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Università degli studi di Milano-Bicocca Facoltà di Psicologia Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche Femminicidio: i fattori di rischio e il ruolo dell’empatia Relatore: Prof. Marcello Gallucci Numero caratteri: 60.348 Tesi di Laurea di: Alessia Gramai Matricola n. 736878 Anno Accademico 2012/2013 INDICE Introduzione………………………………………………………...pag. 4 Capitolo 1: Femminicidio: definizione, nascita e sviluppo del termine……………………………………………pag. 6 1.2: I dati italiani Capitolo 2: Femminicidio e violenza: fattori di rischio……………….....………………………..……pag. 10 2.1: The Confluence Model of Sexual Aggression 2.2 Aspettative legate al genere 2.3 Miti legati allo stupro, concezione del sesso come stupro, motivazione al dominio e attitudini che giustificano la violenza sulle donne 2.4 La psicopatologia 2.5 Conclusioni 1 Capitolo 3: L’empatia e la violenza sulle donne…………………pag. 20 3.1: L’empatia: definizioni, modelli; come interagisce con altri fattori 3.2 L’empatia e la violenza: una correlazione negativa 3.3 Empatia e Deumanizzazione Capitolo 4: Conclusioni e prospettive…………………………...pag. 28 4.1 Scale di valutazione, metodi di indagine 4.2 Trattamenti basati sull’empatia Bibliografia ……………………………………………..……….....pag. 32 Sitografia………...………………………………………………….pag. 40 Ringraziamenti………….………………..........................................pag. 41 2 ABSTRACT Il femminicidio definisce l’uccisone di una donna in quanto donna. Sotto la superficie tale uccisione nasconde tutta una serie di fattori di rischio e di protezione ritrovabili a livello culturale, sociale, interpersonale. Tra questi è stato analizzato il ruolo dell’empatia e i processi di deumanizzazione sottostanti alle dinamiche che vedono la donna soggetta a fenomeni di femminicidio. Femicide means the kiling of women because of their belonging to this gender. This kind of murder is deeply related to risk and protection factors that operate at cultural, social and interpersonal level. One of these factors, empathy, is here analyzed together with the related dehumanizing behaviours. 3 INTRODUZIONE “in Italia una donna su 3 ha subito violenza sessuale, fisica o psicologica […] e la violenza, non la malattia o gli incidenti stradali, è la prima causa di morte tra le donne fra i 15 e i 60 anni” Ileana Alesso, 2012 Più di cento le donne uccise in Italia nel 2012. Uccise perché donne, dicono alcuni. Uccise nella loro casa, spesso dai mariti che avevano promesso di amarle “finché morte non ci separi”; dai fidanzati che magari per mesi le avevano corteggiate; da ex che si mostravano dolorosamente riluttanti a mettere la parola “fine” alla loro storia d’amore. Questo nuovo fenomeno di allarme sociale viene definito Femminicidio, intendendo con tale termine l’uccisione di una donna in quanto donna (Russell, 1992). Non si parla solo degli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner, ma anche di tutti quei casi di donne uccise perché troppo ribelli al ruolo impostogli, o uccise per regole e norme religiose, o per omofobia. L’OMS dichiara che la prima causa di uccisione nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio (da parte di persone conosciute). Negli anni Novanta il dato non era noto, e alcune criminologhe decisero di “nominare” questo fenomeno, in quanto non ascrivibile alle restanti tipologie di omicidio volontario. Sotto la superficie l’uccisione di una donna nasconde tutta un’altra serie di fenomeni che vedono la donna oggetto di soprusi, violenze, sottomissioni, subordinazioni di vario grado e varia portata, ritrovabili a livello culturale, sociale, interpersonale. Fenomeni che non sempre portano alla morte della donna, ma che la rendono sempre più “uccidibile”, ponendola in un clima di vulnerabilità, debolezza, sottomissione. Le forme di violenza sono molteplici, come molteplici sono i fattori di rischio che possono concorrere a tali comportamenti di violenza. Cosa si cela dietro questa specifica forma di violenza? È un problema delle donne o degli uomini? Quali sono i fattori di rischio che portano il singolo a perpetuare un crimine “di genere”? E quali gli elementi socio-culturali che sottendono tali gesti? 4 In questa sede si esplorerà il ruolo dell’empatia e come tale costrutto si relaziona a comportamenti di violenza sulle donne. In generale, esplorando la letteratura sul tema dell’empatia, si può facilmente notare che i due elementi siano in correlazione: bassi livelli di empatia sono collegati a un alto rischio di violenza, e predicono un desiderio inespresso di commettere aggressioni sessuali (Deitz, Daley, Blackwell, Bentley, 1982). Da sottolineare è che l’empatia da sola non basta: tanti sono i fattori di rischio che portano la violenza ad innescarsi e perpetuarsi, come vedremo nei primi capitoli che presentano i fattori collegati alla violenza femminicida. I quesiti che saltano alla mente sono tanti, il fenomeno dei Femminicidi è dilagante e controverso: la strada da fare è ancora tanta. Ma è importante intraprenderla. 5 CAPITOLO I FEMMINICIDIO: DEFINIZIONE, NASCITA E SVILUPPO DEL TERMINE “…numeri allarmanti mentre noi restiamo muti. […]Ma quali delitti passionali?! Il termine giusto non è omicidio/se uccidi una donna è un FEMMINICIDIO; e tu uomo che rispetti i tuoi simili in coro/non difendere le donne, devi lottare con loro.” Kiave, “Il termine esatto” Il termine “femminicidio” deriva dalla similissima parola “femicidio”, utilizzato per la prima volta da Diana Russell nel 1976, nella campagna per la costruzione di un tribunale internazionale sui crimini contro le donne (Karadole, 2012). La parola “Femicide” era già in uso a fine ‘800 e stava ad indicare l’uccisione di una donna. Un’ulteriore precisazione del concetto è stata fornita nel 1992 dalla stessa Russell, che definì il femicidio “l’uccisione, da parte di un uomo, di una donna in quanto donna”. Ne evidenziò quindi la natura “sociale”, insieme a Mary Anne Warren, che utilizzò il termine Ginocidio (Gynocide o Gendercide): il concetto ha anche una connotazione socio-sistemica che evidenza come esista una struttura culturale e di potere finalizzata all’eliminazione delle donne come genere. (Danna, 2007). Anche Daniela Danna ne parla in questi termini, non solo considerando l’omicidio, ma anche tutte quelle forme di violenza sulle donne e sul femminile, considerato come corpo, come idea, come sistema di scelte, come soggettività. Alcune studiose americane e canadesi si sono invece approcciate a tale fenomeno considerando i micro-sistemi di cui fanno parte: parlarono di “Spousal Homicide” per il femicidio legato a dinamiche di coppia, di “Family-Related Homicide” per quello legato a dinamiche familiari. È bene precisare che il concetto di Femicidio comprende le morti di donne in quanto donne, sia quelle perpetrate da singoli, sia quelle perpetrate da istituzioni o pratiche 6 sociali, quali aborti forzati e mutilazioni genitali (essi vengono effettuate attivamente anche da donne); il concetto di femminicidio invece comprende tutte le forme di “violenza sulle donne miranti ad annientarne la soggettività sul piano psicologico, simbolico, economico e sociale” (Karadole, 2012). Rientrano, nel concetto di femminicidio, le molestie in strada (street harassment), sul lavoro, la violenza psicologica, quella fisica, le molestie sessuali, lo stupro: il femminicidio è un neologismo che indica ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto appartenente al genere femminile. Il termine è diventato famoso grazie alla diffusione dei fatti di Ciudad Juarez,, città al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, dove dal 1992 più di 4500 donne sono scomparse e 650 stuprate, torturate e poi uccise, e abbandonate ai margini del deserto, nel disinteresse delle istituzioni. Il fenomeno fu studiato dall’antropologa Marcela Lagarde, considerata la teorica del femminicidio. Sostiene