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Il parlato trascritto
di Stefano Telve*
1. Questioni preliminari
1.1. Unità e varietà del parlato trascritto
Il parlato trascritto oggetto di questo contributo andrà inteso in modo
restrittivo in riferimento a quei soli prodotti testuali che si originano
da un processo di trasmissione impromptu del testo dall’orale allo scritto attraverso prassi consolidate di ascolto e di scrittura, ovvero attraverso
specifiche tradizioni discorsive attive nel tempo in determinati ambienti
culturali. Rimangono dunque escluse, perché sostanzialmente estranee
al nostro discorso, le questioni teoriche, pratiche e storiche relative alla
trasposizione dal codice fonetico al codice ortografico, interpuntivo e paragrafematico. Le circostanze relative al processo meccanico e tecnico di
trascrizione potranno tuttavia essere prese in considerazione nella misura
in cui condizionano e caratterizzano la specificità culturale e soprattutto
storico-linguistica del prodotto finale.
Oltre che gli aspetti centrifughi – il «progressivo (entropico) allontanarsi di un testo dal suo originale» – interessano dunque, della trascrizione, quegli aspetti centripeti, «costruttivi di ogni tradizione», che –
riprendendo parole di Segre sulla tradizione dei manoscritti – «risultano
[…] bene dalla riflessione sul diasistema, che è un nuovo sistema istituito
dal copista: un sistema organizzato (o meglio riorganizzato) da forze di
coesione sintattica e stilistica» (Segre, 1998, p. 144); vale a dire, traducendo nei termini del nostro discorso, proprio per via di quelle prassi scrittorie consolidatesi nel corso del tempo.
* Desidero ringraziare coloro che mi hanno generosamente fornito informazioni e spunti: Licia Cataldo, Ilde Consales, Alessandro Di Candia, Riccardo Gualdo, Claudio Marazzini, Sandra Mollin, Paola Sibeni.
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Interessano qui, dunque, le ritualità che caratterizzano ogni àmbito
o contesto culturale: schemi comunicativi convenzionali, ricorrenza di
situazioni retoriche, finalità comunicative condivise, maggiore o minore fedeltà al parlato originario, regolarità dell’organizzazione strutturale
e linguistica, modalità sintattiche e grammaticali, stilemi citazionali e
“patologie” della scrittura di getto. Questa prospettiva tende a ridurre gli
ineludibili margini di soggettività insiti in ogni operazione di trascrizione
– che pure, come è stato detto, sussisteranno sempre e comunque accanto
alle altrettanto inevitabili idiosincrasie idiolettali o stilistiche del singolo
trascrivente – a variabili di secondo piano rispetto alla stabilità delle relative tradizioni discorsive, che ai fini della trasmissione del testo potranno
naturalmente risultare più o meno “passive” o “attive”.
1.2. Il parlato trascritto tra filologia e storia della lingua:
dalla reportatio al resoconto stenografico
Gli oggetti linguistici non originati da e per la cultura scritta occupano,
negli studi filologici italiani, uno spazio marginale per motivi che oggi parrebbero andare di là dalle molte ragioni che possono essere legittimamente
richiamate in considerazione della nostra tradizione letteraria. Se pure si
ammette, infatti, che difficilmente la tradizione orale possa trovare equiparazione all’interno di una ricostruzione stemmatica basata su testimoni
scritti1, bisognerà anche riconoscere che su testi scritti, sì, ma derivati da
fonti orali (le cosiddette reportationes) ha aleggiato a lungo un giudizio distratto, se non anche ontologicamente diffidente2. Ben a ragione, dunque,
nel 1982, Emilio Pasquini poté affermare: «Occorre […] fondare una particolare filologia dei testi “parlati” e “riportati”» (Pasquini, 1982, p. 678).
Nel frattempo, infatti, le cose stavano cambiando, forse anche per una
complessiva rivalutazione del ruolo del parlato e della dimensione orale
nella lingua e nella letteratura, maturata, tra l’altro, per effetto dell’accreditamento guadagnato negli studi sulle origini romanze dai “canali indiretti” di trasmissione linguistica, ossia dai concetti di Vorlesen (‘presentazione orale d’un testo scritto’) e, soprattutto, di Protokoll (‘registrazione
1. Cfr. almeno De Robertis (1961, p. 122) e Segre (1998, pp. 6-7).
2. La trascrizione da parte di ascoltatori, riconosciuta da De Robertis (1965, p. 316), è ad
esempio ritenuta «inverosimile più che eccezionale» da Balduino (1984, p. 74).
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scritta d’un discorso orale’)3. È stato anche per questo che, guardando di
lì a poco alla situazione italiana, è stato possibile individuare le categorie di «parlato-parlato», «parlato-scritto» e «parlato-recitato» nonché
«forme intermedie» come il «parlato riferito» (Nencioni, 1976, p. 127);
riconoscere quindi nel testo prodotto dalla «messa-per-iscritto» (come
ad esempio il verbale del processo trecentesco del siciliano fra Simone del
Pozzo) «una frammentaria sinopia del testo orale» (Vàrvaro, 1981-83, p.
206); ritenere infine che «scrupolose “verbalizzazioni” giudiziarie di dichiarazioni orali» potessero, in quanto tali, trovare uno spazio autonomo
nelle proposte di classificazione dei testi fondate sulla funzione comunicativa dominante (nello schema elaborato da Sabatini per i testi di parlato,
i verbali assolvono alla «funzione documentaria diretta»: Sabatini, 1983,
pp. 430-1) oppure sulla tipologia testuale (nella ripartizione proposta da
Lavinio i verbali molto dettagliati costituiscono, da soli, il tipo testuale
«rappresentativo»: Lavinio, 1990, pp. 82-7)4. All’inquadramento teorico
si affiancava, nel frattempo, uno specifico esame linguistico (Cortelazzo
Mi., 1985, sui resoconti parlamentari), che contribuiva a definire concretamente il nuovo oggetto di studio nonché la sua denominazione, prefigurata nella filigrana del titolo (Dal parlato al (tra)scritto…) e poi stabilizzata come “parlato trascritto” in successivi contributi5. Significativamente,
qualche anno più tardi, Mengaldo (1994, p. 92) auspicava «un po’ più di
sosta» sulle nozioni di “parlato trascritto” e di “parlato riferito”.
Oltre alle citate verbalizzazioni giudiziarie e agli affini resoconti parlamentari si potrebbero agevolmente rubricare sotto una di queste etichette le reportationes di prediche e visioni, che solo in tempi recenti, come è
stato appena accennato, sono state sottratte alle penombre della filologia
sulla scia della più ampia rivalutazione della tradizione esecutiva come
modalità di trasmissione del testo. Modalità risultata decisiva per cogliere
l’essenza anche linguistica di molti generi letterari, antichi e moderni, ritenuti per lungo tempo piuttosto marginali (oltre a cantari e prediche, anche
testi teatrali e libretti d’opera)6.
3. Cfr. Lüdtke (1964), poi Sabatini (1968, pp. 222-5); cfr. inoltre Mancini (1994, p. 17) e
Casapullo (1999, p. 28).
4. Sul verbale come genere testuale cfr. inoltre Lavinio (2001).
5. Cfr. ad es. Villani (2008) e Palmerini (2008).
6. Cfr. almeno Accorsi (1989, p. 213), Motta, Robins (2007, spec. pp. xiv-xvi) e Telve
(2012) e bibliografia ivi citata. Sulla vicinanza tra l’eloquenza sacra e il teatro cfr. Pasquini
(1982, pp. 708-10). Sulle reportationes cfr. il par. 3.1 del cap. 7.
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Infatti, anche se la reportatio – passibile per sua natura di vari accidenti testuali (errori in ascolto, banalizzazioni) – è stata giudicata un «testo
vivente» e «un riflesso molto approssimativo del testo originale»7, il suo
valore come fonte storica è indubbio8, anche – a determinate condizioni – per quel che riguarda la lingua. L’affidabilità è data infatti da fattori
storici, pragmatici e contestuali, spesso facilmente accertabili: ne consegue, per quel che è dato sapere, un’attendibilità variabile, che può essere
anche piuttosto alta, come nel caso dei testi della predicazione parigina
del xiii secolo9 e, per l’area italiana, delle trascrizioni delle prediche di san
Bernardino. È peraltro significativo che, sebbene questo particolare tipo
di testo non figuri ancora (insieme a molti altri termini appartenenti alla
sfera dell’oralità trascritta) tra le nozioni di base dei manuali di filologia10,
si sia giunti in anni recenti a proporre autorevolmente stemmi ed edizioni
critiche fondati proprio su testimoni di questo tipo11. Proprio dalla reportatio, che può essere considerata un «genre littéraire» (fino a pochi anni
fa, «encore mal connu»: Hamesse, 1986, p. 29) e che rappresenta, cronologicamente, la prima espressione culturalmente consolidata di “parlato
trascritto”, è dunque opportuno prendere le mosse.
La reportatio – praticata già all’epoca di sant’Agostino e poi di Gregorio
Magno ad opera di notai che raccoglievano i sermoni servendosi d’una
tecnica stenografica basata sulle note tironiane e successivamente, nel xii
secolo, nelle scuole monastiche ed episcopali e in quelle di legge, medicina
e teologia (cfr. Blair, 2008, pp. 39-42) – si istituzionalizza in àmbito universitario e, caduta d’uso la stenografia “tironiana”, diviene essenzialmente un lavoro di sintesi ancora per mano dei notarii, ora in parte prossimi
7. Le definizioni sono di Robert Halleux («text vivant» cit. in Luna, 1992, p. 252) e Hamesse (1986, p. 16: «un reflet très approximatif du texte original», ripresa da Heichich,
2008, p. 67).
8. Cfr. almeno Bériou (2000, pp. 425-7), Delcorno (2000b, pp. 499 e 502), e, per gli studi
giuridici a Napoli nel periodo aragonese, Cortese (2004).
9. Maier (2004, p. 229), dove ci si riferisce allo studio di Bériou (1998).
10. Dove potrebbe ad esempio figurare, in ragione della modalità trasmissiva dall’orale
dell’autore allo scritto del raccoglitore, accanto a quella di idiografo. Un leggero quanto
significativo ampliamento rispetto a una precedente edizione presenta una riedizione del
classico manuale d’introduzione alla filologia italiana di Alfredo Stussi: cfr. Stussi (1983,
pp. 93-4 e 1994, pp. 89-90).
11. Cfr. Luna (1992 e 2003) e anche Delcorno (1974, pp. lxxii e cxxxiv), Serventi
(2006, p. 46 n 21), Luongo (2008, pp. 395-8), Segre (1998, pp. 5-7), Hamesse (1986, p. 28),
Bataillon (1986), Pasquini (1982) e De Paolis (1992).
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a scribi. Con l’avvento della stampa la pratica della reportatio comincia a
scomparire, tornando ad essere riscoperta più tardi12. La reportatio (o riportazione: Heichich, 2008) rappresenta il prodotto finale di un processo a
più stadi, non regolamentato dalle università e sostanzialmente dipendente dalle competenze e dall’abilità di chi ascolta (cfr. Hamesse, 1993, p. 90),
ma anche dall’eloquio lento o veloce del maestro. Il discepolo trascriveva
le parole in modo integrale o compendioso e comunque certo velocemente e faticosamente, tanto da dire di «annotare al volo» (raptim notare),
«come chi raccoglie i raspi dopo la vendemmia» («quasi qui colligit racemos post vindemmiam»: Heichich, 2008, p. 65), ma anche con un buon
grado di fedeltà (cfr. Iozzelli, 2006, p. 54).
A questa operazione di raccolta potevano seguire – subito dopo o anche dopo molto tempo – la revisione da parte dell’oratore, dello stesso reportator o di altri, e la correzione (ordinare), condotta eventualmente con
l’ausilio di altre reportationes (ad unam dictionis formam redigere): operazioni utili anche per il completamento delle parti mancanti, ottenuto
– tra l’altro – con il ricorso alla memoria e alla consultazione di florilegi13.
Forme di collaborazione tra reportatores erano peraltro possibili anche durante il sermone stesso14. Le reportationes potevano successivamente essere
lette dal discepolo e subire una seconda trascrizione da parte degli uditori
oppure essere trascritte in numerosi esemplari, eventualmente – caso raro
– dopo l’approvazione del maestro (così per san Tommaso e i Domenicani), ed essere usate dal maestro stesso per comporre i suoi scritti o da altri
per trarne compendi e nuove copie, all’occorrenza destinate, su autorizzazione dell’oratore, a una diffusione pubblica15.
Processo analogo potevano subire, tra Quattro e Cinquecento, gli appunti presi dagli studenti durante le lezioni universitarie, che venivano tradotti
dallo stato provvisorio delle recollectae (o, come anche si diceva, dei dictata),
più prossimo alla fonte orale rispetto alle reportationes (cfr. Hamesse, 1993,
pp. 91-5), a quello definitivo e ufficiale della pubblicazione a stampa, non
solo per stabilire un testo di studio omogeneo e valido per tutti ma anche per
limitare i rischi di plagio o di diffamazione che potevano derivare dalla dif12. Cfr. Hamesse (1986), Heichich (2008, pp. 61-2) e Blair (2008, pp. 39-41, 44 e 47);
sulla terminologia cfr. Teeuwen (2003, sub voces).
13. Cfr. Heichich (2008, p. 60) e Blair (2008, pp. 42-3).
14. Cfr. Blair (2008, p. 43) dove si rinvia a Delcorno (2000b, pp. 499-500) e Bériou
(1989, p. 95); cfr. anche Bériou (2000, pp. 423-30).
15. Sui domenicani cfr. Blair (2008, p. 44) e, su san Tommaso, Iozzelli (2006, p. 71).
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fusione clandestina e incontrollata degli appunti provvisori degli studenti16.
La pratica della reportatio si protrae in ambiente universitario perdurando
fino al xvii e xviii secolo (ad es. a Parma), benché capiti che se ne sconsigli
espressamente l’uso a favore dei testi a stampa (così ad es. a Catania sul finire
del Settecento)17 e ce ne siano testimonianze almeno fino al secondo Ottocento (come per Francesco De Sanctis o per lo statista Luigi Luzzatti: cfr.
risp. Cardona, 1983, p. 78 e Ghisalberti, 1994, pp. 16-22).
A metà Ottocento subentra però la neonata stenografia, presto largamente praticata soprattutto in ambiente parlamentare (dal 1848). Alla
stenografia si vanno attualmente affiancando altri sistemi di raccolta del
parlato: nei primi anni del Duemila sono stati ad esempio sperimentati,
in àmbito giudiziario e parlamentare, programmi informatici di riconoscimento vocale (cfr. Faticoni, 2003, p. 116 e Angeloni, Zucco, 2003, p. 91).
