IL CRESCENTE PESO DELL’INDIA
NELL’ECONOMIA MONDIALE
E NELLA FINANZA INTERNAZIONALE
Introduzione
Nell’ultimo decennio il mercato azionario indiano ha registrato progressi eccezionali. All’indice Sensex
(cioè Bombay Stock Exchange Sensitive Index), costruito sulla base dell’andamento dei trenta titoli più
negoziati sulla Borsa di Bombay, fu attribuito il valore 100 nel lontano aprile 1979, in base ad una attenta
ponderazione delle aziende e delle banche quotate. Dopo qualche flessione registrata nei primi due anni del
nuovo millennio, il Sensex ha registrato incrementi record, superando i 3.300 punti alla fine del 2002, i 5.800
punti alla fine del 2003 ed i 6.600 punti alla fine del 2004. I progressi sono continuati negli anni successivi
così che il 2005 ed il 2006 si sono conclusi con gli eccezionali risultati di 9.400 e di 13.800 punti. Nella
primavera del 2007 l’indice Sensex ha sfondato quota 14.000, grazie alla favorevole evoluzione della
congiuntura, agli elevati profitti societari, agli eccezionali accumuli di riserve valutarie e all’enorme liquidità
presente sul mercato interno e sui mercati internazionali. A fine 2007 il Sensex ha superato quota 20.000,
beneficiando delle diffuse aspettative di un proseguimento dell’attuale fase di crescita economica e del
crescente afflusso di capitali dall’estero, mentre nelle prime settimane del 2008, le turbolenze emerse sulle
Borse Asiatiche e le diffuse attese di un’imminente recessione negli Stati Uniti hanno determinato una
flessione della borsa indiana.
Andamento Borsa Valori Indiana
(Indice Sensex)
25.000
20.000
15.000
10.000
5.000
dec-07
sep-07
jun-07
mar-07
dec-06
sep-06
jun-06
mar-06
dec-05
sep-05
jun-05
mar-05
dec-04
sep-04
jun-04
mar-04
dec-03
sep-03
jun-03
mar-03
dec-02
sep-02
jun-02
mar-02
dec-01
-
1
L’economia indiana
Nel 2007 il tasso di crescita dell’economia indiana è stato prossimo al 9%, grazie alla favorevole evoluzione
dei consumi privati e degli investimenti. Le ripetute strette monetarie (la Banca Centrale ha alzato più volte il
tasso base dall’inizio del 2006) hanno favorito una sostanziale stabilizzazione del processo inflazionistico ed
un conseguente apprezzamento della rupia sul dollaro (dall’inizio del 2007 all’inizio del 2008 la rupia è
passata da quota 45 a quota 39). Nei confronti dell’euro la valuta indiana ha, invece, registrato un certo
deprezzamento, anche se, negli ultimi due anni, le variazioni del cambio sono rimaste entro una fascia
d’oscillazione piuttosto limitata (cioè tra quota 52 e quota 60). I conti con l’estero si sono deteriorati
risentendo della forza del cambio, della tendenza al rialzo dei prezzi petroliferi e dei recenti rincari dei corsi
delle materie prime. Il paese ha perso competitività e quote di mercato soprattutto nel tessile-abbigliamento e
nel settore del caffè. Limitate difficoltà hanno, invece, interessato l’information technology, mentre molto
dinamici sono rimasti molti comparti del settore manifatturiero, il commercio, la finanza, le assicurazioni, i
trasporti, le telecomunicazioni, il turismo, i servizi alle imprese, l’elettricità, il gas e l’acqua.
Le statistiche ufficiali diffuse dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale evidenziano
come l’India sia una tra le maggiori economie del pianeta, classificatasi, lo scorso anno, al dodicesimo posto
mondiale, con un PIL a prezzi correnti di circa 800 miliardi di dollari. Nell’ultimo quinquennio, il tasso di
crescita medio annuo avrebbe così superato l’8%. Secondo una ricerca della Deutsche Bank, con tali
tassi di sviluppo, nel 2020, le dimensioni totali dell’economia indiana potrebbero superare sia quelle
della Gran Bretagna che quelle del Giappone. Secondo recenti stime della Banca Mondiale, un terzo del
reddito indiano andrebbe però a beneficio solo del 10% della popolazione, mentre poco meno di un quarto
della popolazione vivrebbe sotto la soglia di povertà. Considerato che l’India ha da poco superato i 1100
milioni d’abitanti, è possibile stimare un reddito medio pro-capite poco superiore ai 700 dollari annui (contro
i 1250 della Cina ed i 38.300 del Giappone), anche se lo stesso reddito sale a ben 3.400 dollari utilizzando la
cosiddetta tecnica delle “parità dei poteri d’acquisto”.
