti, cominciò a dirigersi verso il nord Italia che sembrava offrire condizioni di lavoro meno precario e più tutelato.
Progressivamente nel corso degli anni ’90 i ghanesi, seguendo un itinerario che da
Accra li faceva atterrare a Roma, dopo brevi periodi di manovalanza agricola nel sud
Italia, cominciarono ad dirigersi a nord-est, seguendo quella che resta per gli africani
la guida di percorso più affidabile: il passaparola delle filiere etniche che garantiva che
lì «era facile trovare lavoro». Friuli, Veneto, Emilia-Romagna e alcune province della
Lombardia diventarono così le tipiche aree di insediamento ghanese, con un minimo
comune denominatore che condizionava la scelta d’insediamento: essere territori ad
economia diffusa, con buone capacità di inserimento lavorativo nel settore industriale, specie in imprese di piccole e medie dimensioni.
Il benessere dell’ormai mitico “nord-est produttivo” offriva in effetti un’industrializzazione dal volto più umano, senza grosse concentrazioni metropolitane, grazie a un
insediamento territoriale capillare di piccole-medie imprese a prevalente conduzione
familiare. Le mappe di insediamento degli immigrati in regione, se confrontate con
altre regioni italiane, si distinguono soprattutto per la peculiarità che il numero più
alto di presenze straniere in rapporto alla popolazione autoctona viene segnalato nei
piccoli centri di provincia, anziché nei centri urbani o nei capoluoghi. Non necessariamente però questo si traduce in un inserimento anche sociale nella vita locale.
Nel 2003 i cittadini ghanesi residenti in Friuli-Venezia Giulia sono giunti a quota
2.985 e rappresentano in termini di presenze la nazionalità africana più diffusa. Nei
dati statistici l’Africa occidentale, da leggere in questo caso più o meno come sinonimo di “Ghana”, costituisce il 9,1% dei soggiornanti stranieri, contro la media italiana pari al 6,4% (IRES Friuli Venezia Giulia - FVG 2004: 20-21) e si caratterizza
come presenza stabile, ormai strutturata, con una componente femminile quasi al
50% e una folta seconda generazione nata in territorio italiano, in costante aumento.
La particolarità del quadro regionale, se comparata al resto d’Italia, sta anche nella
bassissima incidenza di immigrati provenienti dall’Africa settentrionale (3,4% contro
la media italiana pari al 17,7%).
Oltre alla favorevole congiuntura economica, l’incastro positivo fra l’offerta dei ghanesi e la domanda del territorio regionale si spiega anche in termini demografici. Il
Friuli-Venezia Giulia continua una lunga fase di generale declino che lo pone nelle
statistiche fra le ultime regioni per indice di natalità e fra le prime per la percentuale
di anziani sul totale della popolazione. I ghanesi si sono così insediati senza grossi clamori negli interstizi di una produzione manifatturiera sempre più in difficoltà nel
reperimento di manodopera, senza dare problemi all’ordine pubblico, né tanto meno
averne con la giustizia, alimentando negli anni una percezione e immagine di gruppo composto da «lavoratori onesti» che si intona perfettamente all’etica locale friulana fondata sui valori del lavoro e dell’onestà. La religione cristiana professata dalla
maggior parte di loro ha ulteriormente alimentato la sensazione di aria di famiglia con
gli autoctoni.1 Questo il quadro di sintesi per capire l’escalation dell’immigrazione
ghanese in Friuli, che costituisce attualmente per numero di presenze la seconda
nazionalità straniera in provincia di Pordenone e la sesta in quella di Udine (IRES
FVG 2004).
Negli ultimi anni gli indicatori chiari di un passaggio da una fase emergenziale e
straordinaria a una più “matura” del processo migratorio ghanese vengono soprattutto dalla stabilità residenziale, dal numero delle presenze femminile (43,3%) e di
minori (23,8%) (IRES FVG 2004).
Il ricongiungimento familiare subentra non appena il capofamiglia trova un minimo
di stabilità occupazionale e, dopo un breve periodo di acclimatamento, la maggior
parte delle donne ghanesi si inserisce con un’occupazione regolare nei settori industriali o manifatturieri, sebbene spesso con mansioni più basse rispetto al proprio
grado d’istruzione e alle competenze professionali, dato del resto riscontrabile fra tutti
gli immigrati. La stabilità occupazionale e residenziale ha determinato anche il lento
passaggio verso scelte abitative diverse, con una sempre maggiore propensione a optare per l’acquisto della prima casa in Italia. Tuttavia la progettualità familiare è ancora
incerta: pur risiedendo da oltre dieci anni in Italia, pochissimi ghanesi hanno fatto
richiesta di cittadinanza italiana, perché questo implica la scelta ben precisa di rinunciare alla propria nazionalità e quindi al progetto, per ora lasciato in sospeso, di ritornare in patria con un capitale economico da reinvestire.
