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La musica come forma dell’interrelazione sociale1
Franco Fabbri, Università di Torino
Come può il musicologo comprendere la musica attraverso la comprensione delle relazioni umane,
e viceversa?2 La domanda che mi ha portato alle riflessioni che seguono è chiara e ragionevole. Devo dire, senza alcun intento offensivo nei confronti di chi l’ha formulata (anzi!) che ha l’aspetto
chiaro e ragionevole delle domande che fanno i bambini, alle quali gli adulti sono incredibilmente
incapaci di rispondere, perdendosi in una quantità incontrollabile di distinguo, parentesi, riserve. Ho
paura che capiti anche a me.
Noto, innanzitutto, che ci si chiede «come», in che modo il musicologo possa comprendere la musica attraverso la comprensione delle relazioni umane. Si sottintende, dunque, che quella concatenazione di comprensioni sia possibile, la si dà per scontata, in entrambi i versi: si può comprendere la
musica attraverso le relazioni sociali, le relazioni sociali attraverso la musica. La domanda (e qui
comincia a intravedersi la sua perfidia) chiede soltanto come. In effetti, se volessi tagliar corto –
spesso lo si fa, con domande di questo tipo – potrei citare alcuni casi di studi musicologici che hanno raggiunto brillantemente quell’obiettivo, illuminando un quadro di relazioni sociali attraverso lo
studio di pratiche musicali, generi, stili, o singole opere, o svelando significati e relazioni musicali
alla luce della comprensione di una rete di relazioni sociali. Ma mi metterei nei guai, perché un insieme di casi non definisce necessariamente un metodo condiviso, un «come» accettato da tutti.
Sempre per tagliar corto, potrei imbrogliare un po’ le carte – anche questo si fa spesso con questo
genere di domande – e dire che quella concatenazione o relazione di comprensioni è l’oggetto di discipline come la sociologia della musica o l’antropologia della musica; al che il sempre più perfido
autore della domanda potrebbe insistere: «Mai io dicevo “il musicologo”» mettendomi ulteriormente in imbarazzo. Dovrei chiedermi (per poterlo chiarire a chi mi interroga) che differenza ci sia tra
un musicologo e un sociologo o un antropologo della musica, cioè porre la questione dei «confini»
tra quelle discipline, e dovrei anche chiedermi – ad esempio – se la comprensione delle relazioni
umane attraverso la comprensione della musica sia davvero un obiettivo della sociologia della musica: autorevoli sociologi della musica che conosco, come Simon Frith, hanno più di una volta ammesso di non avere una competenza musicale adeguata a quel compito.
Potrei anche rispondere con la parola magica, «interdisciplinarietà», il che, combinato insieme agli
altri miei tentativi di affrontare la questione, potrebbe essere riassunto così: «Qualche musicologo è
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Questo testo è stato presentato a Barcellona il 9 maggio 2009 come conferenza conclusiva delle «II Jornades d'Estudiants de Musicologia i Joves Musicòlegs», presso la Escola Superior de Música de Catalunya (ESMuC).
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«[…] cómo el musicólogo puede comprender la música a través de comprender las relaciones humanas, o viceversa.»
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riuscito a comprendere la musica attraverso la comprensione delle relazioni umane e viceversa, ma
in generale è meglio che il musicologo si faccia aiutare da qualche altro esperto.» E questo, naturalmente, scatenerebbe altre domande: perché debbano esistere queste altre discipline, come mai gli
etnomusicologi e gli antropologi della musica non siano chiamati musicologi tout court, e magari
(in un vortice di domande alle quali forse nessuno sa rispondere) che rapporti ci siano tra gli antropologi della musica e gli altri antropologi, tra i sociologi della musica e gli altri sociologi.
E tutto questo per nascondere la vera ragione dell’imbarazzo iniziale: cioè che in realtà un certo
numero di musicologi non pensano affatto che il compito della loro disciplina sia di comprendere la
musica attraverso la comprensione delle relazioni umane, e viceversa, e che quindi il «come» – per
loro – sia del tutto fuori discussione. Pensano che la musica che li interessa (non proprio tutta la
musica, ma la musica che ritengono meritevole di studio musicologico), intesa come un testo, sia
autonoma rispetto a ciò che non è musica, all’«extramusicale». Quindi, va messo in evidenza, non è
che considerino impossibile che una certa musica possa essere compresa attraverso la comprensione
delle relazioni umane, o viceversa, ma che in sostanza più una musica può essere compresa così e
meno è interessante per il musicologo: sarà una musica «funzionale», priva (o dotata solo in parte)
di «valore estetico», e quindi semmai interesserà gli antropologi e i sociologi. Il compito sostanziale
del musicologo, secondo questa visione, è quello di scoprire e mostrare i valori immanenti delle opere musicali nella loro autonomia.
Non sono d’accordo. Soprattutto non sono d’accordo a identificare la posizione di questi musicologi
(pur numerosi, pur autorevoli, e comunque diversi tra loro) con «la musicologia». Si tratta di un filone storico, a lungo prevalente (Philip Tagg lo chiama, non a caso, conventional musicology) che
comunque non ha mai coperto l’intero universo degli studi musicali. Da decenni le posizioni diverse
da questa hanno assunto un rilievo sempre maggiore, e in vari paesi sono dominanti: quindi sono
contrario anche a chi identifica questa posizione con la musicologia «accademica». Rivendico, invece, il diritto di includere nella musicologia tutti gli approcci scientifici alla musica, qualunque sia
la natura della musica di cui si tratta.
Ed ecco che a pochi minuti o a poche righe dal primo commento a una domanda chiara e ragionevole, semplice come quelle che pongono i bambini, mi trovo a dover rispondere a un’altra serie di
domande, tutte altrettanto chiare e ragionevoli, tutte altrettanto perfidamente semplici: cos’è la musica? C’è qualcosa di non musicale nelle relazioni umane, così che si possa dire che una cosa sia la
musica, e un’altra, distinta, le relazioni umane? Ha senso quindi parlare di «musica assoluta»? Esistono allora valori musicali autonomi, che permettano di giudicare che rilevanza abbia la musica per
gli uomini, ma indipendentemente dalle relazioni umane? Qualcosa, insomma, che abbia lo stesso
statuto di grandezze fisiche classiche come la temperatura o la massa? Di quali musiche si deve oc-
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cupare il musicologo? Nel caso che non siano tutte le musiche, è legittimo pensare che debbano esistere delle discipline che studiano le musiche che la musicologia non deve (non può, non vuole)
studiare?
Come chiunque sia minimamente interessato alla materia sa bene, queste sono alcune delle questioni di base della storia della musicologia (o delle musicologie), ripetutamente affrontate da studiosi
di altissimo valore. Non ho la pretesa, né la presunzione, di rispondere in modo definitivo. Ma credo
che sia utile, una volta tanto, interrogarsi sulla loro interconnessione, nel tempo attuale (la fine del
primo decennio del ventunesimo secolo) e nello stato attuale del mondo. So già, e me ne scuso, che
non risponderò alla domanda di partenza, quella sul «come»: ma spero che alla fine di questi ragionamenti chi l’ha formulata avrà le idee più chiare su dove cercare la sua risposta.
Che cos’è la musica?