Negli ultimi anni l’India ha accolto crescenti flussi d’investimento delle multinazionali asiatiche, europee e
nord americane, grazie ai bassi costi di produzione, alla giovane età della popolazione (il 70% degli indiani
ha meno di 35 anni d’età), all’ampia disponibilità di manodopera altamente specializzata e qualificata, alla
profonda conoscenza della lingua e della cultura inglese, alla diffusione delle tecnologie più avanzate, al
notevole sviluppo delle industrie e dei servizi legati al software ed alla progettazione industriale e,
soprattutto, alla presenza di zone economiche speciali finalizzate ad attrarre capitali e tecnologie straniere
con pacchetti di incentivi.
Il settore trainante del miracolo economico indiano è stato, finora, quello dei servizi (software,
telecomunicazioni e finanza) e soprattutto quello dei servizi legati alla cosiddetta “information tecnology”.
Nel 2007 i servizi contribuivano al 53% del PIL, mentre industria ed agricoltura pesavano solo per il 28% e
per il 19%. I cambiamenti intervenuti negli ultimi 15 anni sono stati notevoli, soprattutto se si pensa che, solo
nel 1991, servizi, industria ed agricoltura creavano rispettivamente il 44%, il 25% ed il 31% del PIL indiano.
2
L’agricoltura assorbe, tuttora, più di metà della forza lavoro e realizza enormi raccolti di cereali, sementi,
riso, frutta, verdura, fiori e spezie. Gli investimenti nel settore agricolo sono in rapida espansione e crescenti
attenzioni sono dedicate alla produzione di the, caffè, zucchero e iuta. Rischi gravi sono però legati alla
variabilità delle condizioni climatiche, alla dinamica dei monsoni ed al pericolo di alluvioni. Grandi
potenzialità sono presenti nel settore agro-alimentare, soprattutto in termini di trasferimento di know how, di
vendita di macchine agricole, di sviluppo di nuove tecnologie (per l’agricoltura biologica, la trasformazione
dei prodotti ed i sistemi d’irrigazione). Nei programmi del Governo rientra la costruzione di grandi parchi
agro-tecnologici in grado di attirare capitali e tecnologie e d’offrire agevolazioni fiscali alle multinazionali
straniere. Il paese è poi ricco di riserve di carbone, minerali di ferro e bauxite ed il Governo sta
incoraggiando la ricerca di giacimenti di gas e di petrolio.
Per quanto riguarda l’industria indiana, enormi possibilità sono, al momento, offerte dall’industria
farmaceutica, che sviluppa in India importanti medicinali per le maggiori case farmaceutiche mondiali. Il
paese è al quarto posto tra i produttori mondiali di farmaci (con un peso sulla produzione mondiale prossimo
al 10%), grazie al basso costo della forza lavoro, all’elevato livello professionale della manodopera ed ai
crescenti incentivi governativi a favore della ricerca scientifica. Anche l’industria cinematografica è un
mercato in continua crescita: le nuove tecnologie hanno permesso la nascita di nuovi prodotti (film in DVD,
nuovi sistemi d’animazione, reti satellitari), mentre la creazione di nuovi canali televisivi ha consentito la
diffusione degli stessi sul mercato interno e sui mercati internazionali. Sempre strategico è quindi il settore
siderurgico con alcune imprese multinazionali (come Mittel e Tata Steel) che, grazie alla massiccia
introduzione di nuove tecnologie ed alla crescente integrazione con le imprese statunitensi ed europee, sono
in grado di dominare quote crescenti del mercato mondiale. Parte dello sviluppo dell’industria chimica è
legato all’elevata produzione di acido solforico, di ammoniaca, di acido nitrico, di fertilizzanti azotati e di
superfosfati. Le industrie ad alta tecnologia, come l’aeronautica, l’elettromeccanica, l’informatica e le
biotecnologie, sono poi localizzate nella regione compresa tra Hyderabad e Bangalore, cioè nella cosiddetta