Se volgiamo ora lo sguardo alle caratteristiche interne al gruppo si può constatare che
gli ultimi arrivi dal Ghana mostrano un generale abbassamento della qualifica professionale e del titolo di studio rispetto alla prima fase migratoria degli anni ’80, dove
quasi tutti gli immigrati ghanesi erano diplomati e spesso laureati. È un tipo di migrazione che proviene nella quasi totalità da ambiti urbani, con una netta prevalenza di
ashanti originari dal distretto di Kumasi e in percentuale minore, a seguire, gà, fante
ed ewe provenienti per lo più dalla capitale, Accra.
La netta predominanza di ashanti ha condizionato non poco l’organizzazione della
vita collettiva ghanese in terra straniera, anzitutto nel dare una spiccata connotazione
etnica al “Ghana Nationals Association Udine Branch”, associazione che per statuto
dovrebbe rivolgersi indistintamente a tutti i ghanesi presenti in regione, ma che nelle
pratiche mostra di operare scelte in parte discriminanti per i rappresentanti degli altri
gruppi etnici (Altin 2004: 23-27).2 Sorta in maniera informale nei primi anni ’90,
l’associazione si è costituita ufficialmente nel 1995 come punto di riferimento regionale e nel 2003 è confluita in una rete di coordinamento nazionale che ha ricevuto
un riconoscimento ufficiale da parte dell’ambasciata ghanese in Italia. Il “Ghana
National Association” si riunisce mensilmente e, oltre ad agevolare l’espletamento di
alcuni adempimenti burocratici, funziona come punto di riferimento e di organizza-
5 6 afriche e orienti
Metodologia in contesti dislocati
Da questo sintetico profilo della presenza ghanese in Friuli-Venezia Giulia si delinea
l’indicazione abbastanza chiara che ci troviamo di fronte un’immigrazione ormai di
seconda generazione, con una componente femminile stabile e una progettualità
migratoria sul medio-lungo periodo. Con i ghanesi ho lavorato, a fasi alterne, da oltre
dieci anni, e parallelamente alla constatazione che si stava passando da una fase “emergenziale” di prima accoglienza, a una più stabile, matura e strutturata, sentivo crescere un certo disagio nei confronti del lavoro di ricerca, sia per le modalità, ma soprattutto per gli obiettivi ed esiti. Nella letteratura antropologica ormai da anni imperversano termini come delocalizzazione, diaspora, flussi ecc., ma di fatto poi mi ritrovavo a studiare comunità straniere quasi fossero isole etniche inserite nel mare italiano. Mi sembrava per certi versi limitante fermarmi ad analizzare dati, cifre, rapporti
demografici e, soprattutto, continuare a impostare le ricerche basandomi solo sul confronto fra le tradizioni dell’area di provenienza e quelle osservabili nel nuovo contesto, con scarsa attenzione al piano sincronico delle interazioni fra le diverse sedi di
diaspora, con gli altri gruppi stranieri e, soprattutto, al ruolo giocato dalle tecnologie
comunicative e dal consumo culturale. Se è vero, come afferma Geertz, che l’uomo è
sospeso in una rete di significati, è forse allora necessario considerare che i mezzi di
comunicazione sono «i filatoi del mondo moderno» (Thompson 1998).
Il mio ultimo lavoro di ricerca è stato quindi impostato con il preciso obiettivo di
capire se e come i mezzi di comunicazione svolgano effettivamente un ruolo nelle
dinamiche di negoziazione dell’identità dei migranti, nelle rappresentazioni collettive
e nei rapporti (di memoria, ma soprattutto di relazione) con la patria e con le altre
comunità di insediamento sparse nel mondo. Sono partita dal presupposto teorico
che esista un ruolo attivo del lettore/spettatore nell’interpretazione del messaggio trasmesso dai media (Hall 1997); per capire se nel processo ermeneutico di appropriazione/costruzione del significato giochi un ruolo rilevante la cultura del gruppo di
appartenenza, ho osservato le pratiche quotidiane di questo consumo mediatico, fatto
prevalentemente di televisione e videocassette, per mettere a fuoco la loro interpretazione dei messaggi e la costruzione del significato. Il tema di fondo è quello dei flussi migratori e mediatici in uno scenario transnazionale, ma studiati a partire da un
contesto locale, considerando la comunicazione, la produzione e il consumo culturale non come trasferimento di messaggi e contenuti, bensì come sede, costantemente
attiva, di elaborazione e rielaborazione dinamica della cultura. Più concretamente, mi
sono chiesta, se l’identità è relazionale e sempre meno costretta dai limiti delle interazioni faccia a faccia e dalla condivisione dello stesso contesto spazio-temporale, su
quali rapporti si basa in una situazione di diaspora? Seguendo l’indicazione di
Hannerz, prima di parlare genericamente di globalizzazione, ho cercato di storicizzarla e di analizzarla in un contesto specifico (Hannerz 2002: 47).