che la violenza sulle donne sia “illegale ma legittima”. Le sua analisi e le cronache di Ciudad Juarez evidenziano come tale fenomeno sociale venga silenziosamente fatto perdurare, stigmatizzando la donna nella sua posizione subordinata, e quindi discriminata e facilmente “uccidibile” (“Casa delle donne per non subire violenza”, Bologna). Il confine tra i concetti di femicidio e femminicidio è labile, e spesso si legano l’uno all’altro in un rapporto di tragica logica e consequenzialità cronologica, nonché di circolarità: se comportamenti e atteggiamenti violenti verso le donne sfociano spesso nel femicidio, anche lo stesso femicidio, e soprattutto la sua rappresentazione mediatica, rinforza tali comportamenti. La stampa che tratta di femicidi infatti spesso li considera episodi isolati aventi a che fare con il privato della coppia o della famiglia. Episodi che solo un “raptus” di follia può aver portato. Raptus, momento singolo, la rabbia passeggera e momentanea, la “pazzia” che compare all’improvviso. Insieme a “raptus” compare spesso l’espressione “delitto passionale”: è la gelosia, o il “troppo amore” la causa del femicidio. Secondo il tono generico che spesso assume la stampa nazionale c’è quindi, spesso, una “lettura romanzata” del femicidio, presentato come fatto privato, questione familiare finita nell’eccesso. Vedremo più avanti come il linguaggio della stampa si correli con il provare o meno empatia per la vittima e per la sua controparte, l’omicida. 7 Ma davvero il femicidio e i correlati di violenza sottesi al gesto estremo sono “panni sporchi da lavare in casa”? Le allarmanti statistiche e le analisi sociologiche, culturali, psicosociali e criminologiche dicono di no. Dietro ai femminicidi, e femicidi, c’è il problema della violenza di genere, del possesso e del controllo del corpo della donna, l’incapacità di accettarla come soggetto autonomo (Karadole, 2012). In questa struttura sociale, da molti definiti come “patriarcale” e in cui l’uomo decide e subordina la donna, le decisioni autonome da parte di quest’ultima vengono considerate “golpiste”, ribellioni da sopprimere, anche con la forza. C’è quindi una visione, da parte degli uomini che commettono violenza, della donna come nemica, delle donne come “avversarie, che devono essere sfidate e conquistate”. (Danna, 2007). 1.2: I dati italiani E’ molto difficile raccogliere dati italiani relativi ai femicidi e femminicidi: le fonti sono poche, e le pochissime ricerche effettuate hanno valutato più la posizione della vittima (“approccio vittimologico”, Karadole 2012) che la violenza in sé, vista da un’ottica multipla. I dati sono pochi perché “poca” è anche la considerazione data al fenomeno: come già detto, è spesso socialmente considerata un fatto privato che deve restare all’interno delle mura domestiche. In Italia solo l’EURES, ente privato di ricerca, raccoglie periodicamente i dati sull’omicidio volontario in Italia; dalle loro statistiche, rilevando il sesso delle vittime, si possono trarre dei dati validi e utilizzabili. Si scopre così che, confrontando l’andamento dei femicidi in valori assoluti, nel triennio 2007/2010 il fenomeno è fortemente aumentato. La “Casa delle donne- Per non subire violenza” di Bologna ogni anno effettua un’indagine1, mediante gli articoli della stampa nazionale e locale, al fine di rilevare sistematicamente dei dati di donne uccise “in quanto donne”. Dalle loro indagini emerge che l’ambiente domestico e il rapporto di coppia sono i “luoghi” che possono essere più fatali per una donna. Scrive la Karadole 1 AA.VV “Casa delle donne, per non subire violenza” Bologna. http://www.casadonne.it/cms/index.php?option=com_content&task=view&id=172&Itemid=125 8 che delle 127 donne uccise nel 2012, 97 avevano un rapporto di intimità con il proprio assassino. Se aggiungiamo anche i femicidi commessi da ex partner, il numero aumenta. Alcuni dati presi dalle indagini de “La casa delle donne-per non subire violenza” di Bologna affermano che nel 31% dei casi l’omicida è il compagno o l’amante, nel 23% dei casi l’ex, nel 14% dei casi un familiare (padre, fratello o figlio). Tra i moventi abbiamo la separazione per il 19% dei casi, conflitto (12%), problemi psichici (10%), raptus (13%) e gelosia (10%). Altro elemento che fa riflettere è quello della presenza di precedenti violenze nella relazione tra i due soggetti, fattore che spesso è di difficile indagine anche per la persistente difficoltà della donna a denunciare e/o a cercare protezione. Nel 2009 in più del 28% dei casi vi sono storie di violenza a carico del marito nei confronti della donna uccisa o in precedenti relazioni. Tale dato risulta comunque sottostimato se consideriamo che, come riporta la ricerca ISTAT per il 2006 più volte citata, nel 93% dei casi le violenze da partner non vengono denunciate; inoltre è alta la percentuale dei casi in cui la donna non parla con nessuno, nemmeno in rapporti confidenziali e amicali, della violenza subita (AA.VV “Casa delle donne per non subire violenza” 2012). Nel 2013 si intravede la nascita di osservatori per i femminicidi italiani (o meglio, per i femicidi), come sulla pagina Facebook “No alla violenza sulle donne”2. Posto quindi che i fenomeni di femicidio, e il “satellitare” femminicidio siano di natura responsabilità?- sociale, ci si chiede come tali fenomeni sociali entrino a far parte delle dinamiche interpersonali di coppia, di relazione madre-figlio, padre-figlia, sorellafratello, e portino a uccisioni, violenze, stupri, in un circolo vizioso di misoginia e non rispetto per il genere femminile in toto. Quali sono i fattori di rischio legati al femminicidio? Qual è il “fil rouge” psicologico, temperamentale, attitudinale che accomuna gli uomini che perpetuano violenza sulle donne? 2 AA.VV “No alla violenza sulle donne” https://www.facebook.com/notes/no-alla-violenza-sulle-donne/donne-assassinate-e-femmicidi-2013-documentoin-costante-aggiornamento/659316254084258 9 CAPITOLO II FEMMINICIDIO E VIOLENZA: FATTORI DI RISCHIO “La violenza ha poco a che fare con il desiderio sessuale, nulla con l’amore. Ha molto a che fare con una pulsione aggressiva rinchiusa nel profondo, dove dobbiamo imparare ad entrare.” Cristina Obber, Non lo faccio più, 2012 Il fenomeno della violenza sulle donne è oggetto di studio della psicologia da alcuni decenni. L’obiettivo di tali studi è stato quello di “capire per prevenire”, ma anche, come spesso accade in psicologia, di avere un supporto empirico per dei modelli ipotizzati/teorizzati precedentemente. I modelli che ne derivano sono principalmente cinque. Abbiamo un modello BIOLOGICO, che si inserisce nella costellazione di teorie relative ai comportamenti criminali, antisociali, psicotici. Con questo modello la violenza sulle donne viene spiegata da fattori biologici. Sono poche le conferme empiriche per tale modello, ma in linea generale i fattori biologici sono sempre da considerare. Il secondo modello è quello PSICOPATOLOGICO, che si focalizza su fattori individuali più per quanto riguarda la dimensione psichica e dinamica che le variabili biologiche. Si dà quindi estrema importanza alla storia personale del soggetto che agisce violenza. In tal prospettiva la violenza sulla donna può essere parte di un sistema ben più variegato di deficit funzionali. Nell’approccio SISTEMICO la famiglia viene studiata come se fosse un sistema dinamico fatto di componenti interdipendenti. Il comportamento di un membro è collegato dinamicamente a quelli degli altri membri: oggetto di analisi è quindi la comunicazione, la relazione e le abilità di problem solving della coppia. Nell’approccio SOCIOCOGNITIVO si dà importanza ai comportamenti agiti, a come e quando sono stati appresi. Vengono analizzati comportamenti inappropriati e disfunzionali, che, se sviluppati in giovane età e rafforzati col tempo, vengono replicati in molti contesti di interazione sociale. Con studi sperimentali relativi a questo modello si è scoperto che gli uomini che agiscono violenza sulle donne hanno in larga parte assistito a scene di violenza in famiglia durante l’infanzia. C’è chiaramente da ricordare 10 che l’apprendimento sociale non può spiegare, da solo, il fenomeno della violenza femminicida. C’è infine un approccio definito FEMMINISTA, che pone il focus sui rapporti di potere tra uomo e donna che la società contribuisce a cristallizzare. Secondo tale approccio la struttura sociale “patriarcale” viene ripresa nei micro-sistemi sociali, come la famiglia: al suo interno i rapporti di potere uomo-donna sono esercitati, anche attraverso la violenza. Lo scopo prefissato in questa sede non permette di ampliarli tutti, saranno trattati trasversalmente lungo tutti i capitoli e lungo le analisi dei fattori di rischio della violenza; importante è però ricordare che tutti i modelli spiegano una “prospettiva” di violenza, una sfaccettatura, in vista dell’assessment e del trattamento sia delle vittime sia degli abusatori. 