CORSO DI LAUREA IN SCIENZE INTERNAZIONALI E ISTITUZIONI
EUROPEE
LA POLITICA ESTERA ITALIANA E LA
PARTECIPAZIONE ALLE MISSIONI
INTERNAZIONALI: QUESTIONE DI PRESTIGIO?
Elaborato finale di: Loris Virgadaula
Relatore: Chiar.mo Prof. Corrado Stefanachi
Anno Accademico 2015/2016
INDICE
Introduzione...................................................................................................pag.1
Capitolo 1: La politica di prestigio, una prospettiva teorica…......................pag.4
1.1 Fine di un'era..................................................................................pag.4
1.2 Anarchia ed equilibrio................................................................... pag.5
1.3 Le caratteristiche del sistema internazionale.................................pag.6
1.4 La gerarchia del prestigio...............................................................pag.8
1.5 Conseguire il prestigio....................................................................pag.9
1.6 La politica di prestigio italiana, o del prestigio relativo...............pag.10
Capitolo 2: La politica di prestigio, una prospettiva storica........................pag.12
2.1: Tre facce della stessa medaglia...................................................pag.12
2.2: Le costanti storiche.....................................................................pag.13
2.3: Il fattore geografico.....................................................................pag.19
Capitolo 3: La politica estera italiana dopo la guerra fredda......................pag.22
3.1: Lo scenario politico interno........................................................pag.22
3.2: Lo scenario politico internazionale: le missioni di
Peacekeeping.....................................................................................pag.25
3.3: L'impegno italiano nel Peacekeeping..........................................pag.30
3.4: Gli anni '90..................................................................................pag.32
Capitolo 4: Gli impegni contemporanei: elenco e casi studio......................pag.35
4.1: Il nuovo millennio.......................................................................pag.35
4.2: Gli impegni contemporanei.........................................................pag.36
4.3: L'intervento in Afghanistan del 2001...........................................pag.39
4.4: L'intervento in Libia del 2011......................................................pag.42
Conclusioni..................................................................................................pag.44
Bibliografia.................................................................................................pag.45
Introduzione
La storica contrapposizione tra utile e dilettevole nelle scelte di politica internazionale di un
paese può avere una chiave di lettura nella distinzione della natura dei diversi obiettivi
perseguiti.
Le particolarità che emergeranno dall’analisi di diversi scenari saranno utili allo scopo di
questo elaborato, ovvero quello di evincere le principali differenze tra un’azione di politica
estera tesa alla ricerca di un accrescimento del prestigio internazionale e un’altra motivata
dagli onori e dagli oneri riservati dal contesto geopolitico nel quale un paese è collocato.
A differenza di un’azione di politica di potere, perseguita generalmente per venire incontro a
bisogni e necessità di politica interna, e che garantisce risultati immediati e misurabili
precisamente, un’azione di politica di prestigio tende a sorvolare, almeno inizialmente, le
logiche di guadagno in termini materiali, facendo ciò che in termini finanziari potremmo
chiamare un investimento.
Se questo sarà indovinato, lo Stato sicuramente recupererà ciò che ha perso in termini
economici in prestigio, avrà dunque voce in capitolo su questioni di grande importanza, e
potrà essere arbitro di situazioni che lo riguardino da vicino.
La politica di prestigio si potrebbe definire come un gioco d’azzardo quasi calcolabile.
L’idea di fondo è che il prestigio internazionale, così apparentemente intangibile e a volte
impalpabile, sia in realtà un fattore chiave ed un, se non il, metro per misurare l’importanza e
l’autorevolezza di cui uno Stato gode nell’ambiente internazionale.
In questo elaborato saranno analizzate, in una prospettiva sia di tipo storico-contemporaneo
che di tipo teorico, le ragioni delle diverse scelte di politica internazionale da parte del
Governo Italiano, con un occhio di riguardo per gli interventi armati, siano essi autonomi,
comunitari o frutto di partecipazione a grandi coalizioni internazionali.
Sarà dunque necessaria, ai fini della comprensione e dell’interpretazione corretta di più
variabili storico-politiche, una salda e chiara base teorica, che sarà acquisita nel Capitolo 1,
dove verrà trattata la teoria di Robert Gilpin, riprendendo i suoi scritti in “Guerra e mutamento
nella politica internazionale”, sulla differenza tra politica di potere e politica di prestigio.
L’ambiente politico internazionale, fino al crollo dell’URSS, fu caratterizzato da un
sostanziale equilibrio, derivante dal fatto che i due attori principali, le superpotenze, svolsero
sempre e comunque una funzione di contrappeso reciproca.
Sarà dunque necessario servirsi degli studi di Kennet Waltz, uno dei massimi teorici delle
Relazioni Internazionali, che con la teoria neorealista espone in maniera chiara e limpida le
differenze tra sistemi Bipolari e Multipolari.
I sistemi a piccolo numero, o Bipolari, sono caratterizzati da maggiore stabilità, in quanto al
loro interno vi sono innanzitutto maggiore comunicazione e coordinamento; vi è inoltre una
maggiore difficoltà dell’emersione di nuovi attori e al contempo grande probabilità di
sopravvivenza per quelli già esistenti.
1
Infine, essi sono caratterizzati da altri due fattori: la rigidità di schieramento e la flessibilità
strategica.
I sistemi Multipolari saranno invece caratterizzati da maggiore interdipendenza economica e
militare, che si tradurrà in vulnerabilità per alcuni attori. Flessibilità di schieramento e rigidità
strategica sono due fattori cruciali che danno il metro del “disordine”, che si potrebbe anche
intendere come possibilità di scelta di schieramento più ampia, presente nei sistemi
multipolari.
Successivamente sarà possibile analizzare la prospettiva storica, infatti il Capitolo 2
consisterà in una rassegna delle più importanti vicende di politica estera italiana dall’Unità
alla fine della Guerra Fredda. Uno studio effettuato con il supporto di C.M. Santoro ed il suo
testo “La politica estera di una media potenza”, in cui proveremo a chiederci quando e come
l’Italia agì per questioni di prestigio e quando invece adottò una politica di potere.
Quindi, allargando il perimetro dell’analisi al periodo post Guerra Fredda, sarà introdotto il
Capitolo 3, che consisterà in un rapporto sulle partecipazioni Italiane alle varie missioni
internazionali, che saranno anch’esse sottoposte ai quesiti sopra indicati.
Con la fine della Guerra Fredda, e quindi del Bipolarismo, avvenne una sorta di allentamento
dei vincoli strategico-politici costituiti dalle alleanze dei due blocchi: innanzitutto, la
dissoluzione del Patto di Varsavia, che comportò una svolta, nel senso in cui ridiede una certa
libertà di scelta a tutti quegli stati dell’Europa Orientale che per decenni furono privati di un
effettivo controllo sulla propria politica estera. Gli effetti di questo cataclisma politico si
ebbero anche sul versante occidentale: la Nato, così per come era stata concepita, non aveva
più, almeno apparentemente ed inizialmente, motivi di esistere. Con lo scioglimento dei
vincoli e delle coalizioni già citate, tutte quelle medie potenze, fino ad allora relegate a ruoli
subalterni all’interno delle rispettive alleanze, ebbero improvvisamente da riesaminare la
trama e le direttrici della loro azione internazionale, a immaginare nuovi scenari diplomatici
e strategici, ad individuare le opportunità calcolandone i costi, ad assumersi responsabilità e,
in sostanza, ad attrezzarsi per essere in grado di affrontare il nuove contesto internazionale.
A questo punto è nostro dovere fornire una riflessione introduttiva sull’ Italia, un paese che
potrebbe, a buone ragioni, aver subito grandi cambiamenti dopo la fine del bipolarismo.
Rimasta in un’alleanza che sopravvisse, ma che però non poté più definirsi uno dei due
blocchi, in quanto, come già detto, uno di essi era letteralmente scomparso dalla scena
internazionale, lo stivale ebbe da ripensare, o re-inventare, il ruolo che avrebbe voluto giocare
nel nuovo sistema internazionale. In un campo ben preciso, o meglio con un nemico
facilmente identificabile fino al 1991, il bel Paese si scoprì improvvisamente carico di
un’onerosa libertà, ovvero della consapevolezza del fatto che la rinnovata libertà di scelta in
politica estera avrebbe avuto un prezzo: l'assunzione totale delle responsabilità da esse
derivanti. Durante la Guerra Fredda, con la contrapposizione USA-URSS, i rispettivi alleati,
relegati ai margini decisionali, raramente si esponevano, e quindi i loro interessi, per quanto
sopiti in termini di guadagno, erano d'altro canto preservati ed assicurati in termini di perdite:
un sostanziale equilibrio, tipico del periodo.
2
Storicamente e geograficamente, l'Italia è collocata in una posizione intermedia, fatica a
prediligere uno scenario geopolitico e a seguire una linea chiara e continua di politica estera,
perché si trova effettivamente al centro di più scenari, e, ora più che mai, sporgersi da un lato
significa dare le spalle a un nemico troppo vicino.
Non è un caso dunque che il soggetto politico Italia risulti una specie di ibrido, non definito
nei dettagli, sfumato, dalle tante sfaccettature, imprevedibile alcune volte, ma capace di
ricomporsi riconoscendo il ruolo che, per quanto spinto verso la centralità regionale nel
mediterraneo, rimane comunque marginale a livello mondiale nel multiforme nuovo gioco
delle grandi potenze.
Il caso italiano, come sarà dimostrato nel merito, è la riprova del fatto che, dopo la fine della
Guerra Fredda, l’assetto politico mondiale precedentemente conosciuto, il sistema Bipolare,
fondato sulla contrapposizione politica, economica e culturale tra Stati Uniti e Unione
Sovietica, cede il passo ad una nuova forma di ordine mondiale, il sistema Multipolare, nel
quale le rigide logiche di schieramento, tipiche del sistema Bipolare, si affievoliscono
favorendo la restituzione del potere ad attori nazionali medi o minori, che recuperano quei
sentimenti misti di patriottismo, nazionalismo ed insicurezza che stanno alla base della
stragrande maggioranza dei conflitti regionali attualmente in corso.
La consapevolezza di queste nuove ragioni che animano la politica estera delle “rinate” medie
potenze non fa altro che rafforzare la convinzione che una politica di prestigio sia auspicabile
per tutti quegli stati “congelati” durante la Guerra Fredda e che ora, invece, si affacciano al
nuovo mondo in cerca di un palcoscenico internazionale dove esibire la propria autorità e far
mostra della propria recuperata centralità ed autonomia nei rispettivi contesti regionali.
In sostanza, le maggiori possibilità di emergere a livello internazionale costituiscono moneta
per tutti gli Stati che poi abbiano intenzione di spenderla negli scenari nei quali sono collocati.
Dopo aver circoscritto in maniera esaustiva gli episodi di rilevanza della politica estera
italiana ed i suoi interventi all’estero nell’ambito del peacekeeping post Guerra Fredda, il
capitolo 4 fornirà un rapporto sulle missioni internazionali cui l’Italia partecipa oggi in ambito
ONU, NATO e U.E.
Infine saranno trattati nel dettaglio due casi di interventi in missioni internazionali Italiani nel
quadro della distinzione da noi evidenziata:
Il primo, collocato nelle remote steppe dell’Asia Minore, in un paese lontano e
tristemente famoso per essere stato terreno di scontro tra le super potenze negli
anni ’80; motivato sostanzialmente da ragioni di schieramento internazionale e
di credibilità politica, interessi indiretti e, per semplificare citando un concetto
già parzialmente esposto, manifestazione della politica di prestigio: l’intervento
in Afghanistan del 2001.
Il secondo effettuato nello scenario geopolitico Italiano, il mar Mediterraneo,
motivato perciò da ragioni di prossimità geografica, sicurezza, interessi diretti,
ragioni storiche e, in ultima istanza, manifestazione della politica di potere:
l'intervento in Libia del 2011
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Capitolo 1- La politica di Prestigio, una prospettiva teorica
1.1 Fine di un'era
Il 9 Novembre 1989, assieme al muro di Berlino, crollò anche la simbolica rappresentazione
della divisione spaziale e della contrapposizione politica ed ideologica tra est e ovest, URSS
e USA, durante la quasi totalità della seconda metà del 20° secolo, nel periodo passato alla
storia come Guerra Fredda.
Era chiaro fin dall’inizio che le conseguenze sarebbero state epocali, il fatto è che furono
anche rapide: poco più di due anni dopo, il 26 dicembre 1991, il Soviet Supremo riconobbe
formalmente la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Questi avvenimenti, e molti altri, minori solo per quanto riguarda l’eco prodotta, furono frutto
di lunghi e lenti processi di logoramento:
in primis dell’ordine bipolare post-bellico, minato da processi di diffusione o
dispersione di potenza, ovvero di allontanamento dai due centri di potere;
in secondo luogo dell’ordine interno, prevalentemente nel blocco Sovietico, che
pagò con la sua stessa dissoluzione l’aggravarsi e l’accumularsi di crisi sopite,
sentimenti separatisti e situazioni di difficoltà economica per lungo tempo
represse da parte delle autorità centrali
infine, anche il declino dell’egemonia statunitense sul proprio sottosistema
d’influenza contribuì al delinearsi del mutamento delle relazioni internazionali
degli anni ’90.
Il mondo, durante questi anni, s'illuse che una nuova era di pace stesse bussando alle porte
dell'umanità: e come dargli torto? Venuta meno la contrapposizione totale che per mezzo
secolo tenne col fiato sospeso gli uomini di tutto il Mondo, chi avrebbe potuto pensare in
negativo?
Eppure la storia insegna, e noi abbiamo solo da imparare: ogni sistema (oggi internazionale,
ieri regionale) si costituisce per volontà degli attori principali che, sfruttando la loro autorità,
impongono un regime in grado innanzitutto di soddisfare il più possibile i loro interessi, e
secondariamente di fornire buoni motivi agli attori minori per essere a loro volta interessati
al mantenimento dello status quo.
Ma cosa accade quando il meccanismo si rompe, e il castello di carta su cui molti volevano
poggiare, s'infrange sotto i loro piedi? Accade semplicemente che si creano nuovi sistemi,
con nuove logiche di equilibrio, elaborate sulla base dell'appello delle nuove potenze
emergenti, le stesse, d'altro canto, che sicuramente auspicavano ad un cambiamento rispetto
allo status quo precedente.
Perciò, data la presenza di nuovi attori ai vertici della gerarchia sistemica, si avranno
ovviamente nuovi interessi e nuovi obiettivi.
Qualcuno, all'inizio degli anni '90, avrebbe potuto prevedere una situazione di anarchia
internazionale, i più un’oligarchia, alcuni ipotizzarono il dominio globale dell’unica Super
Potenza rimasta, gli Stati Uniti; vent'anni dopo, noi siamo in grado di affermare che la
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situazione mondiale, oggi, è molto più sfumata di ieri, nonostante la rinata contrapposizione
Stati Uniti-Russia, essi oggi non sono più gli unici attori autorevoli: certo, mantengono
prestigio a livello internazionale, ma molto spesso a questo prestigio non corrisponde un
potere ed un controllo effettivo su sempre più aree, interessate da espansionismi di potenze
regionali, le così dette medie potenze, che oggi più che mai sono in grado di influenzare gli
equilibri internazionali.
1.2
Anarchia ed equilibrio
Il modello che più, secondo il nostro studio, si avvicina alla situazione internazionale odierna
è quello Neo-Realista di Kenneth N. Waltz, ed è proprio su uno dei suoi punti principali,
l’approccio sistemico, che anche questo elaborato si basa.
Circoscrivendo infatti l’ambiente internazionale generale, la nostra attenzione si avvicinerà
sempre più al caso particolare, che ovviamente non può essere studiato e spiegato senza aver
prima valutato gli agenti atmosferici internazionali che ne condizionano l’operato.
E’ chiaro dunque come, fino al 1991, il sistema internazionale fosse sorretto dal Bipolarismo,
dalla contrapposizione ideologica, politica ed economica tra i due attori principali e i rispettivi
alleati.
L’assunto di Waltz tale per cui un sistema del genere sia auspicabile è francamente condiviso
anche da noi: per sopperire all’anarchia internazionale, costante cornice delle relazioni
internazionali, definibile anche come contesto in cui operano gli Stati caratterizzato dalla
mancanza di un’autorità centrale cui si possa far affidamento per ottenere protezione e
giustizia, gli Stati più forti, nell’interesse reciproco, si decideranno a convivere, a sfidarsi
sempre e a battersi mai , spartendosi zone d’influenza e risolvendo crisi internazionali
congiuntamente; praticando ciò che fu definita, nel caso specifico della Guerra Fredda, una
coesistenza pacifica.