5 7 Migranti africani in Italia:
etnografie
dossier
zione della vita collettiva e sociale, che comprende le cerimonie e festività del calendario ufficiale ghanese e una fitta serie di occasioni di incontro e di aggregazione più
informali.
Le fonti bibliografiche utilizzate sono state eterogenee e, di necessità, interdisciplinari; il principale problema è stato quello del riscontro comparativo con il Ghana urbano di oggi e, soprattutto, la ricostruzione di un almeno parziale quadro diacronico e
sincronico sulla diffusione e uso delle tecnologie, sulla produzione e consumo culturali nell’Africa sub-sahariana occidentale.
La metodologia più usata è stata l’osservazione partecipante, seguendo per tre anni gli
eventi della vita collettiva ghanese, dalle riunioni dell’associazione, alle feste private e
pubbliche, che coincidono quasi sempre con riti di passaggio esistenziale, soprattutto
nascite e morti che restano gli eventi socialmente più significativi per i ghanesi.
Progressivamente, mano a mano che emergeva l’effettiva incidenza delle tecnologie
comunicative nella loro vita sociale, soprattutto l’auto-produzione di materiale fotografico e video con specifiche funzioni e forme di distribuzione, sono passata a una
fase di ricerca più focalizzata e in profondità, lavorando a stretto contatto con alcuni
nuclei familiari. La reciproca conoscenza e frequentazione sono state costanti con due
famiglie, scelte in quanto rappresentative di due stili di vita contrapposti: uno decisamente più legato al mantenimento della cultura africana d’origine, l’altro, all’opposto, con esplicita accettazione e adesione a valori e pratiche occidentali. Dalla visione
dei programmi televisivi e delle videocassette è emersa una rete di collegamenti di diaspora alimentata da scelte culturali in parte comuni che sono riconducibili a stili di
consumo, esigenze affettive, funzioni di apprendimento linguistico e di informazione, ma che rimandano anche alla sfera dell’immaginario e del gusto estetico popolare ghanese (Altin 2004).
Nonostante tutte le difficoltà, già evidenziate da Hannerz (2002), implicite in una
ricerca che tenga conto di più comunità dislocate in varie parti, nonostante tutti i
continui spiazzamenti, professionali e umani, che ciò comporta, le potenzialità euristiche del metodo etnografico vanno ribadite a chiare lettere in un momento in cui si
rischia di perdere questa metodologia come caratteristica peculiare dell’antropologia
culturale e sociale. Non solo perché permette di focalizzare e far emergere fenomeni
che sfuggono alle trame interpretative a maglie troppo larghe delle indagini sociologiche e demografiche ma anche, e soprattutto quando si analizzano fenomeni su scala
transnazionale, perché solo l’indagine etnografica permette, pur partendo da un retroterra di conoscenze acquisite, di rimescolare le carte e spesso ribaltare non solo il gioco
in tavola, ma anche le regole e le ipotesi di partenza.
All’inizio della ricerca pensavo di dover trascorrere giornate intere ad analizzare siti
web, forum, mailing list, nella convinzione, chiaramente eurocentrica, che internet,
la “madre delle reti” fosse il principale alimento per nutrire questa rete di comunità
ghanesi distribuita prevalentemente nel nord dell’Europa (Svezia, Gran Bretagna,
Danimarca e Olanda) e dell’America (Canada e Stati Uniti). Nella realtà dei fatti tale
collegamento esiste, ma serve prevalentemente ad alimentare gli scambi fra l’élite di
seconda generazione dei ghanesi espatriati, con scarso feedback con la madre patria
che, come la maggior parte dell’Africa, arranca in un perenne stato di divario tecnologico. La ricerca on line è passata quindi in secondo piano perché sono risultate
molto più incisive nelle pratiche quotidiane altre tecnologie e supporti, i cosiddetti
5 8 afriche e orienti
Teatro itinerante di diaspora storica e contemporanea
Il concert party è una forma di teatro comico itinerante che proviene dalla tradizione
orale dei cantastorie akan; i primi spettacoli in Ghana (allora Gold Coast) risalgono
agli anni ’20 ed erano sostanzialmente dei varietà comici in lingua inglese che mescolavano stili e contenuti tratti dai film e musical americani, canzoni melodiche latine,
spiritual afro-americani su cui si innestarono poi dei motivi sempre più spiccatamente tratti dalla cultura africana delle classi lavoratrici medio-basse e rurali.
La rappresentazione che si è tenuta un sabato sera a Pordenone in una palestra scolastica affittata per l’occasione, ha continuato poi il tour italiano a Vicenza, Modena e
Brescia, mettendo in scena uno spettacolo in lingua twi dall’emblematico titolo
Ohohoe nnye aboa, che tradotto letteralmente suona Uno straniero non è un animale.
5 9 Migranti africani in Italia:
etnografie
dossier
small media (Sreberny-Mohammadi, Mohammadi 1994). Nel caso della diaspora
ghanese questi coincidono prevalentemente con foto e video auto-prodotti in formato digitale e videocassette VHS che circolano in un mercato più o meno sotterraneo
e clandestino, con forme artigianali ma efficaci di commercializzazione e distribuzione.