Parrebbe un segno dei tempi che – adeguati finanziamenti permettendo –
il parlato trascritto, per lo meno così come è stato conosciuto nella storia
dell’italiano e descritto in questo capitolo, sia destinato ad estinguersi.
1.3. Gli àmbiti linguistico-culturali del parlato trascritto.
Il caso dei cantari
La tecnica di raccolta documentaria della reportatio viene applicata e
praticata nel tempo per raccogliere orazioni sacre (pronunciate a scopi
religiosi) e laiche (eseguite a fini civili e politici)18. Sermoni e concioni
non sono tuttavia sempre così nettamente distinguibili, ma trovano anzi
punti di contatto nella letteratura podestarile del Duecento nonché, ancora nei secoli successivi, in figure di laici o di religiosi (come rispettivamente Giannozzo Manetti e san Bernardino) che intervengono pubblicamente, tenendo sia orazioni nelle confraternite sia protesti di giustizia
nei consigli cittadini19.
Sono questi i due àmbiti principali in cui si sono prodotte le trascrizioni di parlato oggetto del presente lavoro, nel quale non si terrà dunque
16. Cfr. ad es. Campanelli, Pincelli (2000, pp. 128-31) e Marilyn (2007, p. 230, n 2).
17. Su Parma cfr. Baldini (2005, p. 48 e n 9); su Catania cfr. Chiaudano (1934, p. 330).
18. Cfr. Artifoni (1995). Sui generi paraletterari “in piazza” cfr. Ricci L. (2013, pp. 21-35) e
il par. 2 del cap. 7, sempre di Laura Ricci, nel vol. ii di quest’opera; sulla poesia popolare
cfr., nel vol. i, il cap. 6 di Giuseppe Polimeni.
19. Così anche Donato Acciaiuoli e Giacomo della Marca: cfr. Dessì (2003, pp. 207-10).
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conto di prodotti scritti limitrofi, cioè generi e tipologie testuali che siano
confinanti tra scritto e parlato (come la Lesepredigt, ovvero la predica da
leggere, e l’absentibus sermo in forma di lettera: cfr. Serventi, 2003), nonché di scritti con tracce di parlato, sia che appartengano all’àmbito extraletterario (si pensi alla letteratura omiletica, di cui sono esempio illustre
i Sermoni subalpini20, alle scritture d’àmbito giuridico-amministrativo,
come già i placiti di Capua, e agli esordi del volgare nella cancelleria), sia
che si inseriscano nella poesia e nella prosa d’arte (come nel caso del teatro
del Cinquecento), sia che attingano a fini documentari alla cultura popolare e dialettale (come per i racconti popolari stenografati da Vittorio
Imbriani dalla viva voce delle narratrici: cfr. Cardona, 1983, p. 97).
È tuttavia necessario ricordare, per la letteratura, un’interessante eccezione rappresentata non tanto dalle trascrizioni pirata realizzate durante
la messa in scena delle opere teatrali (cfr. Riccò, 1996, pp. 251-2), quanto
dai cantari. Sebbene sia infatti noto che della reale spontaneità della componente linguistica oggi etichettabile come “parlata” o “orale” di questo
genere sia da far poco conto (cfr. Barbiellini Amidei, 2007, p. 23), si potrà
qui ricordare il caso esemplare, e per molti versi unico, offerto dai Reali
di Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo. Le ottave che compongono il
ciclo di cantari derivato dalla prosa dei Reali di Francia e improvvisato dal
canterino nella piazza fiorentina di san Martino tra il 1514 e il 1515 furono,
come si legge nella prefazione della stampa, «celermente raccolte» da registrazioni stenografiche plurime realizzate in presa diretta «sopra fogli e
pezzi di carta» dagli ammiratori dell’Altissimo, «che in sì difficili modi
nel raccogliere si sono adoperati» prima di collazionarli o integrarli, in
vista della pubblicazione, con quelle «parti che del proprio autore si sono
potute ritrovare» (Degl’Innocenti, 2008, p. 79).
Molte sono le spie che oggi consentono di poter affermare con «straordinaria certezza che si tratti della registrazione di una esecuzione “in pubblico” e non “al tavolino”, di un “testo-evento” irripetibile e non di un testo
destinato alla lettura»21. Oltre a potenziali “errori d’ascolto”, si adunano
infatti segnali d’oralità (di carattere per lo più macrotestuale) – originatisi
in parte dalla concomitante circostanza della produzione “improvvisata”
– in misura nettamente prevalente rispetto a quanto osservato finora per i
20. Cfr. Delcorno (1995b) e il cap. 7.
21. Degl’Innocenti (2008, p. 114; cfr. anche 100-3, 193-201 e, per la Rotta di Ravenna, pp.
33-4, a cui si rinvia anche da p. 79, n 28).
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cantari meglio studiati22. Queste circostanze consentono di ipotizzare che
quella di reportare i cantari intonati in piazza san Martino dovesse essere una «consuetudine comune», così come anche la resa per iscritto in
équipe (si ricorderà del resto che la trascrizione di canti popolari è ancora
diffusa tra Sette e Ottocento)23. È certo, ad ogni modo, che il percorso
compositivo che ha portato dall’esecuzione alle reportationes e infine alla
pubblicazione di questi cantari improvvisati ha analogie molto forti con
un altro evento popolare e di piazza avvenuto ancora a Firenze, e non solo,
alcuni decenni prima: quello della predicazione24, genere con cui i cantari
condividono peraltro alcune soluzioni retoriche e stilistiche.
2. Caratteri linguistici generali e tratti comuni
2.1. Il parlato trascritto: definizione e caratteristiche
Nella reportatio e, più in generale, nelle pratiche di raccolta tachigrafica del
parlato culturamente consolidate potremmo dunque individuare il corrispettivo storico-linguistico del «parlato riferito» ricordato da Nencioni
come una delle «forme intermedie» tra le categorie di parlato e di scritto,
ovvero del nostro «parlato trascritto»25.
Come infatti è stato osservato in base a parametri d’oralità assoluti, testi di parlato trascritto come i cantari dell’Altissimo, i documenti processuali trecenteschi di Lio Mazor, le visioni di santa Francesca Romana e le
prediche di fra Giordano da Pisa e di san Bernardino conservano buona
parte dell’oralità originaria26. E anzi, nel caso del predicatore senese, «non
semplici indizi di Umgangssprache» (Pasquini, 1982, p. 712) ma qualcosa
di più, che dà al lettore e al linguista la sensazione di avvicinarsi ulteriormente – ma pur sempre asintoticamente – alla fonte orale originaria.
22. Cfr. Degl’Innocenti (2008, spec. pp. 201-8); sui segnali dell’esecuzione all’improvviso
cfr. ivi, spec. pp. 190-201; cfr. inoltre Degl’Innocenti (2012, spec. pp. 109-13, 119-25).
23. Per l’improvvisazione di fine Settecento cfr. Di Ricco (1990). Per la cit. a testo cfr.
Flamini (1891, p. 189), cit. in Degl’Innocenti (2008, p. 81).
24. Cfr. Degl’Innocenti (2008, pp. 78-84), che ricorda in particolare Savonarola; sugli
“errori d’ascolto”: cfr. ivi, pp. 82-4. Sulle analogie fra Giordano da Pisa, i cantari e i romanzi tristaniani cfr. anche Delcorno (1974, p. lxxiv, n 8).
25. Cfr. Nencioni (1976, p. 127); per i cantari cfr. Barbiellini Amidei (2007, p. 25).
26. Cfr. D’Achille P. (1990, pp. 35-60); ai cantari dell’Altissimo Degl’Innocenti (2008, p.
201, n 38) assegna quattro delle sette invarianti indicate per il parlato da Corti (1982, pp. 8-9).
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I testi di parlato trascritto (per lo meno quelli considerati nel presente
lavoro), pur essendo senza dubbio relativamente omogenei, si distinguono
tra loro non solo per via dei differenti àmbiti tematico-culturali (religioso, politico, giudiziario) e delle diverse finalità (per lo più narrative nella
predicazione e argomentative-informative negli interventi politici e giudiziari) ma anche, e soprattutto, in relazione ad almeno due importanti
condizioni pragmatico-testuali.
Monologo / dialogo Benché il carattere monologico sia largamente dominante, i testi non sono tutti riducibili entro questa modalità discorsiva: il monologo può ad esempio, nella predica, dare spazio a forme di
sermocinatio oppure, nelle relazioni tenute durante le assemblee politiche,
celare riferimenti a discorsi tenuti da altri tramite richiami lessicali più o
meno letterali (imprinting fraseologico) e fenomeni di interazione dialogica (diafonia: cfr. Telve, 2000a, pp. 172-6); analogamente, il dialogo dei
dibattimenti giudiziari può rivelarsi sensibilmente orientato dall’“agenda
nascosta” del giudice e dunque asimmetrico.
Formalizzazione A quel che è dato sapere, il grado di “formalizzazione”
del monologo orale (richiamandoci qui all’“oralità formalizzata” di Nencioni, 1976, pp. 126-7) è mediamente alto per quel che riguarda l’organizzazione macrotestuale sia delle prediche medievali, sia degli interventi
d’àmbito politico, per via della retorica consolidata nei rispettivi generi
(strategie diverse, non comparabili con quelle del monologo, segue invece
il dialogo d’àmbito giudiziario). Si presume invece che maggiore libertà
ovvero minore pianificazione caratterizzi la sintassi della frase semplice e
della frase complessa, nei cui confronti agisce sensibilmente la trasposizione dal codice orale al codice scritto, che produce almeno due ordini di effetti, oltre naturalmente, alla possibilità di lapsus auris e di altri fisiologici
“errori” di trascrizione27 ed eventualmente di interpretazione (l’orecchio,
se non è proprio traditore, è comunque asservito alla ricerca di un significato che potrà essere variabilmente orientato dalle conoscenze e dalle
aspettative di chi trascrive: cfr. Blanche-Benveniste, Jeanjean, 1987, p. 102
e Bilger et al., 1997, p. 58).
Il primo effetto è l’impulso alla normalizzazione del registro in direzione formale e sorvegliata ovvero “scritta” (standard, si potrebbe anche
dire per i testi d’epoca moderna) per esigenze di leggibilità del testo e di
decoro espressivo (cfr. Bucholtz, 2000). Si tenga conto, del resto, che le re27. Cfr. Chiari (2007) e Pallaud (2002).
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portationes di prediche e di visioni e i resoconti stenografici delle relazioni
parlamentari sono redatti con la consapevolezza e l’intenzione di renderne
pubblico il contenuto, mentre uso prevalentemente interno hanno i verbali delle Consulte e pratiche quattro-cinquecentesche e dei dibattiti giudiziari. Ciò non toglie, tuttavia, che per tutti questi testi il passaggio allo scritto
comporti una qualche forma di istituzionalizzazione.
Il secondo effetto prodotto dalle condizioni di scrittura impromptu
consiste in una particolare instabilità del tessuto discorsivo e testuale e nella conseguente adozione, più o meno volontaria, di soluzioni sintattiche
particolari e ricorrenti, in parte condivise tra i diversi àmbiti culturali di
scrittura.
Entrambi gli effetti si manifestano non solo internamente allo specifico
volgare del documento ma anche nel rapporto, che sappiamo pressoché
indistricabile fra Tre e Cinquecento, tra il latino e il volgare.
2.2. Latino e volgare
L’accentuata diglossia latino-volgare (o meglio: volgari) tipica dell’età tardomedievale è testimoniata in modo esemplare dalle recollectae prodotte
nelle scuole umanistiche, nelle quali è abituale il ricorso a un latino «disinvolto» come «lingua d’uso e di comunicazione»28. Tracce evidenti
dell’osmosi tra le due lingue si ritrovano più che nelle lezioni universitarie (svolte di norma in latino)29 nei sermoni in volgare, che, secondo una
prassi largamente dominante almeno fino al xv-xvi secolo, sono correntemente registrati in latino30. La scelta di questo strumento linguistico è
dettata dalla sua maggiore stabilità rispetto al volgare (cfr. Bériou, 2000,
spec. pp. 382-3) – quando non anche imposta da motivi religiosi (cfr. Delcorno, 2000b, p. 496) – e comporta esiti a volte maccheronici (cosa che
rifletterebbe «le bilinguisme du reportateur»: Bériou, 2000, p. 426) oltre
28. Rizzo (2004, p. 60); cfr. ad es. Bausi (1999) e ancora Rizzo (2004, pp. 60-5) per Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla; per un profilo dei rapporti tra latino e volgare fra Duecento e Cinquecento cfr. Patota (2004).
29. L’uso del volgare veniva attribuito all’incapacità del docente di condurle in latino: cfr.
Campanelli, Pincelli (2000, p. 126); cfr. anche Lazzerini (1988, p. 81, n 6).
30. Cfr. Blair (2008, p. 43), Iozzelli (2006, pp. 80-2), Bériou (1989), Bériou (2000, pp.
382-6), Delcorno (1970, p. 332, n 15) e Delcorno (1995b, p. 45); su Angela da Foligno
cfr. Donnini (1999, p. 253) e (anche per altre scrittrici mistiche) Pozzi, Leonardi (1988,
pp. 135-6).
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che, spesso, un impoverimento sul piano della vivacità espressiva (come si
ricava dal confronto delle redazioni bilingui)31.
Volgarismi lessicali affiorano già nel sermone di un predicatore domenicano della metà del xii secolo (tra cui connettivi come or, mo, ve:
cfr. Bataillon, 1995, p. 173) e s’infittiscono nel secolo successivo: oltre ai
Sermones di Ambrogio Sansedoni e alla Chronica sermocinalis di Bartolomeo da Vicenza32, un’interessante testimonianza è offerta dai sermoni tenuti dall’arcivescovo di Pisa Federico Visconti tra il 1240 e il 1277.
Quale che fosse la lingua dell’orazione, il testo è tramandato in un latino molto omogeneo e caratterizzato da fenomeni sintattici che per la
loro alta frequenza è possibile attribuire anche, se non esclusivamente,
ad un’esecuzione o registrazione di getto (quod polivalente, reiterazione
di et, temi sospesi, incisi e forte pressione della semantica sulla grammatica, evidente nella correlazione tra soggetto e verbo e tra aggettivi
o pronomi anaforici e rispettivi antecedenti). Con questi convivono
compattamente fenomeni del parlato in generale (relative con l’infinito,
gerundio assoluto, ripetizione della congiunzione subordinativa dopo
un inciso, completive con quod e l’infinito, uso del discorso diretto) e
del discorso oratorio (inserzioni e digressioni, ripetizioni lessicali, parallelismi rimati, omoteleuti allitteranti e dispositiones come «large, largius,
largissime»)33. La lingua dei sermonari è insomma un latino parlato che
si appoggia al volgare ed è peraltro «molto simile a quella utilizzata nei
modelli di parlamenti e concioni, raccolti ad uso dei podestà nelle artes
arengarie e ben rappresentate nel duecentesco Liber de regimine civitatis
di Giovanni da Viterbo» (Delcorno, 1995b, p. 44).
