Chesta Riccardo Emilio
Kaizen
Quaderni 31 / Ricerche
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Kaizen. Toyotismo, fattore umano oltre il determinismo tecnologico
di
Riccardo Emilio Chesta
(Scuola Normale Superiore)
Negli anni Ottanta, iniziò ad imporsi nel settore automobilistico mondiale un modello o meglio una
filosofia produttiva di derivazione giapponese, conosciuto come toyotismo, destinato divenire un
modello produttivo egemone in tutte le imprese ad alta intensità di lavoro e innovazione tecnologica.
Un’autentica rivoluzione culturale – prima che organizzativa – che superando molti caratteri
fondamentali del fordismo ha segnato una nuova epoca del lavoro. Una rivoluzione che spazza via le
illusioni tecnologiche rifondando la produzione su una nuova concezione del lavoro umano, meglio
adatta alla complessità del mercato globale e della società odierni.
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Nascendo tra gli stabilimenti automobilistici Toyoda (solo in seguito “tradotti” nella dizione più
globale e conosciuta di Toyota), il toyotismo si imponeva su modelli di produzione che avevano fatto
massicci investimenti in tecnologie dell’automazione.
In cosa consisté l’affermarsi di tale modello produttivo? Come si impose rispetto a programmi di
rilancio industriale apparentemente più sofisticati in termini di fattori tecnologici o ad automazione
spinta? Si trattò solo di un’intuizione tecnica o «di mercato» oppure di una filosofia generale di
organizzazione sociale della produzione?
Nata da alcune intuizioni di Taichi Ohno, un dipendente dello stabilimento tessile Toyota poi divenuto
manager ed ingegnere negli stessi stabilimenti automobilistici, questa filosofia rivede, alla luce di
principi tipici della società e cultura giapponese, una serie di aspetti dell’organizzazione aziendale
propri del taylorismo e fordismo americani degli anni Cinquanta.
Così, il toyotismo può essere inteso inizialmente come una ridefinizione qualitativa del taylorismo
più che una sua alternativa.
Questo è vero se si tiene come fondamento del taylorismo il principio di razionalità applicata tipico
della catena di montaggio che, mettendo in moto lavoro umano e assemblaggio di pezzi, si pone il
fine di estinguere tempi morti e disfunzioni quali sprechi di tempi, movimenti, energie, pezzi e quindi
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al contempo sprechi di produzione e di profitto (uno dei motti del toyotismo stesso è appunto «zero
sprechi»).
Un’immagine ben rappresenta gli effetti radicali dell’intuizione taylor-fordista sulla modernità: nel
Luglio 1913 Charles Sorenson e Charlie Lewis della Ford Company mettono in funzione la prima
catena di montaggio facendo scendere il tempo di produzione di un’automobile da 20 ore ad un’ora
e mezza.
Proprio nella superiorità tecnica del moto produttivo innescato dalla catena di montaggio, resa
possibile da un’organizzazione razionale che tende alla perfezione, risiede quindi il grande sogno di
Henry Ford, ben sintetizzato in un’espressione poi divenuta celebre: “Verrà il giorno in cui tutte le
macchine saranno tanto potenti che la manodopera non avrà più ragion d’essere”1.
Una frase che non solo riassume il significato e l’aspirazione ultima dell’utopia tecnologica fordiana,
ma allo stesso tempo rende esplicito il principale elemento critico su cui si regge quell’organizzazione
produttiva: il lavoro vivo.
Proprio il lavoro umano operaio è infatti il fattore che sfugge ai piani fordiani di razionalizzazione e
calcolabilità che ben si applicano invece alle cose, agli arnesi e agli strumenti tecnici di produzione.
L’impatto dell’intuizione è comunque assai potente, tanto che all'inizio del secolo XX, l’eco della
realtà di casa Ford travalica i confini e le ideologie. La rivoluzione taylor-fordista arriva ad
entusiasmare persino lo stesso Lenin che ne esalta le componenti progressive proprio dopo aver letto
la traduzione tedesca, ad opera di Wallichs, del libro Shop Management di Taylor, uscito nel 1900,
assieme alle note di campo dell’ingegner Seubert presso la Tabor Manufacturing Company di
Philadelphia, la prima industria che di Taylor applica i principi. Da qui prende infatti spunto lo stesso
stachanovismo, modello che fa della produttività un mito sociale e che si diffonderà nelle fabbriche
sovietiche. Modello dunque che a tutti gli effetti non è che un derivato del taylorismo americano2.