Dopo tante polemiche su chi debba e come si debba rappresentare l’alterità (Clifford
1993; Hall 1997; Said 1999), sulla retorica della costruzione e decostruzione degli
stereotipi visuali condizionanti l’immagine dei gruppi subalterni o minoritari, è stato
per certi versi straniante constatare che in realtà i ghanesi avevano già in parte pensato a risolversi il problema da soli. Fin dalle mie prime uscite sul campo in occasione
di qualsiasi evento collettivo, la prima cosa che era impossibile non notare era la
sovrabbondanza di telecamere e macchine fotografiche digitali.
La seconda sorpresa riguardava la committenza e il commercio di videocassette funzionali alle precise esigenze della loro vita di diaspora. La necessità di filmare per poi
distribuire alla rete di parenti e amici, non solo quelli rimasti in Ghana, ma anche
quelli sparsi in giro per l’Europa e il Nord America, ha alimentato inedite forme di
business, come “professionisti” che si occupano non solo delle riprese e montaggio
degli eventi collettivi, ma anche del packaging e della distribuzione delle videocassette, consoni anche nello stile audiovisivo ai gusti ghanesi, evidenziando un creativo
intreccio di tradizione e innovazione. Si tratta peraltro di un’abitudine acquisita generalmente già in Africa e poi diffusasi nelle varie comunità ghanesi sparse in giro per il
mondo, che mescola riti di passaggio tradizionale a pratiche di consumo mediatico e
forme ostentative postmoderne (de Witte 2001). La maggior parte delle videocassette commissionate riportano cerimonie di riti di passaggio, come funerali o outdooring,
una sorta di battesimo tipico della cultura ashanti. Ma fra le cassette messe in vendita durante queste feste circolano anche registrazioni di spettacoli e concerti che indicano come, passata la prima fase di emergenza, i ghanesi stiano cominciando a organizzarsi per sopperire anche alla loro sfera di bisogni espressivi e culturali. In questo
articolo vorrei soffermarmi in particolare sulla rappresentazione di uno spettacolo teatrale di concert party che, dopo aver fatto diverse tappe nel nord Italia, continua a
venir visto e fruito nel circuito ghanese sul supporto delle videocassette pirata.
Ma l’Italia era solo una tappa intermedia di questa produzione africana che ha toccato gran parte degli ormai stabili approdi della migrazione ghanese, come Svezia,
Danimarca e Canada. Qui ha calcato palcoscenici più o meno improvvisati, un po’
per limiti di budget e necessario spirito di adattamento, ma anche in continuità con
la storia di questo genere teatrale itinerante. Per tradizione in patria il concert party si
spostava continuamente allestendo spettacoli in scuole, cortili, all’interno dei compound, con la collaborazione degli spettatori che si dovevano spesso portare le panche
da casa. Siamo nell’ambito del teatro orale, senza trame fisse e senza necessità scenografiche: lo spettacolo è teatro-performance, come lo intendeva Victor Turner (Turner
1986), in cui il divertimento viene dall’esibizione degli attori in costante interazione
col pubblico. Pur non prevedendo copioni rigidi, esiste tuttavia un repertorio di ruoli,
personaggi e temi caratteristici, che pescano in parte nella mitologia tradizionale
akan, in parte nel cabaret e nel cinema americano del primo ’900, ma anche nella cultura popolare africana più recente, soprattutto per quanto riguarda la componente
musicale, che è un ingrediente fondamentale dello spettacolo.
Il palcoscenico improvvisato nella palestra a Pordenone si presenta a dir poco scarno:
un poster gigante di New York fa da scenografia di fondo, alle spalle della band musicale che apre lo spettacolo con le prime note di musica highlife.3 Protagonista della
tournée italiana è N’komode, attore di concert party molto famoso in patria, che si
presenta in scena vestito da straccione/clown accolto da urla entusiaste e applausi del
pubblico. È a petto nudo imbiancato, gonfia stomaco e pancia in maniera volutamente scurrile, ma la cosa che più colpisce a prima vista uno spettatore non ghanese è il
fatto che sia truccato in modo da accentuare la propria “negritudine”. Labbra, occhi,
naso e fronte si rifanno al tipico make-up del cinema e cabaret statunitensi di inizio
secolo, quello di Al Jolson nella celebre posa di Mammy nel film The Jazz Singer
(1927), o dei tanti spettacoli dei menestrelli afro-americani che hanno sorretto per
anni una rappresentazione stigmatizzata e denigratoria degli africani, oggi decostruita e condannata dalla maggior parte degli intellettuali che si sono occupati di stereotipi e rappresentazioni visuali (Hall 1997; McClintock 1995 ). Ci troviamo davanti
allo spettacolo della vittima che adotta ed enfatizza la maschera imposta dal carnefice? A una risposta sarcastica? All’accettazione rassegnata e passiva? Questo è quello
che può osservare e interpretare uno sguardo occidentale, ma non i numerosi informatori ghanesi che, consultati sulla funzione e origine di questo make-up, rispondevano esattamente come quelli intervistati da Catherine Cole nel corso della sua lunga
e accurata ricerca sul concert party in Ghana: «È solo per cambiare faccia, per ridere»
(Cole 2001). Oppure «La faccia truccata così non è per tradizione, vogliono così,
qualcuno si potrebbe vestire da donna, oppure, vedi cosa si è messo sulla testa, solo
per far ridere la gente, fanno casino per far divertire. Lo dice lui stesso “siamo qua per
enjoyment!”» (Altin 2004: 42).