“Silicon Valley” indiana, dove si addensano le agevolazioni fiscali, i parchi scientifici e gli stabilimenti
produttivi delle principali multinazionali indiane e straniere (come IBM, HP, Texas Instruments, Microsoft,
Oracle, Cisco, Alcatel, Compaq, British Airways, Deutsche Bank, General Motors, Wall Mart, Vodafone)
Crescenti capitali stranieri stanno affluendo nei grandi centri dell’industria meccanica, dell’auto, della
componentistica e dei cantieri navali. Negli ultimi anni è stata soprattutto la componentistica delle grandi
imprese automobilistiche a localizzarsi nel subcontinente indiano. Basti, a tal proposito, pensare alla
crescente delocalizzaziione di General Motors, Mercedes, Iveco, Volvo, Daimler, Chrysler, Toyota, Ford,
Hunday, Honda, Skoda e Fiat (che oltre a produrre in India la Palio, ha recentemente siglato un importante
accordo con l’impresa indiana Tata Car). L’India è poi da molti considerata strategica, in quanto usata da
numerosi produttori europei e statunitensi come una testa di ponte per penetrare in Cina, nel Sud Est Asiatico
ed in Estremo Oriente.
3
Il commercio internazionale
Pur rappresentando un interessante mercato di sbocco per molte multinazionali, l’India detiene, al momento,
solo l’1% dell’export mondiale. L’interscambio commerciale con il resto del mondo è in continua
espansione, anche se il deficit commerciale ha superato lo scorso anno la cifra record di 65 miliardi di
dollari. La politica commerciale finora seguita si prefigge di ampliare gradualmente la quota di mercato
indiana, varando tutta una serie di provvedimenti finalizzati ad attirare capitali esteri e ad aiutare le imprese
export-oriented. Tra le misure più interessanti, basti pensare alla semplificazione delle procedure
amministrative per gli esportatori, al potenziamento delle zone di libero scambio (che, al momento, godono
di una totale detassazione dei profitti per i primi 5 anni e di una tassazione dimezzata nei 5 anni successivi),
alle iniziative governative finalizzate alla promozione del Made in India ed allo sviluppo delle infrastrutture
(soprattutto strade, autostrade, ponti, ferrovie, porti, aeroporti, acquedotti, centrali elettriche, alberghi ed
ospedali).
Andamento delle quote di mercato sull’export mondiale
(valori percentuali)
1990
2007 (*)
Usa
14,0
10,0
Germania
11,0
8,8
Cina
1,9
6,7
Giappone
8,0
4,8
Regno Unito
5,5
4,6
Francia
6,1
4,2
Italia
5,0
3,5
Canada
3,5
3,2
Hong Kong
2,4
3,0
Corea del Sud
2,0
2,8
Taiwan
2,0
2,0
Singapore
1,6
2,0
Malesia
0,9
1,6
Tailandia
0,7
1,2
India
0,5
1,0
Indonesia
0,8
1,0
(*) Dati provvisori
Fonte: OCSE, IMF, BCE
4
Secondo recenti statistiche, le esportazioni indiane sarebbero dirette per il 23% verso l’Unione Europea,
per il 17% verso gli Usa, per l’8% verso gli Emirati Arabi Uniti, per il 7% verso la Cina e per il 5,4% verso
Singapore. Le vendite indiane dirette verso l’Area Euro interesserebbero soprattutto il Regno Unito (5% del
totale mondiale), la Germania (3,6%), il Belgio (2,9%) e l’Italia (2,5%).
Le principali esportazioni indiane verso l’Italia riguardano i prodotti tessili e l’abbigliamento, i veicoli e le
loro parti, il cotone, il ferro e l’acciaio, gli articoli in ferro e in acciaio, le calzature, i prodotti chimici
organici, le macchine per l’industria meccanica, le macchine elettriche, il the, il caffè, le spezie, la plastica, i
pesci ed i crostacei. Le esportazioni italiane verso l’India riguardano, invece, i prodotti per la meccanica, le
macchine utensili, le macchine elettriche, gli apparecchi audiovisivi, gli articoli in ferro ed in acciaio, i
prodotti chimici e farmaceutici, gli articoli ottici e fotografici, i veicoli e le loro parti.