Citando Waltz l’anarchia internazionale è “il principio ordinatore del sistema internazionale
e la causa prima della competizione tra gli Stati. Dunque, in anarchia la minaccia dell’uso
della forza è sempre un’eventualità e l’autodifesa è il principio necessario dell’azione.”
Noi crediamo però che l’anarchia internazionale possa anche essere, a buone ragioni, il
motivo per cui gli Stati cooperano, si alleano e si garantiscono protezione.
L’anarchia condurrebbe dunque a due macro scenari, completamente opposti:
La guerra, come espressione della libertà degli Stati di conseguire i propri interessi, i
quali molto spesso coincidono con quelli di altri Stati, a loro volta intenzionati a
conseguirli o preservarli.
L’equilibrio di Potenza, ovvero una situazione nella quale gli Stati “collaudano” un
meccanismo di interazione nell’arena internazionale caratterizzato da molteplici
definizioni che più studiosi hanno dato nel corso del tempo. Per Morgenthau,
politologo tedesco successivamente naturalizzato statunitense, teorico del realismo
politico e fra i primi ad occuparsi della questione, l’equilibrio di potenza sarebbe
riconducibile ad una generica situazione di equilibrio, divisibile in 4 sottogruppi:
5
1. Equilibrio volto al mantenimento dello status quo
2. Equilibrio come effettivo stato di cose
3. Equilibrio come distribuzione omogenea del potere
4. Equilibrio come distribuzione disomogenea del potere
Tornando a Waltz, egli definisce l'equilibrio di potenza come “uno degli esiti più duraturi
dell’interazione tra gli Stati, e dunque l’esito più probabile nel lungo periodo.”
Si potrebbe dunque affermare che l’equilibrio di potenza è una situazione nella quale il potere
è distribuito in modo abbastanza equo tra le potenze esistenti ed è dunque la migliore garanzia
per la reciprocità tra gli Stati, in quanto il loro eguale valore formale garantisce la sovranità
dei singoli.
Assumendo dunque la situazione Bipolare, caratteristica della Guerra Fredda, come un
sostanziale Equilibrio di SuperPotenza, potremmo affermare che il nuovo disordine
mondiale, caratterizzato dalla sostanziale mancanza di una leadership riconosciuta erga
omnes, per quanto smorzato e mitigato dal sistema internazionale instauratosi dopo la seconda
guerra mondiale, dal Diritto Internazionale e dalla supremazia degli Stati Uniti (enorme negli
anni ’90, più debole oggi), costituisce la costante delle odierne Relazioni Internazionali.
Infatti il nuovo assetto mondiale, definibile Unipolare solo per gli anni ’90 ed i primi 2000,
quando lo strapotere e l’autorità indiscussa degli Stati Uniti si manifestarono
inequivocabilmente più volte, oggi si sposta verso una situazione tendenzialmente
Multipolare, caotica, con attori che vogliono mantenere lo Status Quo, come gli Stati Uniti,
che vivono ormai di luce riflessa, di prestigio non più corrispondente ad egual potenza o
autorità, ed altri che invece tornano alla ribalta, come la Russia di Putin, le potenze europee,
Regno Unito e Francia su tutte; altri ancora, dopo decenni di ombra e sporadiche comparse,
si affacciano alla finestra dei protagonisti delle relazioni internazionali: Cina e India , ma poi
Brasile e Sud Africa, solo per completare la lista dei Brics.
Questa situazione indefinita lascia in eredità innanzitutto la mancanza di reciprocità sulla
quale si fonda un sistema internazionale in equilibrio e una rimarcata debolezza del Diritto
Internazionale, che è conseguenza diretta dello squilibrio internazionale.
Inoltre molti altri Stati, oltre a quelli già citati, cercheranno di ridefinire il proprio ruolo nel
sistema internazionale, sfruttando le opportunità che il tempestoso contesto geopolitico
contemporaneo offre.
1.3 Le caratteristiche del sistema internazionale
Gli Stati creano sistemi sociali, politici ed economici a livello internazionale per promuovere
particolari interessi. Una volta innescati, essi sono in grado di esercitare una certa influenza
sul comportamento degli Stati, stabilendo una serie di costrizioni e opportunità all’interno
delle quali questi cercano di affermare i propri interessi.
Secondo Robert Gilpin, un sistema presenta tre aspetti primari:
1. Le entità diverse, che possono essere processi, strutture, attori o attributi degli attori
2. L’interazione regolare, che varia da contatti infrequenti ad una forte interdipendenza
6
degli stati
3. La forma di controllo, che regola il comportamento degli stati e può comprendere sia
regole informali che vere e proprie istituzioni, come ad esempio l’equilibrio di potenza
o il diritto internazionale.1
Per quanto riguarda le entità diverse e l’interazione regolare, non essendo questi i punti che
questa tesi vorrebbe approfondire, ci si limiterà a dire, per quanto riguarda le prime, che esse
sono tipicamente gli Stati, anche se altri attori di natura sovranazionale o internazionali
possono svolgere ruoli importanti in determinate circostanze, basti pensare agli imperi o, per
fare un esempio più contemporaneo, all’Unione Europea.
Parlando invece di interazione regolare, essa è suscettibile innanzitutto al clima politico
internazionale e ai diversi sistemi internazionali, va detto comunque che nel mondo moderno
queste interazioni tra gli Stati sono diventate sempre più intense e organizzate, come
conseguenza dei progressi compiuti nel campo dei trasporti e delle comunicazioni. In ogni
caso la tecnologia può solo velocizzare queste interazioni, ma arbitro delle corrispondenze e
dei rapporti di rispetto reciproco inter statale rimangono sempre e comunque i buoni rapporti
politici.
Ciò che è per noi di assoluta importanza sono lo forme di controllo: esse, a discapito della
componente anarchica internazionale, che è, intendiamoci, incontrovertibile, sono in grado
comunque di fornire un grado di ordine (in alcuni sistemi elevato, in altri ridotto) utile alla
convivenza degli Stati.
Le forme di controllo si basano su due punti fermi: la distribuzione del potere e la gerarchia
del prestigio.
Storicamente, per quanto riguarda la distribuzione del potere, si è assistito a tre forme di
controllo:
1. La prima, quella Imperiale o Egemonica, nella quale un singolo Stato molto potente
controlla o domina gli Stati più piccoli del sistema. Rimase molto diffuso fino all’epoca
moderna, e a nostro parere si avvicina molto alla visione tipicamente Statunitense del
sistema internazionale contemporaneo.
2. La seconda, quella Bipolare o comunque con un numero ridotto di Stati in grado di
controllare e regolare le interazioni all’interno delle rispettive sfere d’influenza.
3. La terza, quella dell’Equilibrio di Potenza, nel quale più potenze controllano le azioni
reciproche tramite manovre diplomatiche, variazioni di alleanze e conflitti multipli. Il
caso per eccellenza è l’Europa delle grandi potenze, conseguente al trattato di Vestfalia
(1648) e che costituì la società internazionale europea, tema molto caro ai Realisti
Eterodossi, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914.
La distribuzione del potere tra gli Stati costituisce la principale forma di controllo di ogni
sistema internazionale. Gli Stati e gli Imperi dominanti in ogni sistema internazionale
organizzano e mantengono la rete di rapporti politici, economici e di altro tipo all’interno del
sistema e particolarmente nelle rispettive sfere d’influenza. Sia da soli che nell’interazione
1
R. Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Società editrice il Mulino, Bologna, 1989, pp. 67-68.
7
reciproca quegli Stati che storicamente sono stati considerati grandi potenze e che oggi
vengono chiamati Superpotenze creano e impongono le regole e i diritti fondamentali che
influenzano il comportamento proprio e degli Stati meno importanti del sistema.
Passando alla seconda componente del governo di un sistema internazionale introduciamo
finalmente il tema principale di questa tesi: la gerarchia del prestigio tra gli Stati.
1.4 La gerarchia del prestigio
Nelle relazioni internazionali il prestigio è l’equivalente del ruolo dell’autorità nella politica
interna, ed esso è inoltre legato, anche se distinto, al concetto di potere, infatti “il prestigio (o
l’autorità) è la probabilità che un ordine provvisto di uno specifico contenuto venga eseguito
da un dato gruppo di persone.”2
Perciò, se il potere è utile al raggiungimento di un dato obiettivo nonostante le resistenze
esterne, il prestigio è quel fattore che annulla le resistenze e gli attriti prodotti da un’eventuale
contrapposizione di altri stati.
Come abbiamo già spiegato nell’esposizione dei sistemi, gli stati più deboli accettano in una
certa misura la leadership degli stati più potenti, in parte perché ne approvano la legittimità a
comandare, e in parte perché riconoscono l’utilità intrinseca dell’ordine esistente: essi
preferiscono la certezza e le garanzie dello status quo alle incertezze del cambiamento, e anzi,
in alcuni casi si vincolano ancora più strettamente all’alleato maggiore, formando alleanze ed
identificando i loro valori ed interessi con quelli delle potenze dominanti.
Imperi e stati dominanti garantiscono i beni di utilità pubblica che incentivano gli altri stati a
seguire la loro guida: questo è ciò che accadde durante il Bipolarismo, solo per citare un caso
a noi caro.
Volendo differenziare, in ultima analisi ed in maniera esaustiva, i concetti di potere e prestigio,
sarà il caso di precisare che “il prestigio è la reputazione di cui si gode per il potere che si
possiede, per quello militare in particolare; ma, mentre il potere si riferisce alle capacità
economiche, militari e di altro tipo di uno stato, il prestigio è collegato innanzitutto alle
percezioni che altri stati hanno della forza di uno stato e della sua capacità e determinazione
ad esercitare il potere.3”
Ne consegue che il prestigio non è nient’altro che la materializzazione di risultati politici
derivanti dalla credibilità del potere di uno stato e dalla sua determinazione a dissuadere altri
stati dall’ostacolare il proprio operato.
Il prestigio è “estremamente importante in quanto se la vostra forza è riconosciuta, non avrete
bisogno di usarla per raggiungere i vostri obiettivi.”4
2
Ivi, pp. 71-72.
Ivi, p. 72.
4
Ivi, p. 73.
3
8
Un concetto, insomma, nobile e bruto allo stesso tempo, ambivalente, fondamentale per
preservare una posizione di forza all’interno di un sistema e condurre negoziati interstatali
pacifici, senza bisogno di minacciare, o ricorrere all’uso della forza. In più potremmo, a rigor
di logica, affermare che, in un sistema con una chiara gerarchia del prestigio, i conflitti
saranno rari e al massimo circoscritti a piccoli episodi di assestamento.
1.5
Conseguire il prestigio
Il prestigio si acquisisce innanzitutto con un buon uso del potere, in particolar modo vincendo
una guerra: è chiaro il legame indissolubile che collega prestigio e forza militare.
“I membri più dotati di prestigio del sistema internazionale sono quegli stati che hanno più
recentemente usato con successo il potere economico e militare riuscendo così ad imporre la
propria volontà sugli altri.”5 Ne consegue perciò che la guerra è uno strumento della politica
di prestigio, e più esattamente essa ha la sua funzione principale nello stabilire la gerarchia
internazionale del prestigio.
Per la potenza egemone sarà indispensabile e di vitale importanza preservare il proprio
prestigio nel tempo, e a questo proposito verrà citata l’ipotesi di Hawtrey, il quale sostiene
che “col tempo possa sorgere una incongruenza tra la gerarchia di prestigio esistente e la
distribuzione del potere tra gli stati.” 6 In uno scenario del genere verrebbe a crearsi una
situazione nella quale la potenza dominante cercherà di recuperare potere, espandendosi
ulteriormente o concentrando le energie: inevitabilmente questo farà calare il suo prestigio,
in quanto ammetterebbe implicitamente di essere in difficoltà.
Conseguentemente la sua credibilità agli occhi degli alleati e degli oppositori perderebbe
valore: un’orbita di incertezza perciò pervaderà il sistema, e dopo una situazione di stallo,
nella quale gli stati in ascesa faranno sentire la loro voce e gli alleati minori rivendicheranno
più autonomia e libertà, saranno richiesti cambiamenti in grado di riflettere la nuova
situazione di potere e di garantire gli interessi insoddisfatti delle potenze scontente.
Questa situazione di stallo sarà superata o con un conflitto armato, che deciderà la governance
del sistema stilando una nuova gerarchia del prestigio internazionale, casi esemplari le due
Guerre Mondiali, nelle quali gli imperi centrali prima, e il Terzo Reich poi, tentarono di
ridefinire la gerarchia del prestigio data l'incongruenza percepita tra il loro potere effettivo e
il loro rango internazionale, oppure con un passo indietro volontario dell’ormai ex potenza
egemone, che ammetterà che il gap tra il suo grado di prestigio su carta e il suo potere effettivo
è ormai tale da non consentirle più di guidare la leadership internazionale, che è, in fin dei
conti, ciò che accadde all'Impero Britannico, che per non perdere tutte le sue conquiste decise
di semi-autonomizzarle, vincolandole però ad istituzioni interstatali, come il Commonwealth
ad esempio.
5
6
Ivi, p. 74.
R.G. Hawtrey, Economic Aspects of Sovereignity, Longmans Greens, London, 1952, pp. 64-65.
9
1.6 La politica di prestigio italiana, o del prestigio relativo
Ciò di cui finora si è discusso costituisce la cornice di questo studio: abbiamo definito, si
spera in maniera esaustiva, alcuni modelli di sistemi internazionali, il rapporto tra anarchia ed
equilibrio e infine abbiamo approfondito la tematica della politica di prestigio, cui però si è
fatto riferimento solo in termini di leadership.
Quello che personalmente vorrei dimostrare è che la politica di prestigio può, e deve, essere
applicata anche per scalare la “classifica” della gerarchia internazionale, magari partendo dal
basso, senza per forza puntare alla vetta, ma tenendosi stretta una posizione mediana: essere
una media potenza, senza tentare inutili scalate ma senza neanche accontentarsi di un posto
ai margini.
Il caso italiano rappresenta il simbolo di questa politica: essendo uno degli ultimi Stati Europei
a raggiungere l’unità nazionale, esso ha sempre dovuto accompagnare alle grandi ambizioni
la consapevolezza di non essere mai, o raramente, all’altezza dei partner che nella storia
l’hanno affiancato.
Politica di prestigio per l’Italia non ha mai significato, tranne che in alcuni periodi e in termini
relativi, conseguire l’egemonia mondiale o occupare il ruolo di leader di un sistema: al
contrario, ciò che storicamente ha contraddistinto la politica di prestigio italiana è stato il
costante bisogno di emergere agli occhi della potenza dominante di turno, di farsi notare, di
mostrarsi come partner minore affidabile, fedele, pronto e competente.
Ecco perché si potrebbe parlare di politica del prestigio relativo: infatti questo sarà ricercato
e conseguito non per servirsene in termini assoluti e quindi cercare l’egemonia mondiale; al
contrario, esso sarà utile in termini relativi, nel senso che verrà usato come credito presso la
potenza dominante, che farà concessioni o concederà opportunità e aiuti.
L’ultima delle grandi potenze, la prima delle piccole: una media potenza, o la media potenza
per eccellenza, come direbbe Santoro.
Lottando con tutti i mezzi che la politica estera mette a disposizione, quali la diplomazia, le
forze armate, la partecipazione ad alleanze, organizzazioni internazionali e, più recentemente,
missioni di peacekeeping; stando attenti a non commettere smacchi, dando rispetto e
pretendendone, appoggiando una scelta delicata della potenza dominante e di conseguenza
avere garanzie tali per cui quando sarà il momento questa renderà il favore: insomma,
districarsi tra alleati e nemici, non voltare le spalle a nessuno nei limiti del politicamente
corretto, approfittare di occasioni ghiotte nelle quali mettersi in mostra e dare prova di essere
un soggetto pensante e responsabile, raramente spregiudicato e, tendenzialmente, risoluto.
Ma anche facendo i conti con i caratteristici tratti originali che contraddistinguono lo stivale:
primi la posizione geografica, la storia nel senso stretto del termine, così ricca, e la storia
politica, così giovane e breve, l’economia, la popolazione e la cultura; secondi gli obiettivi di
politica interna, la loro frequente incoerenza, la molteplicità e la dispersività dell’attenzione
tematica, l’incertezza sugli alleati e le esitazioni circa l’opportunità delle coalizioni.