N’komode interpreta il ruolo di Kwame Ananse, personaggio mitologico della letteratura orale akan, per metà umano, per metà ragno, che gioca vari ruoli in numerose
storie tradizionali, ma anche nell’immaginario dei ghanesi contemporanei. Per molti
anni sulle pagine del giornale ghanese The Spectator era presente infatti una striscia
6 0 afriche e orienti
6 1 Migranti africani in Italia:
etnografie
dossier
comica in cui il protagonista del fumetto era il vecchio eroe Ananse, con tutte le caratteristiche tradizionali, ma riadattato all’estetica e ai valori del pubblico urbano: appariva meno ragno e più umano con la testa grande a simbolizzare la grande saggezza.
N’komode, come Ananse, si mostra saggio ed astuto allo stesso tempo, è il classico
buffone che usa ogni genere di furbizia per soddisfare il suo stomaco insaziabile (da
qui la pancia grossa), ma che alla fine impartisce anche una lezione morale ai personaggi cattivi e immorali (Cole 2001).
In tutta la prima parte la rappresentazione è monopolizzata da N’komode che recita
un lungo monologo intermezzato da pezzi musicali cantati in cui presenta i musicisti
e garantisce che in questo spettacolo «ci sarà da divertirsi sicuramente»,4 incoraggiando il pubblico ad avvicinarsi a lui e a lasciare un’offerta di denaro nel cestino posto ai
suoi piedi. Il gioco di interazione col pubblico, che si può leggere anche nelle riprese
e montaggio del filmato (Altin 2005), è ben evidente fin da queste prime battute in
cui il protagonista chiama sul palco direttamente alcune persone già conosciute in
patria, o simula di voler reclutare attori per lo show, ma non appena ha incassato i
soldi li liquida beffardamente chiedendo «altri quattro fuori». La provocazione e l’ammiccamento sessuale, tipici del teatro comico popolare, partono anche dal pubblico:
alcune donne gli infilano le banconote direttamente nei pantaloni anziché nel cestino. Ma la battuta finale è sempre dell’attore che gioca il tipico ruolo di trickster della
tradizione, improvvisando il racconto di episodi che lasciano alludere al rischio di
infedeltà coniugali quando le ghanesi vivono in terra straniera. «Ho incontrato una
donna ghanese che mi ha detto “sei così bello!” e ha iniziato a baciarmi dappertutto
quasi fino a lì..., ho avuto paura e ho gridato “aiuto, mi sento male”». «Un mio amico
invece ha visto qua una donna ghanese, l’ha avvicinata, pensando che la donna non
fosse sposata, invece non era così, è arrivato il marito e lui, per vestirsi in fretta, ha
indossato le mutande della donna, quando è tornato a casa e si è tolto i vestiti e la
moglie lo ha visto così, lui le ha detto di averle comprate per lei, per farle un regalo».
In tutta la tradizione del concert party compare il tema del tradimento e delle scappatelle extraconiugali, con una rappresentazione dicotomica delle donne che incarnano
alternativamente il prototipo della mother, figura femminile positiva che indossa abiti
tradizionali africani, o quello della seduttrice emancipata che veste e agisce seguendo
costumi occidentali.
Il monologo gira sempre intorno ad argomenti che possano far presa su un pubblico
di espatriati, come il viaggio verso l’Italia, cogliendo l’occasione per ribadire la superiorità del “noi” ghanese: «Sono venuto con un aereo, dentro c’era tantissima gente,
anche dietro, dove c’è il motore, c’era gente dappertutto, era pieno, pienissimo. C’era
un mio amico che voleva andare in bagno, ma con tanta gente stipata dappertutto era
difficile anche andare in bagno. Quando l’aereo è partito ci hanno dato da mangiare
e da bere, ma lui aveva portato del cibo ghanese, perché non voleva il cibo dell’aereo.
