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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI DOTTORATO IN DIRITTO CURRICULUM DI FILOSOFIA DEL DIRITTO E BIOETICA GIURIDICA XXX CICLO TESI DI DOTTORATO Il governo delle comunaglie. Fonti, gestione, conflitti e tutela dei beni ad uso collettivo nella Liguria d’età moderna SSD IUS/19 Tutor: Chiar.mo Prof. Riccardo Ferrante Chiar.mo Prof. Realino Marra Candidato: dott. Daniele Rosa Anno Accademico 2018/2019 «La più abusata delle domande è quella che si chiede se l'incoscienza non giovi alla serenità più della conoscenza, se l'innocenza non sia quindi da invidiare più della consapevolezza. Io dico invece che la questione da porsi è se davvero abbiamo la possibilità di conoscere a fondo, se quel coordinato rimpallo di domanda e risposta non sia solo un gesto insensato che si ripete in modo meccanico e ciò che raccogliamo a seguito dei nostri interrogativi non siano elementi insufficienti che ci facciamo bastare e chiamiamo conoscenza. Quindi di un rimpallo parliamo, ma molte delle volte la palla lanciata con un quesito non torna più neanche indietro, precipita nel vuoto di un burrone. Allora, certo, la leggerezza va a braccetto con la conoscenza o l'ignoranza? Ma il dilemma si divide tra chi si pone le domande e chi non lo fa. Non hanno nessuna importanza le risposte, forse esse neanche esistono, e non sono significative neppure per l'annosa questione che riguarda la beata innocenza. Tutto ciò che conta è porsi la domanda, quella giusta. Gli interrogativi esatti creano la pressione per andare alla ricerca delle soluzioni, danno il via al cammino, fanno scegliere percorsi e strade. Conta davvero la meta?» (ALESSANDRO BILLOTTA, «Il colore giallo» – Mercurio Loi) Con la presente tesi giunge a compimento il percorso di studio presso la Facoltà (ora Dipartimento) di Giurisprudenza dell’Università di Genova, che mi ha visto prima studente del Polo didattico di Imperia e poi dottorando del XXX ciclo del curriculum di Filosofia del diritto e bioetica giuridica. Un percorso impegnativo ma estremamente gratificante, che ha inciso indelebilmente sul mio modo di intepretare (per non andare fuori tema…) il mondo circostante. La scrittura delle pagine che seguono, avvenuta non senza qualche fatica, non sarebbe stata possibile senza l’ausilio di Maestri al contempo pazienti e illuminanti. Storici, d’altronde, non si diventa in un giorno e per quel poco o tanto di buono che sono riuscito ad infondere in questo lavoro devo ringraziare i proff. Rodolfo Savelli e Riccardo Ferrante. Senza la loro guida per l’avviamento alla frequentazione degli archivi, senza i suggerimenti e le salutari “stroncature” delle redazioni intermedie questa tesi sarebbe stata ben più mediocre. Un ringraziamento va anche al prof. Realino Marra per la cotutela e i suggerimenti per la stesura del capitolo I. Unitamente a loro, ringrazio tutti i componenti della sezione di Storia del diritto: dal prof. Vito Piergiovanni, alle professoresse Maura Fortunati e Roberta Braccia, nonché il prof. Lorenzo Sinisi e le dottoresse Daniela Tarantino e Federica Furfaro, fino all’amico Valter Montallegro e all’amico (e collega) Matteo Fiocca. È grazie a loro che il secondo piano di via Balbi 30 è stato in questi quasi quattro anni un luogo dove coniugare studio sereno, confronto intellettuale stimolante e, perché no, anche momenti di allegria. Il dottorato ha rappresentato anche la prima prova di vita “indipendente”, contrassegnata da esperienze e conoscenze del tutto nuove. A chi mi ha accompagnato per un tratto di cammino come coinquilino/a nel mitico appartamento di Vico dietro il coro di S. Cosimo va un grazie per avermi sopportato e/o supportato. Tra tanti, una menzione speciale va a Noemi, compagna di banco prima e di casa poi, la migliore “sorella mancata” che potessi avere. Ringrazio tutti gli amici e compagni della sede genovese dell’ADI, augurando a chi verrà dopo di me nel direttivo di mantenere ADIGe un luogo di aggregazione e di azione concreta a favore di tutti i colleghi che vivono e fanno ricerca di base a Genova. Ringrazio poi Daniele, Francesco e Lorenzo, promettenti medievisti che mi hanno accolto con entusiasmo durante le scuole dottorali toscane. A Daniele va anche il ringraziamento per aver letto il capitolo I in anteprima. La preparazione della tesi ha richiesto anche un certo sacrificio di tempo, sottratto ad altre persone care. Giunto alla fine mi sento in dovere di chiedere venia a tutto il gruppo dei “Chiurli” per i numerosi pacchi tirati loro dal 2015 al 2018. Ragazzi e ragazze, non avete idea di quanto siate stati importanti nel riempire il (poco) tempo libero passato a Tovo di cose buone. Ringrazio anche tutto il gruppo di attivisti del MoVimento 5 Stelle di Pietra Ligure per aver compreso le ragioni della mia temporanea sparizione dal Meetup. Infine per il supporto e l’affetto mai venuto meno ringrazio zii, cugini e parenti. Ai miei genitori Mary e Nico il grazie finale e più grande, non solo per non avermi fatto mancare niente per i primi trent’anni di strada con grandi sacrifici, ma anche per la fiducia nelle scelte che ho compiuto negli ultimi anni. Con la certezza che essa non verrà mai meno. Dedico a loro questa tesi e idealmente anche a Maria e alla Pina, le prime “fonti orali” sulla dura vita contadina dell’entroterra ligure di inizio Novecento, che hanno vegliato su tanta parte della mia infanzia. Con i loro racconti mi hanno instillato l’interesse per un mondo che non c’è più e un profondo rispetto per il territorio in cui vivo. Elenco abbreviazioni: ASGe: Archivio di Stato di Genova ASSr: Archivio di Stato di Imperia – Sezione di Sanremo ASCA: Archivio Storico Comunale di Albenga ASCPDT: Archivio Storico Comunale di Pieve di Teco ASCSSM: Archivio Storico Comunale di Santo Stefano Magra BCB: Biblioteca Civica Berio – Genova BUG: Biblioteca Universitaria di Genova CSBG: Censtro Servizi Bibliotecari del Dipartimento di Giurisprudenza di Genova ASCFL: Archivio Storico Comunale di Finale Ligure RSL: Repertorio degli Statuti della Liguria DBC: Dictionnaire des biens communs Sommario Introduzione ......................................................................................................................................... 1 Capitolo I – I beni comuni tra storiografia della proprietà e dello Stato ............................................. 7 1.a) I “miti delle origini” della proprietà collettiva e del comune rurale .......................................... 7 1.b) Storici e giuristi di fronte al pluralismo proprietario medievale ............................................. 11 2.a) Beni comuni o beni del comune? Il problema della titolarità secondo la principale storiografia ..................................................................................................................................... 18 3.a) Stato e corpi territoriali tra “macro” e “micro” storie ............................................................ 25 3.b) Stato e beni comuni in Liguria ................................................................................................. 36 CAPITOLO II - Le istituzioni di gestione dei beni comuni: il “metodo Ostrom” applicato alla ricerca storica ................................................................................................................................................. 43 1.a) L’approccio neo-istituzionale allo studio dei beni comuni ...................................................... 43 2.a) Le risorse agro-silvo-pastorali dal Corpus iuris alla campagna ligure .................................... 47 2.b) Le acque interne e le res communes omnium ......................................................................... 54 3.a) Il modello di Ostrom applicato alla Repubblica di Genova: fonti e istituzioni locali ............... 62 3.b) Segue: magistrature e fonti statali ......................................................................................... 70 Capitolo III - Governare terre contese: fonti e conflitti per l’utilizzo di boschi e pascoli .................. 78 1) COMUNAGLIE E QUESTIONI DI CONFINE IN VALLE D’ARROSCIA .................................................................. 78 1.a) Il capitanato di Pieve di Teco e la fisionomia delle comunaglie .......................................... 78 1.b) I diritti d’uso delle comunaglie ............................................................................................ 81 1.c) La gestione dei beni tra necessità finanziarie e giurisdizionali ............................................ 89 1.d) Le comunaglie pievesi viste da Genova: i diritti collettivi come strumento di governo del territorio e difesa dei confini....................................................................................................... 94 2) IL BOSCO DI SANREMO .................................................................................................................... 100 2.a) Le risorse forestali del Ponente ligure ............................................................................... 100 2.b) Il nemus Sanctiromuli: un bosco comune o comunale?..................................................... 103 2.c) Il governo del bosco: magistrature e politica forestale (1583-1753) ................................ 107 2.d) Il bosco attraverso la “rivoluzione” del 1753: cesure e continuità .................................... 112 Capitolo IV - Governare le privatizzazioni: le istituzioni liguri e la tutela delle comunaglie ........... 119 1.a) Introduzione ....................................................................................................................... 119 2.a) Il problema del recupero dei beni usurpati in dottrina: due consilia di Della Corgna ed Ondedei ..................................................................................................................................... 124 2.b) Il Magistrato delle Comunità di fronte alle occupazioni ................................................... 134 3.a) La gestione degli abusi tra azione centrale e ambiente locale.......................................... 142 3.b) Autonomia e conflitto sociale: il caso di Castiglione Chiavarese....................................... 151 4.a) Le alienazioni: difesa dei beni o difesa delle regole? ......................................................... 162 Capitolo V- Le acque interne liguri: un bene comune? ................................................................... 171 1) Il governo delle acque tra mutamenti economici e scienza giuridica...................................... 171 1.a) Le politiche di gestione delle acque interne: gerarchia di diritti d’uso e istituzioni .......... 171 1.b) Il contributo della scienza giuridica al “giure delle acque” ............................................... 179 2) «RIGANO LA LIGURIA MARITTIMA MOLTE FIUMARE». DIRITTO E ISTITUZIONI DI GESTIONE DELLE ACQUE INTERNE LIGURI ............................................................................................................................................. 186 2.a) La gerarchia dei diritti d’uso nelle fonti locali ................................................................... 186 2.b) Gestione e autorità di controllo sulle acque tra Genova e il Dominio ............................... 194 2.c) Governare un fiume di confine: diritto e conflitti in riva al Magra .................................... 203 2.d) Una fertile pianura dall’aria malsana: la fallimentare gestione delle acque ad Albenga 212 CAPITOLO VI - Dalle comunaglie al diritto del “Comune” ............................................................... 221 1) IL GOVERNO DELLE RISORSE COLLETTIVE IN UN TERRITORIO COMPLESSO: UN PARZIALE BILANCIO..................... 221 1.a) Le risorse collettive liguri: la lunga resilienza di un modo di possedere ............................ 221 1.b) Successi e fallimenti nella gestione dei beni comuni tra Stato e comunità ....................... 227 2) OLTRE I BENI COMUNI. TEORIE SUL “COMUNE” E SPERIMENTAZIONI TRA FRANCIA E ITALIA ........................... 239 2.a) I communs in Francia: una teoria ancora inattuata .......................................................... 240 2.b) Il movimento per i beni comuni in Italia: verso un giurista dei commons? ....................... 247 Bibliografia ....................................................................................................................................... 257 Introduzione «Lo Feudalesimo est lo novo che avanza, tremate perché pugneremo ad oltranza!». Con questa minaccia i Nanowar of Steel chiudono l’inno di “Feudalesimo e Libertà”, il finto partito politico nato su Facebook nel 2013 con l’obbiettivo di restaurare la società feudale in Europa, ricostituendo il Sacro Romano Impero. Il fenomeno “FeL” ha indubbiamente “sfondato” sui social network per la sua capacità di portare il neo-medievalismo su temi e medium nuovi (la parodia politica e sociale e i social, appunto) al punto da diventare un brand con una identità ben riconosciuta, capace di ritagliarsi una fetta di mercato per prodotti ludici e di abbigliamento. Com’è noto il neo-medievalismo, inteso come la rappresentazione di un medioevo alternativo a quello indagato dagli storici, vera e propria fabbrica di tradizioni identitarie e culturali, più o meno buio o violento, etnico o interraziale, religioso o amorale, non nasce con Feudalesimo e Libertà. Lungo il Novecento il medioevo – ma sarebbe più corretto parlare di “medioevi” – ha rappresentato l’inesauribile cassetta degli attrezzi dalla quale autori di libri, film, canzoni, gruppi politici hanno estratto materiale in quantità, riplasmato ogni volta a seconda delle esigenze. Dopo un relativo periodo di quiete, anche i medievisti hanno ripreso ad analizzare virtù e difetti del medioevo “di ritorno” del terzo millennio1. Se il medievalismo può veicolare una visione distopica della società e del costume di una decina di secoli fa a fini artistici o folkoristici, maggiori problemi si pongono allorquando la storia è posta alla base di ricerche scientifiche. In particolare il ricorso alla storia da parte dei giuristi – storici, giuristi positivi, giudici, ciascuno con un proprio scopo – è tanto frequente quanto disseminato di controindicazioni potenzialmente distorsive. Come avverte Cassese, la storia è (deve essere) compagna necessaria del diritto, ma perché il rapporto possa dirsi reciprocamente fruttuoso esso deve assestarsi su condizioni di parità e di verità. Il rischio è che una falsa storia, ossia una ricostruzione parziale o avulsa dal contesto, getti le basi per un falso diritto o ragionamento giuridico2. Detto rischio è destinato ad aumentare notevolmente allorquando, per delicatezza e complessità dei temi trattati, la ricostruzione delle radici non può essere che Vedi la sintesi di T. DI CARPEGNA FALCONIERI, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati, Torino, 2011. 2 S. CASSESE, La storia, compagna necessaria del diritto, in Le Carte e la Storia, XV, 2 (2009), pp. 5-11. 1 1 altrettanto articolata, con la concreta possibilità che alla fine l’argomento storico indebolisca la tesi che si vuole sostenere, invece di rafforzarla. Una dimostrazione delle controindicazioni di un approccio disinvolto alle fonti storiche è data dalla recente produzione scientifica sui c.d. beni comuni. Argomento, quello della storia della proprietà collettiva, in realtà già ampiamente discusso da storici e giuristi già a partire dall’ultimo Ottocento e che ha conosciuto una nuova giovinezza a partire dai primissimi anni del nuovo millennio. In Italia in particolare i beni comuni sono rapidamente entrati nel lessico politico, anche grazie alla campagna referendaria del 2010-2011 contro la messa sul mercato della gestione del servizio idrico integrato, campagna efficacemente denominata “Acqua Bene Comune”. Di quella campagna fu protagonista il civilista Ugo Mattei, redattore dei quesiti referendari, già membro della Commissione Rodotà per la riforma della disciplina codicistica dei beni e successivamente presidente dell’azienda municipale dei servizi idrici del Comune di Napoli. Si deve a Mattei il salto di qualità compiuto dai beni comuni, trasformatisi in parola d’ordine di un altro modo di gestire la res publica e di ordinare la società, opposto ai paradigmi neo-liberali attualmente maggioritari. Lasciando in disparte le implicazioni politiche del discorso – sulle quali il confronto è tutt’altro che chiuso – non si può fare a meno di notare l’importanza rivestita dalla storia nel Manifesto per i beni comuni scritto dallo stesso Mattei3. La tesi è ormai nota: fino alla modernità, la società dell’Occidente medievale è permeata dai principi solidaristici cristiani e da consuetudini e costumi popolari locali che pongono comunità e corpi sociali in un rapporto di simbiosi. L’equilibrio tra uomo è natura è sancito dalla conservazione dei beni comuni, in un contesto giuridico dove i diritti di proprietà privata sui fondi sono nettamente minoritari. Questo mondo olistico viene gradualmente messo in crisi e soppiantato dall’affermazione di nuovi valori (individualismo giuridico, razionalismo scientifico) e da un diverso ruolo dello Stato, che rivendicata con successo la sovranità assoluta si fa regista dello smantellamento dei beni comuni (fondamentale qui il richiamo alle enclosures inglesi) e della riforma della proprietà privata fino al trionfo dei codici4. Le critiche alla proposta di Mattei non hanno tardato a comparire ed hanno evidenziato l’eccessiva semplificazione del pensiero di alcuni intellettuali vissuti nei secoli cruciali (XVI e XVII), troppo rapidamente iscritti nella lista nera dei “nemici” dei beni comuni5. Cfr. U. MATTEI, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011. Più recentemente vedi anche F. CAPRA, U. MATTEI, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro, 2017. 5 Cfr. E. VITALE, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari, 2013. 3 4 2 Ora, Mattei mutua da uno storico del diritto di livello quale Paolo Grossi il punto di vista della scienza giuridica per svolgere l’analisi dell’evoluzione storica del diritto di proprietà, notando correttamente le manipolazioni apportate già nel XIII secolo agli istituti romanistici per adattarli alle situazioni possessorie medievali. Ma al di fuori del diritto “dotto” era vigente nelle campagne un diritto consuetudinario, frutto di continue negoziazioni – che presupponevano dei conflitti – per l’accesso ai beni comuni e la salvaguardia delle risorse collettive. In questa direzione però l’indagine si ferma ad un superficiale richiamo al “diritto popolare consuetudinario” dei beni comuni, senza approfondire né le dinamiche sociali sottese a quel diritto né il rapporto tra autorità pubblica e proprietà collettive, considerato inesistente fino all’avvento dello Stato sovrano/privatizzatore. Se una simile approssimazione si può spiegare con il taglio un po’ da pamphlet del libro, è però stato giustamente notato da Ferrante che una storia “non presa sul serio”, che riduce il medioevo a folklore da palio, causa più danni che benefici alla teoria dei beni comuni, sempre che l’argomento storico possa essere utile a tal fine6. Inoltre la critica che viene rivolta allo Stato privatizzatore amalgama in un continuum politico-istituzionale circa quattro secoli di storia, come se dalle Parliamentary enclosures al 2011 non fosse mutato nulla. Eppure lo Stato contemporaneo ha ancora un ruolo nell’erogare servizi indispensabili per la cittadinanza, dalla sanità alla scuola, e in attesa di eventuali rivoluzioni resta ancora il soggetto munito dell’autorità di tutelare d’imperio i diritti individuali e collettivi. L’attacco generico all’ideologia neo-liberale e alla globalizzazione, in sé condivisibile, manca però di individuare i concreti dispositivi giuridici con cui tale ideologia si è potuta imporre negli ordinamenti. Ciò significherebbe evocare come parte del problema il diritto comunitario dell’Unione Europea e, soprattutto, le asimmetrie insite nella costruzione della moneta unica, che hanno profondamente snaturato le funzioni di governo dell’economia degli Stati europei7. Il presente lavoro nasce dunque con questo intento: effettuare una ricerca sulle forme storiche di proprietà collettiva senza pregiudizi né precomprensioni, e senza neppure voler porre in una antistorica continuità gli usi civici feudali e le molteplici sperimentazioni contemporanee Cfr. R. FERRANTE, La favola dei beni comuni, o la storia presa sul serio, in Ragion pratica, 41 (2013), pp. 319-332. Cfr. A. BAGNAI, Crisi finanziaria e governo dell’economia, in Costituzionalismo.it, 3 (2011), disponibile al link http://www.costituzionalismo.it/articoli/406/; L. PATRUNO, La “teologia economica” dell’Europa e il “banco da macellaio” (Schlachtbank) della Storia, in Costituzionalismo.it, 3 (2011), disponibile al link http://www.costituzionalismo.it/articoli/394/; G. BUCCI, Le fratture inferte dal potere monetario e di bilancio europeo agli ordinamenti democratico-sociali, in Costituzionalismo.it, 3 (2012), disponibile al link http://www.costituzionalismo.it/articoli/431/ (links consultati il 27 dicembre 2018). 6 7 3 nella cura dei beni qualificati come comuni. Lo scopo è quello di confermare, semmai ve ne fosse bisogno, la complessità storica di concetti come “Stato”, “comunità”, “proprietà”, così come l’originalità dei diversi percorsi politici e giuridici che condussero verso un nuovo rapporto tra individuo e cose. In altre parole: le vicende inglesi si riprodussero pari pari ovunque? O invece un mondo così spiccatamente policentrico come quello dell’Italia medievale e moderna non poteva che dare luogo ad esperienze uniche, quantunque confrontabili? Le condizioni economiche e sociali delle comunità rurali, così come le caratteristiche ambientali e politiche del territorio mutavano da Stato a Stato – talvolta da regione a regione – ed è dunque difficile credere ad un quadro dove prevale la tinta unita. Quale terreno di indagine si è scelta la Liguria, per condurre una ricerca tra le carte d’archivio tanto centrali – cioè prodotte dalla Repubblica di Genova – quanto locali, conservate presso gli archivi storici di alcuni Comuni liguri. Il modello analitico di riferimento, utilizzato per “unire i puntini”, è dichiaratamente quello fornito da Ostrom, che ha dimostrato la capacità di adattamento dei diritti di proprietà colllettiva alle caratteristiche del bene e del contesto e la reale possibilità di una efficace regolazione dell’uso del bene da parte della comunità di utenti. Ispirarsi ai lavori di Ostrom aumenta il numero delle questioni da considerare per la ricostruzione di un quadro sufficientemente esauriente. Il riferimento alle “istituzioni” chiama infatti in causa tutti gli stakeholders coinvolti nel processo di elaborazione delle regole, ciascuno mosso da interessi e obbiettivi specifici. Oggetto dello studio sono perciò le comunaglie, vale a dire le risorse naturali sfruttate collettivamente dalle popolazioni liguri dei secoli XIII-XVIII. La ricerca ha dimostrato che ben lungi dall’essere beni esposti alla sola estrazione di utilità dei free rider, esse erano oggetto di una disciplina concordata a livello locale, spesso nel quadro di un più ampio disegno di governo territoriale deciso a Genova. Per dimostrare la solidità di alcune linee di fondo nel rapporto tra Repubblica, comunità e beni collettivi si è associata alla più tradizionale analisi della gestione delle risorse agro-silvo-pastorali una parte dedicata al governo delle acque interne liguri. Un aspetto, quello del governo delle acque, ancora largamente trascurato dalla storiografia giuridica che pure si è interessata al tema dei beni naturali, ma che sembra fornire importanti spunti in ordine sia alla capacità degli ordinamenti medievali di mediare efficacemente il conflitto appropriativo delle risorse idriche, sia per l’alto tasso di specializzazione raggiunto da alcuni giuristi nella materia de qua. 4 Il binomio Stato – proprietà, per alcuni autori soggetto al brocardo «Simul stabunt, simul cadent», è stato posto al centro della ricerca fin dal primo capitolo, che fa il punto sulla storiografia tanto in materia di proprietà quanto di statualità moderna e relazioni tra comunità e Stato d’antico regime per mostrare come quello dei beni comuni possa essere un valido campo d’indagine per studiare congiuntamente due processi: la costruzione dello Stato e l’evoluzione delle forme collettive di utilizzo delle risorse. Il secondo capitolo cala poi il metodo proposto da Elinor Ostrom nella realtà giuridica di diritto comune (per quanto concerne la tassonomia dei beni) e nel contesto istituzionale e politico ligure d’età moderna, esponendo le molte zone d’ombra e i pregiudizi intorno allo “Stato dei Genovesi”. I capitoli centrali (da III a V) sono dedicati allo studio di casi sulla base dei risultati delle ricerche d’archivio. L’analisi intreccia statuto giuridico delle singole risorse esaminate (e relative fonti del diritto), natura e caratteri dei conflitti intorno all’accesso al bene, obbiettivi perseguiti e strumenti impiegati dallo Stato nel suo intervento, laddove avvenuto. Infine il capitolo VI, che funge anche da conclusione del lavoro, traccia un sintetico bilancio tanto sulla vicenda storica dei beni comuni in Liguria tra medioevo ed età moderna quanto sul ruolo giocato dalla Repubblica in particolare tra Sei e Settecento, epoca in cui iniziavano a diffondersi idee ostili verso le terre comuni. Non apparirà sorprendente il fatto che la parabola delle comunaglie dal basso medioevo si proietti in Liguria fin dentro il Novecento. Le ultime pagine, mettendo brevemente a confronto i dibattiti contemporanei sui beni comuni tra Italia e Francia, rilevano come il grande impegno dei giuristi italiani sul tema stia generando un positivo miglioramento di molti istituti giuridici (dalla disciplina dei servizi idrici alle cooperative) e una trasformazione delle prassi amministrative, seppur in maniera disorganica. Ai beni comuni, e ancor più all’ideologia “benicomunista”, si possono muovere obiezioni più o meno condivisibili, ma certo è che il richiamo ad un passato “magico”, privo di conflitti e avulso dalle contraddizioni proprie di ciascuna epoca, mina alle fondamenta l’edificio teorico che si va costruendo. La storia che raccontano gli archivi è un po’ diversa e spesso intreccia anche il diritto penale, quando (poniamo) nella difesa di un pascolo comune ci scappa il morto. Anche una zona troppo spesso giudicata marginale dagli storici come la Liguria (non Genova, si badi) sta lì a dimostrarlo. La tesi che qui si introduce fornisce un’ulteriore prova della debolezza delle interpretazioni eccessivamente semplificanti di fatti storici complessi e dipanatisi lungo secoli. Le diverse forme di godimento collettivo del suolo sopravvissero in Liguria ben oltre la Rivoluzione francese, in quanto 5 snodi fondamentali del rapporto tra uomo e ambiente. Inoltre l’angolo visuale della gestione dei beni ha messo in luce altre problematiche correlate che meriterebbero un più ampio approfondimento. Se ne citano per brevità soltanto due. Una prima questione è l’approccio dei giuristi ai vari aspetti del governo delle risorse (azioni di tutela e recupero, legittimazione degli accordi tra utenti…) segnato dalla capacità di inquadrare le soluzioni emergenti dalla prassi e dalla politica nel contesto di un diritto comune sempre meno romano e sempre più “patrio”. Il secondo tema attiene alla pretesa ostilità dello Stato moderno (in ogni sua manifestazione storica) verso i beni comuni. Tale lettura oscura il fatto che per tutta l’età moderna i beni comuni furono per gli Stati importanti mezzi di sostegno economico delle comunità ed elementi di primaria importanza nel governo del territorio, anche durante la stagione delle riforme ispirate dai fisiocratici. Pure la Repubblica di Genova predispose strumenti giuridici per preservarli fino agli ultimi anni della sua esistenza, nonostante la (ingiusta) fama di Stato “meno moderno” degli altri. Il risultato – quanto voluto? – rischia di essere la produzione del mito dei beni comuni capaci di affratellare l’umanità, precario quanto quelli che si vorrebbero distruggere. Eppure la crisi economica e quella ecologica con cui si è aperto il XXI secolo stanno mettendo i giuristi di fronte alla necessità sempre più pressante di riconfigurare istituti tradizionali alla luce delle problematiche ambientali. Nello stesso frangente il ruolo dello Stato e della società va assestandosi su nuovi equilibri per la tutela dell’ambiente e del territorio, la rigenerazione degli spazi urbani per contrastare la ghettizzazione dei quartieri, l’accessibilità delle invenzioni scientifiche e altro ancora. Dietro la rivendicazione talvolta un po’ generica dei beni comuni stanno molteplici istanze, da una maggiore giustizia sociale all’uguaglianza radicale, alla ricostruzione di legami sociali inclusivi intorno alla gestione di un bene. Azzoppare queste domande con argomenti storicamente poco realistici risulta dannoso e in ultima analisi inutile, perché di fronte a molti, innegabili “fallimenti” delle proprietà collettive, stanno anche diversi successi di rilievo. Soltanto un’accurata storicizzazione delle narrazioni dominanti a favore della privatizzazione massiccia di beni e servizi pubblici e dei vincoli esterni imposti allo Stato può mostrarne apertamente il respiro cortissimo e la natura classista e anti-ecologica. 6 Capitolo I I beni comuni tra storiografia della proprietà e dello Stato 1.a) I “miti delle origini” della proprietà collettiva e del comune rurale Pubblicando le lezioni del corso di storia del diritto italiano tenute ormai novant’anni fa, Francesco Brandileone esortava i propri studenti ad avere ben presente il fatto che: «è solo col mezzo e col sussidio della storia che gli usi civici si possono spiegare, coll’aiuto della storia locale, non mediante teorie generali»8. Un avvertimento che certo non appariva isolato, considerata la ricchezza del dibattito sorto tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento sul tema della ricostruzione storica delle proprietà collettive, e che risulta assai valido ancora oggi per chi intenda affrontare lo studio di questi istituti giuridici. Pare quindi opportuno effettuare una sintetica ma ineludibile ricognizione dei principali temi che furono per lungo tempo oggetto di riflessione da parte della storiografia medievistica – ivi compresa quella giuridica – che oggi sono da considerare per certi versi superati. In un momento culturale particolarmente sensibile all’“ossessione embriogenetica”, per dirla con Marc Bloch9, una crescente consapevolezza della complessità del fenomeno proprietario indusse numerosi storici a mettere in discussione il generico giudizio di condanna a carico della proprietà collettiva, troppo prossima a quel mondo feudale ormai definitivamente tramontato. Possiamo prendere le mosse, retrospettivamente, dagli studi di Grossi sulla cultura giuridica italiana del secondo Ottocento: nel momento in cui la dottrina nostrana si aprì alla comparazione e guardò al dibattito sorto soprattutto in Francia alla fine del XIX secolo circa il recupero della dimensione storica della proprietà, le suggestioni feconde di nuovi approcci si fecero numerose10. A ciò si unì una rinnovata attenzione alla prassi, da cui emergevano usi di sfruttamento comune della terra ben più diffusi di quanto la vulgata della civilistica non ammettesse11. Il dibattito sulle origini delle forme comunitarie di proprietà contrappose diversi Cfr. F. BRANDILEONE, Lezioni di storia del diritto italiano: anno scolastico 1928-29, 1929-30, Roma, 1931, p. 106. Cfr. M. BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, 2009, pp. 24-29 (ed. orig. Parigi, 1949). 10 Il riferimento è ovviamente a P. GROSSI, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977. 11 Si deve a Giacomo Venezian uno dei primi, documentati lavori di ricerca che mise in luce l’eterogeneità dei diritti collettivi esercitati in Italia e non solo. Contestualmente Venezian tentò di elaborare una proposta per l’inserimento di queste “reliquie” entro la cornice legittimante dell’ordinamento italiano, cfr. G. VENEZIAN, Reliquie della proprietà 8 9 7 storici del diritto alla communis opinio dei romanisti, adusi ad esaurire l’esperienza proprietaria romana in una concezione monista e individuale, che mal tollerava l’esistenza di comunioni. Una visione, questa, che le disposizioni codicistiche in materia avevano semplicemente “riscoperto”, restituendo alla società l’unico e naturale rapporto tra soggetto e cose12. A guisa di precursore, Antonio Pertile individuò nell’impostazione germanica dell’uso della terra la matrice della proprietà comune medievale. La sua indagine palesò la sostanziale inesistenza di un diritto di proprietà privata presso i germani su beni diversi dalla casa e dal cortile circostante. Gli ulteriori appezzamenti occupati dalla comunità erano ripartiti tra le famiglie in sortes prima provvisorie e poi permanenti, famiglie che collettivamente esercitavano il pascolo e la raccolta di legname e altri frutti sui fondi rimasti indivisi13. Il sentiero filo-germanista tracciato dallo storico di Agordo fu ripreso e approfondito di lì a poco da altri autori quali Carlo Calisse, Francesco Schupfer e Nino Tamassia. In particolare Schupfer14, prima in occasione dello studio delle fonti sugli usi civici di Apricena e poi più organicamente nel corso di storia del diritto privato, individuò inequivocabilmente nel possesso collettivo il tratto caratterizzante il rapporto col bene terra delle tribù germaniche, designato con termini differenti (marca, almenda, folcland). All’obiezione posta dai romanisti circa la presenza anche tra i romani di communalia, Schupfer ribattè che essi sopravvissero solo in quanto compatibili con le consuetudini degli invasori. Con maggior dovizia di particolari, fu poi Tamassia a collegare eziologicamente le larghe forme di proprietà collettiva all’instabilità della dimora propria dei popoli germanici – e di conseguenza alla scarsa attitudine al lavoro prolungato sui medesimi fondi –, ricorrendo ad un’analisi insieme giuridica ed economica15. Insomma la diversità dei modelli era da ricercare nelle collettiva in Italia, in Opere giuridiche, vol. II, Roma, 1920, pp. 1-32. Sull’insofferenza della cultura giuridica verso le proprietà collettive vedi anche P. GROSSI, Assolutismo giuridico e proprietà collettive, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 19 (1990), pp. 505-522. 