Conti con l’estero e conti pubblici
dati relativi a fine 2007 (*)
Saldo bilancio
Saldo commerciale
Saldo corrente
Partite correnti/PIL
(miliardi di $)
(miliardi di $)
(in %)
Germania
260
205
5,8%
-0,3
Cina
250
250
11,4%
0,2
Russia
123
73
6,1%
3,0
Giappone
107
205
4,7%
-2,6%
Indonesia
41
11
2,5%
-1,7
Brasile
40
7
0,7%
-1,8
Singapore
37
46
24%
0,3
Malesia
29
28
13,5%
-3,2
Taiwan
17
28
6,3%
-2,1
Corea del Sud
19
10
1%
0,6
Hong Kong
-22
25
10%
1,9
Italia
-14
-48
-2,5%
-2,4
Francia
-47
-28
-1,2%
-2,4
India
-66
-10
-1,1%
-3,4
Spagna
-126
-126
-9,3%
1,8
Gran Bretagna
-166
-87
-3,3%
-3,0
Usa
-806
-793
-5,5%
-1,2
Paesi
pubblico /PIL
(in %)
(*) Dati provvisori
Fonte: OCSE, IMF, Economist
5
Secondo un recente studio ICE, per le imprese italiane s’intravedono buone possibilità nel settore delle
macchine utensili, della chimica farmaceutica, delle infrastrutture, dell’energia elettrica, dell’agricoltura e
dell’information technology. Per quanto riguarda le macchine utensili, l’India importa circa la metà della
produzione mondiale di tali macchine e richiede soprattutto macchine tessili, sistemi per l’irrigazione,
macchine per la trasformazione dei prodotti agro-alimentari, attrezzature per le telecomunicazioni,
macchinari per la lavorazione del legno, dei marmi e delle materie plastiche, computer per le
telecomunicazioni. Forte è anche la domanda di macchinari per la produzione d’energia elettrica, per la
costruzione di raffinerie, per la realizzazione di impianti per l’estrazione, lo stoccaggio e la distribuzione del
petrolio, dei prodotti raffinati e del gas naturale.
Investimenti esteri e riserve valutarie
Gli afflussi d’investimenti diretti provenienti dall’Area Euro, dagli Usa e dal Giappone sono stati
responsabili della continua tendenza all’apprezzamento di tutte le valute asiatiche, tendenza spesso
contrastata da ripetuti interventi delle Banche Centrali, con conseguenti enormi accumuli di riserve in valuta.
A fine 2007 le riserve indiane hanno raggiunto la quota record di 265 miliardi di dollari, grazie soprattutto
alle rimesse dall’estero degli emigrati. Sull’entità delle riserve (l’India è al quinto posto dopo la Cina, il
Giappone, Taiwan e la Corea del Sud) hanno inciso negativamente i crescenti disavanzi con l’estero, mentre
impulsi positivi sono venuti dalle consistenti scorte di oro (l’India è al sesto posto mondiale per consistenza
delle riserve aurifere), il limitato peso del debito estero (sceso dal 40% del PIL nel 1990 al 15% del PIL nel
2007) ed il progressivo riequilibrio dei conti pubblici (il 2007 si è concluso con un debito ed un deficit
pubblico pari rispettivamente all’84% ed al 3,4% del PIL).
Nel 2006 sono affluiti in India investimenti stranieri per circa 3 miliardi di dollari, una cifra sicuramente
elevata, anche se decisamente inferiore alle cifre record registrate da Gran Bretagna, Usa e Cina (che hanno
visto sbarcare in patria capitali stranieri pari, rispettivamente, a 240, 120 e 95 miliardi di dollari). Secondo
alcune statistiche recentemente diffuse dal Governo, il totale degli investimenti diretti esteri affluiti in India
dal 1991 al 2006 sarebbe prossimo a ben 42 miliardi di dollari. I 10 principali paesi investitori sarebbero, in
ordine decrescente, le Mauritius, gli Usa, il Giappone, l’Olanda, il Regno Unito, la Germania, Singapore, la
Francia, la Corea del Sud e la Svizzera. I capitali stranieri affluirebbero soprattutto nei settori degli impianti
elettrici, dell’elettronica, dei servizi, delle telecomunicazioni, dei trasporti, dei carburanti, dell’agroalimentare, dell’informatica, del cemento e dell’industria metallurgica.