Di primo acchito, specialmente a chi non ha familiarità coi problemi della musicologia, il fatto che
ci si ponga una domanda così fondamentale può apparire il segno di una grande confusione disciplinare o di una pedanteria insopportabile. «Studiate la musica da secoli», si dirà, «e ancora non sapete che cos’è?» Oppure: «Cosa ci sarà di tanto nuovo nelle vostre argomentazioni da dover ridefinire ancora una volta le basi?»
In realtà, molti nuovi approcci allo studio della musica (o revisioni e giustificazioni di quelli preesistenti), negli ultimi trenta-quarant’anni, sono stati accompagnati da riflessioni di questo tipo, con la
partecipazione dei rappresentanti più autorevoli delle discipline musicologiche. Senza pretesa di esaustività, e andando in ordine sparso (non cronologico), ricordo il libro di Carl Dalhaus e Hans
Heinrich Eggebrecht Was ist Musik?, pubblicato in tedesco nel 1985, uno studio in forma di dialogo
dove due dei maggiori esponenti della musicologia del Novecento difendono con argomenti diversi
la corrente di pensiero «assolutista», in modo per lo più rigoroso e convincente, sia pure con qualche insospettabile scorciatoia e attenuazione del rigore (è il caso di Dahlhaus) o fermandosi inspiegabilmente alle soglie di conclusioni contraddittorie rispetto a quella corrente di pensiero (è il caso
di Eggebrecht). Il volume prende in considerazione molte altre delle domande che ci siamo posti,
dunque costituisce una fonte preziosa per i nostri ragionamenti. Solo nell’ultimo capitolo, intitolato
come il libro, Eggebrecht avverte il lettore che «non ci aspetteremo che alla fine di questo libro emerga una definizione» (Dahlhaus e Eggebrecht 1985/1988, p. 143), e richiama un argomento già
sviluppato precedentemente, secondo il quale la questione della definizione assume aspetti diversi a
seconda se la si veda in una prospettiva presente («in ciò condizionata, eventualmente in modo inconsapevole, dalla posizione d’osservazione», ibid.; nel primo capitolo aveva notato che «se si dice
[…] “la musica è…”, si implica tacitamente una posizione e non si avanzano pretese di storicità», p.
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19), oppure in una prospettiva storica («per [lo storico] le definizioni della musica […] convivono
nella loro diversità senza competere […] poiché egli tiene conto, per ciascuna definizione, del sistema dei presupposti da cui esse derivano…», p. 18; e «lo storico, da quando esiste, non può procedere altrimenti che in modo relativizzante», p. 22). In un caso come nell’altro, per ragioni diverse,
ogni definizione dovrebbe risultare legittima, e questo sembra autorizzare Eggebrecht a lasciar perdere qualsiasi tentativo infruttuoso di arrivare a una definizione generale, e a dedicare il resto del
suo intervento a una riflessione su quelli che considera i caratteri essenziali del concetto europeo di
musica: emozione, mathesis, tempo. Del resto, dice, una «definizione in senso stretto non si trova da
nessuna parte». Dahlhaus, peraltro, non fa una piega: tutto il suo contributo nel capitolo intitolato
«Che cos’è la musica?» è dedicato ai rapporti fra notazione musicale e significato, e fra musica e
linguaggio, nella tradizione colta europea, in perfetta simmetria con le annotazioni poste all’inizio
del volume: «…l’appartenenza di una canzonetta e una composizione dodecafonica alla stessa categoria è tutt’altro che ovvia» (p. 8) e:
Se dunque la categoria «musica» […] è un’astrazione che fu posta in essere presso alcune culture e in
altre no, allora ci troviamo di fronte alla infausta alternativa di dilatare e stravolgere il concetto europeo di musica, fino a straniarlo dalla sua origine, oppure escludere da tale concetto la produzione musicale di alcune culture extraeuropee. La prima opzione sarebbe poco fondata sotto l’aspetto della storia spirituale, la seconda sarebbe tacciata di etnocentrismo, poiché di norma gli africani, anche se da
un lato accentuano la négritude delle loro culture, dall’altro non intendono rinunciare al prestigio della
parola «musica». E una via d’uscita dal dilemma si intravede solo se si mette in relazione la problematica etnologica con quella storica, se si tenta dunque di risolvere le difficoltà affrontandole tutte assieme (p. 9).
La «via d’uscita» è accennata da Dahlhaus alla fine del suo contributo al primo capitolo:
Se però l’umanità trova la sua espressione non nella scoperta di una sostanza comune ma nel principio
del rispetto di una diversità ineliminabile, in tal caso la fedeltà all’idea di «una» musica si attua rinunciando alla stessa come concetto di sostanza per reintegrarla come principio regolativo dell’intesa reciproca (p. 13).
L’idea (avanzata retoricamente come ipotesi altrui) che le «canzonette» e le culture musicali africane in fin dei conti non siano musica, e che la «storia spirituale» riservi il «prestigio della parola
“musica”» solo alla musica colta europea, si stempera in una prospettiva di tolleranza interculturale.
Osservo, comunque, che Dahlhaus ha più che ragione a sostenere che ci sia una relazione tra il problema concettuale della definizione di «musica» e un problema linguistico. Alle osservazioni del
musicologo tedesco sull’inesistenza di un plurale di Musik, e sulle differenze tra musica e «generi
testuali», aggiungerei le mie (meno serie, ma forse no) sulle conseguenze disastrose che avrebbe
avuto l’eventuale denominazione di quello che oggi chiamiamo «cinema» come «teatro riprodotto»:
i «veri drammatologi» starebbero ancora discutendo se e a quali condizioni il «teatro riprodotto»
merita di essere studiato, e guarderebbero con sospetto il desiderio di legittimazione dei cultori dei
popular drama studies (Fabbri 2008, p. 69).
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Un’altra fonte molto utile, interamente dedicata alla questione della definizione del concetto di musica, è il più recente lavoro di Christopher Small, Musicking. The Meaning of Performing and Listening, pubblicato nel 1998. Lo considero una delle argomentazioni più convincenti (assieme a
quelle di Tagg, che citerò più avanti) contro il paradigma dell’«opera» e della «musica assoluta».
Ecco un ampio stralcio del capitolo introduttivo (Prelude):
Non esiste una cosa come la musica.
La musica non è una cosa, ma un’attività, qualcosa che la gente fa. La pseudo-cosa «musica» è una
finzione, un’astrazione dell’azione, la cui realtà svanisce non appena la esaminiamo da vicino. Questa
abitudine di pensare per astrazioni, di prendere da un’azione ciò che sembra essere la sua essenza e di
dare a quell’essenza un nome, è probabilmente antica quanto il linguaggio; è utile per concettualizzare
il mondo, ma ha i suoi rischi […] Questa è la trappola della reificazione, ed è stata una fallacia incombente del pensiero occidentale fin dai tempi di Platone, uno dei primi che l’abbiano messa in atto.