Concludendo, sarà interessante mettere a confronto le differenze tra la politica di prestigio
portata avanti in un contesto multipolare, dove l’Italia si trovò a fare giri di walzer prima e
10
politiche del pendolo o del peso determinante poi, e una invece perpetrata in un contesto
prima bipolare e poi unipolare, nel quale la costante dei governi italiani fu, ed è, l’assoluta
devozione, fedeltà e sottomissione, nei limiti del rispetto della sovranità degli stati,
chiaramente, agli interessi e agli obiettivi della potenza dominante cui si è indissolubilmente
legati.
L’analisi di questi fattori, che saranno approfonditi nel prossimo capitolo, sarà utile a far luce
più specificatamente sugli strumenti di cui i governi italiani, trovandosi a fronteggiare volta
per volta scenari diversi, si sono serviti per raggiungere gli obiettivi di cui sopra.
11
Capitolo 2 – La politica di Prestigio, una prospettiva storica
1.1 Tre facce della stessa medaglia
La politica estera italiana, così come quella di qualsiasi altro Stato sovrano, risulta un mix di
variabili indipendenti esterne ed interne, che costituiscono lo scenario regionale nel quale esso
è collocato, nonché di una serie di costanti storiche e fattori di tipo geografico storico e
culturale, che ne definiscono l’ambito e le condotte.
In questo capitolo, servendoci degli studi di Carlo M. Santoro sulle costanti e le variabili che
hanno influenzato la politica estera italiana dall’ Unità ad oggi, cercheremo di dimostrare
come, in alcuni casi, la politica di prestigio nei termini da noi circoscritti, possa essere
considerata a sua volta una costante delle politica estera italiana, malgrado le sfumature, prima
di tipo riduzionista, poi velleitarie, romantiche e miticizzanti, ed infine risolute e attendiste,
abbiano contribuito a far credere che le diverse politiche estere perseguite nelle diverse età
italiane (quella liberale, quella fascista e quella repubblicana) fossero del tutto scollegate fra
loro, avendo come unico fattore in comune l'imprevedibilità e la mancanza di obiettivi precisi
da raggiungere: senz'altro questi fattori esistono, e più avanti verranno esposti in maniera
esaustiva, ma noi crediamo fortemente che ci sia dell'altro.
Sebbene molti studiosi siano convinti del fatto che questi cambi di assetto politico e sociale,
tanto rapidi quanto radicali, siano del tutto scollegati da qualsiasi logica e motivazione, noi
avvalleremo la tesi secondo cui, a fronte di diverse situazioni politiche globali, l’Italia,
giovane Stato sovrano, così flessibile e multiforme, sia stato in grado di trasformarsi ed
adattarsi per meglio sopravvivere nei diversi sistemi internazionali delineatisi dal 1861 ad
oggi.
Agire perciò quasi d’istinto, come propone anche la teoria Darwiniana, del resto solo chi è
capace di cambiare sopravvive, ed ecco che l’Italia, mostrandosi viva nella società
internazionale europea di fine ‘800 e inizio ‘900, fiera nella prima metà del ‘900 e
responsabilmente spregiudicata nella seconda metà del ‘900, oggi si presenta come la classica
media potenza, autorevole nel proprio contesto regionale e presente nei teatri di guerra
principali del mondo.
A questo proposito Santoro, parlando dell’immagine dell’Italia, intesa come attore nazionale,
tanto nella sua cultura politica, sociale e culturale, quanto nella sua proiezione esterna,
ipotizza che essa si sia quasi sempre “travestita”, apparendo in modo piuttosto diverso da
quelli che erano i tratti costitutivi reali del paese.
I principali travestimenti che lo studioso delinea sono tre:
“L’ Italietta liberale, piccolo e medio borghese, rurale e provinciale, dei medici, degli
avvocati e dei notai postrisorgimentali, cui si aggiungerà in seguito la schiera dei
professionisti e degli agricoltori cattolici con l’affermazione della Democrazia
Cristiana nel 1948.
L’Italia ipernazionalista, futurista e poi fascista, retorica e classicheggiante, che va da
Carducci a Craxi, passando attraverso Crispi, D’Annunzio, Marinetti e Mussolini,
feroce coi deboli e imprudente coi forti, dai connotati velleitari. Il suo volto raffigura
profili guerrieri, un forte bisogno di autoaffermazione ed autocelebrazione, ambiziosi
interessi economici perseguiti senza coerenza e, nel complesso, spropositate quanto
12
improvvisate mire politico-militari: insomma, la trasposizione del complesso
d’inferiorità di cui l’Italia soffre dalla nascita.
L’Italia, populista prima, classista poi, nata dalla disgregazione dell’ala radicale del
mazzinianesimo e del Partito d’Azione garibaldino, via via trasformatasi in operaismo
assistenziale, in anarchia, in sindacalismo rivoluzionario, fino al socialismo
anticolonialista, per sfociare infine, in gran parte, nel comunismo internazionalista. La
visione tipicamente extranazionale, volta ad europeizzare la cultura politica del paese
nelle diverse “Internazionali, socialiste e comuniste, che caratterizzò questa corrente
fu il sottoprodotto della “rivoluzione mancata” e dell’inesorabile ed attualissimo
divario fra Nord e Sud Italia.”7
Da Berlinguer a Craxi, passando, per alcuni risvolti, anche da Spinelli, e poi i partigiani del
partito d’Azione appunto, molti furono gli uomini politici italiani che a nostro avviso
sarebbero collocabili in questa corrente.
Le tre Italie sarebbero dunque tre metafore diverse di una stessa realtà nazionale, così divise
ma allo stesso tempo unite, complementari l’una all’altra, in quanto nessuna di esse è in grado
di esprimere compiutamente, né la cultura politica dominante, né quella alternativa.
Concludendo, la contemporanea esistenza di tre anime dimostra niente poco di meno che
l’esistenza di una divisione verticale, ovvero di quella frammentazione che ha quasi sempre
reso ambigua l’immagine esterna del paese e ha quindi reso spesso incoerente la sua politica
estera.
Saranno ora esaminate le costanti storiche della politica estera italiana, così come delineate
da Santoro.
1.2 Le costanti storiche
“La politica estera di un attore nazionale che abbia dietro le spalle un certo numero di decenni
di vita unitaria è chiaramente influenzata nei suoi orientamenti di fondo dalle cosiddette
lezioni della storia. L'accumulazione culturale, il bagaglio d'esperienza fattuale e, ovviamente,
le conseguenze del fattore geografico, vengono assunti nell'inconscio collettivo di un paese e,
in quanto patrimonio acquisito, diventano parte integrante del sistema dei suoi interessi
nazionali.”8
Le lezioni della storia di cui parla Santoro si manifestano nella condotta che ciascun attore
nazionale assume nei suoi comportamenti con l'estero, con condotte costanti e ricorrenti.
Nel suo studio sulla politica estera italiana, individua cinque “costanti storiche” che hanno
contrassegnato in diverse occasioni il corso degli eventi determinando l'orientamento politico
del paese. Saranno qui brevemente riportate per completezza, chiarezza e in quanto utili al
nostro scopo, dato che molte di esse sono espressione di una politica di prestigio così come
da noi delineata nel precedente capitolo.
7
8
C. M. Santoro, La politica estera di una media potenza, Società editrice il Mulino, Bologna, 1991, pp. 22-23.
Ivi, p. 71
13
a) Il rapporto confuso tra ruolo e rango
“La prima costante storica è determinata dal problema della collocazione dell'Italia
all'interno della gerarchia di “potenza” del sistema internazionale, ovvero si tratta di
determinare il “ruolo” internazionale del paese rispetto ai suoi vicini regionali e agli attori
globali.”9
Mentre il ruolo è un parametro oggettivo, quindi calcolabile in base alle funzioni svolte, alla
potenza militare, economica e sociale di un paese, il rango è un po' il corrispettivo del prestigio
internazionale così come da noi definito nel Cap.1, nel senso che è tanto grande quanto il
ruolo è oneroso, e innesca una spirale che, nel lungo periodo, si auto-equilibra, definendo
approssimativamente la collocazione di un paese all'interno della gerarchia di potenza del
sistema internazionale.
Il caso italiano è l'eccezione che conferma la regola: inserito in un contesto regionale egemone
al momento della sua comparsa, l'Europa delle grandi potenze, il soggetto Italia ha beneficiato
di questa collocazione, guadagnando, quasi da zero, un rango spropositato per quello che era
il suo effettivo ruolo.
“All'interno della prima fascia, ovvero quella delle grandi potenze, dove si accedeva solo a
certe condizioni, l'apparente eguaglianza di diritti e di privilegi caratteristica di tutti gli attori
che facevano parte del Concerto d'Europa nascondeva una sostanziale asimmetria, e quindi
una rigida gerarchia interna, in termini di ruolo (o prestigio) che per l'Italia, ultima delle grandi
potenze, risultava quantomeno umiliante.”10
Perciò, anche se invitata alle conferenze internazionali più importanti, l' Italietta liberale
rimaneva sempre ai margini, e il suo parere non era mai ascoltato. Ne derivarono gravi
conseguenze sulla politica del paese e sulla sua percezione della propria identità nazionale,
che compromisero in più occasioni la stabilità della sua direzione politica e fecero sì che più
modifiche fossero apportate al suo stile e alla sua condotta. Questa costante sarà la più
presente ed influente, e in quanto espressione di un appurato complesso di inferiorità, spingerà
l'Italia a barcamenarsi in azioni politiche spregiudicate e velleitarie, prime fra tutte le
conquiste coloniali di fine '800, condotte da grande potenza ma che poggiavano su mezzi di
piccola potenza: in sostanza, per ottenere qualche vantaggio su scala sub-regionale, nel
Mediterraneo o in Africa, oppure per evitare che i giochi nei Balcani si facessero del tutto alle
sue spalle, mise in solare evidenza sia i limiti strutturali della sua potenza sia la grossolanità
del suo stile diplomatico allorché si vide costretta, già prima del fascismo, ad assumersi un
ruolo spesso eccessivo rispetto sia alla posta in gioco che alle proprie risorse.
Questa condizione, psicologica e fattuale, si è prolungata nei decenni, attraverso l'età liberale
e quella fascista, fintanto che il crollo del sistema europeo dell'equilibrio con la seconda
guerra mondiale non parve modificare il quadro complessivo entro cui poteva definirsi
l'azione internazionale italiana.
Caduta infatti ogni possibilità di comportarsi come grande potenza, si adattò, adagiandosi al
rango di potenza minore e nascondendosi dietro le spalle del leader di blocco, gli Stati Uniti,
nell'intento di sfuggire all'attenzione e agendo secondo le logiche di una politica di basso
9
10
Ivi, p. 72.
Ivi, pp. 73-74.
14
profilo, abbastanza simile a quella che svolse nella seconda metà dell'800, quando si
appoggiò, per ragioni completamente opposte, alla Triplice Alleanza con la Germania di
Bismarck e l'Impero Austro-Ungarico.
Sono questi infatti i periodi chiave in cui la politica di prestigio italiano prese una piega di
tipo relativistico, dove l'acquisizione di rango era utile per avere più autorevolezza e più
“ruolo” all'interno dell'alleanza di cui si era parte, piuttosto che su scala globale.
b) Sicurezza e modello di alleanza
“Il problema della sicurezza, per un paese esposto sul mare, con una barriera difensiva
naturale a Nord, aperta però sul fianco orientale, circondato da alcune grandi potenze
effettive, come lo sono state per secoli sia la Francia a Ovest che la Germania a Nord e
l’Austria a Nord-Est, coupled dalla presenza di una potenza navale come l’Inghilterra a Sud
nel Mediterraneo, non poteva non essere, fin dall’inizio, che molto complesso.”11
Perciò, fino al 1943, si poteva affermare, correttamente, che la politica estera italiana fosse
consistita in un sostanziale oscillamento fra ovest e nord, fra Francia e Germania, le potenze
continentali per eccellenza, tenendo sempre buoni rapporti con la Gran Bretagna per non
turbare lo status quo del Mediterraneo e mostrando i muscoli con l’Austria, ma solo per
interessi diretti ed esclusivamente in situazioni favorevoli.
Ma oggi, essendo noi contemporanei in grado di condurre un’analisi più elaborata, possiamo
affermare, in totale accordo con l’ipotesi di Santoro, che “la politica estera italiana ha
essenzialmente anteposto ad ogni altro argomento la protezione sistematica dei propri
interessi vitali, affidandosi spesso ad un alleato molto più forte, chiunque esso fosse, nella
speranza di assicurarsi una copertura globale, che per altro non compromettesse del tutto la
propria autonomia regionale e sub regionale.”12
E per fare ciò, è sempre stato necessario stabilire legami privilegiati e di alleanza con quella
che era la potenza dominante, prima nella sola Europa, poi nel Mondo, assumendo nei fatti
quell'atteggiamento, ora reverenziale, ora esigente, tipico della politica estera italiana e della
politica di prestigio relativo.
I quattro principali sistemi di alleanza cui l’Italia ha aderito nel corso della storia sono:
Gli accordi di Plombières, sottoscritti nel 1857, ovvero quando ancora il Regno d’Italia
non esisteva, furono funzionali al gioco diplomatico del conte di Cavour, che si
assicurò l’appoggio ed il sostegno della Francia di Napoleone III, indiscussa potenza
dominante del continente europeo fino al 1870.
La triplice Alleanza, firmata nel 1882, con cui si siglava un patto che rispecchiava il
mutamento degli equilibri continentali, con l’Impero Tedesco e l’Impero Austriaco
come garanzia per l’Itala di protezione per minacce eversive interne ed internazionali,
evitare l’isolamento internazionale e per rispondere all’occupazione francese in
Tunisia, che innescò la politica di potenza portata avanti da Crispi.
Il Patto d’Acciao, siglato nel 1939, che si può leggere in due chiavi: la prima di
contenimento, con Mussolini che si illuse di poter controllare Hitler in maniera più
11
12
Ivi, p. 77.
Ibidem.
15
efficace una volta legato a lui da un’alleanza così forte, sia di tipo offensivo che
difensivo, la seconda con Mussolini che, pronosticando vittorie e tempestivi successi
per la Germania Nazista, volle legarsi a essa per poi beneficiare di eventuali
compensazioni territoriali e ruoli di prestigio. Fatto sta che anche in quest’epoca,
l’Italia non scelse certo un partner di secondo ordine con cui allearsi: la Germania
Nazista era una vera e propria potenza economica, politica e militare.
Il trattato Nato, ratificato con gli Stati Uniti e gli altri paesi europei nel 1949
principalmente per due motivi: il fisiologico bisogno di essere legati alla potenza
dominante in primis, godendo perciò di tutti i privilegi derivanti e successivamente
uscire dall’isolamento internazionale, riscattando la reputazione italiana dopo l’età
fascista.
A questo punto è necessaria un'ulteriore precisazione, suggerita da Santoro, il quale introduce
un concetto la quale sostanza sembra tanto ricalcare quella della logica del prestigio relativo
da noi esplicata nel Cap.1: “il sotto gioco degli alleati”, un’espressione che vorrebbe
rappresentare il modello del “dilemma della sicurezza” italiana nella misura in cui la vera
partita per la sicurezza “non è mai definita in termini di contrapposizione frontale con un
avversario nei confronti del quale istituire una relazione perversa del tipo dilemma della
sicurezza,”13 la cui tipica manifestazione consiste nella corsa agli armamenti tra due potenze,
come accadde fra Germania e Gran Bretagna a inizio ‘900 e Stati Uniti e Unione Sovietica
nella seconda metà del secolo breve, ma è invece definita in termini di appagamento e
soddisfazione del leader di blocco, il quale, se entusiasta dell'atteggiamento dell'alleato
minore, lo ripagherà con aiuto e supporto nelle sue vicende minori.
E’ chiaro che l’Italia, avendo da sempre preso parte ad alleanze costituite da rapporti di tipo
asimmetrico con l’alleato maggiore, ha sempre messo in secondo piano la relazione con
l’avversario o gli avversari potenziali: come accadde nell’ alleanza con la Francia, nella
Triplice, nel Patto d’Acciaio e oggi nella Nato, lo scarto di potenza fa sì che gli avversari
dell’alleanza siano, tutto sommato, gli avversari del solo leader dell’alleanza, e non dei partner
di livello inferiore, che quindi tenderanno a dare più importanza al funzionamento del “sotto
gioco degli alleati”, piuttosto che perpetuare una contrapposizione frontale che, più che danni
e pericoli, non potrebbe procurare. Sarà invece estremamente utile guadagnarsi crediti presso
la potenza dominante: essi avranno un effetto deterrente sugli avversari dell’alleanza,
eliminando quindi l'onere di contrapporsi direttamente, evitando pericolose esposizioni.
c) La dispersione degli obiettivi
“La terza costante storica della politica estera italiana è data dal fatto che essa, sviluppatasi
secondo cicli di azione/reazione, di espansione o di intervento, cui hanno fatto seguito cicli
di ripiegamento e di riflessione, non ha mai dato luogo all’individuazione precisa di un’area
geopolitica regionale di interesse davvero primario, verso la quale indirizzare la propria
strategia e le proprie risorse politiche, economiche e militari in modo coerente.”14
Da qui l'erronea percezione di cui sopra secondo cui le diverse scelte e i diversi atteggiamenti
di politica estera fossero esclusivamente casuali: si tratttò in realtà, nella maggior parte dei
casi, di ciò che potremmo definire una reazione a catena.