2.1. The Confluence Model Of Sexual Aggression Benché questi 5 modelli abbiano acquisito con gli anni un valido supporto empirico, nessuno, da solo, riesce a spiegare il fenomeno. È risultato necessario quindi un modello plurisfaccettato che accogliesse tutte le sfumature del fenomeno della violenza femminicida. Tale modello viene definito “The Confluence Model of Sexual Aggression” (Malamuth, Heavy, Linz, 1996) e si basa sull’assunto che siano numerose, e interrelate, le variabili che portano alla violenza sulle donne. Può anche essere applicato nel caso di aggressioni non sessuali e deriva da prospettive femministe ed evoluzioniste (Anderson C., Anderson K., 2008). C’è quindi una convergenza di fattori, tra cui la motivazione a commettere un gesto aggressivo e violento, la riduzione dell’inibizione che blocca dal commetterlo, e le variabili che predicono la possibilità di realizzare concretamente l’impulso violento (Malamuth, 1986). L’aggressione, sessuale o non sessuale che sia, segue due “percorsi” precisi: uno legato alla promiscuità sessuale maschile o “Engagement in impersonal sex”, in cui il sesso è visto come “un gioco da vincere”; l’altro legato alla “mascolinità ostile”, caratteristica di quegli uomini che provano astio e diffidenza nei confronti delle donne, e si sentono insicuri nei loro 11 confronti: sentendosi minacciati cercano di mostrare assertività e dominazione per evitare di sentirsi controllati a loro volta. Il “Confluence Model” include anche la variabile di stress legata alle aspettative verso i ruoli di genere maschile, la concezione dello stupro, l’eventuale equivalenza tra sesso e stupro, la motivazione al dominio, le attitudini che permettono di rendere “meno grave” la violenza sulle donne, nonché le esperienze sessuali pregresse e la presenza di eventuali tratti di personalità anti-sociale e psicotiche (Malamuth, 1986). Attraverso la ripresa di tali variabili, e dei modelli presentati all’inizio del capitolo, si può effettuare una lettura trasversale di quelle che sono state le ricerche più complete sul fenomeno. 2.2 Aspettative Sociali Legate ai Ruoli di Genere. Si intende per “ruoli di genere” una serie di comportamenti e relative norme associati ai maschi e alle femmine, rispettivamente, in un dato gruppo o sistema sociale (Reiter, 1975) e in qualche modo imposti, direttamente o indirettamente, dalla società (Simoncelli, 2006). Tra questi comportamenti troviamo per esempio l’aggressività e la dominazione per i maschi, e la sottomissione e la debolezza per le femmine. Il ruolo sessuale più appropriato per gli uomini è legato al potere, e Griffin (1979) arriva ad affermare che “L’erotismo maschile va perfettamente a nozze con il potere: non solo l’uomo deve essere più alto e più forte di una donna, ma deve anche dimostrare la sua supremazia in qualsiasi gesto che viene percepito come amoroso” Nello studio di Murnen, Wright, e Kaluzny (2002) sono state analizzate alcune variabili legate alla Mascolinità: riprendendo Killmartin (1994) la mascolinità viene caratterizzata dall’aggressività, dalla tendenza allo scopo (è “goal-oriented”), scevra di emotività e tendente all’oggettificazione della donna, al fine di averla “a distanza” sul piano emotivo (Brannon, 1976), ma a portata di mano per i rapporti sessuali. Non esiste un modo 12 univoco di aderire alla mascolinità: i livelli di adesione sono circa cinque. Non tutti i livelli sfociano poi necessariamente nella violenza di genere: i più alti livelli di correlazione si trovano nel livello definito da Krahe (2000) di Ipermascolinità (hypermasculinity) e Ideologia Patriarcale (patriarchy ideology). L’Ipermascolinità, o “costellazione della personalità macho” (“macho personality constellation”) è un esempio di estrema adesione al ruolo di genere maschile. Il macho crede fermamente che la violenza sia “roba da uomini” (Mosher e Sirkin, 1984). Più alto è il livello di adesione a tale costellazione maggiore è la possibilità che si presentino aggressioni sessuali (Mosher e Anderson, 1986; Mosher e Sirkin, 1984). Mosher e Thomskin proposero un modello di sviluppo di tale personalità, in cui sembra fondamentale, per la sua formazione e strutturazione, la concezione di “debolezza e femminilità” relativa ai sentimenti, soprattutto quelli di paura e di stress. Tale concezione della mascolinità, dominante e aggressiva, ha l’egemonia sulla mascolinità stessa, nel senso che risulta essere la più forte e “quella più desiderabile” (Connell, 1996), e come analizza Beltramini (2011) a partire dagli studi di Flood (2002) si possono ritrovare in tale concezione alcuni “indicatori” che costituiscono questa Mascolinità: la competizione e l’essere forti e dominanti (Connell, 2006); la tendenza a preferire ed esaltare la “normalità sessuale” (quindi di conseguenza c’è l’adesione all’ omofobia e culto dell’eterosessualità); adesione al modello virile (basato sul quantitativo di relazioni sessuali e sulla narrazione delle proprie prestazioni sessuali); la non accettazione della vulnerabilità; e infine, la violenza sulle donne. Quest’ultimo indicatore che Beltramini indica è supportato casisticamente: la violenza sulle donne è più frequente nei paesi nel quale il concetto di mascolinità è maggiormente legato alla dominazione, alla durezza, all’onore maschile Di contro, esistono società in cui al maschio non vengono associate accezioni di violenza, forza, dominazione e la violenza sulle donne –come sui pari, o sui bambini- non sembra assolutamente contemplata (Danna, 2007). Nella nostra società e cultura, invece: “…gli uomini che si identificano con un’immagine tradizionale della mascolinità, che presentano attitudini ostili e sessiste nei confronti delle donne, che vedono l’aggressività come un attributo maschile e desiderabile e che aderiscono ai miti sullo stupro, hanno una probabilità maggiore di essere fisicamente e sessualmente molesti o violenti.” (Heise, 1998). 