Nella storia della predicazione medievale, quello del bilinguismo è dunque un aspetto «cruciale» (Tavoni, 1992, p. 35). A parte i Sermoni subalpini (cfr. Casapullo, 1999, pp. 261-70 e 177-8) e l’Omelia volgare padovana
(cfr. Folena, 1990, pp. 147-8 e 353, n 1), cicli di sermoni in volgare trasmessi
attraverso reportationes si hanno con fra Giordano (cfr. Delcorno, 2000b,
p. 495). Basandosi su appunti personali redatti in latino (cfr. Delcorno,
1974, p. lxxii, n 1), il frate domenicano sperimenta «un difficile equilibrio» tra latino e volgare sia nel lessico (vocaboli dell’uso fiorentino si
alternano a una terminologia tecnica, morale e teologica di origine latina),
31. Cfr. Bériou (2000, pp. 382-6) e Delcorno (2000b, p. 496).
32. Cfr. Delcorno (2000b, pp. 496-7) e Delcorno (1995b).
33. Cfr. Bourgain (2001, pp. 306-17); per ortografia e morfologia cfr. ivi (pp. 301-5).
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sia nella sintassi («non dovrà sorprendere che […] le cadenze irregolari del
parlato siano subordinate, con una retorica scaltrita, al modello dell’omiletica latina»: Delcorno, 2000a, p. 7), benché vada tenuto presente che la
presenza di latino e volgare varia di manoscritto in manoscritto (cfr. Delcorno, 1974, p. lxxxiv). Con fra Giordano si inaugura la stagione delle
reportationes in volgare della predicazione medievale, che durerà almeno
fino alle soglie dell’era della stampa. Nel frattempo, l’uso di raccogliere per
iscritto il discorso orale viene praticato anche nell’àmbito politico-cancelleresco retoricamente contiguo: il latino, ancora largamente dominante ad
esempio nelle Consulte fiorentine del primo Quattrocento, cede a poco a
poco sempre più spazio al volgare, che vi diverrà pressoché esclusivo alla
fine del secolo34.
2.3. Discorso e grammatica
del parlato trascritto
La trascrizione, consistendo in una riduzione innanzitutto culturologica
del messaggio dal sistema orale al sistema scritto, comporta un atto non
solo descrittivo ma inevitabilmente anche interpretativo (cosa si trascrive)
e rappresentativo (come si trascrive) determinato dal particolare contesto
storico e culturale e dalle finalità della trascrizione35. La mediazione del
trascrittore/raccoglitore è dunque decisiva per il risultato finale del testo
scritto36 sia quanto alla selezione dei contenuti sia quanto alla forma del
discorso. L’architettura macrotestuale tenderà a rimanere quella originaria37, ma la rappresentazione dei due piani enunciativi del trascrittore e
dell’oratore muterà sensibilmente. Il primo può infatti avvicendarsi quasi
pariteticamente con il secondo (che rimarrà comunque sempre prevalente,
come nelle visioni e in alcune prediche) oppure contrarsi fino a svolgere
una mera funzione di marca discorsiva (formule introduttive sintetiche di
discorso riportato, come ad es. nelle Consulte e pratiche fiorentine) o anche
34. Cfr., per le Consulte e pratiche, Telve (2000a, pp. 15-6) e Telve (2002, pp. 32-4). Su
latino e volgare e la “lingua ufficiale” cfr. Marazzini (1998, pp. 5-6).
35. Cfr. Bucholtz (2000), Bird (2005), Mondada (2007).
36. Ciò che vale sia in àmbito religioso, sia in àmbito politico, sia in àmbito giudiziario:
cfr. risp., Delcorno (1970, p. 332), Lazzerini (1988, p. 80), Telve (2002, p. 20) e Corrà
(1998, p. 59).
37. Cfr. ad es. Delcorno (1986, p. 460) e Vàrvaro (1981-83, pp. 210-20).
il parlato trascritto
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a scomparire completamente per dare spazio alla sola voce citata (come di
norma nelle prediche di san Bernardino e nei verbali stenografici d’àmbito
politico e giudiziario).
Nelle soluzioni intermedie la gittata subordinativa del verbum dicendi
che abitualmente marca il passaggio da un piano enunciativo all’altro s’indebolisce in ragione dell’ampiezza e della complessità del contesto citato
(specie se superiore al periodo) e i due piani sfumano impercettibilmente
l’uno nell’altro:
Qui al prato disse uno bello exemplo di due devoti de la donna (l’una fu la moglie
d’un grande cavaliere, l’altro fu uno cherico), e come per troppa familiarità, avegna
che ragionassero pur de la Donna, si tornò in carnalità, e come si sviaro: e l’uno rubò
la sacrestia, e l’altra spogliò la camera del marito, e andaro. Poi fuor presi e ’ncatenati,
e ritornati ai cuori loro e pentuti, apparve loro la Donna nostra (cfr. Serventi, 2006,
p. 600).
La sintassi del discorso riportato appare d’altra parte, almeno fino al Cinque-Seicento, ancora piuttosto instabile e aperta a soluzioni differenti. La
natura citazionale di una frase o di un periodo può infatti essere segnalata,
oltre che con gli abituali verba dicendi (modalità canonica del discorso
indiretto moderno), tramite il solo modo verbale (come negli scritti di
cronachisti e storiografi: si vedano ad esempio l’infinito in Guicciardini
e il congiuntivo in Cavalcanti e Parenti) o tramite il solo che a inizio di
periodo (comune ai verbali cancellereschi e alle reportationes religiose)38
e può generare oscillazioni nel comparto della deissi, specie temporale. Si
tratta di tendenze che consentono di delineare una certa fenomenologia
del parlato trascritto: se questo non è abbastanza per parlare propriamente
di “genere testuale”, si può però sostenere, per lo meno per alcuni àmbiti,
che la parola trascritta «sembra dunque avere diritto a un suo posto, che
rimane da definire, nell’orizzonte d’una “nuova” stilistica» (O’Kelly, Joly,
1993, p. 676; trad. mia).
Osserviamo ora da vicino la parola trascritta nei tre àmbiti storico-linguistici più significativi: nella religione, nella politica, nell’amministrazione della giustizia.
38. Cfr. Telve (2000b, pp. 63-6 e, per l’infinito, ivi, pp. 66-73) e Bozzola (2001, pp. 205); per il che nei predicatori cfr. Fresu, Monti (2007, p. 267) e De Roberto (2009, spec.
pp. 222-5).
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stefano telve
3. Ambito religioso
In àmbito religioso la tecnica della reportatio è largamente praticata fra
Tre e Quattrocento per conservare testimonianza dei sermoni tenuti nelle
piazze e nelle chiese e delle visioni mistiche avvenute nei conventi.
Di là da testimonianze episodiche precedenti, coeve o di poco successive39, le reportationes più attendibili e significative, abitualmente
considerate tra la documentazione scritta più prossima alla fonte parlata
originaria40, sono quelle delle prediche fiorentine dei domenicani Giordano da Pisa (1260ca.-1311), Giovanni Dominici (1356-1419) e Girolamo
Savonarola (1452-1498) e, in modo particolare, quelle di alcune prediche senesi del francescano san Bernardino (1380-1444), da cui converrà
prendere avvio41.
3.1. Prediche
Dopo una lunga esperienza a contatto col pubblico dell’Italia settentrionale, dell’Umbria e della Toscana, nel 1427 san Bernardino tiene sul Campo di Siena un importante ciclo di prediche, giunto a noi attraverso una
«vera e propria sbobinatura di una registrazione al magnetofono» eseguita «dall’onesto e precisissimo cimatore di panni Benedetto di maestro
Bartolomeo» (forse cresciuto con un’educazione notarile): sebbene non
dica naturalmente «nulla di sicuro riguardo alla fonetica e alla morfologia
bernardiniana», la trascrizione rappresenta «una fonte preziosissima per
tutto il resto: lessico, sintassi, stile»42.
39. Per le quali cfr. Vàrvaro (1981-83) (per Simone del Pozzo), Delcorno (2000b, pp. 4978), Delcorno (2002, pp. xxii, xxvii), Lazzerini (1988, pp. 80-1), Delcorno (2003, pp.
ix-x, n 11), Delcorno (2003, p. 7) (per vari sermoni quattrocenteschi), Bianco (2003, pp.
233-4) (per Antonio da Filicaia), Dessì (1990, p. 458) (per Michele Carcano), e infine
Visani (1983, pp. 43-68), Mordenti (1993, pp. 9-11) e Coluccia (1994, pp. 404-5) (per Roberto Caracciolo).
40. Cfr. Sabatini (1983, p. 172) e Cardona (1986, p. 335).
41. Sul passaggio dal sostanziale predominio domenicano due-trecentesco a quello francescano nel Quattrocento a Firenze cfr. Debby (2001, pp. 11-4).
42. Si cita a testo risp. da Cardona (1983, p. 77) e (per gli ultimi due passi) Castellani
(1982b, p. 615). La possibile educazione notarile di Benedetto è ricordata da Delcorno
(2000b, p. 500). Sulla fiorentinizzazione, sia pure autorizzata dall’autore, delle prediche
del ferrarese Savonarola cfr. Matarrese (2000, pp. 238-41 e 255-6). Per altre reportationes
inedite di san Bernardino cfr. Debby (2001, p. 33).
il parlato trascritto
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Quale che sia la vicinanza presumibile alla fonte orale, è importante
ricordare che «le zone marginali e informali dell’uso linguistico» presenti
in questi testi sono assunte «dentro un discorso fortemente strutturato da
consuetudini retoriche di scuola, codificate fra Due e Trecento da una fiorente ars praedicandi» (così per fra Giordano Delcorno, 2000a, p. 7). Tuttavia, pur tenendo presenti i procedimenti logici della scolastica praticati
nelle università e lo schema tipico del sermo modernus (cioè la predica cólta in latino di origine universitaria fondata sulle divisiones e sulle distinctiones del thema principale), Giordano da Pisa e soprattutto san Bernardino,
«abile rimaneggiatore» più che «vero riformatore» del sermo modernus
(Delcorno, 1989, p. 23), praticano su di essi un lavoro di semplificazione,
ristrutturazione, aggiornamento e adattamento della struttura ad albero
(thema o versetto scritturale = radice, introduzione = tronco, divisio =
snodo dei rami principali, dilatatio = diramazioni secondarie con foglie
e frutti) per avvicinarsi all’orizzonte d’attesa linguistico e culturale di un
uditorio diversificato («simul simplicibus et eruditis»: cfr. Murphy, 1974,
p. 313), anche se composto per lo più da illetterati43.
Con queste modalità, si trattano «temi ricorrenti, connessi ai problemi
più urgenti» (cfr. Delcorno, 1989, p. 15) dell’uditorio cittadino (la guerra,
il matrimonio, lo stato vedovile, l’etica, i vizi capitali, la moda femminile,
la pace) e si rifuggono le subtilitates del sermo modernus a favore di un eloquio semplice e comprensibile. A questo scopo si adegua geolinguisticamente parte del repertorio lessicale44 e si predilige una sintassi a breve gittata,
paratattica e giustappositiva, sulla base dei modelli linguistici rappresentati da fonti popolari come leggendari, somme morali e soprattutto raccolte
di exempla. Queste fonti sono rinnovate e aggiornate alla luce dei modelli
novellistici del Due-Trecento – Novellino, Decameron, Trecentonovelle – a
cui san Bernardino si rivolge «con spregiudicatezza» (ivi, p. 35)45, talvolta anche abbassandole ulteriormente di tono, come nella predica xxii sulla
vedovanza, in cui «l’elegante, a volta solenne prosa del Boccaccio viene sostituita da un dialogare scoppiettante, popolaresco, che appiattisce i nobili
personaggi al livello degli uditori della predica». Di qui, in san Bernardino,
«l’elegante chiarezza delle partizioni del discorso […], la padronanza della
43. Cfr. Delcorno (1989, pp. 22-7) e, sinteticamente, Librandi (1993, pp. 345-8).
44. Cfr. Delcorno (1989, pp. 144 e 672-3); cfr. anche Tavoni (1992, p. 206) e Casapullo
(1999, pp. 179-82).
45. Cfr. Delcorno (1989, p. 29 e spec. 34-41 e 44); cfr. anche Delcorno (2000a, p. 48).
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lingua, la ricchissima materia esemplare» (si cita risp. da Delcorno, 1989,
pp. 40 e 23). Entro questa cornice espressiva e comunicativa prende forma la
«vivace medietas»46 della predicazione che nelle pagine delle reportationes
si dota dei più vivi tratti caratterizzanti della phoné: un riflesso dell’originaria esecuzione pubblica del monologo esortativo ed edificante che, per voler
essere non solo comprensibile ma anche avvincente, tende a ricercare il contatto con il pubblico, eventualmente riproducendo un dialogo fittizio che
ne proietti aspettative e curiosità.
Da qui discende il profilo specifico delle prediche di san Bernardino,
ovvero la simultaneità di fenomeni linguistici e paralinguistici riconducibili alla globalità dei tratti macrosituazionali considerati canonici del
“parlato”47; sia pure di un parlato che, come è stato accennato, si dipana
secondo una pianificazione prestabilita a livello macrosintattico e testuale
(tenendo presente le norma dell’ars memorativa) e condivide alcuni stilemi – sul piano della costruzione del periodo – con la conversazione48 e con
forme narrative di larga popolarità come la “prosa media” e i cantari (ad
esempio nella descrizione in avvio dei contenuti che verranno narrati49).
La ricerca di empatia e contatto col pubblico si manifesta nell’insistenza su un’“enciclopedia” comune che è innanzitutto linguistica, vale a dire
figurativa (nelle similitudini: «sappi che tu capitarai male: come lo scarafaggio co la pallottola» i 269, e nelle metafore: «È amicitia attaccata
co’ lo sputaglio [= poco durevole]» i 542); quindi lessicale (ad esempio
nei numerosi localismi senesi: petorsello ‘prezzemolo’, privale ‘privato, cesso’, sùcina ‘susina’, diburare ‘consumare bruciando’: esempi da Castellani,
1982b, pp. 620, 622) ed espressiva (negli inserti di dialettalismi extratoscani, come il lombardo «Mi so’ far de’ fustani» ‘fustagno’ i 190, e nei
modi di dire: «Una volta vi converrà capitare a la bocca de la macina»
‘prima o poi finirete in ristrettezze economiche’ ii 1070, «Fra il ribollito e
’l rincagnato andò quella volta» ‘quella volta finì in un inganno reciproco’
ii 1171). Ma è anche naturalmente un’enciclopedia tematica (si affrontano
temi d’interesse attuale come la moda femminile: «la manica che atracina per terra e le bracciolina n’escono fuore; anco le giornee infrappate a
46. L’etichetta è usata da Pasquini (1982, p. 712) per san Bernardino ed è ripresa anche in
Librandi (1993).
