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Contro l’insegnamento nelle scuole Paolo B. Vernaglione I recenti e per nulla effimeri movimenti di studenti, insegnanti, precari, “lavoratori della conoscenza” e autonomi, che hanno animato le piazze del 14 novembre scorso e le occupazioni di stabili dismessi in molte città lo scorso dicembre, raccontano una vicenda inedita nel panorama della crisi. A fronte delle “tecnicalità” contabili che l’ex-governo politico di Monti ha imposto in una “lotta di classe” di lunga durata contro tutto ciò che è comune, un’insieme sociale si è strutturato in nome della riappropriazione di condizioni materiali di esistenza erose in profondità dalla crisi. Nel baratro sociale in cui si approfondisce la distanza tra la rappresentanza democratica (sic!) e l’insieme delle istanze sociali che affollano i territori, gli effetti della crisi sembrano disposti lungo due linee di tendenza. La prima corre lungo il rifiuto della rappresentanza e genera una ricomposizione di ampi strati di popolazione europea. La seconda, che segna l’esclusione, precipita l’orizzonte simbolico della “libertà” e l’insieme dei valori “civili” che l’hanno sostenuta nella modernità, in un proibizionismo normativo, in cui la crisi viene raccontata e rappresentata. L’inversione delle libertà civili, sociali e politiche in contenzione, proibizione e disciplinamento di insiemi sociali precari, protagonisti in Grecia come a Madrid e a New York del movimento occupy, passa oggi per la parola d’ordine generale dell’austerità. In suo nome un’irrespirabile volontà di autonormazione regola gesti e comportamenti, gusti e acquisti, affettività e linguaggio, tutti determinati dall’insopportabile unità di misura della decrescita umana ed economica, della revisione degli stili di vita, dell’opaca restaurazione monacale di “valori”, nel sacrosanto declino di quelli ritenuti non negoziabili, come la “difesa della vita”, della famiglia etero e monogamica, nel rispetto per tutto ciò che sa di istituzionale, regolativo, educativo (sic!). Reagendo alla deriva spettacolar–speculativa dei mercati, la revisione della spesa pubblica, che sta producendo la fine dello stato sociale, genera un orizzonte simbolico giudiziario-detentivo, enunciato nelle proposte di limitazione delle slot machine nei bar e delle bevande con bollicine (coca-cola e affini)…Se non che nei casi più ingenui e flagranti di proibizionismo, che sottostanno all’imposizione del pareggio di bilancio in Costituzione, il capitale si rivolta contro se stesso, contro lo Stato e contro l’economia reale, in nome della libertà di profitto. Nel corto circuito prodotto dalla devastazione umana e ambientale (ILVA) e dalla rendita che usa lo Stato-biscazziere e il laissez faire (Marchionne), come assoluti intoccabili, è anzitutto un sapere della libertà che si incenerisce. Un sapere legale, perché popolare, della libertà, vigente prima della scoperta, nel paese delle stragi e dei segreti, della trattativa Stato-mafia, che ha perimetrato la zona della sovranità semilegale dello Stato e oggi ne riarticola poteri, ne disloca l’autonomia rispettiva, colloca i soggetti in spazi anomici, ma legalizzati. Spazi in cui è possibile praticare quelle libertà economiche e di arricchimento, ieri rivendicate contro lo Stato, oggi in connessione con esso, che sia targato Goldman&Sachs o BCE. In questa dimensione si assiste alla caduta delle libertà, che è il sapere di esse, l’esser vissute in quegli spazi di conoscenza, ieri garantiti dall’istruzione e dalla formazione, oggi invertiti in zone di contenzione e di deferimento. Le libertà individuali, a cui per lo più si allude quando ci si riferisce ad esse, crollano oggi per la stesa ragione per cui sono sempre esistite: sono effetti di libertà collettive, sociali, di zone di cooperazione, generate naturalmente dall’umana facoltà di linguaggio, in quei luoghi in cui ogni libertà può essere conosciuta: le scuole, le università, i centri di ricerca, i laboratori, i teatri, i cinema. D’altra parte la securizzazione dei territori, che la crisi acuisce in ragione diretta alla protesta sociale, è l’altra faccia della illibertà elevata a sistema simbolico ed educativo…in nome della libertà! La scuola baby-sitter è il pendant della socialità frantumata. Il ruolo della scuola e dell’istruzione è dunque centrale. Fuoriuscita, come la sanità, dall’orizzonte del welfare, in cui si giocava la dialettica tra pubblico e privato, orizzonte che in Italia si è concluso con le proteste contro le leggi Gelmini dal 2008 al 2010, – l’insieme dei rapporti tra saperi, poteri e soggetti in cui si concretizza l’istituzione scolastica, è mutato. La critica della “società della conoscenza” è diventata resistenza attiva contro l’idea che la formazione debba avere il compito di educare i “giovani” alla precarietà. Questa dinamica del