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Se è dunque l’«organizzazione scientifica del lavoro» (termine con cui i tecnici francesi negli anni
Cinquanta traducono l’inglese Scientific Management) la grande intuizione d’inizio secolo, essa si
diffonde ed impone nel corso dei decenni per arrivare ad ispirare lo stesso Taichi Ohno che negli anni
1
Ford, H., Today and Tomorrow, 1926 (tr. It. L’oggi e il domani, SIT, Torino)
Finzi, R., Lenin, Taylor, Stachanov: il dibattito sull’efficienza economica dopo l’Ottobre” in Storia del
Marxismo, Vol. III Il marxismo nell’età della Terza Internazionale - II Dalla Rivoluzione d’Ottobre alla Crisi
del 29’, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1980
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Cinquanta si nutre di letture ed osservazioni sul campo, visitando principalmente supermercati e
fabbriche americane.
E’ dalla constatazione della netta inferiorità di qualità del prodotto e di performance lavorativa degli
stabilimenti Toyota che Ohno parte per elaborare nuove linee guida per la riorganizzazione del lavoro
e della produzione.
Quello che dopo l’esperienza americana egli delinea è un modello che parte dalla domanda – prima
viene una determinata esigenza di prodotto, poi la sua produzione – la cui produzione è altamente
individualizzata ed ha bisogno quindi di un lavoro qualitativamente specifico. Per fare ciò il
lavoratore deve essere altamente specializzato e polivalente, e il suo contributo non può che essere
basato su una responsabilità individuale e di squadra, ma soprattutto sull’idea di una comunità
aziendale che è organicamente volta alla produzione, la cui reputazione si fonda dunque su una forte
fiducia. Come si nota, è questa un’idea assai giapponese, assai distinta rispetto all’idea di comunità
di lavoro (o di classe) tipica dei Paesi Occidentali ed in particolare dell’Europa.
Il modello di Ohno, riassunto nel libro The Toyota Production System3 va quindi ben al di là di mere
descrizioni manualistiche sull’efficienza aziendale. Esso elabora una autentica visione generale
d’impresa che ha nella propria radice culturale l'elemento di forza che ne fa l'innovazione
organizzativa più diffusa ed importante nella più recente storia industriale dei maggiori Paesi
capitalistici avanzati. Un autentico cambio di paradigma, dovuto anche ai mutamenti culturali
generali che hanno attraversato le società capitalistiche avanzate.
Il toyotismo nasce da un problema specifico, ovvero la netta superiorità negli anni Cinquanta della
produzione industriale americana - e a seguire tedesca - calcolata sul rapporto tra numero di uomini
e unità di prodotto.
A questo Ohno non contrappone solo qualche osservazione tecnica sparsa, ma una vera e propria
concezione della produzione come attività sociale integrale. Per imporsi, i principi di Ohno richiedono
infatti decenni di applicazione ed è infatti solo negli anni Ottanta che la Toyota si impone nel mercato
globale.
Inoltre, questo avviene dopo uno scontro che investì le relazioni industriali Toyota e che registra una
storica sconfitta sindacale nel1953, che porta l’azienda ad un’alleanza con i quadri aziendali formati
presso la scuola d’addestramento Toyota che esclude i sindacati di sinistra, licenzia circa un terzo
della vecchia manodopera sindacalizzata e apre ad una nuova forza lavoro giovane priva di esperienza
sindacale4.
3
Ohno, T., Toyota Production System: Beyond Large-Scale Production, Productivity Press, Portland Oregon,
1988
4
Si veda a riguardo, Kumo, I., Disparaged Success: Labor Politics in Postwar Japan, Cornell University
Press, Ithaca and London, 1998
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Se non si può prescindere quindi da una premessa politico-sindacale così rilevante, allo stesso tempo
i principi di Ohno sono stati validi in sé, in quanto capaci di leggere le evoluzioni della domanda
sociale e dei mercati con una prospettiva di lungo termine.