Se non esiste una cosa come la musica, allora domandarsi: «Qual è il significato della musica?» vuol
dire porre una domanda che non ammette risposta. Gli studiosi della musica occidentale, a quanto
sembra, hanno più intuito che realmente compreso che le cose stanno così; ma invece che dirigere
l’attenzione sull’attività che chiamiamo musica, i cui significati devono essere afferrati al volo e non
possono essere fissati sulla carta, hanno tacitamente portato a termine un processo di elisione, per
mezzo del quale la parola «musica» viene ad essere equiparata a «opere musicali della tradizione occidentale». Quelle, almeno, sembrano avere un’esistenza reale, anche se la questione di come e dove esistano crea in effetti dei problemi. In questa maniera la domanda: «Qual è il significato della musica» si
trasforma nella più maneggevole: «Qual è il significato di questa opera musicale, o di queste opere
musicali?» – che non è affatto la stessa questione (Small 1998, pp. 2-3; la traduzione è mia).
Con toni simili (e nello stesso anno) si esprime Nicholas Cook (1998/2005, p. IX): «La musica non
è una cosa che capita: è una cosa che facciamo ed è ciò che ne facciamo. La gente pensa per mezzo
della musica, decide chi essere con la musica, si esprime con la musica.»
L’idea della musica come attività era già stata formulata da Gino Stefani, proprio in una definizione
di «musica», nel 1976: «Qualunque attività con e intorno a qualunque tipo di suoni» (Stefani 1976).
E proprio quella definizione avevo preso, nel 1981, come base per una teoria dei generi musicali
(Fabbri 1981, 1982). In tempi più recenti lo stesso Stefani è tornato su quella definizione, aggiornandola come segue: «Musica: “suono vissuto esteticamente”, dove “suono” è qualunque tipo di
evento sonoro» (Guerra Lisi, Stefani e al., 1998, p. 22) e anche: «Nell’ottica culturale dominante,
musica è tutto ciò che una società considera tale. […] Nell’ottica dei potenziali umani (in accordo
con l’estetica radicale di un John Cage), musica è “il suono vissuto esteticamente”; “suono” è qualunque evento acustico... “estetico” è vissuto in e per se stesso, ovvero come esperienza autonoma»
(Stefani e Guerra Lisi 2004, pp.126-127). Continuo a preferire la definizione più «vecchia», che invece Stefani (in una comunicazione personale) ha commentato così:
Una definizione che in quel contesto era piuttosto una battuta di passaggio, sommaria, sbrigativa, quasi polemica; certamente non implicava, per esempio, che il rumore di un martello pneumatico (attività
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con suoni) sia senz’altro per tutti musica; sottintendeva che quel rumore «può» essere sentito come
musica, da John Cage di sicuro, ma anche da chiunque lo ascolti con intenzione-attenzione estetica.
In effetti, nella definizione del 1976 mancava un elemento importante: la scelta da parte di una comunità di chiamare quell’attività con e intorno ai suoni «musica». Quell’elemento viene introdotto
da Stefani all’inizio della definizione del 2004 riprendendolo da Luciano Berio (1981), e da John
Blacking (1973/1986), ma sembra solo affiancato a quella che pare essere la vera nuova definizione: «suono vissuto esteticamente». E per quanto l’«estetico» di Stefani (come precisa lo stesso autore) implichi una pienezza dei sensi diversa dalla concezione essenzialmente ricettiva della tradizione filosofica occidentale, per quanto quel «vissuto in e per se stesso» possa implicare anche la nozione di attività, il suggerimento di un’«esperienza autonoma» e l’accenno a «qualunque evento acustico» non mi soddisfano: alla fine il carattere propriamente rivoluzionario (più che semplicemente polemico) della definizione del 1976 si stempera in una posizione che condiziona la natura musicale di un evento sonoro all’intenzione-attenzione estetica. La classica definizione di Blacking
(1973/1986, p.33: «La musica è un prodotto del comportamento dei gruppi umani, a prescindere dal
loro grado di organizzazione: è suono umanamente organizzato») risulta allora più neutra e condivisibile.
Credo che il primo requisito di una definizione utile sia quello dell’inclusività. Non è compito soltanto dei musicologi di decidere che cosa sia musica e cosa no: il loro compito è di studiare ciò che
gli esseri umani (anche in comunità molto ristrette) chiamano «musica». Naturalmente, la comunità
dei musicologi non ha uno statuto diverso rispetto ad altre comunità umane, e questo rende conto
della possibilità di studiare in quanto musica attività con e intorno ai suoni di comunità che non
chiamino quell’attività «musica», un concetto egemone ma non universale. Credo che questo sia
anche un modo per prendere atto delle differenze tra culture, senza implicare l’obbligo che solo gli
appartenenti a una cultura possano studiarne le manifestazioni. D’altra parte, l’accenno a «qualunque attività», che potrebbe apparire pleonastico, serve come richiamo a non subordinare la definizione all’attenzione o al valore estetico, all’autonomia, all’«arte». Una buona riformulazione della
definizione di Stefani del 1976, che tenga conto delle osservazioni appena fatte, potrebbe essere
questa: «Musica: qualunque attività con e intorno a qualunque tipo di suoni, che una comunità concordi di chiamare tale.» Mi sembra che questa definizione sia compatibile con tutti i possibili oggetti di studio di una musicologia intesa in senso etimologico: dalle partiture della letteratura musicale
eurocolta – che fanno parte dei materiali necessari o indispensabili per le attività intorno ai suoni di
quella tradizione – all’ascolto di musica elettronica in un villaggio venda – popolazione che, come
ricorda Blacking (1973/1986, p. 30), non considera musica ciò che non è prodotto direttamente da
un essere umano –, dal treno di John Cage alla Muzak, da un concerto di Elefthería Arvanitaki ai
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«canti della tavola» prima della koúpa, nell’isola di Tilos, dall’ascolto in automobile di Cosmic Pulses di Stockhausen alla realizzazione della sigla identificativa di una web radio, dal canto delle balene (esistono gli zoomusicologi! Cfr. Martinelli 2002) al concetto di dulugu ganalan, «che suona
sollevato al di sopra», dei kaluli in Papua Nuova Guinea (Feld 1990).
Qualcuno potrebbe chiedersi se, introducendo il correttivo dell’accettazione comunitaria («…che
una comunità concordi di chiamare tale»), non si renda pleonastica la prima parte, quella che riguarda i suoni; se la si eliminasse, si ricadrebbe nella definizione di Berio. Mi pare, tuttavia, che se
la definizione ha sostanzialmente il compito di stabilire l’oggetto di studio della musicologia, un limite all’arbitrio vada posto, e che frasi come «questo bollito misto è una vera sinfonia di sapori»
non debbano essere oggetto di indagine musicologica, a meno che la frase non sia stata pronunciata
o scritta da Rossini. Ma chissà.
C’è qualcosa di non musicale nelle relazioni umane, così che si possa dire che una cosa sia la
musica, e un’altra, distinta, le relazioni umane?
Davvero, chissà. Non solo la gastronomia condivide con la musicologia il ricorso a un linguaggio
metaforico, dovuto al carattere non verbale della comunicazione che si stabilisce intorno al cibo, e
alla difficoltà di esprimere con altri mezzi i suoi significati: ne condivide anche il carattere profondamente, costitutivamente sociale. Tanto che, attraverso la mediazione sociale, non è così difficile,
né tantomeno assurdo, stabilire collegamenti tra cibo e suono, ben al di là del carattere aneddotico
dei cotechini ordinati per lettera o dei mitici tournedos.