rifiuto, di cui si incaricano i movimenti e le occupazioni di spazi ad uso sociale e abitativo, chiama direttamente in causa pratiche di liberazione che si oppongono concretamente alle “libertà” che decidono l’esclusione e la riduzione a norma dell’ eccedenza sociale, eccedenza che in altre epoche è stata gestita da scuola e Università pubbliche. Del resto basta confrontare le attuali pratiche didattiche con la struttura delle società del benessere, dagli anni Settanta alla fine dello scorso Novecento, per rendersi conto della radicale differenza nel ruolo della formazione. Laddove allora la scuola era campo aperto di relazione e sperimentazione sociale, nella discontinuità tra formazione e lavoro, cultura e produzione, sapere e mercato, – oggi essa è il punto d’accesso privilegiato per l’inserzione dei mercati nella vita, nella perversa continuità di formazione e lavoro, con l’innesco della concorrenza tra produzione materiale e immateriale sottopagata e cultura. Gli effetti di queste dinamiche sono anch’essi duplici: per un verso c’è stato un immiserimento della figura dell’insegnante, di cui sono largamente responsabili sindacati che hanno cogestito l’amministrazione scolastica, ottenendo in cambio risibili aumenti di stipendio e solo per i docenti di ruolo, per di più con salari (i più bassi in Europa) bloccati fino al 2014. Per l’altro verso, l’accesso all’istruzione rimarca oggi il fatto che gli studenti si scontrano frontalmente con la condizione precaria di esistenza imposta dai mercati, dall’ideologia liberista e dall’austerity. Precari ormai si nasce non si diventa, e si sperimenta tale “status” fin dalla scuola dell’infanzia. Questa bomba sociale di prima grandezza deve essere gestita con insegnamenti che sono immediati strumenti di disciplinamento e controllo. Non ci sono più l’educazione artistica, la biologia e la filosofia come campi del sapere; bensì come strumenti di esercizio del potere, apprendimenti per padroneggiare altri esseri umani, tecniche governamentali, dispositivi di contenimento del disagio e delle energie intellettuali. Non c’è più l’autovalutazione attraverso prassi di studio collettivo, c’è il voto individuale, punitivo, che ha valore assoluto, un giudizio divino, condito da quiz INVALSI in nome dell’eccellenza… Le generazioni più giovani, condizionate anche dalle famiglie, hanno interiorizzato questo modello di apprendimento. L’ansia per l’interrogazione è palpabile fuori scuola, la paranoia di “non essere all’altezza” e l’obbligo di entrare in concorrenza con i tuoi compagni di classe influenzano il tuo rendimento scolastico. Il diffuso proibizionismo, ostentato per la salvaguardia “dei giovani” e in realtà praticato dalla gran parte dei Dirigenti Scolastici, con la complicità degli insegnanti, per non assumersi responsabilità all’interno delle mura di scuole sempre più somiglianti a carceri e caserme, alimentano la frustrazione, la diserzione, l’abbandono. Non a caso il refrain che da qualche anno è intonato, all’interno e all’esterno delle scuole, è il “rispetto delle regole” (ma quali?), contro l’anarchia sociale di cui peraltro sono responsabili quegli stessi governi che hanno introdotto la deregolamentazione dei mercati e la privatizzazione dello stato sociale e dei beni comuni. Il rispetto delle regole, la santificazione dell’astratta norma legale in vista di una “società odinata” (dal capitale), la pericolosità di comportamenti considerati aberranti come fumare, riunirsi in collettivo, autogestire spazi scolastici, bere una birra in compagnia, invertire la gerarchia tra insegnante, genitore e studente in una relazione orizzontale. Questi normali costumi umani, che definiscono la sfera di libertà dei singoli, costituiscono il principale bersaglio dell’ordinamento scolastico. Da sempre scuole e Università sono luoghi di ordinamento e disciplinamento sociale, ma la particolare “emergenza” economica inscritta nel ciclo liberista del capitalismo ha fatto sì che, saltate le mediazioni che separavano istruzione e lavoro, saperi e conoscenza risultano immediatamente produttivi. Soggetti dell’istruzione e soggetti del lavoro non si distinguono più in ruoli sociali differenti, presi come sono integralmente nelle dinamiche di precarizzazione. In questa svolta epocale, a cui corrisponde l’aprirsi di un abisso simbolico oltre che generazionale tra insegnanti e studenti, i primi, non comprendendo affatto le realtà in cui vivono i secondi, ed essendo a loro volta subordinati all’immediatezza della produttività, non hanno altri strumenti di insegnamento che quelli della retorica delle regole e della proibizione, del paternalismo comprensivo e della finta partecipazione alla didattica, che gli studenti fanno bene a rifiutare. La noiosa e stanca ripetizione di formule di securizzazione come “ la violenza nelle proteste non porta a niente”, “c’è