12 All’interno della stessa romanistica, tuttavia, si levarono voci critiche, come quella di Pietro Bonfante. Egli sostenne la pari dignità storica di proprietà collettiva ed individuale. Il suo ragionamento in termini di conflitto tra la tradizione romano-illuministica, creatrice di una sola proprietà collocata in una dimensione più dogmatica che pratica, e quella storicistica più recente di matrice anglo-germanica che insisteva sulla pluralità delle manifestazioni proprietarie, si concluse con il rifiuto di qualsivoglia archetipo e l’invito a prestare attenzione alle concrete forme organizzative del corpo sociale, che anche in età romana aveva conosciuto diverse forme limitative del pieno dominio, cfr. P. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum nell'età repubblicana, vol. I, Milano, 1976, pp. 88 e ss. 13 Cfr. A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, vol. IV, Torino, 1893, pp. 332-354. 14 Cfr. F. SCHUPFER, Degli usi civici e altri diritti del comune di Apricena, Atti dell’Accademia dei Lincei, 1886; ID., Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia, vol. III, Città di Castello-Roma, 1915, pp. 52-96. 15 «Così come si è detto dei romani, non c’è una parola e non ci potrebbe essere, che significhi proprietà: dice lo Schupfer che l’idea è del Grimm, che cioè la lingua tedesca non abbia un’espressione che indichi la proprietà. Ma il 8 concrete esigenze nascenti presso società strutturalmente diverse quanto ad organizzazione sociale. Una posizione peculiare, tuttavia assai lungimirante per molti aspetti, fu assunta da Enrico Besta che ridimensionò sensibilmente il contributo germanico alla conformazione dei diritti reali del medioevo. Anzitutto già il diritto romano aveva conosciuto forme di dominio diviso (un caso di scuola è l’habere in bonis della proprietà pretoria): cadeva quindi uno dei principali elementi posti a discrimine tra dominium romano e proprietà germanica, vale a dire l’unitarietà. In secondo luogo dimostrò che la “proprietà germanica” (un’espressione impropria secondo lo stesso Besta) non si estendeva necessariamente alla cosa nella sua interezza, ma essendo strettamente correlata al rapporto possessorio concretamente instaurato con essa, ammetteva la compresenza di più “proprietari” in forza delle differenti porzioni del bene fruite da parte di ciascuno16. Una posizione che all’incirca negli stessi anni Giovanni Curis, in una monumentale opera dedicata agli usi civici, documentava ampiamente, dimostrando inoltre la coesistenza di proprietà collettive romane e germaniche entro il disorganizzato quadro della società altomedievale17. Un filone di studi parallelo ma correlato con quello delle proprietà collettive, capace di suscitare l’attenzione degli storici, fu quello della nascita del comune rurale. Basterà in questa sede richiamare gli scritti di due importanti medievisti di inizio Novecento quali Romolo Caggese e Gianpiero Bognetti per individuare il principale elemento di debolezza affliggente tanto questi studi quanto quelli sulle origini del comunitarismo agrario medievale. L’imponente opera di Caggese si presentò come excursus sistematico dei rapporti politici, giuridici ed economici interessanti il mondo rurale tra i secoli X e XII. Secondo Caggese i contadini italiani, asserviti ai signori e perduta la proprietà delle terre, intrapresero una lotta di classe contro i feudatari. L’appoggio garantito loro dalle città non fu però prestato a titolo gratuito, poiché dal 1300 esse si Grimm c’entra poco: manca l’idea perché manca il fatto. […] Sarebbe anche inesatto parlare di proprietà collettiva, cioè immaginando, come realmente fu, che un popolo, s’intende sempre germanico, relativamente stabile e fisso sopra una determinata regione, concepisse quella occupazione con quell’animus possidendi a cui volentieri pensiamo quando accenniamo all’origine della proprietà. […] Se la proprietà deve affermarsi come un diritto perenne, bisogna che l’oggetto in cui questo diritto si compendia abbia un valore economico pure perenne; ma quel suolo che appena sfruttato non può essere ricostituito nelle sue energie produttrici col lavoro economico, è assurdo immaginare che debba costituire appunto quel diritto che s’intende oggi quando si riferisca a fondi resi redditizi per fatto dell’uomo», cfr. G. TAMASSIA, Lezioni di storia del diritto italiano. La proprietà, Padova 1927, pp. 39-41, ma più in generale pp. 1673. Degna di nota la sua esortazione a spogliarsi di qualsiasi idea preconcetta prima di intraprendere un esame delle vicende della proprietà, habitus tipico dei romanisti, ID., Le alienazioni degli immobili e gli eredi secondo gli antichi diritti germanici e specialmente il longobardo, Mantova, 1884, p. 18. 16 Cfr. E. BESTA, I diritti sulle cose nella storia del diritto italiano, Padova, 1933, pp. 79-89. 17 Cfr. G. CURIS, Usi civici, proprietà collettive e latifondi nell’Italia centrale e nell’Emilia con riferimento ai demanii comunali del Mezzogiorno, Napoli, 1917, in particolare pp. 188-218. 9 sarebbero integralmente sostituite agli antichi signori nello sfruttamento massiccio del territorio rurale18. La nettezza dei passaggi tra le fasi, la retorica marxista e la rigidità dei rapporti causaeffetto furono denunciati con vigore da Gioacchino Volpe poco tempo dopo, ma al di là dei giudizi storiografici, ciò che qui più interessa è registrare l’assenza tra gli elementi costitutivi del comune rurale delle terre civiche: esso secondo Caggese originò solamente in forza di un legame stretto volontariamente tra i membri19. Di tutt’altro avviso fu il Bognetti, che studiando in particolare alcune realtà lombarde ricollegò la nascita del comune rurale alle terre collettive. Intorno a vicanalia, comunalia e ager compascuus le diverse comunità ricondotte a vici e pagi arcaici – le cui dinamiche di funzionamento non furono alterate in maniera sensibile dalla dominazione romana – costituirono la base dell’organizzazione economica dei villaggi. Fu quindi il perdurare del controllo – potremmo dire del governo, per quanto grezzo – del territorio attuato dal villaggio a dare il là al movimento che fece sorgere il comune rurale come soggetto politico20. Ora, entrambe le tesi erano connotate da un radicalismo notevole. Come è stato efficacemente notato da Wickham la storiografia successiva si è assestata su una posizione intermedia che, fatte salve le peculiarità regionali, ha riconosciuto all’organizzazione comunitaria sorta intorno agli usi civici e all’opposizione agli obblighi imposti dai signori gli elementi determinanti la nascita del comune rurale21. Resta un’interpretazione di massima, la cui aderenza al concreto dispiegarsi dei rapporti giuridici ed economici intercorsi tra villaggi, signori territoriali, città ed episcopati può risultare anche imperfetta. Qui sta in ultima analisi il vizio principale che afflisse buona parte degli studi pionieristici fin qui citati sulle origini della proprietà collettiva medievale e sul comune rurale: mossi dall’ansia di fissare il momento genetico di esperienze che la cultura giuridica coeva si ostinava a rimuovere, bollandole come anomale, finirono per generalizzare esperienze singolari, inidonee a giustificare Cfr. R. CAGGESE, Classi e comuni rurali nel medio evo italiano, voll. I-III, Firenze, 1907-08. La dura recensione del Volpe è contenuta in G. VOLPE, Medio evo italiano, Firenze, 1923, pp. 143-188. Tornando al Caggese, la nascita del comune rurale come ente collettivo fu così riassunta: «Noi vedemmo a suo tempo che le Comunità rurali si costituirono lentamente in grazia di vincoli volontari contratti tra i loro membri in solido ed i signori feudali dai quali dipendevano. Esse furono fin da principio delle vere aziende consortili, e gli occhi stessi dei contemporanei le riguardavano come un tutto organico, capace giuridicamente di atti, di obbligazioni, di giurisdizione – per quanto limitata – solo perché economicamente costituite in enti collettivi», cfr. R. CAGGESE, Classi e comuni rurali, cit., III, p. 299. 20 Cfr. G. BOGNETTI, Sulle origini dei comuni rurali del medioevo con speciali osservazioni pei territorii milanese e comasco, Pavia, 1926, in particolare pp. 214-215. 21 Una disamina storiografica sul tema del comune rurale è in C. WICKHAM, Comunità e clientele nella Toscana del XII secolo. Le origini del comune rurale nella Piana di Lucca, Città di Castello, 1995. 18 19 10 una realtà ben più sfaccettata. Come una particolare conformazione dei diritti reali collettivi su un dato territorio non poteva che avere un solo ascendente, così le vicende di formazione di singoli comuni rurali non potevano rappresentare il processo valido universalmente. Gli studi sulla storia della proprietà condotti nella seconda metà del Novecento avrebbero restituito una realtà dei rapporti uomo-cose ben più frastagliata e meno piegabile ad analoghi riduzionismi. 1.b) Storici e giuristi di fronte al pluralismo proprietario medievale Il dibattito sulle origini ebbe il merito d’altronde di portare all’attenzione della storiografia il tema degli usi civici proprio negli anni in cui fervevano i lavori per la legge di riordino della materia approvata nel 1927. Lo schema unitario della proprietà ottocentesca fermata nei codici fu messo in discussione tanto dai civilisti quanto dagli storici nel momento in cui entrambe le discipline tornarono ad interrogarsi sui diritti reali dell’età intermedia. Lo studio storico si unì agli sforzi che la dottrina di diritto positivo stava compiendo per enucleare due assetti proprietari chiaramente caratterizzati – una proprietà pubblica e una privata – ma il cammino fu irto di incomprensioni almeno fino agli anni Sessanta, data la perdurante fascinazione verso il mito della proprietà perfetta22. A partire da quel momento, individuati i tratti che conferivano autonomia alla proprietà medievale, l’analisi storica si sarebbe concentrata su determinati casi di studio per ricostruire specifiche “figure dell’esperienza”. L’opera di revisione critica delle certezze acquisite fu animata dalla consapevolezza che il diritto dovesse essere calato nuovamente nei fatti di vita in cui concretamente era chiamato ad operare. Indubbiamente fu l’opera di Enrico Finzi a porre le premesse per un «ritorno alle cose» della scienza giuridica in tema di diritti reali. La rilettura del diritto di proprietà alla luce dei profondi legami con la realtà dell’impresa presupponeva innanzitutto una consapevolezza circa le «varie forme concrete di godimento effettivo» e i caratteri pubblicistici (nota la chiosa: «Non vi sono beni indifferenti allo Stato») che da sempre ne avevano segnato le vicende23. U. PETRONIO, Usi e demani civici fra tradizione storica e dogmatica giuridica, in E. CORTESE (a cura di), La proprietà e le proprietà, Milano, 1988, pp. 507-510 ha rilevato come tracce di adesione all’opinione che vedeva nella proprietà privata la “vera proprietà” si riscontrino anche nelle opere di giuristi aperti al nuovo come Brugi, Calisse e Cassandro. 23 «Chi muovesse dalla considerazione della cosa sarebbe portato piuttosto verso l’empirismo germanico che, nella gewere fondendo e confondendo in uno stesso concetto giuridico ogni potere sulla cosa ed ogni suo godimento, mal distingueva proprietà e diritto reale e possesso, e tutti poneva come omogenei – pur graduandoli nella loro intensità relativa, in virtù, appunto, del loro comune carattere e della comune attitudine a legittimare passivamente ed attivamente il padrone, ai diritti e ai doveri propri di chi gode determinati beni», cfr. E. FINZI, «L’officina delle cose». Scritti minori, a c. di P. Grossi, Milano, 2013, pp. 49-50. Sulla vita e le opere di Finzi cfr. P. GROSSI, Finzi Enrico, in Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, Bologna, 2013 (d’ora in poi DBGI), vol. I, pp. 870-873. 22 11 Prosecutori dell’opera finziana furono Salvatore Pugliatti e Filippo Vassalli, spartiacque per la scienza civilistica a cavallo del secondo conflitto mondiale. Nella sua opera più nota, Pugliatti ammise che i differenti statuti proprietari esistenti non potevano essere trattati alla medesima stregua. La contestazione del formalismo giuridico apriva all’indagine degli interessi concreti nascenti nell’economia e nella società giudicati meritevoli di attenzione da parte della legislazione. Per la proprietà ciò significava recepire il dato storico della polarizzazione medievale tra diritti signorili, comunitari e individuali che dimostrava come l’apprensione individuale delle res non potesse costituire – né avesse costituito in passato – l’unica fattispecie considerata rilevante per la regolazione giuridica dell’istituto24. All’incirca negli stessi anni, Vassalli ribadiva l’esistenza di tante proprietà quanti erano gli scopi che l’ordinamento ammetteva come perseguibili mediante l’utilizzo dei beni. Era necessario quindi introdurre criteri di valutazione sociale dell’istituto che compensassero la tradizionale concezione di diritto soggettivo esclusivo25. Un intreccio complesso di interessi (pubblici e privati) di impari rilevanza ma complessivamente oggetto di tutela: questa l’immagine della “nuova” proprietà che emerse dall’”officina delle cose” tra gli anni ’40 e ‘50. Per Pietro Rescigno, l’uso, l’organizzazione, il destino delle cose divenivano elementi costituenti un prius rispetto al titolare, non più contemplati in funzione del soggetto, poiché era il medesimo soggetto a vedersi applicata una particolare disciplina in funzione dei beni26. La mutata sensibilità indusse la dottrina ad interrogarsi circa la natura giuridica dei diritti collettivi e le ipotesi che furono avanzate non difettarono per quantità. Giovanni Curis elencò – per contestarle - le principali proposte interpretative sul tavolo: servitù e iura in re aliena variamente atteggiantisi a seconda del bene gravato o diritti di condominio27. La tesi che sosteneva la natura di servitù traeva fondamento da alcuni passi della Glossa28. Fu il Besta a porre in evidenza una sostanziale continuità interpretativa tra glossatori e commentatori per cui i secondi in materia di pascoli non si discostarono dallo schema della servitù Cfr. S. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, in particolare pp. 146-224. Cfr. F. VASSALLI, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in La concezione fascista della proprietà privata, Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, Roma, 1939, p. 101-108. 26 Cfr. P. RESCIGNO, Disciplina dei beni e situazioni della persona, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 5-6 (1976-1977), t. II, p. 864. 27 Cfr. G. CURIS, Usi civici, cit., pp. 911-918. 28 In particolare le glosse di commento ai frammenti del Digesto D. 8.3.4; D. 8.3.1 dedicate proprio alla servitù di pascolo, tra cui spiccava quella particolare a vantaggio dei buoi impiegati per l’aratura. Il rapporto tra fondo coltivato e terra di pascolo poggiava sulla necessità del proprietario del primo di disporre della seconda per il mantenimento degli animali usati nei lavori agricoli. Da qui, pertanto, la qualificazione come servitù, cfr. B. BRUGI, Le dottrine giuridiche degli agrimensori Romani comparate a quelle del Digesto. Ricerche, Verona-Padova, 1897, pp. 319-330. 24 25 12 in re aliena elaborato dai primi29 La tesi della servitù fu avanzata anche dal Leicht, secondo il quale non poteva darsi forma di proprietà collettiva diversa da quella regia/comunale, gravate nel corso del tempo da servitù e iura in re aliena riconosciuti dall’autorità30. Un ruolo importante nella qualificazione dei diritti collettivi come servitù fu giocato dalla cultura giuridica meridionale tra XV e XVIII secolo, attenta ad elaborare un apparato di principi in grado di offrire garanzie per le comunità contro gli abusi baronali. Giovanni Cassandro, principale studioso del tema, in esito allo studio dovette però dichiarare l’impossibilità di trarre conclusioni generali dalle pur copiose riflessioni dei giuristi napoletani, e ciò per diversi motivi. In primo luogo l’origine consuetudinaria dei diritti civici palesava l’inadeguatezza della categoria della servitus come unica chiave interpretativa. Le opiniones dei dottori, da Andrea d’Isernia a Luca da Penne fino al Capobianco non illuminavano né il nodo della natura giuridica degli usi civici né quello della loro titolarità a causa della stretta connessione con dispute pratiche, ove l’afflato per organiche costruzioni teoriche era pressoché assente31. Carlo Calisse propose una teoria intermedia che ammetteva allo stesso tempo l’esistenza di servitù vere e proprie esercitate su fondi privati e usi civici su terre collettive o comunali. I diritti e le consuetudini delle comunità erano entrate a far parte dall’organizzazione feudale del territorio. Posto il ruolo del sovrano come dominus di tutte le terre sottoposte al suo controllo, l’autore inquadrava gli usi civici come un “debito” nei confronti dei bisogni primari della vita, connaturato all’ufficio stesso del governo32. Accanto alla teoria della servitù, un notevole successo ebbe quella del condominium iuris germanici, elaborata dal giurista Georg Beseler tra gli anni ‘30 e ’40 dell’Ottocento e rilanciata poi Cfr. E. BESTA, I diritti sulle cose, cit., pp. 241-250. Come nota uno dei sostenitori della teoria della servitù, R. TRIFONE, Gli usi civici, Milano, 1963, p. 91, tanto i giuristi romani quanto i glossatori furono in generale estremamente parchi nel definire meglio la natura giuridica dei diritti collettivi. 30 Cfr. P. S. LEICHT, Il diritto privato preirneriano, Bologna, 1933, pp. 155-163 31 Cfr. G. I. CASSANDRO, Storia delle terre comuni e degli usi civici nell’Italia meridionale, Bari, 1943, in particolare pp. 264-277. L’autore conclude l’esame degli usi civici seguendo il Tractatus de iure et officio baronum erga vassallos di Angelo Capobianco. Un esempio dell’impossibilità di tracciare confini chiari è dato dalla classificazione delle res universitatis, dove Capobianco distingue tra demanialia curiae (i cui redditi sono percepiti dal feudatario) e demanialia feudi (boschi, pascoli, monti). Su quale sia il criterio di assegnazione all’uno o all’altro insieme, nota Cassandro, Capobianco non si esprime poiché i secondi sono individuabili «secundum consuetudinem loci et regionis» ed è comunque presente, nell’elencazione del giurista, una sorta di clausola di apertura (commoditates territorii) che permette di adagiare il modello teorico alle concrete necessità espresse dalla comunità. Già Enrico Besta aveva notato peraltro come i giuristi del regno napoletano non avessero mai riassunto sotto un’unica categoria di beni demaniali la totalità dei beni e diritti goduti o solo amministrati dal re ab origine o a seguito di acquisizione di cose precedentemente di proprietà dell’universitas, cfr. E. BESTA. I diritti sulle cose, cit., pp. 179-197. 32 Cfr. C. CALISSE, Gli usi civici, cit., p. 37-38. 29 13 dal Gierke, che fece proseliti anche in Italia33. La natura sostanzialmente dogmatica del condominium, in quanto istituto creato ex post dai giuristi e non riscontrabile negli assetti dominicali del medioevo germanico, non impedì tuttavia di fungere da mattone su cui alcune sentenze (Consiglio di Stato, IV, 22 gennaio 1964, n. 10; Corte d’Appello di Roma – sezione usi civici, 10 ottobre 1967) fondarono il loro ragionamento a proposito della natura giuridica delle istituzioni regoliere (rispettivamente, quella del Cadore e la regola feudale di Predazzo). Si diceva del Curis. Rigettando le summenzionate tesi, egli interpretò gli usi civici come un dominio utile, al pari della colonia, dell’enfiteusi e del livello. Né lo schema degli iura in re aliena né la teoria del condominio erano adattabili alla realtà medievale, giacché il sistema del dominio diviso incluse tanto gli antichi istituti romani quanto quelli sorti dopo la mescolanza con i popoli invasori. Una decisa e ulteriore svolta nel nostro discorso fu rappresentata dal noto corso sui beni pubblici del Giannini, che nel 1963 fissò le coordinate entro cui si sarebbe mossa anche la più qualificata storiografia successiva, da Grossi a Petronio. Illustrando i diversi caratteri della proprietà individuale rispetto a quella pubblica – che comprendeva i diritti collettivi – Giannini affermò che: «il tratto saliente non è l’appartenenza della cosa, ma il godimento di servizi che la cosa rende o è idonea a rendere se convenientemente impiegata»34. La ricchezza dei beni collettivi, secondo la lezione gianniniana, risiede quindi nel modo in cui è disciplinato l’utilizzo dei beni mediante l’organizzazione dei differenti diritti appropriativi. È da questo punto in poi che si può registrare l’avvio di una fase di studi volti a far emergere il concreto dispiegarsi dei diversi diritti reali di cui erano titolari le comunità antiche. Come detto, la debolezza principale delle teorie summenzionate consistette nel loro presentarsi come capaci di interpretare in maniera esauriente l’intera esperienza giuridica del medioevo in materia proprietaria, cercando di comprimerla entro forme appartenenti ad epoche successive. Si Rammentiamo che con tale espressione si indica un tipo di comunione in cui i beni comuni spettano ad una collettività (villaggio, famiglie più o meno allargate), i cui membri non sono titolari di quote liberamente disponibili. Poiché tutti i partecipanti contribuiscono all’acquisizione o all’incremento del patrimonio collettivo, ciascuno ha titolo a goderne. Come sottolineava Barassi, alla scomparsa esteriore della quota consegue l’unità del patrimonio che, in quanto patrimonio autonomo perché della collettività e non dei singoli comunisti, è sottratto ai creditori particolari dei comproprietari; cfr. L. BARASSI, Proprietà e comproprietà, Milano, 1951, p. 174; P. Grossi, Assolutismo giuridico e proprietà collettive, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 19 (1990), pp. 526-541. Tra coloro che accolsero la teoria del condominium vanno citati almeno Pugliatti (S. PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 195 e ss), O. RANELLETTI, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 25 (1898), pp. 206 e ss., e F. FILOMUSI GUELFI, Enciclopedia giuridica ad uso di lezioni, Napoli, 1873, p. 70. 34 Cfr. M. S. GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 33. 33 14 deve a Paolo Grossi, a partire dal primo studio del 1967, la sintesi più felice dei vari spunti affiorati in quegli anni, sintesi da cui oggi non è possibile prescindere35. La proposta grossiana prende le mosse da un dato: gli incerti e tumultuosi secoli altomedievali scompaginarono il rapporto di forza tra uomo e natura36. La quotidianità economica – come appunto la conduzione del bestiame al pascolo o il taglio della legna in certi siti – impose al diritto di provvedere una tutela giuridica fondata sulla rilevanza dell’effettività dei rapporti reali. Così l’usus diventò fatto normativo: tutte le situazioni contrassegnate da fruitio materiale e longus tempus del godimento furono elevate ad una posizione che mai avevano occupato nei secoli precedenti, in quanto assursero ad elementi in grado di individuare il dominium, pur in assenza di particolari formalizzazioni da parte dell’ordinamento. Effettività, quindi, è la parola chiave dell’esperienza giuridica medievale37. Tuttavia c’è chi, come Cortese, ha individuato indizi anticipatori della degradazione dei diritti reali classici già nel basso impero – ben prima dell’età delle invasioni – quando il possesso iniziò a sovrapporsi alla proprietà e a condividere con essa i medesimi strumenti di tutela38. Lo stesso Cortese avverte di non lasciarsi affascinare oltremodo dalla nota gewere, termine mutevolissimo quanto a significati ed impieghi – non sempre strettamente tecnici – e che possiamo definire molto latamente con Diurni come: «ogni sorta di uso, ogni concreto rapporto di godimento della cosa, anche se parziale e limitato»39 che conobbe inoltre un’evoluzione nel corso dei secoli40. Cfr. P. GROSSI, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, 1992, in particolare il primo saggio Naturalismo e formalismo nella sistemazione medievale delle situazioni reali, pp. 21-56. 36 Sul c.d. “primitivismo medievale”, Grossi sostiene che esso si identifica, da un punto di vista antropologico, «in un soggetto […] incapace di affermare il distacco che separa la creatura raziocinante dal mondo dei fenomeni, il soggetto per eccellenza dall’insieme degli oggetti», cfr. P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 2011, p. 68. 37 È l’effettività che, per citare ancora Grossi, è composta da «quei fatti che trovano per loro conto nella storia quotidiana la forza di staccarsi dagli altri, di durare, di incidere», P. GROSSI, Ibidem, p. 65. 38 Cfr. E CORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma, 2015, pp. 194-196. 39 Cfr. G. DIURNI, Le situazioni possessorie nel medioevo. Età longobardo-franca, Milano, 1988, p. 58. Gewere e possessio romana presentano alcune macroscopiche differenze, in particolare per quanto concerne il titolo legittimante – la gewere è essa stessa titolo per lo ius possidendi – e la tutela giurisdizionale – che il diritto germanico non differenziava rispetto ad altre situazioni giuridiche. Il possesso romano era intimamente connesso alla proprietà, pertanto il suo svuotamento rendeva difficilmente riproponibile il ricorso a specifici riti possessori, distinti dal processo sul merito. Sia Diurni che Cortese hanno però rimarcato come il termine gewere nei documenti italici altomedievali non compaia pressoché mai, rimpiazzato da sinonimi quali vestitura, tenimentum, possessio e similari. Sulla gewere una rassegna storiografica è in E. CONTE, Vetustas. Prescrizione acquisitiva e possesso dei diritti nel Medioevo, in E. CONTE, V. MANNINO, P. M. VECCHI, Uso, tempo, possesso dei diritti. Una ricerca storica e di diritto positivo, Torino, 1999, pp. 69-75. 40 Cfr. G. DIURNI, Possesso (dir. Intermedio), in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano, 1985, pp. 476-484. Pure nei secoli basso medievali permase un atteggiamento che considerava il possesso una sorta di “presunzione del diritto”, dimostrabile in giudizio anche per mezzo di giuramento, come bene scrisse A. PERTILE, Storia del diritto italiano, vol. IV, Torino, 1893, pp. 79-80. Nelle controversie per i beni comuni ciò si riscontra con inequivoca chiarezza. 35 15 La civiltà medievale fu in ogni caso civiltà possessoria e sul rapporto con la cosa, sulla valorizzazione del suo contenuto più materiale si edificò la teoria del dominio diviso41. L’ammissione attribuita a Bulgaro dell’esperibilità dell’actio utilis rei vindicatio per la tutela di rapporti che con la proprietà “piena” poco avevano a che fare introdusse le molteplici situazioni possessorie in un sistema aperto al riconoscimento di tanti dominia quante erano le forme di godimento esercitate in concreto. Da qui pertanto l’attributo di plura dato da Baldo degli Ubaldi al numero dei dominii utili, di qui la qualità che ancora nel Quattrocento Zasius riconosceva all’utilitas tratta dalla cosa come una proprietà (tra molte)42. Tra queste, l’utilizzo collettivo di prati, boschi o fiumi rappresentò una delle più vitali forme di manifestazione del dominio utile, invocato dalle comunità per lungo tempo avverso i tentativi di limitare i loro diritti43. Se il dominium fruitionis fu il tratto caratterizzante i diritti reali lungo l’esperienza del diritto comune, è pur vero che durante l’età moderna l’elaborazione dogmatica sulla proprietà intraprese una strada sempre più segnata dall’individualismo giuridico: la titolarità riconquistò progressivamente il centro della scena a scapito dell’esercizio di un potere concreto sulla res, il cui valore di fondamento della validità del diritto iniziava ad essere messo frequentemente in discussione44. Ma le secolari pratiche di sfruttamento di risorse naturali, essenziali per la vita comunitaria, non vennero meno per il solo comparire di proposte dottrinali sicuramente anticipatrici, ma complessivamente non maggioritarie: la gamma delle situazioni proprietarie rimase fortemente variegata sino al Settecento. Il nodo della qualificazione giuridica degli usi civici medievali è quindi irresolubile servendosi degli strumenti interpretativi odierni. L’invito grossiano a spogliarsi delle “lenti deformanti” dell’assolutismo giuridico per leggere l’esperienza dominativa dell’età intermedia è stato sostanzialmente recepito dalla storiografia più recente, la quale a sua volta, pur Cfr. P. GROSSI, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 17 (1988), pp. 394-405. 42 Cfr. P. GROSSI, Il dominio e le cose, pp. 191-215. È recentemente tornata su questi problemi, analizzando l’opera scientifica del commentatore Giovanni Bolognetti, M. PIGNATA, Dominium e possessio tra ius e factum: la Lectura di Giovanni Bolognetti, Napoli, 2007. 43 In un caso in cui la comunità di Fiemme era chiamata a difendere il proprio diritto sui boschi contro le pretese del vescovo di Trento, fu coinvolto Tiberio Deciani in veste di consulente. In virtù di un’antica concessione trecentesca, gli uomini di Fiemme disponevano del diritto utile sulle selve che, alla luce dell’interpretazione dell’investitura feudale, doveva considerarsi un beneficio intaccabile: «verbum enim investivit in ea concessione positum denotat feudum, et translationem utilis dominii», cfr. G. Rossi, Dottrine giuridiche per un mondo complesso. Autonomia di ordinamenti e poteri pazionati in un consilium inedito di Tiberio Deciani per la comunità di Fiemme (1580), in AA.VV., Ordo iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Milano, 2003, pp. 133-134. 44 Cfr. P. GROSSI, La proprietà nel sistema privatistico della Seconda scolastica, in La Seconda scolastica nella formazione del diritto privato moderno, Milano, 1973, pp. 117-222. 41 16 abbandonando l’ambizione di risolvere una volta per tutte il problema, si è interrogata sulla natura giuridica della proprietà collettiva. Stefano Barbacetto ha ad esempio riesaminato la nota massima ubi feuda, ubi demania; ubi demania, ibi usus ripercorrendo le tappe che portarono la giurisprudenza napoletana, a partire dal Cinquecento, a forgiare il concetto di usus civicus tramite l’utilizzo di fonti diverse – diritto comune giustinianeo, prammatiche del Regno e consuetudini locali – per arginare i diritti baronali di esclusione e “diffida” dei fondi. Mettendo in fila alcuni consilia stilati in vista di controversie giudiziarie, l’autore ha sì confermato il giudizio dato da Cassandro a metà Novecento sull’inesistenza di una teoria generale degli usi civici nella dottrina meridionalistica, ma ha altresì indicato gli argomenti costituenti il nucleo fondamentale di tale istituto. In particolare ha sottolineato come gli usi non fossero qualificati né come servitù (reali o personali) né come usufrutto, ma come onera originati dal diritto naturale che il proprietario doveva tollerare sia per un dovere morale, sia per la natura stessa dei beni demaniali gravati45. Esaminando su una prospettiva di lungo periodo le vicende dei beni comunali della Repubblica di Venezia, è stata invece evidenziata la differente natura giuridica delle comugne, inalienabili e necessarie per i bisogni dei sudditi, dai beni communali (la distinzione lessicale venne però meno nel corso del tempo) che la Repubblica acquisì al proprio dominio e ne fece oggetto di diverse campagne di alienazione per sostenere gli sforzi bellici, dalle guerre della Lega di Cambrai a quelle contro gli Ottomani del Seicento. Anche in questo frangente Barbacetto ha notato che le normative che intervennero nel riformare il contenuto di questi diritti furono funzionali ad un più marcato controllo dello Stato di terra da parte del governo lagunare46. Su posizioni simili si è attestato Alessandro Dani. Esaminando gli usi civici alla luce del diritto proprio dello stato senese, con dovizia di richiami alle principali autorità dottrinali del tempo, ha concluso sostenendo l’inapplicabilità della servitù prediale propriamente intesa, trattandosi invece di un diritto di cui erano titolari gli abitanti di una comunità iure civico. Il nomen iuris di servitù era sì attribuito da alcuni autori, ma in genere specificandone l’eccezionalità, come testimonia la creazione della categoria delle servitù miste innominate. Le molteplici sfumature 45 La commoditas e la naturalis facultas di cui autori come Capobianco o De Luca parlavano a proposito degli usi civici indicavano quindi il diritto d’uso limitato alle necessità di sostentamento della popolazione, per tale ragione erano impignorabili e incedibili. Esulavano pertanto dalla copertura giuridica di tale discorso gli interessi allo sfruttamento commerciale – in senso lato – del bene, cfr. A. BARBACETTO, L’uso civico sul demanio feudale: origini giurisprudenziali (secc. XVI-XVII), in Archivio Scialoja-Bolla, Annali di studi sulla proprietà collettiva, 1 (2006), pp. 165-188. 46 Cfr. A. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie». I «beni communali» della Repubblica Veneta tra dominio della Signoria e diritti delle comunità, Venezia, 2008. 17 riscontrabili tanto nella letteratura giuridica quanto nelle fonti locali circa la natura giuridica degli usi civici conferma dunque la peculiarità degli assetti dominicali dell’età intermedia47. Pare quindi ormai acquisito dalla storiografia il fatto che la multiforme varietà di forme collettive di godimento renda problematiche ricostruzioni sintetiche e generalizzanti. L’analisi combinata di fonti diverse riferite a contesti geografici e temporali delimitati permette invece di apprezzare il concreto divenire storico di determinati usi civici, che qui possiamo intendere, sulla scorta di Dani, come diritti reali spettanti agli abitanti di una determinata comunità sulle risorse naturali del territorio48. Il diritto particolare risulta poi decisivo per chiarire un altro aspetto legato ai beni comuni, che finora ha fatto solo capolino nella trattazione ma che occorre affrontare prima di proseguire con questioni storiografiche collaterali: il nodo dell’appartenenza. 