13
14
Ivi, p. 78.
Ivi, p. 84.
16
Solo per citare alcuni esempi, basti pensare a come l’attenzione al Maghreb, presto frustrata
dall’occupazione francese della Tunisia, si tramutò in un’alleanza con la Germania , tutto
sommato lecita, ma anche con l’Austria-Ungheria, nemica giurata del Regno d’Italia,
detentrice di terre irredenti e percepita nell’immaginario collettivo come potenza cui
contrapporsi, non allearsi, oppure alla “semiannessione” della Libia e del Dodecaneso nel
1912, collegate a successivi nervosismi balcanici e velleità di controllo e di occupazione del
“grande malato d’Europa”, l’Impero Ottomano, culminate nell’abbondanza di promesse
contenuto nel Patto di Londra del 1915, le cui presunte inadempienze fecero coniare a
D’Annunzio la celebre espressione “vittoria mutilata”, che fu alla base del sentimento di
scontento generale che facilitò il dilagare del fascismo nei primi anni ’20.
d) I fini della politica estera
“La quarta costante storica della politica estera italiana è stata quella di subordinare, nella
gran parte dei casi, la politica estera alla politica interna.”15
Basti pensare al fatto che, dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni ’90, dei 47
governi formatisi, solo il primo governo Craxi nell’ottobre del 1985 cadde su una questione
di politica estera, e in particolare dopo la crisi di Sigonella, nella delicata questione delle
relazioni e del rispetto della gerarchia con gli Stai Uniti, ovvero l’alleato maggiore, lo stesso
a cui garantire fiducia e rispetto per conseguire prestigio relativo, frutto del “sottogioco degli
alleati”, di cui si è già parlato nel punto b.
Molto probabilmente la caduta del governo Craxi fu una risposta istintiva dell’establishment
politico che percepiva un pericolo nella possibilità di perdere credibilità agli occhi del leader
di blocco.
“Nessuno dei protagonisti, da Craxi a Andreotti e Spadolini, vollero andare a fondo delle
ragioni che avevano determinato quell’episodio di tensione con l’alleato maggiore che, fra
l’altro, investiva un problema cruciale come quello del trattamento dei terroristi internazionali
e delle relazioni con i paesi arabi.”
Perciò, per sminuirne la gravità, l’affaire fu letteralmente trasformato in una questione di
politica interna: ammettere che si fosse verificata una vera e propria crisi con gli Stati Uniti
avrebbe voluto dire aprire una crisi di regime, mettendo in discussione la posizione dell’Italia
nelle relazioni internazionali, e in un mondo bianco e nero, non era possibile essere grigi.
Tralasciando il caso particolare, in generale la subordinazione della politica estera rispetto a
quella interna è del tutto comprensibile, date le grandi diversità e contraddizioni presenti nel
paese, le quali risalgono ai tempi dell'Unità, e che ancora oggi non sono state risolte: è
impossibile immaginare una linea di politica estera coerente e autorevole, se uno Stato è
perennemente diviso e in contrapposizione politica e sociale al suo interno.
15
Ivi, p. 88.
17
e) Il metodo della politica estera
“La quinta costante storica è stata quella legata al modo in cui essa è stata condotta avanti
dalla classe politica e dai governi che si sono succeduti nel tempo alla guida del paese.”16
Secondo Santoro, le tre politiche estere italiane, ovvero quella monarchica, quella fascista e
quella repubblicana, avrebbero mantenuto almeno due criteri permanenti: quello della
“reattività” e quello dell’ “opportunismo politico.” Per politica reattiva si intende “quel modo
di compiere delle azioni dirette verso l’esterno, di prendere decisioni e di implementarle, che
è sempre una conseguenza delle iniziative politiche assunte da altri attori.”17
Il meccanismo “azione/reazione” avrà perciò come conseguenza una politica estera di tipo
“cumulativo”, obbligato dagli eventi e dal loro casuale susseguirsi. Sarà perciò impossibile
elaborare una minima strategia ed un metodo coordinati, essendo ogni azione una reazione ad
un evento imprevedibile o non previsto.
Per quanto riguarda la seconda componente, ovvero l'opportunismo politico, si potrebbe,
erroneamente, pensare che sia una prerogativa delle piccole potenze, ma storicamente è stata
una condotta perseguita anche da grandi e super potenze: basti pensare all'Unione Sovietica
che, durante gli anni '70, approfittando dell'impasse politica degli Stati Uniti, impegnati in
Vietnam e soverchiati dallo scandalo Watergate, diede il via ad una serie di iniziative di
penetrazione politica e militare in aree franche, dove il vuoto di potenza e la paralisi americana
lasciavano molti spazi aperti, due esempi su tutti la guerra del Kippur e l'invasione
dell'Afghanistan.
Tornando però nella dimensione teorica, l'opportunismo politico è definibile come un
atteggiamento realista dove uno Stato, appurando che vi sia una situazione geopolitica
favorevole, intervenga e si esponga laddove, in altre situazioni, non avrebbe mai osato
avvicinarsi.
La differenza tra una politica di tipo opportunistico perpetuata da una grande potenza e quella
effettuata da una piccola potenza è che nel primo caso l' azione sarà finalizzata al
conseguimento di un grande risultato, manifestazione di una politica di grande respiro, mentre
nel secondo caso essa sarà tendenzialmente priva di orizzonti strategici razionali.
Le due campagne d'Etiopia italiane, quella liberale prima, quella fascista poi, sono due esempi
che fanno decisamente al caso nostro: azioni prive di reali interessi strategici, vennero
perpetuate per colmare il solito complesso d'inferiorità ed ottenere risultati e consenso in
politica interna. Crispi addirittura fallì, giocandosi la sua carriera politica, mentre Mussolini,
per un breve tempo, sfruttò la conquista per dichiarare la nascita dell'Impero Italiano e quindi
galvanizzare la povera Italia che s'illuse di essere diventata una reale grande potenza.
16
17
Ivi, p. 93.
Ibidem.
18
Prima di concludere questo capitolo sarà utile approfondire un ultime fattore in grado di
influenzare la politica estera italiana: il fattore geografico.
1.3 Il fattore geografico
La speciale collocazione della penisola italiana, al centro del mar Mediterraneo, ma ai margini
dell’Europa continentale, è la cifra indicativa dell’ambivalenza contraddittoria di cui il
paragrafo precedente ci ha dato conto. Cosa può significare per una media potenza come
l’Italia, così piccola di fronte alle grandi potenze mondiali, dover fare i conti con un passato
ingombrante, con una tra le storie più ricche e gloriose del mondo: con un lascito che tende
ad illudere, storicamente, più e più statisti, del fatto che all’Italia spetti un ruolo egemone nel
suo teatro regionale?
Innanzitutto, sarà utile definire i due teatri in cui l’Italia, ora decisamente, ora saltuariamente,
decide di giocare collocandovisi al centro: il mar Mediterraneo e l’Europa continentale.
Il mar Mediterraneo è stato, per più e più secoli, il centro del mondo, un polo incredibile di
incontri fra diverse civiltà, che in alcuni casi instaurarono proficui legami politicocommerciali, mentre in altri si sfidarono durante campagne belliche oggi definite storiche e
percepite quasi come leggendarie, data la loro grande miticità ed imprevedibilità.
In più esso fu uno straordinario indicatore del progresso delle diverse civiltà e quindi del
potere che, di epoca in epoca, passò da una all’altra: “tra il III e il I secolo a.C., la centralità
egea della Grecia lasciò il posto alla centralità mediterranea dell’Italia. Lo spostamento del
baricentro mediterraneo da quello orientale (greco) a quello occidentale (fenicio-cartaginese),
si stabilizza per diversi secoli in quello centrale (romano) che, più razionalmente, egemonizza
un’area circolare di territori soggetti, disposti attorno alla penisola, e che si basa proprio sulla
distanza logistica e militare dal centro.”18
Andando avanti nei secoli, e con il mondo che diventava sempre più grande, il mar
Mediterraneo si adattò, trasformandosi in un affollato croce-via, al centro delle rotte
commerciali, ma non dei giochi di potere, che nel frattempo spostava il suo baricentro a Nord,
nell’Europa Continentale, e a Sud-Est, nell’Impero Bizantino: perciò le direttrici che legavano
il resto del mondo al Mediterraneo erano l’Europa, il Sahara e il Medio Oriente mediterraneo,
corrispondente agli attuali Stati di Turchia, Libano, Siria, Israele, Palestina ed Egitto.
Con la scoperta dell’America, e con il conseguente aumento esponenziale dei commerci transoceanici, si delineò dapprima la direttrice atlantica, e successivamente, con lo scavo del
Canale di Suez, si aprì anche la via marittima verso l’Oceano Indiano e quindi l’Estremo
Oriente. Se a tutte queste diverse fasi Mediterranee fossero corrisposte altrettanti fasi Italiane,
nella misura in cui uno Stato unitario fosse stato presente, esso sarebbe stato, quasi
sicuramente, in grado di controllare entrambe le metà del bacino, esercitando così una
potenziale funzione di leader regionale, cui qualunque potenza esterna avrebbe dovuto render
18
Ivi, p.50.
19
conto qualora fosse stata interessata ad un eventuale ingresso nei giochi mediterranei.
Purtroppo la storia non si fa con i “se” e con i “ma”, e l’Italia, intesa come Stato Sovrano,
essendo uno degli ultimi nel contesto Europeo a formarsi, non ha mai potuto avere una grande
influenza ed autorevolezza nel suo teatro regionale. Da ciò derivano le contraddizioni e le
incertezze, che sono in ultima analisi figlie della consapevolezza di essere essenzialmente nati
per svolgere un ruolo cui però mancano i mezzi per essere portato a termine.
In più, la speciale ambivalenza di cui sopra, può essere benissimo spiegata con le metafore
dell’isola e della penisola di Wilson e Kirby19: nella prima l’Italia prenderebbe le distanze dal
continente Europeo, focalizzando la propria attenzione esclusivamente nel bacino del
Mediterraneo, puntando al conseguimento di un ruolo egemonico e di controllo
omnidirezionale su di esso; nella seconda metafora, invece, si comporterebbe appunto da
penisola, cioè appendice di un continente Europeo che ha ben altri centri di potere.
Effettivamente l’Italia si è quasi sempre comportata più da penisola che da isola:
obiettivamente, essendo la sua stessa costituzione in Stato unitario derivante in maniera
decisiva da una volontà francese ed inglese di avere un alleato stabile e docile nell’area
mediterranea, nonché in grado di aprire un’ulteriore fronte in un’eventuale scontro con gli
Imperi Centrali, mancavano le basi per potersi comportare da isola e quindi impostare una
politica estera autonoma, autorevole e chiara.
E anche la politica di prestigio, così utile allo stivale, è espressione di un legame indotto con
il continente di tipo gerarchico, nel quale l’Italia, penisola europea, non ha mai potuto ambire
al posto più alto.
Nel mondo contemporaneo, anche la ragione strategica della Nato rafforza questa condizione,
considerando che essa, impernata sull’asse Europa Centrale-America Settentrionale, assegna
al Fianco Sud, e quindi all’Italia, funzioni marginali e periferiche, facendole assumere i
connotati di una base logistica di mezzi, uomini e rifornimenti pronti al dispiegamento sul
fronte intertedesco, anziché di un centro di potere dal quale espandersi e proteggersi. Tuttavia
le due diverse percezioni geografiche, collidendo tra loro nell’animo nazionale italiano, hanno
fatto sì che la loro enorme influenza sul comportamento internazionale e sulle direttrici di
politica estera fosse una delle colonne portanti dell’eterna indecisione sulla propria
condizione geografica, amplificando l’altrettanto eterna e perpetua incertezza di sè e quindi il
proprio modo di mostrarsi al mondo.
“Sulla base di queste premesse ci sentiamo di dire che l’ambivalenza geografica dell’Italia
può a buon diritto essere considerata come una delle radici profonde di molte incongruenze
della storia politica del paese e come una causa determinante della doppiezza tradizionale
della sua politica estera.”20
19
20
Ivi, p 52.
Ivi, p.54.
20
Perciò, concludendo, tanto la storia, quanto la geografia, suggeriscono un ventaglio variegato
di onori ed oneri, di opportunità e di rischi, cui l’Italia ciclicamente si offre e si ritira.
Le diverse età cui abbiamo accennato, da quella liberale a quella repubblicana passando per
quella fascista, hanno tutte in comune almeno una delle costanti storico-geografiche qui
menzionate.
Avendo inoltre dimostrato come anche gli stessi elementi di politica di prestigio si siano
mostrati costanti e ricorrenti nel tempo, nel prossimo capitolo, circoscrivendo il periodo dopo
la guerra fredda e le relative azioni di politica estera italiana, sarà verificata la loro presenza
anche in tale contesto.
21
Capitolo 3- La politica estera italiana dopo la guerra fredda
3.1 Lo scenario politico interno
La scomparsa dell’Unione Sovietica provocò, come abbiamo già detto, la conseguente
mancanza di contrapposizione di tipo bipolare cui si era assistito durante la guerra fredda.
Le trasformazioni ebbero luogo tanto nel sistema internazionale quanto in quello politico
interno, influenzando in questo modo anche la politica estera italiana.
A partire dal 1992-1994, ovvero dopo il crollo del sistema dei partiti, tangentopoli, la nuova
legge elettorale maggioritaria, il profondo rimescolamento e rinnovamento della classe
politica e infine la nascita di un tendenziale bipolarismo politico, si iniziò a rivolgersi al nuovo
assetto politico italiano con l’appellativo di seconda repubblica.
Le prime conseguenze della dipartita dell’Unione Sovietica si ebbero ovviamente su tutti i
partiti comunisti filo sovietici, infatti non fece eccezione anche il Partito Comunista Italiano
(Pci), che già nel febbraio 1991 si trasformò nel Partito democratico della sinistra (Pds). La
coraggiosa quanto imposta scelta fu presa dall’allora segretario Achille Occhetto: questa
avrebbe dovuto rendere possibile una riconciliazione tra tutte le forze della sinistra italiana.
Il progettò si rivelò fallimentare, in quanto l’ala più legata all’eredità del Pci si staccò, dando
vita al partito di Rifondazione Comunista, mentre la seconda componente della sinistra, il
Partito Socialista Italiano, diviso dal partito Comunista da una contrapposizione, oltre che
ideologica, di tipo Governo-Opposizione, non si mostrò particolarmente entusiasta in vista di
una riunione.
Nel frattempo, nel Settentrione, si consolidarono i movimenti regionalisti: la Lega Lombarda
prevalse su tutti gli altri, caratterizzandosi per le polemiche “nordiste” contro lo Stato
centralizzatore, il fisco e l’intero sistema dei partiti.
A margine di questi primi segnali di instabilità e dispersione di voti e seggi, scoppiò lo
scandalo tangentopoli: un crescente numero di uomini politici erano accusati di aver preteso
e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici.
“L’inchiesta, avviata dalla magistratura milanese, svelava un diffusissimo sistema di
finanziamento illegale dei partiti e di autofinanziamento dei politici (denominato
Tangentopoli), sostenuto dalla complicità di società e imprenditori privati. Destinatari
principali erano i partiti di maggioranza, in primo luogo la Dc e il Psi (ma non mancarono
casi di coinvolgimento del Pci-Pds). Fenomeno non nuovo, materia di precedenti scandali ma
tacitamente ammesso e tollerato, il sistema delle tangenti rivelava una endemica diffusione
che aggravava la crisi dei partiti e testimoniava della loro incapacità di rinnovarsi.”21
Conseguentemente anche la Democrazia Cristiana, tentando di ripulirsi e svincolarsi dallo
smacco dello scandalo delle tangenti, aveva deciso di tornare alle origini e alla denominazione
del primo partito cattolico, il Partito Popolare Italiano, fondato da Don Luigi Sturzo nel 1919,
ma nel gennaio 1994, poco dopo l’ufficialità del cambio di nome, un gruppo di dirigenti
democristiani, ostili al predominio delle sinistre nel nuovo partito e temendo un’eccessiva
21
G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, dal 1848 ad oggi, Editori Laterza, Roma – Bari, 2005, p.646.
