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Recensione a H. MIESSE, Un laboratorio di carte. Il linguaggio della politica nel ‘carteggio’ di Francesco Guicciardini, Éliphi, Strasbourg, 2017. ‘Una vita passata soprattutto a scrivere a lettere’. Con queste parole Eugène Benoist sintetizzava nel 1862 l’esistenza di Francesco Guicciardini. Una vita, potremmo aggiungere alla sintesi di Benoist, consacrata interamente a evitare, o meglio a rimandare, la catastrofe, la ‘ruina’ ultima — poi puntualmente avvenuta — all’interno di quel caotico stato di guerra perenne che sconvolse l’Italia nei primi decenni del XVI secolo, da quando i nuovi strumenti bellici introdotti nel territorio italiano trovano del tutto impreparata la classe dirigente di allora, poco abituata fino a quel momento a ‘pensare la violenza’ e ad inserirla all’interno di teoria e prassi politica. Sono più di cinquemila, tra missive e responsive, le lettere che formano il carteggio guicciardiniano e che si estendono per circa quarant’anni della vita dello scrittore fiorentino. Si tratta di testi a carattere decisamente pragmatico, spesso indirizzati ad interlocutori illustri e dettati, perlopiù, dal bisogno di individuare una corretta condotta politica. Un carteggio che ben rivela il rapporto quotidiano che Guicciardini manteneva con la scrittura e che allo stesso tempo mostra la distanza da altri coevi epistolari umanistici, caratterizzati a loro volta da una ricercata raffinatezza formale. Un corpus immenso, dunque, dalla storia assai tormentata: è infatti solo grazie ai recenti sforzi e al rigore filologico di Pierre Jodogne — e di Paola Moreno per i volumi di prossima pubblicazione, ovvero l’undicesimo e il dodicesimo — se la raccolta sta gradualmente vedendo la luce nella sua completezza, in una forma assai più corretta rispetto all’edizione ottocentesca di Giuseppe Canestrini e a quella curata da Roberto Palmarocchi e da Pier Giorgio Ricci, entrambe variamente lacunose. Vagliando in maniera sistematica questa copiosa mole di documenti, la ricerca di Hélène Miesse, studiosa ormai nota di cose guicciardiniane, si colloca sapientemente sulla scia di un vivido interesse per il lessico di pensatori politici vissuti à l’aube de la modernité, come ricorda il titolo della stessa collana che il presente studio inaugura. A più di dieci anni di distanza dalla nascita di una nuova ‘filologia politica’ inaugurata da Jean-Louis Fournel e Jean-Claude Zancarini (cfr. «Laboratoire italien», VII, 2007) e finalizzata a cogliere il significato contingente di termini propri del linguaggio politico in un momento di crisi acutissima — nella Firenze a cavallo delle due esperienze repubblicane — il volume di Miesse si presenta infatti come un tassello complementare e fondamentale all’interno della recente stagione critica. Lo studio, che mira «a contribuire alla chiarificazione di problemi che pertengono alla storia delle idee politiche, sulla base di un’analisi approfondita di testi e nel loro rispetto filologico» (p. 13), si focalizza in particolar modo sul sensibile scarto che viene a crearsi tra l’utilizzo che Guicciardini fa di determinati termini rispetto alla tradizione e all’uso comune nel suo tempo, scarto che precede di qualche anno una più ampia e generale riflessione sul volgare. I cinque capitoli centrali del libro portano quindi come titoli altrettante parole-guida che permettono di saggiare l’opera tutta del Guicciardini e per le quali «lo sforzo di definizione da parte di Guicciardini è stato più intenso e più esteso nel tempo e nella scrittura» (p. 12). In questo senso le lettere, distribuendosi lungo l’intera carriera dello scrittore fiorentino, consentono di osservare l’evoluzione della portata semantica di ogni singolo termine. Assai giudiziosa appare la selezione dei termini analizzati — prudenza, discrezione, esperienza, congettura, opinione — i quali mirano a gettare luce sull’agire dell’uomo politico per permettergli 1 di brancolare in un buio meno pesto. Lo stesso ordine di successione, potremmo osservare, pare essere l’indice di un offuscamento sempre maggiore, di una visione sempre più miope e precaria nei confronti del futuro. I concetti che tali termini esprimono, invece di cristallizzarsi, inseguono i cambiamenti sociali e politici in atto, delineando i presupposti di una condotta di fronte allo svolgersi degli eventi. Intrecciando dati quantitativi — il numero di occorrenze — ad altri dati di tipo qualitativo — come ad esempio gli accostamenti sinonimici, assai frequenti in Guicciardini, o categorie di termini-spia che gravitano attorno a un determinato concetto — Miesse è in grado di evidenziare significativi slittamenti semantici che, lungi dallo stravolgere o ribaltare il significato originario, allargano la portata di ogni singolo termine analizzato. Riporto giusto qualche esempio: ‘prudenza’, la quale «occorre in binomi sinonimici con le virtù tradizionali […] poiché consiste nell’evitare gli estremi e le passioni, che sono fuorvianti nella gestione del potere» (p.102), assume significati diversi a seconda di chi la esercita, sia esso ambasciatore, uomo politico o capitano d’esercito; ‘discrezione’, termine che Guicciardini arricchisce e che accompagna le varie stesure dei Ricordi, scompare significativamente nella Storia d’Italia; ‘esperienza’, qualità complementare alle precedenti, si rivela essere di due tipi: remota, derivante da letture ed exempla, e prossima, legata all’isotopia dell’occhio e della vista; ‘congettura’, appartenente al lessico giuridico, costituisce una ricostruzione ipotetica sul passato, «verità provvisoria» (p.206) utile ad agire nel presente, soprattutto in uno stato di emergenza come quello post ’27; ‘opinione’, termine chiave di per sé neutro ma che può risultare nefasto, dietro il quale si celano le ragioni più profonde del fallimento della Lega di fronte agli imperiali. Le lettere costituiscono dunque il laboratorio d’eccellenza dove Guicciardini, rielaborando termini di uso comune, forgia quel suo personalissimo idioletto politico che farà la fortuna dell’opera sua. La porosità dei confini che separano il carteggio dagli altri testi viene inoltre resa ulteriormente esplicita nelle pagine finali dello studio — non a caso intitolate Sguardi incrociati — dove vengono evidenziate «modalità di riuso testuale» (p.286) da parte del Guicciardini spiegabili solo, suggerisce l’autrice, attraverso la «consultazione diretta dei propri scritti» (p.305). Miesse permette così al lettore di potersi spostare da un foglio all’altro, di muoversi sullo scrittoio del celebre fiorentino in mezzo a un dedalo di carte sparse. Spazio rilevante viene dato, naturalmente, ai due testi principali del Guicciardini, i Ricordi e la Storia d’Italia. I primi poi, spesso considerati dalla critica come il laboratorio politico e concettuale del Guicciardini, assumono la valenza di approdo teorico del pensiero guicciardiniano assieme alla monumentale opera storiografica. Ulteriore merito del denso, erudito e rigoroso studio di Hélène Miesse è quindi di offrire una valida mappa per muoversi nel fitto labirinto intratestuale del Guicciardini per «orientarsi nel mare magnum delle [sue] carte» (p.277): un macrotesto di ordine superiore rispetto ai generi e ai singoli testi — ancorché significativi per la loro varietà — attraverso i quali l’autore declina il proprio discorso sulla città, sul mondo, su di sé. Lorenzo Battistini 2