47. Si riprende qui, rielaborando e adattando, Bazzanella (2007, pp. 39-40).
48. Scalare è infatti lo stacco tra predicazione e conversazione: cfr. Vecchio (2000).
49. Cfr. Delcorno (1989, p. 11); si ricavano da qui le citazioni bernardiniane che seguono
a testo. Per un commento approfondito a un brano cfr. Librandi (2012a, pp. 159-63).
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31
’mbratti! [‘ricamate con disegni superflui’]» ii 1073, «se io potesse, io farei mettare una usanza, che tutte le donne andassero vestite a uno modo,
come vanno le donne romane, che tutte vanno vestite di pannolino [=
panno di lino] […] bianco, così le donne di quelli prencipi, come l’altre
donne» i 543) e più ampiamente culturale. È importante, a questo proposito, la correlazione tra le prediche e i dipinti cittadini: alcuni discorsi
di fra Giordano e gli affreschi del Camposanto di Pisa e la Cosmografia di
Piero di Puccio, altri di san Bernardino e l’affresco di Ambrogio Lorenzetti
nel Palazzo Pubblico di Siena (i 438) (cfr. Bolzoni, 2003, spec. pp. 31 e 35).
La forte condivisione dello spazio cittadino si riflette anche nei frequenti deittici di compresenza tra l’oratore e l’uditorio («mentre che io
dico una parola, ella rimbomba costà in quelli palagi, e paion due. Come
fa colà in su la piazza nostra» i 719), al quale san Bernardino si rivolge con
rapidi incisi («(O donne, avete voi udito niuno vermocane?)» i 210-11;
«(Oh cotesto è troppo piccolino, non è buono)» i 719, dice il frate senese
a una donna che sperimentava il suo consiglio ma con un rosario dai globi
troppo piccoli) e con allocuzioni esortative (perché gli astanti non vadano
via: «Due [= dove] andiamo? Va’ siede giù» i 443; facciano attenzione:
«attende a me, dico!» i 506; oppure trascrivano con attenzione: «Scrive
come facesti l’altra volta» i 194, «Nota il mio dire» i 510, «Intendale e
notale bene» i 607). Della presenza dell’uditorio è testimone emblematico il fenomeno della “mobilità prospettica”, ovvero il cambio di allocutario,
che avviene soprattutto dalla terza o quinta persona – cioè dal soggetto generico [+distale] del personaggio ideale o generico del racconto edificante
– alla seconda persona [+prossimale] di un soggetto reale e definito tra gli
astanti su cui far ricadere l’epilogo moralizzante o esortativo50, secondo un
habitus mentale e retorico che si riaffaccia con la sermocinatio:
parla largo e aperto […] non volere parlare come molti, che parlano rattenuto, che
parlano e non so’ intesi. Che dici? – Oh! io dico, io… – Doh!... No… siò [= misto
di sì e no]… oh! parla chiaro, e non pure chi… chi…, chiaro chiaro! (i 313).
Un brano di questo tipo testimonia come gran parte della quintessenza
della retorica comunicativa di san Bernardino consti di quei dettagli linguistici espressivi, evanescenti ma decisivi, legati alla phoné: incertezze,
50. Dalla terza alla seconda persona: i 252, 422, 452, 541, 735, e passim; dalla quinta alla
seconda: i 178, 384, ii 1140 e passim.
32
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pause, ripetizioni (e come per una reportatio il trascurarli avrebbe significato mancare di fedeltà non solo nella forma).
Con questi ultimi vanno di conserva differenti meccanismi di enfasi,
attivi su più piani della lingua, che la «miracolosa registrazione […] rispettosa dei più straordinari exploits mimico-vocali di Bernardino» (Pasquini,
1982, p. 683) ci ha potuto restituire. Alcuni agiscono sul piano conativo
(si veda la vasta gamma semantica e tonale delle interiezioni: la tipica
«Doh!» i 90, «Ah!» i 584, «uh!» i 259, rese per iscritto anche nella
loro tenuta vocalica: «Oooh!» i 659, «Eeeeh!» i 659 ecc.; l’intercalare
discorsivo: «sai?» i 373, 382, 720; l’imperativo spesso geminato: «ritorna
a Dio, ritorna a Dio» i 113); altri sul piano fonico-prosodico (le frequentissime onomatopee, eventualmente accompagnate da gesti: «l’angiolo
sicondo si pose la tromba in bocca (tpu, tpu, tpu)» i 443; segmentazioni:
«pe-co-ro-ne» ii 1104) (cfr. Librandi, 2000, p. 229); altri ancora su quello
sintattico-informativo, dove si traduce in dislocazioni (a sinistra: «le quali
cose Idio ce le manda» i 204, e a destra: «pensa se l’hai bene spesa quella
ora» i 177), temi sospesi («colui che è in istato d’astinenza, e simile la
vedova, il grado suo è di sessanta» i 171, «Così fa il diavolo: egli li pute
questo peccato» ii 1149) e pronomi soggetto ridondanti (in condizioni
sintattiche e pragmatiche differenti: «se non provedessero loro, frate Bastone provedarebbe lui» ii 1087, «il male che egli fa lui» i 250, «io non
voglio già male a lui, io» i 511).
L’avvincente e alacre oratoria bernardiniana si articola in un’intelaiatura sintattica di frasi brevi con grado minimo di subordinazione51 e con
strutture retoriche costruite in modo geometrico (bilanciamenti, enumerationes, costrutti correlativi, parallelismi) e fondate essenzialmente sulla
ripetizione, che agisce sia a distanza ravvicinata all’interno del periodo
(sotto forma di anafora, epifora, complexio, fungendo da coesivo principale in serie polisindetiche con cambi di soggetto: «Sempre la mosca se li
pone in su quelle orecchie, e ’l cane scuote e ella si leva e poi vi si ripone,
e elli scuote, e ella vi si ripone» i 271), sia a lunga gittata all’interno del
corpus delle prediche, dove assume funzioni demarcative (si vedano espressioni formulari come, in avvio, «Or pigliane uno essemplo» ii 771; nel
passaggio d’argomento, «Andiamo avanti» i 113, «Oltre» ii 1242, «A
51. Su alcuni aspetti della subordinazione cfr. Colella (2009, spec. pp. 190-2) e Frenguelli
(2001, pp. 133-44).
il parlato trascritto
33
casa!» ‘torniamo al nostro tema’ i 443; e in conclusione: «E basti al primo» i 284)52.
Profili analoghi dal punto di vista strutturale, ma nettamente meno rilevati per quel che riguarda i tratti legati alla performance orale, offrono le
prediche di Giordano da Pisa, Giovanni Dominici e Girolamo Savonarola.
Di là dall’articolazione macrotestuale e dal repertorio retorico, le prediche fiorentine dei primi anni del Trecento di Giordano da Pisa presentano
chiare analogie sintattiche con le prediche di san Bernardino, come una certa
“mobilità prospettica” e la deissi “ostensiva” («Or in questo evangelio» 65).
Il discorso di Giordano da Pisa è tuttavia, nella sua vocazione spiccatamente
argomentativa, più serrato e rigoroso, caratterizzato da costanti accortezze
metatestuali («Di questi due modi non diremo» 67, «Diciamo pur come ti
lega» 67) e da una rigorosa orditura logico-sintattica.
Frasi e periodi molto brevi si legano compattamente tra loro in modo
per lo più asindetico tramite coesivi anaforici e cataforici (spesso questo,
aggettivale e pronominale, anche incapsulatore), tramite costrutti bilanciati, esplicativi (cioè) e correlativi (se… allora…, non… ma…) e tramite
un’ampia gamma di connettivi espliciti, frasali e testuali (onde, sicché, altressì, però, però che, pur, così ecc.), e traspare la tendenza, maggiore che in
san Bernardino, ad anticipare a sinistra i costituenti tematici della frase,
per ragioni pragmatiche e coesive più che enfatiche (dall’oggetto diretto:
«che questo mezzo e questa rettitudine tenne in tutte le cose» 154, all’oggetto indiretto: «Di due Aventi di Cristo principalmente facciamo commemorazione» 65, al tema sospeso: «Onde quegli che s’è scomunicato,
s’egli è giudice, i suoi piacimenti e le sue sentenzie non valgono nulla» 67,
«quando l’uccello, ch’è preso a la rete, s’egli si scuote» 68)53.
Differenti sono le modalità di trascrizione delle sue prediche (del cosiddetto Avventuale del 1304 e del Quaresimale del 1305-06)54, giunte a noi attraverso una tradizione dinamica e rielaborativa. Non dunque in resoconti
integrali trascritti in presa diretta, ma in apografi della reportatio originale,
52. Cfr. anche Delcorno (1989, p. 26, n 44; altri ess. ivi, p. 46). Sui diversi tipi di coordinazione interfrasale in Bernardino e in Savonarola cfr. Giovanardi, Consales (2009).
53. Si cita dall’edizione Serventi (2006). Su forme di anticipazione a sinistra cfr. Delcorno
(2000a, pp. 23-33); su dialoghi fittizi, uso di che, ripetizioni e segnali discorsivi in Giordano da Pisa cfr. Frenguelli (2009); per i costrutti condizionali Colella (2009). Sulla lingua
di Giordano cfr. anche Bruni (1990, pp. 81-5) e Librandi (2012a, pp. 145-52).
54. Il primo termine, pur assente dai dizionari, è corrispettivo di Quaresimale: cfr. Serventi (2006, p. 11, n 2).
34
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ovvero in «redazioni schematiche da uditori scarsamente sensibili al fascino
dell’eloquenza»55 che intervengono spesso nel testo per dar conto sia di circostanze esterne (giorno, ora e luogo della predica, «suggesting a legalistic
attention to records»: Corbari, 2007, p. 14), sia di omissis testuali (specie
delle parti narrative: «Ora incominciò frate Giordano a riprendere i vizi
delle donne […] riprendendoli fortemente: i quali non trascrivo»)56, sia di
integrazioni successive, fornendo talvolta dettagli interessanti sui modi della
trascrizione («Queste cose sopra dette riebbi così grossamente»57, «Molte
cose ò lasciate infra la predica: òlla recata pur a la substantia quasi. Ella fu de
le maggiori prediche, cioè più lunga che facesse mai»: cfr. Serventi, 2006, p.
286) e sulle fonti che compongono il testo come oggi lo leggiamo (integrato
grazie ad altri uditori: «Non ci fui a questa [scil. predica]. Riebbi da più, a
bocca»: cfr. Delcorno, 1974, p. xviii, o grazie a Giordano stesso: «Io non
fui al cominciamento di questa predica. Riebbesi da lui la detta divisione»:
cfr. Delcorno, 1974, p. lxxiii, n 1)58.
Data la dinamicità della tradizione, tratti presumibilmente originali della
sintassi giordaniana si arguiscono attraverso alcuni tagli semplificatori che
emergono al confronto tra manoscritti (qui evidenziati in corsivo): duplicatio («forti catene, catene intollerabili»), sermocinatio («Disse egli: “Or e’ n’à
troppe de le femine”. Que’ disse: “ Non è però forza; ancora per femina lo ’ngannerai”»), domande didascaliche («Che è modestia? Modestia non è altro»)
(cfr. Serventi, 2006, pp. 48-9). Detto questo, «non si potrà parlare di stile
(e per la verità neppure di lessico) se non assumendo il nome di Giordano
quale appunto una sorta di nome collettivo» (Baldassarri, 1993, p. xxxii)59.
Condizioni più critiche ha il manoscritto Riccardiano latore delle prediche fiorentine (1400-06) di Giovanni Dominici, copia databile circa
il 1438, scritta a più mani e recante frequenti aggiunte e glosse60. Meno
55. Delcorno (1964, p. 25); cfr. Delcorno (1974, pp. lxxii-cxxxiv).
56. Cit. in Delcorno (1986, p. 460); cfr. anche Delcorno (1974, p. lxxiii e n 3).
57. Cfr. Delcorno (1974, p. xix). Integrazioni da fonti orali ma anche probabilmente
scritte (ibid.).
58. Per altri esempi di inserzioni dei riportatori cfr. ad es. Serventi (2006, pp. 70, 101, 131,
134, 142, 157, 172, 182, 203, 249-50, 263, 279, 306, 314-5, 326, 444, 474, 515, 537, 552, 568,
584, 593).
59. Sulla dinamicità del testo omiletico giordaniano cfr. anche Franceschini (2002).
60. Della trascrizione moderna (da Debby, 2001, pp. 222-3) segnalo qui la presenza di
forme singolari (guarga ‘guarda’ 252, rispontete 244) e di altre attribuibili a scriventi di
bassa cultura (bocie 245, huomeni 249, ymagyne 249).
il parlato trascritto
35
stringente e regolare, rispetto al dettato di Giordano, appare comunque
l’eloquio del padre domenicano. Introdotto e tradotto in volgare il versetto iniziale in latino, Giovanni Dominici ne illustra i significati principali
preannunciando nella divisio l’articolazione enumerativa («Ed è da notare
che ’l sonno si genera per quattro cose» 226) che struttura tutto il discorso
nella distinctio, sdipanata via via con formule demarcative («Dicevati»
226, «Dicevoti» 227) e numerali («La terza cagione del dormire ti diceva» 228, «L’ultima cosa ti dicea ci adormentava era l’ozio» 228).
La marca allocutiva di seconda persona qui presente riaffiora spesso in
altri moduli conativi (presente indicativo affermativo: «sai bene che»,
«Sa’ tu», «vedi», «vedi tu» 226-7; domande: «E chi studia in favole et
canzoni?» 228 ed esortazioni: «Poni mente» 226) insieme a deittici temporali legati al momento dell’enunciazione («in questo sancto Avento»
226), in un discorso che procede per strutture espositive tendenzialmente
binarie, incardinate su risposte a domande (didascaliche: «“abbiamo speranza”. Ma cche speranza?» 234, oppure eventualmente ripetute a distanza
con variatio: «in che, stolto, poni speranza?», «in che poni speranza?»,
«Et che speri?», «Dov’ài posto la folle speranza?» 227) e su connettivi
(ma con valore oppositivo, avversativo e anche condizionale di ‘anche se’,
e correlazioni come non tanto… ma bene…, quanto più… meno...), giovandosi all’occorrenza di correctiones («Anzi diciamo meglio» 226, «che forse, o sanza forse, ci troveresti» 231) e formule esplicative («questi cotali
che dormono, cioè paiono morti» 226). I blocchi informativi così formati
sono spesso congiunti a livello testuale dal frequente connettivo consecutivo (Et) però, che agisce con il concorso di altri meccanismi sintattici di
coesione come l’anteposizione anaforica dell’oggetto (diretto: «Un’altra
brigata adormentata […] vedi» 227 e indiretto: «De’ disordinati cibi non
ti dicho» 227) e la progressione tematica lineare («Et però che humido
nonn è altro che aqua. L’aqua sai che tutta viene dal mare; mare nonn è
altro a dire che mondo» 226)61.