22
prossimità ai partiti socialisti e comunisti, si ritirò in una nuova formazione, il Centro cristiano
democratico. L’anno seguente una nuova scissione dal ricostituito Ppi diede vita ai Cristiani
democratici uniti.
Evidentemente i vecchi partiti erano incapaci di rispondere ai cambiamenti avvenuti sia a
livello internazionale che in quelli capitati nel substrato nazionale.
Le scissioni e i dissidi interni consumarono i maggiori attori della prima repubblica, e così
anche le istituzioni: il sistema elettorale proporzionale si rivelò un’arma a doppio taglio nel
momento in cui il quadro politico interno venne a frammentarsi così esplicitamente, tanto che
si iniziò a parlare di problemi di ingovernabilità.
Dopo le elezioni del 1992, infatti, con un parlamento diviso, orfano delle vecchie grandi
coalizioni di tipo “pentapartitico” o “quadripartitico”, senza perciò una maggioranza
facilmente riconoscibile, e con al suo interno le nuove forze “antisistema”, si percepì,
nitidamente, il bisogno di un cambiamento netto e radicale, tanto nelle istituzioni e nel loro
funzionamento, quanto negli attori politici.
Il 18 aprile 1993 le forze politiche, incapaci di accordarsi all’interno delle istituzioni sulla
nuova legge elettorale, chiamarono i cittadini al voto su un referendum abrogativo, che questi
approvarono a larghissima maggioranza, decretando la soppressione di alcune formulazioni
della legge elettorale vigente, che assumeva così i connotati di un sistema uninominale
maggioritario al Senato.
Il successo del referendum elettorale, probabilmente, fu il colpo di grazia per la vecchia
partitocrazia, che venne anche “punita” con l’abolizione del finanziamento pubblico dei
partiti.
Fu in questo contesto che già a partire dall’estate del 1993 più forze politiche, tra cui Lega e
Pds, cominciarono a reclamare nuove elezioni il più presto possibile. E mentre anche il Psi
tentava, con scarsi risultati, di riacquisire credibilità nominando segretari del partito prima
Giorgio Benvenuto, poi Ottaviano Del Turco, entrami ex sindacalisti, fece il suo ingresso
nello scenario politico italiano Silvio Berlusconi.
Imprenditore televisivo, ma non solo, “era sceso in campo con il dichiarato obiettivo di
arginare un eventuale successo delle sinistre (e in primo luogo del Pds), di ricostituire un
centro ormai disperso e in crisi inarrestabile, di porsi infine come elemento di aggregazione
di un nuovo schieramento di centro-destra.”22
In tempi brevissimi costituì un proprio partito, Forza Italia, e anche un cartello elettorale con
la Lega Nord nell’Italia Settentrionale (Polo delle libertà) e uno con Alleanza nazionale, nata
dalle ceneri del Movimento Sociale Italiano e guidata da Gianfranco Fini (Polo del buon
governo); a questi si unirono tutti quei partiti minori esponenti di indipendentismi regionalisti
o linee centriste: in sostanza, quasi tutti i partiti non collocati a sinistra, che invece si riunirono
sotto il cartello dei Progressisti, guidato dal Pds e sostenuto, questa volta, anche del Pci.
Il Partito Popolare, invece, rimase in mezzo, in una posizione di chiara debolezza.
22
Ivi, p.650.
23
Le elezioni politiche del marzo 1994 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a
Forza Italia, che conquistarono con largo margine la maggioranza assoluta alla Camera,
mancandola di poco anche al Senato.
L'ultima metà degli anni '90 fu scandita da frequenti cambi di governo, basti pensare che il
primo governo Berlusconi durò poco più di un anno, infatti nel gennaio 1995 veniva chiamato
Lamberto Dini a formare un ministero di tecnici per sopperire agli antagonismi politici su
alcuni temi fondamentali, come la riforma del sistema pensionistico e l'allentamento della
pressione fiscale.
Fu un governo traghettatore, che condusse nell'aprile del 1996 a nuove elezioni politiche, che
questa volta videro un successo, seppur di misura, della coalizione di centro-sinistra (l'Ulivo),
formata da Pds, Ppi, ex socialisti, Verdi e Rinnovamento Italiano, lista elettorale promossa
dallo stesso Dini.
Con Romano Prodi designato come nuovo Presidente del Consiglio, l'Italia si impegnò in
un'annosa politica di rigore volta a ridurre il deficit del bilancio statale entro il rapporto del
3% con il prodotto interno lordo, parametro fondamentale per l'ammissione nella sistema della
nascente moneta unica europea. L'obiettivo fu raggiunto alla fine del 1997, e, nel maggio
1998, avvenne l'ingresso ufficiale dell'Italia nell'Unione monetaria europea.
Ma i dissidi interni alla coalizione di centro-sinistra, così eterogenea, che si estendeva dal
centro all'estrema sinistra, fecero sì che già a fine 1998 Prodi fu costretto a dimettersi, dato
che aveva perso la fiducia di Rifondazione Comunista per questioni di politica economica.
Venne costituito perciò il primo governo D'Alema, che non riuscì comunque ad arrestare la
speculare crescita di Forza Italia, che nelle elezioni europee del giugno 1999 ottenne un
successo di prestigio e di immagine per il partito e per Silvio Berlusconi.
Nel frattempo, sullo scenario internazionale, scoppiava la guerra in Jugoslavia, e l'Italia, con
una quasi unanimità politica, appoggiava gli interventi Nato in Kosovo, Croazia e Bosnia
Erzegovina, in piena sintonia con gli Stati Uniti e gli alleati europei: si trattò di una scelta
delicatissima ed importante in quanto fu il primo intervento militare italiano dopo la fine della
guerra fredda, e, dato che veniva condotto con gli alleati occidentali, prefigurava
un'intenzione, sebbene rimasta tale sulla carta, ma ancora non provata sul campo, di rimanere
saldamente collocati nelle alleanze precostituite, anche in assenza dell'ormai scomparsa
nemica giurata, l'Unione Sovietica.
In più fu un'ottima occasione per mostrarsi pronti e preparati agli occhi degli Stati Uniti, che
in questa, e altre occasioni di cui si tratterà in seguito, non fecero a meno di nascondere la
loro riconoscenza.
In ultima analisi fu un intervento quasi obbligato dalla contiguità geografica e per i possibili
rischi che avrebbe comportato sul territorio italiano un ulteriore deterioramento della
situazione nei Balcani.
Nel nuovo mondo, non più bipolare, si vedrà che le medie potenze, come l'Italia, saranno
quasi costrette a mostrarsi sempre presenti alla chiamata per un intervento armato, ora
invocato dagli Stati Uniti, ora dalla Nato, ora dalle Nazioni Unite. Negarsi significherebbe
alimentare sospetti su un'eventuale ripensamento della collocazione strategica del paese, e
questo avrebbe enormi ed imprevedibili conseguenze sulla vita politica di uno Stato come
l'Italia.
24
Durante l'anno 2000 si accentuò lo scontento delle forze di opposizione, che contestavano la
legittimità di una maggioranza parlamentare divisa e conflittuale, ormai diversa da quella
espressa dal corpo elettorale.
Ci fu una lunga campagna elettorale, impostata da Berlusconi su un'accentuata
personalizzazione del confronto, che culminò nelle elezioni del maggio 2001, che segnarono
una vittoria nettissima della Casa delle libertà, la nuova lista del centro-destra guidata da
Forza Italia.
Dalle elezioni usciva, per la prima volta, un premier, dotato di un'investitura popolare, con il
suo nome che compariva nel simbolo della coalizione: per la prima volta, e in maniera
eclatante, la personalizzazione della politica superava la partitocrazia.
Questo effetto si traspose anche in politica estera, dove Berlusconi si fece ambasciatore
italiano nel mondo, instaurando legami di tipo personale, oltre che istituzionale, con i suoi
colleghi: primo su tutti il rapporto speciale con l'allora presidente americano George W. Bush.
Non mancò infatti il totale ed immediato appoggio italiano ad uno dei casi che in seguito
saranno approfonditi, ovvero l'intervento multilaterale in Afghanistan dopo gli attentati
dell'11 settembre 2001.
Le vicende politiche italiane nel corso del decennio che copre l'oggetto di studio di questo
elaborato, ovvero fino al secondo caso di intervento militare italiano, quello in Libia del 2011,
saranno caratterizzate da un sostanziale assestamento della c.d. Seconda repubblica, che vedrà
l'alternarsi di governi Berlusconi a governi Prodi, manifestazione del carattere bipolare
assunto dall'assetto istituzionale italiano e della personalizzazione sempre più accentuata della
politica.
3.2
Lo scenario politico internazionale: le missioni di Peacekeeping
Durante gli anni '90 l'Italia, che era saldamente ancorata al suo ruolo di media potenza
regionale del sottosistema occidentale, si riscoprì, un avvenimento dopo l'altro, un piccolo
Stato all'interno della vasta comunità internazionale che, negli uffici centrali delle Nazioni
Unite, iniziava a mostrarsi meno contrapposta, ma più eterogenea.
L'Onu, il cui intervento pratico in questioni internazionali durante la guerra fredda si era
mostrato effimero e sporadico, ora acquisiva più libertà e più intraprendenza: la Repubblica
Federale Russa, sostituendo il seggio permanente dell'Unione Sovietica nel Consiglio di
Sicurezza, non godeva della stessa autorità e prestigio, e tantomeno poteva vantare analoghi
interessi geopolitici su scala globale; l'effetto fu quello di un sostanziale sblocco del Consiglio
di Sicurezza, che potè così agire libero da veti incrociati ed intervenire nei diversi contesti
che mettevano a rischio la pace e la sicurezza nel mondo.
In più, caduta l’Unione Sovietica, si assistette ad uno spostamento del potere e dell’autorità
internazionale, quindi del prestigio e della facoltà di usare la forza: le Nazioni Unite, che
prima potevano vantare grandi poteri, ma solo sulla carta, ora erano in grado di usare questi
ultimi in maniera effettiva.
Uno, e forse il più incisivo di questi poteri, è il peacekeeping: un azione intrapresa per
preservare la pace, per quanto fragile essa sia, laddove i combattimenti siano cessati e per
assistere le parti nell’attuazione di accordi di cessate il fuoco, nella cessazione delle ostilità e
nel raggiungimento di accordi di pace.
25
Opera normalmente in una situazione di cessate il fuoco, di tregua. La tipica funzione è
vigilare sul suo rispetto ma anche frapporsi tra le forze in campo per evitare che gli scontri
riprendano.
Nel tempo si sono modificate, aumentando il loro peso specifico e la loro autonomia rispetto
alle autorità statali, fino ad arrivare quasi a sostituirsi ad esse: è questa la conseguenza del
processo di de-statalizzazione del mondo, dove le organizzazioni internazionali stanno
acquisendo sempre più poteri (citare l’Unione Europea è d’obbligo): in un mondo così vasto,
e così multiforme, uno Stato da solo fatica a sopravvivere; esso sarà perciò obbligato a
cooperare, a stare alle regole del gioco, a scendere a compromessi con altri Stati, e dovrà farlo
a maggior ragione se di rango medio basso.
Tre modelli di peacekeeping si sono delineati nel corso del tempo:
1. Peacekeeping tradizionale o di prima generazione
La prima vera operazione di peacekeeping (mantenimento della pace), fu istituita nel ’56
dall’Assemblea Generale con la storica risoluzione Uniting for peace, UNEF I (Forza di
Emergenza delle Nazioni Unite), con il compito di vigilare sulla cessazione delle ostilità nel
contesto della crisi di Suez, verificando il ritiro delle forze armate Francesi, Britanniche ed
Israeliane Successivamente avrebbe agito da cuscinetto tra Israele ed Egitto, vigilando sulla
tregua. Durò fino al ’67, quando poi fu ritirata su richiesta egiziana.
Questo tipo di missioni di peacekeeping è noto come tradizionale o di prima generazione, in
quanto il suo obiettivo è unicamente quello di interporsi tra le parti in causa in una situazione
di tregua per prevenire la ripresa degli scontri. L’uso della forza non è mai autorizzato, salvo
per legittima difesa a fronte di tentativi di impedire il proseguo della tregua. Il consenso dello
Stato ospitante la missione è caratteristica indispensabile. Durante questa missione l’Italia
offrì supporto logistico ai caschi blu, senza però impegnarsi attivamente con uomini sul
campo.
2. Peacekeeping multifunzionale o di seconda generazione
Questo tipo di missioni è posto in essere teoricamente in situazioni post-conflittuali, ma
spesso ha inizio ad ostilità ancora in corso; solitamente è propugnato sulla base di accordi di
pace, per aiutare il paese interessato a ritrovare la via verso la normalità dopo situazioni di
disordine tipicamente riconducibili a guerre civili.
Prevedono il dispiegamento di forti componenti civili e di polizia locale, oltre che quella
militare: il capo della missione, designato dal Segretario generale delle Nazioni Unite, è un
civile, non un militare.
Le funzioni della missione sono delle più vaste: disarmo delle fazioni, monitoraggio o
organizzazione di libere elezioni, assistenza nella ricostituzione delle forze di polizia e del
sistema giudiziario, vigilanza sulla tutela dei diritti umani.
Questo tipo di missioni inizia a delinearsi dopo gli anni ’90, ed il caso specie è il mandato
MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali),
decisa con la Risoluzione 2100 del 25 aprile 2013 dal Consiglio di Sicurezza per sostenere il
processo politico di transizione e aiutare la stabilizzazione del Mali.
Inoltre fu previsto, per la missione, il compito di garantire la sicurezza, la stabilizzazione e la
protezione dei civili; sostenere il dialogo politico e la riconciliazione nazionale; assistere il
26
ristabilimento dell’autorità statale, la ricostruzione del settore della sicurezza, e la promozione
e protezione dei diritti umani nel paese.23
La missione MINUSMA è autorizzata ad usare tutti i mezzi necessari, incluso l’uso della
forza, per adempiere il suo mandato.
L’Italia ha un ruolo marginale in questa missione, partecipando con appena 18 uomini.
3. Peace enforcement o di terza generazione
Missioni che consistono nell’imposizione della pace tramite un’azione coercitiva intrapresa
con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
Una volta autorizzata, la missione può intervenire, anche senza il consenso dello Stato
sovrano, inserendosi attivamente nel conflitto.
Queste missioni raramente nascono tali: esse partono da una situazione di peacekeeping
tradizionale, e con l’acuirsi della crisi o delle tensioni interne sono potenziate, per poter dare
una risposta adeguata alla situazione. E’ stato questo il caso delle missioni UNPROFOR
(United Nations Protection Force), istituita nel 1992 per creare le condizioni di pace e di
sicurezza necessarie per la negoziazione di una soluzione della crisi jugoslava operando
inizialmente nella sola Croazia, dove aveva il compito di vigilare sul ritiro dell’armata
jugoslava e sulla smilitarizzazione della penisola di Prevlaka; successivamente,
parallelamente all’acuirsi della guerra, fu investita di ulteriori compiti, allargando il suo
perimetro d’azione anche alla Bosnia Erzegovina, dove ebbe da garantire la sicurezza e il
funzionamento dell’aeroporto di Sarajevo, vigilare sul rispetto della no-fly zone sul territorio
Bosniaco e difendere le aree protette (safe areas) anche con la forza, oltre che, ovviamente,
garantire la fornitura dell’assistenza umanitaria per la popolazione civile.24
L’Italia, assieme ai maggiori paesi europei, comprese l’importanza strategica dei Balcani, e
infatti diede un grande contributo alle operazioni, in vista di una futura integrazione
nell’orbita europea dei nuovi Stati appena formatisi e già in lotta tra loro.
Nei tre casi citati, solo quest’ultimo ci sembra effettivamente degno di nota per la presenza
italiana ed il suo impegno: infatti, nel caso di UNEF I, l’Italia non sentì il bisogno di
partecipare, innanzitutto perché l’intervento sarebbe andato contro gli interessi diretti di due
grandi alleati come Francia e Gran Bretagna, d’altro canto però esso sarebbe invece stato
coerente con la linea Statunitense: eppure l’Italia non appoggiò così direttamente le
operazioni. Abbiamo motivo di credere che, durante la guerra fredda, la flessibilità strategica,
che caratterizzava le relazioni internazionali, offrisse un ventaglio di scelte maggiori ad una
media potenza come l’Italia, che oltre a questo connotato vantava anche rigidità di
schieramento: ciò significa, a rigor di logica, che l’alleato maggiore, pur vedendo un alleato
minore esitare rispetto ad una sua linea d’intervento, non avrà grandi motivi di
preoccupazione, dato che a monte vi è una reciproca fiducia assoluta sulle intenzioni ultime.