Pensavamo che avremmo trovato tanto cibo anche sull’aereo da Milano per Venezia,
ma non c’era niente roba da mangiare. Aspettavamo l’hostess, ma non è venuto niente, quindi in Italia non sono bravi!». O ironizzando sulla qualità della vita da immigrati: «Quando sono venuto qua in Italia ho visto che voi state lavorando troppo qua,
i bianchi vi usano troppo. Se sei venuto a trovare tuo fratello qua in Italia, devi stare
attento perché, quando torna dal lavoro, si vede che è già troppo stanco, e quindi non
devi andargli troppo vicino. Qua, se tu chiedi loro qualcosa, sono già stanchi e arrabbiati, quindi non devi andar vicino loro, né chiedere nulla».
Dopo aver scaldato un po’ l’atmosfera N’komode attacca un noto motivo reggae di
Bob Marley in lingua twi elencando i nomi dei calciatori ghanesi che hanno fatto fortuna all’estero. La performance è anche fisica, perché mimica e postura insolenti si
accompagnano alla musica, alimentando continue risate del pubblico. Inizia a questo
punto la vicenda messa in scena, ambientata per metà in Ghana e per metà in Italia,
che parla sostanzialmente di casa, di problemi di affitti e sfratti, conditi da una morale fortemente educativa che vedrà il lieto fine per i buoni e la degna punizione per i
cattivi.
Il secondo attore che compare in scena è Abusuapanyin Judas, che interpreta il ruolo
di Agya-Adu, il proprietario di una casa posta in una immaginaria località del Ghana
che decide, ingiustamente e senza motivo, di sfrattare da un giorno all’altro i suoi tre
inquilini. I modi sono bruschi, irati e arroganti; la decisione di sfratto non recede
neanche di fronte alla notizia che la moglie del primo inquilino è incinta, e fomenta,
anzi, ulteriori battute volgari a sfondo sessuale.
Il secondo inquilino è Adofo, un famoso cantante popolare ghanese, che cerca di discutere e negoziare le ragioni dello sfratto improvviso, ma il padrone di casa lo accusa: «Quando sei venuto a stare qua, ti avevo detto che qui non puoi cucinare dopo le
nove di sera!». Adofo ribatte che per i ghanesi è normale mangiare a quell’ora di sera
e che non vede il motivo di sfratto, visto che paga regolarmente l’affitto. Le legittime
confutazioni di Adofo si rivelano del tutto inutili, perché il padrone chiude sprezzante il discorso affermando che «questa è la mia casa, adesso devo metterci dentro la
pecora!» e gli consegna due borse con gli effetti personali sbattendolo in strada. Adofo
lo mette in guardia: «Sei cristiano e mi mandi via così? Ma potrebbe succedere lo stesso anche a te, perché la vita va spesso così!» e poi intona una canzone malinconica che
parla del senso di accettazione e di rassegnazione nella vita «in cui non sempre tutto
va bene, talvolta bisogna lasciare la casa, non si ha dove dormire. Dio fa certe cose che
non si possono cambiare, certe cose avvengono nella vita, anche se tu non volevi e se
ti fanno soffrire». Qui vediamo in atto una tipica funzione del concert party, che trae
insegnamenti morali dalle vicende quotidiane messe in scena nello spettacolo, e li
rende più digeribili grazie all’accompagnamento della musica highlife; è una miscela
che il pubblico di Pordenone mostra di apprezzare sia con l’entusiasmo degli applausi, sia con la profusione di offerte.
L’ultima inquilina sfrattata nella vicenda è una donna giovane e nubile, Bomo, vestita in maniera provocante all’occidentale che viene accusata di comportamenti sconvenienti per le troppe frequentazioni maschili nell’appartamento. Agya-Adu tenta
un’avance ma, al rifiuto della donna, segue l’immediata consegna degli averi personali con lo sfratto su due piedi. Neanche il lamentoso pianto di Bomo che si trasforma
lentamente in una canzone sul viaggio, sulla solitudine, sul senso di abbandono e la
nostalgia di casa, serve a sfiorare l’intransigenza del padrone di casa. Riappare nuova-
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dossier
mente in scena il servo N’komode a cui Agya-Adu consegna le chiavi e la casa sfitta
spiegando che: «Ho mandato tutti via, ti lascio le chiavi e questa casa, non far entrare nessuno, tieni bene questa casa perché adesso devo andare da questo mio amico che
abita a Castelfranco Veneto, dove sta organizzando una festa per la nascita di suo
figlio».
La svolta narrativa proietta la vicenda in uno scenario familiare per il pubblico, sia
nella scelta di una tipica località di insediamento ghanese, sia perché incontri e vita
sociale da espatriati ruotano attorno a funerali e battesimi. A questo punto la nuova
scena, ambientata in Italia, vede sul palcoscenico una coppia di coniugi benestanti
con tre figli, tutti espatriati per motivi di lavoro, che aspetta il Natale nella casa un
po’ vuota, passando il tempo fra battibecchi coniugali e battute salaci. Il marito è
interpretato da Bob Santo, attore e cantante molto popolare, che intona la canzone
che dà il titolo allo spettacolo Ohohoe nnye aboa, dove parla dei problemi degli emigranti soprattutto alle prese con persone che, non essendo mai uscite dal proprio
paese, si comportano male con gli stranieri proprio perché non hanno mai avuto
esperienze di relazione con gente diversa dalla propria; il finale scivola su motivi di
intento educativo, con un ammonimento a comportarsi sempre da bravi cristiani,
soprattutto nei confronti degli altri, perché un giorno arriverà Dio a giudicare tutti.