13 2.3 Miti legati allo stupro, concezione del sesso come stupro, motivazione al dominio e attitudini che giustificano la violenza sulle donne “Solo promuovendo l’idea di una sessualità mutua, liberamente scelta, di un’interazione pienamente consapevole […] la società può creare un’atmosfera libera dalla minaccia dello stupro” Burt, 1980 I miti legati allo stupro sono delle false credenze specifiche relative allo stupro, alle vittime dello stupro e agli stupratori (Burt, 1980). Esempi di tali miti sono: “Alle donne piace essere stuprate, e se non lo volessero potrebbero dire di no” o anche “Le donne che si vestono in maniera provocante e vengono violentate se la sono cercata”. Burt costruì una scala per misurare l’adesione a tali miti, chiamata Rape Myth Acceptance (RMA). Questa scala ha un’alta correlazione con l’AIV (Acceptance of Interpersonal Violence Scale) e con l’ASB (Adversarial Sex Beliefs Scale) e in linea generale con la scala relativa all’aggressione sessuale (SA), in quanto contiene attitudini e opinioni che la giustificano. Burt argomentò che tali convinzioni fossero importanti nella creazione di un clima sociale Rape-Prone (‘propenso’ allo stupro). Secondo Lonsway e Fitzgerald (1994) i miti dello stupro sono necessari nella società patriarcale che vuole sottomettere e controllare le donne. I miti legati allo stupro sono forti e ben radicati nella società occidentale, ma non bastano a spiegare la violenza, lo stupro, gli omicidi di genere. Ci dev’essere una situazione specifica che porti questi “miti” a concretizzarsi nelle situazioni di violenza (Hall e Hirschman, 1991). Secondo Neidig, Friedman e Collins la violenza nasce quando i ruoli “di genere” vengono attaccati o indeboliti: quando cioè i maschi si mostrano deboli, vulnerabili, vengono lasciati, o insultati, o perdono il lavoro. Ma non basta, questo non spiega tanta violenza, perpetrata anche in mancanza di dinamiche simili. Perché quindi questi uomini che hanno accolto i miti sullo stupro stuprano e agiscono violenza sulle donne? Malamuth e colleghi parlano di “mascolinità ostile”, una costellazione cognitiva che risulta essere presente in molte culture occidentali e che combina fattori quali il desiderio di controllo, di dominio, e un 14 atteggiamento insicuro, di difesa e aggressivo verso le donne. L’ideologia patriarcale che vuole la donna “subordinata” (Sugarman, Frankel, 1996) accoglie tali miti e li fa suoi, accanto alle stereotipie di genere e alla perpetuazione dei cosiddetti “tratti di genere”, socialmente costruiti e ciclicamente riproposti. La ricerca di Burt denuncia il fatto che l’accettazione della violenza interpersonale e dello stupro sia correlata con la poca conoscenza che si ha relativamente ai postumi traumatici. Ma non solo: alcuni stupratori (soprattutto coloro che agiscono violenza su donne a loro conosciute) utilizzano lo stupro come mezzo per umiliare e ferire la donna. Nonché come arma di guerra: basti pensare all’uso sistematico dello stupro nella guerra che interessò la Bosnia-Erzegovina fino al 1995. Ancora non c’è giustizia per le donne violate né una punizione per i militari che hanno usato questa potente arma di attacco di massa (Documentario di Amnesty International, “Still on the Frontline” 2013). Per quanto riguarda la concezione del sesso come stupro risulta utile analizzare le ricerche già citate di Malamuth e Burt, ma anche alcune che hanno cercato di valutare la correlazione tra la preferenza per una sessualità “violenta” e l’attitudine a comportamenti violenti verso le donne. La ricerca di Malamuth, Hald e Koss (2012) è volta a indagare la fruizione di pornografia violenta e la sua correlazione con l’accettazione della violenza contro le donne. Le ipotesi erano tre: la prima intendeva confermare l’associazione tra quantitativo di fruizione della pornografia e ASV (Attitudes Supporting Violence Against Women); la seconda vedeva la pornografia violenta come fattore di rischio per soggetti con alti livelli di ASV e alti punteggi in altre scale individuali relative a RMA (Rape Mith Acceptance) e SA (Sexual Aggression attitudes); la terza, prevedeva una circolarità, soprattutto per i soggetti con alti livelli nelle scale sopra citate, tra ASV e fruizione di pornografia: quest’ultima viene vista quindi sia come fattore di rischio che come conseguenza. I risultati confermarono la prima ipotesi, e in parte anche la seconda e la terza: gli uomini ad alto livello di rischio (che presentavano quindi anche caratteristiche antisociali, alta esposizione alla violenza, alti livelli di Hostyle Masculinity e di Impersonal Sex (scale del Confluence Model of Sex Aggression, Malamuth, 1991), presentavano differenze intergruppali in funzione al consumo di pornografia. Più alto era il consumo di pornografia violenta e più alto era il livello di ASV. Gli autori della ricerca evidenziano come, per indagare le caratteristiche di rischio dei soggetti, siano state utilizzate definizioni di aggressività e violenza non 15 esplicite. Veniva per esempio chiesto quanto fosse apprezzato l’utilizzo del dirty talking (“il parlare sporco”) nella pornografia violenta, lo sculacciare, imbavagliare, il causare soffocamento: tutte cose che, se ripetute in maniera così cronica e pervasiva come nella pornografia odierna fanno passare dei messaggi denudati della loro natura erotica ma pregni di violenza, di giustificazione alla violenza sulle donne, e rinforza l’accettazione del dominio, del controllo sulle donne stesse. Come previsto dalla terza ipotesi, la pornografia violenta e un alto livello di ASV entrano in un circolo vizioso, difficile da scalfire soprattutto su quei soggetti che hanno una visione ostile e/o di dominazione della sessualità e delle donne, che spesso vedono come suddivise in “madonne” o “prostitute”: una dicotomia ingabbiante che può riproporsi e cristallizzarsi ancora se la pornografia estrema si basa troppo, e in maniera incessante, solo su degradazione e aggressione della donna. Cosa succede invece nelle dinamiche di violenza all’interno di una coppia, o di una diade in cui è la donna ‘conosciuta’ (la moglie, la fidanzata, la sorella, la madre) a subire violenza da parte di un altro significativo? Secondo le ricerche di Finkel ed Eckhardt (2011) e secondo il loro modello chiamato “I3 Theory”, ci sono molti fattori all’interno di tali dinamiche di violenza: alcuni fattori sono di rischio e altri di protezione. Non vengono considerati in maniera categoriale, ma, un po’ come nel Confluence Model di Malamuth, concorrono a seconda delle circostanze, delle interazioni, del momento presente, a evitare o ad “accendere” la violenza. Si parla insomma di fattori che spingono e altri che inibiscono; quando questi ultimi sono numericamente inferiori o meno forti dei primi, la violenza scatta (non in termini di raptus improvviso, quanto più come una reazione “in potenza” che diventa “atto” quando sono presenti le condizioni). Tra i fattori relazionali che disinibiscono la violenza c’è la mancanza di empatia, data spesso dal basso grado di “commitment” nella coppia. 16 2.4: La Psicopatologia “Ci sono ancora i padri-padroni, che s’aggrappano con tutta la forza dei loro muscoli a un potere millenario e anacronistico. C’è una minoranza di uomini con disturbi psichiatrici, che andrebbero diagnosticati e curati. Ci sono gli irriducibili che picchiano, schiavizzano, in alcuni casi uccidono e non si chiedono nemmeno perché” Corriere della sera, Archivio, “<<Perché lo abbiamo fatto>> parlano gli uomini” Disturbi psichiatrici che andrebbero diagnosticati e curati: anche questi possono causare la violenza sulle donne. Per Porter, Campbell, Woodworth e Birt (2002) alcuni sex offender (stupratori o molestatori) andrebbero classificati come affetti da Sex Psychopathy. Per Psicopatia in generale s’intende una costellazione di caratteristiche relazionali di manipolazione, egocentrismo; caratteristiche affettive come la mancanza di empatia, di rimorso, o di senso di colpa; caratteristiche comportamentali come l’impulsività, l’irresponsabilità, i comportamenti criminali. I casi che espongono riprendono tali pattern della psicopatia, ma non in toto: gli psicotici sessuali, secondo gli autori, non provano empatia o rimorso per le loro vittime, ma non hanno problemi di rabbia incontrollata o di impulsività, né tantomeno c’è una parafilia. I comportamenti di questi soggetti sembra guidata più dalla ricerca di sensazioni forti che da parafilie o da rabbia incontrollata, e affermano che la grande eterogeneità che si trova nei casi di aggressioni sessuali o crimini sessuali possa essere spiegata dalla psicopatia soprattutto nel caso di crimini gravissimi come i femicidi singoli o seriali. Un altro elemento importante che gli autori hanno sottolineato è che la recidività del