E proprio nella capacità di cogliere il problema della nuova fase del capitalismo – dominata da
crescenti bisogni individualizzanti e di distinzione – ovvero la complessità e l’imprevedibilità della
domanda stessa, sta l’intuizione di Ohno e della nuova filosofia Toyota. E’ difficile fondare il profitto
unicamente su un modello monolitico di innovazione «fredda», tecnologica, dove è l’efficienza
dell’impiantistica a dominare i flussi di produzione. E’ necessario rovesciare la prospettiva, renderla
più flessibile e polivalente, in grado di adattarsi a modelli di produzione e di consumo, cicli economici
che potrebbero cambiare, di fronte ad una domanda così vasta come quella aperta dalla
globalizzazione e così diversa, viste le diversità dei soggetti che compongono i mercati (individui,
classi, culture diverse). Se dovessimo riassumere, in una parola, la chiave di tale successo potremmo
dire che il successo del toyotismo risiede nell’aver intuito l’assoluta centralità nel nuovo processo
produttivo generale di un elemento tanto antico quanto inestinguibile e moderno: il fattore umano.
Il momento di ascesa del toyotismo si registra proprio nel momento in cui i Paesi industrializzati
rilevavano il passaggio da un’economia organizzata sulla produzione di massa, in serie, con prodotti
omogenei dal punto di vista delle tecnologie di produzione e dalle richieste dei consumatori, ad
un’economia di tipo post-fordista che richiede qualità e diversificazione del prodotto. Una progressiva
estensione dunque del valore del prodotto che si articola nella sua individualizzazione, legata appunto
ad una crescita del benessere che equivale ad una crescente richiesta di prodotti e servizi
personalizzati.
E se le grandi case automobilistiche – in particolar modo quelle tedesche e la stessa italiana FIAT –
erano arrivate a concepire l’innovazione della produzione attraverso una automazione spinta degli
impianti, la Toyota, in tale passaggio arriva con una filosofia di produzione più centrata sul lavoro
umano.
Proprio la FIAT è un esempio di quella filosofia che poggia su un'idea rigida di innovazione, arrivando
ad inizio anni Ottanta ad investire in un autentico progetto di fabbrica automatizzata. Se alcune
innovazioni tecnologiche erano state concepite a seguito di rivendicazioni operaie ad inizio anni
Settanta per superare condizioni di lavoro dure, come nel reparto Lastroferratura e Verniciatura - con
tecnologie quali il L.A.M. (Lavorazione Asincrona Motori) introdotta nel 1973 o il DIGITRON nel
1975 - con il ROBOGATE nel 1978 era invece implicita l’idea che una sostituzione del lavoro vivo
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attraverso un’alta automazione avrebbe prodotto maggior controllo sul lavoro ed una superiore
produttività.
E tuttavia, in un modello produttivo che si fondava a livello mondiale sul precetto della flessibilità,
tale esperimento risultò inadeguato per diversi motivi 5 . Innanzitutto non reggeva gli obiettivi di
produzione, appariva decisamente inferiore rispetto agli standard di qualità Toyota6 e non era in grado
di rispondere in tempo alle oscillazioni di domanda di un mercato globale sempre più complesso ed
incerto.
Il fallimento dell’idea di fabbrica automatizzata venne così definitivamente annunciato dalla stessa
dirigenza FIAT attraverso lo stesso dott. Cesare Romiti che in una convention aziendale a Marentino
il 20 e il 21 Ottobre 1989 introdusse al management la svolta organizzativa.7
Il Toyotismo si propone di superare i modelli tecnocratici proprio imponendo una serie di principi
basati sulla partecipazione dei lavoratori, ovvero tramite un modello caratterizzato da una densità del
fattore umano.
Una filosofia integrale che rivede l’idea meccanicistica taylor-fordista e la trasforma in una visione
organicistica della fabbrica come flusso fondata sulla lean production o “produzione snella”, che sia
elastica, ovvero in grado di adattarsi alle esigenze della domanda, modificando quindi modalità,
tempi e schemi di produzione. Come dice lo stesso Ohno nel suo libro “I due pilastri del sistema
Toyota sono il Just-in-time e l’automazione dal tocco umano, o meglio, l’autonomazione”8.