2.a) Beni comuni o beni del comune? Il problema della titolarità secondo la principale storiografia Se l’accertamento della natura giuridica degli usi civici ha creato non pochi dissidi nella storiografia, si può dire che pure l’individuazione del soggetto titolare dei medesimi è stata questione a lungo dibattuta. La stretta correlazione dei due temi indusse molti autori ad articolare proposte generali volte a giustificare il problema della titolarità dei diritti collettivi del medioevo, periodo in cui notoriamente i confini tra dimensione “pubblica” e “privata” furono per molti aspetti sfumati e non sempre chiaramente tracciabili. Fondamentalmente emergono due ordini di problemi. Il primo, più risalente, risiedette nell’attribuzione al Comune – inteso come soggetto istituzionale – o all’insieme degli abitantiutenti del dominio su boschi e incolti. In generale la storiografia più risalente concentrò il proprio ragionamento sulla progressiva erosione dei beni regali appartenenti al re o all’imperatore a vantaggio di enti ecclesiastici, maggiorenti, feudatari, fino all’ingresso in scena del comune che ne avocò a sé la proprietà. Non mancarono peraltro delle distinzioni. Chi, come il Roberti, circoscriveva ad esempio il ruolo dei beni collettivi nella nascita del comune cittadino alle sole regioni romane, tendeva a privilegiare i profili privatistici della comunione, come un possesso di tipo pertinenziale, di cui erano titolari i proprietari di sortes limitrofe. Solo il recupero del concetto romano di universitas segnò il salto di qualità da beni comuni dei singoli a beni del Comune49. Il Cfr. A. DANI, Usi civici nello Stato di Siena medicea, Bologna, 2003, p. 27-51. Cfr. A. DANI, Pluralismo giuridico e ricostruzione storica dei diritti collettivi, in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio sulla proprietà collettiva, 1 (2005), pp. 61-ss. 49 Cfr. M. ROBERTI, Svolgimento storico del diritto privato in Italia, II, Padova, 1935, pp. 113-120. 47 48 18 secondo, collegato al primo, riguardò proprio l’identificazione del Comune-ente con la comunità degli abitanti o, per meglio dire, la fondatezza (e le conseguenze giuridiche) di una distinzione tra di esse. Besta contestò invece con vigore la tesi di chi sostenne la scomparsa dei bona universitatum durante l’alto medioevo perché assorbiti nei beni feudali o incamerati dal fisco regio. Una proprietà cittadina, distinta da quella del sovrano anche sotto il profilo dell’amministrazione, sopravvisse e questo spunto consentì ai giuristi di diritto comune di porre dei paletti all’appropriazione delle comunaglie da parte del potere centrale, come alcuni studi recenti confermano50. Pertile e Brandileone sottolinearono invece gli effetti della confusione medievale non solo tra le diverse situazioni giuridiche, ma anche tra i singoli appartenenti ad una corporazione e la corporazione stessa, quale persona giuridica distinta. Pertile in particolare, studiando l’evoluzione del sistema delle partecipanze romagnole, avvertì che il passaggio della proprietà dai comunisti all’autorità comunale, che provvedeva ad assegnare gli appezzamenti ai continui abitatori secondo le carte di regola, poteva presentare altrove caratteristiche differenti dall’organizzazione regoliera51. Brandileone affermò poi apertamente la sussistenza di multiformi proprietà comuni – i cui diritti spettavano generalmente agli originari o agli abitanti e solo più raramente anche agli stranieri – e proprietà comunali, soggette ai poteri dispositivi dell’ente che era chiamato ad amministrarle e a raccoglierne gli introiti derivanti dal loro sfruttamento a titolo oneroso52. Per quanto dotati di caratteristiche specifiche, la titolarità dei beni collettivi fu quindi prevalentemente assegnata dalla storiografia al comune53, soggetto giuridico in grado di rappresentare e tutelare gli interessi degli abitanti in maniera ben più efficace rispetto al sistema signorile: i beni “comuni” diventarono, quasi per inerzia, “comunali”54. Tale lettura appare condivisa ancora oggi da numerosi autori, secondo i quali non si è data una proprietà comune distinta da quella comunale. Cortese ad esempio ha ripreso la distinzione già accennata dal Brandileone, sostenendo che i demani collettivi spettassero all’università quoad nomen et proprietatem e fossero comuni ai cittadini solo quoad utilitatem, quoad usum, quoad effectum. I poteri di disposizione erano 50 Fu in forza dei caratteri propri delle res universitatis che Brescia e le comunità del distretto argomentarono la difesa dei rispettivi diritti sui beni collettivi contesi con Venezia, come ha ricostruito S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalìe», cit., pp. 75-78. 51 Cfr. A. PERTILE, Storia del diritto italiano, cit., IV, pp. 332-350. 52 Cfr. F. BRANDILEONE, Lezioni di storia, cit., pp. 90-117. 53 Cfr. G. CURIS, Usi civici, cit., pp. 588-589. 54 Cfr. anche G. CURIS, Usi civici, cit., pp. 590 e ss. 19 interamente nelle mani dell’ente comunale, proprietario. I caratteri di inalienabilità e imprescrittibilità erano da riferirsi soltanto ai beni perpetuamente destinati al pubblico uso, quantitativamente minoritari rispetto ai beni comunali amministrati in vista di un reddito55. Petronio, affrontando il tema del regime giuridico del bosco, ha parlato di estraneità alla mentalità dei giuristi medievali del problema della proprietà. Esaminando una notevole mole di quaestiones dottrinali in materia di capacità dei cives di testimoniare in una causa in cui era parte l’universitas, l’autore ha desunto il generale divieto di deporre in quelle cause riguardanti i singoli dal punto di vista delle utilità, come avveniva per l’uso di un bene collettivo come il bosco, da cui traevano un vantaggio diretto. Sebbene non esaminata direttamente, i giuristi ritennero indiscutibile il fatto che la proprietà del bosco della comunità spettasse all’ente comunale e che i singoli, come detto in precedenza, ne godessero solo i frutti56. Da ultimo possiamo chiudere richiamando i lavori di Emanuele Conte, che ha posto in rilievo almeno due aspetti del problema particolarmente interessanti. In primo luogo la distinzione, rinvenibile negli atti di cause sette-ottocentesche, tra beni e diritti della collettività popolare e del Comune appare giustificata dallo scopo di sottrarre le terre comuni alle riforme agro-economiche di stampo liberal-fisiocratico, senza che il ricorso alla dottrina napoletana sui demani potesse giovare in tal senso57. Inoltre il pensiero giuridico medievale ritenne del tutto plausibile imputare diritti reali ad edifici o loca, come dimostra la nota controversia decisa dell’arcivescovo Mosè di Ravenna, concernente l’appartenenza dei beni di un convento rimasto a lungo abbandonato58. Ciò testimonia la netta importanza avvertita per la conservazione di uno stabile equilibrio tra le cose, che la volontà dell’uomo non poteva stravolgere mettendo a Cfr. E. CORTESE, Domini collettivi, in Enciclopedia del diritto, XIII (1964), pp. 913-926. Cfr. U. PETRONIO, Usi e demani civici, cit. 57 Cfr. E. CONTE, Comune proprietario o comune rappresentante? La titolarità dei beni collettivi tra dogmatica e storiografia, in Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge, 114 (2002), pp. 73-94. In particolare Conte afferma che «per tutto il XIX secolo la dottrina meridionale non arrivò mai a privare l’ente astratto della proprietà per attribuirla al popolo. L’assetto di fondo restava in sostanza quello consolidato dalla tradizione: ai cittadini presi uti singuli i giuristi meridionali riservavano un diritto d’uso sulla cosa, la cui proprietà continuava ad attribuirsi all’universitas: ma, a differenza di quanto si concedeva due secoli prima, i limiti nella disponibilità da parte dei Comuni s’erano irrigiditi al punto di escludere di fatto ogni commerciabilità o cambiamento di destinazione», ibidem, p. 79. 58 In dettaglio, l’arcivescovo di Ravenna stabilì che l’abbandono del convento da parte dei monaci non aveva interrotto il possesso dei beni del monastero, qualificati come pertinenze, in attesa che una nuova comunità di religiosi vi si insediasse nuovamente. La sussistenza dell’edificio di culto garantiva quindi la continuità della situazione giuridica e va detto che i monaci erano titolari soltanto di un diritto d’uso delle cose. Come ha ricostruito Conte, quella di Mosè era una decisione perfettamente in linea con il diritto vigente nei secoli centrali del medioevo, dove i disordini che affliggevano anche la Chiesa indussero i Papi a riconoscere il dominio sui beni ecclesiastici ai loca, per metterli al riparo da malversazioni e dispersioni, cfr. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Roma, 1995, pp. 201-203; E. CONTE, Intorno a Mosè. Appunti sulla proprietà ecclesiastica prima e dopo l’età del diritto comune, in I. BIROCCHI, M. CARAVALE, E. CONTE, U. PETRONIO (a cura di), A Ennio Cortese, I, Roma 2001, pp. 342-363. 55 56 20 repentaglio il soddisfacimento dei bisogni di potenziali generazioni future (di cives o di monaci, come nel caso di specie). Equilibrio che sarebbe stato progressivamente incrinato dal rifiorire dell’individuo come soggetto di diritto pienamente capace e «padrone di se stesso» per usare le parole di Calasso. Nel già citato lavoro di Barbacetto, l’utilizzo congiunto di legislazione veneziana e opinioni dottrinali ha restituito un quadro complesso, da cui emerge il profondo valore politico legato all’attribuzione della titolarità del diritto alla comunità o alla Repubblica, che attuò una decisa politica di acquisizione dei beni delle comunità di Terraferma59. In tempi più recenti sono tornati sul problema della titolarità Christian Zendri e Giuliano Marchetto. Il primo ha riletto approfonditamente i brani dedicati alla servitù di pascolo su fondi dell’universitas contenuti nel Tractatus de servitutibus di Bartolomeo Cipolla. Passando in rassegna tutte le questioni affrontate, Zendri ha notato che per il celebre giurista veronese la determinazione del titolare del diritto di pascolo (la comunità, un gruppo organizzato differente o i singoli) era presupposto obbligato da cui discendevano le specifiche regole relative alla prova processuale e al regime della circolazione60. Una costruzione giuridica flessibile, quindi, in grado di modellarsi su realtà concrete assai multiformi. Marchetto ha invece esaminato i consilia di alcuni commentatori, dai quali la tesi di Petronio è uscita in sostanza confermata per quanto concerne le questioni strettamente processuali, mentre sul punto della gestione dei beni collettivi la distinzione tra proprietà dell’ente e proprietà dei singoli uti cives sarebbe stata determinante per individuare il soggetto competente a decidere del loro impiego61. Anche il problema della titolarità riconduce così alla lezione grossiana: nella misura in cui l’esperienza giuridica pone al centro la cosa e non il soggetto, la domanda “Di chi è?” potrebbe sembrare poco utile per la ricostruzione delle vicende dei beni comuni, venendo soppiantata eventualmente dal diverso interrogativo “Chi e come può servirsene?”. La soluzione delle due problematiche citate in apertura appare non agevole per le stesse caratteristiche di molte universitates, specialmente quelle rurali di minori dimensioni, dove la partecipazione quasi unanime degli abitanti alla vita politica e il ridottissimo apparato di “ufficiali” poteva rendere molto labile il confine tra ente e mera hominum congregatio. Tuttavia è ragionevole pensare, come ha osservato Dani, che lungo l’età moderna anche i comuni rurali avessero ormai raggiunto Cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., pp. 85-258. Cfr. C. ZENDRI, Pubblica privata collettiva. La servitus iuris pascendi nella dottrina di Bartolomeo Cipolla (ca. 14201475), in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio sulla proprietà collettiva, 1 (2014), pp. 191-204. 61 Cfr. G. MARCHETTO, Beni e diritti collettivi nella letteratura consulente tra medioevo e prima età moderna. Primi spunti per una riflessione, in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio sulla proprietà collettiva, 1 (2016), pp. 157-174. 59 60 21 una piena dimensione formale62, ulteriormente legittimata (aggiungiamo) da una rinnovata interlocuzione con le autorità centrali anche con riguardo alla gestione dei propri patrimoni collettivi. Per altro verso, l’elemento dell’appartenenza non è stato reputato ozioso dalla storiografia medievistica degli ultimi venti anni, che ha ripreso con forza l’argomento nell’ambito degli studi sui conflitti e sugli snodi politici più importanti della vita comunale. La massa di studi prodotti permette di fissare alcuni punti fermi. La riorganizzazione politico-amministrativa che interessò le comunità tra X e XII secolo, al netto delle specificità locali, seguì linee di sviluppo comuni. Uno dei principali obiettivi politici dei nuovi soggetti consistette nel rivendicare porzioni crescenti di giurisdizione territoriale a scapito dei poteri signorili o ecclesiastici concorrenti. Il recupero delle comunaglie condotto dai Comuni fu pertanto uno degli strumenti attuativi di tale indirizzo: le universitates, superando i precedenti diritti d’uso, miravano ad ottenere il dominium pieno sulle risorse per garantirsi un controllo sulle stesse più largo e agevole ed esercitare così i correlati diritti di natura pubblica63. Chiaramente il variare da luogo a luogo dei rapporti di forza tra comunità e poteri signorili o ecclesiastici determinò diversi gradi di successo e di rapidità per queste operazioni di acquisizione. Senza troppo badare a schemi e classificazioni, il Comune si ritrovò in mano una mole di beni differenti per natura e origine, ma indistintamente compresi entro il termine comunia, che furono rapidamente oggetto di un processo di inventariazione – mediante inchieste e embrionali catasti – funzionale alla loro valorizzazione e gestione patrimoniale. La divergenza degli interessi di cui i diversi strati sociali cittadini erano portatori in relazione ai comunia è stata al centro degli studi inaugurati da Maire Vigueur a partire dagli anni Ottanta e proseguiti poi da altri studiosi64. Essi hanno dimostrato il peso fondamentale dei beni collettivi nei Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 96-103. Il nesso tra beni del fisco regio e diritti pubblici è stato ben ricostruito da Tabacco. I re d’Italia tra IX e XII secoli furono fautori di una politica di alienazione di beni fiscali che incorporavano, nella loro piena consapevolezza, diritti e poteri di natura pubblica, dando così luogo a nuclei di potere dotati di determinati margini di autonomia entro l’ordito politico del regno. Non casualmente per indicare questi poteri si fece ricorso alla nozione di proprietà, che in tutta evidenza era adoperata in senso evolutivo, comprendendo concetti estranei alla proprietà “classica”. Per usare le parole di Tabacco: «è evidente l’intenzione di distinguere, senza separarli, da un lato i beni materiali dai quali si ricava un semplice profitto economico, e dall’altra i proventi, gli obblighi, gli honores, cioè i diritti che sono strettamente legati alla coscienza di una funzione di carattere pubblico. Ci sono una contraddizione logica e un’ambiguità, dal punto di vista giuridico, volute coscientemente, per collocare poteri di interesse collettivo all’interno di una piccola signoria di natura diversa, gestita con tutta la libertà e l’autonomia proprie dei diritti di natura privata», G. TABACCO, Dai re ai signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Torino, 2000, pp. 67-87. 64 Il riferimento è al volume monografico del 1987 dei Mélanges curato da Maire Vigueur, che nella breve introduzione colse il nesso tra produzione di documenti ricchi di informazioni sui beni comuni e situazioni di conflitto o competizione tra gruppi o comunità, cfr. J. C. MAIRE VIGUEUR, I beni comuni nell’Italia comunale: fonti e studi, in 62 63 22 bilanci locali e il nesso tra operazioni di recupero dei beni e conflitti politici interni alle comunità. Senza attardarsi in sintesi difficilmente esaurienti e tenendo sempre presente che tali fenomeni si verificarono in tempi diversi da città a città, basti dire che ora il conflitto tra milites e pedites, ora le politiche dei governi di Popolo che avevano rovesciato i regimi podestarili non risultarono favorevoli per i meno abbienti, che auspicavano un mantenimento delle forme di fruizione collettiva delle terre. Un impiego economicamente fruttuoso delle risorse comunali si impose in molte realtà, specialmente a causa dell’elevata bellicosità intestina ed esterna, che mise a dura prova le casse pubbliche65. Come è stato recentemente scritto da Mineo, la divaricazione tra gli interessi dei gruppi egemoni all’interno delle città e quelli dei cittadini che beneficiavano dell’uso pubblico e libero delle risorse trovò un riscontro “ideologico” nella trasformazione del concetto politico di bonum commune e uno pratico mediante la statuizione di innovative (e più stringenti) regole per l’accesso ai beni66. Va però altrettanto esplicitato che le forme stesse di questa conflittualità e le politiche di alienazione dei beni seguirono direttrici nettamente distinte a seconda del contesto geografico: i centri situati in pianura furono in generale più aperti alle innovazioni e ad uno sfruttamento più intensivo del suolo, mentre gli insediamenti montani, proprio a motivo dell’asperità delle condizioni di vita e della maggior forza dei legami solidaristici, conservarono meglio e più a lungo i propri patrimoni comuni. La tesi di chi vorrebbe le risorse collettive di proprietà sostanzialmente comunale pare quindi uscire confermata anche dalla storiografia più recente, a patto però che non si escluda a priori la possibile sussistenza, da verificare caso per caso, di regimi giuridici differenziati volti al soddisfacimento di interessi diversi. Tuttavia se è vero che accanto alla dottrina, vanno esaminate pure le fonti prodotte localmente, non può negarsi che le forme attestate di collettivismo agroMélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age - Temps modernes, 99/2 (1987), p. 554. Una recentissima rassegna storiografica sull’argomento è apparsa nel volume edito in onore dello stesso Maire Vigueur, M. T. CACIORGNA, Beni comuni e storia comunale, in M. T. CACIORGNA, S. CAROCCI, A. ZORZI (a cura di), I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici, Roma, 2014, pp. 33-49. 65 R. RAO, I beni del comune di Vercelli. Dalla rivendicazione all'alienazione (1183-1254), Vercelli, 2005, pp. 71-72, ID., Comunia. Le risorse collettive del Piemonte comunale, Milano, 2008, pp. 211-239. 66 Cfr. E. I. MINEO, Caritas e bene comune, in Storica, 59 (2014), pp. 7-56. Secondo l’autore l’amministrazione dei beni comuni da parte delle città risentì dei dibattiti culturali sorti tra Due e Trecento a proposito del valore politico della carità e dell’evoluzione del concetto cristiano di bene comune. Analizzando le opere di alcuni predicatori del periodo, l’autore ipotizza l’esistenza di una corrente di pensiero che, muovendo dalla fine del “comunismo delle origini” e dall’inevitabilità della regolazione istituzionale della proprietà, avrebbe giudicato negativamente tutti i beni materiali, convogliati in un unico contenitore. Per l’A. «lo sviluppo dell’ideologia del bene comune è legato intimamente alla costruzione della fiscalità cittadina e dei suoi codici culturali. Detto in breve, l’ostilità diffusa nei confronti dell’imposizione diretta e il crescere del fabbisogno comunale spingevano rapidamente allo sfruttamento finanziario dei comunia, rendendo a poco a poco marginale il capitolo delle entrate fondato su di essi», pp. 45-47. 23 silvo-pastorale mutarono nel corso del tempo. Le medesime fonti locali – statuti, bandi campestri, concessioni e soprattutto allegazioni o consilia – menzionano i pascoli, i boschi, i fiumi come luoghi su cui gli utenti esercitano una quantità di usi differenti. Esemplare è il caso ligure del ronco, una pratica diffusa di messa a coltivazione (temporanea) di territorio boschivo, sovente proibita in talune zone boschive o di pascolo, a seconda delle contingenti esigenze. Ma sappiamo che lo stesso bosco dava luogo ad una regolazione giuridica articolata, attenta a preservarlo dai danni causati dal pascolo eccessivo e attenta a prescrivere in base alle diverse qualità arboree modalità di taglio e utilizzo (privato o commerciale). Così una comunità poteva disporre di beni “comuni”, formalmente di titolarità comunale, ma goduti dagli utenti senza (o con un meno intenso) intervento del Comune-ente e di beni “comunali”, impiegati secondo una politica più attenta al fine di lucro67. Fino ai rivolgimenti seguiti alla rivoluzione del 1789, si può affermare che il rapporto di complementarietà tra questi regimi giuridici adattò alle cangianti condizioni ambientali, economiche e socio-politiche locali l’uso dei beni latu sensu pubblici. Il diritto al sostentamento della popolazione era una delle proposte che vennero avanzate circa la ratio degli usi civici sui beni collettivi. Accanto ad essa, figuravano la dottrina dell’originaria comunione dei beni universale – comunione poi degradata dall’appropriazione individuale – e la concezione degli usi “tollerati” dai pubblici poteri o dai privati proprietari. Considerato il carattere irrisolvibile della quaestio, si concorda con chi ha proposto di maneggiare questi costrutti teorici di oggi o di ieri come semplici ipotesi68. A prescindere dalla disputa sulla sua origine, il criterio della necessità di dare sostentamento ai sudditi persistette fino alla matura età moderna e fu recepito e condiviso dai giuristi. Si può affermare che costituì un contrappeso all’alienabilità dei comunia?69 Tra i tanti esempi, si possono citare le proprietà regoliere delle Alpi venete. I beni della Regola erano distinti da quelli comunali in quanto appartenenti esclusivamente agli iscritti al registro della Regola, da cui erano esclusi coloro che non discendevano dalle famiglie originarie, anche nel caso in cui abitassero nel villaggio. Le tensioni tra nuovi residenti e originari portarono la Repubblica di Venezia ad imporre nel secondo Seicento alle comunità la cooptazione e l’ammissione al godimento dei beni collettivi di ogni persona residente in loco da almeno 50 anni, cfr. I. CACCIAVILLANI, La proprietà collettiva nella montagna veneta, in G. C. DE MARTIN, (a cura di), Comunità di villaggio e proprietà collettive in Italia e in Europa, Padova, 1990, pp. 49-76; D. CELETTI, La gestione comune del patrimonio boschivo in area bellunese e feltrina. Aspetti economici, sociali, naturalistici, in G. ALFANI, R. RAO (a cura di), La gestione delle risorse collettive. Italia settentrionale, secoli XII-XVIII, Milano, 2011, pp. 125-140. Per la classificazione dei beni comuni in Carnia cfr. S. BARBACETTO, «Tanto del ricco quanto del povero». Proprietà collettive e usi civici in Carnia tra Antico regime ed età contemporanea, Pasian di Prato, 2000, pp. 79-85. 68 Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., p. 55-62. 69 Nell’opera di recuperi dei communali usurpati, la Repubblica di Venezia vantò di possedere un diritto proprio su quei beni sovrabbondanti le esigenze dei sudditi, come si afferma in un inciso – espunto nella redazione definitiva - di una parte del Consiglio dei Dieci indicata da Barbacetto: «Se ritrovano nelli territorii del Trivisan, et Friul, una gran quantità de beni communali, quali ipso iure spettano alla Signoria nostra ultra quelli che sono necessarii all’uso delli habitanti delli loci ove essi beni sono situati, bona parte de li qual è stà, et in dies vengono indebitamente usurpati», cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., p. 56. 67 24 La risposta affermativa suggerita dalle fonti e confermata dalla storiografia significa ammettere, da un lato e ancora una volta, che la tensione dialettica tra diversi attori sociali si rifletteva anche sulla qualificazione della proprietà dei beni. L’attribuzione a un bosco o a una terra prativa della qualità di “comune” agli abitanti o “comunale”, scelta indubbiamente gravida di conseguenze giuridiche, appare in ultima analisi un processo sostanzialmente politico interessante la comunità e, in età moderna, il sovrano, chiamato a vigilare sulla conservazione dell’integrità del patrimonio comunitativo. Si scorge quindi una possibile chiave di lettura del problema: l’operazione medievale di acquisizione da parte dei Comuni di una massa indistinta di beni collettivi tra loro assai eterogenei, unita al forte ruolo delle consuetudini e delle pratiche agricole locali, paiono alla base delle numerose difficoltà definitorie tanto della natura dei diritti quanto del soggetto titolare. La piena proprietà del Comune istituzionale sulle risorse collettive si affiancò certamente a quella privata, ma il processo non pervenne mai ad una netta distinzione, poiché beni contrassegnati da più forti vincoli di indisponibilità e aperti agli usi civici sopravvissero per ragioni riconducibili alle peculiari circostanze locali. Se talvolta questa divaricazione condusse, tra medioevo ed età moderna, alla nascita di istituzioni proprietarie distinte dal Comune-ente (è il caso delle Partecipanze di Nonantola)70, in altri casi la tensione per la salvaguardia dei beni ad uso collettivo diede luogo a conflitti che trovarono nel Principe un arbitro e, talvolta, un attore attivamente impegnato nell’attuazione di una propria politica di governo del territorio e del patrimonio dei centri assoggettati. Per questo motivo è anche con il problema della statualità che è opportuno confrontarsi. 3.a) Stato e corpi territoriali tra “macro” e “micro” storie Lo studio dei beni comuni non può pertanto ignorare la disciplina del diritto d’accesso. Si è visto nel paragrafo precedente che a partire dalla creazione dei Comuni cittadini si pose il problema di conservare differenti regimi di sfruttamento in grado di soddisfare le esigenze ora del Comune-ente ora della comunità degli utenti. A partire dal XV secolo il mutamento delle strutture politiche e dei rapporti di forza tra centri urbani era ormai irreversibile: comunità, signorie feudali, Sulle Partecipanze emiliano-romagnole la bibliografia è vastissima. Vedi almeno i saggi contenuti in E. FREGNI (a c. di), Terre e comunità nell’Italia Padana. Il caso delle Partecipanze Agrarie Emiliane: da beni comuni a beni collettivi, «Cheiron», 14-15 (1992); E. TAVILLA, Pubblico e privato tra Unità nazionale e particolarismi regionali. Problemi giuridici ed istituzionali in Emilia tra Otto e Novecento, Milano, 2006, pp. 1-38; G. ALFANI, Le Partecipanze: il caso di Nonantola, in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 48-62 e relativa bibliografia. 70 25 abbazie dovettero progressivamente relazionarsi con un soggetto in grado di esercitare un’influenza più stabile e duratura sul territorio. Si tratta quindi di fare il punto (non solo storiografico) sul tema della formazione e del consolidamento dei c.d. Stati regionali italiani e dei loro rapporti con i corpi territoriali preesistenti. Non diversamente dalla qualificazione giuridica degli usi civici, gli stessi lemmi “Stato” e “comunità” sono connotati da forti ambivalenze che negli anni non hanno mancato di suscitare vivaci discussioni tra gli storici circa il metodo d’analisi, l’applicabilità stessa della nozione di Stato ai secoli precedenti l’Ottocento e la minore o maggiore capacità ermeneutica dell’indagine su scala locale. La fase più accesa del confronto tra due modi alternativi di intendere la storia latu sensu sociale si è dipanata lungo trent’anni, a partire dagli anni Settanta con la nascita dell’approccio microstorico, volto allo studio su piccola scala di fenomeni più complessi o solitamente generalizzati, per terminare sostanzialmente alla fine degli anni ‘90. Le prossime pagine muovono dunque dalla sintesi delle principali proposte storiografiche sulle origini dello Stato, argomento che iniziò a riscuotere l’interesse degli studiosi a partire dal secondo dopoguerra. Si dimostrerà che oggi lo studio dello Stato può seguire percorsi analitici in grado di superare una serie di dualismi classici (città/contado, centro/periferia per citare i più noti) mettendo al centro le azioni concrete dei vari soggetti (o corpi) in relazione ad oggetti determinati. Dopo il noto lavoro di Federico Chabod sull’organizzazione politica dello Stato rinascimentale71, alla fine degli anni Sessanta Guido Astuti individuò nella progressiva crescita delle funzioni amministrative e dei poteri di governo principeschi il tratto caratteristico del processo di sviluppo teorico dei principati e dei regni dalla fine del medioevo al XVIII secolo72. Astuti non negò che l’edificazione dello Stato assoluto (o accentrato) fosse stata contrastata dalla resistenza posta dagli ordinamenti feudali, cittadini e rurali, osservando anzi che proprio nell’unicità dell’ambiente politico italiano risiedeva la ragione principale del mancato costituirsi di una monarchia nazionale unitaria. Cfr. F. CHABOD, Esiste uno Stato del Rinascimento? In Scritti sul Rinascimento, Torino, 1967, pp. 591-623 (ma lo scritto risaliva al 1957) dove l’A. sostenne che l’essenza dello Stato rinascimentale era da riconoscere nella formazione e nello sviluppo di un corpo di ufficiali dipendenti dal Principe, al cui combinato operare era da ricondurre larga parte dell’iniziativa politica del governo in campo diplomatico, fiscale, amministrativo e militare. 72 Cfr. G. ASTUTI, La formazione dello Stato moderno in Italia, Torino, 1967. In particolare l’A. individuò tre campi di intervento: la sottomissione della nobiltà feudale al potere del principe e la riduzione dei suoi privilegi; l’imposizione di forme più pregnanti di supremazia nei confronti della Chiesa e del clero e la soppressione o almeno la limitazione delle istituzioni democratiche locali, residuati dell’antico autonomismo cittadino. Per quanto forse eccessivamente influenzato dal modello francese, il lavoro di Astuti ebbe il pregio di porre alcuni temi di natura giuridica in una posizione di assoluto rilievo per lo studio degli ordinamenti statali moderni, come la revisione delle fonti normative locali, l’inserimento delle giurisdizioni territoriali entro il tessuto amministrativo regionale e la riforma del sistema finanziario e fiscale medievale per far fronte ai crescenti fabbisogni richiesti da una burocrazia più cospicua. 71 26 Pochi anni dopo fu Giuseppe Galasso a riprendere la sua analisi, sostenendola con una rassegna delle principali realtà statuali della penisola tra Quattro e Seicento. Il persistente particolarismo fu indicato come il carattere specifico del processo di formazione dello Stato in Italia e non come espressione di un presunto “ritardo” rispetto alle altre esperienze europee, particolarismo che i governi tentarono in diversi modi di armonizzare senza però pregiudicarne irrimediabilmente la sopravvivenza73. Era un periodo maturo per il compimento di indagini mirate, volte a chiarire le tecniche adoperate in ciascun ordinamento per coordinare le organizzazioni territoriali e feudali entro una struttura organica che proseguissero i lavori per certi aspetti d’avanguardia di Chabod su Milano e di Berengo su Lucca, ma che superassero la prospettiva urbano-centrica propria di quel periodo. Una svolta fu impressa dai lavori compiuti negli anni Settanta da alcuni storici, tra i quali vanno citati almeno Giorgio Chittolini, Gaetano Cozzi ed Elena Fasano Guarini: i capisaldi dei loro lavori risultano sostanzialmente confermati fino a tempi più recenti74. Fu in quel momento che la nascita e lo sviluppo dello Stato assunsero il rango di legittimi oggetti di ricerca. Prescindendo dalle caratteristiche specifiche delle realtà studiate, le indagini svolte hanno fissato alcuni punti fermi. Anzitutto lo Stato regionale – secondo la terminologia di Chittolini – presenta una natura policentrica ben distinta sia dalle strutture contemporanee in vigore a partire dall’Ottocento sia dallo Stato assoluto monarchico di altre realtà europee coeve. Esso dimostra una spiccata «La riduzione di molti comuni già indipendenti e centri talora di domini di considerevole estensione a città suddite, a vario titolo e in varia condizione, degli stati emersi vittoriosi nella lotta per il predominio regionale, e, quindi, la loro riduzione a semplici enti territoriali amministrativi, è un aspetto estremamente importante del processo di formazione dello stato moderno in Italia; […] il persistere di più o meno ampie sfere di autonomia statutaria o di fatto che compete a feudi e comuni – comune significa ora, definitivamente, potere municipale – alimenta anch’esso quella molteplicità di giurisdizioni che è un’ulteriore caratteristica con cui si realizza lo stato moderno nelle prime epoche della sua storia», cfr. G. GALASSO, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’impero romano ad oggi, Torino, 1974, p. 83, più in generale pp. 61-101. Lo stesso Galasso tornò anni dopo sull’argomento verificando la validità della propria ricostruzione nel volume dedicato alle dominazioni angioina e aragonese del Regno di Napoli, G. GALASSO, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in G. GALASSO (a cura di), Storia d’Italia, vol. 15/1, in particolare per le riforme approvate durante il regno di Ferrante I d’Aragona e le vicende del mondo feudale e comunale vedi pp. 731-760. 74 Il riferimento è ovviamente ai primi lavori di Giorgio Chittolini, oggi raccolti in La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Milano, 2005. Si segnalano inoltre G. CHITTOLINI E D. WILLOWEIT (a cura di), L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, Bologna, 1994; G. CHITTOLINI, A. MOLHO, P. SCHIERA (a cura di), Origini dello Stato: processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, Bologna, 1994; G. CHITTOLINI, Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (XIV-XVI secolo), Milano, 1996. Di Cozzi fondamentale è stato lo studio delle riforme del diritto e delle strutture giurisdizionali centrali e periferiche veneziane, collegate alla generale tendenza alla restrizione dell’esercizio del potere, per cui vedi G. COZZI (a cura di), Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), Roma, 1980; G. COZZI, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, 1982. Di Elena Fasano Guarini si segnalano solo i principali contributi all’interno di una produzione assai vasta: E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, Firenze 1973; E. FASANO GUARINI (a cura di), Potere e società negli Stati regionali italiani tra ‘500 e ‘600, Bologna, 1978; E. FASANO GUARINI, Repubbliche e principi. Istituzioni e pratiche di potere nella Toscana granducale del ‘500-‘600, Bologna, 2010. 