Tremolardellamarina
Amar che a nullo amato mai perdona
Il granitico tirocinio dell’eccezionale onestà
Al Teatro Carignano, in prima nazionale, torna a casa no al 9 maggio Il piacere nellʼonestà di Luigi Pirandello
nella rivisitazione di Valerio Binasco
Nel numero del «Marzocco» del 22 ottobre 1905 venne pubblicata la novella di Luigi Pirandello Il tirocinio, poi
raccolta nel volume La giara delle Novelle per un anno (Bemporad, Milano 1928). Una congrega di amici romani,
visto il loro compare Carlo Sgro a passeggio nel centro a bordo di un calesse in compagnia di un «enorme
mammifero in gonnella», gli chiede ragione di tale esibizione, tanto più che Sgro è rientrato a Roma da Milano
dopo due anni dʼassenza. Conosciuto il famoso soprano Pompea Montroni, tanto incantevole per la voce quanto
assai poco per le sue grazie, Sgro sta praticando da otto mesi il «tirocinio» come amico intimo presso casa della
donna, essendosi innamorato della di lei glia adolescente, la bellissima Medea. Ad ostacolare il tutto, però, è la
rigida e ossessiva fedeltà alla regola dellʼonestà da parte del marito del soprano, Michelangelo Castiglione,
coniuge non dʼamore ma di convenienza, per evitare lo scandalo della gravidanza della cantante per la giovanile
relazione con il peraltro brutto marchese Mino Colli, padre biologico di Medea.
Nella primavera del 1917 Pirandello rielaborò il nucleo della novella derivandone il dramma Il piacere dellʼonestà,
inoltrandone il copione il 25 maggio a Ruggero Ruggeri, che ricoprirà poi il ruolo del protagonista Angelo
Baldovino (Vera Vergani era Agata) alla prima avvenuta al Teatro Carignano di Torino il 27 novembre 1917. In
una inde nita città dellʼItalia centrale, convinto dallʼamico di lunga data, il
âneur Maurizio Setti, e da lui
accompagnato, è arrivato da Macerata il decaduto gentiluomo Angelo Baldovino per concludere il matrimonio
con Agata Renni, giovane e bella glia di Maddalena e amante del benestante marchese quarantenne Fabio Colli,
sposato seppur separato e di cui è rimasta incinta. La madre di Agata, Maddalena, grazie agli u ci di Setti, per
impedire un inevitabile scandalo, combina dunque le nozze della
glia con un uomo rispettabile, onesto –
seppure in rovina – e soprattutto estraneo al contesto locale, a nché la relazione tra la glia e il marchese possa
comunque perdurare. Fin da subito, però, Baldovino pone le sue condizioni: oltre a vedersi saldare i debiti, esige
che il nuovo nucleo familiare sottostia alla legge dellʼonestà, rendendo sostanza quanto era stato concepito come
semplice apparenza di comodo. Nato il bambino, al momento del battesimo, le persone intorno a Baldovino
(soprattutto il marchese e Maddalena) non ne possono più della tirannia da lui esercitata con lʼarma eccezionale
di una virtù – lʼonestà – a loro sconosciuta nella sua integrale coerenza. E quindi, per liberarsi di lui e con lʼaiuto
del faccendiere Marchetto Fongi, il marchese architetta una pacchiana quanto fallimentare tru a ai danni di
Baldovino, attribuendogli una illecita sottrazione di denaro dalle casse della società in cui lo ha inserito. Seppur
recalcitrante agli inizi, Agata – cresciuta in una rete di convenienze reciproche tessute da mani ipocrite ed avide
– nel corso del tempo ha modo di apprezzare la dirittura etica del consorte impostole, del tutto inusuale per lei, e
decide di andarsene con lui per una vita altra dagli interessi e dal calcolo.
Nella corrente messinscena di Valerio Binasco, direttore artistico del Teatro Stabile di Torino, nonché regista,
primattore e adattatore del testo, la pièce originaria viene modi cata: scompare il personaggio di Frongi (perdita
non grave, a dire il vero), alleggerendo così la questione nanziaria tra secondo e terzo atto, e dando maggiore
spazio allʼintento vero di Binasco – almeno secondo quanto riportato nel programma di sala – : far agire dʼamore
i personaggi pirandelliani, intrappolati nelle stringenti argomentazioni assegnate loro dallʼautore e risultandone
così emotivamente algidi. Lʼobiettivo, quindi, sarebbe speculare a quanto accade nei Sei personaggi in cerca
dʼautore: come là i personaggi chiedevano di essere ascoltati a nché lʼansia di esistere potesse
nalmente
quietarsi nella rappresentazione compiuta del loro dramma, qui il regista vorrebbe aiutare i personaggi ad
esprimersi, nalmente liberi dai ruoli in cui lʼautore li ha incardinati.
Fin qui nulla di rivoluzionario: ci mancherebbe pure che al regista non venisse concessa la libertà di riproporre i
classici lontano dagli stereotipi ingessati cari al pubblico di abbonati (questione quanto mai attuale nel teatro
musicale, ma divenuta pratica corrente nella prosa dal secondo dopoguerra ad oggi; anche se dai commenti in
sala, fuoriuscire dalla trimurti sacralità autoriale-ambientazione dʼepoca-recitazione verista è ancora non così
semplice). E bene ha fatto Binasco ad istituire il parallelo con i Sei personaggi, dato che in una lettera del 23 luglio
1917 Pirandello annunciava al
glio Stefano (allʼepoca al fronte; verrà fatto prigioniero dopo Caporetto,
deportato al campo di Mauthausen) di avere «la testa piena di nuove cose», la principale delle quali è «una
stranezza così triste, così triste: Sei personaggi in cerca dʼautore – romanzo da fare».