Negli ultimi anni l’Italia ha acquisito il quinto posto tra i paesi europei che investono in India (dopo
Olanda, Regno Unito, Germania e Francia). Secondo un recente rapporto diffuso dall’ICE, tra gli investitori
italiani più rappresentativi è il caso di ricordare il gruppo Fiat, la Carraio India (con una joint-venture per la
produzione di componenti per trattori), la New Holland (in collaborazione con una società locale leader nel
settore dei trattori), il gruppo Italcementi (entrato sul mercato indiano nel 2001 attraverso una joint-venture
con un’impresa francese ed un’inmpresa locale), la Pirelli (che produce pneumatici); la Piaggio (che
produce veicoli a tre ruote), la Technimont (società di engineering & contracting costituita in India nel 1996
6
come joint venture paritetica fra la Tecnimont S.p.a. ed un partner privato indiano), il gruppo Luxottica (che
ha acquisito in India la divisione Eyeware di Baush & Lomb, costituendo in tal modo la società RayBan Sun
Optics India Ltd.); la STMicroelectronics India (collegata all’industria informatica indiana), la Merloni
Termosanitari India Ltd. (divenuta il maggior produttore di scaldabagni elettrici in India, ma anche
produttore di articoli sanitari e di piccoli elettrodomestici esportati in varie parti del mondo), la De Longhi
(che attraverso una collaborazione con un grande gruppo indiano sta conquistando crescenti quote di mercato
per i propri elettromestici),
i gruppi Benetton, Liberti, La Perla, Carrera, Monnalisa, Coin, Zucchi,
Zambaiti, Maxato, Brembana, Zegna, Monti, Calitri Denim, Marzotto, Conceria Virginia, Calzaturificio
Pucci, Suolificio Malaspina e Saporiti nel settore moda e abbigliamento.
Sono inoltre operanti in India, soprattutto a Bombay (Mumbai) uffici di rappresentanza di diverse banche
italiane. Fra queste: la Banca Nazionale del Lavoro, il Banco Popolare di Verona e Novara, Unicredito
Italiano, San Paolo IMI, Banca Intesa, il Monte Paschi di Siena, la Banca Popolare di Vicenza e le Banche
Popolari Unite. Il gruppo Assicurazioni Generali ha recentemente fatto il suo ingresso nel settore delle
assicurazioni.
Contrariamente a quanto avviene per altri Paesi europei, gli investimenti indiani in Italia sono piuttosto
scarsi; fra i più importanti è comunque il caso di ricordare quello della Videocon per la produzione dei
televisori.
Forme societarie e fiscalità
Oltre alla tradizionale impresa individuale, il diritto societario indiano prevede tre forme societarie:
•
la società per azioni;
•
la società a responsabilità limitata;
•
la società a responsabilità illimitata.
Gli investitori stranieri possono accedere al mercato indiano solo costituendo delle società per azioni. Le
spa assumono due forme: la società privata e la società a capitale diffuso. Le società private devono essere
costituite con un capitale minimo di 100.000 rupie, non devono coinvolgere meno di 2 e più di 50 soci,
incontrano limiti al trasferimento della proprietà delle azioni e non possono ricorrere ai mercati finanziari per
offrire azioni ed obbligazioni. Le società a capitale diffuso possono, invece, rivolgersi al pubblico per
collocare azioni ed obbligazioni, devono essere costituite con un capitale minimo di 500.000 rupie e non
possono avere meno di 7 soci. Una normativa accurata regola gli aspetti riguardanti le pubbliche
sottoscrizioni, le OPA e le OPV, l’indebitamento e la gestione di tali società.
Gli investitori stranieri possono esercitare un’attività d’impresa in India attraverso una società estera
stabilendo nel paese un ufficio di rappresentanza o costituendo una joint-venture con una società indiana.
Occorre però registrarsi presso il registro delle imprese di Nuova Dehli, entro trenta giorni dall’inizio
dell’attività commerciale. Per le società estere è anche richiesta una specifica autorizzazione da parte della
Reserve Bank of India.