73 27 propensione alla costante negoziazione con i diversi centri di potere che, seppur sottomessi, non perdono la loro capacità di contrattare la conservazione di margini di autonomia75. Il particolarismo già evocato da Astuti e Galasso viene quindi esaminato più approfonditamente poiché si riconosce un ruolo attivo ai corpi territoriali nel processo di ridefinizione degli spazi politici e territoriali, al punto da parlare apertamente di “diarchia” tra centro e periferia. Lo Stato regionale si pose quindi come soluzione necessaria al problema dell’organizzazione delle forze politiche e sociali agenti sul territorio e che con molta cautela per Chittolini si può definire “moderno”, intendendo con questo una modernità di valori e schemi d’azione e non tanto in senso cronologico. Secondo Schiera lo Stato che getta le proprie fondamenta tra XIV e XV secolo si propone di: «tenere insieme il livello istituzionale dell’organizzazione del potere, con quello ideologico di legittimazione della sua funzione nei confronti dei sudditi, con quello disciplinante di coazione rispetto ai comportamenti collettivi di questi ultimi»76. A motivo della natura corale della sua dimensione politica, lo Stato regionale fu chiamato a mediare e a coordinare più di prima gli interessi divergenti di vari soggetti, operando una sintesi che con difficoltà avrebbe portato sul lungo periodo all’emersione di un interesse pubblico generale. Il prolifico ventennio di studi sullo Stato regionale ha generato tuttavia anche una serie di indirizzi storiografici a vario titolo critici verso il paradigma statualista, da molti considerato non retrodatabile o inadatto a illuminare le problematiche relative ai vari aspetti del sociale. Molti studiosi, a partire dagli anni Settanta, hanno allora eletto la comunità come campo di studio privilegiato per proporre nuove letture dei processi politici, che in “periferia” si articolano intorno alle famiglie e alle parentele, alle parrocchie e ai villaggi77. L’acme della vivacità dialettica tra «Il nuovo Stato regionale, soprattutto quello principesco, rinuncia forse a quanto di assoluto e totalitario vi era nelle esigenze di accentramento del Comune medievale: esso è anzi assai generoso nel riconoscimento degli autonomismi locali, tanto che l’antico distretto cittadino risulta spesso dissolto e frazionato in numerosi centri di giurisdizione: piccoli territori borghigiani, comunità montane, signorie rurali. Si rendono necessarie nuove e più articolate formulazioni giuridiche per definire i rapporti con il signore (o la città dominante) da un lato, e i diversi nuclei territoriali che costituiscono lo stato dall’altro: la varietà dei patti di capitolazione con le città assoggettate, gli strumenti di accomandigia, lo stesso contratto feudale, che non a caso fra Trecento e Quattrocento registra una vasta fioritura»; G. CHITTOLINI, La crisi delle libertà comunali e l’origine dello Stato territoriale, in La formazione dello Stato regionale, cit., p. 40. Posizione sostanzialmente ribadita in G. CHITTOLINI, Il “privato”, il “pubblico”, lo Stato, in Origini dello Stato, cit., pp. 553-591. 76 Cfr. P. SCHIERA, Legittimità, disciplina, istituzioni: tre presupposti per la nascita dello Stato moderno, in Origine dello Stato, cit., p. 44. 77 Come notava Tocci «la comunità pare essere oggi una sorta di unità di studio ideale sulla quale convergono, quasi a sperimentare l’efficacia delle rispettive metodologie, tanto gli studiosi delle istituzioni, quanto quelli della fiscalità, della giustizia, della mentalità, dell’antropologia sociale» avvertendo allo stesso tempo di non enfatizzare il valore di esperienze pur sempre parziali: «Se ogni comunità, per intenderci, è storiograficamente un punto d’osservazione, però nessuna in particolare è il miglior punto in assoluto; né si tratta per altro di punti indifferentemente 75 28 analisti micro e macro delle strutture politiche tra 1500 e 1700 si è registrato negli anni ’90, dopo l’uscita di due opere “d’impatto” di Grendi e Raggio che ebbero come campo di studio proprio la società ligure. Non si intende in questa sede ripercorrere integralmente il cammino fatto dalla micro-analisi storica dalla fine degli anni Settanta ad oggi, né prendere posizione sulle varie interpretazioni date della microstoria medesima, ma alcune annotazioni rilevanti per il nostro discorso meritano di essere fatte78. Tra gli studi di comunità più noti, spicca Il Cervo e la Repubblica di Grendi, che ha il merito di aver richiamato l’attenzione su alcuni connotati della ricerca prima scarsamente considerati: la materialità del territorio, l’analisi della comunità come sistema politico che si articola nello spazio geografico, l’attenzione ai circuiti economici e commerciali, la capacità rivelativa dei rapporti tra gruppi propria dei conflitti giurisdizionali. Contestualizzazione e relazioni tra gruppi sono i capisaldi del lavoro di ricerca adottati poi in altri saggi79e che Grendi utilizza come presupposto per rigettare in larga parte il dualismo Stato-comunità80. Maggiore enfasi sul ruolo dei gruppi parentali e sull’analisi dei rapporti conflittuali o solidali interni alle famiglie e tra queste e i rappresentanti del “centro” è stata posta da Osvaldo Raggio a proposito della società della Val Fontanabuona. Qui la critica ripresa da Grendi sul paradigma dello Stato moderno («chiave di lettura e di interpretazione spesso a senso unico dei fenomeni politici e dei movimenti sociali») e la sua asserita non estendibilità al caso genovese conduce l’autore da un lato a giustificare la scelta di approfondire temi tradizionalmente considerati marginali (culture, stili di vita, pratiche, linguaggi e costumi locali) e dall’altro a qualificare l’attività delle istituzioni pubbliche come un difficile e costante negoziato con le società locali con l’intento dichiarato di: intercambiabili, avendo ciascuna comunità una propria ben precisa identità che si esplica – in ultima istanza – in una determinata funzione in quel sistema relazionale che è dato, al livello di evidenza più rappresentabile, dal tessuto politico e istituzionale dello Stato», cfr. G. TOCCI, Introduzione, a G. TOCCI (a cura di), Le comunità negli Stati italiani d’antico regime, Bologna, 1989, p. 10. 78 Una sintesi già in G. TOCCI, Le comunità in età moderna. Problemi storiografici e prospettive di ricerca, Roma, 1997, pp. 53-80, e di recente P. BURKE, L’invenzione della microstoria, in Rivista di storia economica, 24 (2008), pp. 259-273. 79 Per un excursus storiografico cfr. O. RAGGIO, La storia come pratica. Omaggio a Edoardo Grendi (1932-1999), in Quaderni storici, 100 (1999), pp. 3-10. 80 «Tenere presente la dialettica Stato-comunità non significa dare «corpo sociale» al politico: Stato e comunità non sono realtà coerenti e unitarie, e i loro rapporti non sono concepibili se non nel mobile rapporto di alleanze di gruppi e mediazioni che rappresenta il vincolo dell’influenza reciproca, il presupposto delle successive soluzioni politiche. E a tal fine è necessaria quella rigorosa contestualizzazione che dà significato al formarsi degli schieramenti e comporta la ricostruzione degli scambi economici, delle forme di aggregazione sociale, del linguaggio politico corrente. Ed è a questo livello che il problema dell’innovazione/trasformazione conserva tutto il suo fascino di impresa analitica non predeterminata. La qualificazione di un tale approccio come “antropologico” ha il sapore di un esorcismo. La sintesi che interessa è l’integrazione dei piani del processo storico, non la prospettiva statuale che prefigura il destino di un territorio», E. GRENDI, Il Cervo e la Repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino, 1993, p. XI. 29 «osservare dal basso, insieme all’esperienza quotidiana e ai comportamenti delle persone e dei gruppi sociali, i ritmi più inesplorati della grande storia politica»81. Le due opere sono accomunate da almeno un paio di elementi fondamentali: la ridefinizione di “comunità” tramite l’analisi delle sue diverse componenti (e delle loro relazioni) e l’idea che la Repubblica genovese fosse sprovvista di un progetto di integrazione politica del suo dominio. Difettando di un disegno coerente di costruzione statuale, la vita sociale locale pare subire una trasformazione più per opera del mercato che dello Stato – è la lettura di Grendi – mentre per Raggio la perdurante conflittualità tra parentele, mediata ma non risolta dall’autorità genovese, generano un patrimonio di legittimazione politica di cui beneficiano tanto i giusdicenti genovesi che i “principali” delle parentele, ma le cui sorti sul lungo periodo esulano però dalla trattazione82. L’uscita del Cervo e di Faide e parentele, come si premetteva, rinfocolò la discussione intorno al concetto di Stato regionale e/o “moderno”, già rivisitato dalla storiografia istituzionale di quegli anni. Ora, tali posizioni paiono muovere da un concetto di Stato – assoluto e/o precursore degli ordinamenti politici liberali – discutibile e certamente non condiviso dall’intera storiografia contemporanea. Par quasi di capire che, attesa l’incapacità della repubblica genovese di organizzarsi in termini chabodiani come principato accentrato, di Stato non si possa in fin dei conti neppure parlare, preferendo definirla con gli sfumati termini di: «sistema di interazioni che riflettono le forme di organizzazione locale non meno che le iniziative del Principe»83. Così la resilienza dei clan familiari all’operato dei magistrati genovesi e l’intreccio che lega parentele rivierasche alle fazioni della capitale viene letto da Raggio come un fatto eccezionale, quantunque un monito a tenere in debito conto l’opposizione e la refrattarietà al disciplinamento dei corpi territoriali fosse stato lanciato da Marino Berengo quasi cinquant’anni fa84. Cfr. O. RAGGIO, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino, 1990, pp. IX-XXI. Opportuna la notazione di Angelo Torre, che ha evidenziato come l’accostamento tra le due opere non debba far perdere di vista le differenze, pure sensibili. Una tra esse è sicuramente la dicotomia “culturale” tra esponenti del potere centrale e società locale. Laddove per Grendi essi trovano un luogo d’incontro nella coscienza sociale dello spazio, per Raggio lo iato tra culture è maggiore e sostanzialmente incolmabile, come prova il carattere insopprimibile degli scontri di faida, cfr. A. TORRE, Società locale e società regionale: complementarietà o interdipendenza?, in Società e storia, 67 (1995), pp. 113-124. Se è vero, come è stato scritto, che l’ambizione dei due autori consisteva nell’indicare un nuovo terreno di verifica per la comprensione del sistema politico territoriale, poiché i tradizionali settori della politica e dell’amministrazione non risultavano soddisfacenti, è vero altrettanto che l’ambizione di vedere lo Stato dalle comunità sia per certi versi delusa, specie nell’opera di Raggio, cfr. nella stessa pubblicazione A. M. BANTI, Identità socio-politiche: un processo dinamico?, pp. 125-128. 81 82 83 84 Cfr. O. RAGGIO, Faide e parentele, cit., p. XXVI. Cfr. M. BERENGO, Il Cinquecento, in ID., La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Milano, 1970, pp. 483-518. 30 Non appare quindi più possibile oggi porsi il problema della statualità assumendo che il potere pubblico si strutturi secondo forme immutabili in ogni epoca storica o che essa sia riconoscibile soltanto nella misura in cui il potere politico, pienamente sovrano, si organizzi ed operi senza alcuna interferenza o condizionamento, per mezzo di un apparato amministrativo capace di informare di sé la società. A ben vedere ciò comporta tradire la vitalità dei differenti luoghi di potere che rapportavano dialetticamente con il sovrano85. Anche la storiografia giuridica più recente ha dimostrato di essere ben munita di questa consapevolezza, già a partire dagli studi di Fioravanti, Mannori e Sordi sul c.d. Stato giurisdizionale, caratterizzato dall’utilizzo, da parte del potere politico, non di un’amministrazione tendenzialmente uniformante, ma della giurisdizione come strumento elastico di manifestazione dell’imperium entro i confini di un territorio concepito sì in senso più unitario, ma senza che da tale concezione scaturisca una politica di livellamento dei soggetti che lo compongono o di abrogazione dei diritti locali. Dal tardo medioevo lo Stato iniziò a svolgere funzioni ulteriori rispetto al passato, il cui esercizio fu rimesso alle strutture giurisdizionali già in essere86. Riprendendo le conclusioni di Otto Hintze, anche Mario Caravale ha sottolineato gli elementi di continuità del pluralismo politico-istituzionale tra medioevo e prima età moderna che caratterizzano i principali regni europei. Beninteso: senza sminuire la portata di novità di assoluto rilievo, come la Riforma o lo scoppio di conflitti bellici di portata continentale, che non avrebbero secondo l’autore alterato sensibilmente il quadro istituzionale87. Ascheri88 e Birocchi89 a loro volta hanno ribadito che il consolidamento istituzionale verificatosi dopo il Quattrocento non recise i legami con la teoria giuridica e la prassi politica precedenti. Lo Stato si atteggiò come luogo in cui Condivisibile appare l’affermazione di Corrao, secondo cui il problema del dominio e delle sue forme di realizzazione si identifica «con il problema della sovrapposizione di due livelli di potere, della possibilità e delle modalità di inserimento e di utilizzazione da parte dell’oligarchia della dominante delle reti dei poteri locali. Che ciò avvenga sconvolgendole o mantenendole in efficienza, poi, dipende dalla capacità, dagli interessi, dalle scelte del ceto dirigente “centrale” e dalla forza, dall’efficienza delle articolazioni del potere locale», cfr. P. CORRAO, Stato, dominio, società politica: specificità e comparazioni, in A. ZORZI, W. J. CONNELL (a cura di), Lo Stato territoriale fiorentino (secoli XIV-XV). Ricerche, linguaggi, confronti, San Miniato, 2001, p. 225-232. 86 Cfr. M. FIORAVANTI, Stato e costituzione, in M. FIORAVANTI (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari, 2002, pp. 3-36; più diffusamente lo stesso Fioravanti ha analizzato il problema dello Stato moderno alla luce dei modelli storiografici e di comparazione elaborati nel XIX secolo in Stato (storia), in Enciclopedia del diritto, XLIII, Milano, 1990, pp. 708-755; B. SORDI, L. MANNORI, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2001. 87 In particolare Caravale non nota salti di qualità per quanto riguarda le politiche di accentramento e di unificazione normativa, ridimensionando quindi la portata della teorizzazione della sovranità operata da Bodin, cfr. M. CARAVALE, La nascita dello Stato moderno, in ID., Storia moderna, Roma, 1998, pp. 77-101. 88 Cfr. M. ASCHERI, Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Bologna, 2009, in particolare pp. 376399. 89 Cfr. I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, 2002, pp. 96-104. 85 31 ceti, autonomie corporative e territoriali trovarono una composizione in grado di garantire la coesione complessiva della società. D’altra parte non va disconosciuto il merito dei numerosi studi microstorici su scala comunitaria per aver arricchito il quadro degli assetti politici e i campi di indagine con il ricorso a metodi propri dell’antropologia e della sociologia, dimostrando per tabulas l’irriducibilità della società politica alle sole magistrature e la vitale esistenza di luoghi “altri” del potere. Il rischio, insomma, è quello di gettare via il bambino con l’acqua sporca allo scopo di contestare l’idea che la storia istituzionale e giuridica siano ormai discipline inadatte a comprendere i secoli della modernità. Il superamento delle dicotomie gerarchizzanti Stato/comunità, centro/periferia o alto/basso è stato reso possibile tenendo insieme i risultati offerti dalla microstoria con le correzioni di rotta effettuate negli ultimi anni dagli studi istituzionali. Alcuni elementi hanno così conquistato un rilievo centrale. Anzitutto l’orizzonte regionale del processo di aggregazione di molteplici entità territoriali tra loro differenti per peso politico ed economico ha disvelato una vitalità delle periferie tale che non è più possibile concepire il rapporto centro-periferia come unidirezionale, bensì biunivoco, in forza del quale la periferia sempre meno appare come un qualcosa di passivamente subalterno al centro. Inoltre gli studi sulle reti clientelari e di patronato dei gruppi dirigenti e sulla delicata questione del sistema pattizio su cui si articola lo Stato moderno hanno restituito profondità al contesto in cui gli ufficiali del sovrano operarono, stretti tra l’attuazione delle politiche centrali e la garanzia delle autonomie locali90. La ricerca della rispondenza ai modelli teorici, complice la crisi dello Stato contemporaneo, ha quindi progressivamente ceduto il passo allo studio di quella che potremmo chiamare “costituzione materiale” degli Stati regionali, cioè la verifica dell’operato di magistrature, comunità e gruppi variamente individuati in relazione alla cura di interessi concreti91. In particolare, la critica Erano, questi, elementi già acquisiti al momento della polemica tra macro e micro storici, quindi vedi G. CHITTOLINI, Stati padani, Stato del Rinascimento: problemi di ricerca, in G. TOCCI (a cura di), Persistenze feudali e autonomie comunitative in stati padani fra Cinque e Settecento, Bologna, 1988, pp. 9-29; E. FASANO GUARINI, Centro e periferia, accentramento e particolarismo: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, in Origini dello Stato, cit., pp. 147176 concentrato prevalentemente sull’Italia ma attento a indicare le vie d’uscita per superare l’impasse; L. BLANCO, Note sulla più recente storiografia in tema di «Stato moderno», in Storia, amministrazione, costituzione, Annale dell’I.S.A.P., 2 (1994), pp. 259-298. 91 A questo proposito, si condivide l’osservazione di Marina Montacutelli: «È necessario, cioè, scomporre ogni categoria analitica: anche lo Stato, se inteso non soltanto come configurazione politico-istituzionale più complessa di altre che ne riprodurrebbero - in piccolo o in sua assenza – le prerogative e le funzioni. Non s tratta di precostituire categorie astratte, di porre la questione dello stato in termini di accertamento della sua efficienza e funzionalità rispetto a un modello indeducibile, ma di studiarlo nel concreto del suo agire, in modo processuale e non evolutivo: ciò significa che nell’endiade “stato moderno” appare più discutibile l’aggettivo (se inteso in senso “modernizzante”) 90 32 mossa a concetti tradizionali – accentramento, omologazione, razionalizzazione delle strutture – che presuppongono una prospettiva lineare per la misurazione della crescita dello Stato, permette di concentrare l’attenzione sul rapporto tra finalità perseguite e mezzi impiegati o impiegabili (tra cui sicuramente figurano gli strumenti giuridici e istituzionali)92. Così facendo, si delineano le forze in campo e si ricostruisce la contrapposizione di obiettivi che fu alla base dei conflitti, calando quindi diritto e istituzioni nella società e sul territorio. In tal senso si muovevano già alcuni interventi al convegno di Chicago del 1993, proponendo un “ritorno alle fonti” per sottoporre alla prova dei documenti ogni interpretazione sulla natura di qualsiasi realtà statuale93. L’indicazione può dirsi oggi in gran parte recepita, considerato che lavori assai differenti tra loro per modelli e campi d’indagine – la fiscalità, la costruzione di un sistema di warfare, gli apparati della giustizia e il loro funzionamento – hanno confermato che lo sviluppo dello Stato, lungi dall’essere lineare, non assunse come pardigma l’assolutismo francese, livellatore dei corpi preesistenti. Esso si configurò invece come un processo di integrazione in cui la concentrazione del potere era diretta ad aggregare comunità e ceti verso un orizzonte comune, che richiedeva una nuova organizzazione dei corpi politici presenti sul territorio94. che non il sostantivo», cfr. M. MONTACUTELLI, L’Oltremonte e il mare: alcune considerazioni su un modello mediterraneo, in Società e storia, 67/1 (1995), p. 160. 92 Studiando la formazione del dominio fiorentino, Andrea Zorzi ha individuato tre priorità nelle politiche di governo: legittimazione reciproca tra dominante e comunità soggette; riconoscimento delle pratiche politiche locali (ivi compresi i conflitti tra fazioni) e loro interazione con le pratiche di governo della Dominante; negoziazione tra i diversi poteri territoriali su materie specifiche. Volendo offrire una possibile interpretazione, l’A. scrive: «Linea politica di fondo del gruppo dirigente fiorentino appare essere stata non tanto quella di perseguire l’amministrazione di un ente unitario in cui le cosiddette funzioni pubbliche servissero il processo di integrazione statale (aumento delle risorse fiscali, costituzione di ordinamenti militari più stabili, articolarsi delle istituzioni centrali e periferiche, formazione di un personale di funzionari e ufficiali etc.), bensì quella di “reggere” politicamente un dominio territorialmente variegato in cui l’apparato giuridico-istituzionale e le pratiche di governo servissero anzitutto come strumento di conservazione». Fondamentale dunque è l’analisi dell’attività degli uffici di governo centrali e periferici e delle magistrature giudicanti, A. ZORZI, La formazione e il governo del dominio territoriale fiorentino: pratiche, uffici, “costituzione materiale”, in Lo Stato territoriale fiorentino, cit., pp. 190-221. 93 Si segnalano in particolare i contributi in Origini dello Stato di G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria nell’esperienza degli Stati italiani della prima età moderna, pp. 287-302; L. PEZZOLO, Sistema di potere e politica finanziaria nella Repubblica di Venezia (XV-XVII), pp. 303-330; R. SAVELLI, Tribunali, «decisiones» e giuristi: una proposta di ritorno alle fonti, pp. 397-424. Le potenzialità offerte da alcune scelte di campo, come il rifiuto della contrapposizione antico/nuovo e l’opzione per lo Stato composito come esperienza dotata di propria dignità indipendente dal suo prefigurare una modernità più “vera”, sono state colte dal Mannori che recensendo il volume ha affermato l’opportunità, in una fase storica di crisi dello Stato monoliticamente inteso, di «verificare in che misura la civiltà ottocentesca, a dispetto della sua autorappresentazione enfaticamente rotturista, abbia continuato a muoversi lungo i binari antichi di una politica concepita come governo di gruppi contrapposti e come ricerca di una mediazione tra le loro confliggenti esigenze», cfr. L. MANNORI, Genesi dello Stato e storia giuridica, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 24, 1995, pp. 485-505. 94 Il diverso configurarsi del rapporto tra crescita delle città, accumulazione di risorse economiche, mobilitazione di forze militari ed crescita dell’amministrazione regia diede luogo a forme di Stato diverse, secondo la classica interpretazione di Charles Tilly, cfr. C. TILLY, Coercion, Capital, and European States, AD 990-1990, Cambridge, 1990. Per ricognizioni storiografiche aggiornate sullo Stato vedi le considerazioni introduttive di A. HOLENSTEIN, Empowering 33 La chiave di lettura che si inserisce in questo solco metodologico e che tornerà utile per lo studio delle forme di gestione dei beni collettivi liguri è quella rappresentata dalla tutela svolta dal centro a beneficio delle comunità locali. Una “invenzione”, per usare le parole di Mannori che ne ha saggiato l’applicabilità in Toscana, capace di accomunare gran parte delle esperienze istituzionali europee di quel periodo e che segna uno netto scarto rispetto ai munera giurisdizionali del sovrano medievale. I fondamentali della tutela amministrativa sono noti ma val la pena rievocarli per sommi capi. L’evoluzione della società tra tardo medioevo ed età moderna presenta ai gruppi dirigenti comunitativi una serie di interessi emergenti che richiedono la predisposizione di corrispondenti attività volte a soddisfarli. Stante l’incapacità, effettiva o putativa, della comunità a provvedervi autonomamente, il centro ne assume la direzione ed il controllo sotto diversi profili (capacità di spesa, disponibilità dei beni comunali, adempimento di una serie di prestazioni obbligatorie) assimilandola alla condizione giuridica del pupillo, bisognoso di un tutore per la migliore cura dei suoi affari. Come precisa lo stesso Mannori, questa pratica di governo, senza squalificare l’importanza di nessun corpo intermedio, dimostra come: «la conservazione di una struttura marcatamente pluralistica non sia affatto incompatibile con uaccentramento amministrativo una volta che, affermata la natura minorile della civitas, il centro sia riuscito a riunire nelle proprie mani tutta quanta la “capacità di agire” prima dispersa tra i mille corpi intermedi del suo Stato»95. È sulla falsariga del modello tutelare che i temi del particolarismo politico d’antico regime e del tentativo da parte del “centro” di darvi un qualche ordine possono essere studiati, tentando di comprendere quali reazioni suscitò questo processo e quali strumenti giuridici il “centro” mise in campo in vista della cura di determinati interessi. Ovviamente tra Stato e Stato lo specifico grado di realizzazione e di efficacia della tutela è destinato a variare, ma quello che più preme sottolineare è come essa permetta di verificare, senza apriorismi, l’efficienza funzionale di quelle riforme che, magari non sempre in maniera organica e razionale, gettarono le basi dello State building. interactions: looking at Statebuilding from below, in W. BLOCKMANS, A. HOLENSTEIN, J. MATHIEU (a cura di), Empowering interactions. Political culture and the Emergence of the State in Europe 1300-1900, Farnham, 2009, pp. 1-35 e l’intera parte quarta dello stesso volume (pp. 281-326); L. TEDOLDI, Dove eravamo rimasti? Lo Stato in età moderna tra problemi storiografici e questioni aperte, in «Le Carte e la Storia», 2, 2009, pp. 19-33; F. BENIGNO, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, 2013, pp. 163-184. 95 Cfr. L. MANNORI, ll Sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel Principato dei Medici (sec. XVI-XVIII), Milano, 1994, in particolare pp. 137-188. Benché il libro si muova per esplicita ammissione dell’A. entro il binomio centro/periferia, l’opera non indulge in riproposizioni della teorica chabodiana, dedicando il primo capitolo a dimostrare l’assenza – semantica prima ancora che politica o giuridica – di un termine che designi nella sua interezza l’ordinamento territoriale del principato mediceo. 34 Accanto all’indiscutibile carattere composito degli Stati d’età moderna e alla politica tutelare, un’ultima tendenza storiografica ha contribuito a porre diversamente la questione della formazione dello Stato: si allude all’approccio di “produzione di località”96. Di “approccio topografico” aveva già parlato Edoardo Grendi97, invitando a riconsiderare attentamente i processi di genesi locale delle fonti, riconducendole agli oggetti concreti di cui trattavano. Esso è stato raccolto con varie sfumature da una corrente nutrita di storici che hanno fatto nuova luce sul funzionamento delle istituzioni, dimostrando la natura legittimante delle pratiche in un contesto in cui l’amministrazione della giustizia era spesso il segno più visibile del potere98. È così emersa una maggiore consapevolezza circa le modalità con cui le istituzioni erano utilizzate dagli stessi attori (le parti di un processo o di un contratto) allo scopo di certificare agli occhi dell’autorità determinate prerogative. Dall’altro lato si è riconosciuta sempre più importanza alle pratiche di trasformazione del territorio, specchio a sua volta di usi e di relazioni tra insediamenti vicini. Grazie ai risultati della geografia storica e della storia sociale, si è recentemente proposto all’attenzione di un’ampia platea di studiosi (comprendente archeologi, biologi, ecologi, storici e…storici del diritto) la possibilità di individuare come oggetto di ricerca le pratiche di utilizzo di risorse naturali in siti concreti in vista di una rinnovata ecologia storica99. Alcuni elementi in grado di radunare diverse discipline (la scelta delle risorse naturali come oggetto comune di studio, l’utilizzo incrociato di fonti cartografiche, giuridiche e di terreno) e gli scopi prefissati fanno auspicare un ulteriore avanzamento delle conoscenze sul modo in cui l’ambiente locale fu modellato nel corso del tempo. Si può dire allora che i beni comuni rappresentino un valido campo di ricerca che, ponendosi a metà strada tra dimensioni micro e macro, dia riscontro alle molte problematiche Il riferimento è ad A. TORRE, La produzione storica dei luoghi, in Quaderni storici, 110 (2002), pp. 443-475; M. DELLA MISERICORDIA, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo medioevo, Milano, 2006; A. TORRE, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma, 2011 con relative indicazioni bibliografiche. Il tema dello spazio si presta a decifrazioni multiple che qui non si possono richiamare interamente, per cui si rimanda a A. TORRE (a cura di), Per vie di terra. Movimenti di uomini e di cose nella società di antico regime, Milano, 2007 e C. G. DE VITO, Verso una microstoria translocale (micro-spatial history), in Quaderni storici, 150 (2015), pp. 815-833. 97 E. GRENDI, Storia di una storia locale: perché in Liguria (e in Italia) non abbiamo avuto una local history?, in Quaderni storici, 82 (1983), pp. 141-197. 98 Riprendendo la lezione già di Grossi e di P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale 1100-1433, Milano, 1969 e riassunta da A. M. HESPANHA, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna, 1999, pp. 40-49. 99 Cfr. R. CEVASCO, V. TIGRINO, Lo spazio geografico: una discussione tra storia poltico-sociale ed ecologia storica, in Quaderni storici, 127 (2008), pp. 207-242; A. TORRE, V. TIGRINO, Beni comuni e località: una prospettiva storica, in Ragion pratica, 41 (2013), pp. 333-344. 96 35 enucleate fin qui? L’argomento, esaminato da questo punto di vista, non ha attirato l’interesse dei ricercatori fino a tempi piuttosto recenti, quando un crescente numero di storici ha ripreso ad occuparsene sulla scorta delle ricerche di Elinor Ostrom sulle common-pool resources, mutuandone il modello neo-istituzionale mirante a verificare il grado di tenuta delle istituzioni di governo delle risorse collettive. 3.b) Stato e beni comuni in Liguria Lo studio degli usi civici obbliga quindi, sulla scorta di quanto visto fin qui, a localizzare la ricerca entro un contesto definito per trarre dall’esame delle fonti elementi utili per svolgere considerazioni di ordine più generale sull’evoluzione degli istituti e le politiche di conservazione e sfruttamento praticate. È quindi opportuno fare brevemente il punto su alcuni dati acquisiti dalla storiografia a proposito delle istituzioni politiche e giuridiche della Liguria d’età moderna100. Com’è noto, se comparata a Venezia, la Repubblica di Genova non ha goduto nei secoli di quell’aura mitica sviluppatasi a partire dal tardo medioevo e che avrebbe influenzato profondamente gli storici. Al contrario: studi recenti hanno chiarito che numerosi aspetti del sistema politico genovese erano ignorati o poco compresi dagli stessi trattatisti coevi101. D’altra parte, come notava Grendi, il mito, questo sì tutto locale, del genovese mercante/navigatore ha contribuito in buona misura a proiettare gli interessi storici verso la dimensione internazionale del patriziato e dei suoi affari, rimuovendo integralmente interi problemi storiografici102. Nota ai limiti della proverbialità, l’ingovernabilità medievale e la presunta “arcaicità” istituzionale di Genova hanno rappresentato per lungo tempo il pretesto per eludere il tema dell’organizzazione territoriale103. Le tecniche finanziarie, le colonie commerciali mediterranee e le fortune imprenditoriali delle maggiori famiglie erano i campi in cui il patriziato si era distinto, non certo quello del governo di una regione agricola e, si può dire, “non all’altezza” del gruppo dirigente della città. La sovrapposizione tra storia delle fortune finanziarie dei privati e storia Una riflessione storiografica più ampia, riguardante anche questioni qui non affrontate, è in V. TIGRINO, Il dibattito storico-politico sul Dominio della Repubblica di Genova in età moderna: feudi, ex-feudi, città e quasi-città, in M. SCHNETTGER, C. TAVIANI (a cura di), Libertà e dominio. Il sistema politico genovese: le relazioni esterne e il controllo del territorio, Roma, 2011, pp. 315-365. 101 Cfr. C. BITOSSI, L’immagine del sistema politico genovese nell’età moderna: scrittori e ambasciatori (1550-1730), in Libertà e dominio, cit., pp. 193-224, G. ASSERETO, Viaggiatori francesi a Genova tra Seicento e Settecento: pregiudizi e stereotipi, in Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Capellini, 70 (2000), pp. 3-12. 102 Cfr. E. GRENDI, Storia di una storia locale. L’esperienza ligure 1792-1992, Venezia, 1996, p. 22. 103 Una recente critica del pregiudizio sulla struttura politica del comune genovese in C. SHAW, Genova, in A. GAMBERINI, I. LAZZARINI, Lo Stato del Rinascimento in Italia (1350-1520), Roma, 2014, pp. 201-220. 