23
http://www.Difesa.it/OperazioniMIlitari_intern_corso/MINUSMA/Pagine/default.aspx (Ultima consultazione
14/11/16).
24
http://un.org/en/peacekeeping/missions/past/unprof_p.htm (Ultima consultazione 14/11/16).
27
A riprova di ciò, non sorprende l’enorme eco prodotta dagli avvenimenti della base di
Sigonella e dell’Achille Lauro, prima ed unica occasione dove l’Italia disse no agli Stati Uniti,
seppur poi ritrattando, mitigando e ridimensionando l’accaduto come si è visto in precedenza.
Per quanto riguarda il mandato MINUSMA, l’Italia storicamente non ha mai avuto interessi
o legami diretti in africa occidentale ed in Mali, l’esiguo numero di caschi blu italiani sono
una semplice rappresentanza, inviata a significare che l’Italia appoggia le operazioni,
nonostante la lontananza geografica e politica: è proprio questo, a nostro avviso, un caso di
politica di prestigio, dove l’Italia, nell’ambito della cooperazione internazionale, tende a
mostrarsi sempre presente e pronta.
Tornando ad UNPROFOR, la prossimità geografica, i legami storici, le minoranze italiane, i
rapporti economici, furono (e sono) fattori fondamentali per l’Italia, che, più di ogni altro
paese europeo, puntava assiduamente ad una normalizzazione della situazione nei Balcani,
per garantire innanzitutto la propria sicurezza: questo fu un esempio di politica di potere, dove
l’Italia, riconoscendo che il suo scenario geografico rischiava di essere compromesso,
s’impegnò attivamente per ristabilire la pace, assieme agli alleati che condividevano, seppur
in maniera meno diretta, gli stessi sentimenti di preoccupazione.
Confrontando le missioni di peacekeeping promosse durante la guerra fredda e dopo, il loro
aumento risulterà vertiginoso.
Basti pensare che dal 1948 al 2015 sono state decretate 71 operazioni di peacekeeping, delle
quali solo 13 dal ’48 all’87.
Un altro indicatore chiave per capire questo aumento degli interventi umanitari è il budget
stanziato dall'organizzazione per le missioni di peacekeeping, mostrato nel grafico sotto.
25
25
http://www.worldwatch.org/peacekeeping-budgets-equal-less-two-days-military-spending-1 (ultima consultazione
14/11/16).
28
Ogni stato membro delle Nazioni Unite è libero di partecipare o meno ad una operazione di
mantenimento della pace. La ripartizione delle spese di peacekeeping è effettuata secondo
criteri diversi rispetto al bilancio ordinario amministrativo.
Per il peacekeeping i membri permanenti devono pagare di più così come i paesi più ricchi,
mentre quelli più poveri in modo più limitato.
26
Come mostrato nel grafico sopra, i primi 20 paesi finanziatori delle missioni di peacekeeping
dell’Onu sono quasi tutti paesi occidentali, a riprova del fatto che vi è un meccanismo di
pagamento volto a tutelare i paesi emergenti ed in via di sviluppo.
Per quanto riguarda il contributo in termini di uomini, tra i paesi occidentali l’Italia è quella
che contribuisce di più, contandone, già nel dicembre 2007, 2449 in uniforme. Seguono
Francia (1943), Spagna (1183) e Germania (1150). L’unico criterio per il contributo di
personale in armi è la volontà degli Stati, poiché non c’è obbligo di partecipazione in termini
di uomini alle operazioni. Il Bangladesh (dal 1974 indipendente dal Pakistan, e quindi con
un’immagine internazionale tutta da costruire) conta ben 9717 uomini dislocati in più
missioni, battuto solo dallo stesso Pakistan che con 10626 uomini è il primo paese
contributore al mondo di truppe al peacekeeping Onu.
27
26
27
http://www.unric.org/it/60-anni-di-peacekeeping-onu/17487 (Ultima consultazione 14/11/16).
http://www.unric.org/it/60-anni-di-peacekeeping-onu/17487 (Ultima consultazione 14/11/16).
29
La ragione ultima per cui uno Stato partecipa in maniera più o meno imponente alle operazioni
di peacekeeping va ricercata niente poco di meno che nel prestigio di cui gode lo stesso: a
paesi con alto prestigio internazionale non interesserà mettersi in mostra, mettendo a rischio
i loro uomini per ottenere qualcosa che tendenzialmente hanno già (è questo il caso di Stati
Uniti e Russia, che non compaiono neanche nei primi 20 paesi contributori di truppe).
D’altro canto paesi come il Bangladesh, il Pakistan, l’India e il Nepal, contribuendo in
maniera massiccia alle missioni, sfruttano queste per trarne vantaggio in termini di prestigio
nell’ambito delle Nazioni Unite, e quindi nelle relazioni internazionali.
Per un paese di una certa rilevanza invece il partecipare ad una operazione di peacekeeping
può comportare la possibilità di avere un certo peso nell’operazione, nel caso in cui lo Stato
abbia interessi in quell’area.
Ci sentiamo perciò di dire che, ad un elevato grado di prestigio internazionale, corrisponderà
un basso contributo di truppe al peacekeeping Onu.
La posizione italiana ci pare chiara e ambigua allo stesso tempo: il fatto che sia il paese
occidentale che più contribuisce al contributo di uomini denota una bassa autostima di sé, a
dimostrazione del fatto che il complesso d’inferiorità di cui si è discusso nel capitolo
precedente è ancora presente nell’animo italiano, che si adatta al nuovo contesto
internazionale, il quale offre, come moneta di prestigio o ruolo, la partecipazione alle missioni
internazionali; d’altro canto è anche vero che, effettivamente, nelle missioni Onu condotte
nell’area d’interesse italiana, ovvero il mediterraneo ed il medio oriente, l’Italia ha sempre
partecipato in prima linea, assumendosi spesso ruoli onerosi e di comando, come per esempio
nella missione UNIFIL in Libano, iniziata nel marzo 1978 in seguito all’occupazione da parte
dello stato di Israele del Libano del sud: un dato su tutti, gli ultimi tre comandanti della forza
ONU sono stati generali italiani; attualmente il ruolo è ricoperto dal generale Luciano
Portolano.
In definitiva, potremmo affermare che l’Italia usi le missioni di peacekeeping per attuare sia
politiche di prestigio che di potere, impegnandosi tanto nei contesti lontani quanto in quelli
vicini.
3.3 L’impegno italiano nel Peacekeeping
Il trend della partecipazione italiana alle missioni internazionali si muove verso l’alto,
parallelamente al loro aumento esponenziale, dagli anni ’90 in poi.
Alcune missioni, iniziate negli anni ’70 e anche prima, sono tutt’ora in corso, a dimostrazione
del fatto che, sia le Nazioni Unite che i singoli Stati, non intendono subire smacchi a livello
internazionale: è chiaro che l’Organizzazione e gli Stati sono legati profondamente, e il
prestigio degli uni è direttamente proporzionale a quello dell’Onu.
La prima missione cui l’Italia repubblicana partecipò fu l’UNTSO (United Nations Truce
Supervision Organization in Palestine), istituita nel 1948 con il compito di vigilare sul rispetto
dei trattati di pace stipulati separatamente fra Israele, Egitto, Giordania e Siria.
L’Italia diede il suo appoggio all’operazione quasi dieci anni dopo, nel 1957, inviando sette
ufficiali. La missione sarà sospesa solo nel 2006.
Nel 1950 fu istituita la missione per la Guerra di Corea, alla quale l’Italia partecipò fornendo
aiuti sanitari.
30
Nel luglio del 1960, a seguito della Dichiarazione di Indipendenza dello Congo dal Belgio, si
rese necessario l’intervento di una Forza di Pace delle Nazioni Unite. L’Italia partecipò
inviando la 46^ Aereo Brigata per evacuare i profughi italiani e per trasportare generi di
soccorso; la Brigata sarà tristemente nota per l’eccidio di Kindu: l’11 novembre 1961, 13
aviatori italiani saranno trucidati per mano dei ribelli congolesi. La partecipazione del
distaccamento terminerà il 19 giugno 1962. L’Operazione ONU in Congo (ONUC) del 1960
è stata la prima su larga scala, con circa 20.000 soldati. Le 200 vite umane perse nel corso
della missione dimostrarono il rischio che comporta il tentativo di riportare la stabilità nei
paesi dilaniati dalla guerra.
Nel 1963 fu istituita una missione di osservazione in Yemen, infatti dopo la secessione
dall’Egitto, il paese si trovava in una situazione di guerra civile, e la forza Onu aveva il
compito di evitare il propagarsi delle tensioni anche fuori dal paese. L’Italia partecipò in
maniera minore, defilata.
Nei quindici anni successivi l’Italia non partecipò a nessuna missione autorizzata dal
Consiglio di Sicurezza, e ciò denota come, in fin dei conti, le missioni di peacekeeping non
fossero ancora considerate così importanti dal punto di vista del prestigio, dato che in questo
periodo più che altro si attuava il gioco del sottosistema degli alleati.
Nel marzo 1978 fu autorizzata la missione UNIFIL (United Nations Interim Force in
Lebanon), cui si è fatto riferimento in precedenza.
Un anno dopo, nel marzo del 1979, un’altra missione in Medio Oriente venne autorizzata dal
Consiglio di Sicurezza. La MFO (Multinational Force & Observers) aveva ed ha, dato che è
ancora in atto, il compito di far rispettare gli accordi di Camp David del 17 settembre 1978
tra Stati Uniti, Egitto e Israele, con cui Israele restituiva all’Egitto la penisola del Sinai,
occupata durante la guerra dei sei giorni del 1967. La Direzione Generale della Forza ha sede
a Roma, a notare l’importanza strategica dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, nonché il
suo diretto interesse per la questione.
Dopo l’impasse della prima metà degli anni ’80, nel 1988 l’Italia partecipa alla missione
UNIIMOG (United Nations Iran/Iraq Military Observer Group), inviando un contingente di
12 Ufficiali Osservatori. La missione aveva l’obiettivo di creare le condizioni per una tregua
duratura tra Iran e Iraq, allora in guerra fra loro, facendo da “cuscinetto” tra le zone di confine.
La missione si concluse con successo, a parte la mancata ratifica di un negoziato per lo
scambio dei prigionieri, nel febbraio 1991.
Seguirono due missioni minori in Angola e in Namibia, la prima del 1988 per verificare il
ritiro delle truppe cubane dal paese durante la guerra civile, la seconda del 1989 con lo scopo
di garantire alla Namibia una piena autonomia, una tranquilla transizione democratica e libere
elezioni, con un contingente di 7500 militari molto maggiore rispetto a quello dislocato in
Angola. Gli obiettivi della missione, ovvero la neutralizzazione o espulsione degli ostili,
l’abrogazione di ogni legge discriminatoria e il rilascio dei prigionieri politici e il rispetto
della legge e dell’ordine, furono brillantemente conseguiti.
31
3.4 Gli anni ‘90
Durante gli anni ’90 l’Italia parteciperà a molte missioni di peacekeeping, raddoppiando quasi
il suo impegno nella cooperazione internazionale in soli dieci anni.
Queste sono, in ordine cronologico:
1. UNIKOM (United Nations Iraq/Kuwait Observer Mission), istituita nell’aprile 1991,
a seguito della prima guerra del golfo, il cui contingente di 133 osservatori aveva il
compito di monitorare la “zona demilitarizzata” al confine tra Iraq e Kuwait. La
missione verrà destituita nel 2003, con l’inizio della seconda guerra del golfo, o guerra
d’Iraq.
2. MINURSO (Mission des Nations Unies pour le referendum dans le Sahara
Occidental), iniziata nel 1991 come parte del programma di soluzione del conflitto fra
Marocco e il Fronte Polisario, un’organizzazione militare attiva nel Sahara
Occidentale, che rivendicava il diritto all’autodeterminazione. La missione, più e più
volte rinnovata, non ha ancora dato i risultati sperati, e un referendum ancora non c’è
stato.
3. ONUSAL (Observadores de las Naciones Unidas en El Salvador), avviata nel 1991
con il mandato di monitorare la realizzazione degli accordi tra il governo di El Salvador
e i ribelli del Frente Farabundo Marti para la Liberacion Nacional, un gruppo di
militanti indipendentisti. Gli accordi tra le parti due parti prevedevano il cessate il
fuoco immediato, la riforma delle forze armate, la creazione di una nuova polizia
statale, la riforma del sistema giuridico ed elettorale ed il rispetto dei diritti umani. La
missione si concluse nel 1995 con il completamento del mandato.
4. UNITAF (Unified Task Force), durata dal 3 dicembre 1992 al 4 maggio 1993, si rese
necessaria per potenziare la missione Onu UNOSOM (United Nations Operations in
Somalia), inviata nell’aprile del 1992 in Somalia in seguito all’inasprirsi della guerra
civile e dei rischi per la popolazione locale, fornendo aiuti umanitari e monitorando il
cessate il fuoco ottenuto con la mediazione Onu nei primi anni ’90. Quest’ ultima
missione, alla quale l’Italia non partecipò, si mostrò presto insufficiente e venne
appunto sostituita da UNITAF, una missione internazionale autorizzata dal Consiglio
di Sicurezza a guida Statunitense, cui l’Italia prese parte contribuendo con un grande
contingente di uomini, più di 800, secondo solo a quello Statunitense. Mentre UNITAF
completava il suo mandato, nel marzo 1993 veniva autorizzata UNOSOM II, che però
sarà tristemente nota per la battaglia di Mogadiscio, dove le truppe ONU subirono
pesanti perdite, per l’abbattimento di due elicotteri Black Hawk, per il massacro di 24
soldati pakistani e per la cosidetta battaglia del Checkpoint Pasta, durante la quale 3
soldati italiani persero la vita e altri 36 furono feriti. In seguito alle numerose fila degli
stati partecipanti, e in particolare degli Stati Uniti, che ritirarono le loro truppe nel
1994, la missione fu dichiarata ufficialmente terminata, senza successo, nel marzo
1995.
5. ONUMOZ (United Nations Operations in Mozambique), iniziata nel dicembre 1992 e
terminata nel dicembre 1994. La missione fu autorizzata per supervisionare il rispetto
degli accordi di pace di Roma del 4 ottobre 1992, stipulati tra il Governo del
Mozambico e il movimento di Resistenza Nazionale Mozambicana, che mettevano
fine alla guerra civile Mozambicana. Inoltre il mandato prevedeva di monitorare il
32
cessate il fuoco tra le parti, garantire la sicurezza del personale Onu, la raccolta e la
distruzione degli armamenti e assistere il regolare svolgimento delle elezioni.
6. MINUGUA (Misiòn de Naciones Unidas para Guatemala), autorizzata per poter
sorvegliare l’effettiva applicazione di un accordo tra il Governo del Guatemale e
l’Unione Rivoluzionaria Nazionale Guatemalteca per instaurare una condizione di
legalità e rispetto del diritto. La missione ebbe inizio il 21 novembre 1994, e l’Italia vi
partecipò inviando, nel luglio 1995, un limitato contingente di carabinieri, che furono
poi dislocati in diverse aree del Paese, in qualità di componenti della Polizia Civile
delle Nazioni Unite (CivPol)
7. UNMIBH (United Nations Mission in Bosnia and Herzegovina), istituita al termine
dei combattimenti in Bosnia, e successivamente al ritiro di UNPROFOR, che rimase
operativa per monitorare il cessate il fuoco siglato con gli Accordi di Dayton (Ohio,
Usa) firmati il 21 novembre 1995. Insieme all IPTF (United Nations International
Police Task Force), che costituiva la componente armata della missione, l’UNIMIBH,
agendo da ufficio civile delle Nazioni Unite in Bosnia, aveva il compito di stabilizzare
la neonata Repubblica bosniaca, dilaniata dalle guerre balcaniche degli anni ’90,
riformare e addestrare la polizia, garantire il rispetto della legge ed il rispetto dei diritti
umani, favorire il processo di democratizzazione del paese e garantire assistenza ai
rifugiati.
8. UNMIK (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), avviata il 10
giugno 1999 dal Consiglio di Sicurezza, letteralmente amministrazione di transizione
per la provincia del Kosovo, fu una missione Onu unica nel suo genere: dovendo
iniziare il lungo processo di costruzione della pace, della democrazia, della stabilità e
dell’autogoverno nella travagliata provincia del Kosovo, essa agì gestendo le attività
di altre organizzazioni, coordinandole fra loro. La missione era composta da quattro
componenti (i cosiddetti Pillar):
Pillar I: Assistenza umanitaria, sotto la guida dell’UNHCR (United Nations High
Commissioner for Refugees).