comportamento criminale colpisce i soggetti psicopatici e non gli altri uomini che hanno perpetrato violenza spinti da altri variabili (come abbiamo visto, cognitive e situazionali di varia natura). Il loro lavoro auspica la creazione di un costrutto di Psicopatia Sessuale, ma per ora non c’è una conferma empirica per la presenza di un vero e proprio disturbo, benché siano riportati numerosissimi casi di stupratori/violenti/femicidi con un disturbo di personalità. Uno studio effettuato su una popolazione di stalkers ha evidenziato il fatto che la maggior parte, se comparata con un gruppo di controllo con soggetti non appartenenti alla popolazione criminale, presenta moltissime caratteristiche psicopatologiche. Come per esempio tratti di personalità borderline: quindi problemi con 17 l’emotività e la gestione della rabbia, e uno stile interazionale di tipo manipolativo. I soggetti della ricerca presentano inoltre la presenza di problematiche relazionali e minori capacità di problem solving: quest’ultimo fattore potrebbe spiegare la ripetitività dei gesti di stalking, il seguire e spiare la vittima designata, l’incapacità di risolvere un conflitto in maniera responsabile e l’impossibilità di superare difficoltà personali e interpersonali in maniera adattiva. La psicopatia si è rivelata particolarmente rilevante per la criminologia e le pratiche giuridiche, in quanto collegata a tantissimi crimini, anche di natura sessuale: Declercq, Willemsen, Audenaert, e Verhaeghe (2012) hanno analizzato tale relazione legandola al comportamento predatorio, ovvero a tutti quei casi di aggressioni “calcolate”, che partono da impulsi endogeni e non come reattivi a stimoli esterni. La maggior parte delle vittime di aggressioni predatorie da parte di soggetti con psicopatia sono sconosciuti, estranei (Hare, Wong, Williamson, 1987): e l’aggressione è il frutto di un’attivazione emotiva intensa che non è stata stimolata dall’esterno, bensì è creata da pattern cognitivi e comportamentali, e di personalità come la grandiosità, l’arroganza, il desiderio di dominio, la manipolazione, l’incapacità di creare legami emotivi sinceri con altri e la mancanza di senso di colpa e mancanza d’ansia. Il legame tra crimini sessuali e psicopatia è ricordato anche da Perdue e Lester (1972), che utilizzando il MMPI-2 trovarono punteggi importanti nella scala 4 (deviazioni psicopatiche) in abusatori sessuali. Ma la psicopatia non tocca tutti gli stupratori/femicidi: non deve essere eretta a giustificazione. Scully and Marolla (Convicted rapists attitudes towards women and rape, 1982) effettuarono una ricerca all’interno delle carceri, e riportano che gli stupratori accettavano i rape myths più dei criminali non stupratori, ma che i restanti atteggiamenti e “miti” relativi alla figura della donna dei due gruppi non erano poi così diversi. 18 2.5 Conclusioni Variabili individuali, eventuale psicopatia, messaggi che arrivano dalla società, modelli di mascolinità a cui doverosamente aderire, confluiscono e interagiscono tra loro: con alcuni soggetti si arriva alla violenza, con altri no; alcune donne vivono la violenza in maniera continua e sistematica, altre solo ogni tanto, altre mai. La violenza sulle donne è un argomento scottante, transculturale, trasversale a molti aspetti della vita e della società. Implica il far male a un'altra persona, a un altro essere umano, che riteniamo forse troppo diverso per non essere capito e “risparmiato”. Forse troppo diverso da non sentire nessuna umanità in lei, nessun legame emotivo, nessun legame empatico. Considerando la multidimensionalità del costrutto di empatia, la risposta non è assolutamente lineare: tanti abusers, sex offenders e sexual killers riescono a riconoscere i sentimenti altrui, ma nonostante questo non si fermano nell’agire violenza, come se l’empatia si “bloccasse” davanti a una donna, influenzata da tutti i fattori di rischio visti precedentemente. Che ruolo ha l’Empatia nelle dinamiche di violenza sulle donne e nei femicidi? 19 CAPITOLO III L’EMPATIA E LA VIOLENZA SULLE DONNE 3.1 L’empatia: definizioni, modelli; come interagisce con altri fattori L’empatia è una complessa proprietà psicologica in cui sono combinate facoltà come l’osservazione, la memoria, la conoscenza pregressa e il ragionamento, al fine di penetrare a fondo nei pensieri e nelle sensazioni degli altri (Ickes, 1995). Capire le emozioni, i desideri, le intenzioni altrui si rivela fondamentale nella creazione e nel mantenimento di legami sociali con gli altri: è infatti una funzione regolativa per la socialità umana, in quanto permette di “entrare” nell’altro, nella sua prospettiva, ma in maniera “vicaria” (Forgiarini, Maravita, Gallucci, 2011). Le componenti dell’empatia sono multiple, per Davis (1980, 1983) sono 4: fantasia e immaginazione (quella che mettiamo in moto immedesimandoci nei personaggi dei film o dei libri), capacità di acquisire la prospettiva altrui, pensiero empatico, reazione (comportamentale) alla persona che soffre il disagio. Per Marshall, Hudson, Jones e Fernandez (2007) il processo empatico consta di quattro fasi: 1) riconoscimento dello stato emotivo dell’altra persona; 2) capacità di adottare la prospettiva dell’altra persona; 3) provare compassione, o un sentimento analogo a quello provato dall’altro; 4) entrare in azione per migliorare lo stato emotivo altrui (se negativo). L’empatia ha importanti implicazioni per la crescita morale e la condotta, nonché per la vita sociale: l’abilità cognitiva di acquisire in maniera “vicaria” un altrui punto di vista serve a ridurre il conflitto e a inibire l’aggressività. (Neidig, Friedman, Collins, 1986). Non è considerabile un tratto di personalità, quanto piuttosto una facoltà psicologica specifica per ogni persona e per ciascuna situazione (Cottrell, 1942), attivata o inibita secondo il “frame” situazionale e circostanziale. Se fosse invece sempre agli stessi livelli e in ogni contesto, si avrebbe un livello di “Empatia Promiscua”, per Hoffman (2000) inutile e inadattiva. All’estremo opposto rispetto all’Empatia Promiscua abbiamo la quasi assenza di empatia, 20 riscontrabile in disturbi psichiatrici quali Disturbo della Personalità Antisociale, Disturbo della Personalità Narcisistico, e Disturbo della Personalità Borderline, e nei disturbi dello spettro autistico (Decety, Moriguchi, 2007). Secondo un’accurata analisi di Marshall, Marshall, Serran e O’Brien (2007) l’empatia è presenta complessi legami con il senso di colpa, la vergogna, e l’autostima. E ha delle implicazioni precise nei casi dei sexual offenders, come vedremo più avanti. L’empatia è una capacità psicologica che va “allenata” e protetta: sono numerose le ricerche che sottolineano come l’esposizione alla violenza familiare sia un fattore di rischio per la personalità e la capacità empatica dell’individuo e che, al contrario, sottolineano come genitori responsivi, empatici, che si prendono cura dei figli in maniera autentica siano fondamentali per la crescita di adulti empatici. Infatti: “Responsive and nurturing parenting is the key to optimal early childhood development; it allows the young brain to develop in a way that is less aggressive and more emotionally stable, social and empathic. Good early childhood development leads to good human development.” (“Roots of Empathy: responsive parenting, caring societies” Mary Gordon, 2003). Rimarcando l’importanza dell’empatia per le relazioni sociali, per le relazioni interpersonali, e per l’inibizione dell’aggressività, approfondiamo ora il ruolo dell’empatia nella violenza sulle donne, comparando le diverse ricerche fatte negli anni. 3.2 L’empatia e la violenza: una correlazione negativa Nel corso degli anni le ricerche hanno sottolineato la presenza di deficit di empatia nei sexual offenders, negli stupratori, negli uomini violenti. Come detto in precedenza, la violenza è presente anche e