La definizione di ciò che è «extramusicale» è logicamente complementare a quella di musica, e ciò
significa anche che possiamo comprendere meglio che cosa i diversi musicologi intendano davvero
per musica guardando che cosa intendono per extramusicale. Non ci dobbiamo sorprendere (ce lo
ricorda qualsiasi saggio sulla storia dell’estetica musicale) se fra musicologi e critici di diverse epoche o correnti si sono presentate divergenze che hanno riguardato non tanto il campo delle relazioni
umane, ma quello della musica stessa: ciò che in certi periodi e/o secondo alcuni è stato considerato
eminentemente musicale, o addirittura l’essenza stessa della musica, in altri periodi e/o da altri è
stato considerato perlomeno spurio e dubbio, e sostanzialmente extramusicale. La musica vocale, il
testo cantato o le didascalie, l’interpretazione, la danza, la musica funzionale, le «canzonette»: molte pratiche con e intorno ai suoni che il senso comune di tante persone collocherebbe tranquillamente nella «musica» o che definirebbe inestricabili da essa sono finite nell’«extramusica». Ci sono delle sfumature, è ovvio: non è detto che chi sostiene che una certa musica sia la «vera» musica (ad esempio, la musica strumentale tra il Settecento e il primo Novecento) arrivi a implicare che altre
pratiche intorno ai suoni (ad esempio, il melodramma) non siano musica del tutto, non è detto che
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chi sostiene che una certa musica è meritevole di essere studiata e altra no (ad esempio, rispettivamente, la musica da concerto e la musica da salotto) davvero intenda che la seconda appartenga al
dominio dell’extramusicale; direi che sia vero, però, che quando queste affermazioni diventano parte del senso comune di una élite, ciò che non è musica per antonomasia (la «vera» musica) diventi
immediatamente non-musica. E per quanto si possa dire che ogni comunità chiami «musica» senza
specificazioni la propria musica, e aggiunga specificazioni anche molto articolate per la musica delle altre comunità, credo sia indiscutibile che questo atteggiamento è particolarmente radicato nella
comunità della musica eurocolta, alcuni dei cui membri infatti chiamano la musica che li interessa
«musica colta», o «d’arte», o «da concerto», o «classica» solo se costretti dalle circostanze, a volte
mostrando un po’ di fastidio. Come scrivevo circa trent’anni fa, quando il sovrintendente di un ente
lirico-sinfonico usa la parola «musica», non c’è dubbio che sottintenda la M maiuscola e si riferisca
alla letteratura musicale europea di un periodo ben definito. E d’altra parte Francesco Giannattasio
(1998, p. 20) scrive:
È tuttavia significativo, e oggi ormai anche paradossale, che etichette quali «storia della musica» e
«musicologia», pur riferendosi a un’unica cultura, pretendano di rappresentare un concetto onnicomprensivo di musica, e che viceversa, quando ci si rivolge alle espressioni musicali di tutte le altre culture e società del mondo, se ne debba circoscrivere l’ambito con attributi e prefissi più o meno pertinenti (etnomusica, folkmusic, musica orientale, primitiva, esotica ecc.), quasi che da un lato vi fosse
«la» musica, dall’altro «delle» musiche, se non addirittura delle parvenze di musica.
La distinzione tra musicale ed extramusicale, è ovvio, non implica che tra i due universi non possa
esistere interrelazione: costituisce però una premessa necessaria perché si possa parlare di «musica
assoluta», concetto del quale ci occuperemo tra poco. È chiaro però che il modo in cui si istituisce la
dicotomia influisce sull’uso che se ne può fare: un conto è sostenere 1) che certe attività umane, oggetti, concetti, siano essenzialmente extramusicali, al punto che non si possa istituire nessuna relazione tra loro e la musica, un conto è sostenere 2) che per quanto distinti dalla musica possano esercitare sulla musica un’influenza (abbiano, come dice Eggebrecht, un ruolo di «determinanti»), un
conto è sostenere 3) che le attività umane «intorno ai suoni» (anche se non «con i suoni») facciano
parte della musica, e che quindi in sostanza tutte le attività e le relazioni umane possano essere musicali, e nessuna sia non-musicale in sé (come dicono in sostanza gli antropologi della musica, e
come è implicito nella definizione di Stefani del 1976, e in quella riformulata che abbiamo da poco
discusso).
Il volume di Dahlhaus ed Eggebrecht che promette così tanto e mantiene così poco a chi si domandi
cosa sia la musica (o che sia così ingenuo da credere alla lettera al suo titolo), offre gli spunti di
maggior interesse proprio là dove i due autori ragionano su «Che cosa vuol dire extramusicale?»,
come recita il titolo del terzo capitolo. Il contributo di Dahlhaus consiste in una ricostruzione convincente del percorso che porta dalla «convinzione che la lingua sia un elemento stabile della musi9
ca e non un accessorio “extramusicale” […], talmente ovvia fino al XVIII secolo» (p. 42), alla teoria dello «specificamente musicale» di Hanslick. È interessante in questo contesto l’osservazione
che «l’idea dello specificamente musicale costituisce la premessa di ogni massima o teorema estetico destinato a tener lontana dalla musica una valutazione basata su criteri sociali o politici» (p. 45).
E Dahlhaus aggiunge:
Nessuno stupore perciò che l’obiezione che lo specifico della musica consiste proprio nel non essere
specificamente musicale sia stata sollevata da parte marxista, e precisamente da Zofia Lissa: la sua opinione è che le funzioni sociali e i modi socialmente fondati della recezione non sono affatto, come
intendeva Hanslick, «esterni» all’essenza estetica della musica, ma appartengono alla sostanza di questa, la cui stilizzazione in «arte musicale» rappresenta un elemento ideologico nel senso di una falsa
coscienza (ibid.).
Il contributo degli studiosi marxisti alla teoria dell’interrelazione tra musica e realtà sociale è – come riconosce Dahlhaus – evidente: nel dibattito recente lo sostengono con decisione studiosi come
John Shepherd (1988, pp. 21-22), come Richard Middleton, come Luigi Pestalozza (il titolo delle
attività culturali, della rivista e dell’associazione che dirige, Musica/Realtà, testimonia della dedizione di una vita a questo concetto di interrelazione). Ma vorrei far notare che la comunità di coloro
che si oppongono alla teoria dello «specificamente musicale» è formata anche da molti studiosi che
si dovrebbero definire non marxisti, a meno di non attribuire al marxismo una capacità egemonica
piuttosto sorprendente, al giorno d’oggi (e anche all’epoca della pubblicazione del volume di Dahlhaus ed Eggebrecht). L’osservazione è pertinente al modo con cui Dahlhaus continua la discussione: critica la teoria di Hanslick come prescrittiva e tautologica, ma attribuisce gli stessi difetti alle ipotesi di Zofia Lissa. Secondo Dahlhaus, si può solo osservare che una musica «interamente assorbita dalle sue funzioni sociali (al punto che alcune culture non conoscono affatto un concetto autonomo di musica) è anche un fatto storico ed etnografico», tanto quanto, «all’estremo opposto […]
un’arte esteticamente autonoma, il cui diritto […] ad un ascolto fine a se stesso non viene solo rivendicato, ma anche giustificato sul piano compositivo e appagato con la recezione» (Dahlhaus e
Eggebrecht 1988, p. 46). Se non interpreto male la sintassi difficoltosa e la punteggiatura fuorviante,3 Dahlhaus rivendica allo «specificamente musicale» i diritti della storia e dell’etnografia, il che
gli va indubbiamente concesso: ci sono condizioni storiche e sociali ben definite entro le quali la
teoria hanslickiana è maturata, come vedremo più avanti. Ma è rivelatore il ragionamento per estremi opposti: Dahlhaus sembra dire che o una musica è interamente assorbita dalle sue funzioni
sociali (e allora sono più che giustificati coloro che non la chiamano «musica»), oppure ha tutto il
diritto (per logica compositiva e appagamento della recezione) a rivendicare la totale autonomia.