Il tono complessivamente medio del dettato svia episodicamente verso
il registro colloquiale («La sancta Scrittura fondata in carità viene a cartocci, a tonnina o a coperchi d’alberelli» 228, «se t’è dato una gotata da
l’una gota, para l’altra» 251) o, viceversa, si punteggia di tecnicismi (illuminativa e notricativa 234, detto della Scrittura: si cita da Debby, 2001).
61. Sono attesi fenomeni microsintattici come l’omissione di che dichiarativo e relativo o
sua ripetizione a distanza e la ripetizione del pronome personale soggetto.
36
stefano telve
Le prediche di Girolamo Savonarola sono state tramandate per opera
del fiorentino Lorenzo Violi, forse coadiuvato da altri, grazie a un’attenta
operazione di registrazione dal vivo, poi seguita dalla trascrizione e dalla
revisione da parte dell’autore in vista della stampa. L’esiguità degli elementi enfatici (prosodici, prima che sintattici, retorici e fraseologici)62 rispetto
ai testi bernardiniani si deve non solo – come probabilmente anche negli
autori precedenti – a una diversa disposizione retorica della predicazione
domenicana e a un differente processo di costituzione del testo (una trascrizione meno attenta, una regolarizzazione in vista della lettura), ma anche alla volontà del Savonarola di sottrarsi al condizionamento del sermo
modernus e delle tecniche scolastiche della divisio e della quaestio, in nome
di una strategia di persuasione che fa appello al ragionamento più che alle
componenti emotive o irrazionali. Il Savonarola non rinuncia dunque ad
affrontare le subtilitates dei teologi (come invece dichiarava di fare san
Bernardino) ma anzi, forte della fiducia in un volgare libero dal modello
delle Scritture in latino (lingua ritenuta in qualche modo secondaria rispetto all’ebraico), accoglie e mette in circolazione tra il pubblico termini
e nozioni della cultura teologica, medica e filosofica (si vedano rispettivamente le voci cognizione, libero arbitrio, potenzia cognoscitiva e astersive,
complessione, constrittivo, esalare e l’opposizione tra sustanzia e accidenti)
in una sintassi che dalle soluzioni più informali può arrivare ad assumere
un profilo “scritto” (cfr. Matarrese, 2000, pp. 243 e 250-2).
Siamo evidentemente ai confini della predicazione moderna, al passaggio che conduce dalla reportatio, allora in via di dismissione63, all’elaborazione scritta in vista della stampa64 e, con ciò, al venir meno delle condizioni di “parlato trascritto” qui individuate: «non si sa», osserva infatti
Pozzi, «in che misura la stampa conservi di una predica l’aspetto originario della redazione effettivamente recitata» (Pozzi, 1997a, p. 19)65. Anche
la modalità prescelta di trasmissione ai posteri condiziona evidentemente
la testualità e le scelte stilistiche ed espressive.
62. Non mancano in Savonarola costrutti come anacoluti, dislocazioni, frasi segmentate, ridondanze pronominali, figure come la ripetizione e il dialogo simulato e gli appelli
all’interlocutore, espressioni popolari come menare per il naso, mettere il grillo in capo: cfr.
Matarrese (2000, pp. 240-5).
63. Cfr. i dati cit. in Ryzhik (2009, p. 586), cfr. anche Blair (2008, p. 47).
64. Cfr. Delcorno (2000b, p. 495). Sul ruolo di Violi cfr. Garfagnini (1989).
65. Cfr. anche Maraschio, Matarrese (1998, p. xiv).
il parlato trascritto
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3.2. Visioni
Affini alla predica per modalità di trasmissione del testo (ancora reportatio), oltre che per contiguità testuale e tematica e per alcune modalità
retoriche, sono le visioni mistiche di Domenica da Paradiso (1473-1553)
e di Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1604). Anche in questo caso sono
tuttavia differenti le rispettive condizioni pragmatiche66.
I sermoni di Domenica da Paradiso, compresi tra il 1515 e il 1540, sono
stati trascritti, se non con fedeltà, per lo meno con «rispetto assoluto per
l’autenticità delle testimonianze riportate» (Librandi, 2000, p. 199), non
durante l’esecuzione in pubblico, ma in un momento successivo, probabilmente tramite la dettatura della religiosa al padre spirituale Francesco
Onesti. Nei sermoni “visionari” – che, come spesso accade nella letteratura
mistica femminile, prevalgono rispetto a quelli “evangelici” – persistono
le consuete risorse dell’oratoria sacra (interrogative, esortative, appelli al
pubblico, similitudini, anadiplosi, climax, sermocinatio), affiancate da costruzioni al gerundio e all’imperfetto che accentuano il colore narrativo
o da sequenze di frasi brevi scandite, nei momenti di maggiore enfasi, da
insistite riprese lessicali.
La struttura portante del discorso prevede un’articolazione in più fasi
(inventio, exordium, narratio, argumentatio, conclusio), ma l’impronta del
sermo modernus appare fortemente affievolita; ciò dipenderà sia dalla
maggiore distanza da quel modello, sia dalla minore acculturazione delle mistiche, sia ancora dalla differente finalità del discorso, che non viene
eseguito in una piazza pubblica a fini moralizzanti o educativi per un uditorio culturalmente differenziato (il popolo cittadino), ma nel chiuso di
uno scrittoio claustrale, per dare testimonianza diretta della parola divina
a un gruppo omogeneo e colto di persone: le consorelle. Più che destinatarie, dunque, costoro sono beneficiarie o semplici riceventi, con conseguenti riflessi anche sulla strutturazione macrosintattica del discorso: la
forte condivisione di un’enciclopedia di riferimento – che potrebbe oltretutto dirsi privata più che pubblica – può verosimilmente dare ragione
sia dell’anomala debolezza delle proforme (ellissi e accordo morfologico,
usati in condizioni di particolare distanza strutturale e referenziale) e dei
legami subordinativi (che con incerto statuto logico-sintattico e funzioni
66. Si preferisce qui tralasciare Francesca Romana (cfr. Bartolomei Romagnoli, 1994, p.
178); sulla lingua delle sue visioni cfr. Ricci A. (2006).
38
stefano telve
di demarcatore testuale), sia della “mobilità prospettica” inversa rispetto a
quella riscontrata nella predicazione, che qui cambia dall’incipit in prima
persona dell’hic et nunc alla terza o sesta persona, [+distale], della visione
narrata (il diaframma che separa e congiunge la dimensione reale a quella
della visione è simbolicamente l’uscio: «e subito io sento fuora de l’uscio
de la cella murmurio e certi parlamenti») per tornare infine alla quarta
persona, [+prossimale] e autoriferita (sé stessa con le consorelle) del commento alla visione («Dicto ch’egl’hebbono queste parole, la visione disparve dagli ochi miei. Se noi vogliamo adunque, o figliuole, ricevere lo
Spirito sancto»; i due passi in Librandi, 2000, risp. pp. 209, 211).
Non un «discorso orale organico», come nei casi precedenti, ma «un
eloquio all’improvviso» (Pozzi, 1984, p. 25), caratterizza invece il ricco corpus delle estasi di Maria Maddalena de’ Pazzi, raccolte grazie a uno «straordinario dispositivo di memorizzazione e trascrizione collettiva» (Pomata,
Zarri, 2005, p. xxx) da parte delle consorelle. Alcune scrivevano mentre altre tenevano a mente e, come ricorda la maestra delle novizie, «finito il rapto si riducevano insieme quelle che scrivevono et tal volta quando havevono
difficoltà in qualche parola io facevo chiamare detta Suor Maria Maddalena
Pazzi, et li facevo leggere quello che si era scritto di suo, et lei correggeva se
vi era errori» (Processo f. 129, in Fresu, Monti, 2007, p. 236, n 20). La sezione
più interessante, rappresentata dai Colloqui (circa novanta estasi, comprese tra il Natale 1584 e giugno 1585), offre «gli squarci più estesi e vivaci del
parlato ripreso in diretta» (Pozzi, 1984, p. 47). Un parlato dalla vocazione
non dialogica né conativa, ma spiccatamente narrativa e descrittiva, in cui il
dettato «diluviale» di Maria Maddalena (punteggiato da vari fenomeni di
sintassi marcata: cfr. Fresu, Monti, 2007, pp. 250-1, 267) passa d’argomento
in argomento e, attingendo a una dotazione lessicale circoscritta, scorre rapidamente lungo sequenze di frasi brevi e topologicamente regolari, tra loro
correlate da una progressione tematica lineare («E quella mano destra, che
infonde? Infonde una potenzia; ed essa potenzia, quante operazione fa?»)
oppure giustapposte in una progressione tematica “a salti”:
O morte che dai vita (silenzio). Io muoio vivendo (silenzio). Ò, ò, ò (silenzio), “Appone iniquitatem super iniquitatem” (silenzio). Ù, che tanto poco sia intesa. La
sapienzia par pazzia e pazzia la sapienzia (silenzio). O iniquità! (silenzio). O offese
non penetrate, ma sì bene esercitate, sì (silenzio). Ò, ò, ò, bone Iesu (silenzio)67.
67. Gli ultimi due passi da Pozzi (1984, p. 83).
il parlato trascritto
39
4. Ambito politico
4.1. L’epoca medievale e moderna
Sin dal xiii secolo, è consuetudine, a Firenze, registrare per iscritto i processi verbali dei consigli tenuti a scopo consultivo-deliberativo in àmbito
politico. I registri delle Consulte, redatti a penna veloce dai cancellieri durante le sedute e poi eventualmente rivisti, all’occorrenza anche con l’ausilio delle minute degli interventi, rappresentano un interessante «campione di lingua colloquiale» che testimonia il prestigio e la vivacità espressiva
dell’eloquio argomentativo fiorentino e, a un tempo, il debito da esso contratto con i modelli retorici dell’ars concionandi medievale68.
La trasposizione scritta dei dibattiti orali produce soluzioni e modalità
espositive ricorrenti (fra i testi cancellereschi dell’epoca sono «quelli più
fortemente codificati»: Marchand, 2002, p. xxvi), anche se in parte arbitrarie perché correlate alla formazione e alla competenza, spesso diseguali,
dei singoli estensori, nonché al loro giudizio interpretativo. Si pensi qui
– prima ancora che all’opzione della lingua tra volgare e latino, su cui naturalmente avranno pesato condizionamenti e tradizioni di cancelleria – alla
selezione del contenuto (rimandi interni da un intervento all’altro che cadono nel vuoto attestano omissioni probabilmente anche volontarie: cfr.
la prefazione di Giorgio Cadoni in Fachard, 2002, p. vii) e, in particolare,
alle scelte stilistiche.
Grafia più irregolare e fisionomia fonomorfologica e microsintattica
più popolare e colloquiale hanno ad esempio i verbali relativi al 1495-97
rispetto a quelli redatti e poi ritrascritti in forma «quasi editoriale» (Fachard, 1988, p. xii) tra il 1505 e il 1512 da Biagio Buonaccorsi. Rispetto a
questi, i primi spiccano per il particolare disinteresse verso la phoné (come
testimoniano sul piano fonetico l’assorbimento della vocale in hanno (a)
havere, assimilazioni come in ritirallo e gram prudentia, apocopi di nomi
al plurale, come in maggior)69.
Di là dal diverso grado di assorbimento del profilo parlato originale, che
lascia tracce anche nella fraseologia («cane che abbaia non morde», «tutto
68. Sulle consulte e pratiche cfr. Telve (2000a), da cui anche la citazione a testo dell’editore
Fachard (1988, p. xi, n 5), e Marchand (2002, pp. xxv-xxvi).
69. E, coerentemente, verso le più corrive idiosincrasie microsintattiche del parlato: cfr.
Telve (2002, pp. 22-7). Per fenomeni di allegro nei verbali dei processi: cfr. ad es. Pelo
(2001, p. 171).
40
stefano telve
[…] va in fummo») e nel lessico (cfr. ad es. le prime attestazioni di cicalamento, grattacapo, malotico), sia pure accanto a un’inevitabile componente
tecnica (secteggiare, sodamento, valsente; cfr. Telve, 2002, pp. 27-32), i verbali
di cancelleria presentano modalità espositive ricorrenti. Ragioni di sintesi
comportano che la segnalazione della modalità riportata dell’enunciato sia
affidata spesso all’infinito (secondo uno stilema poi ben praticato in Guicciardini) oppure al solo (et) / (ma) che, il quale – introdotto nel testo per
lo più in concomitanza con un cambio di illocutività e/o di argomento –
non sempre si collega correttamente con un verbo di discorso riportato che
eventualmente precede («Piacerebbeli… ma che… et che…»). D’altronde la
semantica fa spesso premio sulla sintassi, come dimostra anche il ricorrere di
anafore associative e di oscillazioni deittiche (specie temporali) dovute alla
pressione contrapposta tra la contemporaneità delle parole ascoltate/riportate e la tendenza da parte del trascrittore a proiettare gli eventi in un tempo
passato (dixe…; cfr. Telve, 2000a, passim). Si tratta tuttavia, entro certi limiti, di scelte anche personali, come può ricavarsi dal confronto di questi due
stralci di verbali, vergati da mani diverse e derivati l’uno dall’altro (Biagio
Buonaccorsi da Niccolò Machiavelli)70:
Machiavelli
1. Pier Francesco Tosinghi: che li è
necessario pensare ad altro che al
Marchese, et bisognia ’rmarsi, monstrandosi grandi e’ pericoli.
2. Sonci dua modi ad armarsi: l’uno
per conductieri, l’altro per capitano;
quando si potessi havere capitano,
che si tolga, cioè el Marchese, con
levare via tutte le dificultà et resolverle bene; tòrre conductieri non li
pare, per fare cattiva pruova.
3. Piaceli la diversione detta, ma discosto da casa et non verso Perugia.
4. Confortò si scrivessi ad Napoli, et
allargare la mano col promettere a
Consalvo di non offendere Pisani.
Buonaccorsi
1. Pier Francesco Tosinghi: pàrli che sia
necessario pensare ad altro che al Marchese; ma che bisogna provedersi, perché e’
periculi si mostrano grandi.
2. Che ci è dua modi armarsi: l’uno per
condoctieri, l’altro per capitani. Piacegli el
capitano, potendosi havere; et quando si
potessi adcertare da haverlo, che si tolgha,
faccendogli prima intendere le difficultà, et
che le si resolvessino. Tòrre condoctieri non li
pare, per fare cattiva prova.