Per just-in-time si intende il principio per cui ogni prodotto viene concepito solo al momento della
richiesta, eliminando dunque materiali e componenti che stazionano in magazzini e che divengono
quindi sprechi – grazie anche al sistema kanban, cartellini che identificano gli ordini e leggono la
funzione di ogni componente necessaria alla produzione.
5
Si veda l’esemplare video del 1978 disponibile online sul canale del Centro Storico FIAT, Robogate, La
Flessibilità nella Produzione https://www.youtube.com/watch?v=j8f3knamPZQ&t=221s
6
Dopo la metà degli anni Ottanta in FIAT, una inchiesta sociologica rileva che “dei 2.700 motori programmati
al giorno si riusciva a produrne a stento 1.800-2000, mentre centinaia di altri motori stazionavano per terra in
attesa di essere finiti» in Bonazzi, G, Il tubo di cristallo. Modello giapponese e Fabbrica Integrata alla FIAT
Auto, Il Mulino, Bologna, 1993, p.82
7
Il discorso che venne pronunciato in via riservata durante una convention a porte chiuse venne poi pubblicato
dopo essere stato consegnato in forma anonima da un ex dirigente FIAT al quotidiano Il Manifesto. Queste
erano le parole con cui il dott. Romiti annunciava la svolta: «Noi stiamo diventando, dopo tanti successi dei
primi anni 80’, un’azienda trainata, trainata faticosamente che è quasi sempre in ritardo. […] Dobbiamo
prepararci a una competizione a cui oggi non siamo abituati, molto più severa, molto più agguerrita, contro
un’offerta quale quella del prodotto giapponese che giocherà qui, sul mercato europeo, in maniera massiccia.
Voi tutti (siete uomini dell’auto, di produzione, commerciali, amministrativi) sapete in che maniera i
giapponesi affrontano questo problema: con l’ansia di voler sconfiggere il mondo occidentale» citato in
Salento, A., Postfordismo e ideologie giuridiche. Nuove forme di impresa e crisi del diritto del lavoro, Franco
Angeli, Milano, 2003, p.27
8
Ohno, T., cit., 1988, p.50
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E’ così l’autonomazione l’aspetto più delicato e centrale del toyotismo.
“Automazione con un tocco umano”, la definisce Ohno. Riconoscendo che la potenza delle macchine
si riflette anche in una maggiore difficoltà di controllo umano e nel maggior rischio di incidente
produttivo (riproduzione seriale di difetti e distorsioni), il principio fondamentale del toyotismo
prevede che ogni lavoratore abbia una visione integrale del processo così che possa controllarlo ed
arrestarlo. Una forma di partecipazione che ovviamente si fonda su una responsabilizzazione
individuale che è possibile solo in presenza di due fattori: fiducia interpersonale tra colleghi e
direzione, piena identificazione con gli obiettivi aziendali.
La Toyota introduce così una concezione del lavoro fatto per squadre o team, che con un sistema di
sanzioni – verso l’assenteismo e la non collaborazione – e di incentivi – premi produzione che
integrano un salario base e ricompense simboliche - motiva i singoli lavoratori a partecipare al
processo produttivo in maniera attiva e propositiva, controllando eventuali errori ed eliminando
sprechi. Il principio di qualità totale dunque si lega immediatamente ad un altro concetto giapponese,
quello di Kaizen, ovvero il “miglioramento continuo”, individuale - di prestazione – e corale - di
processo.
Una filosofia dell’efficientizzazione permanente che in fondo non è che l’estensione di quella
razionalità totale già espressa dal grande sogno di Ford ad inizio secolo, ma adattata ai tempi della
produzione flessibile e individualizzata. Con una distinzione fondamentale.
Se infatti Taylor e Ford pensavano in maniera riduzionistica alla razionalità totale come ad una
progressiva razionalizzazione dei tempi umani di lavoro – di fatto considerando il lavoratore come
un automa caratterizzato da una somma dei tempi ottimali per prestazione – per Ohno il processo è
efficiente proprio perché anziché essere ridotto alla questione fisica dei tempi e ritmi, esso necessita
di un’estensione della soggettività del lavoratore alla totalità di un processo e che alla quantità deve
affiancare un fattore complesso come la qualità.