Pillar II: Amministrazione civile, diretta dalle Nazioni Unite.
Pillar III: Sviluppo delle istituzioni democratiche, coordinato dall’OSCE28.
Pillar IV: Ricostruzione e sviluppo economico, guidato dall’Unione Europea.
All’inizio del 2009, a seguito del termine dell’attività operativa di UNMIK, il
personale impiegato veniva congedato.
9 UNMEE (United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea) è stata una missione
autorizzata dal Consiglio di Sicurezza nel 2000 per monitorare il cessate il fuoco dopo
la fine delle ostilità tra le forze etiopi ed eritree nel contesto della guerra scoppiata nel
1998 per una disputa sui confini interstatali. UNMEE doveva comprendere una
componente politica, militare, di pubblica informazione, di sminamento e
amministrativa, nonché disporre di un meccanismo per il coordinamento delle sue
attività con quelle della comunità umanitaria. Successivamente, nel 2002, la
Commissione Confini concluse i suoi lavori producendo una sentenza definitiva ed
28
L’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa.
33
immodificabile sul nuovo confine tra i due Stati, che però non è riconosciuta ed
accettata dall’Etiopia. La missione sarà ritirata nel luglio 2008.
Perciò, concludendo, riteniamo che il grande impegno italiano mostrato nel corso degli anni
’90 sia frutto essenzialmente dell’incertezza sugli sviluppi del sistema globale dopo la fine
del bipolarismo: il peacekeeping venne interpretato come un mezzo per guadagnare prestigio
nel nuovo contesto internazionale, e secondariamente anche per evitare un eventuale
isolamento internazionale.
Ovviamente è stato anche sfruttato dall’Italia, in quanto, nel momento in cui una missione
andava costituendosi nel suo scenario regionale o in Stati con un forte legame storico, primi
su tutti gli interventi in Bosnia, Kosovo, Libano, Somalia, Eritrea ed Etiopia, il Paese ha
potuto giocare un ruolo fondamentale.
A questi interventi, molto rilevanti per la politica estera italiana, hanno fatto da sfondo le
partecipazioni alle missioni in Iraq, Marocco, El Salvador, Mozambico e Guatemala, che,
insieme ad altri interventi fuori dal perimetro di interesse nazionale che analizzeremo nel
prossimo capitolo, hanno avuto la loro utilità nel rendere autorevole l’immagine dell’Italia
all’estero, accrescendone appunto il prestigio internazionale tramite l'assunzione di ruoli
onerosi e di responsabilità nel contesto della cooperazione internazionale.
A questo proposito sarà riportata l’analisi presente sul sito dell’Esercito Italiano sulle
operazioni internazionali:
“L’Esercito Italiano opera con la consapevolezza che le operazioni militari contribuiscono e
stimolano la crescita del Paese ma soprattutto promuovono la coscienza dell’importanza per
l’Italia di assumere ruoli di sempre maggiori responsabilità anche in campo
internazionale.”29
Insomma, anche la costante della ricerca del ruolo pare più che mai presente ancora oggi
nell’animo italiano.
Un’analoga analisi è altresì proposta sul sito degli Affari Esteri:
“La partecipazione italiana alle missioni ONU concorre in maniera rilevante alla proiezione
estera del nostro Paese e risponde alla necessità di salvaguardare la sicurezza nazionale a
fronte di minacce che trascendono i confini dello Stato.”30
Nel prossimo capitolo saranno riportate le missioni internazionali a cui attualmente l'Italia
partecipa, comprese quelle al di fuori della competenza ONU, e infine saranno approfonditi i
due casi studio da noi individuati per spiegare l'ambivalenza degli interventi italiani all'estero,
siano essi frutto di calcoli di prestigio o manifestazione dell'interesse nazionale diretto.
29
http://www.esercito.difesa.it/Operazioni/Operazioni_oltremare (Ultima consultazione 14/11/16).
http://www.esteri.it/mae/it/politica_estera
/organizzazioni_internazionali/onu/onu_ruolo_italia_nel_peacekeeping.html (Ultima consultazione 14/11/16).
30
34
Capitolo 4 – Gli impegni contemporanei: elenco e casi studio
4.1 Il nuovo millennio
Parallelamente agli interventi nell'ambito delle nazioni unite, l'Italia ha conosciuto, a partire
dagli anni '2000, una serie di interventi multilaterali in capo a Nato ed Unione Europea, a
dimostrazione del fatto che la componente della cosiddetta followership, ovvero della
partecipazione a missioni guidate e promosse dai maggiori alleati, Stati Uniti su tutti, è ancora
molto influente. “Seguire gli alleati può essere una strategia per preservare o accrescere lo
status internazionale italiano, ma essa è anche una politica il cui ultimo fine è essere parte
della comunità internazionale.” 31 In quest’ottica, gli anni ‘2000 offrirono immediatamente
l’occasione all’Italia di partecipare alla missione ISAF (International Security Assistence
Force) ed Enduring Freedom, che nel contesto della guerra al terrorismo inaugurata dall’allora
presidente americano George W. Bush, si rivelarono estremamente utili al fine di mostrarsi al
mondo intero come uno Stato che, pur non essendo stato direttamente colpito o minacciato da
attacchi terroristici, intervenne, insieme agli alleati della Nato, per salvaguardare e garantire
la pace nel mondo. L’intervento in Afghanistan rispecchia in pieno l’attuazione, dal nostro
punto di vista, della politica di prestigio, ed è forse un caso esemplare di capitalizzazione dei
benefici derivanti dalla partecipazione ad una missione internazionale, in quanto consentì di
guadagnare prestigio agli occhi dell’intera comunità internazionale, dal momento che la
missione fu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza; gli effetti positivi però si propagarono
anche all’interno della Nato, chiamata a gestire le operazioni, e quindi agli Stati Uniti, veri
promotori della missione.
L’altro intervento che nel presente capitolo sarà approfondito, quello in Libia nel 2011,
presenta caratteristiche simili, nel senso che anche questo fu voluto dagli alleati, Francia e
Gran Bretagna su tutti, ma abbiamo buone ragioni per credere che il motivo dell’intervento
italiano non sia certo spiegabile solamente in termini di prestigio: la prossimità territoriale, la
consapevolezza di dover essere presenti fin dal primo momento, per poi essere in buoni
rapporti con il nuovo governo post-Gheddafi che sarebbe andato costituendosi, gli interessi
politici, economici, energetici ed i legami storici, sono tutti fattori che impongono una
riflessione più ampia. Oggi sappiamo che la situazione in Libia è degenerata, ed attualmente
il paese è in una condizione disastrata, alle prese con un’infinita guerra civile, con due entità
parallele che si contendono il potere e con infiltrazioni da parte dello Stato Islamico. A riprova
del fatto che l’Italia ha, e deve avere interesse per la situazione libica, lo scorso settembre ha
preso il via l’Operazione Ippocrate, che prevede il dispiegamento di 300 unità che andranno
a costituire un ospedale da campo nell’aeroporto di Misurata, con la capacità di assicurare
triage, pronto soccorso, stabilizzazione e 12 posti letto per curare i feriti libici fedeli al
Governo di Accordo Nazionale Libico in lotta contro i miliziani dell’Isis a Sirte.32
Saranno ora esaminati gli scenari nei quali l’Italia è attualmente impegnata, e successivamente
sarà ripresa la trattazione dei due casi studio.
Andrea Carati & Andrea Locatelli (2016): Cui prodest? Italy’s questionable involvment in multilateral military
operations amid ethical concerns and national interest, International PeaceKeeping
32
http://www.analisidifesa.it/2016/09/gia-in-libia-il-contingente-delloperazione-ippocrate/ (Ultima consultazione
14/11/16)
31
35
4.2 Gli impegni contemporanei
Attualmente l’Italia è impegnata in 28 missioni in 19 paesi, come mostrato nel grafico:
33
La stragrande maggioranza delle missioni attualmente in corso fanno capo alla Nato e
all’Unione Europea.
Quelle nell’ambito dell’Alleanza Atlantica sono dislocate in:
Bosnia Erzegovina, dove è rimasto il NATO Head Quarter di Sarajevo, che provvede
al supporto delle Autorità bosniache ed al coordinamento tra queste ultime e la Nato.
Afghanistan, dove dal primo gennaio 2015 opera la missione RS (Resolute Support)
che ha sostituito ISAF, ed è incentrata sull’addestramento, consulenza ed assistenza in
favore delle Forze Armate Afghane.
33
http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/Pagine/OperazioniMilitari.aspx/ (Ultima consultazione 14/11/16)
36
Mar Mediterraneo, dove la missione Sea Guardian e Forze Navali Nato opera con
compiti di pattugliamento e sorveglianza aero-marittima. Attuata dopo l’attacco
terroristico dell’11 settembre 2001, è la visibile dimostrazione della solidarietà NATO
e della sua risolutezza nel sostenere la campagna contro il terrorismo internazionale.
Somalia, dove la missione Ocean Shield, iniziata nell’agosto del 2009, è in lotta contro
la pirateria nelle acque Somale.
Macedonia, dove la NATO, dal quartier generale di Skopje, dal 2001, in collaborazione
con FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia) contribuisce al processo di
raccolta e distruzione delle armi spontaneamente riconsegnate dall’ NLA (National
Liberation Army).
Kosovo, dove è ancora in atto, seppur con un coinvolgimento sempre minore, la
missione KFOR (Kosovo Force).
Turchia, dove dal 2013 è stato implementato un incremento della Difesa aerea turca,
dato il rischio per la popolazione di subire attacchi missilistici dalla Siria.
L’Unione Europea promuove un discreto numero di missioni, molto spesso parallele e in
sinergia con quelle Nato in:
Afghanistan, dove l’EUPOL (E.U. Police Mission in Afghanistan), operante dal
giugno 2007, si occupa della formazione della polizia nazionale afgana e svolge
consulenza nei confronti del ministero degli Interni afgano su questioni riguardate le
regioni e le province.
Kosovo, dove l’EULEX (E.U. Rule of Law Mission in Kosovo), istituita nel febbraio
2008, ha il compito di offrire assistenza alle istituzioni locali.
Somalia, con due missioni: la prima, Atlanta, è in lotta contro la pirateria nelle acque
Somale dal dicembre 2008, in sintonia con l’operazione NATO Ocean Shield; la
seconda, EUTM (E.U. Training Mission to contribute to the training of Somali security
forces) è una missione militare che contribuisce all’addestramento delle Forze di
sicurezza somale lanciata nell’aprile 2010.
Bosnia Erzegovina, dove la missione EUFOR Althea (E.U. Force), in atto dal dicembre
2004 su mandato delle Nazioni Unite, si sostituisce ufficialmente all’operazione della
NATO Joint Forge, con l’obiettivo principale di stabilizzare la pace ormai conseguita.
Mar Mediterraneo, dove l’agenzia Europea Frontex ha lanciato la Joint Operation
Triton nel novembre 2014 per il controllo delle frontiere italiane e quindi europee.
Sempre nel Mediterraneo, da giugno 2015 opera la missione SOPHIA, che ha come
compito principale quello di scongiurare ulteriori tragedie di migranti morti nelle
acque mediterranee, come quella avvenuta nell’aprile del 2015, dove 800 persone
persero la vita.
37
Mali, dove, dal gennaio 2015, la missione civile EUCAP SAHEL-MALI contribuisce
alla piena restaurazione dell’Autorità Statale sul Paese, dilaniato da una situazione di
crisi in atto dal 2013.
Le operazioni in capo all’ONU, attualmente, sono due missioni di cui abbiamo già parlato:
MINUSMA in Mali e UNIFIL in Libano.
E’ interessante notare come, dopo l’impennata delle operazioni a guida ONU degli anni’90,
si stia assistendo ad un sostanziale ridimensionamento del suo ruolo nella politica
internazionale, che vede invece il riconfermarsi dell’Alleanza Atlantica per quanto riguarda
gli interventi armati e il sempre più ingente intervento dell’Unione Europea nell’ambito del
rispetto del diritto e nel ripristino della società civile.
A margine riportiamo anche le operazioni nazionali, dislocate nelle aree di interesse storico e
geopolitico italiano: il corno d'Africa e il Mediterraneo; queste sono prevalentemente missioni
di supporto ai governi e consulenza militare, e ve ne sono in:
Egitto, sotto l organizzazione internazionale Multilateral Force and Observers, che ha
il compito di monitorare il mantenimento della pace tra la Repubblica Araba d'Egitto
e lo Stato d'Israele, sancita dal Trattato di Pace firmato il 26 marzo 1979 presso la Casa
Bianca dagli allora leader di Egitto e Israele.
Hebron, dove la missione Temporary International Presence in the city of Hebron,
voluta e sancita dal Governo d'Israele e dall'Autorità Nazionale Palestinese il 28
settembre 1995, garantisce il ripiegamento dell'esercito israeliano da una parte della
città di Hebron e prevede la presenza di una forza di osservatori internazionali.
Malta, dove la Missione Italiana di Collaborazione nel Campo della Difesa, istituita il
1 dicembre 2001, fornisce consulenza alle forze armate maltesi e sviluppa una
collaborazione tra le forze armate dei due paesi.
Emirati Arabi Uniti, dove la missione Task Force Air opera ininterrottamente dal 2002,
inizialmente per fornire ulteriore supporto alla missione Enduring Freedom, oggi
supporta le operazioni Resolute Support (Afghanistan), European Union Training
Mission (Corno d'Africa), Ocean Shield (Oceano Indiano) e Prima Parthica (Kuwait,
Iraq).
Palestina, dove la Missione Addestrativa Italiana, formata da una Training Unit
dell'Arma dei Carabinieri addestra, dal luglio del 2002, le forze di sicurezza palestinesi.
Somalia, dove la Missione Addestrativa Italiana 6, frutto di un accordo di cooperazione
trilaterale tra lo Stato Italiano e quello Somalo e Gibutino, favorisce la stabilità della
Somalia e dell'intera regione del Corno d'Africa, accrescendo le capacità nel settore
della sicurezza e del controllo del territorio.
Libano, con la Missione Militare Bilaterale Italiana in Libano che promuove
programmi di formazione ed addestramento in favore delle Forze di Sicurezza Libanesi
e la costituzione di un apposito Centro di Addestramento nel Sud del Libano.
38
Iraq e Kuwait, dove l'Italia, con l'operazione Prima Parthica, prende parte alla
Coalizione multinazionale contro il sedicente Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS) sulla
base della richiesta di soccorso presentata il 20 settembre 2014 dal rappresentate
permanente dell'Iraq presso l'ONU al Consiglio di Sicurezza.
Libia, dove la già citata operazione Ippocrate ha il compito di schierare una struttura
ospedaliera campale nell'area di Misurata, nel golfo della Sirte.
Il dato di fatto che emerge chiaramente è che l’Italia, sia che si tratti di missioni NATO, ONU,
U.E. o nazionali, non ha l’intenzione, e tantomeno l’interesse, a fare un passo indietro nella
cooperazione internazionale, a riprova del fatto che è questa la vera chiave di lettura
trasversale della politica estera italiana: l’attitudine a seguire gli alleati per conseguire
prestigio ai loro occhi, e quindi supporto per questioni italiane.
4.3 L’intervento in Afghanistan del 2001
A seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, una Coalizione Multinazionale
diede avvio all’operazione Enduring Freedom, una campagna contro il terrorismo
internazionale che, sulla base delle risoluzioni ONU n. 1368, 1373 del 2001, si prefiggeva
l’obiettivo di “disarticolare e distruggere l’organizzazione terroristica Al Qaeda, interdire
l’accesso e l’utilizzo, da parte di gruppi terroristici, di Weapons of Mass Destruction (WMD),
scoraggiare determinati Paesi a continuare a sostenere, in modo diretto o indiretto, il
terrorismo internazionale. All’operazione contribuivano 70 Paesi, dei quali 27 (e tra questi
l’Italia) avevano offerto “pacchetti di forze” da impiegare, per la condotta dell’operazione
militare vera e propria.