L’universo della musica reale sta probabilmente in mezzo a questi opposti, ma Dahlhaus (che evi3
Se l’interpretazione corretta fosse diversa dalla mia, mancherebbe il predicato retto dal soggetto «un’arte esteticamente autonoma».
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dentemente parteggia per uno dei due, o che ha sulla via di mezzo idee schönberghiane) non se ne
dà pensiero.
La posizione di Eggebrecht è ben diversa:
[…] la questione dell’«extramusicale» non è sistematica ma storica: non c’è musica extramusicale, ma
esiste una musica che non corrisponde ad una idea preconcetta, storicamente determinata, e che perciò
viene considerata musica non pura o addirittura impura, non vera e inautentica (p. 50).
Dopo aver tracciato a sua volta una storia delle diverse teorizzazioni della musica «pura», Eggebrecht introduce il concetto di «determinante», un’entità di varia natura che interagisce con la musica:
Musicale è, in quanto arte, solo (tutto) ciò che concorda strutturalmente. Questa concordanza però non
è mai puramente o assolutamente o autonomamente musicale ma, nel suo essere musicale, è sempre
influenzata, orientata, imbevuta e pervasa da determinanti, ad esempio emozione e mathesis come elementi costitutivi, per il resto da componenti quali interpretazione e virtuosismo, movimento e danza,
grammatica e retorica, idee, immaginazioni, concretezze, avvenimenti, programmi, situazioni di vita,
obiettivi, ecc. I determinanti sono potenzialmente infiniti in numero e, nel loro genere, inesauribili (p.
56).
E ancora:
In effetti, credo che a nulla di quanto esiste sia preclusa la possibilità di diventare una determinante
musicale. E questo riguarda, ad esempio, anche la biografia di un compositore […] o il pubblico verso
cui si orienta (o non si orienta proprio) la musica, oppure il mercato, per esempio quella norma della
GEMA che commisura la percentuale alla durata dell’opera (p. 57).
Qui Eggebrecht sembra ragionare da «marxista», o da antropologo della musica, sia pure all’interno
di un tentativo generoso ma disperato di salvare capra e cavoli: l’autonomia della musica in quanto
arte, garantita dalla «concordanza strutturale» (che – a rigore – non dovrebbe tollerare intromissioni), e i suoi rapporti con una realtà fatta di «determinanti». Ma nonostante la dichiarazione di principio, gli esempi di «determinanti» che Eggebrecht cita sono tutti circoscritti alla storia e al contesto
della musica eurocolta: come altre volte nel libro, egli si ferma sulla soglia di conclusioni che rovescerebbero le premesse (e che forse avrebbero urtato la suscettibilità del severo coautore).
Là dove Eggebrecht rinuncia a proseguire, si inoltra invece con forza John Shepherd (1988, p. 16):
[…] o le musiche di tradizione orale sono intrinsecamente sociali, a differenza dalla musica d’arte occidentale, intrinsecamente a-sociale, oppure bisogna pensare che i diversi tipi di musica riflettano ed
esprimano i diversi modi in cui il processo sociale si manifesta nelle diverse società.
Quest’ultima spiegazione presuppone che tutte le musiche siano intrinsecamente sociali, ma che
l’intrinseca socialità delle diverse musiche sia manipolata e mediata in modi diversi da società diverse,
riflettendo così e portando ad espressione le diverse manifestazioni del processo sociale che si riscontrano in società diverse. Così, nella nostra società, la intrinseca socialità della musica tonale funzionale
e di altre musiche più recenti, composte nell’ambito di una «seria tradizione d’arte», è mediata in modo da fornire una parvenza di «a-socialità». Questa parvenza non solo rende possibile lo sviluppo di
teorie musicologiche che effettivamente ignorano il sociale in musica, ma costituisce anche un aspetto
essenziale della realtà sociale e dell’organizzazione sociale del capitalismo industriale che allo stesso
11
tempo milita attivamente contro lo sviluppo di ogni teoria musicologica che ponga il sociale in musica
a proprio fondamento.4
Quel «milita attivamente» è qualcosa di più dell’«elemento ideologico nel senso di una falsa coscienza» evocato da Zofia Lissa: ci descrive il confronto tra la «musicologia convenzionale» e le
posizioni ad essa contrarie ed alternative come un confronto sostanzialmente politico.
Ha senso quindi parlare di «musica assoluta»?
Il musicologo che ha articolato più a fondo e in modo più convincente quest’ultimo aspetto è Philip
Tagg, in molti dei suoi scritti. Qui vorrei limitarmi a citare il più pertinente all’argomento generale
che stiamo affrontando: il primo capitolo di Ten Little Title Tunes. Towards a Musicology of the
Mass Media (scritto insieme a Bob Clarida), dal titolo «The rise of musical absolutism» (Tagg e
Clarida 2003, pp. 3-32). Tagg prende le mosse da un’analisi della coerenza logica della nozione di
«musica assoluta» (non diversamente da Dahlhaus, che accusava lo «specificamente musicale» di
Hanslick di basarsi su una tautologia). Ecco alcuni dei suoi argomenti:
[…] chiamare la musica assoluta dovrebbe logicamente significare che la musica così qualificata non è
mescolata con alcunché altro, né dipendente, né condizionata, né altrimenti correlata. Un problema
ovvio di questa definizione assoluta di ASSOLUTA è che nemmeno il più risoluto assolutista musicale
sosterrebbe che una musica così «assoluta» come, ad esempio, il quartetto di Beethoven in do diesis
minore (Op. 131) sia totalmente indipendente dalla tradizione musicale alla quale il suo compositore
apparteneva. E dato che il quartetto non può de facto essere esistito in isolamento rispetto alle tradizioni musicali delle quali il suo compositore era un erede, qualsiasi nozione di MUSICA ASSOLUTA
deve essere dipendente almeno dall’esistenza di altra MUSICA ASSOLUTA per la sua identità.
L’ASSOLUTO in questo caso sarebbe relativo, permettendo alla musica in questione di essere assoluta in quanto irrelata ad alcunché altro, con l’eccezione di altra musica («assoluta») (p.13; la traduzione
di questa e delle seguenti citazioni dal volume di Tagg e Clarida è mia).