un limite a certi comportamenti” (le occupazioni), “a scuola non bisogna fare politica” e “bisogna garantire il pluralismo” (magari a vantaggio dell’ora di religione), come tutta l’educazione alla rappresentanza e alla delega degli interessi, nonché il melenso patriottismo dell’ “istruzione pubblica come bene comune”, costituiscono un dispositivo di contenzione, prodotto dall’insicurezza sociale in cui sono instradati anzitutto gli insegnanti. D’altra parte, che la vera formazione non si dà nelle scuole è un fatto, di cui fin dagli anni Sessanta dello scorso Novecento, pedagoghi, maestri e consulenti di ministri sono al corrente, ma si guardano bene dall’ammettere. Un filosofo e sacerdote, Ivan Illich, che non era un sovversivo, affermava in quegli anni che bisogna descolarizzare l’intera società: “In realtà l'apprendimento è l'attività umana che ha meno bisogno di manipolazioni esterne. In massima parte, non è il risultato dell'istruzione, ma di una libera partecipazione a un ambiente significante. Quasi tutte le persone imparano meglio “stando dentro” le cose, eppure la scuola le porta a identificare l'accrescimento della propria personalità e delle proprie conoscenze con una elaborata pianificazione e una complessa manipolazione.”. Inoltre : “La scuola pretende di frantumare l'apprendimento in “materie”, di immettere nel cervello dell'allievo un programma fatto di questi blocchi prefabbricati e di misurare il risultato su una bilancia internazionale. Coloro che accettano le unità di misura altrui per valutare lo sviluppo della personalità finiscono presto per applicare a se stessi il medesimo metro. Non c'è più bisogno di metterli al loro posto, perché sono loro stessi a inserirsi nel buco che gli è stato assegnato, a incunearsi nella nicchia che hanno imparato a cercare e, nel corso di questa operazione, a mettere al loro posto i propri simili fin quando tutto, cose e persone, non combaci.”. Negli anni della contestazione studentesca e operaia, e fino al 1977, quando studenti e poletari metropolitani trovano dignità di figura sociale, scuola e Università erano luoghi in cui si sperimentava la forma pubblica del welfare state, che riassorbiva i dispositivi di contenzione e disciplinamento all’interno di opzioni normative (i decreti delegati) e sussidiarietà istituzionale (la rappresentanza studentesca). Ma oggi, saltata quella mediazione, le pratiche di ordinamento, controllo e gestione dei “giovani”, emergono con tutta la brutalità dell’intimazione, rafforzata in forma di legge. Che oggi gli insegnanti siano canali attraverso cui scorrono i flussi di disciplinamento sociale, figure in cui si cristallizzano legalitarismo e proibizionismo non sorprende. Sorprende la mancanza di consapevolezza del ruolo e il fatto di credere davvero che coltivare merito, eccellenza e rispetto delle regole corrisponda ad una reale funzione educativa. D’altra parte l’empasse carica di possibilità riguardo ad un rivoluzionamento della scuola proviene finalmente dalla demistificazione dei concetti veteroilluministi di formazione e istruzione, brutti nomi per brutte pratiche, che gli Stati hanno voluto e messo in capo a figure sociali con identica funzione coercitiva: preti, governi, famiglie (nucleari). Ma la sproporzione tra la retorica del merito e l’insegnamento che agli studenti viene dalla realtà è talmente grande da non costituire più unità di misura di alcuna formazione (se mai c’è stata). Cosa dice la crisi a ragazzi a cui è stato sottratto il futuro? Che sono schizzinosi. Che la chiesa cattolica non paga la tassa sugli immobili che pagano i loro genitori. Che la spesa per i cacciabombardieri F35 è detratta dalla scuola pubblica. Che il governo è formato dai responsabili della crisi finanziaria. Che con “la cultura non si mangia” e che bisogna usare con loro il bastone e la carota e con gli insegnanti i concorsi a quiz. Infine che lo Stato può essere violento contro di loro e contro gli operai dell’ILVA e contro i NoTav, mentre loro non possono reagire, se non in maniera democratica E mi raccomando, a bassa voce e serenamente! Un Marchionne qualsiasi potrebbe sentirli e un domani epurarli perché sono andati al bagno fuori dalla ricreazione! Cosa “forma” di più, questa realtà o stare a sentire per un’ora, senza poter intervenire, una lezione di cui a nessuno frega niente, tranne il fatto di prendere dal 6 il su, rispondendo a tono? Ivan Illich: “È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l'intervento di un insegnante… La più radicale alternativa alla scuola sarebbe una rete, o un servizio, che offrisse a ciascuno la stessa possibilità di mettere in comune ciò che lo interessa in quel momento con altri che condividono il suo stesso interesse…”. Una non-scuola del comune, basata sulla condivisione dei saperi. Sarebbe fantastica. Chi ancora non l’ha fatto dovrebbe provarla.