MASSIMILIANO GREGORIO
IMMAGINARE LA REPUBBLICA.
MITO E ATTUALITÀ DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE,
A CURA DI FULVIO CORTESE, CORRADO CARUSO,
STEFANO ROSSI, MILANO, 2018
Estratto dal volume
QUADERNI FIORENTINI
PER LA STORIA
DEL PENSIERO GIURIDICO MODERNO
48 (2019)
Isbn 9788828812159
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eccome! — l’eco di una tradizione repubblicana che di liberale non ha
proprio nulla.
Anche in Sieyès, cui ripugnava tanto il razionalismo dei philosophes quanto il volontarismo di Rousseau, il passato si è preso qui e là la
rivincita sulla incredibile epopea della parola che lo aveva visto protagonista assoluto.
STEFANO MANNONI
Immaginare la Repubblica. Mito e attualità dell’Assemblea Costituente, a
cura di Fulvio Cortese, Corrado Caruso, Stefano Rossi, Milano,
FrancoAngeli, 2018.
Il rischio che incombe su ogni pubblicazione che esca in occasione di un anniversario, lo si sa, è quello di restituire dell’evento (o del
personaggio) celebrato un’immagine pigramente stereotipata, quando
non addirittura smaccatamente agiografica. Ora, va subito chiarito che
non è questo il caso del volume collettaneo, affidato alla congiunta
curatela di Fulvio Cortese, Corrado Caruso e Stefano Rossi. E non solo
per la capacità di curatori e contributori di tenersi alla larga da « letture
che tendono a celebrare piuttosto che a riscontrare, a ricordare piuttosto
che a descrivere » (1). Ma perché rispetto all’oggetto della ricerca —
ossia la stesura della Costituzione repubblicana — il volume adotta una
prospettiva scientificamente critica, scegliendo di interrogarsi sulle
cosiddette « mitologie della Costituente », ossia su quell’insieme di
credenze — prodotte dagli stessi costituenti o dalle successive generazioni di commentatori — che hanno finito per produrre determinate
narrazioni dell’epifania della nostra democrazia costituzionale. Già solo
da questo si comprende bene quanto ricco di spunti sia il volume, che
guida il lettore lungo un sentiero certo affascinante ma, al tempo stesso,
non privo di insidie. Da un lato, infatti, è fuor di dubbio che il secondo
dopoguerra incarni, costituzionalmente parlando, un « temps des fondations, un tempo che confina con il sacro e che diviene impresa
prometeica » (2). È dunque un tempo che ha bisogno del mito: di
produrlo e di affidarvisi. Non stupisce dunque il desiderio dell’interprete di misurarsi sulla dialettica tra mito e realtà, per capire dove
finisca il primo e dove inizi la seconda. Dall’altro lato, tuttavia, come
(1) Così C. Caruso nel saggio introduttivo al volume Settant’anni di Costituzione
repubblicana. Un’introduzione, p. 20.
(2) Così S. Rossi nel saggio introduttivo al volume Settant’anni di Costituzione
repubblicana. Un’introduzione, p. 15.
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mette a fuoco efficacemente Barbara Pezzini, questa grande impresa
demistificatrice non appare esente da rischi. Perché « se l’origine è (solo
o prevalentemente) mito, se ne relativizza la forza » e ciò, applicato alla
Costituzione, « equivale a ridurre/indebolire la distanza concettuale e
normativa tra potere costituente e potere costituito » (3).
Un’ipotesi quest’ultima peraltro espressamente evocata dal saggio
di Morelli che, interrogandosi sul metodo di lavoro dei costituenti,
correttamente individuato nella centralità del sistema parlamentare e
nella decisa adozione di uno spirito cooperativo, apre una riflessione
che finisce per attraversare anche i saggi di Pietro Faraguna sulla
dimensione inter e sovranazionale della carta repubblicana e di Francesco Saitto sulla cosiddetta Costituzione economica. Due ambiti tematici, infatti, nei quali la decisa volontà del costituente italiano di evitare
spaccature nel fronte antifascista suggerì di arretrare il punto di accordo, che finì quindi per risultare inevitabilmente più vago e indeterminato. Col paradossale risultato che proprio sui temi politicamente più
divisivi, si finì per raggiungere le maggioranze più larghe. E se entrambi
i saggi illustrano con dovizia di particolari il contesto storico-politico in
cui quegli accordi nacquero, al tempo stesso interrogano l’interprete
sulla loro natura: furono dettati dalla lungimiranza di un costituente che
— per usare la celeberrima definizione di Calamandrei — progettò una
carta presbite, oppure da meri calcoli di opportunità delle singole forze
politiche antifasciste? Proprio dal saggio di Faraguna giunge una
indicazione interessante per uscire dalle secche di tale, forse troppo
manichea, contrapposizione. Si tratta, dice l’autore, di riconoscere che
la Carta repubblicana italiana, così come le omologhe e coeve carte
europee, non sono orientate a « dipanare il compromesso, ma a mantenere intatta la possibilità della sua esistenza » (4), poiché contengono
al proprio interno sia la tesi sia l’antitesi, il punto di equilibrio tra le
quali diviene questione rimessa all’alternarsi delle maggioranze politiche, con l’unico vincolo però che nessuno dei due corni del dilemma
può essere privilegiato fino al punto tale da compromettere le condizioni di esistenza dell’altro.