3. Adcorderebbesi ad fare la diversione
detta, ma discosto ad casa et non a Perugia.
4. Conforta che si scriva ad Napoli, et allargare la mano di non offendere e’ Pisani.
70. Si cita da Fachard (1988, pp. 10 e 13-4; per facilitare il confronto i testi sono stati
suddivisi in quattro a capo e numerati). Un brano commentato delle consulte e pratiche è
in Gualdo (2013, pp. 232-6).
il parlato trascritto
41
Uno stile di verbalizzazione non troppo diverso può ritrovarsi ancora più
di tre secoli dopo, come attesta questo verbale napoletano del 12 agosto
1848 (da ar-Napoli, x, pp. 350-1; da qui anche gli altri passi citati a testo):
Poerio ritorna alla questione, e dà la preghiera, che siano repressi gli agitatori reazionari, soprattutto i militanti armati, i quali non possono usarne che secondo
la legge, e ne usano contro. Ei sostiene che son pochi; che se l’esercito potesse
deliberare, sarebbe certo di trovar nell’armata la maggioranza costituzionale. Ma
è certo però che alcuni tumultuano; che un’autorità gira pe’ quartieri più ricchi
di lazzaroni per muoverli; che si distribuiscono coccarde: che una bandiera è stata
benedetta in una chiesa; che si mandano emissari nelle provincie. È forse imprudente il chiedere un atto di repressione? La sola notizia di questo atto basterebbe
a ristabilire l’ordine e la tranquillità […]
Conforti conchiude non esservi per la Camera altra sicurezza: niuna difesa: gravi
i pericoli: alla Camera non mancherà il coraggio: ai ministri rimane la responsabilità.
Analogamente a quanto si riscontra nelle Consulte e pratiche, il modello
espositivo qui esemplificato prevede il nome del relatore seguito da verbum dicendi o da verbo performativo («Ruggiero […] fa notare, come
[…]», «Bozzelli […] assicura la Camera» 350; altri verbi sono dichiara,
risponde, ricorda, dice, osserva, chiede, accetta) che introduce sequenze di
dichiarative giustapposte, esplicite (come nel passo citato) o implicite
(«Bozzelli […] dichiara: essersi presi de’ provvedimenti: essersi dati ordini severi: non averne avuto nuove che nella notte: e solo stamattina
averne avuto un rapporto con qualche particolare» 349). Entro questa
intelaiatura si riscontrano ancora fenomeni collegabili all’esecuzione impromptu, come la mancata trasposizione dei deittici temporali (stamattina, nell’ultimo brano citato, invece di quella mattina; «Conforti osserva
che il 16 maggio vi era più fiducia che oggi» 351), riprese anaforiche associative («Al maggior numero del volgo poco importa […]; essi stanno a
vedere» 350) e dislocazioni con funzione coesiva, dovute cioè probabilmente all’esigenza di rendere coesi elementi che altrimenti risulterebbero eccessivamente distanti («Baldacchini accetta questa dichiarazione
del ministro come una promessa di repressione contro gli agitatori, e il
primo atto del Ministero che mostri il fermo volere di far cessare questi
movimenti di reazione lo prende come programma del Ministero» 349,
dove lo prende, in cui il verbo è una variatio del precedente accetta, avrebbe potuto non figurare).
42
stefano telve
Ma il resoconto in terza persona può considerarsi a quest’epoca ormai
un’eccezione. Lo stile dei verbali parlamentari sarebbe stato infatti condizionato, da quest’epoca in poi, da una nuova tecnica di scrittura, la stenografia, e dunque dalla figura professionale dello stenografo: figura che
forse un Comitato segreto come quello della seduta ora ricordata potrebbe
non aver accolto.
4.2. L’epoca risorgimentale
L’Ottocento è il secolo della stenografia. Elaborata in Inghilterra da Samuel Taylor e presto introdotta in Italia grazie ai trattati del romano Emilio Amanti (1809) e in particolare del torinese Filippo Delpino (Sistema
di stenografia, 1819, edd. succ. 1822, 1836, 1848, 1852)71, la stenografia viene
adottata – oltre che nei parlamenti inglese e francese – anche in quelli italiani del 1848: a Palermo, a Roma, a Napoli e ancora a Venezia, a Firenze
e soprattutto, con regolarità, a Torino, dove si praticava il metodo TaylorAmanti-Delpino72 (lo stesso Delpino vi era anzi stato nominato capostenografo del gabinetto stenografico)73.
La Camera dei deputati torinese inaugura le sue sedute il 9 maggio
1848 con un servizio stenografico ancora in fase di rodaggio, come esplicitamente ammesso in nota allo stesso rendiconto della seduta: «L’Onorevole Camera ed il pubblico ci condonerà, speriamo, le imperfezioni
e l’incertezza di questo primo saggio di rendiconto parlamentare» (cfr.
Ricci V., 1931, pp. 11-2). Si apre così la stagione della stenografia d’ascendenza tayloriana nei parlamenti italiani, che si protrae fino alla fine del
secolo, ovvero fino a che non viene introdotta, in Senato, il 18 dicembre
del 1880, la macchina fonostenografica Michela (inventata l’anno prece71. Sulla stenografia nell’Ottocento cfr. De Luca (1820), Sgricci (1823), Scarpa (1826).
72. Cfr., per Palermo, la seduta della Camera dei Pari di sabato 14 ottobre 1848, in AS
(1848, p. 135); per Roma, Moroni (1840-79, s.v. scrittura p. 12); per Napoli, Aliprandi G.
(1920, p. 187) (ricorda un tentativo di stenografia nel Parlamento napoletano del 1820
Giulietti, 1935, p. 357); per Venezia e Firenze Giulietti (1935, pp. 358 e 359, n 2); per Torino
Aliprandi G. (1918-19a, p. 323). Non invece in Lombardia e nei Ducati, che «non ebbero
tempo ed agio di formare veri Parlamenti coi propri rappresentanti»: cfr. La Mantia (1931,
p. 213). Sulla stenografia a Milano cfr. Aliprandi G. (1918-19a).
73. Cfr. Aliprandi G. (1918-19b, pp. 176, 178) e Giulietti (1935, p. 357). Il metodo fu peraltro lodato anche da Silvio Pellico nel “Conciliatore” (30 maggio 1819): cfr. Aliprandi
G. (1918-19b, p. 47).
il parlato trascritto
43
dente da Antonio Michela) e finché non furono assunti alla Camera, nel
1907, i primi stenografi di scuola gabelsbergheriana74.
I discorsi parlamentari di quest’epoca sono dunque riportati di norma
in prima persona; la modalità indiretta in terza persona si può tuttavia
ritrovare quando la prassi stenografica non viene applicata o perché non
ancora in uso, come probabilmente nel caso delle adunanze milanesi, o
perché ancora in fase di elaborazione, come in una delle prime sedute della
Camera di Torino75.
Una volta redatti, i resoconti stenografici venivano pubblicati «nei
migliori giornali politici, ó nei giornali del Governo, denominati officiali» (La Mantia, 1931, p. 213), con risultati tuttavia non sempre soddisfacenti (indipendentemente dal fatto che i giornali fossero esterni76 o
interni77), come non mancavano di far notare alcuni parlamentari (cfr.
Stronati, 2009, p. 328). Un breve stralcio dalla seduta della Camera dei
deputati di Napoli del 19 agosto 1848, di poco successiva a quella citata in precedenza, testimonia in modo esemplare non solo le condizioni
concrete e i limiti correlati alla pratica incipiente della stenografia ma
anche lo stile nuovo dei verbali di questi anni. Dopo aver osservato che
«il giornale ufficiale travisa le discussioni della Camera, e non rende i
discorsi che qui si fanno con quell’imparzialità che è necessaria» (arNapoli, x, p. 385), alcuni deputati propongono che la stampa degli atti
sia affidata a un tipografo posto sotto la sorveglianza della Camera stessa. Tra gli interventi figura a un certo punto anche quello del segretario
(da ar-Napoli, x, pp. 385-6):
74. Cfr. Giulietti (1935, pp. 360, 362-3) e, su Michela, Aliprandi G. (1919-20, p. 350). Sul
sistema gabelsbergheriano cfr. anche Aliprandi G. (1918-19b, pp. 41 e 181).
75. Il resoconto della Camera torinese del 13 maggio 1848 prevede «una parte in forma succinta di sunto, e quindi in terza persona, ed una parte integrale in prima persona
dell’oratore; quella molto concisa, questa invece diffusa come una parlata originale» (Ricci V., 1931, p. 12). Si aggiungano infine circostanze occasionali, come quelle ipotizzate in
precedenza per il Comitato segreto napoletano (cfr. par. 4.1). Sui processi verbali della
Repubblica Romana del 1848 cfr. Gualdo (2012, pp. 88-90) e il brano commentato in
Gualdo (2013, pp. 236-9); sulle edizioni dei lavori preparatori dello Statuto albertino cfr.
Marazzini (2012a).
76. Cfr. ad es. l’acceso intervento di Bixio il 10 marzo 1866 in RPI (1866, pp. 1371-2); cfr.
anche ad es. la seduta del 4 luglio 1848 in ar-Napoli (x, p. 67).
77. Su accidenti e difficoltà di lettura della stenografia tayloriana cfr. Giulietti (1935, pp.
357-8) e l’accenno in Covino (2000, p. 144).
44
stefano telve
Tarantini, segretario. Signor Presidente, se non ho male inteso, si tratta di stampare i nostri atti; or io farò richiesta ai miei colleghi: intendono essi stampare i
verbali che noi redigiamo, o di stampare il lavoro stenografico?
Voci. Il lavoro stenografico.
Tarantini. Questo è il punto, che noi non abbiamo stenografi. E gli stenografi
attuali appartengono al Ministero: però bisogna tener presente un uffizio del ministero dell’interno, il quale permette che si correggano gli scritti degli stenografi,
ma non ne autorizza ad aver copia del lavoro degli stenografi che esso paga […]
De Luca N. Perdonate, in [sic] non dico esser colpa degli stenografi, del cui travaglio abbiamo a lodarci; ma questo lavoro non esce regolare dalla stampa, poichè si
travisa non so dove. […]
De Cesare. Signor Presidente, pare che la questione riducasi tutta a vedere, se il
lavoro che si consente essere ben fatto dagli stenografi, debba esser pubblicato
soltanto dal giornale ufficiale, ovvero da un altro giornale di cui la responsabilità
potrebbe essere della Camera. Gli stenografi fanno bene il loro lavoro, ed è indubitata cosa che debbono lasciare una copia di lavoro qui: dunque abbiamo dei
buoni stenografi, e possiamo godere ed usare del frutto dei loro lavori. Poichè qui
ne resta una copia, dee solo vedersi se noi possiamo pubblicare con un altro stampatore le discussioni avute e se la Camera possa essere responsabile del suo fatto.
Tarantini. Io vi direi su questo punto che potrebbe la proposta aver esecuzione
senza l’incomodo pecuniario dell’erario e della Camera; giacchè abbiamo delle
offerte di parecchi stampatori, i quali chieggono la privativa di stampare tali lavori, che essi si obbligano di pubblicare sotto la nostra sorveglianza. Tutto sta a
vedere se possiamo ottenere dagli stenografi copia del loro lavoro prima che essi lo
passino al giornale ufficiale.
Siamo di fronte a uno stile sobrio in un «parlato serio semplice» (Sabatini, 1997a), si potrebbe dire, del tutto analogo a quello degli attuali resoconti parlamentari, con cui questo tipo di verbalizzazione condivide
non solo il ricorso alle “note di fisionomia” introdotte tra parentesi (più
o meno complesse: da Interrotto, Applausi, Bene!, Benissimo!, Appoggiano
cinque deputati, Dalla tribuna, Legge ecc., passim a La voce era troppo debole ed in questo punto non si è sentito bene, ma ha formolato la mozione che si
è letta appresso dal signor Tarantini, 61) e divenute ben presto così tipiche
da prestarsi agli strali umoristici di Carlo Collodi (cfr. Marcheschi, 1995,
p. 233), ma anche alcuni passaggi di dialogo vivace, come quelli che si ritrovano durante la seduta dell’8 luglio 1848 (cfr. ar-Napoli, x, da cui anche i
passi che seguono più avanti):
Tarantini. Signori […] la quistione potrebbe proporsi in due modi […]. La prima
sarebbe se […], la seconda quistione sarebbe…
il parlato trascritto
45
Vari deputati. Le ragioni?
Tarantini. Ma se non mi fate finire!... la seconda quistione sarebbe […] (109)
Spaventa. Signor Presidente; io propongo che la votazione sia annullata.
Gallotti. Ma se si è votato, si è deciso; dopo una sentenza non si può più votare:
domando dove e in quale votazione della terra dopo che si è votato…
Massari. Ma qual’è questa votazione? Io non ho inteso niente.
Gallotti. Tanto peggio per voi.
De Cesare. Ma allora ogni votazione si potrebbe impugnare con la scusa di non
avere inteso.
Tarantini. Signor Presidente. Credete che si continui la votazione? (112-3).
La colloquialità del tono contempla anche, prevedibilmente, fenomeni
sintattici del parlato.
Oltre alla dislocazione (a sinistra: «Questa [scil. commissione] la potrebbe nominare
il Presidente» 69, e a destra: «L’avete notato questo?» 119), la posposizione enfatica
di un elemento («Bisogna fare il regolamento prima» 91, «Non è il momento questo» 74), eventualmente anche “dato” («Non so come sia pervenuta alla commissione questa carta» 88) che, viceversa, può essere anticipato enfaticamente («Di questo
ci stiamo occupando» 141), così come avviene per un elemento “nuovo” («Un lavoro
importantissimo si deve fare, la Commissione di coloro che debbono verificare i poteri» 57); e inoltre ripetizioni dialogiche (Spaventa: «Ma ci sono le nomine doppie e
bisogna toglierle» Tarantini: «Ve ne sono quattro di nomine doppie» 90) ed enfatiche («Se non c’è Camera! 83, 83 dobbiamo essere» 59), formule metadiscorsive ed
esplicative («È elementare, quindi io mi vergogno di dirlo; subito che una adunanza è
riconosciuta ed è in numero sufficiente, è elementare ripeto che subito si debba costituire, cioè che un corpo subito debba riconoscere, che ha testa, e che ha mani» 91) e
colloquialismi sintattici («Ci è qualcuno che non è stato nominato?» 92, «Che altro
ci ha da osservare?» 73, «Che volete che vi dica?» 91, «Per cui pare a me, che» 107)
e fraseologici («Non fa niente» ‘non importa’ 120, «ci metteremmo alla berlina»
158) che si affiancano inevitabilmente a tecnicismi («bills, ossia le proposte di legge»,
citate a proposito del sistema inglese, 115, e «budget, o stato discusso» 150, elezione
passiva, elezione attiva, eleggibilità 95, emenda 167, nominazione 120, «Esercito la mia
ozione per Avellino» 90, «Dovrebbe ottare il signor Conforti» 90, preopinante 91,
verificazione 120, «sanzionare il verbale» 167).