La canzone è accolta con entusiasmo dal pubblico che ricopre di offerte Bob Santo.
La moglie di Bob Santo incarna il ruolo della mother, tipico personaggio femminile
positivo presente nel concert party fin dalle origini del genere. Garante della tradizione e della trasmissione del sapere, la mother si riconosce in scena per gli abiti tradizionali africani che la vedono contrapposta agli altri personaggi femminili vestiti all’occidentale. In questo quadretto familiare si inserisce Agya-Adu in versione decisamente meno arrogante che sta cercando una stanza in affitto; la coppia gliela concede
facilmente, visto lo spazio libero lasciato dai figli emigrati all’estero.
E qui arriva il colpo di scena finale perché ricompare improvvisamente Bomo, l’ultima sfrattata ancora singhiozzante dalla scenetta precedente, che si scopre essere la
figlia dei nuovi padroni di casa di Agy Adu. Le sorti sono ribaltate e Agya Adu si ritrova non solo senza tetto, ma anche messo sotto accusa per le avance sessuali e il trattamento inflitto a Bomo. Il tono non cade mai nel drammatico perché prevale quello
comico, alimentato da continue battute.
Ma nel finale prevale decisamente l’intento morale-educativo che si esplicita nelle
parole di Bob Santo: «Se tu tratti con persone straniere non devi trattarle male, perché non puoi mai sapere domani cosa ti può succedere». Dopo un acceso litigio, al
perfido Agya Adu viene assegnato lo stesso trattamento che aveva riservato ai suoi
inquilini in Ghana, con la consegna delle borse in mano. Non gli resta altra scelta che
tornarsene in Ghana, dove lo aspetta il servo N’komode che, dopo aver sentito il racconto della vicenda italiana, ha il compito di chiudere lo spettacolo con l’arguta sentenza finale: «Quello che tu fai, brutto o buono, è là, dietro di te, ti segue». O, meglio:
«De wo dua no eno na wo twia», che tradotto liberamente suona più o meno come
«quello che semini poi raccogli».
Come si può capire da questa sommaria descrizione, il concert party presenta la forma
di un melodramma comico focalizzato su un evento emotivo, accompagnato dalle
note melodiche dell’highlife, che funziona da perno per raccontare i problemi quotidiani dei ghanesi. Se non vogliamo fermarci agli aspetti più superficiali è necessario
però analizzarlo aprendo alcuni collegamenti storici transnazionali che spiegano la
continuità e la vitalità di un genere popolare che non può venir considerato “autenticamente” tradizionale.
Le origini del concert party riportano all’Africa e alla cultura orale precoloniale, ma la
sintesi odierna è un precitato storico in cui si possono rintracciare e identificare i vari
flussi culturali che hanno composto e modificato la cultura ghanese nel corso di un
secolo. Si passa dalla tradizione dei cantastorie akan, al cabaret e cinema americano
di inizio secolo, dall’imperialismo inglese alla musica popolare africana e, infine, alla
fase di diaspora contemporanea.
Nonostante questo genere di intrattenimento popolare occupi una posizione marginale nella gerarchia della cultura ufficiale ghanese, ha avuto e continua ad avere un
fortissimo richiamo per le classi medie lavoratrici, perché mette in scena nel loro linguaggio le loro storie, caratteri e problemi quotidiani.
Della tradizione orale rimane l’improvvisazione dello spettacolo itinerante, la continua re-invenzione del repertorio, l’interazione costante con il pubblico che non viene
relegato a un ruolo di spettatore passivo, l’uso di proverbi e sentenze tradizionali adattati alla contingenza del quotidiano. Della Black Atlantic Diaspora (Gilroy 1993)
restano soprattutto il trucco con la faccia da “negro” e altre consuetudini del cabaret
dei menestrelli afro-americani che, passando attraverso il cinema di Hollywood, rimbalzarono attraverso la rete di distribuzione americana e l’amministrazione inglese,
fino alla Gold Coast. Si concretizzarono nella forma di teatro amatoriale promosso
nelle scuole coloniali inglesi che imitavano quanto il grande schermo aveva mostrato
loro: l’immagine stereotipata dell’afro-americano servo nelle piantagioni degli Stati
Uniti del sud che cantava spiritual. In Africa i passi delle danze, le convenzioni e l’abbigliamento riscossero un enorme successo (Cole 2001: 21-22) e, in base alla note
strategie di resistenza delle culture subalterne, gli africani usarono, selezionando e
rifunzionalizzando in base alle loro precise necessità, quel che passava la cultura dominante. Così il genere concert party uscì dalle aule scolastiche e iniziò le performance
all’aperto per un pubblico più vasto, girando per le strade, villaggi e città della costa
e abbandonando la lingua inglese per incorporare lingue e musiche locali.