100 36 istituzionale arrivò al punto da indurre il Valsecchi, ripreso da Galasso, a definire Genova una grande “società per azioni”104. Non dissimile il giudizio espresso da Heers, che sottolineò in toni critici lo iato tra l’avanzato grado di professionalizzazione mercantile raggiunto dai cittadini del capoluogo e l’arretratezza delle dinamiche feudali ben radicate nelle zone rurali105. Certi pregiudizi o “precomprensioni” delle vicende genovesi, che oggi si stanno superando non senza fatiche, hanno quindi radici lontane. Le zone d’ombra sul governo del territorio paiono accomunare tanto la medievistica quanto la storia moderna e di ciò sono testimoni alcuni recenti saggi che vorrebbero costituire una storia regionale ad ampio respiro106. Per il periodo basso-medievale Giovanna Petti Balbi ha notato come in definitiva una sintesi del processo di «comitatinanza» e di costruzione del dominio compiuto dal Comune genovese tra XII e XIV secolo sia complicata per la frammentarietà degli studi disponibili107. Una esiguità dovuta al prevalere di altri interessi (quelli di natura sociale ed economica, cui si è fatto cenno) e di una tendenza diffusa ad esaurire la storia ligure con le vicende del capoluogo e della sua classe dirigente, direzione su cui si muovono anche alcuni saggi contenuti nei lavori citati108. 104 Cfr. F. VALSECCHI, L’Italia nel Seicento e nel Settecento, in Società e costume. Panorama di storia sociale e tecnologia, 6, Torino, 1986, pp. 651-660. 105 Cfr. J. HEERS, Genova nel Quattrocento, Milano, 1983. Critico sul punto R. LOPEZ, Quattrocento genovese, in Rivista storica italiana, LXXV, 1963, pp. 709-727. 106 Senza risalire ai lavori più datati, per tastare l’indirizzo delle recenti tendenze storiografiche regionali si sono considerati i seguenti lavori: D. PUNCUH (a cura di), Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, Genova, 2003; Storia della cultura ligure, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s. XLIV/1-2 (2004) e XLV/1-2 (2005); G. ASSERETO, M. DORIA (a cura di), Storia della Liguria, Roma-Bari, 2007, G. AIRALDI, Storia della Liguria, Genova-Milano, 2008-2010, in particolare voll. II e III. A tali volumi si rinvia pertanto anche per le più ampie indicazioni bibliografiche. Non va però omesso che una delle più efficaci sintesi della storia regionale d’età moderna si deve a C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova nell’età moderna, in Storia d’Italia, a c. di G. Galasso, vol. IX, Torino, 1978. 107 Si utilizza il concetto di comitatinanza coniato da De Vergottini per indicare il processo di estensione dell’area di influenza del Comune cittadino che tra XI e XIII secolo, sfruttando il proprio potere militare e le proprie risorse economiche, soppianta il vescovo e si pone come interlocutore principale nei rapporti con castelli e borghi del contado, sottomettendoli e specificando in appositi patti le garanzie di autonomia dei centri dominati, cfr. G. DE VERGOTTINI, Origini e sviluppo storico della comitatinanza, in Studi senesi, serie II, 43 (1929), pp. 347-481, ora in G. ROSSI (a cura di), Scritti di storia del diritto italiano, Milano, 1977, pp. 5-122. 108 Oltre al saggio di G. PETTI BALBI, Tra dogato e principato: il Tre e il Quattrocento, in Storia di Genova, 2003, cit., 233324, un rapido cenno alle vicende riguardanti le Riviere si trova in V. POLONIO, Dalla marginalità alla potenza sul mare: un lento itinerario tra V e XIII secolo, in Storia della Liguria, 2007, cit., pp. 24-42, mentre il Quattrocento è prevalentemente occupato dalle lotte faziose delle famiglie cappellazze (R. Musso, La tirannia dei cappellazzi. La Liguria tra XIV e XVI secolo, ivi, pp. 43-60). Al medioevo sono dedicati due saggi di storia giuridica in materia di fonti che in parte allargano il loro orizzonte all’intera regione, cfr. V PIERGIOVANNI, La cultura giuridica in Liguria nel passaggio dall’alto al basso medioevo, e R. BRACCIA, Cultura giuridica e cultura della legge in Liguria tra medioevo ed età moderna: la legislazione statutaria, in Storia della cultura ligure, cit., 44/1, rispettivamente pp. 11-18 e pp. 19-36. In controtendenza, spicca per profondità di indagine e utilizzo di fonti di prima mano il lavoro di P. GUGLIELMOTTI, Ricerche sull’organizzazione del territorio nella Liguria medievale, Firenze, 2005. 37 Se volgiamo lo sguardo all’età moderna, le lacune non sono minori anche se alcuni, importanti studi di storia giuridico-politica hanno posto dei punti fermi imprescindibili. Sotto l’espressione “età di Andrea Doria” Bitossi ha compreso il cinquantennio compreso tra la nascita della Repubblica aristocratica, propiziata dal passaggio all’Impero di Carlo V d’Asburgo dello stesso Doria e delle sue navi e formalizzata dall’approvazione delle reformationes, e l’ultima stagione delle lotte tra le fazioni cittadine culminata nella guerra civile del 1575 e l’entrata in vigore delle Leges novae nel marzo del ’76109. 1528 e 1576 costituiscono indubbiamente due momenti “forti” della storia istituzionale genovese: la riforma degli organi di governo fa tutt’uno con la conservazione dell’indipendenza, pur sotto l’ombrello protettivo degli Asburgo d’Austria, prima, e di Spagna poi. E proprio le implicazioni politiche sono state il fulcro dell’analisi che Arturo Pacini ha condotto a proposito delle riforme del ’28, scorgendo in esse la manifestazione più chiara della capacità di adattamento di Genova al mutato contesto internazionale che andava definendosi nell’ultimo scorcio delle guerre d’Italia, adattamento certo non indolore, come palesarono le stesse tensioni di metà secolo sfociate nella congiura di Gian Luigi Fieschi110. Con le leggi di riforma dell’assetto costituzionale redatte a Casale tra il 1575 e il 1576, Genova si dota di un apparato di poteri pubblici destinato a rimanere invariato nei suoi tratti fondamentali fino al 1797. Questa relativa stabilità ha incentivato una serie di studi volti a chiarire le cause della rivolta e i termini del dibattito che portò alla stesura delle Leges novae. Senza entrare nei dettagli, rimandati al prossimo capitolo, il 1576 ha assunto il rango di anno a quo tanto per alcuni, significativi contributi di storia istituzionale, quanto per i principali lavori di Grendi e Raggio citati in precedenza111. Il tema del governo del territorio è rimasto tuttavia secondario, Cfr. A. PACINI, La repubblica di Genova nel secolo XVI, in Storia di Genova, 2003, cit., pp. 325-390; C. BITOSSI, L’antico regime genovese, 1576-1797, ivi, pp. 391-508; C. BITOSSI, L’età di Andrea Doria, in Storia della Liguria, 2007, cit., pp. 6178. 110 Cfr. A. PACINI, I presupposti politici del secolo dei genovesi. La riforma del 1528, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s., XXX/1, Genova 1990; Id., La Genova di Andrea Doria nell’Impero di Carlo V, Firenze, 1999. La tesi di Pacini era stata in parte anticipata dal saggio di V. PIERGIOVANNI, Il sistema europeo e le istituzioni repubblicane di Genova nel Quattrocento, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 13, (1983), pp. 3-46, che aveva già letto l’intreccio tra ragioni della politica internazionale, dialettica tra le fazioni cittadine e sviluppo di una burocrazia adeguata, specie nel settore finanziario con il Banco di San Giorgio, come elementi anticipatori di quella che sarebbe stata la politica italiana nei due secoli successivi. Recentemente ha sostenuto la tesi della “sopravvivenza per adattamento” di Genova come città-stato grazie alla riforma delle proprie magistrature di governo e all’alleanza asburgica T. SCOTT, The citystate in Europe 1000-1600. Hinterland, territory, region, Oxford, 2012, pp. 206-207. 111 Tra tanti vedi almeno V. PIERGIOVANNI, Il Senato della Repubblica di Genova nella “riforma” di Andrea Doria, in «Annali della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova», IV (1965), pp. 230-275, ora in V. PIERGIOVANNI, Norme, scienza e pratica giuridica tra Genova e l’Occidente Medievale e Moderno, in Atti della società ligure di storia patria, n.s. LII/1 (2012), pp. 13-56; R. SAVELLI, Potere e giustizia: documenti per la storia della Rota criminale a Genova alla fine del ‘500, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 5 (1975), pp. 29-172; ID., La repubblica oligarchica: legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano, 1981; G. ASSERETO, Dall’amministrazione patrizia all’amministrazione moderna: Genova, in L’amministrazione nella storia moderna, Milano, 1985, pp. 95-159, ora in ID., 109 38 salvo le eccezioni rappresentate dai lavori di Assereto e Felloni sull’amministrazione del Dominio112. Gli studi di Bitossi puntano invece i riflettori sul personale politico inviato negli uffici periferici e molto meno su questioni più “materiali”113. Sulla stesa falsariga si collocano le opere di sintesi più recenti, concentrate a contestualizzare l’instaurazione della Repubblica senza però allargare il quadro al dominio regionale, se non per brevi cenni ricapitolativi114. Ma non è tutto. Se abbastanza si è scritto sulle magistrature governative e giudiziarie di vertice, risultano invece abbastanza superficiali anche le conoscenze in nostro possesso a proposito dei due collegi che si associarono al governo della Repubblica nella cura dei rapporti con le comunità del Dominio: Giunta dei Confini e Magistrato delle Comunità115. La scarsissima bibliografia disponibile la dice lunga sulla minore dignità storiografica della “periferia” ligure. Peraltro può sembrare un paradosso il fatto che proprio a quei fondi di archivio abbia attinto Raggio nei suoi lavori sull’usurpazione delle comunaglie in Liguria e sui bandi campestri, relegando però sullo sfondo l’intervento degli organi centrali che pure hanno prodotto quei documenti116. Può essere, come ha scritto Savelli, che il disinteresse per la disciplina del territorio sia da ricondurre al fatto che le stesse leggi del 1576 non avessero l’ambizione di ridisegnare completamente le istituzioni genovesi – e quini anche i rapporti tra Genova e le comunità a vario titolo soggette – ma si ponessero più pragmaticamente l’obiettivo di sciogliere i nodi politici più spinosi emersi in quella specifica congiuntura, e che quindi su di essi si sia arrestata l’attenzione117. Di certo Genova nel corso della sua legò a sé le diverse realtà politiche territoriali delle Riviere utilizzando strumenti diversi quali convenzioni, patti, investiture feudali. Questa politica pattizia tra “diseguali” non seguì chiaramente un progetto unitario, il che rese nel Settecento assai arduo mettere in campo quelle riforme amministrative su cui pure si dibatté ampiamente, come ha La metamorfosi della Repubblica. Saggi di storia genovese tra il XVI e il XIX secolo, Savona, 1999, pp.9-76; R. FERRANTE, La difesa della legalità. I sindacatori della Repubblica di Genova, Torino, 1995. 112 Cfr. G. FELLONI, Le circoscrizioni territoriali civili ed ecclesiastiche nella Repubblica di Genova, in Atti della società ligure di Storia patria, n.s. XXXVIII/2 (1998), pp. 897-936. 113 Cfr. C. BITOSSI, Il governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova, 1990. 114 In particolare C. BITOSSI, L’antico regime genovese, 1576-1797, in Storia di Genova, 2003, cit., pp. 391-509 con ampia bibliografia; ID., La Repubblica di Genova: politica e istituzioni, in Storia della Liguria, 2007, pp. 79-97; di portata veramente regionale il contributo di Felloni che esamina il sistema fiscale genovese nel suo complesso, ivi compresa l’amministrazione finanziaria locale, G. FELLONI, Le attività finanziarie, in Storia della Liguria, 2007, cit., pp. 132-152. 115 Oltre ad Assereto, vedi G. BENVENUTO, Una magistratura genovese, finanziaria e di controllo: il Magistrato delle Comunità, in La Berio, 20 (1980), n. 3, p. 18- 42. Un quadro generale e datato delle varie magistrature, privo di particolari ambizioni, si deve a G. FORCHERI, Doge, Governatori, Procuratori, Consigli e Magistrati della Repubblica di Genova, Genova, 1968. 116 Cfr. O. RAGGIO, Forme e pratiche di appropriazione delle risorse. Casi di usurpazione delle comunaglie in Liguria, in Quaderni storici, 81 (1992), pp. 135-169; ID., Norme e pratiche. Gli statuti campestri come fonti per una storia locale, in Quaderni storici, 88 (1995), pp. 155-194. 117 Cfr. R. SAVELLI, La Repubblica oligarchica, cit., pp. 212-213. 39 mostrato Bitossi118. La necessità di consultare una massa di fonti diverse (convenzioni, statuti, atti prodotti localmente) e non sempre reperibili o accessibili (specie se conservate presso archivi locali) ha in sostanza lasciato pressoché privi di accoglimento gli inviti formulati da Piergiovanni e da Savelli a studiare congiuntamente statuti e convenzioni per ricostruire l’evoluzione del rapporto tra Genova e comunità locali e archiviare così lo stereotipo di uno Stato “senza territorio”119. Ci si può chiedere a questo punto in quale misura proprio la lezione di Grendi e Raggio abbia indirizzato gli studi degli ultimi decenni a leggere “dal centro e dalla periferia” la storia di singole comunità e, segnatamente, ad occuparsi dei beni comuni. Ai due studiosi non sfuggì infatti il ruolo svolto dalle terre collettive all’interno delle dinamiche politico-economiche delle comunità analizzate. Il patrimonio storiografico da cui prese le mosse Grendi, peraltro, era abbastanza povero di studi locali diversi dalla memorialistica di vago sapore campanilista: il campo attendeva quindi di essere arato, in molti casi per la prima volta120. A conti fatti, limitatamente ai temi che qui ci interessano, possiamo identificare due tendenze prevalenti, una che possiamo definire di matrice politico-istituzionale e una che ha intrecciato il metodo della geografia storica con la scelta di analisi dell’operato delle istituzioni su scala eminentemente “locale”. Il primo filone è ben rappresentato da alcuni lavori di Assereto, Calcagno e Braccia121. Da essi emergono con sufficiente chiarezza sia gli strumenti (militari, giuridici, fiscali) messi in campo dalla Dominante per controllare i centri soggetti sia le tensioni tutte interne alle comunità per il controllo delle risorse economiche o il riparto degli oneri imposti dalla Repubblica, tensioni che trovavano una manifestazione nei conflitti giurisdizionali e nella produzione normativa locale. Cfr. C. BITOSSI, «La Repubblica è vecchia». Patriziato e governo a Genova nel Settecento, Roma, 1995. L’espressione “patti tra diseguali” è di Ascheri, che ha precisato come la natura anti-federale di questo assetto, in quanto privo di una convergenza politica di fondo tra le parti, fu alla base delle perduranti tensioni tra Dominante e dominio registrabili un po’ ovunque negli Stati italiani lungo tutta l’età moderna, cfr. M. ASCHERI, Le città-stato, Bologna, 2006, pp. 153-154. 119 Cfr. V. PIERGIOVANNI, I rapporti giuridici tra Genova e il Dominio, in Atti della Società ligure di storia patria, n.s. XXIV/2 (1984), pp. 45-58; R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, amministrare la giustizia, organizzare il territorio, in R. SAVELLI (a cura di), Repertorio degli statuti della Liguria (secoli XII-XVIII), Genova, 2003, pp. 84-87 e pp. 172-174, secondo il quale, dalla campionatura effettuata durante la catalogazione, si ricava una linea di tendenziale riduzione degli spazi di autonomia quanto meno sotto il profilo della legislazione. 120 Cfr. E. GRENDI, Storia di una storia locale, cit., pp. 96-103. 121 Cfr. R. BRACCIA, Diritto della città. Diritto del contado. Autonomie politiche e autonomie normative di un distretto cittadino, Milano, 2004; G. ASSERETO, La città fedelissima. Savona e il governo genovese tra XVI e XVIII secolo, Savona, 2007; P. CALCAGNO, «Nel bel mezzo del Dominio». La comunità di Celle Ligure nel Sei-Settecento, Ventimiglia, 2007, anche se i riferimenti giuridico-istituzionali sono ridotti ai minimi termini; ID., «La puerta a la mar». Il Marchesato del Finale nel sistema imperiale spagnolo (1571-1713), Roma, 2011, contributo, questo, che allarga di molto la prospettiva, trattando prevalentemente delle vicende internazionali del Marchesato finalese tra dominio spagnolo e la cautela di Genova, che temette prima la realizzazione di un porto concorrente e poi che il feudo finisse nelle mani del Duca di Savoia. 118 40 Tuttavia risultano sporadici i riferimenti alle ricadute sulle forme di amministrazione dei beni ad uso collettivo conseguenti al mutare dei rapporti giuridici tra comunità studiate e Genova122. Il secondo filone prende le mosse da alcune prospettive suggerite dagli studi di storia rurale e di geografia storica, i cui alfieri liguri sono indubbiamente Quaini e Moreno123. Il lavoro compiuto ha aperto prospettive di analisi importanti su oggetti generalmente negletti dalla storiografia ligure, come talune tecniche di lavoro agro-forestali, l’insediamento della piccola proprietà all’interno di grandi aree boschive e la realizzazione della vasta campagna cartografica di metà Settecento. L’archeologia di sito e la storia della cartografia hanno quindi fornito alcuni dati importanti per lo studio delle risorse collettive, ma senza entrare nello specifico circa le ricadute istituzionali, e non meramente agro-economiche, del loro sfruttamento. In tempi più recenti si è affermato l’indirizzo microstorico di produzione delle località, esemplificato dagli studi di Angelo Torre, di cui si è parlato in precedenza. Per l’area ligure hanno sperimentato questo approccio lo stesso Torre e altri, in vario modo aderenti alla sua impostazione. Il rilievo dato all’identità storica di ciascun luogo e alla contestualizzazione del medesimo entro reti di relazioni sociali – la cui estensione presenta geometrie variabili a seconda dell’oggetto studiato – ha costituito un’occasione propizia per proficui scambi tra scienze diverse che, mantenendo intatte le proprie peculiarità circa linguaggi e lettura delle fonti, sembrano aver trovato un laboratorio comune su cui confrontarsi124. A dimostrazione che la storia del diritto, tramite i beni comuni, possa ben inserirsi anche in questo dibattito tra storici, oltre a quello tra giuristi positivi, si possono citare alcuni lavori di È il caso dell’ultima parte della monografia di Braccia, in cui si prende in considerazione il fenomeno dei bandi campestri emanati tra XVI e XVII secolo dalle comunità del contado ingauno, il cui contenuto disciplina generalmente tre materie: danni dati, costituzione e limiti degli usi civici su beni privati e regole sulle proprietà collettive, cfr. R. BRACCIA, Diritto della città, cit., pp. 203-217. Assereto si sofferma invece sul vastissimo bosco di Savona, uno dei principali “polmoni verdi” della regione, rifacendosi perlopiù a contributi risalenti, G. ASSERETO, La città fedelissima, cit., pp. 80-82. 123 Vedi almeno: M. QUAINI, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria. Note di geografia storica, in Atti della società ligure di storia patria, n.s. XII/2 (1972); D. MORENO, La colonizzazione dei “Boschi d’Ovada” nei secoli XVI-XVII, in Quaderni storici, 24 (1973), pp. 977-1016; ID., Querce come olivi. Sulla rovericoltura in Liguria tra XVIII e XIX secolo, in Quaderni storici, 49 (1982), pp. 106-136; M. QUAINI (a cura di), La conoscenza del territorio ligure fra medio evo ed età moderna, Genova, 1981; AA.VV., Territorio e società nella Liguria moderna. Studi di storia del territorio, Firenze, 1983; D. MORENO., Dal documento al terreno. Storia e archeologia dei sistemi agro-silvo-pastorali, Bologna, 1990; M. P. ROTA, Una fonte per la geografia storica della Liguria: il manoscritto 218 dell’Archivio di Stato di Genova, Genova, 1991; G.M UGOLINI, Utilizzazione del bosco e organizzazione territoriale nella Liguria tra Sette e Ottocento: le opere di G.M. Piccone e di A. Bianchi, Genova, 1995. 124 Paradigmatici a questo proposito sono M. CASSIOLI, Ai confini occidentali della Liguria. Castel Vittorio dal medioevo alla Resistenza, Imperia, 2006; V. TIGRINO, Sudditi e confederati. Sanremo, Genova e una storia particolare del Settecento europeo, Alessandria, 2009; L. GIANA, Topografie dei diritti. Istituzioni e territorio nella Repubblica di Genova, Alessandria, 2011; A. M. STAGNO, V. TIGRINO, Beni comuni, proprietà privata e istituzioni: un caso di studio dell’Appennino ligure (XVIII-XX secolo), in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio sulla proprietà collettiva, 1 (2012), pp. 261-302. 122 41 Beatrice Palmero e di Roberta Braccia125. L’accostamento è giustificato dalla scelta, compiuta da entrambe le studiose, di un’area territoriale ben precisa come campo di analisi e la consapevolezza che le asimmetrie nei rapporti di forza tra borgo e ville o tra gruppi interni ad un singolo centro siano rilevabili da vari indizi, quali i rapporti di credito, la distribuzione della proprietà fondiaria e l’evoluzione delle forme di autonomia delle ville, che sempre di più durante l’età moderna reclamarono spazi di intervento normativo. Il territorio inteso come luogo di convergenza di giurisdizioni, poteri, interessi economici ridefinisce gli stessi caratteri della storia locale e appare quindi idoneo a fornire una visuale innovativa per provare a sciogliere alcuni dei nodi cui si è fatto cenno, utilizzando quale oggetto di verifica i beni comuni. Senza riprodurre vecchi schemi storiografici, l’interesse per le forme di gestione delle risorse può indubbiamente rivelare molto su come i diritti legati al territorio siano stati plasmati grazie al concorso di attori diversi. Gli studi compiuti da Beatrice Palmero sugli usi collettivi nell’estremo ponente sono numerosi, qui basti richiamare B. PALMERO, Comunità, creditori e gestione del territorio. Il caso di Briga nel XVII secolo, in Quaderni storici, 81 (1992), pp. 739-757; EAD., Territori comunali: una contesa tra Ventimiglia e Dolceacqua (XIII-XVIII secc.), in Intemelion, 2 (1996), pp. 41-84; EAD., Una fonte contemporanea per la storia del territorio. Il "Commissariato agli Usi Civici" e le pratiche d’uso, in Quaderni storici, 125 (2007), pp. 549-590; EAD., Boschi e confini nelle Alpi marittime in età moderna. Gli usi di confine e i limiti del bosco di Gerbonte tra le alpi delle comunità (1666-1670), in M. AMBROSOLI, F. BIANCO (a cura di), Comunità e questioni di confini in Italia settentrionale (XVI-XIX sec.), Milano, 2007, pp. 25-42. Ad integrazione di quanto già riportato nel libro su Albenga, Braccia espose i risultati di un confronto mirato sui beni comuni tra gli statuti di diverse località del ponente, situate in un’area compresa tra Finale Ligure e Albenga, non mancando di sottolineare l’importanza dei conflitti giurisdizionali e degli interventi di riforma dei bandi campestri per la disciplina dei diritti collettivi, cfr. R. BRACCIA, Le proprietà collettive negli statuti rurali del Ponente ligure: alcuni rilievi e riflessioni, in M. ORTOLANI, O. VERNIER, M. BOTTIN (a cura di), Propriété individuelle et collective dans les Etats de Savoie, Nizza, 2012, pp. 47-62. Sulla validità dello studio dei beni comuni allo scopo di ricostruire le dinamiche dello spazio politico territoriale cfr. R. BORDONE, P. GUGLIELMOTTI, S. LOMBARDINI, A. TORRE, Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e contemporanea. Ricerche italiane e riferimenti europei, Alessandria, 2007, pp. 28-33. 125 42 CAPITOLO II Le istituzioni di gestione dei beni comuni: il “metodo Ostrom” applicato alla ricerca storica 1.a) L’approccio neo-istituzionale allo studio dei beni comuni Si è accennato in precedenza all’interesse dei medievisti per le relazioni tra beni comuni e scontri politici interni alle società comunali tra XII e XIII secolo. Una trattazione simile riferita all’età moderna si ebbe nel 1992 con la pubblicazione di un numero monografico dei «Quaderni storici» dedicato alle risorse collettive e curato da Diego Moreno e Osvaldo Raggio. Partendo dalle considerazioni svolte da Marc Bloch sul regime agrario francese – segnato da un crescente sfavore verso la sovrapposizione di diritti reali sulla terra, di cui il pascolo “vano” sui fondi privati era la principale manifestazione – il volume affrontò il tema proponendo un innovativo approccio di taglio sì “microstorico”, ma capace di coniugare ricerca storica, archeologia, ecologia storica, botanica. Il bersaglio polemico era la tesi sostenuta da Garret Hardin sulla inevitabile distruzione delle risorse naturali sottoposte a forme comuni di gestione, ma l’opzione di scala limitò profondamente la contestualizzazione delle pratiche studiate entro la cornice istituzionale di riferimento126. In seguito, nonostante la qualità dei saggi e l’indubbia fecondità delle prospettive indicate, l’interesse per le risorse collettive si è parcellizzato, almeno fino al 2009, in una quantità di studi non sempre accostabili per il metodo impiegato e fini di ricerca e aventi come terreno di indagine singole comunità o regioni127. Cito il 2009 perché in quell’anno è stato assegnato il premio Nobel per l’economia e le scienze sociali ad Elinor Ostrom per i suoi studi sugli adattamenti istituzionali e le dinamiche delle azioni collettive riguardanti le common pool resources, riassunti nel libro L’influenza di fattori non riconducibili strettamente al contesto locale è chiaramente esclusa, come fenomeno dotato di un qualche rilievo, dalla stessa premessa dei curatori: «Gli autori di questo fascicolo descrivono realtà definite da una gerarchia mobile di risorse; mostrano il ruolo di una pluralità di attori, spesso antagonisti (notabili locali, creditori, imprenditori, famiglie e parentele, gruppi stratificati, associazioni), e di configurazioni sociali mutevoli, in tempi e contesti diversi», cfr. D. MORENO, O. RAGGIO, Premessa, in Quaderni storici, 81 (1992), p. 614. I modesti successi di quella prospettiva, seppur ampiamente mitigati da un interesse storiografico nel frattempo irrobustitosi, sono stati oggetto di riflessione a 25 anni di distanza in un altro numero della stessa rivista, cfr. V. TIGRINO, Premessa, in Quaderni storici, 155 (2017), pp. 297-316. 127 Una rassegna storiografica sulle varie tendenze regionali è stata recentemente proposta da D. CRISTOFERI, Da usi civici a beni comuni: gli studi sulla proprietà collettiva nella medievistica e modernistica italiana e le principali tendenze storiografiche internazionali, in Studi storici, 57 (2016), pp. 577-604, in particolare pp. 589-599. 126 43 Governing the commons del 1990128. La studiosa arrivò a quella pubblicazione dopo più di un ventennio di ricerche sul campo, condotte non solo per sottoporre a verifica la tesi di Hardin formulata nel 1968 sulla rivista Science, ma anche per dimostrare che né il controllo statale né la proprietà privata sono immuni dal rischio di fallire l’obiettivo di conservare la risorsa129. Alla base delle ricerche ostromiane vi è lo studio di Mancur Olson, che negli anni ’60 indagò il funzionamento dei gruppi di pressione. Olson si concentrò soprattutto sull’analisi del comportamento dei soggetti propensi a sfruttare i benefici dell’azione del gruppo senza contribuire ai costi o rispettare le regole interne (i c.d. free rider) e sulle forme di coercizione necessarie per assicurare l’efficacia delle azioni poste in essere dai gruppi più numerosi. Per Olson la naturale propensione dell’individuo a perseguire il suo interesse egoistico deve essere bilanciata dal ricorso ad incentivi selettivi, capaci di discriminare chi si sottrae alla cooperazione, rendendo così più conveniente unirsi all’azione collettiva130. È da questo retroterra teorico che Ostrom plasma la nozione di “istituzione” consistente nell’insieme di: «regole operative seguite per determinare chi è autorizzato a prendere decisioni in alcuni campi, quali azioni sono consentite o soggette a restrizioni, quali regole di aggregazione verranno adottate, quali procedure vanno seguite, quali informazioni devono, o non devono, essere fornite e quali compensi devono essere assegnati agli individui a seconda delle loro azioni»131. In presenza di talune condizioni, quando gli utenti possono scambiarsi informazioni e Tradotto in Italia sedici anni dopo: E. OSTROM, Governare i beni collettivi, Venezia, 2006. G. HARDIN, The tragedy of commons, in Science, n. 162 (13/12/1968), pp. 1243-1248. Secondo Hardin, l’accesso libero alle risorse naturali comporta la loro integrale distruzione a causa del comportamento dei free-rider, vale a dire coloro che sfruttano eccessivamente la risorsa per ridurre l’utilità che gli altri fruitori possono ricavarne. Il biologo si servì come esempio di una terra dedicata al pascolo comune, risorsa che Ostrom avrebbe invece dimostrato di essere al contrario agevolmente conservabile anche senza ricorrere ad un controllo centralizzato, pubblico o privato. La tesi di Hardin sviluppava per certi versi i concetti già espressi dall’economista William Forster Lloyd negli anni 30 dell’Ottocento. Recentemente è stata posta in rilievo l’affinità della tesi di Hardin con l’indirizzo neo-malthusiano assunto dal movimento ambientalista statunitense negli anni Sessanta, secondo cui la crescita della popolazione globale avrebbe irrimediabilmente danneggiato l’ecosistema via aumento dell’inquinamento ed eccessiva concentrazione abitativa nelle grandi aree urbane. La sfiducia verso le teorie dell’azione collettiva e il successo della tragedy e del dilemma del prigioniero trovarono terreno fertile nel clima culturale e politico degli anni della Guerra Fredda, condizionando, oltre alla didattica accademica, anche alcune iniziative di cooperazione per lo sviluppo promosse dagli USA in Paesi del Terzo mondo, come espone F. LOCHER, Third World pastures: the historical roots of the commons paradigm (1965-1990), in «Quaderni storici», n. 151, (2016), pp. 303-333. Cenni anche in D. WALL, The commons in history. Culture, conflict and ecology, Cambridge, 2014, pp. 10-42. 130 Meno dannosi nelle piccole aggregazioni, i comportamenti di free riding diventano generalmente più numerosi al crescere del gruppo, laddove si allentano i legami personali di conoscenza (e dunque di controllo reciproco) tra i membri. La strategia per evitare condotte opportunistiche deve quindi tenere conto in primo luogo della dimensione del gruppo in oggetto e in un secondo momento elaborare adeguati incentivi selettivi, distinti dal conseguimento dell’interesse comune e forniti individualmente ai consociati, sotto forma di sanzioni economiche, giuridiche, sociali, premi etc., cfr. M. OLSON, La logica dell’azione collettiva. I beni pubblici e la teoria dei gruppi, Milano, 2013 (ed. orig. Harvard, 1965). 131 Cfr. E. OSTROM, Governare i beni collettivi, cit., p. 80. 128 129 44 convenire su modi e livelli di appropriazione del bene e sulle corrispondenti sanzioni per le infrazioni, la “tenuta” dell’istituzione così plasmata è generalmente ottimale. Un dato su cui la stessa Ostrom ha avuto modo di tornare ancora nel 2010 riguarda la complessità dei sistemi studiati per la gestione dei beni comuni. Essendo i singoli elementi del sistema interrelati tra loro, non possono essere studiati omettendo i legami con le altre parti, né presupponendo che le dinamiche evolutive di tali istituzioni non siano influenzate dall’ambiente locale, dalla cultura e dal rapporto costi-benefici132. Sempre sulla complessità delle informazioni di cui tenere conto per stabilire le regole di appropriazione, oltre che sulle relative asimmetrie informative e dei costi necessari per colmarle, si basa la dimostrazione che situazioni regolamentari collettive siano più vantaggiose di situazioni etero-normate. Il rilievo dato dalla Ostrom ai caratteri di pubblicità e di effettività delle regole appropriative, caratteri che le distinguono nettamente dalle semplici pratiche, consentono quindi di adattare il suo modello anche allo studio storico-giuridico. Nello stesso anno un convegno tenutosi a Nonantola – luogo non casuale – si proponeva di raccogliere l’eredità di quella stagione di riflessioni a cavallo tra anni ’80 e ’90, introducendo però un innovativo e più omogeneo approccio allo studio dei beni collettivi proprio sulla scorta della lezione ostromiana, di taglio neo-istituzionale. L’obiettivo dichiarato consisteva nel superare i passati dibattiti di cui si è parlato, concentrandosi sulle forme di gestione dei beni praticate nell’Italia settentrionale in rapporto ai principali cambiamenti economici, che produssero un più attento uso del suolo e la valorizzazione degli introiti generati.133 Gli studi pubblicati, verificando l’adeguamento delle istituzioni preposte alla conservazione dei commons, hanno tenuto conto per un verso delle peculiarità delle comunità studiate – che la microstoria ci ha dimostrato essere corpi composti da gruppi portatori di interessi talvolta contrapposti – e dall’altro dello specifico sistema giuridico del “lungo medioevo”, che accanto ad una massa di diritti locali di varia origine conosceva una fonte di chiusura del sistema nel diritto comune. In generale, va detto che la storiografia italiana è giunta con un po’ di ritardo a trattare questi temi, rispetto ad altre esperienze europee. Tra queste spicca soprattutto il nord Europa ed è obbligatorio citare almeno il pluriennale impegno di Tine de Moor e del gruppo di ricercatori da lei coordinato in seno all’Università di Utrecht (denominato Institutions for collective actions) e le Cfr. E. OSTROM, A long polycentric journey, in Annual Review of Political science, n. 13 (2010), pp. 1-23. Riflettono su questo aspetto della sua ricerca E. BERGE, F. VAN LAERHOVEN, Governing the commons for two decades: a complex story, in International Journal of Commons, 5 (2011), pp. 160-187. 133 Più diffusamente vedi G. ALFANI, R. RAO, Introduzione, in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 7-14. 