Vedremo più avanti come questo aspetto si colleghi a quello dei «valori musicali autonomi». E
Tagg prosegue:
[…] la negazione esplicita di un collegamento o un’interferenza con alcunché altro se non con la musica implica, da parte di coloro che applicano l’aggettivo ASSOLUTO al sostantivo MUSICA,
un’esigenza de facto di distinguere la musica così qualificata dalla musica che non è ritenuta capace di
sostenere lo stesso aggettivo. La MUSICA ASSOLUTA quindi dipende dall’esistenza della «musica
non assoluta» per la sua distinzione come «assoluta». Dato che la musica «non assoluta», almeno per
inferenza, deve essere correlata sia con altra musica che con fenomeni che non sono intrinsecamente
musicali, anche la MUSICA ASSOLUTA deve, anche se solo indirettamente, essere correlata a fenomeni diversi dalla musica, a causa della sua relazione sine qua non con la MUSICA NON
ASSOLUTA, e alla relazione di quella musica con cose diverse dalla musica stessa. Per di più, dato
che coloro che distinguono un tipo di musica da altri tipi per mezzo del qualificatore ASSOLUTO non
costituiscono in alcun modo l’intera popolazione, essi risultano essere uno dei molti gruppi socioculturali identificabili attraverso gusti e opinioni musicali specifici. Attraverso questa connotazione sociale,
un termine come MUSICA ASSOLUTA viene a essere legato, volenti o nolenti, alla posizione socioculturale, ai gusti, agli atteggiamenti e al comportamento di coloro che lo usano. A causa di questa i4
I corsivi sono di Shepherd.
12
nevitabile connotazione socioculturale, il concetto di MUSICA ASSOLUTA è una contraddizione in
termini (ibid.).
Segue un resoconto, che sarebbe molto interessante leggere in parallelo a quello di Dahlhaus, della
nascita del concetto di «musica assoluta». Due osservazioni di Tagg sono particolarmente penetranti; una riguarda il carattere rivoluzionario della nascita della soggettività borghese, la sua contrapposizione ai dogmi feudali ed ecclesiastici:
La visione romantica della musica era combinata con nozioni di «personalità» e «libero arbitrio» centrali alla soggettività borghese, ed entrambe erano trattate come concettualmente opposte al mondo esterno dell’oggettività materiale. L’individualità, l’emotività, i sentimenti e la soggettività finirono per
essere immaginate come poli opposti al sociale, al razionale, al fattuale e all’oggettivo, per così dire.
La musica svolse un ruolo centrale in questa storia delle idee, in accordo con la quale l’alienazione del
soggetto dai processi sociali oggettivi non era tanto riflessa, quanto rinforzata, perfino celebrata. Dato
che la liberazione umanistica dell’ego dai dogmi metafisici feudali procedeva mano nella mano con la
rivoluzione borghese contro l’assolutismo della gerarchia ecclesiastica e monarchica, non è sorprendente osservare che le idee musicali dell’epoca non fossero disposte a immobilizzare l’espressione
musicale per mezzo della denotazione verbale e di qualunque tipo di riferimento ad altro che non fosse
la musica stessa. Dopo tutto, finché gli ideali musicali avevano una funzione emancipatrice in relazione a un sistema di pensiero obsoleto, potevano dare il loro apporto allo sviluppo di forme rivoluzionarie di musica e di società (pp. 17-18).
L’altra riguarda la misura in cui la musica strumentale che in seguito fu canonizzata come «assoluta» (quella del classicismo viennese) fosse stata almeno in parte concepita sotto l’influenza di valori
precedenti e concettualmente opposti, come la teoria degli affetti:
[…] anche se la sinfonia classica non avrebbe mai potuto acquisire il suo senso di narrazione drammatica in mancanza dell’eredità degli affetti dall’epoca barocca, molti esperti tuttora considerano i classici della musica europea strumentale come MUSICA ASSOLUTA (p. 21).
Ma, si domanda Tagg, che cosa accadde quando la classe rivoluzionaria prese stabilmente il potere,
e i suoi ideali musicali divennero dominanti? E in che modo quegli ideali si collegano ad altre manifestazioni della soggettività borghese, al potere economico-politico di quella classe, ai problemi etici sollevati dalle esigenze brutali dell’accumulazione capitalistica? La risposta è altrettanto brutale
ma, credo, impeccabile:
[…] anche le affermazioni più estreme della metafisica musicale romantica devono essere prese sul serio, perché il concetto istituzionalizzato di MUSICA ASSOLUTA forniva una sorta di clausola di fuoruscita: se ascoltare la musica «nel modo giusto» era una questione di emozioni, di MUSICA IN SÉ e
nient’altro, allora i buoni affari dovevano essere una questione di far soldi, AFFARI IN SÉ e
nient’altro. O, per metterla in un altro modo, provare compassione o qualche altra emozione irrilevante
mentre si facevano soldi sarebbe stato altrettanto inappropriato che pensare ai soldi mentre si ascoltava
musica strumentale «nel modo giusto». In breve, MUSICA È MUSICA (la MUSICA ASSOLUTA)
può esistere solo allo stesso modo de GLI AFFARI SONO AFFARI o GLI ORDINI SONO ORDINI.
Le tre affermazioni naturalmente sono spazzatura, altrimenti non esisterebbe un’industria musicale, né
i tribunali per i crimini di guerra, né il movimento anticapitalista; ma questo non è il punto, perché gli
effetti delle pratiche caratterizzate da questo assolutismo concettuale e dagli obiettivi ideologici che
persegue sono tristemente reali. La dissociazione concettuale del denaro dalla moralità, degli ordini
militari dall’etica, e del mondo esterno alla musica dalla musica, mostra il modo in cui l’ideologia del
capitalismo può isolare e alienare la nostra soggettività dal coinvolgimento nei processi sociali, economici e politici (pp. 25-26).
13
E conclude:
In questo contesto storico, la metafisica romantica della musica e la sua nozione di MUSICA
ASSOLUTA, che sono entrambe divenute pietre angolari dell’establishment musicale dello stato capitalista, possono essere considerate come provviste essenziali nel kit di sopravvivenza concettuale della
soggettività borghese. Per queste ragioni non sorprende affatto che le istituzioni accademiche conservatrici, in una società tuttora governata dagli stessi meccanismi di base dell’accumulazione capitalista
(la competizione anarchica e l’avidità finanziaria), abbiano continuato a propagare sistemi concettuali
che avvalorano la dissociazione del soggettivo, individuale, intuitivo, emotivo e corporeo
dall’oggettivo, collettivo, materiale, razionale e intellettuale (p. 26).
Esistono valori musicali autonomi, che permettano di giudicare che rilevanza abbia la musica
per gli uomini, ma indipendentemente dalle relazioni umane? Qualcosa, insomma, che abbia lo
stesso statuto di grandezze fisiche classiche come la temperatura o la massa?