Dietro a un dialogo vivace è tuttavia ben probabile che si celi, all’atto della messa per iscritto, un’azione di normalizzazione e insieme di occultamento nei confronti del profilo fonomorfologico originale (poco o nulla
concedono ad esempio i verbali al registro dialettale e regionale). Accanto
46
stefano telve
a una probabile revisione formale, linguistica e grammaticale del testo in
direzione di un italiano sorvegliato, sarà infatti legittimo parlare di occultamento per quei fenomeni fonomorfologici resi del tutto opachi dal
metodo Taylor-Delpino, che non prevedeva ad esempio la registrazione
stenografica delle vocali all’interno o in fine di parola (opacizzando quindi del tutto oscillazioni tra dittongo/monottongo, o in casi come siano/
sieno , -iere/-iero, imperfetto di prima persona in -o/-a ecc.) e di alcuni
fatti consonantici (s e z hanno ad esempio un solo segno, le consonanti
doppie sono trascritte come fossero una)78. Colui che si sarà occupato di
decodificare il testo stenografico sarà stato dunque chiamato non solo a
interpretare con «ingegno più aperto e colto» (55) gli eventuali “sinonimi
stenografici” (ad es. panno e piano), ma anche, e certamente con minore
iudicium e maggiore arbitrio (e forse inconsapevolezza), alcuni fatti fonomorfologici allora stilisticamente rilevanti79.
4.3. La contemporaneità
Normalizzazione e, forse, occultamento caratterizzano anche i resoconti parlamentari odierni, come si può agevolmente acclarare per via della
consultabilità del testo orale pronunciato (tempo addietro trasmesso via
radio e registrato e oggi consultabile in formato audiovisivo nei siti istituzionali). Il contrasto tra le esigenze di decoro espressivo proprie di un testo
istituzionale da un lato e la massima fedeltà all’esposizione orale dall’altro
emerge chiaramente al confronto tra testo orale e trascrizione80. Il dettato
originale, frutto di lettura o di improvvisazione, viene ricompattato entro i limiti di una formalità medio-alta attraverso espunzioni, correzioni e
integrazioni: si cancellano sia le tracce della discorsività – tentennamenti (sono… <sono>), segnali discorsivi (be’ allora) e ripetute formule attenuative metalinguistiche (come dire) – sia le tracce della “grammatica” del
78. Cfr. Delpino (1822, pp. 16-9, 49-50 per il trattamento delle vocali intermedie e finali e
delle pause del discorso), Giulietti (1930-31, pp. 140-2, 161-72 per i diversi sistemi).
79. Inconveniente forse non molto percepito all’epoca: cfr. Bonfigli (1932, p. 121) e anche
Giulietti (1932).
80. Si attinge qui alla relazione dell’on. Augusto Di Stanislao (7 marzo 2011), disponibile
nelle versioni audiovisiva e trascritta (Resoconto Sommario e Stenografico 444, pp. 7-11,
ore 11:37-11:52) nel sito della Camera dei deputati. I due testi sono stati qui fusi in un unico testo: gli apici indicano le espunzioni, le parentesi quadre le integrazioni, il segno > le
correzioni (segnalate entro parentesi quadre). Cfr. anche il classico Cortelazzo Mi. (1985).
il parlato trascritto
47
parlato, come l’espressione libera, cioè non contestualmente condizionata,
del pronome soggetto (io, loro), le ridondanze pronominali (<E ne> Sono
convinto, <questo> lo dico); o la congiunzione, per lo più e, a inizio di un
nuovo blocco di frasi (<E> Ancor di più apprezzo)81.
Parallelamente, si ricostruisce un eloquio forbito intervenendo a favore
di una gestione sorvegliata ovvero standard di elementi della grammatica (il costante c’è > vi è, il citato egli, e non c’è nessuna volontà > non vi è
alcuna volontà) e della sintassi della frase. Il soggetto, prima omesso, viene ad esempio espresso sia per disambiguare (ad es. integrando un nome
pieno, gli alpini, altrove preferito al posto del generico loro), sia per rimediare all’eccessiva distanza referenziale e strutturale col suo antecedente
(bastando in questo caso il pronome egli), oppure viene spostato prima
del verbo per evitarne la posizione rematica “parlata” (<Osserva inoltre>
Sempre il sottosegretario Giorgetti [osserva, inoltre,] che; <E ritiene ancora>
il sottosegretario [ritiene ancora] che). I modi verbali sono rivisti, convertendo in congiuntivo l’indicativo di frasi dipendenti da verba opinandi, ma
anche – in un contesto sintattico differente – viceversa: se [questo provvedimento] rappresenta […] un’esperienza pilota che [possa > può] aprire […].
La subordinazione all’interno del periodo viene regolarizzata, introducendo che davanti a ogni frase completiva oggettiva coordinata alla precedente in una sequenza di tre; la connessione interperiodale viene livellata
sullo scritto, sostituendo in apertura di frase un connettivo frasale con uno
testuale (Perché io credo > Infatti, credo) e ovviando alla ripetizione (per
l’Associazione nazionale alpini. [L’Associazione alpini > Tale Associazione],
infatti, può efficacemente intervenire).
Ricondotto nell’àmbito dello standard è anche il lessico che, da ritocchi minimi, meramente grammaticali ([quello > le cose] che ha detto) o
situazionali (surrogando lessicalmente il deittico eliminato: questa proposta “pilota” > la proposta di legge “pilota” in esame), si estende alle singole espressioni, che vengono tradotte in termini istituzionali (vada avanti
> prosegua nel suo iter, a votare il provvedimento > ad esprimere un voto
favorevole sul provvedimento in esame, fa entrare dentro > prevede al suo
interno), come anche confermano le integrazioni di appellativi onorifici
e di riguardo (<Grazie> [Signor] Presidente […], dalla proposta di legge
81. Processi di normalizzazione si verificano in epoca moderna anche per i resoconti parlamentari di altri paesi: cfr. ad es. Mollin (2007) e Slembrouck (1992). Sulle differenze tra
l’oratoria parlamentare italiana e inglese cfr. Bayley (2004, pp. 13-27).
48
stefano telve
[dell’onorevole] Caparini), di là dagli opportuni interventi sul contenuto
(disegno di legge > proposta di legge). Il maquillage istituzionale s’arresta
tuttavia, a meno di non tradire o voler censurare i contenuti autentici, di
fronte ad espressioni intenzionalmente gergali o disfemistiche, per le quali
non si può andare oltre una distanziazione tramite virgolette metalinguistiche (uno che è stato “inchiappettato” per insider trading; Io non chiederò
di essere “escortato”, pardon, scortato)82.
Un breve brano del campione esaminato può esemplificare almeno
parzialmente la fenomenologia trattata e restituire, attraverso un apparato
essenziale di varianti, lo stile dei due testi83:
<E> Arrivo <anche> al punto, perché [quello > le cose] che ha detto il sottosegretario Giorgetti sono <come dire> dei macigni, in questo caso, <insomma>
insuperabili, salvo che poi, in sede di replica, ci si dica il contrario. [E poi una
cosa che vorrei chiedere > Vorrei poi rivolgermi] al Governo, e nella fattispecie
al sottosegretario Cossiga, [è > in merito a] quanto [lui > egli] ha sottolineato
qualche tempo fa, quando ha detto [come > che] il provvedimento <in esame>
si [muova > muove] nella giusta direzione di dare un adeguato riconoscimento
al Corpo degli alpini e al forte legame esistente [tra > fra] il territorio e il Corpo
stesso. Perfetto, <io> sono <come dire> completamente d’accordo su quello che
[il sottosegretario] ha detto in questa fase <il sottosegretario>.
L’avvento dell’informatica ha comportato in tempi recenti una reingegnerizzazione dei sistemi che ha significato, al Senato, la soppressione
della fase di dettatura e la messa a punto, grazie anche all’ausilio di dizionari informatizzati, di una registrazione digitale del turno sincronizzata
col testo. Anche in queste circostanze, permangono tuttavia ovvi margini di arbitrarietà: «con particolare riguardo all’àmbito parlamentare,
qualsiasi stenografo o revisore nel suo lavoro è posto costantemente di
fronte alla decisione se optare per un resoconto razionale e solo sostanzialmente verbatim o per un resoconto quasi integralmente verbatim.
Ciò dipende in larga misura dal contesto e dalla delicatezza del dibattito.
Questa decisione, inoltre, considerata la crescente attenzione dei media
82. I due passi citati sono estratti dal Resoconto n. 440 del 25 febbraio 2011, p. 28 e p. 19. Su
espressioni gergali e neologiche nel lessico parlamentare cfr. Villani (2008, spec. pp. 466-73).
83. Si evidenzia con il corsivo il discorso tenuto a braccio, con il tondo il discorso letto
(confini naturalmente non sempre così nettamente distinguibili).
il parlato trascritto
49
ai dibattiti parlamentari, diviene sempre più cruciale» (cfr. Angeloni,
Zucco, 2003, p. 93)84.
5. Ambito giudiziario
5.1. Dal Medioevo all’età moderna
Sul rispetto della fonte parlata tenderebbero a prevalere, nei verbali d’àmbito giudiziario anche antichi, le pressioni esercitate dalle formularità e
dalle ritualità dell’àmbito notarile, che possono arrivare a caratterizzare retoricamente anche produzioni verbali presumibilmente spontanee come
l’ingiuria e la minaccia (dove sono ricorrenti moduli fissi come ad es. «io
non so che» ‘io non so che cosa mi tiene dal’ e la sequenza formata da epiteto ingiurioso + che + subordinata delle ingiurie lucchesi del Trecento;
cfr. Casapullo, 1999, pp. 41-7). In questi documenti, infatti, la rappresentazione del parlato da parte del notarius actuarius si trova a competere con
il latino, prima ancora che con la tradizionale formularità notarile.
Il volgare si affaccia preferenzialmente nelle parti in discorso diretto
(come già segnala, nel 960, la formula del placito di Capua) e in molte deposizioni testimoniali rese presso le varie corti fiorentine nel Quattrocento, come esemplifica questo stralcio del 1414 tratto dal Libro dei testimoni
in cause civili (1398-1415) della corporazione dell’Arte della lana:
dicendo sibi: “io vorei tu mi pagassi, ch’io tegli prestai così cortesemente”; et quod
tunc dictus Dominichus respondit et dixit: “perché non toglievi tu cinquanta soldi ch’io ti volli dare?”; et quod tunc dictus Barbaas dixit: “perché tu mi facevi
ingiuria a non megli dar tutti chome io voleva, e avevi vinto” (Franceschi, 1991,
p. 218).
Oltre a una fonomorfologia spiccatamente locale (come già nelle Consulte
e pratiche), ricorrono nel testo frequenti deittici della vicinanza (questo),
l’omissione del che relativo ed esplicativo e la ripetizione del soggetto pronominale («ch’io non voglio anche lui io») in frasi collegate per paratassi
e calate in un contesto in latino tramite verba dicendi alla terza persona
84. Sulla progressiva conversione dall’audio analogico al digitale cfr. Petrucci S. (2013, pp.
585-9) e Ionta (2010, pp. 74-6); sugli aspetti linguistici della trascrizione cfr. ivi (pp. 77-84)
e De Girolamo (2010, spec. pp. 274-85).
50
stefano telve
del passato remoto (cfr. ivi, pp. 217-22). L’anno successivo, tra il gennaio e
il novembre del 1415, il volgare fiorentino si imporrà per legge in tutte le
scritture emesse dalle Arti e dalla Mercanzia, venendo promosso a lingua
unica nella redazione dei verbali delle testimonianze. La struttura formale
degli atti rimane invariata, e la narrazione, ancora distinta dal formulario,
acquista in vivacità:
[disse] che la detta Angnola, la quale allora si chiamava Benedetta, stette prima
con Piero da Lucardo, et era di grosso intellecto e da pocho come una capocchia;
e che la detta Benedetta, essendo già stata col detto Piero circa a due anni, si partì
da llui et vennesi a stare in Firenze per trovare con chui stare, inperò che non sapea
fare niente e pareva pur matta (ivi, p. 222).
Di là dal particolare caso di Firenze, testimonianze significative di parlato
trascritto e del confronto tra latino e volgare e, in particolare, tra volgare
toscano e volgare locale traspaiono dai processi svoltisi in altre zone della
penisola.
Il volgare parlato irrompe nel dettato notarile di alcuni testi veneziani
trecenteschi in singoli frammenti (sotto forma di strutture focalizzanti:
temi sospesi, dislocazioni, pronomi personali ridondanti: Stussi, 1965) o
più estesamente, occupando ampie zone di testo, nella vivace registrazione
coeva del volgare lagunare di Lio Mazor85.
Hanno struttura protocollare in latino, ma ampie parti in volgare i
processi contro ebrei e giudaizzanti del S. Uffizio di Venezia (1548-1734;
cfr. Prada, 1995) e gli atti processuali lombardi di suor Virginia Maria
de Leyva (la manzoniana Monaca di Monza, 1607-09), che presentano
peraltro un profilo linguistico simile al parlato trascritto delle Consulte
fiorentine del Cinquecento. Il lessico vivace e diatopicamente connotato della deposizione («la dessedavo col boffo» ‘la svegliavo col soffio
[cioè russando]’, nei testi lombardi) è calato in un dettato in terza persona (sia pure con inserti in discorso diretto nel corso delle testimonianze) contraddistinto da strutture tematizzanti (frasi scisse, dislocazioni,
temi sospesi, Circa/Di + argomento in apertura di frase), fenomeni del
parlato impromptu (false partenze, correctiones e segnali metatestuali) e
strumenti coesivi tipici della trascrizione cancelleresca del parlato (rei85. Il cui testo «se non è la trascrizione stenografica del parlato, certamente riflette la
lingua usata dal testimone»: Benincà (1983, p. 187).
il parlato trascritto
51
terazione di che introduttore di discorso riportato, ripetizioni lessicali,
frequenza del gerundio, anaforici detto, suddetto e sim.), con tanto di
interferenze indessicali con la fonte orale (sfasamenti deittici segnati da
avverbi spaziali e temporali ancorati al piano enunciativo del locutore)
(cfr. Pelo, 2001). Si tratta di testimonianze di parlato trascritto senza
dubbio importanti. Ma, come già per cantari, prediche e oratoria parlamentare, anche per i verbali giudiziari va posta la questione dello status
filologico del testo, vale a dire dell’affidabilità delle fonti, ovvero delle
tecniche di raccolta della parola che non sempre avveniva davvero, come
sulla carta avrebbe dovuto essere, de verbo ad verbum.