132 45 pubblicazioni dell’International Journal of the Commons, curato dall’associazione IASC promossa dalla stessa Ostrom134. Secondo de Moor l’emersione di istituzioni di corporate collective action è un fenomeno che accomuna la nascita delle gilde e delle corporazioni di mestiere alle istituzioni preposte alla gestione di risorse naturali. A tale risultato si sarebbe pervenuti per far fronte alla crescita demografica e allo sviluppo del mercato e le azioni collettive così organizzate, oltre a produrre una distribuzione sociale del rischio, comportavano minori costi di transazione per i singoli agenti e una maggiore uguaglianza nell’accesso alla risorsa. I beni comuni quindi sono da rapportare a specifici “corpi” e non a intere comunità e costituiscono con le corporazioni una delle modalità di azione collettiva diffuse nel medioevo. È una proposta di utilizzo del metodo istituzionale che non è stata esente da critiche ma risulta indubbiamente una delle più organiche finora avanzate135. Per quanto riguarda più dappresso la storiografia giuridica, posta la posizione di tutto riguardo che le diverse risorse collettive occupavano nelle economie locali, l’analisi delle forme di gestione dei beni comuni ha dimostrato la sua idoneità a porre in relazione la proprietà collettiva con vicende istituzionali, ambientali ed economiche grazie agli studi di Stefano Barbacetto e Alessandro Dani136. L’evoluzione dei diritti d’uso e delle forme di gestione dei beni, coniugando storia giuridica e diversi aspetti di storia sociale, sono state studiate su una prospettiva di lungo periodo, ponendo particolare cura nel sottolineare tanto le specificità giuridiche degli istituti e il loro modificarsi a seconda dei tempi e dei luoghi quanto il ruolo che ebbe la dottrina di diritto comune nel tradurre in linguaggio giuridico quelle pratiche sotto forma di pareri, trattati o decisioni giudiziarie. Sia l’Institutions for collective actions (www.collective-action.info) sia l’International Association for the Study of the Commons (www.iasc-commons.org) conducono un’attività di ricerca scientifica spiccatamente interdisciplinare. Di de Moore vedi almeno: M. DE MOOR, L. SHAW-TAYLOR, P. WARDE, The management of common land in north west Europe, c. 1500-1850, Turnhout, 2002; M. De Moor, The dilemma of the commoners. Understanding the use of common-pool resources in long-term perspective, Cambridge, 2015. In Italia va riconosciuto il merito di un analogo impegno non soltanto sul fronte della ricerca storica, ma anche su quello del dialogo con giuristi positivi e amministratori pubblici al Centro Studi sui demani civici dell’Università di Trento, diretto per anni da Pietro Nervi. Il Centro cura anche la pubblicazione dell’“Archivio Scialoja Bolla-Annali di studio sulla proprietà collettiva” (www.usicivici.unitn.it). 135 Perplessità sono state espresse circa le condizioni di esistenza per eventuali azioni collettive (un atteggiamento relativamente tollerante da parte dell’autorità, la sussistenza di relazioni sociali non strettamente limitate ai rapporti di parentela e il riconoscimento giuridico degli accordi) e il nesso causale tra queste e lo sviluppo di forme di gestione comune delle risorse collettive, dal momento che non si può affermare con certezza che società informate da valori e caratteristiche differenti da quelle studiate nei Paesi Bassi non siano ugualmente riuscite a predisporre istituzioni efficaci, cfr. D.R. CURTIS, Tine de Moor’s “Silent revolution”. Reconsidering her theoretical framework for explaining the emergence of institutions for the collective management of resources, in International Journal of Commons, 7 (2013), pp. 209-229. 136 Sono i già citati A. DANI, Usi civici, cit., e S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit.. Di Dani vedi anche Le risorse naturali come beni comuni, Arcidosso, 2013. 134 46 La scelta di adottare il modello ostromiano – con gli opportuni adattamenti –permette così di allargare il campo d’indagine. Focalizzarsi sullo studio delle risorse naturali collettive introduce infatti oggetti, quali i fiumi, i laghi, i bacini di pesca, precedentemente ignorati dagli studi classici sulle proprietà collettive. Prima di entrare nello studio dei casi specifici, è opportuno qualificare le risorse collettive alla luce della classificazione delle res operata dal diritto comune e modificata dalla prassi. Nei prossimi due paragrafi si farà quindi il punto su boschi, pascoli, prati, acque e fiumi da un punto di vista teorico. Infine si farà una panoramica sintetica delle fonti e delle magistrature genovesi coinvolte nella gestione dei beni comuni nella Liguria moderna. 2.a) Le risorse agro-silvo-pastorali dal Corpus iuris alla campagna ligure La suddivisione dei beni in diverse categorie che i giuristi medievali ereditarono dal Corpus iuris era il risultato di un processo evolutivo durato diversi secoli, che aveva portato ad un’articolazione via via più dettagliata, soprattutto per quanto concerne le cose in vario modo riferibili al “pubblico”. Riprendendo brevemente la classificazione delle res e considerando solo le res humani iuris, ricordiamo che le Istituzioni giustinianee (I. 2.1 pr.) contrapponevano le res privatae a ben quattro specie di cose diverse: le res publicae, le res communes omnium, le res universitatis e le res nullius. Dirimente è il significato che il termine publicus assunse durante i secoli. In età repubblicana entro la dimensione “pubblica” non trovavano spazio categorie quali “Stato” o “persona giuridica”, ma il populus Romanus nella sua concreta realtà di comunità organizzata e centro di imputazione di diritti e interessi. In tale contesto maturarono comunque due regimi differenziati di res publicae: le res in patrimonio (o in pecunia) populi e le res in publico usu. Si distinguevano così le cose patrimoniali, destinate a sostenere finanziariamente gli oneri dello Stato e delle città e quindi oggetto di una specifica attività negoziale non dissimile da quella privata, dalle cose destinate a soddisfare determinati bisogni e rimesse all’uso pubblico dei cives, pertanto non disponibili né appropriabili. Recentemente Andrea Di Porto ha riproposto all’attenzione degli studiosi la peculiarità del regime delle res in publico usu, mettendo in evidenza in particolare come dall’analisi degli interdetti volti a tutelarle emergano i poteri e le responsabilità riservate al cittadino in ordine alla difesa delle stesse137. Cfr. A. DI PORTO, Res in publico usu e beni comuni: il nodo della tutela, Torino, 2013, pp. 24-35. Vedi anche A. DANI, Il concetto giuridico di “beni comuni” tra passato e presente, in Historia et jus, 6 (2014), paper 7, in particolare pp. 3-9, 137 47 A ciò si aggiunga il fatto che in un primo tempo anche i beni delle colonie e dei municipia erano considerati pubblici. Solo successivamente la locuzione publicus fu riservata esclusivamente ai beni del populus Romanus, mentre i beni delle comunità territoriali furono compresi nella nuova categoria delle res universitatis. Il disordine terminologico è tuttavia testimoniato da molti passi del Corpus dove l’appellativo publicae viene ancora riferito ai beni delle città. In ogni caso, anche per questi vigeva un duplice regime normativo e di utilizzo, a seconda che si trattasse di res in patrimonio o in publico usu.138 Almeno fino al Principato quindi il panorama dei “beni pubblici” fu contrassegnato da una certa complessità di contenuti, abbastanza lontano dalle tinte monocromatiche con cui si è soliti tratteggiare la proprietà romanistica. Ma appunto a partire dall’età dei Severi le res in patrimonio populi si trasformarono in res in patrimonio fisci, cioè del fisco statale, mentre le cose veramente publicae rimasero quelle in usu populi139. Secondo parte della dottrina romanistica, i compilatori giustinianei avrebbero mantenuto tale impostazione della disciplina delle res publicae, considerandole appartenenti alle persone giuridiche pubbliche e non alla collettività di riferimento mentre le res in publico usu corrisponderebbero in sostanza ai nostri beni demaniali140. Una simile classificazione avrebbe incontrato solo maggiori incertezze a livello delle res universitatis, ma dal punto di vista del patrimonio statale essa sarebbe stata sufficientemente solida. È però ancora condivisibile l’opinione di Grosso, secondo il quale tra le due categorie di beni pubblici in realtà non ci sarebbe mai stata una separazione assoluta. Le ibridazioni e le sfumature, in questa materia all’ordine del giorno, sono da attribuirsi anche al rapporto tra Stato e res in publico usu, oscillante tra atteggiamenti più fortemente proprietari (in senso privatistico) e un ruolo di vigilanza sulla destinazione pubblica del bene che poneva in secondo piano il profilo dell’appartenenza141. disponibile al link http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/dani_6.pdf (consultato il 30 dicembre 2018). 138 G. GROSSO, Le cose: corso di diritto romano, Torino, 1941, pp. 181-193. Il termine «publicae» utilizzato per i beni municipali era bollato di abusività dagli stessi giuristi, che però non poterono fare altro che prendere atto dell’uso corrente. Marciano inoltre parlava anche di communia civitatum in D. 1.8.6.1. 139 Il cambio di denominazione ha forse un valore ulteriore rispetto alla pura evoluzione semantica, perché può intendersi come un riflesso dell’avvenuto distacco dello Stato come ente dalla comunità di uomini governata. Su questo punto va ricordato che il Vassalli sostenne che, dopo l’introduzione del concetto di res fiscales, il termine publicus avrebbe indicato soltanto il contenuto oggettivo delle cose, conferito loro dallo scopo e dal regime di utilizzo, e non dal soggetto titolare. Grosso non condivideva questa impostazione, notando che la limitazione assoluta della qualifica di publicae alle sole res in usu publico non si riscontrava nel diritto giustinianeo, G. GROSSO, Le cose, cit., pp. 118-129. 140 Così G. SCHERILLO, Lezioni di diritto romano. Le cose, parte I, Milano, 1945, p. 212. 141 G. GROSSO, Le cose, cit., pp. 118-129. 48 Per quanto riguarda più in particolare le risorse agro-pastorali, va detto che anche i romani conobbero forme di collettivismo agrario, tra cui la più nota è certamente il compascuo. Esso non presentava caratteristiche omogenee già nella Roma arcaica e subì un’evoluzione significativa tra la Repubblica e l’Impero, a seguito dell’innestarsi dell’ordinamento coloniale – colonie che erano titolari di uno specifico ager compascuus distinto da quello statale – su preesistenti forme di sfruttamento comune di boschi e specchi d’acqua, diffuse tra i pagi italici142. Esso coesistette per secoli assieme alla proprietà ex iure Quiritium e a quella pubblica-patrimoniale, dimodoché va ridimensionata la concezione che vorrebbe la proprietà romana divisa tra “pubblica” e “privata” senza spazio alcuno per dimensioni altre, sulla scorta degli studi di Capogrossi Colognesi 143. Secondo gli studi di Enrico Sereni, condotti proprio in Liguria, già prima della penetrazione romana esistevano terre aperte agli usi e all’occupazione dei singoli pagi e altre terre, propriamente compascuali, in cui il diritto di occupazione e recinzione a scopo di coltura era precluso. Queste forme di organizzazione della gestione della terra s’integrarono nei secoli successivi con l’ordinamento coloniale e sopravvissero tramutandosi in vicanalia e communalia nell’alto medioevo144. È significativo che la prova più importante di tale assetto sia la nota tavola di Polcevera, a testimonianza delle radici antichissime delle comunaglie liguri. Fondamentalmente plausibile appare dunque l’ipotesi secondo cui la sintesi tra costumi delle popolazioni rurali, che avevano vissuto la romanizzazione anche nelle forme del controllo territoriale, e le tradizioni germaniche riportò alla luce forme di utilizzo collettivo delle risorse già in vigore, più o meno “occultate”, prima del V secolo. L’indeterminatezza dei confini tra una categoria e l’altra fu senz’altro incrementata dalla concezione della proprietà pubblica in uso tra Longobardi e Franchi. Con riguardo ai primi, è noto il contrasto storiografico tra chi sosteneva la tesi della confusione tra il patrimonio regio e i beni pubblici e chi al contrario vi si opponeva. I beni che facevano capo al re infatti, prescindendo dal soggetto effettivamente incaricato di gestirli (curia di Pavia, duchi locali, gastaldi…), sottostavano Gli studi di Capogrossi Colognesi dedicati a questo specifico tema hanno ricostruito il carattere pluralistico delle forme di sfruttamento comunitario della terra in età romana. La primitiva agricoltura romana si basava su un dualismo tra coltivazioni individuali e terre gentilizie utilizzate dalla gens per il pascolo e l’estrazione di legna. L’ager compascuus si sarebbe affiancato alle terre gentilizie in quanto appezzamento sfruttato soltanto dai proprietari di fondi vicini che formavano un pagus. L’ager compascuus della colonia assunse invece caratteri parzialmente diversi, giacché era nelle facoltà dei coloni deliberarne l’alienazione Da esso si distingueva ancora l’ager publicus coloniale, costituito sempre da boschi e pascoli e sempre aperto allo sfruttamento collettivo, ma i beni publici, a differenza di quelli compascuali, erano inalienabili, cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà e signoria in Roma antica, vol. I, Roma, 1994, pp. 165-183. 143 Cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Cittadini e territorio: consolidamento e tradizione della civitas romana, Roma, 2000, pp. 185-227, 242-244, 263-284. 144 Cfr. E. SERENI, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma, 1955, pp. 492-509. 142 49 ad un regime di natura privatistica nel senso che divennero per la maggior parte res in commercio. Come tali, boschi, pascoli, corsi d’acqua furono spesso oggetto di atti di disposizione a favore di individui o collettività, via alienazione o concessione, per il finanziamento della curia regia145. La concezione patrimoniale del demanio regio si consolidò sotto l’impero carolingio e la categoria dei iura regalia fu la più evidente manifestazione di quella contaminazione tra elementi pubblicistici-giurisdizionali e privatistici-patrimoniali che avrebbe contraddistinto l’intera epoca feudale. Tra le regalie, oltre ai poteri costituenti la sovranità, si annoverarono anche i beni la cui fruizione era sottoposta all’esazione di un tributo, ma si dovette attendere la constitutio de regalibus del novembre 1158 per l’elencazione di una serie di res e iura regalia, considerata comunque non esaustiva146. Tra le risorse naturali di utilizzo collettivo, i pascoli furono quelli che suscitarono il maggior numero di controversie tra privati e/o tra comunità e sulla loro disciplina si modellò la regolazione anche dei boschi e dei prati147. Le terre di pascolo, oltre che private, potevano essere pubbliche, con il distinguo ben evidenziato dal Leiser sui diversi “livelli” ove poteva collocarsi la pubblicità del bene, locale o centrale e sul predominio dell’uso sul dominium148. Come ricorda il giurista spagnolo Fernandez De Otero, era proprio il ruolo centrale dell’uso collettivo che incideva sulla capacità di disposizione, essendo vietata (salvo autorizzazione sovrana) l’alienazione del bene149. La comunità Un deciso oppositore della teoria della confusione fu il Besta, E. BESTA, I diritti sulle cose, cit., pp. 180-182. Si può senz’altro condividere l’opinione di Cortese secondo il quale i secoli altomedievali rappresentarono un passo indietro dal punto di vista della tutela dell’interesse all’uso collettivo di certi beni poiché la qualità pubblica della proprietà fu riferita, fino al pieno medioevo, alla loro appartenenza al sovrano. Cfr. E. CORTESE, Demanio (dir. Intermedio), in Enciclopedia del diritto, vol. XII, 1964, pp. 73-74. 146 L’elenco è noto ma lo si riporta limitatamente alle voci di rilievo per il presente lavoro: «Regalia sunt armandiae, viae publicae, flumina navigabilia, et ex quibus fiunt navigabilia, portus, ripatica, vectigalia (quae vulgo dicuntur telonia) […] angariarum, parangariarum et plaustrorum, et navium praestationes, […] piscationum reditus et salinarum». Non essendo ricomprese nell’elenco, i giuristi considerarono i boschi e gli altri beni naturali come regalie minori, a disposizione dei sovrani e dei signori territoriali. Sixtinus, riprendendo Luca da Penne, scrisse in proposito che le regalie minori «potius ad fiscale ius et proventus, quam ad ipsam supremam authoritatem, dignitatem et postestatem spectant», R. SIXTINUS, Tractatus de regalibus, Francofurti, Typis Ecenolphi Emmelii, Impensis Petri Kopfii, 1617, lib. I, cap. II, n. 45. 147 La comunanza di regole era giustificata anche dal fatto che molti boschi erano usati anche come pascolo per il bestiame, che si nutriva della vegetazione del sotto bosco o delle ghiande, circostanza tenuta in considerazione anche dai giuristi specialisti della materia. In generale il pascolo era definito molto ampiamente come «locum, sive aream, in qua usus pascendi haberi possit» A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis et iure pascendi, Coloniae Allobrogum, apud fratres De Tournes, 1732, cap. I, nn. 1-26. 148 Autore di un importante trattato vertente sulle principali questioni di diritto agrario, il giurista seicentesco Christian Leiser scrive che accanto ai pascoli riservati alle greggi del Principe, communiter si dicono pubblici anche i pascoli comuni di città e villaggi «quia in usu publico et communi utilitate civium et vicinorum sunt constituta», C. G. LEISER, Ius georgicum sive tractatus de praediis, Lipsiae et Francofurti, apud haeredibus Friderici Lanckisii, typis Immanuelis Titii, 1698, lib. III, cap. X, n. 4. 149 Cfr. A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. XI, nn. 1-5. 145 50 era titolare dei soli poteri di usum et administratio, ma non del dominium, e ai giuristi non sfuggì che le forme di godimento potevano assumere caratteristiche molto diverse da luogo a luogo. La regolazione dell’accesso al pascolo era dunque rimessa alle comunità stesse che se ne servivano, dalla più grande civitas alla villa rurale, tramite statuti e delibere speciali. A queste fonti spettava anche fissare nel caso un limite al numero di capi che ciascun residente poteva portare al pascolo, per evitare un sovra-sfruttamento dello stesso150. I poteri regolativi non potevano però contraddire una precedente e antica consuetudine, magari costitutiva del diritto stesso. Come avvertiva il cardinale De Luca, in materia di pascoli: «a locorum legibus vel moribus normam seu praxim recipiunt, ideoque certam ac uniformem non de facili recipiunt regulam, vel iuris theoricam, sed pro facti qualitate diversas recipiunt decisiones»151. Nel regno napoletano il governo dei pascoli e delle altre risorse naturali era condiviso tra Universitates e baroni, che potevano riservarne una parte per sé o venderla, col consenso però del re e senza pregiudicare il commodum dei vassalli152. La scienza giuridica ammetteva dunque l’esistenza di un ampio panorama di situazioni in cui le risorse pastorali erano destinate al godimento di determinate collettività, tenute ad amministrarle responsabilmente, dando luogo ad una dimensione del “pubblico” ove i residenti/utenti erano parte integrante delle procedure di gestione del bene. Il quadro non va però idealizzato, perché gli stessi giuristi notarono che le concrete facoltà di accesso erano proporzionate all’estensione dei fondi privati posseduti da ciascun utente e che gli interessi tra maiores e pauperes in occasione delle privatizzazioni divergevano. Il bosco è notoriamente il serbatoio delle risorse più importanti delle società preindustriali (legname, frutti per il consumo umano e animale, fogliame). Oltre al già accennato problema del pascolo condotto nei boschi, lo ius lignandi degli uomini di una comunità per l’autoconsumo doveva spesso concorrere con altri diritti, tra i quali possiamo richiamare almeno quello alla raccolta del fogliame impiegato come fertilizzante, alla raccolta di frutti spontanei e al taglio del legname per attività artigianali. Il titolare dello ius forestalis, secondo la dizione di Leiser, poteva emanare leggi e statuti per scongiurare la devastazione dei boschi, conseguente ad un Cfr. A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. XII; C. G. LEISER, Ius georgicum, cit., lib. III, cap. X, nn. 1516. 151 G. B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, Venetiis, apud Paulum Balleonium, 1716, lib. IV, Summa sive compendium, § III, n. 85. 152 Rendella è testimone fedele della grande varietà di soluzioni in vigore nel regno di Napoli in materia di pascoli, P. RENDELLA, Tractatus de pascuis, defensis, forestis et aquis, Trani, Typis Laurentii Valerii, 1630, De Baronum pascuis, cap. IV. 150 51 disboscamento smoderato153. In misura forse maggiore rispetto ai pascoli, in età moderna gli Stati si attribuirono spesso la titolarità di tutte o di parte delle foreste di maggior pregio, con una restrizione più o meno marcata degli usi civici locali. Emergeva così in maniera esplicita la compresenza di due tipi diversi di sylvae publicae, atte a realizzare interessi pubblici diversi: il fabbisogno dello Stato da una parte, l’economia locale dall’altra. Si vedrà nel prossimo capitolo che un tentativo in questa direzione fu intrapreso anche dalla Repubblica di Genova. Col termine pratum si designavano infine i fondi riservati al taglio del fieno154. Nella pratica lo stesso fondo poteva essere terra di pascolo o prato a seconda dei tempi e delle stagioni, ma le conseguenze giuridiche di uno o dell’altro uso erano rilevanti. La difesa del prato per la crescita dell’erba imponeva un limite al pascolo di ordine temporale e spaziale – i campi riservati a prato venivano delimitati – ma i frequenti abusi giustificavano l’erezione di cinte e siepi per impedire che la voracità di bovini e ovini pregiudicasse il raccolto. L’inserimento tra i bona publico usui destinata non poteva però neppure in questo caso dirsi scontata: accanto a numerosi luoghi in cui la segatura del fieno era un uso civico degli abitanti – praticato anche sui fondi privati – si diedero casi di vendita del diritto al raccolto, pur mantenendo intatta la proprietà del fondo155. La circostanza per cui ciascuna utilità resa da un fondo era oggetto di distinti diritti consentiva infatti alle comunità di mettere sul mercato l’erba in virtù di un loro dominio su di essa (diverso dalla proprietà privata sui frutti), rendendo ulteriormente incerta la qualificazione giuridica dei diritti collettivi156. Se dalla schematizzazione si volge lo sguardo alla realtà agricola ligure, i confini tra una risorsa e l’altra si fanno meno netti, almeno da un punto di vista formale. Le fonti parlano infatti più genericamente di “comunaglie” per designare le risorse naturali collettive delle comunità soggette a Genova. Con questo termine le fonti designano una vasta gamma di situazioni, comprendendo prati, boschi, brughiere e zone non coltivate stabilmente e quindi aperte al pascolo o al taglio di erba o arbusti, zone rocciose, canneti fluviali. Alla genericità della denominazione si unisce però una notevole complessità delle pratiche di sfruttamento, da contestualizzare localmente. Non si dava quindi una nozione di proprietà dai contorni chiaramente definiti, ed anzi 153 Anche se Leiser scrive con riguardo all’ordinamento imperiale tedesco, le leggi forestali dovevano principalmente occuparsi di conciliare i diversi usi del bosco salvando l’interesse pubblico, stabilire i tempi e i modi del taglio, riservare determinate zone o certe qualità arboree dall’attività dei boscaioli, modulare l’immissione di bestiame per il pascolo, C. G. LEISER, Ius georgicum, cit., lib. III; cap. XI, nn. 43-64. 154 Il taglio del fieno avveniva almeno due volte lungo l’anno, solitamente ad inizio estate e ad inizio autunno. 155 È lo stesso Leiser a citare l’usanza seguita nella marca di Francoforte, dove i prati erano distribuiti ai cittadini per il loro sostentamento, C. G. LEISER, Ius georgicum, cit., lib. III, cap. IX, n. 45. 156 Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 47-49. 52 come si vedrà lo stesso rapporto tra fondi privati e beni collettivi non era statico, ma i membri stessi della comunità ne determinavano l’evoluzione a seconda delle esigenze contingenti. Fu Marc Bloch ad impostare i termini dell’analisi dei diritti di proprietà lungo il medioevo feudale come una gerarchia di situazioni reali autonome e prive del carattere di assolutezza, fondate sul possesso legittimato dalla tradizione157. Il contenuto eterogeneo dei beni naturali ricompresi nel termine comunaglie è testimoniato anche da alcuni capitoli dei più antichi statuti pervenutici di una comunità ligure: i capitula Coxii, della castellania di Cosio d’Arroscia. In diversi articoli si fa riferimento a prati su cui si segava l’erba ad agosto (De comunaliis segandis), a terre coltivabili (Qui laboraverit in aliqua comunalia) o boschi (De boscantibus seu laborantibus in communibus castellanie). Il lessico con cui si indicavano i beni di comune utilizzo comprendeva anche il termine bandita, che come si esporrà in seguito designava un fondo sottoposto agli usi collettivi mediante precise norme158. Accanto alle risorse collettive delle comunità si trovavano anche i boschi “camerali”, così chiamati perché su di essi il governo della Repubblica vantava – non senza opposizioni da parte delle popolazioni suddite – diritti di sfruttamento privilegiati, solitamente per l’estrazione di legname dagli alberi ad alto fusto per l’industria navale159. Anche in questo frangente la qualità demaniale del singolo bene risultava temperata da un concorso di usi civici e diritti di sfruttamento fondati su contratto che rende difficile ricavare un quadro a tinta unita. Alla luce delle categorie illustrate, è lecito domandarsi se le comunaglie fossero destinate all’uso collettivo da un vincolo di inalienabilità, volto a tutelarne la fruizione diffusa e in quale misura questo vincolo interessasse l’intero patrimonio agro-silvestre delle comunità liguri. In attesa di verificare questi problemi con l’esame di alcuni casi concreti di gestione di comunaglie, si può preliminarmente anticipare che anche in Liguria i confini tra uso collettivo e possesso individuale erano resi molto labili dalle pratiche di coltivazione temporanea di porzioni di superfici boschive, che spesso tra XVI e XVIII secolo costituirono il primo atto di usurpazione dei beni comuni. Spettava quindi alle comunità definire di volta in volta, per ciascuna risorsa, l’estensione dei diritti collettivi (tra tutti il pascolo e la raccolta di legname) rispetto ai diritti di proprietà privata esercitabili su un sito. Inoltre, fatti salvi i boschi della Camera fiscale, per le comunaglie la Cfr. M. BLOCH, Les caractères originaux de l’histoire rurale française, Paris, 1968 (ed orig. 1931), t. I, in particolare p. 155. Considerazioni già affrontate in ID., La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario (ed. orig. 1931), Milano, 2017. Sulle comunaglie in Liguria vedi O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit. 158 Cfr. R. G. GASTALDI, Cosio in Valle Arroscia. I “capitula castellanie Cuxii” emendati il 4 febbraio 1297, Genova, 1987, pp. 222-234. 159 Sui boschi camerali si rinvia al prossimo capitolo per un approfondimento. 157 53 pressione privatizzatrice non incontrava un argine chiaro nella qualificazione giuridica del bene – perché non si davano distinzioni formali tra le comunaglie – ma poteva arrestarsi solo di fronte ad un’efficace azione politica di difesa delle consuetudini o degli atti che formalizzavano il dominio collettivo dei residenti. 2.b) Le acque interne e le res communes omnium Sebbene sia uno dei potenziali campi di indagine per uno studio istituzionale sui beni comuni, quello delle acque interne è stato un tema molto sottovalutato dalla storiografia giuridica italiana. Le ragioni dell’accostamento ai boschi e ai pascoli sono molteplici e poggiano in primo luogo su una qualità di “pubblico” che privilegiava anche per le acque l’uso, invece della titolarità, a partire già dall’età romana. Inoltre l’acqua corrente trovò una menzione nel Corpus iuris come res communes omnium, autonoma quindi dai fiumi e dai laghi che erano generalmente res publicae, ma sulla cui efficacia occorre svolgere qualche precisazione. Unitamente a ciò, l’idoneità dell’acqua a soddisfare interessi collettivi e le sue caratteristiche di bene rivale ed esauribile, ma ad accesso generalmente aperto, ponevano alle comunità interessate problemi di disciplina dell’utilizzo del bene non troppo differenti da quelli riguardanti le risorse silvo-pastorali160. Scopo di questo paragrafo è dunque quello di inquadrare sinteticamente l’acqua e i fiumi dal punto di vista della classificazione dei beni. Il diritto romano distingueva i corsi d’acqua tra publici e privati e in ordine alle loro dimensioni. L’attribuzione della qualità di pubblico ad un flumen, secondo il noto passo ulpianeo del Digesto (D. 43.12.1 pr.), dipendeva esclusivamente dalla perennità del flusso idrico, da cui conseguiva la navigabilità del corso d’acqua161. La natura pubblica o privata del corso d’acqua Lo scarso interessamento degli storici del diritto nei confronti della disciplina delle risorse idriche ha lasciato ad altri studiosi (storici puri e storici dell’economia) il compito di portare alla luce le scelte politiche compiute lungo il medioevo e l’età moderna circa la loro amministrazione. Il ritorno in auge dei beni comuni ha poi stimolato molto di più i romanisti che gli storici del diritto medievale a considerare le acque come bene al centro di conflitti e risorse da governare tramite strumenti giuridici e tecnico-pratici. Va peraltro notato che se acque e risorse silvo-pastorali sono accomunabili per le caratteristiche sopra esposte, è pure vero che le prime non subirono quel processo di privatizzazione che toccò le terre civiche. Sul cammino svolto dalla dottrina per il riconoscimento dell’acqua (intesa come massa e non come flusso) come oggetto di diritti vedi G. CARAPEZZA FIGLIA, Oggettivazione e godimento delle risorse idriche. Contributo a una teoria dei beni comuni, Napoli, 2008, in particolare pp. 7-56. 161 Si riporta lo stralcio più rilevante: «Item fluminum quaedam sunt perennia, quaedam torrentia, perenne est, quod semper fluat aenaos, torrens ho xeimarrous: si tamen aliqua aestate exaruerit, quod alioquin perenne fluebat, non ideo minus perenne est. 3. Fluminum quaedam publica sunt, quaedam non. Publicum flumen esse Cassius definit, quod perenne sit: haec sententia Cassii, quam et Celsus probat, videtur esse probabilis». Fiorentini ha osservato che l’elaborazione dei criteri classificatori fu portata avanti dalla giurisprudenza non senza incertezze, dovute al fatto che l’uso volgare e quello colto dei grammatici del termine flumen non coincideva. Il nodo fu sciolto da Cassio Longino che 160 54 veniva in rilievo sostanzialmente ai fini dell’esperibilità dei rimedi interdittali previsti per i fiumi pubblici, che andavano ad iscriversi tra le res in usu publico, in quanto destinati al soddisfacimento di bisogni dei cittadini, soprattutto la navigazione e l’irrigazione. La giurisprudenza pretorile aveva elaborato col tempo una serie di interdetti a legittimazione popolare volti a preservare la regolarità e l’abbondanza della portata idrica dei fiumi: il de fluminibus (D. 43.12.1. pr.) proibitivo di qualsiasi facere o immittere pregiudizievole per il transito o la sosta delle imbarcazioni e il ne quid in flumine publico fiat (D.43.13.1 pr.) destinato a vietare ogni alterazione del corso d’acqua rispetto all’estate precedente e i corrispondenti rimedi restitutori162. Se tutti i fiumi perenni erano pubblici, non lo erano necessariamente i fiumi grandi. La grandezza delineava soltanto la differenza tra flumen e rivus, come chiaramente enuncia il Digesto (D. 43.12.1.1): «Flumen a rivo magnitudine discernendum est aut existimatione circumcolentium»163. A contrario, si deduce così che il flumen privatus consisteva in un corso d’acqua inidoneo per natura a soddisfare usi pubblici e la non applicabilità dei rimedi interdittali permetteva ai privati di effettuare opere e servirsi dell’acqua con maggiore libertà164. In tema di fiumi pubblici è fondamentale un frammento di Pomponio contenuto nel Digesto (D. 43.12.2): «Quominus ex publico flumine ducatur aqua, nihil impedit (nisi imperator aut senatus vetet), si modo ea aqua in usu publico non erit; sed si aut navigabile est aut ex eo aliud navigabile fit, non permittitur id facere» La cosiddetta lex Quominus sanciva in via generale la libertà di derivazione da un fiume pubblico, libertà che andava tuttavia subito incontro a due eccezioni. La prima assegnava la ricomprese tra i flumina i fiumi perenni e i torrenti, individuando nella continuità dell’alimentazione annuale il requisito connotante i fiumi pubblici. I torrenti dal discontinuo apporto idrico, soggetti a secche estive e talvolta a disastrose piene autunnali, rientravano quindi tra i flumina privata, ma senza automatismi. Si ricorda infine che il flumen era una res complessa, composta dall’acqua, dall’alveo e dalle ripae, ciascuna con una qualificazione giuridica ben precisa. 162 A. DI PORTO, Res in usu publico, cit., pp. 31-32. I mezzi di tutela in realtà non si arrestavano a queste ipotesi, giacché ad esempio era interdetta ogni opera realizzata sul letto e le rive del fiume che ne alterasse l’attitudine alla navigabilità, causando l’ostruzione anche parziale dell’alveo o la diminuzione della massa d’acqua defluente. In tutto gli interdetti a tutela dei fiumi pubblici erano sei, per un’analisi dettagliata cfr. M. FIORENTINI, Fiumi e mari nell’esperienza giuridica romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento sistematico, Milano, 2003, pp. 161230. Per quanto concerne lo status giuridico dell’alveo di un fiume pubblico, esso era chiaramente pubblico (Ist. 2.1.23; D. 41.1.7.5), e se il fiume mutava il proprio corso, la parte di terra occupata diventava pubblica a sua volta. 163 Poteva infatti trattarsi di piccoli torrenti naturali così come di canali artificiali di derivazione per usi potabili, irrigui o altri ancora. Dopo aver ritenuto che anche i rivi, qualora perenni, potessero considerarsi pubblici, la dottrina più recente ritiene invece che la giurisprudenza classica qualificasse come publica solo i flumina perennia, cioè quei corsi sufficientemente ricchi di acque per tutto l’anno. Tuttavia il richiamo alla grandezza e all’existimatio circumcolentium rendeva assai tenue il confine tra flumen e rivus, M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit., pp. 99-107. 