soprattutto tra le mura domestiche: gli uomini violenti agiscono quindi sulle donne “di casa”, mogli, sorelle, figlie. Finkel ed Eckhardt nel 2011 21 hanno proposto un modello che spiega la violenza domestica e le dinamiche violente di coppie in una relazione coniugale: hanno analizzato i fattori che bloccano la violenza, e gli altri che invece la catalizzano. Tra i fattori disinibenti abbiamo l’empatia, ovvero la capacità di sentire quel che il partner sente: in una situazione di conflitto insomma, tra fattori circostanziali che istigano (offese da parte del partner, provocazioni), tratti di personalità ereditati o appresi (facilità ad arrabbiarsi, impulsività), l’empatia, al pari di un grosso impegno (committment) nella coppia, può favorire il risolversi della situazione conflittuale senza sfociare nella violenza, né verbale né fisica. Un’altra analisi, condotta da Clements, Holtzworth-Munroe, Schweinle e Ickes (2007) ha approfondito il costrutto di Empathic Accuracy (Thomas & Fletcher, 1997), inteso come la capacità di una coppia di leggere e capire in maniera appropriata lo stato affettivo e cognitivo dell’altro membro della coppia. Effettuarono tre batterie di esperimenti, e i gruppi studiati erano tre: coppie violente, coppie non violente ma con elevati stati di distress emotivo, e coppie non violente e senza livelli di distress. L’Empathic Accuracy venne analizzata secondo tre modalità: l’analisi in laboratorio di una discussione tra i membri della coppia, con successivi questionari alla coppia stessa; l’osservazione della coppia e delle loro interazioni da parte di un osservatore esterno; l’analisi della risposta empatica del maschio della coppia nei confronti di altre donne. Si trovò che nelle coppie violente l’Empathic Accuracy dei maschi era molto bassa: la partner veniva percepita come ostile e aggressiva (anche quando l’osservatore esterno non la giudicava tale) e numerose erano le distorsioni cognitive relative all’altrui modo di porsi e all’altrui modo di pensare. Clements, Holtzworth-Munroe, Schweinle e Ickes hanno sottolineato il ruolo delle distorsioni cognitive presenti all’interno delle coppie violente: tali distorsioni non permettono un’ adeguata decifrazione dei messaggi comportamentali e/o degli stati d’animo delle loro compagne. Analoghi punteggi sono stati rivelati per quanto riguarda l’Empathic Accuracy verso donne sconosciute: venivano mostrati dei video in cui dei target donna mostravano emozioni o pattern comportamentali di un certo tipo: gli uomini del gruppo ‘violento’ mostravano meno empatia e molte distorsioni cognitive, quali il vedere la donna come ostile, bugiarda, manipolatoria. 22 La ricerca di Covell e Scalora (2001) si dedica ai sexual offenders (stupratori e molestatori), e ha delle accentuate analogie con la ricerca di Clements, HoltzworthMunroe, Schweinle e Ickes per quanto riguarda il legame tra empatia e distorsioni cognitive. A queste Covell e Scalora aggiungono le abilità sociali, lacunose nei sexual offenders, i quali infatti non riescono ad avere relazioni interpersonali stabili emotivamente e con un adeguato livello di intimità. Presentano anche deficit nella regolazione emotiva, collegata all’empatia. La mancanza di empatia permette al molestatore, allo stupratore e al violento di eliminare qualsiasi ansia, senso di colpa o perdita di autostima conseguentemente alle proprie azioni. L’empatia in letteratura è stata collegata spesso anche alla mancanza di controllo degli impulsi e all’aggressività, nonché alla mancata accuratezza nella percezione di stimoli sociali. Come abbiamo visto precedentemente, i maschi con alto livello nella scala di AIV (Acceptance of Interpersonal Violence) sono quelli che più accettano i Rape Myths (Burt, 1980) e che quindi hanno meno capacità di lettura dei comportamenti delle donne, valutando gli atteggiamenti di queste ultime come ostili e aggressivi. Anche Marshall e colleghi (2009) parlano dei legami tra empatia, senso di colpa e autostima: il loro modello delinea un processo di attivazione/disattivazione della risposta empatica in un sexual offender, a seconda dell’iniziale livello di autostima. Se l’individuo che agisce violenza o stupra ha una bassa autostima, ci sono due possibilità, riconoscere o non riconoscere il male fatto all’altra persona: nel primo caso abbiamo il riconoscimento del dolore altrui, la vergogna, la sopraffazione della vergogna che rimane a livello del Sé e lo sovrasta, facendo star male il sexual offender, ma senza metterlo in grado di attuare dei comportamenti riparatori. Nel secondo caso invece abbiamo la vergogna, e un successivo blocco nel riconoscimento del dolore provocato; quindi, nessuna possibilità di manifestare un comportamento empatico. Nel caso invece di un livello di autostima alto o normale, le possibilità sono sempre due: la mancanza di risposta empatica data dall’indifferenza o da una personalità sadica, che mira a non intaccare l’autostima adeguata, ma forse labile; o una risposta empatica, unico caso positivo del modello di Marshall e colleghi, in cui al posto della vergogna c’è il senso di colpa, un successivo riconoscimento del dolore provocato, la possibilità di assumere la prospettiva della vittima, e il successivo innesco empatico di comportamenti di riparazione. 23 Marshall e colleghi ci tengono a sottolineare che l’ultimo esempio sia pressoché raro nel caso di sexual offenders, ma che questi ultimi possono innalzare le proprie capacità empatiche con trattamenti mirati, basati sull’imparare a riconoscere la sofferenza delle proprie vittime e il valore della propria vergogna. Il fatto che i sex offenders non provino senso di colpa, bensì vergogna (e quindi meno capacità empatiche, e meno riconoscimento della sofferenza causata) può essere spiegata da una lacunosa acquisizione del confine tra Sé e Altro: l’empatia richiede di identificarsi con l’esperienza emozionale di un'altra persona ma senza perdere i propri confini. Nelle persone con abilità empatiche immature, un fallimento nel distinguere tra stati emozionali del Sé e dell’Altro può far sì che si soffermino solo sul loro personale stato di distress, inibendo l’attività empatica (Covell, Scalora, 2002). Nella ricerca di Pryor (1987) intitolata “Sexual Harassment Proclivities in Men”, diventa chiaro il collegamento tra attitudine allo stupro e alla molestia sessuale e deficits nelle capacità empatiche: vennero misurate le correlazioni tra le quattro dimensioni (cfr, capitolo 3) dell’empatia della scala di Davis (1980, 1983) e la LSH (Likelihood to Sexual Harassment, propensione alla molestia sessuale). La LSH risultò essere correlata negativamente con la capacità di assumere la prospettiva altrui (seconda scala di Davis), come se per i sexual offenders risulti difficilissimo se non impossibile “mettersi nei panni” della propria vittima. Nella ricerca vengono anche sottolineati i collegamenti tra accettazione dei Rape Myths e LSH, e l’autore li associa a un’insensibilità empatica di base che non permette di capire il malessere delle donne molestate (Pryor, 1987) al fine di proteggere la dominazione maschile, dominazione che non permette sensi di colpa. Il senso di colpa per la violenza sulle donne spesso viene mitigato dai media, che di violenza e femminicidi parlano ormai tutti i giorni. In una ricerca dal titolo “Twice Hurt: How Newspaper Coverage May Reduce Empathy and Engender Blame for Female Victims of Crime”, di Anastasio e Costa (2004) sono stati analizzati 148 articoli di giornale: uomini e donne sono ritratti in maniera diversa, primi piani e mezzi busti per i primi (che iconoclasticamente indicano dominazione e intelligenza) , mezzi busti ampi con visione del seno o addirittura a figura intera per le donne. Analizzando poi articoli che trattavano di violenza e femicidi Anastasio e Costa trovarono che la vittima veniva silenziosamente colpevolizzata, per