La questione del giudizio estetico in musica e quella della «musica assoluta» sono, come è noto,
correlate, dal punto di vista storico, filosofico e logico-cognitivo. Si può affermare – e come abbiamo visto non solo da parte degli avversari dello «specificamente musicale» – che i due concetti si
sostengano a vicenda in una definizione circolare, tautologica, e che ciò sia legato a una sostanziale
concorrenza storica, a uno sviluppo contemporaneo, ma si può anche sottoporre la relazione tra i
due concetti a una critica ideologica, osservando che mentre il senso comune del frequentatore di
concerti dà per scontato che il «canone» occidentale si sia formato a partire dallo sviluppo di strumenti critici e analitici adeguati, è probabile che sia vero il reciproco, e cioè che lo sviluppo di quegli strumenti sia avvenuto per legittimare un canone già esistente. Ma è la natura di quegli strumenti
e la loro relazione con l’oggetto di studio l’aspetto che ci interessa maggiormente. L’idea di una
musica esteticamente autonoma implica che i suoi valori siano immanenti, risiedano nella musica
stessa e non altrove (non nell’«extramusicale», non nelle relazioni sociali). Ma quando ci si chiede
quali siano questi valori e come possano essere messi in evidenza, le risposte sono vaghe, come appare dai passi di Eggebrecht e Dahlhaus che seguono. Eggebrecht dice:
[…] si può riassumere la questione del valore della musica, della sua qualità, nel concetto del «patrimonio informativo» estetico, che comprende gli aspetti della bellezza (purché intellegibile sul piano
dell’analisi), della novità e originalità, poliedricità, densità, ma anche della comprensibilità nella comunione di senso e contenuto. Il lavoro analitico è in grado di riconoscere se e in che modo una composizione si distingue qualitativamente da altre, quali sono i caratteri buoni e cattivi di un manufatto
musicale; nel far ciò è possibile che talvolta sia sopraffatto dallo stupore provocato dall’arte compositiva (Dahlhaus e Eggebrecht 1985/1988, pp. 60-61).
E Dahlhaus, in negativo:
Con il giudizio di musica mal composta non si intende in genere semplicemente un cumulo di offese
alle regole compositive vigenti, bensì un modesto livello di forma: una melodia che si sente banale,
una struttura ritmico-sintattica che si percepisce stereotipata, ma soprattutto la scarsa differenziazione
tra le parti, che produce in pari tempo una carenza di coerenza interna, essendo l’integrazione complementare alla differenziazione (p. 66).
14
Sorge spontanea l’obiezione di Tagg: che nel giudizio intervenga il riferimento (relativizzante!) ad
altra «musica assoluta», alle regole compositive e al loro sviluppo storico, e, anche solo attraverso il
confronto con la musica funzionale, non assoluta, all’universo dell’«extramusicale». Per non dire
dei «determinanti» invocati da Eggebrecht. Se si depura l’elenco dei valori presunti immanenti da
quelli che direttamente o indirettamente rimandano all’esterno della «musica assoluta», cioè alla
musica «funzionale» o alla realtà sociale, restano concetti non meglio definiti di complessità: il «patrimonio informativo estetico», la «poliedricità», la «densità», l’assenza di stereotipi, la «differenziazione tra le parti», la «coerenza interna».
A proposito della complessità, Blacking (sotto l’evidente influenza di Chomsky) scrive (1973/1986,
p. 55):
La questione della complessità musicale risulta irrilevante in ogni considerazione riguardante la competenza musicale universale. In primo luogo, in un particolare sistema musicale una maggiore complessità di superficie potrebbe essere paragonabile a un’estensione del lessico, che non altera i principi
di una grammatica ed è priva di senso indipendentemente da essi. In secondo luogo, nel comparare diversi sistemi, non possiamo affermare che una complessità di superficie implichi una maggiore complessità sul piano musicale o su quello cognitivo. In ogni caso, la mente umana è infinitamente più
complessa di qualsiasi prodotto di un individuo o di una cultura particolari. Soprattutto, l’efficacia
funzionale della musica sembra essere più importante, per chi l’ascolta, della sua maggiore o minore
complessità di superficie.
Nonostante negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso ci siano stati tentativi di sfruttare ai fini di una misurazione «oggettiva» del valore estetico le acquisizioni della teoria dell’informazione
(Moles 1958/1969), gli sviluppi successivi della semiotica hanno messo in luce concetti fondamentali come la competenza dei codici (Eco 1975, p. 143 e segg., Stefani 1978, 19-22) e la cooperazione interpretativa (Eco 1979), rendendo perlomeno problematiche le affermazioni sul significato di
un testo (in senso lato) che non tengano conto della condivisione dei codici e del lavoro interpretativo del destinatario. L’argomento è a sua volta di grande complessità, se si pensa che semiologi come Molino (1975) e Nattiez (1976) hanno introdotto nelle loro teorie (anche in diretta polemica con
la nozione di Eco di «opera aperta») un «livello neutro» che pare evidentemente mirato a ripristinare (in un contesto diverso) la centralità della partitura cara ai sostenitori dello «specificamente musicale» (Tagg annota: «Equiparare la partitura con la “composizione” o con una sorta di “esecuzione
ideale» platonica sembra essere parte del problema che sta dietro alla nozione di Nattiez di niveau
neutre»; Tagg e Clarida 2003, p. 55, nota 64). Credo che sia utile notare che molte delle posizioni
più autorevoli e tuttora citate che affrontano in modo critico le cosiddette «indagini sulla recezione»
(ad esempio, Analisi musicale e giudizio estetico di Dahlhaus, 1970/1987) sono anteriori allo sviluppo e alla diffusione delle teorie sulla cooperazione interpretativa, e affrontano la questione della
competenza (presentandola come «metafisica», Dahlhaus 1970/1987, p. 37) sulla base di una critica
15
ai metodi sociologici basati su sondaggi d’opinione, non a teorie ai tempi ancora sconosciute.5 La
sentenza, comunque, è preventivamente inappellabile:
[…] all’aborrito pregiudizio «aristocratico» l’indagine sulla recezione sostituisce un pregiudizio «democratico», senza rendersi conto che si tratta pur sempre di un pregiudizio, cioè la convinzione che
tutte le valutazioni, anche le più estranee alla cosa,6 siano esteticamente equivalenti. Il risultato è una
semplice registrazione di opinioni [ibid.].
In questa sede, però, mi interessa discutere solo la nozione di misurabilità. È la stessa linguistica/semiotica a introdurre un concetto apparentemente utile, quello delle funzioni della comunicazione verbale: Jakobson, nel suo saggio «Linguistica e poetica» (in Jakobson 1963/1966, pp. 181218) presenta il suo schema delle funzioni comunicative (referenziale, emotiva, poetica, conativa,
fatica, metalinguistica) e offre una definizione delle modalità di azione della funzione poetica, che
«proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione» (p. 192).
Altri autori, su questa base, hanno indicato come carattere essenziale della funzione poetica (estetica) l’autoreferenzialità, cioè il fatto che il messaggio inviti il destinatario a riflettere sulla sua stessa
forma o materia. Se si aggiunge a questa definizione (che sembra andare oltre a una semplice constatazione di «complessità») il fatto che ogni messaggio, secondo gli stessi autori, può svolgere contemporaneamente più funzioni, sembra derivarne che anche se non si può «misurare» l’efficacia estetica di un messaggio, si potrebbe però valutare la combinazione di funzioni che il messaggio sostiene, dando la misura, per così dire, della sua «esteticità relativa».