164 Cfr. E. COSTA, Le acque nel diritto romano, Bologna, 1919; G. GROSSO, Le cose, cit., pp. 131-151; M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit. 55 prevalenza della destinazione pubblica dell’acqua corrente rispetto agli usi privati. Siffatto limite operava per i fiumi non navigabili e ricollegava il divieto al peggioramento delle condizioni del fiume. In altre parole se la derivazione avesse causato un eccessivo impoverimento della massa d’acqua, essa non era ammissibile. Le pubbliche autorità potevano invece vietare la presa a loro discrezione. La seconda eccezione tutelava i fiumi navigabili e gli affluenti che rendevano navigabile il fiume principale. Senz’altro libera era quindi la derivazione dai fiumi pubblici non navigabili e non sottoposti a particolari usi pubblici – o entro i limiti del rispetto del pubblico utilizzo165. Categoria affine a quella delle res publicae, ma indubbiamente più problematica, è quella delle res communes omnium, su cui la storiografia romanistica ha a lungo dibattuto. Delle cose comuni a tutti tratta un frammento del giurista Marciano, inserito nel Digesto (D. 1.8.2.1) e ripreso senza modifiche nel capitolo De rerum divisione delle Istituzioni (I. 2.1.1): «Et quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aër et aqua profluens et mare et per hoc litora maris. Nemo igitur ad litus maris accedere prohibetur, dum tamen villis et monumentis et aedificiis abstineat, quia non sunt iuris gentium, sicut et mare» Nell’elenco marcianeo figuravano il mare e il lido il cui regime di utilizzo poteva essere definito abbastanza agevolmente in quanto res publicae, accanto ad altre, come l’aria e l’acqua corrente, per le quali era dubbia la stessa sussumibilità nel novero delle cose oggetto di diritti. Per tutte il fondamento era comunque da rinvenire in una qualità negativa, su cui si basava la loro specialità tanto rispetto alle res publicae quanto alle res nullius: il non poter impedire a nessuno l’uso di tali risorse. Non appartenendo a nessuno, le cose comuni erano destinate all’uso e al godimento di tutti, cittadini e non, con il limite dell’incommodum ceterorum166. La dottrina ha dibattuto sulla riferibilità a Pomponio dell’intero passo, poiché alcuni autori hanno sostenuto nel tempo che parti più o meno ampie di D. 43.12.2 fossero interpolazioni giustinianee. Per citare solo due esempi, appoggiandosi agli autorevoli scritti del Bonfante, del Vassalli e dell’Albertario, l’Astuti ha sostenuto che solo la libera derivabilità era da attribuire a Pomponio, mentre le limitazioni a tutela dell’uso pubblico dei fiumi e della navigazione erano successive e in evidente contraddizione col principio pomponiano. I compilatori avrebbero così confezionato un frammento che dava conto dell’evoluzione della sensibilità giuridica in materia, cfr. G. ASTUTI, Acque (storia), in Enciclopedia del diritto, I, 1958, pp. 346-387. Meno persuaso Fiorentini, che ritiene genuino e coerente tutto il frammento, M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit., pp. 230-242, in particolare note 123 e 124, pp. 230-231. 166 È ormai opinione accettata che il concetto di res communis omnium, per quanto ignorato da Gaio, fosse conosciuto anche da altri giuristi oltre a Marciano. Muovendo da considerazioni di ordine filosofico circa un superiore senso di giustizia, in virtù del quale fuoco e acqua non potevano essere negati a nessuno (per usare un’espressione del De officiis ciceroniano), Marciano elaborò una categoria di beni pubblici più raffinata, e per certi versi innovativa, rispetto alle classificazioni precedenti. Purtroppo la sua proposta, sorta ormai al tramonto della scienza giuridica romana, rimase allo stato embrionale e i giuristi successivi scelsero di non farla progredire in qualcosa di più sistematico. Sulle 165 56 Il confronto tra lex Quominus e lo statuto giuridico delle res communes omnium pone due tipi di problemi diversi, benché collegati. Il primo consiste nel definire i poteri di regolazione e controllo sull’uso dei fiumi in capo alla pubblica autorità. Il secondo tocca la stessa sopravvivenza di un regime di libero e universale accesso all’acqua anche lungo il medioevo, almeno dal punto di vista teorico. Sui poteri di amministrazione delle risorse idriche sono note le profonde differenze tra l’esperienza romana e la realtà medievale. La romanistica più autorevole ha a lungo ventilato l’ipotesi dell’esistenza di un regime di concessioni, in virtù del quale il pretore, o altra figura che ne facesse le veci, avrebbe svolto preventivamente un giudizio sulla compatibilità delle nuove derivazioni con l’uso pubblico e con gli usi privati concorrenti, secondo uno schema protoamministrativo. L’ipotesi però, già messa in dubbio da Branca, è oggi ritenuta poco fondata poiché da un esame combinato di diverse fonti risulta invece che fermo il principio della libertà di derivare, il pretore si attivava a valle della realizzazione di eventuali opere dannose per il cursus e la portata fluviale – salvi i casi di denuncia di nuova opera – e solo su impulso di altri soggetti portatori di interessi privati inconciliabili167. Definito l’uso pubblico come la concreta facoltà di impiego del fiume da parte di tutti i membri della collettività, il giudizio di compatibilità tra questo e gli usi privati poteva essere instaurato soltanto da un privato, che agiva per tutelare un proprio diritto soggettivo avvertito come minacciato da un terzo168. Si è discusso circa l’esistenza di una signoria dei reges longobardi sulle acque maggiori del nord Italia, importanti vie di comunicazione alle quali erano dedicati anche alcuni capitoli dell’Edictum. È altamente probabile che accanto a fiumi chiaramente appartenenti al patrimonio pubblico, ve ne fossero altri lasciati all’uso delle popolazioni locali o concessi a specifici destinatari, res communes omnium vedi A. DELL’ORO, Le “res communes omnium” dell’elenco di Marciano e il problema del loro fondamento giuridico, in «Studi Urbinati», n.s., XXXI (1962-63), pp. 239-290; M. FIORENTINI, L’acqua da bene economico a “res communis omnium” a bene collettivo, in Analisi giuridica dell’Economia, 1 (2010), pp. 39-78; nonché l’approfondimento storiografico condotto da J. D. TERRAZAS PONCE, El concepto de “res” en los juristas romanos, II: Las “res communes omnium”, in «Revista de estudios histórico-jurídicos», XXXIV, 2012, pp. 127-163. 167 Le fonti contengono infatti le espressioni «non permittitur id facere» di D. 43.12.2 e «non oportere praetorem concedere ductionem» (D. 39.3.10.2). Tali locuzioni alludono agli interdetti pretori diretti a interrompere le attività pregiudizievoli, a seguito di contestazioni dei privati circa la liceità delle derivazioni dai fiumi pubblici compiute da altri. Convinto assertore dell’esistenza di un regime di concessioni fu ad esempio E. COSTA, Le acque, cit., pp. 13-16. Su posizioni contrarie G. BRANCA, Le cose extra patrimonium humani iuris, Bologna, 1946, pp. 198-200; M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit., p. 241. 168 Sull’utlitas publica Fiorentini ha invitato alla cautela, evitando di sovrapporla alla nozione di publicus usus. È soprattutto il diverso configurarsi del rapporto tra utilitates pubblica e privata a renderle distinte, poiché l’utilitas publica non si arrestava all’uso delle cose pubbliche, ma poteva costituire un parametro di valutazione circa l’utilizzo di cose private come, ad esempio, le cloache, A. DI PORTO, La tutela della “salubritas” fra editto e giurisprudenza. Il ruolo di Labeone, Milano, 1990; M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit., pp. 255-262. 57 con il trasferimento di diritti di pesca, di navigazione o di derivazione169. La concezione patrimoniale del demanio regio si consolidò sotto l’impero carolingio e la categoria dei iura regalia fu la più evidente manifestazione di quella contaminazione tra elementi pubblicistici-giurisdizionali e privatistici-patrimoniali che avrebbe contraddistinto l’intera epoca feudale. La concessione di privilegi sulle acque, come sostenuto da Vaccari, costituiva: «una specie di dominio sulla navigazione fluviale, sì da poterla governare con regole proprie e gravare, anche arbitrariamente, di tributi», in teoria spettanti al proprietario concedente170. Ben diverso il quadro dopo il XII secolo. I fiumi navigabili e gli affluenti ex quibus fiunt navigabilia, i porti, le imposte sull’attracco alle rive dei fiumi, sulle peschiere e saline e sulle navium praestationes furono considerati beni regali e oggetto della contesa tra impero e comuni171. La pace di Costanza riconobbe alle città il diritto di poter esercitare sulle acque tutte quelle «consuetudines quas ab antiquo exercuistis in aquis», cioè quei diritti già concessi dagli imperatori o, più facilmente, usurpati dai Comuni a scapito dei precedenti titolari172. La divisione delle regalie tra numerose entità politiche portò inevitabilmente alla formazione di diritti particolari più o meno raffinati ed innovativi rispetto all’impalcatura romanistica, che in generale La disciplina scritta si esauriva nei capitoli 265-268 dell’Editto di Rotari sulle responsabilità del portonarius, custode dei porti e sorvegliante del traffico fluviale in caso di favoreggiamento di fuggitivi, Edicta Regum Langobardorum, in Historiae Patriae Monumenta, Augustae Taurinorum, 1855, coll. 61-62. Sul punto va rilevata la non coincidenza di opinioni tra G. ASTUTI, Acque (storia), cit., pp. 370-372 ed E. CORTESE, Demanio (dir. Intermedio), cit., pp. 75-76. Ad avviso del primo l’esistenza dei portonarii dimostrerebbe la costituzione di una signoria del re sui corsi d’acqua più importanti già agli esordi del dominio longobardo nell’alta Italia. Viceversa simile prova non è ritenuta sufficiente dal Cortese. Si può comunque concordare con l’Astuti nell’affermare che un regime di piena patrimonialità, in grado di comprimere quasi del tutto l’uso libero dei fiumi, non si sia mai del tutto affermato tra i secoli VI e VIII. 170 Cfr. P. VACCARI, La regalia delle acque ed il diritto di navigazione sui fiumi, Pavia, 1907, pp. 47-79; A. SOLMI, Le diete imperiali di Roncaglia. Il diritto di regalia sui fiumi e le accessioni fluviali, in Archivio storico delle Province Parmensi, 1910. 171 La De regaliis ricalcò per i fiumi il frammento della lex Quominus di Pomponio, ma con un notevole slittamento. Infatti la ratio di D. 43.12.2 consisteva semplicemente nel subordinare il diritto di derivazione alla conservazione della navigabilità dei fiumi. La de regalibus elevò invece la navigabilità ad elemento ordinatore della loro pubblicità. La dottrina successiva ritenne l’elenco non tassativo, al punto che poté enunciare il generale principio per cui «iura fluminum et aquarum decurrentium regalia sunt». I giuristi compresero così tra le regalie anche i fiumi non navigabili, i torrenti, i laghi e il lido del mare arricchendo quindi il novero delle cose pubbliche. Altri, pur aderendo di massima alla classificazione romanistica, privilegiarono talvolta il diritto locale distinguendo tra i fiumi regali (perché navigabili) e fiumi pubblici (perenni ma non navigabili). Solo per i primi e non per gli altri era necessaria la licenza del sovrano per l’estrazione dell’acqua, cfr. P. VACCARI, La regalia delle acque, cit.; L. MOSCATI, In materia di acque. Tra diritto comune e codificazione albertina, Roma, 1993, pp. 56-57. Sul contesto storico al momento dell’emanazione della De regaliis U. NICOLINI, Diritto romano e diritti particolari in Italia nell’età comunale, in Rivista di storia del diritto italiano, LIX, 1986, pp. 13-170. 172 Come riconobbe Bartolomeo Cipolla trattando del diritto imperiale sui fiumi pubblici: «Sed hodie civitates Lombardiae, cum sibi de consuetudine vel ex privilegio pacis Constantiae acquisiverint merum imperium et regalia», privilegio esteso anche a chi non aveva stipulato direttamente la pace a Costanza. Il giurista veronese notava peraltro che anche le «civitates extra Italiam» detentrici delle regalie sostenevano di disporre della proprietà dei fiumi siti nel loro territorio, B. CIPOLLA, Tractatus de servitutibus tam urbanorum quam rusticorum praediorum, Antuerpiae, Apud Hieronymum Verdussen, 1682, II, cap. 31, n. 4. 169 58 proseguì a regolare la maggior parte delle fattispecie in materia. Il tratto però sicuramente più significativo fu rappresentato dall’affermarsi di una politica attiva di governo delle acque. I comuni iniziarono infatti a gestire le risorse fluviali predisponendo regole di utilizzo dell’acqua spesso molto dettagliate, creando un sistema di autorizzazioni per la costruzione di impianti idraulici e per le derivazioni più importanti e finanziando opere pubbliche di arginatura dei fiumi e di modifica del loro corso. Il ruolo del potere pubblico fu dunque in generale più incisivo, ma con nette differenziazioni su scala territoriale. Come si vedrà alcune città, e poi Stati regionali, soprattutto del Nord padano adottarono politiche in campo idrico funzionali allo sviluppo dell’agricoltura. La qualità della normativa e le dimensioni dell’apparato amministrativo furono quindi maggiori rispetto ad altre realtà, dove il contesto idrografico e il tessuto socio-economico non giustificavano scelte equivalenti173. Se sul frangente amministrativo gli interventi riguardarono i fiumi complessivamente intesi, i giuristi non poterono eludere la questione del rapporto tra una cosa pubblica (il fiume) e una sua parte costitutiva (l’aqua profluens) sottoposta ad un diverso inquadramento giuridico. La nota posizione di Piacentino, che a proposito dello status del lido e del mare si schierò per l’equivalenza tra le due categorie («Omnia communia sunt publica»), fu contestata da Azzone alla luce della disciplina dell’occupazione. Per le cose comuni infatti l’occupante poteva acquistare la proprietà della cosa (o parte di essa) occupata, mentre il medesimo effetto era escluso per le cose pubbliche. Furono Accursio e poi Bartolo a segnare la definitiva vittoria della tesi di Piacentino, tramite l’affiancamento della iurisdictio al binomio proprietas-usus: «Communia sunt quo ad usum et dominium: ut hic, sed quo ad protectionem sunt Populi Romani. Additio: pro declaratione huius glossae dic quod mare est commune quo ad usum, sed proprietas est nullius: sicut aer est communis usu, proprietas tamen est nullius secondum Ia. De Ra. sed iurisdictio est Caesaris: et sic ista tria sunt diversa f. proprietas, usus et iurisdictio: et protectio secundum Bal.»174 Per l’area padana vedi ad esempio M. CAMPOPIANO, Rural communities, land clearance and water management in the Po Valley in the central and late Middle ages, in Journal of Medieval history, 39/4 (2013), pp. 377-393. 174 Il dibattito dei secoli successivi non arrecò scossoni significativi a questo edificio teorico: la iurisdictio/protectio muoveva sul piano pubblicistico dal soggetto legittimamente titolare dei poteri di governo sulla cosa, mentre l’usus e il dominium rilevavano sul piano privatistico e potevano far capo a soggetti diversi, cfr. Digestum vetus, digestorum seu Pandectarum iuris enucleati, Lugduni, apud Hugonem a Porta, 1557, p. 34. Vedi anche P. RENDELLA, Tractatus de pascuis, cit., De Baronum pascuis, cap. VI. 173 59 Nello specifico, l’aqua profluens fu considerata da molti solo nominalmente distinta dal fiume, ma di fatto assoggettata al medesimo regime. Per Baldo ad esempio l’acqua era appropriabile per occupazione entro il duplice limite del rispetto degli interessi pubblici prevalenti e dell’iniuria alterius175. La contaminazione con la disciplina della lex Quominus è evidente, poiché il passo marcianeo sulle res communes non conteneva alcun riferimento all’interesse pubblico alla navigazione. Gambiglioni ricordò invece un’antica differenziazione tra gli usi esercitati da tutti gli esseri viventi (come il bere) e altri confacenti solo agli uomini (pesca, navigazione). L’idoneità di un bene a soddisfare interessi universali lo rendeva comune, come una strada di Bologna che poteva essere percorsa anche da unus de Anglia176. Chi si pose in parziale controtendenza fu Giovan Francesco Sannazari della Ripa che spinse più in là la distinctio individuando usi diversi per il fiume e per l’acqua: «Sed dicet aliquis licet usus aque sit omnibus animalibus communis ad bibendum non tamen ad molendum et irrigandum; ergo quantum ad molendum et irrigandum non est et vera haec ratio. Quod usus aque communis est. Respondeo satis esse quod usus sit in genere communis. Et si institeris ergo usus fluminis erit etiam communis. Respondeo alius est usus fluminis, alius est usus aque. Usus fluminis est navigare, usus aque inde alimenta prestare. Et ideo aqua et mare quia sunt unus elementum dicuntur communia: flumina vero dicuntur publica»177. L’inciso ripropone come elemento di discrimine tra beni di uso comune e beni di uso pubblico l’idoneità a giovare a tutti gli esseri viventi o solo all’uomo. L’originalità del contributo di Sannazari sta nel modo di considerare il diritto di impossessarsi dell’acqua, derivata tramite canali artificiali: non più dal punto di vista economico, bensì per i bisogni primari che tale diritto mira a soddisfare. L’autore giustificò così la natura comune dell’acqua corrente connettendo funzionalmente il suo utilizzo per scopi irrigui o molitori all’«alimenta praestare», poiché alimentarsi era una necessità di tutte le creature. Una ridefinizione di questo tipo comportava in linea teorica la sottrazione dell’acqua stessa alle restrizioni in vigore per le cose pubbliche – prima fra tutte l’esperibilità «Aqua fluminis concedit occupanti. Ergo potest amoveri de loco suo, et occupari, nisi per id eius fluminis, vel alterius in quo illud flumen ingreditur deterior navigatio fieret. […] Aut flumen est publicum in quo fit sicut est commune flumen, quod perpetuo currit. Tunc ei qui habet molendinum licite alius non potest impediendo aquam locum auferre, etiam si faciat ut sibi prosit», BALDO DEGLI UBALDI, In primam Digesti veteris partem commentaria, Augustae Taurinorum, apud heredes Nicoli Bevilaquae, 1576, De divisione rerum, § Item lapilli, nn. 1, 6. 176 Da notare che Gambiglioni interpreta publicus alla luce di categorie universalistiche («Ista sunt toti populi de mundo») in contrapposizione ai beni delle civitates, A. GAMBIGLIONI, Commentaria seu Lectura super quatuor Instititutionum Iustinianarum libris, Lugduni, 1540, § Littorum, cc. 58 v.-59 r. 177 G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo veteri et codice, [Lione], Vincent de Portonariis, 1541, tit. De fluminibus, cc. 71 v.-79 v. In particolare n. 6. 175 60 dell’interdetto de fluminibus – ma anche il concreto rischio di esporre la risorsa ad un’appropriazione incontrollata e potenzialmente dannosa178. Deboli dal punto di vista ordinante, le res communes omnium si limitarono ad enunciare il generico principio di esclusione dalla proprietà dell’acqua corrente, il cui uso per alcuni bisogni fondamentali era dovuto a tutti179. Abbandonato il sistema di azioni di tutela, i comuni medievali, interpreti principali degli interessi generali delle popolazioni, subordinarono l’impiego dell’acqua ad un controllo pubblico in grado di effettuare ex ante il bilanciamento tra interessi e contenere l’utilizzo entro le soglie di sostenibilità180. Posto che anche per le acque, esattamente come per le altre risorse collettive, la consuetudine e l’uso inveterato giocavano un ruolo determinante nel costituire o rafforzare i diritti degli appropriatori, resta da chiedersi se esistettero nella prassi casi di regolazione “dal basso” degli usi idrici. Per quanto riguarda l’antichità, si possono citare a tal proposito la lex rivi Hiberiensis, nota anche come Bronzo di Agòn, un’iscrizione di circa 1200 parole contenente una minuziosa disciplina dell’utilizzo irriguo dell’acqua del rivus derivato dal fiume Ebro da parte di alcuni pagi spagnoli181. Recenti studi condotti da Marguerite Ronin hanno poi dimostrato l’esistenza di diverse comunità di irrigatori organizzate tra Spagna e colonie africane, regioni aride ove l’acqua era realmente un bene scarso182. La gestione comune dell’acqua si presentò allora come una soluzione efficace L’esegesi del Sannazari individuava la ratio dell’interdetto nella tutela della navigabilità dei fiumi, unico publicus usus che potesse dirsi propriamente tale e soggetto ai limiti dell’interdetto. L’autore criticava un altro autorevole commentatore della lex Quominus, Giason del Maino, per aver erroneamente affermato che lo scopo del divieto di derivazione dai fiumi navigabili fosse da identificarsi nella tutela delle regalie imperiali: in realtà all’impero spettava solo il compito di assicurare la percorribilità dei fiumi e delle strade, senz’altra ingerenza su differenti usi compatibili, cfr. G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo, cit., nn. 13-15. 179 Al punto che Antonio Gobbi, altro importante trattatista del diritto delle acque, a proposito dei diversi generi di acque contemplati dal diritto, non citò neppure la categoria delle res communes. A. GOBBI, Tractatus varii in quibus de universa aquarum materia, L. Bene a Zenone, Cod. de quadr. Praescriptione explanatio, de permissa feudi, ac emphyteusis alienatione, ac de monetis, Genevae, apud Fratres de Tournes, 1699, q. I. Pecchi divise le acque tra pubbliche e private, a seconda del fiume di appartenenza. Pur riconoscendo che l’uso dell’acqua era comune a tutti, la derivazione del fiume pubblico dimostrava il dominium sull’acqua ed era pertanto autorizzabile solo dall’autorità pubblica, F. M. PECCHI, Tractatu de aquaeductu, Ticini Regii, Ex Officina haeredum Caroli Francisci Magrii, vol. I, q. I, nn. 1; q. II, n. 15. 180 Cfr. M. A. BENEDETTO, Acque (diritto intermedio), in Novissimo Digesto Italiano, I, 1957, pp. 196-205, in particolare pp. 199-200. 181 L’assemblea dei pagani era l’organo deputato a decidere sulle regole di irrigazione. Ciascun membro godeva di un diritto di voto ponderato in relazione alla quantità d’acqua spettante ad ognuno, proporzionale all’estensione dei fondi posseduti. Non vigeva quindi il principio “una testa un voto”. Il testo imponeva poi regolari opere di pulitura dei canali e di controllo sullo stato dei medesimi, disciplinava modo di elezione e compiti dei curatores e dei magistri pagi e lo svolgimento delle assemblee degli utenti nei momenti cruciali della stagione agricola, cfr. F. BELTRÁN LLORIS, An irrigation Decree from Roman Spain: “The Lex Rivi Hiberiensis”, in «The Journal of Roman Studies», 96 (2006), pp. 147197. 182 Da fonti provenienti da diverse regioni dell’impero, l’autrice ha isolato l’operato delle “communautés d’irrigation”, così definite per il fatto di condividere una risorsa idrica detenuta dalle stesse comunità, e ha riscontrato che la creazione di istituzioni di gestione dell’acqua ha contribuito a plasmare l’organizzazione stessa delle comunità, con i 178 61 perché fondata su un’equa divisione del godimento del bene. Inoltre le norme giuridiche prodotte localmente e il controllo giudiziario assicuravano la protezione dell’interesse generale e scongiuravano eventuali distorsioni condotte dai soggetti più forti a loro vantaggio183. L’aumento di statuti e regolamenti in materia idrica, figlio dell’interventismo pubblico dell’età medievale e moderna, non fece venir meno il ruolo delle consuetudini e degli accordi tra utenti per la gestione condivisa dei fiumi e l’intangibilità di questi spazi di autonomia fu riconosciuta anche dalla dottrina, con argomentazioni assimilabili a quelle svolte in materia di pastorizia184. Da quanto sopra esposto risulta chiaro che i fiumi, benché compresi tra i beni pubblici, conservarono tratti peculiari, la cui predisposizione a soddisfare bisogni essenziali per le comunità locali indusse spesso le comunità stesse a farsi promotrici della disciplina giuridica di sfruttamento delle risorse idriche, compatibilmente con gli spazi di autonomia lasciati loro dai governi statali. È dunque difficile semplificare un quadro giuridico accentuatamente particolaristico. Si esaminerà dunque più avanti la situazione del Genovesato rispetto agli altri Stati. 3.a) Il modello di Ostrom applicato alla Repubblica di Genova: fonti e istituzioni locali Trasportare un modello di analisi dalla scienza economica alla storia senza adattamenti non è ovviamente possibile senza snaturare il senso stesso della ricerca. Tuttavia in questo caso l’operazione è agevolata dalle numerose affinità che rendono i “principi progettuali” individuati da Elinor Ostrom utilizzabili anche in campo storico-giuridico, soprattutto per l’alto valore attribuito ai vari momenti della vita di una norma (origine, approvazione, esecuzione) entro un gruppo di dovuti adeguamenti legati al contesto geografico e politico-sociale di riferimento, cfr. M. RONIN, La gestion commune de l’eau dans le droit romain. L’exemple de l’Afrique et de l’Hispanie (Ier siècle avant – Ve siècle après J.-C.), Thèse en cotutelle, doctorat en histoire, Université Laval Québec – Université de Nantes, 2015, in particolare pp. 87-132. 183 Nello studio di Marguerite Ronin è centrale l’elemento del consenso politico-sociale prestato dagli utenti e dalle comunità locali alle norme elaborate per edificare il sistema di gestione comune dell’acqua. Come afferma l’autrice «Le système de contrainte qu’impose tout système juridique ne peut être accepté que si les membres des communautés concernées voient un avantage à confier à la collectivité la protection de leurs intérêts. Cette assertion peut s’appliquer à tout corps social. […] Il faut souligner que le consensus est avant toute chose le fruit d’un équilibre entre l’intérêt de chacun et l’intérêt de la communauté». L’equilibrio era ovviamente soggetto a notevoli tensioni e conflitti, che comportavano una periodica riaffermazione/ridefinizione dei diritti individuali rispetto all’interesse collettivo mediato dall’autorità, M. Ronin, La gestione commune, cit., pp. 309-314. 184 Vedi infra, capitolo V, sez. 1.b. Sulla consapevolezza dei giuristi circa il ruolo di patti e consuetudini locali in materia pastorale cfr. V. PIERGIOVANNI, De iure ovium: alle origini della trattatistica giuridica sulla pastorizia, in A. MATTONE, P. F. SIMBULA (a cura di), La pastorizia mediterranea: storia e diritto (secoli XI-XX), Roma, 2011, pp. 32-40. 62 soggetti che si autodeterminano. Inoltre i già menzionati studi di de Moor hanno tratto da quel modello chiavi di lettura utili per l’indagine sulle forme storiche di proprietà collettive185. Partiamo quindi dai sette principi la cui sussistenza pare imprescindibile, a giudizio di Ostrom, perché un gruppo di utenti possa gestire efficacemente una risorsa collettiva. Essi sono: 1) chiara definizione dei confini tra aventi e non aventi diritto all’uso della risorsa; 2) congruenza tra regole di appropriazione/fornitura che limitano tempi, luoghi e quantità del prelievo delle risorse e le condizioni locali; 3) metodi di decisione collettiva per la definizione delle regole operative; 4) controllo svolto da sorveglianti che rispondono agli utenti o sono utenti essi stessi; 5) previsione di sanzioni progressive a seconda della gravità dell’infrazione e del contesto, inflitte da appositi incaricati o altri appropriatori; 6) meccanismi di risoluzione dei conflitti tra utenti o tra utenti e incaricati in sede locale e con bassi costi; 7) riconoscimento da parte delle autorità governative del diritto di auto-organizzazione. 8) inserimento delle istituzioni di gestione in organizzazioni articolate su più livelli186. Già la semplice elencazione richiama diversi temi importanti in tema di fonti del diritto e storia istituzionale, ma lo scopo di questo paragrafo è calare questi principi nella realtà ligure d’età moderna. Come ben ha scritto Dani, lo storico del diritto può chiarire: «le peculiarità dei contesti giuridici e istituzionali in cui [i beni comuni] si inserivano, nella considerazione che il concetto di “beni comuni” acquista caratteri e valenze diverse a seconda dello scenario complessivo in cui si colloca»187. È quindi necessario premettere all’esame ravvicinato di alcune fattispecie di amministrazione di risorse collettive la presentazione del contesto politico-istituzionale di riferimento. Alla luce di quanto esposto nel capitolo precedente sulle diverse “opzioni di scala” (micro o macro), si è scelto di mettere al centro le risorse stesse, come crocevia dell’azione di soggetti locali e statali, ciascuno mosso da propri obiettivi politici e munito di poteri specifici. Partiamo quindi dalle comunità locali, cui si riferisce buona parte dei principi sopra elencati, e facciamo brevemente il punto su tre aspetti: fonti del diritto, delimitazione dei confini spaziali e 185 La silenziosa rivoluzione dei commons, come descritta da de Moor, si basò su istituzioni create localmente, autogovernate dagli stessi utenti secondo procedure relativamente democratiche, tendenzialmente esclusive e volte a scoraggiare i free riders, cfr. M. DE MOOR, The dilemma of the commoners, cit., pp. 18-60. 186 Cfr. E. OSTROM, Governare I beni collettivi, cit., pp. 132-150. 187 Cfr. A. DANI, La lettura giurisprudenziale dei “beni comuni” in una decisione della Rota fiorentina del 1742, in P. FERRETTI, M. FIORENTINI, D. ROSSI (a cura di), Il governo del territorio nell’esperienza storico-giuridica, Trieste, 2017, pp. 15-36, in particolare p. 17. 63 restrizioni soggettive all’accesso ai beni, legami giuridici con Genova come fondamento dell’autogoverno. L’esistenza di un bene posseduto in comune richiede necessariamente l’emanazione di regole per la sua disciplina, capaci di assicurarne la durata sul lungo periodo. Il nesso risorsa comune – codice normativo porta con sé altresì l’esistenza di uno spazio di autodeterminazione della comunità considerata, che si attiva spontaneamente per la produzione di un diritto specifico. Con riguardo all’età intermedia questo diritto non è fatto solo di documenti scritti, ma vede sugli scudi le consuetudini, qui da intendersi soprattutto in senso soggettivo, come pretesa di gruppi o collettività di godere di un diritto acquisito da tempo e fondato sulla tradizione188. Il ruolo delle consuetudini, delle pratiche lungamente ripetute di utilizzo del suolo o delle fonti d’acqua è particolarmente importante in materia di usi civici, poiché per le comunità rurali la conservazione del possesso su boschi o fiumi rappresentava, oltre ad una esigenza economica, anche un fattore di identità. La stessa dottrina giuridica riconosceva l’importanza di questa fonte nell’ordinare l’utilizzo dei beni collettivi189. Tuttavia non è possibile avallare l’idea che la comparsa del documento assorbì, rendendole inattuali e dunque non più vigenti, consuetudini seguite da decenni o secoli. Il rapporto tra le due fonti fu molto più complesso, presentandosi ora nei termini di una complementarietà, ora invece in aperta contraddizione. A ciò come si avrà modo di vedere contribuì la stessa evoluzione delle forme di godimento delle risorse collettive190. La geografia statutaria del territorio ligure si compone di due aree concentriche che hanno come fulcro centrale Genova. La prima area è il districtus della stessa Genova, i cui confini coincidono in sostanza con quelli dell’episcopato. Qui ebbero vigore soltanto gli statuti della Dominante, sebbene fossero compresi nel distretto centri importanti come Chiavari e Recco. La fioritura di statuti locali a partire dal XIII secolo avvenne nella seconda area, che va a Ponente da Sulla consuetudine come fonte si rinvia alla trattazione di F. CALASSO, Medioevo del diritto. Le fonti, Milano 1954, pp. 181-214, in particolare per il problema della prova e del rapporto consuetudine – diritto scritto pp. 207-214. Di consuetudine come “costituzione” del mondo giuridico medievale hanno parlato P. GROSSI, L’ordine giuridico, cit., pp. 87-108 e D. QUAGLIONI, La consuetudine come costituzione, in P. NERVI (a cura di), Dominii collettivi e autonomia, Padova, 2000, p. 11-35; M. ASCHERI, Statuti e consuetudini: tra storia e storiografia, in R. DONDARINI, G. M. VARANINI, M. VENTICELLI, Signori, regimi signorili e statuti nel tardo medioevo, Bologna, 2003, pp. 21-31. 189 Alla lacuna è talvolta possibile rimediare consultando gli atti di lite che riportano, specie nei verbali delle testimonianze rese in giudizio, informazioni sugli usi delle risorse naturali, cfr. G.S PENE VIDARI, Storia giuridica e storia rurale. Fonti e prospettive piemontesi e cuneesi, in Bollettino della società per gli studi storici, archeologici e artistici della provincia di Cuneo, 85/2 (1981), pp. 415-425. 190 Oltre ai contributi già citati, ragiona sulle caratteristiche della normativa medievale tanto consuetudinaria che scritta in materia di beni comuni R. DONDARINI, Comunità rurali: beni comuni e beni collettivi, in «Rivista storica del Lazio», 21 (2005-2006), pp. 115-132. 188 64 Varazze fino a Ventimiglia e a Levante da Levanto al fiume Magra, interessando tanto i borghi costieri quanto le piccole comunità dell’entroterra alpino. Le ricerche di Braccia hanno poi conferito ulteriore complessità a questo schema, verificando l’esistenza di ulteriori sotto-aree statutarie, in particolare a Ponente, dove agli statuti redatti guardando al modello genovese si affiancarono altri testi influenzati da centri rivieraschi di medie dimensioni191. Come è stato rilevato da Braccia, ma la considerazione vale soprattutto per il Ponente, non tutti gli statuti liguri citano o regolano in qualche modo i beni comuni. Salvo determinati casi, risultano molto più numerose le norme tutelanti la proprietà privata rispetto a quelle dedicate alle altre proprietà. Ovviamente da questo silenzio non può inferirsi l’assenza di beni sfruttati collettivamente, assenza che oltre ad essere smentita dal confronto con altre fonti – visite ai confini, catasti di comunità etc. – attribuirebbe agli statuti un anacronistico carattere di completezza192. Ovviamente ciascuno statuto rispecchia le condizioni socio-politiche e le ambizioni di organizzazione del territorio della comunità che lo emana e sono pertanto rinvenibili notevoli differenze tra un testo e l’altro. Esauritosi il fermento statutario con il XV secolo e consolidatosi all’inizio del Cinquecento il dominio genovese sulle riviere, gli statuti delle comunità soggette vengono sottoposti ad un controllo capillare da parte del governo della Repubblica, le cui riforme toccano assai più la materia criminale e amministrativa che la gestione dei patrimoni comunali193. Contestualmente si riscontra la corposa diffusione di capitoli e bandi campestri, anche presso comunità precedentemente sprovviste di un qualche testo di riferimento. Le molte cause all’origine di questo processo sono state illustrate da Savelli e consistono soprattutto nell’indebitamento comunitativo che negli anni assume dimensioni croniche e potenzialmente destabilizzanti e il crescente carico fiscale imposto da Genova alle comunità del Dominio. Le reazioni a tali emergenze originano tanto dal centro quanto dalla periferia194. Cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, amministrare la giustizia, organizzare il territorio, cit., pp. 81-87; R. BRACCIA, Processi imitativi e circolazione dei testi statutari: il Ponente ligure, in M. BIANCHINI, G. VIARENGO (a cura di), Studi in onore di Franca De Marini Avonzo, Torino, 1999, pp. 55-69. 