esempio dicendo per quanti anni la donna avesse vissuto la violenza da parte del partner: questo porta il lettore a pensare che “se la sia 24 cercata”. La violenza inoltre viene sempre fatta passare per “personale” e collegata a degli episodi passati di conflitto della coppia, come per esempio quando la donna ha espresso la volontà di lasciare il tetto coniugale; sottolineando solo questa dinamica e con accezione abbandonica si giustifica la violenza e si continuano a perpetuare gli stereotipi sulla donna (Meyers, 1997). Spesso si parla dell’assassino come di un uomo che soffre, con una”ossessione passionale” per la moglie, e spesso si parla della vittima come causa di questa ossessione. Molto spesso poi, a fronte di un’ampia descrizione dell’uomo che ha ucciso, manca una descrizione appropriata della vittima: manca un’accurata personalizzazione di quest’ultima ed eccede invece per quanto riguarda il femicida. Ciò fa sì che si riesca a provare empatia per l’uomo, ma non per la vittima. E questo invece sarebbe molto importante per le donne vittime di femminidicio. Come affermano Michela Murgia e Loredana Lipperini: “C’è una responsabilità anche nel centellinare alla donna uccisa il nome proprio e continuare a definirla come la moglie, la compagna, la fidanzata o ex del suo assassino. Le donne sono persone, non funzioni; chi ti uccide non lo fa perché ti ama, ma perché non riesce a concepirti fuori dalla tua funzione” (“L’ho uccisa perché l’amavo” FALSO!, Ed.Laterza, 2013, pag. 9) Le capacità empatiche si rivelano quindi fondamentali nell’evitare dinamiche di violenza, e femicidi: se tutti gli elementi dell’empatia sono presenti si riesce a esser consapevoli degli stati emotivi altrui e si attiva un autentico senso di colpa nel caso di dolore provocato in prima persona, o una vicinanza emotiva alla vittima. 3.3 Empatia e Deumanizzazione Il fallimento nelle capacità empatiche potrebbe essere associato con la percezione che l’altro sia poco profondo ed emotivamente impoverito, e che quindi non abbia umanità o “calore umano”: questi son i principali fattori della Deumanizzazione. La Deumanizzazione è un processo che, a livello interpersonale e sociale, fa sì che i membri 25 dell’outgroup vengano considerati come “animali” o come “meno umani”, e quindi come “inferiori” rispetto ai membri dell’ingroup (Haslam, 2006; Leyens et al., 2000). Queste rappresentazioni legittimano azioni violente e discriminatorie: i membri dell’outgroup vengono considerati come meno capaci di provare emozioni e dolore, e quindi meno meritevoli di rispetto e considerazione (Costello, Hodson, 2009). La Deumanizzazione si collega all’empatia: riuscire a considerare le altre persone come pienamente umane (umanizzazione) richiede di apprezzare la mente altrui, gli altrui intenti, pensieri e sentimenti (Fiske, 2009) e, come abbiamo visto, per farlo abbiamo bisogno di capacità empatiche. Per Fiske, considerare un'altra persona come umana significa attribuirle calore, umanità, competenza: dapprima si valuta emotivamente se l’altro ha buone intenzioni, è amichevole, sincero, merita fiducia. In secondo luogo si valutano cognitivamente la competenza, la capacità, e l’essere agenti attivi della propria vita. Una specifica forma di deumanizzazione è l’oggettivazione, con la quale si considerano gli altri come “automi” (oggetti, macchine, robot). I target di questo tipo di oggettivazione sono i gruppi molto competenti ma considerati poco “calorosi”, poco “umani”, come le persone ricche, o gli Asiatici e gli Ebrei, conosciuti per la loro produttività e preparazione. Tra questi gruppi, oggetti di deumanizzazione “meccanica” (Haslam, 2006), ci sono anche le “nontraditional women”: le professioniste, le lesbiche, le femministe, le grandi seduttrici. Sono viste come “fredde” ma competenti, e vengono considerate come minacciose e meno “umane” da quegli uomini con un alto livello di sessismo ostile. Attitudini sessiste ostili predicono una minore attribuzione mentale per le donne di questo tipo. L’attribuzione mentale fa capo alla Theory of Mind (Premack e Woodruff, 1978) e alla mentalizzazione, ovvero alla capacità di attribuire all’altro l’esistenza di una loro mente, l’attività e i contenuti di quest’ultima. Tali capacità vengono attenuate soprattutto per i target femminili “sessualizzati”, come quelli che vediamo ogni giorno in tantissime pubblicità e nei media. (Cikara, Eberhardt, Fiske, 2010). Nella loro ricerca, Cikara, Eberhardt, e Fiske analizzano i target sessualizzati, cioè la rappresentazione della donna utilizzata per promozioni e pubblicità a fini commerciali. Secondo le autrici, i target sessualizzati vengono considerati in base alla loro utilità; in questo modo viene loro tolta l’etero-percezione di autonomia e agency (definibile come la soggettività umana intenzionata all’azione). Chiaramente, la risposta ai target sessualizzati femminili dipende da chi li percepisce: alcuni uomini più di altri 26 sono predisposti a deumanizzare i target femminili sessualizzati. Secondo Haslam le donne vengono deumanizzate nella pornografia, che spesso le rappresenta come oggetti, senza considerazione morale, legittimando lo stupro, la violenza, la vittimizzazione. Nussbaum (1999) identifica sette componenti dell’oggettivazione femminile: strumentalità e proprietà, che implicano il considerare l’altra come un oggetto, o uno strumento; negazione dell’autonomia e inerzia, che implica il considerarle senza agency e senza autodeterminazione; funzionalità, che implica il vedere le persone come interscambiabili perché ciò che conta è la loro funzione; violabilità, che fa sì che i confini altrui siano considerati violabili, e oggetto di conquista e sopraffazione; negazione della soggettività, che implica il credere che le altrui esperienze e le altrui emozioni possano essere ignorate (Haslam, 2006). La deumanizzazione della donna però non è legata solo alla pornografia, quanto all’intera società: in tutte le culture sono considerate meno “umane”, facenti parte di un ordine di esseri viventi inferiori , e la femminilità è spesso equiparata all’animalità, alla natura, all’infanzia. Anche secondo Haslam la deumanizzazione di cui è oggetto la donna è di tipo meccanico, poiché non le si riconosce la reale natura umana, fatta di calore, agency, umanità; ma anzi spesso, sia nel sessismo benevolente, sia nel sessismo ostile, le donne vengono associate a termini come inerzia, passività, superficialità. Tale tipo di deumanizzazione fa sì che le donne vengano considerate psicologicamente e socialmente distanti: e questo porta all’indifferenza per la loro sofferenza, e alla mancanza di empatia. Una mancanza di empatia che incontra i fattori di rischio analizzati nel Capitolo II, porta ai Femminicidi e Femicidi, e a numeri allarmanti di questi anni. 27 CAPITOLO IV CONCLUSIONI E PROSPETTIVE Abbiamo visto come il fenomeno del femminicidio sia composito e complesso: non include solo l’uccisione delle donne in quanto tali (chiamato da alcune autrici “Femicidio”), ma anche tutte le dinamiche satellitari di violenza fisica e psicologica, di sopraffazione, di subordinazione sociale che toccano la donna in quanto donna. Dinamiche che si ritrovano a livello culturale, sociale, familiare. L’analisi della letteratura sul tema del femminicidio ha permesso di individuare alcuni fattori di rischio: il rapporto tra i generi costruito da aspettative e stereotipi, che vede uomini e donne costretti a cristallizzarsi in categorie e caratteristiche da seguire in maniera stigmatizzante; il perpetuarsi di un certo tipo di mascolinità basata sulla forza e sulla violenza; i miti legati allo stupro e al sesso come stupro; la violenza usata come mezzo di sopraffazione, dominio, controllo; l’ostilità nei rapporti interpersonali, di coppia e no; la psicopatologia; la mancanza di empatia e la deumanizzazione della donna. Tali fattori di rischio