Ad un esercizio di equilibrio simile perviene anche Giacomo
D’Amico, che dedica il suo saggio al tema classico e rilevantissimo del
rapporto tra Stato e persona. Ripercorrendo la vicenda della costituzionalizzazione del paradigma personalistico, ben incarnato « dalla
figura dell’homme situé », secondo la celebre formula coniata da Georges Burdeau, D’Amico fa derivare proprio da esso la capacità della carta
costituzionale di penetrare efficacemente l’intero ordinamento (di
(3) B. PEZZINI, La qualità fondativa e fondante della cittadinanza politica femminile e dell’antifascismo: tra mitologia e attualità, cap. XI del volume, p. 336.
(4) P. FARAGUNA, Costituzione senza confini? Principi e fonti costituzionali tra
sistema sovranazionale e diritto internazionale, cap. III del volume, p. 94.
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« magmatica pervasione » (5) parla l’autore), superando la celeberrima
dicotomia tra norme programmatiche e norme precettive, ma — più in
generale — andando oltre alla tradizionale dialettica tra legge e costituzione che aveva animato la cultura giuridica del Rechtsstaat liberale (6). Su questa strada D’Amico incrocia fatalmente quella che è forse
opinabile considerare propriamente una mitologia, ma che certo incarna una delle questioni cruciali per l’attualità dell’interpretazione
costituzionale: ossia il tema della presunta vocazione espansiva dei
diritti. Un attento inquadramento storico delle celeberrime tesi di Paolo
Barile (in questo senso oltre a D’Amico si veda anche il breve intervento
di Bin (7)) sull’interpretazione estensiva delle norme in tema di libertà
costituzionali, volto a contestualizzarle in un periodo di tempo in cui la
capacità della carta di pervadere l’ordinamento italiano appariva molto
debole, mostra come sarebbe assurdo pretendere tuttavia di trarre da
esse la giustificazione di una pretesa sconfinata capacità espansiva delle
norme costituzionali sulle libertà (nello stesso senso si esprime anche
Nicolò Zanon (8)). Ancora una volta il problema è la ricerca di un
equilibrio, che consenta di non appiattirsi sulle opposte estremità: da un
lato la tendenza ad una certa insaziabilità dei diritti e, dall’altro, il
ritorno di un paternalismo giuridico che vorrebbe l’individuo libero di
muoversi solo entro lo spazio delimitato dal legislatore (ordinario).
D’Amico ricerca una via d’uscita ancorandosi proprio al principio
dell’homme situé, prospettiva « né di totale apertura [...] né di totale
chiusura », ma in cui l’individuo è « protagonista del suo collocamento,
del suo situarsi in un contesto piuttosto che in un altro » (9).
Più che a disvelare mitologie sembrano invece indirizzati a problematizzare coppie di concetti dialettici i saggi di Camilla Buzzacchi
(autonomia/centralismo) e Giuseppe Tropea (unità/specialità delle giurisdizioni), nei quali l’indagine storica delle scelte dei costituenti fornisce le coordinate concettuali indispensabili per interrogarsi sullo stato
attuale dell’equilibrio tra i binomi e sulle sfide che, rispetto ad essi,
l’attualità costituzionale pone. Assai più classici, invece, sono i temi
affrontati da Chiara Tripodina (che si occupa del modo col quale il
costituente immaginò e progettò il sistema di giustizia costituzionale) e
(5) G. D’AMICO, Stato e persona. Autonomia individuale e comunità politica, cap.
IV del volume, p. 114.
(6) Cfr. M. FIORAVANTI, Legge e Costituzione. Il problema storico della garanzia
dei diritti, in « Quaderni fiorentini », 43 (2014), pp. 1077-1094.
(7) R. BIN, 70 anni dopo. Attualità e mitologie della Costituente. Discutendo le
relazioni di Morelli, Faraguna, D’Amico, e Saitto, cap. VI del volume, pp. 170 e ss. in
particolare.