7
Il reddito prodotto dalle società residenti in India è soggetto ad un’aliquota del 30%, che è aumentata al
33% per i redditi maggiori di un milione di rupie. Le società estere residenti in Paesi che non hanno un
trattato con l’India sono soggette, per i redditi realizzati nel Paese, ad un imposta del 20%, sui dividendi
distribuiti e sugli interessi. Esistono poi alcune imposte locali con aliquote diverse nelle varie province del
paese ed alle vendite tra i vari stati indiani è applicata un’imposta indiretta pari al 4% del valore del bene.
Esiste quindi un’imposta nazionale di fabbricazione (la cosiddetta excise duty) con un’aliquota unica del
16%, gravante su tutti i beni prodotti in India.
La paga mensile dei lavoratori indiani è mediamente inferiore alle 6.000 rupie (cioè ai 100 euro) e
l’incidenza degli oneri sociali ed assicurativi è minima: l’azienda versa il 12% della retribuzione lorda a
fondi previdenziali ed il 4,75% della paga ad enti assicurativi, mentre le corrispondenti aliquote gravanti sui
dipendenti sono pari rispettivamente al 12% ed all’1,75%.
Tutte le società costituite in India sono, ai fini fiscali, soggette al diritto tributario indiano, anche se
possedute da soggetti esteri. Le società indiane sono poi soggette a tassazione in India per quanto riguarda il
reddito prodotto in tutto in mondo, mentre i redditi delle società estere sono tassabili solo se derivano da
attività economiche realizzate in India. L’India ha firmato accordi bilaterali contro la doppia imposizione con
tutta una serie di paesi europei ed occidentali, tra cui l’Italia. La legislazione tributaria vigente prevede un
credito d’imposta sia per le imprese italiane operanti in India che per le imprese indiane localizzate in Italia.
A favore delle imprese che investono nelle zone franche, è infine prevista, per i primi 10 anni, la totale
detassazione dei redditi colà prodotti.
Problemi d’accesso al mercato indiano
L’India ha adottato, fino alla fine degli anni ’80, politiche economiche di stampo socialista, con stretti
controlli governativi sulle imprese private, sul commercio estero e sugli investimenti stranieri. A partire dagli
anni ’90 il paese ha, però, intrapreso profonde riforme economiche che hanno ridotto i controlli sugli
investimenti, sui capitali stranieri e sul commercio internazionale. Le privatizzazioni di molte aziende
pubbliche e l’apertura di certi settori produttivi ai privati ed agli stranieri sono state, comunque, graduali e
soggette a non poche resistenze politiche ed ideologiche.
Al momento, tutti gli investimenti stranieri sono ancora formalmente sottoposti ad approvazione
governativa, anche se, in molti casi, tale approvazione ha carattere quasi automatico. Per circa 800 settori
produttivi vige, comunque, un severo limite (24%) all’entrata dei capitali stranieri, mentre in alcuni comparti
considerati strategici (energia atomica, difesa, trasporto ferroviario, edilizia, commercio al dettaglio,
agricoltura, lotterie e gioco d’azzardo) l’entrata degli investitori
stranieri è drasticamente vietata.
L’autorizzazione governativa non è poi automatica nel settore petrolifero pubblico, nei trasporti aerei
nazionali, nelle industrie in qualche modo legate alla difesa e all’uranio, nelle società d’investimento in
infrastrutture e servizi, nell’editoria, nei servizi postali, nei servizi satellitari, nella coltivazione del the e nella
diffusione di reti e programmi televisivi. Abbastanza agevole è invece il trasferimento di nuove tecnologie,
grazie alla possibilità di ottenere un’autorizzazione praticamente automatica dalla Banca Centrale Indiana.
8
Sopravvivono in India elevate barriere tariffarie e non tariffarie, divieti di operare in più settori e limitate
possibilità di accedere ai servizi finanziari. Molti prodotti esteri sono soggetti a pesanti dazi (le aliquote sulle
merci importate variano dal 5% al 35%, mentre, fuori delle zone franche, le aliquote sui beni capitali
importati sono mediamente pari al 25%), l’imposizione fiscale e l’aliquota Iva ordinaria variano da regione a
regione, il ricorso a misure antidumping a scopi protezionistici è largamente diffuso. Il quadro normativo è
poi mutevole, mentre pesanti rimangono i controlli, le verifiche sanitarie e le restrizioni all’importazione di
molti prodotti (come le carni di pollo e di maiale, l’oro ed i gioielli, la frutta e la verdura).