Nella sua formulazione teorica quindi, il toyotismo è una filosofia organizzativa che si fonda sulla
partecipazione dei lavoratori e sulla loro capacità di controllo sulla produzione rispetto a deleghe ad
apparati tecnologici.
Tuttavia, se il toyotismo si ispira alla partecipazione – i famosi 5000 suggerimenti di miglioramento
che i lavoratori inviano alla direzione ogni anno tramite appositi bigliettini – quest’ultima è pur
sempre legata a quel principio giapponese di comunità aziendale che impedisce un sindacato
autonomo e portatore di idee ed interessi generali. In una parola, un sindacato con una visione
generale del ruolo dei lavoratori in società.
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Quello toyotista è un modello che è arrivato ad imporsi in maniera ibrida sino agli anni Novanta in
Paesi dove vigevano diverse tradizioni di relazioni industriali.
In particolar modo, esso è stato applicato in Italia in maniera assai peculiare. Se infatti, esso aveva
suscitato l’interesse iniziale di diversi studiosi ed attivisti afferenti alle più diverse culture sindacali,
in quanto potenziale nuova opportunità di democrazia industriale, nel suo complesso la via italiana al
toyotismo si è rivelata una versione assai parziale del modello originario. E’ del 2004 la scelta dell’AD
dell’allora Fiat, Sergio Marchionne, di rinnovare l’organizzazione produttiva e le relazioni industriali
attraverso precetti derivati dal modello giapponese.
Se tale processo, come abbiamo detto, si era già messo in modo negli stabilimenti automobilistici
italiani a fine anni Ottanta, con la svolta di Marchionne – che si avvale della consulenza dell’esperto
internazionale dell’università di Kyoto Hajime Yamashima – in Italia viene importata l’idea di
integrazione dei lavoratori in un progetto di comunità aziendale che fa da preambolo alla svolta del
New Co., innovazione giuridica assai controversa che prevede per l’azienda la possibilità di
riconoscere solo di sindacati che firmano gli accordi, di fatto uscendo dal contratto nazionale,
limitando il diritto alla sciopero, neutralizzando l’azione critica e il pluralismo del sindacato tipici del
modello europeo ed italiano. Priva dell’aspetto partecipativo, l’innovazione toyotista si rivela quindi
nel caso italiano solamente nel suo aspetto di espulsione del conflitto e di maggior controllo operaio9.
Ma in sintesi, al di là delle dialettiche locali, di che cosa è espressione lo spirito Toyota più in
generale? Si potrebbe azzardare una lettura sociologica più ampia del toyotismo come spirito del
capitalismo contemporaneo. Uno spirito che poggia non solo sulla crescente individualizzazione dei
bisogni, ma anche sulla loro immediatezza, resi possibili ancor di più dalle odierne tecnologie. In un
certo qual modo, quella «flessibilità» che doveva essere elemento di liberazione si è ritorta contro gli
stessi lavoratori e soggetti che ne avrebbero dovuto godere, diventando un ulteriore strumento di
subordinazione.
Il toyotismo è certo una tendenza al «miglioramento continuo», alla riduzione degli sprechi e dei
tempi, al controllo continuo e totale, alla partecipazione mediata dal gruppo e che rimuove come una
forma patologica il conflitto. Al contempo, esso esprime così anche tutti i rischi che vediamo oggi
nell’accelerazione dei tempi di vita e di lavoro delle nostre società tecnologiche, prese dall’imperativo
dell’innovazione, dove le forme di razionalizzazione strumentale e il dogma dell’efficienza si
estendono a sfere della vita prima impensate.
9
Si veda per comprendere a livello diacronico gli effetti dell’introduzione del toyotismo in Italia: Rieser, V.,
Lavorare a Melfi. Inchiesta operaia nella fabbrica integrata, Editore Calice, Nuovo Mezzogiorno, 1997 e la
più recente inchiesta collettiva in 3 volumi Il mestiere dell’auto, Meta Edizioni, Roma, 2018
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Allo stesso tempo però, questa storia ci ricorda, ancora una volta, quanto nessuna tecnologia sia
riuscita ad oggi ad averla vinta sul lavoro vivo.
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