Testimonianze significative di parlato trascritto si ricavano dal confronto delle due redazioni della confessione resa dalla presunta strega
laziale Bellezze Ursini, eccezionalmente conservateci nella versione originaria vergata di suo pugno e nella relativa trascrizione eseguita dal
notaio Luca Antonio nel corso del processo del 1527-2886. Nel secondo
verbale la patina semicolta e demotica della grafia originaria è emendata
e toscanizzata spesso, anche se non sempre (accanto alla censura delle
forme metafonetiche e all’introduzione del dittongamento toscano, si
ricordino residuali ipercorrettismi mediani come sensa ‘senza’ e colonda
‘colonna’), ed è nobilitata dall’introduzione di grafie etimologizzanti e
notarili (admazare, herede, exercizio) e da costrutti sintattici sorvegliati. Si elimina la paraipotassi, si riducono ripetizioni e che polivalenti, si
opta per una più chiara esplicitazione dei rapporti logici tra frasi (sostituendo una relativa con una concessiva introdotta da benché), ma si
conservano strutture focalizzanti dell’oralità (dislocazioni e frasi scisse)
all’interno di una struttura periodale che, come la confessione, si articola in lunghe serie sindetiche, inframmezzate da passi in cui taluni
«ripensamenti» e «disartrie» sarebbero attribuibili alla volontà di
riprodurre il parlato87. La fortunata circostanza della conservazione in
doppia redazione si è ripetuta anche nel caso di un altro interrogatorio
cinquecentesco, svoltosi durante la visita pastorale del vescovo Giulio
Contarini presso la pieve di Agordo il 9 giugno del 1557: i verbali furono redatti dapprima in minuta durante la seduta e subito dopo trascritti
nel fascicolo processuale dal vicecancelliere della curia vescovile di Bel86. Cfr. anche cap. 5, n 38.
87. Cfr. Trifone P. (2006, si cita da p. 276). Sul filtro linguistico del cancelliere cfr. anche,
per testi d’area veneta, Corrà (1998, p. 59).
52
stefano telve
luno Giovanni Francesco Mazzoco dalle Biave, secondo una redazione
in due tempi per lui abituale88.
Mentre il testo delle domande è assente o formulato in latino, quello
delle risposte è più complesso ed articolato di norma in volgare. Oltre
all’aggiunta di dettagli spazio-temporali («[de questa] sua vita [qui in
la pieve]» 216) e di inserti linguistici di circostanza propri dell’uso notarile («è publica [voce et] fama», «[venerando] archidiacono», «lui
[testimonio] come monego» 216), nella revisione e poi nella copiatura
“in bella” si interviene sulla deissi, trasponendo i tempi al passato («Menego da Gona par che adesso non si cura» → «Menego da Gona par
che za non si curasse» 210), e sulla modalità del discorso riportato, che
passa dal discorso diretto al discorso indiretto («Respondit: “Uno Petri Rayther todescho magna carne de venere”» → «L’è anche uno Petri
Rayther todescho, qual magna carne de venere» 210) e talvolta viceversa
(«respondit se cognoscere dictum Petrum, el qual non ha per bon christian, ma per lutheran, perché non l’ha mai visto in chiesa» → «respondit: “Signor sì che cognosco el detto Petri Rayther, qual non ho per bon
christian, ma per lutheran, perché non l’ho mai visto in chiesa» 216).
La scelta della modalità citativa nella stesura in minuta, correlata anche
all’opzione tra latino e volgare, può essere stata condizionata dalla comodità e dalla velocità di scrittura. Conta peraltro il fatto che i brevi inserti
in latino liberamente sparsi nel dettato volgare siano successivamente tradotti nel volgare locale che caratterizza il parlato in discorso diretto delle
deposizioni («Petri Rayther, cum eius uxore, esser suspetto de heresia» →
«Petri Rayther, con sua moier, esser sospetto de heresia» 212-3). Solo raramente il dettato viene corretto in alcuni fatti grammaticali, eliminando
ridondanze («non so che <nessun> de questi todeschi si [confessino >
confessi] alchun de loro» 213) e intervenendo all’occorrenza su fonetica
e sintassi:
Interrogatus respondit: “Signor sì che ghe sta altri todeschi in quella casa, ma de
quelli non so così la sua vita, perché ei sta et va a tempo. L’è ben vero che quando
se dise <la> mesa, [ii > ei] se [vede > vedi] a pasezar per il broio”. […] Dicens interrogatus: “Li ho visti mi e tutti [che > chi] vien da messa li [pol > puol] veder”.
88. I testi sono pubblicati da Del Col (2002; per il brano in corpo minore citato più in
basso cfr. ivi, pp. 228 e 234), che tra l’altro sottolinea il ritardo delle indagini filologiche
nell’àmbito dei verbali inquisitoriali (cfr. ivi, pp. 201-2); cfr. anche Del Col (1994, spec.
pp. 89-95).
il parlato trascritto
53
La struttura del discorso è del tutto simile a quella che ritroviamo in altri
processi cinque-secenteschi, come quelli del S. Uffizio di Venezia precedentemente ricordati (dove figura in volgare: «Domandato […] respose […]»: cfr. Prada, 1995, pp. 164-5), del Tribunale Criminale di Roma
(cfr. Di Candia, 2009) e quelli del 1583 e del 1599 che vedono imputato
il mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio. Le parole di
risposta dell’imputato, introdotte da respondit o dixit, sono precedute da
un atto di domanda, di norma introdotto formularmente da Interrogatus
oppure Ei dicto e abitualmente seguito dagli argomenti espressi in forma
di complemento (anche bilingue: «Interrogatus de aetate et se ha figlioli,
respondit») o di frase esplicita («Interrogatus se lui è stato in Barcis, et
con chi ha praticato, respondit») o in discorso diretto («Interrogatus:
“Questo Lucidario della Madonna, dove voi ditte haver letto tutte le cose
da voi deposte, lo havevate hora in casa?”, respondit: “Io l’haveva quando
steva a Arba, che una donna me lo imprestò et fu del 1564, qual donna
haveva nome Anna et io glielo restituii”»; si cita da uno dei pochi verbali
redatti durante le sedute: cfr. Del Col, 1990, pp. 47-8). Queste poche battute possono bastare a esemplificare il tasso d’oralità del dettato; ma circa il
grado di fedeltà rispetto al testo effettivamente pronunciato è opportuno
essere – anche in presenza di doppie redazioni – molto cauti.
Se è vero che, come indicato nel manuale di Eliseo Masini Sacro arsenale,
overo Prattica dell’officio della Santa Inquisitione del 1665, i funzionari erano tenuti a registrare «le loro [scil. dei rei] proprie parole distesamente»,
compresi «gli accidenti, i gesti, e i movimenti del reo che si esamina, come
se divenisse pallido, se tremasse, se nel rispondere vacillasse, se dicesse delle
parole rotte ed incompatte, se s’intoppasse nel rispondere e imbrogliasse le
parole e hora affermasse, hora negasse una medesima cosa, se rispondesse
superbamente e con arroganza e se anco s’inginocchiasse e con parole humili domandasse perdonanza del delitto commesso, il tutto si noti» (ivi,
p. 43); è anche vero d’altra parte che «nella realtà questi funzionari non
erano sempre accurati e, anche se nella sostanza riportavano molto probabilmente il senso di quanto ascoltavano, operavano in funzione degli scopi
del tribunale e non della completa e dettagliata veridicità che lo storico o
l’antropologo può immaginare»89. Della manipolazione dei verbali e del
fatto che «il rapporto tra imputato e inquisitore è fortemente condizio89. Del Col (2002, p. 204); per il brano citato del Masini cfr. ivi (pp. 221-2, n 6); cfr.
anche Prada (1995, pp. 160-1).
54
stefano telve
nato dal potere del giudice e dalle sue scelte procedurali»90 ovvero dalla
sua “agenda nascosta”91 si hanno, oltre a prove di carattere contenutistico,
anche tracce linguistiche che si concretizzano ad esempio in strutture tematiche focalizzanti (dislocazioni e frasi scisse), poste in apertura di turno
conversazionale per salvaguardare l’ordine logico dell’enunciato e predisporre la lettura posteriore da parte del “destinatario latente”, «elemento
di polarizzazione della forma linguistica che il documento assume»92.
5.2. Età moderna e contemporanea
Nei secoli più vicini a noi, è significativo – sebbene non abbia avuto ricadute immediate – l’auspicio espresso dal penalista Giandomenico Romagnosi (1761-1835) a favore dell’uso della stenografia nel processo criminale
pubblico, allo scopo di ovviare a resoconti stilati approssimativamente dai
cancellieri «nel bollore e nella rapidità delle interrogazioni e delle risposte
dei testimoni e degli accusati»; nonché il fatto che questo stesso auspicio
fosse poi accolto dal Ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Giuseppe
Luosi, e da lui manifestato al Vice Re d’Italia, Principe Eugenio Napoleone, in una lettera del 6 novembre 180693.
Per una novità forte bisogna tuttavia aspettare il 24 ottobre del 1989,
ovvero l’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale, il quale
– stabilendo tra l’altro che la prova si forma oralmente a dibattimento –
impone di fatto nuove tecniche di verbalizzazione: «non più resoconti
riassuntivi ma riproduzioni fedeli del parlato dell’aula»94.
Assumono dunque particolare importanza i verbali “secondari” (forme
di parlato trascritto), ovvero trascrizioni di intercettazioni (telefoniche o
90. Del Col (1994, p. 86). Spesso le voci degli inquisitori emergono di più rispetto a quelle degli inquisiti: cfr. anche Quaglioni, Esposito (1991, p. 294) e Patschovsky (1991, p. 297).
91. Su cui cfr. Bellucci (2005, pp. 159-61) e Di Candia (2009).
92. Per “destinatario latente” si intende «un soggetto assente al momento dell’interazione o presente ma in un ruolo diverso da quello del fruitore passivo, che in una fase successiva a quella dibattimentale si troverà a confrontarsi direttamente con il testo scritto dal
notaio per valutarlo sotto il profilo processuale» (Di Candia, 2009, p. 427; la cit. a testo
è a p. 428).
93. Cfr. Aliprandi F. (2003, p. 109); il ministro raccomandava ai cancellieri dei Tribunali
il trattato dell’Amanti: cfr. Aliprandi G. (1918-19b, p. 44).
94. Faticoni (2003, p. 115). Sui risvolti linguistici del nuovo assetto cfr. Bellucci (2005,
pp. 8-11 e passim).
il parlato trascritto
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ambientali) e trascrizioni di udienza (o dibattimentali), eventualmente
registrate o eseguite tramite stenotipia (secondo l’art. 134 c.p.p.), che dal
punto di vista della forma risultano nettamente distinti dai meno frequenti
verbali “primari” (scritto-scritto, come i verbali di sopralluogo: cfr. Bellucci, 2005, pp. 21-2, 96, 105-6, 126, n 544, 435-6). La pressione delle ritualità
del linguaggio burocratico dipende solo in parte dal grado di scolarizzazione dell’estensore (è più alto ad es. nei verbali d’imputazione e più basso
in quelli relativi alle indagini preliminari; cfr. ivi, pp. 20-4) e, pur essendo
maggiore nei verbali “primari” che non in quelli “secondari”, è ben presente anche in questi ultimi, rischiando anzi troppo spesso, nelle trascrizioni
di intercettazioni, di offuscare con inopportune perifrasi («ci si adopera
per addivenire al rintraccio», «si compongono le utenze», si «invia una
bestemmia»; ivi, p. 73) un messaggio che risulta invece fondarsi strutturalmente proprio sulle peculiarità grammatico-lessicali (regionali sempre
e molto spesso dialettali e gergali) e soprattutto pragmatiche («esitazioni, pause, silenzi, intercalari, ripetizioni, false partenze, sottintesi, uso di
deittici […], intonazione»95) che caratterizzano lo specifico contesto sociolinguistico e idiolettale dell’indagato (tanto più se dell’ambiente malavitoso). Il lavoro di doppia riduzione grammatico-lessicale e pragmatica
dal parlato “non vincolato” dell’indagato allo scritto “vincolato” del verbalizzatore richiede a quest’ultimo di mettere in gioco una serie di competenze che, indipendentemente dalla formazione scolastica e professionale
degli organi di polizia ai quali è affidato il compito di trascrizione (art. 268
c.p.p.), producono risultati a volte molto incerti, tali che «la trascrizione
abitualmente offerta al magistrato non è che un pallido, cangiante, riflesso
dell’universo sonoro intercettato» (Bellucci, 2005, p. 69):
neri: No, poi immaginare, magari lui. No! Non è che la devi anda’ a cerca’ una
cosa. Se è, buttala li. Be, io so’, c’ho solo na persona, de ma, lui son sicura che se la
chiedo, involendo a lui, de! Già, la sa tutta Spezia, e poi non mi sembra il caso di
sputtanammi, capito? Te so’ che stai zitto, al cento per cento […] M’ha dato i vaini
[soldi] per comprarmi la roba lunga […] Una domenica che Antonello era da me,
lui e venir con pieracula ... a vede’ se trovava la compile’ (ivi, p. 74).
Profilo testuale e pragmatico leggermente diverso hanno le trascrizioni di
udienza (o dibattimentali) e in particolare i verbali d’interrogatorio. La
95. Grimaldi M. (1996, pp. 109-10) cit. in Bellucci (2005, p. 68).
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stefano telve
tipologia testuale (con lo schema domanda-risposta, redatta la prima in
modo sintetico e in forma indiretta e la seconda più distesamente e in forma di discorso diretto) è fortemente condizionata dall’interazione asimmetrica che caratterizza gli scambi dialogici tra le parti. In queste condizioni pragmatiche, oltre alle prevedibili difficoltà di trascrizione dei dati
linguistici nonché semiotici (peraltro variabili in relazione alle differenti
ditte a cui è affidata la verbalizzazione96), si riscontra, come già osservato
per i verbali cinque-secenteschi, uno spiccato ricorso agli ordini marcati e
a meccanismi di topicalizzazione (dislocazioni, frasi scisse, c’è presentativo
ecc. in misura anche maggiore di quanto non avvenga nel parlato conversazionale) per connotare la salienza informativa dei dati che via via si acquisiscono nel corso del dibattimento97.
96. Cfr. Bellucci (2005, p. 172, n 85). Manca peraltro un protocollo che stabilisca le principali convenzioni di trascrizione e garantisca uniformità e chiarezza: cfr. ivi (p. 436, n 6).
Le informazioni paralinguistiche e prosodiche sono registrate solo molto di rado: cfr. ivi
(p. 155, n 19).
97. Cfr. ivi (pp. 207-16). Sull’interazione asimmetrica cfr. ivi (pp. 146-8, 155-207).