Gli spettacoli, che oscillavano fra sentimentale e comico, erano improvvisati, senza
traccia scritta e mescolavano musica, danza e racconto in una struttura fortemente
flessibile, con trame che si inventavano e ricreavano intrecci, giocando con un nucleo
abbastanza stabile di personaggi e ruoli che ritroviamo in parte nella performance italiana. Fra i tanti che riportano gli influssi del periodo coloniale c’erano il gentleman e
la lady africani che scimmiottavano i modi di fare inglesi, il servo liberiano, la giovane ragazza urbanizzata, la donna tradizionale ghanese e il giovane furbastro di città
(Cole 2001: 21). La lady e il gentleman rappresentavano l’identità inglese ma, come
emerge anche nello spettacolo tenuto in Italia, la figura più importante era e resta
quella del servo, la voce del colonizzato, dell’oppresso subalterno che mette in crisi il
6 4 afriche e orienti
Roberta Altin è ricercatrice di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi
di Udine.
Note:
1- La maggioranza è evangelico-pentecostale.
2- L’esempio più evidente è l’adozione costante della lingua asante-twi durante le riunioni dell’associazione, scelta che viene infatti contestata dagli appartenenti agli altri gruppi etnico-linguistici. Ricordo
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potere del suo superiore con insinuazioni, di fatto il portavoce ufficiale del messaggio
morale.
Arriviamo ai giorni nostri, con il concert party che fa ancora parte del palinsesto televisivo ghanese e si ricicla in parte nelle produzioni di videofilm ghanesi (Altin 2004;
Haynes 2000; Cole 2001). Parallelamente si assiste al ritorno ad un teatro ancora più
itinerante, che ripercorre e segue i tragitti dei ghanesi disseminati nelle varie località
di diaspora, continuando a giocare fra le due sponde della tradizione e della modernità. Teatro itinerante, sempre più ad ampio raggio, con tournée ormai intercontinentali e con percorsi più capillari che viaggiano su supporto VHS. La vitalità di un genere ormai secolare che ha filtrato il trattamento razzista, l’imperialismo britannico, le
lotte e l’orgoglio per l’indipendenza nazionale, l’emigrazione e la de-localizzazione si
deve alla flessibilità di rappresentazioni sempre funzionali alle esigenze del momento
storico in cui la perfomance ha luogo. Il teatro permette di sperimentare e testare
nuove ipotesi di identità e poiché nelle culture popolari lo spreco non è contemplato, gli ingredienti culturali per questa produzione sono riciclati dalla tradizione, ma
rielaborati in maniera innovativa.
Queste inedite forme di espressione artistica e culturale dell’immigrazione africana in
Italia non rappresentano la conservazione statica della cultura d’origine, né della cultura ufficiale, ma forme di intrattenimento popolare che si basano su relazioni faccia
a faccia e produzioni video a basso costo. Anche le modalità organizzative, oltre ai
contenuti costantemente riadattati ai contesti, mostrano tutta la vitalità delle forme
artistiche popolari nella loro attiva resistenza a trovare nicchie culturali funzionali alle
loro specifiche esigenze, senza drastiche rotture con la tradizione o abbracci totali alla
modernizzazione di stampo occidentale. Ne esce l’immagine di un’identità di diaspora dinamica, non oppositiva, che non rinnega il passato, né assorbe passivamente la
cultura dominante, ma utilizza e negozia le risorse disponibili.
L’ingegno creativo che emerge nella continua rielaborazione delle forme artistiche per
esprimere le esperienze e i problemi della realtà migratoria, ma anche nello sfruttare
quello che le moderne tecnologie mettono a disposizione ci serve da ottimo esempio
per ricordare che «…in certi commenti sul globale e il locale, la tradizione locale sembra esserci da sempre, in quantità illimitata. Il globale è in superficie, il locale in profondità. In un certo senso allora, talvolta il globale deve essere riportato con i piedi
per terra, mentre il locale deve essere riportato in superficie, per essere demistificato»
(Hannerz 2001: 38).
che in Ghana la lingua ufficiale è l’inglese, ma sin dal 1962, nelle scuole è stato affiancato da nove idiomi locali; le lingue più diffuse sono quelle del raggruppamento akan, parlate da circa il 44% della
popolazione, che includono l’asante-twi e la lingua fante; il 13% usa la lingua ewe (Heath 1999: 835).
3- L’highlife è la musica ghanese per eccellenza; sorta intorno agli anni ’20 per contaminazione fra la
musica africana, afro-americana e occidentale, si diffuse soprattutto nel secondo dopoguerra (Boccitto
1995; Collins 1994).
4- Per la traduzione di alcune parti in lingua twi è stato fondamentale l’aiuto di Margaret Asomaning,
che ringrazio per la disponibilità.
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