s’intrecciano, incontrano le variabili individuali, le storie degli uomini e delle donne che hanno a che fare con la violenza femminicida. L’empatia si rivela un elemento importante per la prevenzione: quando presente, permette di rendere i conflitti di coppia superabili in maniera non violenta, di capire l’Altro/a, di sentire il suo disagio, il suo distress, o qualsiasi altro stato emotivo; permette di capire la sofferenza altrui e di attivarsi per l’Altro/a. Permette di mettersi nei panni dell’Altro/a, lasciando intatto il proprio Sé, e permette quindi di riconoscerlo/a appieno come essere umano, vivente, senziente, agente della propria vita. Risulterebbe importante, a mio avviso, uno studio più completo e approfondito relativo alla modalità con cui un individuo si rapporta più o meno empaticamente alle donne, su come l’individuo attiva l’empatia, sulle distorsioni sociali che la inibiscono: come abbiamo visto, la deumanizzazione (collegata con la mancanza di empatia) deve molto all’immagine della donna che la cultura ha costruito. Andrebbe valutato il livello di empatia nelle famiglie, tra partner in cui si ritrovano dinamiche di violenza. Anche 28 un’analisi della società, e sui processi che questa effettua nel creare o nel diminuire l’empatia verso il genere femminile, andrebbe condotta sistematicamente: quanto giova all’empatia il vedere un nudo femminile nella pubblicità di un qualsiasi prodotto di consumo? O il vedere donne “di contorno” in un programma televisivo? O il leggere cotidie di femicidi in termini di “passione”, “amore”, “gelosia”? 4.1 Scale di valutazione, metodi d’indagine Per valutare e misurare l’empatia esistono varie metodologie. Tra quelle incontrate nel corso dell’analisi troviamo l’EQ, l’IRI, questionari, tecniche di neuroimaging e analisi delle attivazioni fisiologiche attraverso skin conductance. L’EQ (Empathy Quotient), di Baron- Cohen e Wheelwright (2004) è un questionario costituito da sessanta item, tra cui 20 con funzione di distrattori. Esempi degli item sono “Amo prendermi cura delle altre persone”, “Trovo facile mettermi nei panni degli altri” oppure “L’amicizia e l’amore sono cose di poca importanza, preferisco lasciarle perdere”, “vedere gli altri piangere non mi disturba”. Risulta utile per analizzare le differenze individuali, legate al genere, al gruppo di appartenenza. L’IRI (Interpersonal Reactivity Inventory) è stato sviluppato da Davis (1980, 1983) e misura quattro dimensioni dell’empatia, come abbiamo visto nel capitolo III. Per valutare invece l’empatia provata per le vittime di femminicidio andrebbe costruito un questionario che, come nella ricerca di Anastasio e Costa (2004) indaghi il perspective taking del soggetto nei confronti della vittima, valutando le caratteristiche dell’articolo. Infine, anche per lo studio dell’empatia si rivelano importanti le tecniche di neuroimaging: nell’analisi di Decety e Moriguchi (2007) vengono utilizzate tecniche di fMRI e TMS per studiare le aree legate all’empatia e la loro struttura funzionale, e fondamentali sono stati gli studi su soggetti affetti da disturbi di personalità antisociale, 29 borderline, narcistica, nonché soggetti con disordini dello spettro autistico e alessitimia. Anche le tecniche di skin conductance, come nello studio “Racism and the Empathy for Pain on Our Skin” di Forgiarini, Gallucci, Maravita (2011) possono rivelarsi utili per analizzare le variazioni dell’attivazione dell’empatia a seconda dello stimolo presentato. 4.2 Trattamenti basati sull’empatia L’empatia viene citata spesso come costrutto utilizzato in ambito educativo e formativo con coloro che hanno perpetuato violenza sulle donne. Alcuni metodi rieducativi si sono incentrati sul far comprendere l’impatto della violenza agita (effetti a breve e lungo termine, DPTS) sulla donna; altri sulla costruzione di una capacità empatica funzionale verso le donne vittime della propria e altrui violenza. Il trattamento ideale è quindi quello che cambia gli atteggiamenti, non solo i comportamenti. Il trattamento che riguarda i sex-offenders lavora poi su valori come l’onestà, la responsabilità, il rimorso, il senso di colpa, sia a livello individuale che sistemico. La mancanza di empatia è un deficit dai mille frutti: quando l’empatia manca, anche il parenting –e la prole di conseguenza- ne risente. (Roots of empathy, 2004) In alcune comunità la costruzione dell’empatia si è rivelata un buon predittore per un esito positivo del trattamento. Come affermato da Hogan (1969) l’empatia ha delle implicazioni per la crescita morale e la condotta interpersonale. È implicata nella riduzione dei conflitti, in quanto promuove la collaborazione, l’aiuto all’altro, il conforto. E spesso è anche valutata essenziale per superare ed evitare la deumanizzazione (Haslam, 2006), soprattutto quella di tipo meccanicista, che abbiamo visto colpisce il genere femminile. Diverso è il caso in cui chi perpetua violenza presenta una patologia psichica. Wong e Hare hanno affermato che lo sviluppo di empatia nel trattamento di questi soggetti sia correlato con la recidività. Qui gli interventi dovrebbero essere indirizzati a trovare dei modi che facciano cambiare il modo di vedere la violenza, che deve essere trasformata in un “costo” e non come un “beneficio”. 30 Ma per gli uomini fautori di femicidi che non rientrano nelle categorie della psicopatologia, oltre ai training basati sull’empatia servirebbero forse trattamenti più completi, basati anche sull’autostima. O più semplicemente su una nuova forma di socialità, forse essenziale in anni caratterizzati da solitudine e abbandono, e dalla smania del possesso. Come Murgia e Lipperini riportano, riprendendo lo psicoanalista Massimo Recalcati: “[…] quando un uomo […]perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine” Dice Anna Costanza Baldry, responsabile del servizio antistalking di Roma e intervistata da Riccardo Iacona che questi omicidi parlano a tutti noi e ci raccontano di uomini che si sentono offesi nella loro mascolinità, che reagiscono con violenza alle donne. È quindi importante lavorare anche sul concetto di mascolinità attuale. Una concezione che forse va rivista, insieme a tanti altri aspetti comunitari, sociali, individuali, educativi. In vista di una cultura meno violenta, misogina, e meno femminicida. 31 Bibliografia  AA.VV: AA.VV “Casa delle donne, per non subire violenza” Bologna. http://www.casadonne.it/cms/index.php?option=com_content&task=view&id=17 2&Itemid=125  Ileana Alesso, Il Quinto Stato. Storie di donne, leggi e conquiste. Dalla tutela della democrazia paritaria, 2012  Phyllis A. Anastasio and Diana M. Costa: Twice Hurt: How Newspaper Coverage May Reduce Empathy and Engender Blame for Female Victims of Crime Sex Roles, Vol. 51, Nos. 9/10, November 2004 ( 2004)  Craig A. Anderson and Kathryn B. Anderson: Men Who Target Women: Specificity of Target, Generality of Aggressive Behavior, AGGRESSIVE BEHAVIOR Volume 34, pages 605–622 (2008), 2008 Wiley-Liss, Inc.  Simon Baron-Cohen and Sally Wheelwright: The Empathy Quotient: An Investigation of Adults with Asperger Syndrome or High Functioning Autism, and Normal Sex Differences. 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A Riccardo, agli anni che passano, alla sua casa, alle metafore, ai sorrisi bagnati di stupore. .A Ekka, Guido, Elena, Gloria, Mattia, GianMarco, Laura, Walter e Casa Edolo tutta, qualcuno escluso. A Quinzi, Carli, Lau, Tommi e ai troppi pochi amari bevuti. A Roberta, Alice, Giorgio, Raffa, Milena, Sara, per i gossip, le polemiche, l’affetto saltuario ma grasso. Alle voci amiche e a quelle che non sopportano le molestie. A chi non riesco e a chi non voglio ringraziare. Ai paesi che non si dimenticano, alle loro facce inebrianti; e alla mia terra violata, che seppur lontana sta sempre dentro. A Cassandra, a Didone, a Lele Mai, e a me: un rimproverato grazie. 41