Però.
Lʼinserzione di una esplicita dichiarazione dʼamore da parte di Baldovino ad Agata nellʼatto nale (nellʼoriginale
era tra le righe, e tormentata: arguita e non espressa), ponendo in bocca agli attori un linguaggio nostro
contemporaneo per dire quella cosa lì, sposta il baricentro dellʼazione proprio su questo fulcro, col rischio di
appiattire la vicenda – almeno nella sua parte conclusiva – sul piano di una telenovela vintage (gli ingredienti ci
sono tutti: la peccatrice redenta, lʼuomo maturo soccorrevole, la madre avida, lʼamante facoltoso e infantile),
incastrando personaggi ed attori in vincoli altri dallʼoriginale, ma non per questo migliori: oltre a Franco Ravera,
un parroco disposto a non vedere né sapere pur di acquisire un nuovo e ignaro catecumeno, la bella Giordana
Faggiano è una Agata poco convincente (come lo era stata nel ruolo di Stella nellʼIntervista il giugno scorso), una
bimba capricciosa chetata dai giochi di ombre cinesi di Fabio nel primo atto, alla ricerca di una sicurezza
a ettiva nel daddy di turno (prima Fabio, poi Baldovino); Rosario Lisma rende Fabio Colli il cosiddetto maschio
alfa par excellence (bellimbusto, intrallazzatore, perso di fronte alla minima di coltà; dipende sempre da
qualcosa o da qualcuno: dalla compagna del momento, dai soldi, dal controllo sociale) con un piglio da baüscia a
volte fastidioso; Lorenzo Frediani è Maurizio Setti, il dinoccolato ghe-pensi-mi dellʼadattamento, di facile e
super ciale – se non volgare – cinismo (rimane impresso il suo dimenarsi con movenze shake sulle note di un
crescendo rossiniano); brava davvero, e non da oggi, Orietta Notari (sarebbe bello vederla in una riedizione de
Les bonnes di Genet insieme a Federica Fracassi: speriamo non sia solo un sogno) nel rendere Maddalena una
Madama Pace in eri come mezzana – ancora tormentata – tra la glia ventiseienne e un uomo col doppio degli
anni (il dato anagra co è qui alterato di una diecina dʼanni rispetto allʼoriginale); Valerio Binasco, in ne, è
Angelo Baldovino, dimesso anche quando elegante, ma poco credibile nel suo necessario (ri)scatto di dignità per
lʼeccessivo ricorso ai mezzi toni, nel tentativo di risultare persuasivo ad un contesto, però, sordo a qualsivoglia
sommovimento anche solo lontanamente etico.
Forse si sarebbe dovuta valorizzare meglio una battuta del testo, non espunta, ma un poʼ tirata via: quando per
presentare lʼorizzonte etico – appunto – e cognitivo di Baldovino, Setti ne cita un ragionamento ispirato a
Cartesio. Il riferimento pirandelliano è alle Meditazioni meta siche del
losofo-matematico francese, nel
passaggio in cui (sempli cando di molto) la ri essione sui sogni lo induce a pensare alla labile distinzione tra
veglia e sogno, realtà ed illusione, così che – alla n ne – la capacità di elaborare dubbi da parte del pensiero è
la conferma stessa dellʼesistenza, almeno in forma di pensiero. Che Baldovino veda la granitica fede
nellʼinumano ideale dellʼonestà corrosa dallʼattrazione per Agata era il punto nodale del testo, ma i dubbi
procedono secondo gutta cavat lapidem, non ex abrupto.
Come si ricava dalla scenogra a (di Nicolas Bovey, come le luci) e dai costumi (di Gianluca Falaschi), la vicenda è
spostata agli anni ʼ50, quando il travolgente boom economico si saldava ad un as ssiante perbenismo
acutamente provinciale: lʼabbigliamento (connotato dai set di casta eleganza, i decollété in occhettati, il cappotto
di Astrakan di Maddalena; il cappotto dal collo di pelliccia e – soprattutto – la gonna a corolla, iconica di Dior,
indossata da Agata; il trench e la dolcevita di Setti) viene però tradito dalla foggia del doppiopetto di Fabio
(decisamente più anni ʼ80, come il suo comportamento), dalla vistosa cravatta di Setti nel primo atto e
dallʼabbigliamento senza tempo di Baldovino; i salotti dei primi due atti (riempiti di una sala da pranzo anni ʼ50,
la radio a valvole di radica e poco altro) sono risolti con quinte dagli angoli netti, a rendere un interno luminoso
dai so tti elevati, con le porte a giorno, per sparire poi nellʼultimo atto, in cui i personaggi sono spostati da una
pedana ruotante, in compagnia di una valigia, una sedia e la carrozzina. In una scena delimitata sullo sfondo da
un tendone pieghettato bianco, la conclusione richiama alla mente il Modern times chapliniano, con i due
protagonisti destinati a un avvenire ignoto, ma almeno scelto e congiunto, in compagnia della valigia di cartone.
Questo articolo è stato pubblicato in Uncategorized il maggio 5, 2021
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