Su queste premesse teoriche implicite sembra basarsi l’appello di Lorenzo Bianconi al pluralismo,
inteso come «la pratica che programmaticamente incentiva la conoscenza delle specificità, delle diversità, delle varietà, e così facendo instilla il rispetto per le differenze di struttura, funzione, storia,
portata» (Bianconi 2006/2008, p. 8). Rivolgendosi in particolare agli insegnanti, l’autorevole musicologo afferma:
Il pluralismo insegna che in un contesto didattico ogni musica va usata a seconda degli obiettivi che
s’intende perseguire; e che non ogni obiettivo vale quanto qualunque altro obiettivo. Il pluralismo ripristina un sistema di valori estetici dovunque la funzione estetica predomini: insegna che un approccio pertinente a Mozart o a Monteverdi o a Stravinskij sarà per forza di cose primariamente estetico…
(pp. 8-9).
E continua:
…il pluralismo non perde per strada le musiche in cui la funzione estetica sia secondaria. Il pluralismo
insegna che la musica di consumo va interrogata primariamente circa la sua efficacia funzionale, ma
non per questo ignora l’impatto che essa determina sull’orizzonte estetico complessivo del singolo o
dei gruppi (p. 9).
5
È sintomatico come nell’ambito della musicologia «convenzionale» italiana, anche in tempi recenti, gli studi sulla natura semiotica della ricezione tendano a essere accorpati non con le riflessioni di carattere estetico-linguistico (alle quali
appartengono di diritto) ma con le trattazioni storico-sociologiche intorno alla fortuna (e al consumo) di un’opera, di un
autore, di un genere, cioè con la recezione. Quanta ideologia in un cambio di vocale!
6
Il corsivo è mio [N.d.A.].
16
L’appello alla convivenza tollerante riecheggia quello di Dahlhaus di vent’anni prima, ed è più che
apprezzabile, dato il ruolo di Bianconi nella musicologia europea e nell’università italiana. Ma nel
mare apparentemente pacifico della ritrovata convivenza tra musiche, generi e funzioni (e musicologie), c’è uno scoglio teorico: chi decide se la funzione estetica predomini o sia secondaria? Esiste
una misura oggettiva, universale, come suggerirebbe quel «per forza di cose»? O non sono proprio
le comunità coinvolte nelle pratiche musicali e i singoli individui a prendere queste decisioni, volta
per volta o istituendo norme di genere (che, lungi dall’essere «opinioni», riguardano anche le funzioni comunicative)? In un contesto multiculturale come quello che si sta imponendo nelle scuole di
tutta Europa, come può un insegnante pensare che gli studenti riconoscano o accettino «per forza di
cose» il predominio della funzione estetica in una musica ai cui valori possono essere totalmente estranei? Come si può incentivare «la conoscenza delle specificità, delle diversità, delle varietà», e
trascurare queste differenze? Bianconi sembra prevenire le obiezioni contrapponendo al suo pluralismo il relativismo, che ovviamente respinge. Ma «relativismo» è un termine-ombrello che si riferisce a fenomeni diversi, anche se è forte la tentazione polemica di confonderli e di applicare automaticamente all’uno (ad esempio, il relativismo culturale) le conclusioni teoriche sviluppate per un altro (ad esempio, il relativismo intorno alla verità o il relativismo morale). Naturalmente, se si pensa
che i valori musicali siano verità universali, della stessa natura di quelle scientifiche classiche, e che
prima o poi se ne potrà misurarne qualcosa di simile alla massa o alla temperatura, allora l’ipotesi di
valutare la primarietà o secondarietà della funzione estetica a prescindere dalla competenza dei codici («estranei alla cosa», come si potrebbe dire estrapolando da Dahlhaus) non fa una grinza. Ma
anche i filosofi più severi verso il relativismo intorno alla verità ammettono che nelle questioni che
hanno a che fare col gusto (vale a dire, con i codici culturali) il problema nemmeno si pone (si veda
Marconi 2007). La fallacia implicita nella confusione tra giudizi di verità e giudizi di valore era stata sollevata molto puntualmente da Mario Baroni, in un saggio significativamente dedicato
all’«Analisi musicale e giudizio di valore nella musica leggera» (Baroni 1996). Rivolgendosi a Dahlhaus (del quale parafrasa il titolo del noto testo del 1970/1987), Baroni commenta:
[…] non si può fare a meno di stupirsi che egli non abbia compiuto un piccolo passo in più: quello di
affermare che qualsiasi argomentazione a sostegno o a detrimento di un problema falso non può che
essere fallace. E porsi il problema della verità di un giudizio estetico è porsi un falso problema, perché
un giudizio di valore non può mai riguardare il vero e il falso, ma il buono e il cattivo (p. 90).
E, citando il saggio di Miceli e Castelfranchi (1992) La cognizione del valore. Una teoria cognitiva
dei meccanismi e processi valutativi, chiarisce che «un valore esiste solo in riferimento a qualche
scopo di un organismo» (p. 89), dove lo scopo è un progetto sottoposto a possibilità di scelta, in relazione all’ambiente nel quale l’organismo è inserito. In sostanza, un giudizio di valore ha senso so-
17
lo nell’ambito della relazione tra un organismo e il suo ambiente. Non esistono misure assolute, ma
solo giudizi relativi.
Di quali musiche si deve occupare il musicologo? Nel caso che non siano tutte le musiche, è legittimo pensare che debbano esistere delle discipline che studiano le musiche che la musicologia non deve (non può, non vuole) studiare?
Arrivati qui, queste domande sono manifestamente retoriche. Lo erano già da prima, lo so. Al sostantivo «musicologia» si applica il fenomeno che abbiamo già visto a proposito di «musica»: esiste
una musicologia per antonomasia, ed è quella che si occupa della musica eurocolta, intesa perlopiù
come «musica assoluta». La storia degli studi musicali in Occidente, del resto, ci mostra che da
un’idea unitaria (quella di Adler, 1885) si è arrivati a una differenziazione sempre più accentuata
anche e soprattutto perché il concetto di musicologia comparata era funzionalmente subordinato al
«canone» (ad esempio, studiare le musiche e gli strumenti dei «primitivi» per ricostruire le origini
della musica europea). L’etnomusicologia, l’antropologia della musica, la sociologia della musica, i
jazz studies, i popular music studies, e via specificando, coprono spazi disciplinari (o interdisciplinari) logicamente pertinenti alla musicologia, ma non solo hanno nomi diversi: radunano comunità
diverse di studiosi, sono organizzati diversamente all’interno delle istituzioni didattiche e di ricerca.
Se la musica è un’attività umana (gli zoomusicologi direbbero: non solo), che coinvolge comunità e
singoli individui in ogni angolo del pianeta in pratiche con e intorno ai suoni, se la stessa natura
musicale di quelle pratiche è definita da comunità e individui, è davvero curioso che a occuparsene
non sia la musicologia tout court, ma discipline contigue, parallele, più o meno comunicanti. È ovvio: tutte queste considerazioni implicano una definizione di musica, e finché la musica è definita
esclusivamente nella sua dimensione estetica è difficile che le cose cambino, e che la musica sia
studiata come forma dell’interrelazione umana, sociale. Come ha scritto Shepherd (e sono convinto
che il suo non sia un eccesso polemico) è il sistema politico-economico dominante che «milita attivamente contro lo sviluppo di ogni teoria musicologica che ponga il sociale in musica a proprio
fondamento». Anche in questo senso, la gravissima crisi dell’economia mondiale costituisce
un’opportunità.
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