(8) N. ZANON, Alle radici del patto costituzionale. L’insegnamento del dibattito in
Assemblea costituente ai testimoni del presente, cap. XII del volume.
(9) D’AMICO, Stato e persona, p. 121.
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da Massimo Rubechi (che ricostruisce invece l’annosa questione della
forma di governo).
Per quanto concerne il primo, l’autrice, muovendo dalla ricostruzione di uno dei dibattiti in cui notoriamente il costituente dimostrò
meno consapevolezza e dal quale emersero quindi un buon numero di
mitologie, procede progressivamente a sgomberare il campo da ognuna
di esse. A partire da quelle tesi che volevano la Corte costituzionale
essere un organo meramente giudiziario, in grado di non sconfinare mai
nel politico, per passare a quelle opposte che riponevano tanta fiducia
nel legislatore da ritenere che esso avrebbe sempre saputo prendere « le
opportune decisioni di fronte alle situazioni di incostituzionalità » (10).
E poiché l’autrice muove dalla condivisibile convinzione che « resta
sempre il Parlamento il metro dell’attività della Corte Costituzionale » (11), anche nel passaggio dalle mitologie alle attualità, la ricerca di
un equilibrio tra i due poli non viene mai meno. E così se tra le attualità
resta fermissima la funzione della Corte di presidiare quei limiti giuridici invalicabili dal potere politico, ecco che il tema dei limiti si pone
anche per l’attività della Corte stessa.
Sul tema annoso della forma di governo, invece, Rubechi sulla
scorta della comparazione tra le due voci che l’Enciclopedia del diritto
ha dedicato al tema (quella redatta da Leopoldo Elia nel 1970 e quella
curata da Massimo Luciani nel 2010), ripercorre le evoluzioni che la
forma di governo italiana — pur in assenza di alcuna formale modifica
costituzionale — ha fatto registrare. Senza tuttavia dimenticare di
sottolineare gli ormai notissimi profili di irrisolutezza che il dibattito
costituente non riuscì a sciogliere e, forse, scelse di non sciogliere. Nodi
irrisolti che dimostrerebbero quanto eccessiva risulti quella generalizzata « mitizzazione del suo operato [del Costituente], che colloc[a] il
compromesso raggiunto al di fuori del contesto politico e di qualsiasi
forma di ragionamento tattico » (12).
Si è scelto di chiudere la rassegna dei saggi con questa considerazione perché, tutto sommato, ci pare particolarmente rappresentativa
di un complessivo atteggiamento che attraversa l’intero volume. E
fornisce pertanto una buona occasione per formulare alcune — tre per
la precisione — considerazioni conclusive.
La prima. Esiste un obiettivo polemico che percorre carsicamente
la raccolta di saggi e che si pone direttamente a monte della scelta di
affrontare il tema delle mitologie della Costituente. Si tratta di quella
che D’amico, citando Recalcati, ha definito « la tutela museale, religiosa
(10) C. TRIPODINA, Immaginare un giudice nuovo. La Corte costituzionale, i suoi
strumenti, i suoi limiti, cap. X del volume, p. 330.
(11) Ivi, p. 328.
(12) M. RUBECHI, La forma di governo dell’Italia repubblicana. Genesi, caratteristiche e profili evolutivi di un nodo mai risolto, cap. VII del volume, p. 206.
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del testo costituzionale » (13), ossia la tendenza a rifiutare aprioristicamente ogni proposta di modifica della Carta repubblicana originata —
si suppone — da un eccesso di mitizzazione del patto fondativo
originario. Il che colloca direttamente questo volume all’interno di un
quadro ben preciso, che affonda le radici nella recente campagna
referendaria per la riforma costituzionale e quindi nelle « lacerazioni,
non facilmente componibili » (14) da essa prodotte, entro la cerchia dei
cultori del diritto costituzionale. E se è vero, come ricorda Bin citando
Ridola, che ogni rilettura dell’esperienza costituente è « inevitabilmente
influenzata dalla situazione politica e culturale del momento » (15), pare
tuttavia possibile affermare, al termine di questa lettura, che il pericolo
di un’analisi eccessivamente condizionata dalle scorie polemiche di
quella campagna referendaria pare tutto sommato scongiurato. La
stessa interpretazione del momento costituente come epocale patto
fondativo, che molti dei saggi individuano come mitologia da ripensare,
ne esce ridimensionata solo nelle sue declinazioni più acritiche. Restituire il dibattito costituente alla sua complessità storico-giuridica, infatti, finisce paradossalmente proprio per rafforzare lo spessore del
patto fondativo medesimo, almeno nella misura in cui rende apprezzabile la traslazione dal piano del conflitto politico contingente (e dei
relativi immediati interessi di bottega) al piano — squisitamente
teorico-giuridico — della costituzione intesa come condizione di esistenza del conflitto medesimo.