A ciò vanno aggiunte le difficoltà burocratiche, le formalità procedurali, le autorizzazioni, le verifiche e le
ispezioni imposte dalla legge su moltissime attività, la carenza d’infrastrutture, la presenza di norme sul
lavoro estremamente rigide e complesse (come l’impossibilità di chiudere le attività medio-grandi senza
autorizzazione governativa ed il divieto di licenziare per le aziende con più di 100 dipendenti), i prezzi
elevati dei terreni e delle case ed i limiti alla partecipazione di capitale straniero in molte attività produttive.
La deregulation valutaria e le zone franche
Negli ultimi anni l’India ha liberalizzato la propria normativa valutaria, eliminando larga parte delle
restrizioni legate alle rimesse all’estero dei dividendi e dei proventi legati alla vendita d’azioni. Le imprese
indiane possono liberamente obbligarsi nei confronti delle imprese straniere sia per quanto riguarda l’import
sia per ciò che concerne l’export, trasferire all’estero valuta convertibile e ricorrere senza problemi ai più
diffusi strumenti di pagamento utilizzati nel commercio internazionale (lettera di credito irrevocabile,
documenti contro pagamento, documenti contro accettazione, …). Le imprese indiane possono effettuare
investimenti all’estero con ampi gradi di libertà e pure gli uomini d’affari possono facilmente ottenere valuta
convertibile per sostenere spese fuori del territorio nazionale. Dal 2002 è possibile avere un conto in valuta
estera, a patto d’essere liberi professionisti che offrono servizi ai clienti stranieri, imprese export-oriented,
produttori di software e di hardware o aziende operanti in settori ad alta tecnologia.
Negli ultimi due decenni, l’India ha creato delle zone franche (le cosiddette Export Processing Zones) per
favorire gli investimenti e per promuovere le esportazioni. Esse sono al momento localizzate nelle province
di Maharashtra, di Gujarat, di Chemal, di Kerala, di Pradesh e nel Bengala Occidentale. Tali zone offrono
ai capitali stranieri un ambiente libero da dazi e barriere tariffarie, caratterizzato da agevolazioni
amministrative, burocratiche, fiscali e finanziarie. Per accedere a tali zone è obbligatorio esportare almeno ¾
della produzione realizzata ma è colà possibile importare liberamente impianti, macchinari, tecnologie,
componenti e materie prime.
Il rimpatrio dei profitti è consentito in proporzione al capitale investito ed agli utili realizzati e, per il primo
decennio dalla localizzazione, è prevista la totale detassazione dei redditi prodotti. Per favorire le
esportazioni sono state recentemente create anche delle zone economiche speciali totalmente libere da vincoli
d’esportazione e, a tutti gli effetti, esterne al territorio doganale del paese.
9
Il sistema finanziario indiano
Fino alla fine degli anni ’80 le banche indiane sono state sottoposte ad uno stretto controllo statale. Con il
processo di liberalizzazione iniziato negli anni ’90 si sono sviluppate, accanto alle banche pubbliche, un gran
numero di banche private e di banche straniere. Oggi il numero di banche pubbliche, private e straniere tende
ad essersi uguale, con 29 soggetti di diritto pubblico, 31 di diritto privato e 30 stranieri. Il peso delle banche
pubbliche rimane però prevalente (con una quota di mercato prossima al 70%), mentre permangono pesanti
limiti all’entrata dei non residenti nel capitale degli istituti di credito indiani (solo dopo il 2010 gli stranieri
potranno comprare pacchetti azionari degli istituti di credito locali).
Negli ultimi decenni anche il settore assicurativo è stato aperto all’iniziativa privata ed ai capitali stranieri.
La quota estera del patrimonio delle aziende assicurative non deve superare il 26%, mentre un altro 26% del
capitale sociale deve essere detenuto dai soci promotori indiani; il resto delle azioni è pertanto sottoscritto da
soci indiani non promotori.