Per l’Italia, l’operazione inizia il 18 novembre 2001 con l’invio di una flotta denominata:
"Comando gruppo navale italiano", “composto dalle navi portaerei Garibaldi (con a bordo
uno Squadrone di Harrier), fregata Zaffiro, pattugliatore Aviere, la nave appoggio Etna,
(successivamente sostituite dal 18 marzo 2002 dal cacciatorpediniere Durand de la Penne e
dalla fregata Maestrale).”34
L’operazione militare era parte della guerra globale che impegnava la grande coalizione nella
lotta contro il terrorismo internazionale di matrice islamica, e sarà articolata in tre fasi:
La prima, che prevedeva lo schieramento delle forze navali ed aeree e l’ingresso di
forze speciali
La seconda, che prevedeva una campagna aerea contro obiettivi talebani e di Al Qaeda,
attività umanitarie, il supporto all’Alleanza del Nord e la capitolazione del regime dei
Talebani
La terza, che prevedeva l’impiego di unità di terra, e che non vide la partecipazione
del contingente italiano, la definitiva pacificazione e stabilizzazione del Paese, la
definizione, d’intesa con gli altri Paesi della coalizione, degli strumenti necessari a
34
http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_int_concluse/MareArabicoENDURING_FREEDOM/Pagine/default.aspx
(Ultima consultazione 14/11/16).
39
prevenire il riemergere del terrorismo e a supportare le operazioni umanitarie,
l’addestramento dell’Afghan National Army.
Nell’estate del 2002, gli Stati Uniti chiedono all’Italia di rendere disponibile un Gruppo
Tattico di fanteria, da integrare nel dispositivo della Coalizione. Il 2 ottobre 2002, il
Parlamento Italiano, con Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi, autorizza la
partecipazione, a partire dal 15 marzo 2003 e con mandato di 6 mesi, di un contingente
militare di 1000 soldati, che saranno sottoposti al comando della Task Force Nibbio, a cui è
assegnata la missione di controllo del territorio e di interdizione della propria Area di
Responsabilità e di concorso alla neutralizzazione/distruzione di sacche di terrorismo, di
possibili basi logistiche e di centri di reclutamento delle formazioni di Al Qaeda e Talebani.
L’operazione Nibbio, e con essa la parte terrestre della nostra partecipazione ufficiale alla
guerra di Enduring Freedom, si è conclusa il 15 settembre del 2003. Il 3 dicembre 2006 le
unità navali italiane hanno ceduto il settore di competenza agli Stati Uniti e sono rientrate il
17 dicembre, segnando il termine della partecipazione nazionale.
Parteciparono alle operazioni USA, Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Canada,
Australia, Polonia e vi fu il contributo militare di molti altri stati europei, a sottolineare il
carattere prettamente occidentale delle operazioni, e il fatto di essere fra i primi contributori
e responsabili delle missioni costituì per l’Italia un ottimo palcoscenico dove mostrarsi al
mondo come una Nazione matura e responsabile, guadagnando perciò prestigio
internazionale. Il prestigio relativo, ovvero quello conseguito agli occhi dell’alleato maggiore,
gli Stati Uniti, fu invece conseguito con le missioni militari, che videro gli italiani alle prese
con importanti e delicati compiti, che vennero riconosciuti e premiati proprio dagli States,
infatti il 26 ottobre 2004 l’Ambasciatore USA in Italia insigniva otto piloti italiani con
l’onorificenza statunitense “Air Medal”, conferimento decretato dal Presidente Bush in
persona “per le efficaci e meritorie attività aeree svolte da bordo di Nave Garibaldi in
appoggio alla coalizione internazionale Enduring Freedom in Afghanistan nel periodo
gennaio-febbraio 2002”.35
Il 5 ottobre 2006 il controllo dell’Afghanistan passerà ufficialmente da Enduring Freedom
alla missione ISAF, a guida NATO; l’operazione non si è conclusa però per gli americani, che,
pur trasferendo alla Nato circa 12.000 soldati, tengono ancora impegnati in Enduring Freedom
25.000 uomini.
La missione ISAF (International Security Assistance Force) veniva autorizzata il 20 dicembre
2001 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e nascendo come forza multinazionale,
aveva il compito di assistere le istituzioni politiche provvisorie afgane e mantenere un
ambiente sicuro. L’11 agosto 2003 il comando della missione passa alla NATO, e l’Italia
perciò andrà assumendo via via ruoli sempre più onerosi: “per l’Afghanistan sarà autorizzata
la partecipazione di 2250 militari italiani, che saranno distribuiti nelle aree di Kabul e di Herat.
Il personale militare italiano presente nell’area di Kabul ricopre prevalentemente incarichi di
staff presso il quartier generale di ISAF, mentre il contingente nazionale di stanza ad Herat
35
http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_int_concluse/MareArabicoENDURING_FREEDOM/Pagine/default.aspx
(Ultima consultazione 14/11/16)
40
coordina la gestione del Regional Command West (RC-W), la zona sotto la responsabilità
italiana: un’ampia regione dell’Afghanistan occidentale. La componente principale delle
forza nazionali è costituita dal personale proveniente dalla Brigata “Sassari” dell’Esercito
Italiano; è presente inoltre un significativo contributo di uomini e mezzi della Marina Militare,
dell’Aeronautica Militare e dell’Arma dei Carabinieri.”36
La missione ISAF sarà conclusa il 31 dicembre 2014, e il 1 gennaio 2015 avrà inizio la
missione, sempre a guida NATO, Resolute Support, incentrata sull’addestramento,
consulenza ed assistenza in favore delle Forze Armate (Afghan National Security Forces) e
delle istituzioni. L’Italia partecipa alla missione con un contingente di 950 unità, suddivise tra
personale con sede a Kabul (circa 50 unità), e contingente militare (circa 900 unità) dislocato
ad Herat, che coordina le attività nell’area di responsabilità italiana, un’ampia regione
dell’Afghanistan Occidentale, che comprende le quattro province di Herat, Badghis, Ghowr
e Farah.
“Il passaggio da ISAF ad RS non è solo un cambio di denominazione. E’ un punto di arrivo
dopo 13 anni di sforzi, culminati nella creazione di uno stato di diritto, istituzioni credibili e
trasparenti, e soprattutto delle Forze di Sicurezza autonome e ben equipaggiate, in grado di
assumersi autonomamente il compito di garantire la sicurezza del Paese. RS, benchè disponga
di forze ben più ridotte rispetto ad ISAF, dimostra come la comunità internazionale sia ancora
al fianco del popolo afgano, e prosegua nel suo impegno fornendo addestramento, consulenza
ed assistenza alle attività delle istituzioni afgane.”37
Evidentemente le parole del Ministero della Difesa, sopra riportate, evidenziano l’importanza
per le istituzioni di sottolineare come i successi militari, e quindi l’impegno italiano sul
campo, abbiano portato a risultati sperati, come ad esempio l’instaurazione dello stato di
diritto e di istituzioni credibili in Afghanistan.
Porre l’enfasi su questi aspetti significa celebrare un successo (prima militare, poi politico sociale) che sancisce la definitiva crescita in termini di prestigio per l’Italia, che assumendosi
rischi e responsabilità più di 15 anni fa, oggi può ritenersi soddisfatta per come lo scenario
Afghano è andato evolvendosi, ed è importante ricordare che Resolute Support dovrebbe
essere, nell’ottica del progressivo disimpegno, l’epilogo dell’impegno occidentale (in termini
strettamente militari) in Afghanistan, dato che la firma della Declaration on Enduring
Partnership da parte della Nato e del governo afgano, in occasione del summit di Lisbona
(novembre 2010) e un accordo bilaterale di partenariato fra Usa e Afghanistan, firmato il 30
settembre 2014 e che permetterà ad un contingente militare statunitense di restare in territorio
afghano fino al 2024, con funzioni di formazione e assistenza di esercito e polizia locali,
rispondono all’esigenza di mantenere un forte impegno nel paese, seppur con un graduale
disimpegno.
36
http://www.esercito.difesa.it/operazioni/operazioni_oltremare/Pagine/ISAF-Contributo-Nazionale.aspx (Ultima
consultazione 14/11/16)
37
http://www.esercito.difesa.it/operazioni/operazioni_oltremare/Pagine/Afghanistan-RS.aspx (Ultima consultazione
14/11/16)
41
4.4 L’intervento in Libia del 2011
Il 17 febbraio 2011 iniziava in Bengasi, nella Libia Orientale, la sollevazione popolare contro
il regime del Ra’is libico, il colonnello Gheddafi, al potere da 42 anni.
In poco tempo, la situazione degenerava, fino a trasformarsi in una vera e propria guerra
civile. In poche settimane i ribelli presero possesso di buona parte della regione orientale del
paese, e attirarono le ire del colonnello, che all’inizio di marzo lanciò una violenta
controffensiva verso est. I combattimenti si inasprirono a tal punto che il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, il 17 marzo 2011, adottò la risoluzione n. 1973, proposta da
Stati Uniti, Francia, Libano e Regno Unito: questa chiedeva “un immediato cessate il fuoco”
e autorizzava la comunità internazionale ad istituire una no-fly zone38 in Libia e a utilizzare
tutti i mezzi necessari per proteggere i civili ed imporre un cessate il fuoco, ad esclusione di
qualsiasi azione che avesse comportato la presenza di una “forza occupante”.
Si costituì così la cosiddetta Coalition of the Willings, ovvero l’insieme di quegli Stati che si
dichiararono subito disponibili a far rispettare la risoluzione n. 1973: tra questi figurò anche
l’Italia, che rese disponibili le proprie basi aeree e alcuni assetti militari.
La scelta del governo Italiano però non fu affatto immediata, anzi: abbiamo motivi di credere
che sia stata una decisione sofferta, e infine presa, sulla base della considerazione dei fattori
positivi e negativi che avrebbe potuto comportare partecipare o meno alle operazioni.
L'Italia e la Libia, al momento della risoluzione n. 1973, erano legate da un trattato di
Amicizia e Cooperazione, firmato nella città di Bengasi il 30 agosto 2008 da Gheddafi e
Berlusconi, che vedeva da una parte l'Italia risarcire alla Libia 5 miliardi di dollari come
compensazione per le occupazioni italiane nel corso del '900, e dall’altra la Libia
intraprendere misure per combattere l'immigrazione clandestina dalle sue coste, favorire gli
investimenti di capitali libici nelle aziende italiane e sottoscrivere ulteriori accordi per
forniture energetiche.
Infine, all' articolo 3, veniva sancito il principio del "Non ricorso alla minaccia o all'impiego
della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica dell'altra parte", e all'articolo
4 era prevista la "Non ingerenza negli affari interni"39
E' comprensibile dunque la situazione d'imbarazzo nella quale si trovò il governo italiano allo
scoppio della crisi: da una parte la comunità internazionale, dall'altra l'interesse nazionale;
alla fine prevalse una linea moderata, che muovendo dalla convinzione che il regime di
Gheddafi fosse all'epilogo, si attivò per essere da subito presente nel teatro di guerra, per poi
partecipare ad eventuali negoziati e processo di stabilizzazione dello Stato nord africano,
cooperando sin da subito con il governo che si sarebbe successivamente insediato, instaurando
perciò delle relazioni amichevoli.
38
Spazio aereo sottoposto a controllo militare, interdetto a tutti i velivoli non autorizzati.
Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamariria Libica Popolare
Socialista.
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Muovendo da queste convinzioni, il governo Italiano, a partire dalla fine del febbraio 2011,
in seguito alle continue violenze governative contro i dimostranti, annunciò la sospensione de
facto del trattato, anche se essa sarebbe contraria al diritto internazionale, dato che fu una
sospensione unilaterale.
L'intervento militare fu inaugurato il 19 marzo 2011 dalla Francia con un attacco aereo diretto
contro le forze terrestri di Gheddafi attorno a Bengasi; qualche ora dopo, navi militari
Britanniche e Statunitensi lanciarono missili da crociera tipo "Tomahawk" su obiettivi
strategici in tutta la Libia. L'Italia, in questa prima fase, si limitò a concedere l'utilizzo di basi
aeree, come quelle di Trapani, Sigonella, Gioia del Colle, Aviano, Capodichino,
Decimomannu ed Elmas.
Il 31 marzo il comando delle operazioni fu assunto dalla NATO, che promosse la costituzione
della nuova missione per la Libia, Unified Protector.
L'Italia prese parte anche a questa missione, che prevedeva l'implementazione di una "No Fly
Zone Plus", comprendente un'area di interdizione al volo e di embargo navale antistante le
coste libiche.
"Per quanto concerne gli assetti nazionali sono state impiegate 4 unità navali e 12 velivoli per
un totale di circa 1.215 uomini."40
I combattimenti sul suolo libico tra il Consiglio nazionale di transizione (esponente dei
dimostranti) e l'esercito libico (fedele a Gheddafi) si conclusero nell'ottobre del 2011, in
seguito alla morte del Ra'is. Conseguentemente, la NATO cessò ogni attività il 31 ottobre.
Non ci fu una vera e propria operazione Post Conflict in Libia, e riteniamo che ciò sia alla
base della situazione caotica e di effettivo abbandono che affligge la popolazione libica
tutt'oggi.
La posizione italiana è comunque evidentemente di interesse nei confronti del vicino d'oltre
mare, e la costituzione della missione Ippocrate ne è, seppur in maniere molto ridotta e
marginale, la riprova.
Un maggiore impegno e attivismo da parte dei delegati italiani alle Nazioni Unite e ai vertici
NATO sarebbe stato comunque auspicabile, in virtù della considerazione degli interessi
primari che la Libia rappresenta per l'Italia.
40
http://www.difesa.it/OperazioniMilitari/Pagine/schedaops_libia.aspx (Ultima consultazione 14/11/16)
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Conclusioni
Lungo il tortuoso percorso della storia moderna, lo Stato Italiano è sempre stato in grado, a
volte in maniera eccellente, altre volte con scarsi risultati, di individuare i mezzi che gli si
proponevano per guadagnare prestigio agli occhi del mondo:
A fine '800, sottoscrivendo alleanze con i maggiori Stati Europei, entrando di diritto a
far parte del Concerto d' Europa, acquisendo perciò quello status di grande potenza
giudicato allora irrinunciabile.
Dopo la prima guerra mondiale, partecipando alla Società delle Nazioni nel mondo
delle grandi potenze, che appariva cosmopolita e in grado di risolvere ogni
controversia con la diplomazia, salvo poi precipitare nell'ennesimo conflitto mondiale,
che vide l'Italia, nel frattempo diventata fascista, ipernazionalista e velleitariamente
propensa ad imporsi nel mondo, protagonista in negativo e alleata della Germania
Nazista.
Nel contesto di un’alleanza euro-americana, la NATO, scoprendosi allo stesso tempo
piccola e protetta nel mondo bipolare e ritagliandosi faticosamente l'appellativo di
Media Potenza, recuperando la fiducia del mondo occidentale tramite l'assunzione di
oneri e responsabilità nel campo della cooperazione internazionale ed instaurando un
rapporto speciale con gli Stati Uniti.
Dopo il crollo del muro di Berlino e la caduta dell'Unione Sovietica, concedendosi in
maniera importante al multilateralismo, alla cooperazione internazionale e alle
missioni delle Nazioni Unite, che intensificarono il loro operato per tutti gli anni ’90 e
2000 fino ad arrivare ad oggi, dove l'impressione è che stiano invece riacquisendo
quel ruolo marginale che aveva caratterizzato il loro operato durante il “bipolarismo”,
che nel frattempo ha definitivamente lasciato il posto ad un ordine internazionale
indefinito, percepito da alcuni come “multipolarismo” e da altri come “unipolarismo”.
La dimensione del prestigio, intesa come ricerca di esso agli occhi degli alleati e del mondo,
perciò, sembra essere quella componente di cui nessun periodo storico italiano è stato mai
privato: essa vive nell’animo nazionale e ha le sue radici profonde nella mescolanza fatale di
quelle costanti della politica estera41 che, seppur influenzate dai vari sistemi internazionali,
hanno sempre portato lo Stato Italiano a compiere decisioni cicliche e ricorrenti, se non nei
mezzi, quantomeno nei risultati e nei fini ricercati.
41
Delinaete da Santoro nel suo testo “La politica estera di una media potenza” e analizzate precedentemente nel terzo
capitolo.
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Bibliografia
Testi:
•
R. Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Società editrice il Mulino,
Bologna, 1989.
•
C. M. Santoro, La politica estera di una media potenza, Società editrice il Mulino,
Bologna, 1991.
•
G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, dal 1848 ad oggi, Editori Laterza,
Roma - Bari, 2005.
•
R.G. Hawtrey, Economic Aspects of Sovereignity, Longmans Greens, London, 1952.
Documenti:
•
Andrea Carati & Andrea Locatelli (2016): Cui prodest? Italy’s questionable involvment
in multilateral military operations amid ethical concerns and national interest,
International PeaceKeeping, settembre 2016
Siti Internet:
•
www.difesa.it
•
www.un.org
•
www.esercito.difesa.it
•
www.esteri.it
•
www.unric.org
•
www.analisidifesa.it
•
www.worldwatch.org
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