Il che ci porta ad una seconda considerazione, che riguarda più da
vicino lo storico del diritto il quale, essendo « per mestier suo, un
relativizzatore e conseguentemente un demitizzatore » (16), non può
certo rimanere insensibile di fronte al proposito di demistificare mitologie giuridiche. Dunque ben vengano le analisi volte a rimettere in
discussione visioni stereotipate del biennio costituente che volessero
ridurlo al ricordo di un « passato puro e incorrotto » (17); e ben vengano
quindi gli sforzi di storicizzare quel dibattito, calandolo nel suo contesto
politico di appartenenza e svelando dunque gli obiettivi nascosti e le
opzioni tattiche che contribuirono ad orientare l’azione delle forze
antifasciste. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente. E non solo per gli
evidenti e intrinseci limiti di un approccio di tipo originalista (18), ma
soprattutto perché non è nella ricerca di una presunta intenzione
(13) D’AMICO, Stato e persona, p. 101.
(14) BIN, 70 anni dopo, p. 165.
(15) Ibidem.
(16) P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2007, p. 4.
(17) CARUSO, Settant’anni di Costituzione repubblicana, p. 20.
(18) La ricerca di un original intent del costituente è stata la bandiera in nome
della quale una parte di dottrina costituzionalistica statunitense reagì per contrastare
l’intenso protagonismo giudiziale della Corte Suprema che, sotto l’impulso del Chief
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originaria del costituente che può esaurirsi il contributo della storiografia giuridica sul tema. Le costituzioni novecentesche vennero scritte
dai partiti politici, è vero; ma se pretendessimo di ricercare nei loro
programmi e nelle loro strategie le radici di tutte le scelte poi trasfuse
nelle norme costituzionali, non andremmo molto lontano. L’ha illustrato recentemente, con la consueta efficacia, Sabino Cassese, richiamando l’interprete ad una visione più ampia del biennio 1946-48,
capace di considerare l’enorme mole di fattori culturali che contribuirono alla determinazione dell’esito del « melting pot costituente » (19).
Dalle grandi voci lontane (quelle cioè di Mazzini, Cavour, Cattaneo,
Beccaria...) di cui parlava Calamandrei, affezionato — come molti altri
peraltro — all’interpretazione della Resistenza come secondo Risorgimento, fino alle elaborazioni dottrinali emerse nel vivacissimo dibattito
che la giuspubblicistica italiana imbastì nel corso del ventennio, passando per le riflessioni che le diverse culture politiche antifasciste (da
non far coincidere in maniera pedissequa con questa o quella formazione partitica) produssero.
Concludiamo infine con una terza e ultima considerazione, che
vuole porsi come suggerimento verso possibili ulteriori direzione di
indagine. Tra i fattori capaci di condizionare il dibattito nel biennio
costituente ve n’è anche uno sovente piuttosto sottovalutato, e relativo
alla peculiare lettura della grande transizione culturale tra Ottocento e
Novecento giuridico. Quella transizione, che non venne interpretata in
maniera univoca neppure entro la cerchia composita della giuspubblicistica italiana, fu recepita in maniera affatto peculiare dalla classe
politica antifascista che, vale la pena ricordarlo, aveva in larga parte una
formazione di tipo giuridico. Ne conseguì un robusto ancoraggio da
parte di quest’ultima a visioni, concezioni e assunti tipici di una cultura
costituzionale marcatamente ottocentesca quali: la sovranità intesa
come attributo dello Stato, il primato della legge e del Parlamento, la
diffidenza verso la giustizia costituzionale e, forse, anche una peculiare
visione della costituzione come loi politique. Anche questo dato influenzò, e forse in maniera ancor più profonda di quanto non fecero le
pur innegabili esigenze strategiche dei partiti, molte delle scelte compiute dalle nostre madri e dai nostri padri costituenti.
MASSIMILIANO GREGORIO
Justice Warren, adottò una giurisprudenza marcatamente liberal in tema soprattutto di
diritti civili. Sul punto, si veda O. CHESSA, La novità delle origini. Recenti sviluppi del
pensiero costituzionale originalista, in « Diritto@Storia », 2014.
(19) S. CASSESE, « Le grandi voci lontane »: ideali costituenti e norme costituzionali, in « Rivista trimestrale di diritto pubblico », 1 (2018), p. 6.