Al vertice del sistema assicurativo indiano sta l’Irda, ente pubblico soggetto alle direttive ed al controllo
del governo centrale, mentre al vertice del sistema bancario indiano è la Reserve Bank of India che
controlla le 90 banche presenti (e le 70.000 filiali sparse in tutto il paese) e svolge compiti di politica
monetaria.
Al momento i tassi d’interesse a breve sono compresi tra il 7% e l’8%, il prime rate è prossimo all’10%, i
titoli decennali offrono rendimenti prossimi all’8% e la dinamica dei prezzi al consumo si mantiene sotto il
6% annuo. Il finanziamento degli investimenti privati è in continua espansione, con ritmi di crescita che
sfiorano il 40% annuo. Controlli severi riguardano soprattutto i prestiti alle imprese straniere, mentre il
credito al consumo è entrato in una fase di vivace sviluppo, grazie al continuo aumento dei membri della
middle class e all’elevata propensione al consumo delle classi intermedie.
Degne di nota sono alcune importanti banche specializzate nel finanziamento alla piccola e media
industria, al commercio estero e all’agricoltura. Tra esse è il caso di ricordare la Small Industries
Development Bank of India, la Export-Import Bank of India e la National Bank for Rural Development.
Diffuse sono poi le fusioni tra banche pubbliche, mentre permangono condizioni di crisi tra le banche
cooperative.
Tra gli istituti bancari a più elevata capitalizzazione è il caso di ricordare la State Bank of India. Tale
banca forma una sorta d’unico soggetto insieme a sette istituti di credito ad essa associati, ossia le banche
statali Bikaner & Jaipur, Mysore, Saurashtra, Travancore, Patiala, Hyderabad e Indore.
Non prive d’importanza sono poi alcune banche nazionalizzate come: Allahabad Bank, Andhra Bank, Bank
of Baroda, Bank of India, Bank of Maharashtra , Canara Bank , Central Bank of India, Corporation Bank,
Dena Bank, Indian Bank, Indian Overseas Bank, Oriental Bank of Commerce , Punjab & Sind Bank, Punjab
National Bank, Syndicate Bank, Union Bank of India, United Bank of India, UCO Bank e Vijaya Bank.
Tra le benche private è il caso di ricordare: Bank of Rajasthan, Bharat Overseas Bank, Catholic Syrian
Bank, Centurion Bank of Punjab, Dhanalakshmi Bank, Federal Bank, HDFC Bank, ICICI Bank, IDBI Bank,
IndusInd Bank, ING Vysya Bank, Jammu & Kashmir Bank, Karnataka Bank, Karur Vysya Bank, Kotak
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Mahindra Bank, SBI Commercial and International Bank, South Indian Bank , Tamilnad Mercantile Bank,
UTI Bank e YES Bank.
Enrico Rivera
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Principali variabili macroeconomiche
dati relativi a fine 2007 (*)
PIL (1)
Prezzi al
Saldo
Riserve
Tassi
Tassi
Reddito annuo
consumo (1)
commerciale (2)
valutarie (2)
a breve (3)
a lungo (4)
pro capite (5)
Giappone
2,1
0,3
107,0
1150
0,7
1,5
38.300
Hong Kong
5,6
3,2
-21,9
150
3,4
3,3
27.700
Singapore
8,6
3,6
37,4
161
2,4
2,7
23.100
Taiwan
4,2
4,8
17,6
270
2,6
2,6
13.800
Indonesia
6,3
6,7
41,2
52
8,0
6,7
12.750
Corea del Sud
5,0
3,5
17,4
260
5,8
5,8
12.600
Malesia
5,3
1,9
29,3
100
3,6
4,5
4.100
Tailandia
4,3
3,0
10,5
80
3,7
4,5
2.320
Cina
11,9
6,9
260
1455
4,4
4,6
1.250
India
9,1
5,5
-66
265
7,3
8,0
714
(*) Dati provvisori
(1) tasso variazione sul periodo precedente; (2) miliardi di dollari; (3) tassi a 3 mesi, valori percentuali;
(4) tassi decennali sui titoli di stato; (5) dollari statunitensi correnti.
Fonte: OCSE, IMF, Economist
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