192 Cfr. A. DANI, Pluralismo giuridico, cit., pp. 64-67. Sugli statuti del Ponente vedi V. PIERGIOVANNI, Sui più antichi statuti del ponente ligure, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s. LII/1 (2012), pp. 359-364; R. BRACCIA, Le proprietà collettive, cit. Sulle relazioni di visita ai confini come fonte utile per ricostruire i diritti collettivi cfr. A. STOPANI, La memoria dei confini. Giurisdizione e diritti comunitari in Toscana (XVI-XVIII secolo), in Quaderni storici, 118 (2005), pp. 73-96; A. DANI, Le visite negli Stati italiani di antico regime, in Le Carte e la Storia, 1 (2012), pp. 43-62. 193 Oltre a R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit., vedi anche ID, Statuti e amministrazione della giustizia a Genova nel Cinquecento, in Quaderni storici, 110 (2002), pp. 347-377. 194 Cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit., pp. 174-191. Localmente si assiste ad un fenomeno disgregativo, laddove ville o comunità minori tendono – con l’appoggio di Genova – a separarsi dai centri principali di riferimento per darsi autonomamente nuove regole in materia agro-pastorale e nuovi catasti su cui tarare l’ammontare delle imposte 191 65 Statuti e bandi intendono manifestare all’esterno il diritto della comunità sui beni comuni, cercando di preservare spazi di autonomia nella gestione e di difesa dalle pretese delle comunità limitrofe. Tra gli aspetti solitamente presi in considerazione troviamo l’indicazione delle cariche amministrative interessate alla vigilanza e all’amministrazione della risorsa, i limiti e le modalità di accesso e le norme di divieto per la tutela del patrimonio. In particolare le proibizioni occupano gran parte dei bandi campestri, la cui prima preoccupazione è quella di tutelare coltivazioni private e comunaglie dai danni dati. Sotto l’espressione “danno dato” rientravano condotte oggi classificate diversamente per bene giuridico leso (asportazione di frutti, danneggiamento, uccisione di animali, alterazione dello stato dei luoghi, pascolo abusivo per fare alcuni esempi) che si trovavano affastellate una accanto all’altra. Quantunque considerati maleficia leviora, i danni dati costituivano la forma di “criminalità” principale per tutti i centri rurali, ragion per cui le disposizioni statutarie tardomedioevali furono oggetto spesso di numerose modifiche apportate dai bandi campestri, per adeguare la disciplina – solitamente nel senso dell’inasprimento – alle esigenze del momento. Il danno poteva essere cagionato tanto da persone fisiche quanto da animali, con forme di responsabilità in solido – che riguardavano anche il danno causato dai minori. Caratteristiche salienti erano la previsione di un’estesa responsabilità oggettiva e il ricorso a riti giudiziari sommari. Sulla natura del danno, come ha notato Dani, la dottrina di diritto comune non raggiunse posizioni univoche, oscillando tra l’interpretazione penalistica – specie per i casi più gravi e commessi con dolo – e quella civilistica195. Rimandando ulteriori considerazioni sul rapporto tra fonti ai prossimi capitoli, va affrontato ora il tema della definizione degli aventi diritto all’uso di un bene comune. Va subito premesso che in Liguria non si diedero casi di netta distinzione tra beni collettivi e beni comuni, come accadde invece per le Partecipanze emiliane o le comunità regoliere alpine, dove il consorzio di utenti acquisì una personalità giuridica separata dalla comunità196. Ciò non comporta automaticamente dovute. La Repubblica dal canto suo edifica un apparato di controllo sui bilanci e le spese locali, procede ad approvare i bandi campestri e a sollecitare la riforma – o la compilazione ex novo – dei capitoli politici per poter intervenire con cognizione di causa nei frequentissimi casi di malversazione degli amministratori locali o di irregolarità nel rinnovo delle cariche elettive. Sul controllo delle finanze vedi inoltre S. TABACCHI, Il controllo sulle finanze delle comunità negli antichi Stati italiani, in Storia Amministrazione Costituzione», Annali I.S.A.P., 4 (1996), pp. 81-115. 195 I danni campestri sono in genere trattati nelle edizioni di statuti o in saggi relativi a delimitate zone geografiche. Una recente opera dedicata però al danno dato nello Stato pontificio che associa all’analisi delle fonti statutarie l’esame della dottrina di diritto comune italiana ed europea è in A. DANI, Il processo per danni dati nello Stato della Chiesa (secoli XVI-XVIII), Bologna, 2006. Per la Liguria si rimanda a O. RAGGIO, Norme e pratiche, cit., pp. 180-181. 196 Come precisa Dondarini, per beni collettivi si devono intendere quei beni la cui titolarità appartiene ad un gruppo circoscritto di persone, spesso individuate per ceppi famigliari, che godono del bene e trasmettono il loro diritto agli 66 che anche in Liguria non si verificò una restrizione del bacino di utenti dei beni comuni tra XV e XVII secolo, come documentato da Raggio circa le differenti modalità di sfruttamento tenute da proprietari terrieri o possessori di bestiame197. Ad essere dunque esclusi erano gli alieni homines, vale a dire coloro che non appartenevano alla comunità. Dani ha efficacemente posto in evidenza come il possesso di terre nel territorio comunale, per quanto richiesto spesso dagli statuti senesi per il conferimento dello status di cittadino, non fosse di per sé requisito sufficiente per il riconoscimento di diritti collettivi sulle risorse, vantati pacificamente dagli originari e dai continui abitatori198. Ai forestieri era invece precluso, in linea di massima, l’uso delle risorse, sia per un’empirica consapevolezza che un sovrasfruttamento avrebbe pregiudicato irrimediabilmente le medesime, sia per non legittimare il compimento di atti possessori pregiudizievoli per la giurisdizione territoriale della comunità e talvolta – indirettamente – dello Stato stesso. Boschi, terre di pascolo, fiumi costituivano non di rado confini naturali tra comunità e tra Stati. Come ha rilevato Paolo Marchetti, la scienza giuridica di diritto comune era ben consapevole della natura compromissoria dei confini – aperta quindi a contestazioni e turbamenti – e la stessa apposizione dei termini era spesso oggetto di valutazione circa la fondatezza delle pretese delle parti. Il bisogno di specificare con crescente precisione i confini inter-comunitari contribuì a rafforzare la tendenza all’esclusione dei forestieri dal godimento dei beni collettivi199. La situazione ligure poi era resa vieppiù complicata dalla stessa conformazione del territorio (un continuo susseguirsi di strette valli lungo gli Appennini orientali e le Alpi liguri) e dalla presenza di numerosi feudi che, soprattutto a Ponente, interrompevano la continuità del dominio genovese. I principali tra questi (ad esempio Oneglia e Finale) appartenevano a Principi stranieri e eredi tramite norme successorie. I beni comuni sono invece quei beni indivisi sfruttati (o almeno sfruttabili) indistintamente da tutti i membri di una comunità, cfr. R. DONDARINI, Comunità rurali, cit., p. 121. 197 Vedi sia T. DE MOOR ET AL., Ruling the Commons. Introducing a new methodology for the analysis of historical commons, in International Journal of the Commons, 10 (2016), pp. 529-588, in particolare pp. 535-537; O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., pp. 159-160. 198 È ormai acquisito il fatto che dei diritti collettivi fossero titolari coloro che appartenevano alla comunità entro i cui confini i beni erano situati A questo proposito giova specificare che per comunità si deve intendere qui la comunità universitas, a prescindere dalle dimensioni o dalla qualifica giuridica. Come si noterà più avanti, anche gli uomini residenti in piccole ville potevano essere titolari di usi civici ben distinti da quelli degli abitanti del centro territoriale di riferimento. Sul senese cfr. A. DANI, Usi civici, cit., p. 62-89. 199 Cfr. P. MARCHETTI, De iure finium. Diritto e confini tra tardo Medioevo ed età moderna, Milano, 2001; A. SANDONÀ, Statuti rurali dell’alto vicentino e carte di regola trentine: note sull’esperienza giuridica di comunità rurali di confine, in Italian Review of Legal History, 2 (2017), pp. 1-25. 67 ciò rendeva qualsiasi conflitto per il controllo delle comunaglie di confine un affare direttamente interessante le relazioni internazionali della Repubblica200. Si è accennato al vaglio operato dal governo della Repubblica sugli statuti delle comunità suddite. Genova si assicurò infatti il controllo delle riviere tra XII e XV secolo, stringendo tanto con i centri costieri più vivaci (Sanremo, Albenga, Savona, Sarzana) quanto con i borghi minori apposite convenzioni, che rispecchiano i differenti percorsi di assoggettamento a Genova201. Sotto il nome di convenzione sono compresi atti di varia natura – da sentenze ad accordi – accomunati però dallo scopo di specificare le immunità fiscali, prerogative di rapporti diretti con il Senato e privilegi in ordine alla potestà normativa locale. Almeno fino al Cinquecento la pretese di “governo diretto” del centro furono limitate, poiché le città si governavano autonomamente sotto la vigilanza di un Podestà genovese (almeno i centri maggiori), concedendo in genere a Genova gli uomini per la difesa del dominio e poco altro202. Il c.d. “pattismo” come strumento di formazione del dominio cittadino e poi regionale non fu ovviamente una specialità ligure, perché pressoché tutti gli Stati regionali italiani vi ricorsero per negoziare le condizioni di subordinazione dei centri conquistati, a prescindere dal fatto che la sottomissione di questi ultimi fosse avvenuta pacificamente o a seguito di vittorie militari203. Come bene ha scritto Chittolini: «il patto comporta il riconoscimento e la legittimazione dei vecchi nuclei di organizzazione politica – le città, in primis – con ambiti di libertà relativamente ampi, in una struttura articolata ed elastica. Dopo l’esperienza relativamente centralistica e “totalitaria” dello “stato-città”, lo stato regionale acquista ora una fisionomia che si può forse definire dualistica, simile, per alcuni versi, a quella di altre realtà europee, nel fronteggiarsi e bilanciarsi di un’autorità centrale, sovracittadina, da un lato, e di una serie di corpi territoriali dall’altro, con una reciproca definizione di competenze e di diritti»204. Lo spostamento dei termini di confine costituiti da boschi significava anche l’aumento o la riduzione degli spazi di lavoro e di risorse economiche complementari alla piccola proprietà e necessarie ai poveri ed era quindi in grado di scatenare lunghi contenziosi. A fronte di una bibliografia sterminata, per la sola Liguria vedi E. GRENDI, La pratica dei confini, Mioglia contro Sassello, in Quaderni storici, 63 (1986), pp. 811-845; T. PIRLO, Un clamoroso episodio di capitalismo feudale, Genova, 1995. 201 Cfr. V. PIERGIOVANNI, I rapporti giuridici, cit. 202 Cfr. G. ROSSI, Gli statuti della Liguria, in Atti della società ligure di Storia patria, XIV, (1878), pp. 227-232. 203 La bibliografia sul tema è molto ampia. Si segnala soltanto, oltre a quanto già indicato E.FASANO GUARINI, Gli statuti delle città soggette a Firenze tra ‘400 e ‘500: riforme locali e interventi centrali, in G. CHITTOLINI, D. WILLOWEIT (a cura di), Statuti, città, territori, cit., pp. 69-124; I. PEDERZANI, Venezia e lo Stado de Terraferma. Il governo delle comunità nel territorio bergamasco (secc. XV-XVIII), Milano, 1992; L. MANNORI, Il sovrano tutore, cit.; A. DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna, 1995. Sul ruolo degli ufficiali centrali nel ridimensionare i centri soggetti a partire dal Rinascimento G. CASTELNUOVO, Uffici e ufficiali, in Lo Stato del Rinascimento, cit., pp. 333-346. 204 Cfr. G. CHITTOLINI, Città, comunità e feudi, cit., pp. 28-29. 200 68 Tra gli argomenti di storia ligure non ancora sufficientemente indagati, figura anche l’evoluzione dei rapporti giuridici tra Genova e centri del dominio nel corso dell’età moderna. Savelli, pur operando soltanto tramite campioni, ha ritenuto che gli spazi di libertà siano stati progressivamente erosi soprattutto in ambito legislativo, più che in quello fiscale205. Le opinioni dei giuristi rese durante i contenziosi sei-settecenteschi, tese ora a proteggere le convenzioni ora a depotenziarne il carattere di patto non liberamente modificabile da una sola parte, non mancavano ed erano eco di un dibattito politico ben presente anche a Genova, come si ricava dalla testimonianza di Andrea Spinola, uno dei patrizi più coinvolti dalle riflessioni sul governo al principio del secolo XVII206. Quale rilievo ebbero le convenzioni sulla gestione dei beni comuni? Indubbiamente, fondando giuridicamente la potestà di autogoverno delle comunità, esse furono importanti nel ribadire la libertà di ciascun borgo e villa di darsi proprie norme per l’utilizzo di boschi e corsi d’acqua, prevedendo anche le sanzioni per i trasgressori inflitte dagli ufficiali locali. Si trattò comunque di una libertà “vigilata”, nel senso che tutti i regolamenti campestri dovettero essere sottoposti all’approvazione del governo genovese, senza peraltro che questo abitualmente si intromettesse nel merito delle decisioni assunte. La tensione intorno ai patti salì durante i conflitti sorti intorno a situazioni critiche (occupazioni abusive, alienazioni, questioni fiscali relative al patrimonio comunale) perché fu allora che l’intervento diretto del centro, in contraddittorio giurisdizionale con le istanze della periferia, mise alla prova la tenuta degli accordi. “Provocando” l’intervento giurisdizionale del Senato con ricorsi e suppliche, i vari attori della periferia curavano anche di indirizzarne, o per lo meno contenerne, l’operato nella direzione a loro più favorevole207. Cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit., pp. 171-174. Patrizio, attento osservatore della politica e del costume genovese di inizio XVII secolo, ad Andrea Spinola dobbiamo una serie di manoscritti autografi e un completo Dizionario che ordina per lemmi questioni molto diverse che spaziano dalla giustizia criminale, agli investimenti finanziari all’educazione della gioventù nobiliare. A proposito delle convenzioni, Spinola le poneva come elemento costitutivo dello Stato, non solo per il loro valore giuridico ma anche per il significato politico che rivestivano per i centri del Dominio. Esse non potevano dunque essere derubricate a privilegi concessi e unilateralmente modificabili: «Li nostri antichi, con l’opinione che altri havea della lor giustitia, fecero acquisto di molti luoghi, che si diedero a loro volontariamente, fatte conventioni, e patti. Questi, Dio ci guardi, che non ci venga pensiero di romperli, o che per sottilizar con li dottori, li chiamiamo concessioni, quasi privileggij concessi a popoli di nostra volontà. Sottigliezze simili, sono più proprie de’ leggisti, che di politici prudenti, e perciò è bene, non attenercisi», BCB, m.r. XIV. 1.4.1, cc. 395-396. Sulla vita e le opere di Spinola cfr. C. BITOSSI, Andrea Spinola. Scritti scelti, Genova, 1981. 207 Su questo tema vedi C. NUBOLA, A. WÜRGLER (a cura di), Suppliche e gravamina. Politica, amministrazione, giustizia in Europa (secoli XIV-XVIII), Bologna, 2002. Il rapporto contenzioso bilaterale tra lo Stato e le popolazioni governate fu pratica costante per tutta l’epoca del diritto comune. L’esercizio della iurisdictio comprendeva infatti sia il potere di porre norme valide pro futuro, sia di produrre regole per il caso singolo, in sede applicativa, giudicando una controversia. A parere di chi scrive, una migliore comprensione di questo particolare tratto del modo di concepire l’esercizio del potere politico nell’età intermedia avrebbe risparmiato una quantità di discussioni circa la “modernità” degli Stati, valutata anche in base alla loro capacità di manifestare l’egemonia sul piano interno soltanto tramite la 205 206 69 Si dovrà perciò verificare anzitutto se le convenzioni furono effettivamente rispettate durante i conflitti dal governo genovese, oppure furono superate dal corso degli eventi e in quale modo. Inoltre, a scapito di qualsiasi suggestione localistica, andrà appurato se il rispetto delle convenzioni favorì o scongiurò le innumerevoli, piccole tragedy of commons che modificarono l’aspetto delle campagne liguri della modernità. 3.b) Segue: magistrature e fonti statali Il contesto giuridico-amministrativo in cui le comunità liguri si trovarono inserite era quello di uno Stato d’antico regime di origine cittadina ma a proiezione regionale, il cui prestigio internazionale fu a lungo fondato più sulle capacità diplomatiche e finanziarie dell’oligarchia della capitale che sulle potenzialità geopolitiche del territorio ligure. Un cambio di rotta iniziò a registrarsi intorno alla fine del XVI secolo, quando la Repubblica iniziò a dare nuovo smalto alla propria sovranità territoriale tramite una serie di riforme istituzionali e legislative riguardanti l’intero territorio. Si è già avuto modo di rievocare il dibattito sulla “modernità” dello Stato genovese e giova ripetere che se una politica del diritto nel segno della “costruzione statuale” vi fu – e ciò è indubbio – essa non fu né priva di contraddizioni. In questo esso è perfettamente accostabile agli Stati coevi perché nessuno, almeno fino ai decenni immediatamente precedenti la Rivoluzione, si pose come obbiettivo una razionale ed organica politica fiscale, di redistribuzione della ricchezza o di livellamento delle situazioni di privilegio individuali o collettive. I gruppi dirigenti, a Genova come altrove, tentarono di conciliare esigenze spesso profondamente diverse tramite provvedimenti empirici, di solito negoziati e dunque sempre rivedibili al mutare dei bisogni portati alla loro attenzione208. A partire dal Cinquecento fu chiaro al ceto di governo che una serie di problemi affliggevano le comunità dominate in maniera ricorrente: disordini e iniquità nel calcolo e nel prelievo fiscale (specie per l’avaria sugli immobili), occupazione abusiva dei beni comuni, malversazioni nell’amministrazione locale, litigiosità inter-comunitaria per questioni di confine, legami neppure troppo velati tra banditi e “fautori”. Le riforme riorganizzarono il governo del territorio, palesando un nuovo approccio del centro nei confronti dei problemi politici della periferia, senza che venisse intaccata la centralità delle comunità. Queste restarono fiscalmente legislazione, scindendola dall’attività giudiziale che ne costituiva – in misura più o meno ampia - il naturale complemento; cfr. P. COSTA, Iurisdictio, cit., in particolare pp. 159-160. 208 Cfr. E. GRENDI, Il Cervo e la Repubblica, cit., pp. 3-7; M. ASCHERI, Medioevo del potere, cit., pp. 389-392. 70 responsabili per i tributi in denaro e beni (su tutti olio e vino), a loro spettò il reclutamento delle milizie anche dopo le novità introdotte per la repressione del banditismo209. Si è anticipato nel capitolo precedente che il Dominio fu uno dei grandi assenti nelle “riforme costituzionali” che disegnarono le magistrature di vertice della Repubblica prima nel 1528 e definitivamente nel 1576. Queste ultime leggi – note come Leges novae o “leggi di Casale”, dal nome della località dove si tennero i lavori dei delegati – affidarono le chiavi del governo al Doge e ai due Collegi, il Senato e la Camera dei Procuratori (rispettivamente di 12 e 8 membri) di durata biennale, rinnovati ogni 6 mesi per un quarto mediante estrazione a sorte da una rosa di 120 nomi (Seminario), la cui integrazione spettava al minor Consiglio. Al Senato spettava la conduzione degli affari di politica generale e, ad alcune condizioni, poteva esercitare anche certi poteri giudiziari, mentre la Camera era titolare delle competenze finanziarie e, per quello che qui interessa, dell’amministrazione dei beni demaniali. I Consigli maggiore e minore uscirono rafforzati dalle leggi del ’76, vedendosi attribuiti poteri più ampi rispetto al previgente assetto. Il Consiglio minore fu strettamente associato ai Collegi Serenissimi per la trattazione degli affari di Stato più importanti (alleanze e dichiarazioni di guerra, imposizione di nuove gabelle, modifiche costituzionali) in relazione alle quali era garantito dalla necessità di raggiungere un quorum per l’approvazione delle proposte dei Collegi di 4/5 o 2/3. Il resto del territorio regionale compare solo indirettamente per l’elencazione dei vari uffici periferici210. Nel 1576 gli uffici territoriali erano divisi tra uffici maggiori (destinati ai patrizi ascritti al Liber nobilitatis), uffici minori (esercitabili da cittadini genovesi non ascritti) e uffici intermedi (cui potevano ambire uomini di entrambe le categorie), tuttavia tale distinzione non rifletteva una gerarchia di poteri o una distribuzione di funzioni precisa. Nei decenni successivi alcune podesterie furono elevate a Capitanati, per Sanremo e Albenga fu previsto l’invio di un Commissario patrizio al posto del vecchio podestà (rispettivamente nel 1652 e nel 1663). Come ha osservato Assereto, la riforma delle giurisdizioni periferiche, dipanatasi su un arco temporale di quasi un secolo, è connotata da una scarsa organicità nel suo complesso poiché i singoli provvedimenti: «sono diretti, di volta in volta, a risolvere problemi particolari; implicano via via un rimaneggiamento Vedi P. CALCAGNO, Per la pubblica quiete. Corpi armati e ordine pubblico nel Dominio della Repubblica di Genova (secoli XVI-XVIII), in Società e storia, 129 (2010), pp. 453-487. 210 Contenuta, unitamente alle procedure di elezione, ai capitoli 36 (De electione nonnullorum Magistratuum), 37 (De Praefectorum nonnullarum Arcium qualitatibus) e 38 (De officiis conferendis in Cives non descriptos) delle leges novae del 1576, cfr. Leggi nuove della Republica di Genova, con le dichiarationi e gionte, riposte a suoi luoghi, Genova, 1584, pp. 85-96. 209 71 delle circoscrizioni territoriali e anche un abbozzo di dipendenza gerarchica al loro interno, ma il tutto in maniera sconnessa, senza sforzi di ingegneria politica»211. Ai giusdicenti spettavano vari compiti, dall’amministrazione della giustizia civile e criminale, al controllo delle spese e alla riscossione delle imposte, tutti settori segnati da una generale – e comune agli Stati del tempo – difficoltà a tradurre in essere le prescrizioni normative212. Alla revisione degli uffici periferici si unì anche la creazione di due magistrature con competenza territoriale estesa a tutto il Dominio. La prima in ordine cronologico fu la Giunta dei confini, istituita nel 1587 e formata da tre membri dei Collegi in carica per un anno e che potevano avvalersi di due dottori di collegio, un notaro e di “giovani d’isperienza et fedeltà” inviati nel Dominio per la raccolta di scritture e atti. Era un organo permanente, con una chiara funzione giurisdizionale esplicitata fin dal primo articolo, e al quale furono assegnati due compiti. Per un verso essa doveva seguire tutte quelle “differenze” che contrapponevano la Repubblica ad altri Stati o feudi confinanti, ma dall’altro: «Averanno anco pensiero d’invigilare in tutte quelle provigioni, ordini, e diligenze, che possano esser utili alla conservazione del territorio e giurisdizione della Repubblica e suoi confini […] Dovrà ancora aver carico, e cura di diffendere sotto nome di Sindico della Repubblica le liti, e controversie che vertiscono, e vertiranno per caosa di confini, o giurisdizioni, nelle quali la Repub.ca abbia interesse»213. La funzione di vigilanza sugli atti “utili alla conservazione del territorio e giurisdizione”, unita al dovere di prendere parte alle cause ogniqualvolta fossero stati in gioco interessi della Repubblica, estese l’ambito operativo della Giunta anche verso l’interno dello Stato, poiché ad essa si demandò la delicata missione di risolvere di ogni tipo di conflitto inter-comunitario riguardante confini e giurisdizione. La formazione di un dominio regionale composito, a lungo trascurato dall’amministrazione della capitale, poneva diverse difficoltà in ordine al recupero di informazioni e atti sulle quali impostare un’efficace attività di governo e di organizzazione del territorio. La legge dispose così la riunione di investiture feudali, sentenze e scritture di vario Cfr. G. ASSERETO, La metamorfosi della Repubblica, cit., p. 19. Si noti che la differenza principale tra l’ufficio di Podestà e di Capitano risiedeva nell’attribuzione dello ius sanguinis in materia criminale e nella possibilità di cumulare la carica di Capitano con quella di Commissario contro banditi. Non casualmente l’erezione di Capitanati interessò soprattutto quegli uffici sotto la cui giurisdizione ladrocini, rapine su vasta scala e scontri armati tra bande tardavano ad essere repressi, come la Val Polcevera, la Val Bisagno, Recco e Rapallo. 212 Sull’ufficio di giusdicente della Repubblica genovese vedi anche O. CARTAREGIA, Il perfetto giusdicente: Tomaso Oderico. Appunti per una storia dell’amministrazione genovese, in Miscellanea storica ligure, XII/2 (1980), pp. 5-58. 213 ASGE, Archivio segreto, 20. 211 72 genere in registri con lo scopo di conservare e rendere incontestabili, almeno quanto alla loro efficacia, i titoli su cui poggiavano (anche) le pretese di esercizio degli usi civici214. Il processo di riforma culminò con l’istituzione di una magistratura di controllo sull’amministrazione dei centri periferici: il Magistrato delle Comunità. Tra il 1611 e gli anni ’20 il Senato inviò dei Commissari a rivedere lo stato finanziario delle comunità, la popolazione residente, le condizioni del patrimonio comunale. Appurato il perdurare di una serie di problemi come l’alto indebitamento, la corruzione dei rettori e l’occupazione dei beni comunali, il governo decise di creare un ufficio appositamente incaricato di provvedere alle istanze locali e smaltire un contenzioso che per il Senato stava diventando ingestibile215. Creato nel 1623 come organo temporaneo, il Magistrato era composto da cinque membri eletti dai Collegi insieme al minor Consiglio inizialmente per trenta mesi e, a partire dal 1635, per due anni, e fu costantemente rinnovato fino al 1797. La natura sperimentale dell’operazione messa in campo si ricava, più che dalla durata temporanea, dall’iniziale, forte legame di dipendenza con i Collegi di governo216. Dalla seconda metà del Seicento il Magistrato acquisì una propria autonomia istituzionale provvedendo all’emanazione di diversi regolamenti e decreti che Come ha ben spiegato Cortese, sentimento comune verso i documenti scritti in età intermedia era il sospetto: «lo spettro della loro falsità era sempre in agguato; l’aspirazione delle parti era che intervenisse un’auctoritas a corroborarlo e a renderlo “autentico”». Da qui anche la necessità di periodiche riconferme (cfr. E. CORTESE, Le grandi linee, cit., p. 193). Su produzione di scritture e il ruolo dei cancellieri a Genova cfr. R. SAVELLI, Le mani della repubblica: la cancelleria genovese dalla fine del Trecento agli inizi del Seicento, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, vol. I, Milano, 1990, pp. 541-609. Più in generale G. ALBINI (a cura di), Le scritture del comune. Amministrazione e memoria nelle città dei secoli XII e XIII, Torino, 1998, oltre a P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma, 1991; A. GAMBERINI, Lo stato visconteo. Linguaggi politici e dinamiche istituzionali, Milano, 2005, pp. 3567. In altre realtà urbane la redazione di registri di iura riguardanti i beni comunali risaliva al basso medioevo, cfr. M. VALLERANI, Il “Liber terminationum” del comune di Perugia (1291), in Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen age-Temps modernes, 99 (1987), pp. 649-669; R. RAO, Beni comunali e governo del territorio nel Liber Potheris di Brescia, in L. CHIAPPA MAURI (a cura di), Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia medievale, Milano, 2003, pp. 171-199. 215 Una prima inchiesta sui beni, redditi e spese di ciascuna comunità risaliva al 1531. Essa riportava anche il numero delle teste (o dei fuochi) e i mestieri più praticati al fine di stabilire l’ammontare dell’avaria reale. Furono però escluse le molte comunità che in quel momento si trovavano sotto l’amministrazione del Banco di San Giorgio. Che l’istituzione del Magistrato costituisca la risposta alle tante problematiche emerse in quasi quindici anni di visite commissariali è dichiarato dallo stesso preambolo della prima proposta: «Visto qualche cosa delle relationi loro, e considerato il tutto, per sgravar le dette communità e luoghi di debiti, per quanto si può, e far che chi occupa beni loro, glieli restituisca, e chi li resta debitori paghi, e chi ha maneggiato di conti, et in somma si sollevino esse Università di molti carichi, ne quali si vedono immerse, e si diano quelli ordini che convengono, perché le cose loro siano ben governate», ASGE, Archivio segreto, 1033, n. 228. Sull’istituzione del Magistrato oltre a G. BENVENUTO, Una magistratura genovese, cit., cfr. G. ASSERETO, Amministrazione e controllo amministrativo nella Repubblica di Genova: prospettive dal centro e prospettive dalla periferia; in L. MANNORI (a cura di), Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani, Napoli, 1997, pp. 122-126. 216 Il cancelliere del Magistrato deve infatti relazionare i Collegi ogni sei mesi sull’operato del Magistrato. Inoltre il Senato può «delegar nel detto Magistrato, et espressamente appoggiarli cura di riveder li conti de Luoghi convenzionati, poiché loro SIg.rie Ser.me per le molte occupazioni, non possono attenderli», ASGE, Manoscritti, 311. 214 73 testimoniano una sempre più penetrante vigilanza sull’amministrazione finanziaria dei luoghi soggetti217. Le funzioni del Magistrato delle comunità erano molteplici. In primo luogo doveva tenere sotto controllo debiti pregressi, spese e entrate ordinarie e straordinarie di ciascuna comunità con informazioni aggiornate, potendo procedere anche ex officio contro: «chi avrà amministrato, o amministrerà per l’avvenire cure, e negozii publici delle Communtà, e luoghi predetti, e non l’avrà reso legitimamente, e lealmente a giudicio di detto Magistrato». Doveva inoltre verificare la spinosa materia dei censi, verificando la validità dei titoli di costituzione, la corresponsione degli interessi e agevolandone l’estinzione, nonché costringere i debitori delle Comunità a saldare quanto dovuto. Su un’altra questione annosa, quella delle spese superflue, si introdusse la necessaria autorizzazione preventiva. Per quanto concerne il governo politico della periferia, al Magistrato spettava l’incarico di considerare: «se per il buon governo et amministrazione delle Communità, e luoghi, o alcun di loro sii al proposito far alcuni nuovi ordini, o confermar quelli, che dalli detti Commissarii li sono stati lasciati in tutto, o in parte, o riformar in qualche luogo il Governo delle dette Communità», potendo inoltre ordinare ai giusdicenti di convocare i Parlamenti locali per discutere delle modifiche proposte dal collegio. La gestione dei beni collettivi compare nel capitolare del Magistrato nei termini seguenti: «Di più conoscendo, che alle dette Communità siino usurpati, et occupati indebitamente beni, terre, case, e possessioni, così e domestichi, come salvatici, o altre qualsivoglian cose a loro spettanti, avrà facoltà, e cura di farglieli restituire con pagamento de frutti, ove debbano pagarsi»218 L’attenzione del Magistrato si appuntò dunque sulla repressione delle usurpazioni compiute a danno delle Comunità, per le quali il collegio aveva potestà di inquisire e condannare gli occupatori alla restituzione. Il rito seguito era sommario, sola facti veritate inspecta, ed era utilizzato anche dalla Giunta dei confini per i procedimenti di sua competenza. Nella ratio della legge istitutiva vi è quindi un rapporto stretto tra buon governo locale, su cui il Magistrato si impegnava ad esercitare uno specifico controllo, e gestione del patrimonio comunale: porre un Cfr. G. BENVENUTO, Una magistratura genovese, cit., pp. 26-28, G. ASSERETO, La metamorfosi della Repubblica, cit., pp. 30-35. 218 ASGE, Archivio segreto, 1033, n. 228. La rinnovazione della legge istitutiva del Magistrato del 1635 introdurrà la possibilità di appellare le sue decisioni sugli usurpi alla Camera: «dichiarando però, che chi si sentirà in ciò gravato, possa aver ricorso agl’illustrissimi Procuratori, li quali possano provedere in ciò quello, che per giusticia stimeranno convenirsi, per il quale ricorso però non si ritardi l’esecuzione della sentenza», ASGE, Manoscritti, 311. 217 74 freno agli eccessi di spesa e arginare il ricorso ai censi sgrava la pressione che da più parti si indirizzava verso i beni comuni. Correlata era la questione delle liti che avevano per parte la comunità, fattore di innalzamento della conflittualità locale e causa di ulteriori spese. Nel 1635 si attribuì al Magistrato la cognizione di queste cause219. Sul versante degli organi centrali, Genova non risulta disallineata rispetto agli Stati coevi. Certo, il Senato rimase l’unico interlocutore ufficiale delle comunità, quale Principe della Repubblica, ed è all’ombra di questa relazione che bisogna indagare l’operato delle due magistrature sul territorio. Dal punto di vista delle fonti, non sorprende invece constatare una minore ricchezza di atti normativi relativi alle comunaglie. La competenza a punire gli occupatori dei beni attribuita al Magistrato esprimeva infatti una continuità con la linea politica espressa fino a quel momento dai Collegi di governo. Consapevoli dell’inanità di imporre una regolamentazione uniforme su una materia tradizionalmente lasciata all’autonomia comunitaria, questi si erano in generale disinteressati dell’amministrazione dei beni delle comunità suddite. Fa eccezione la grida approvata dai Collegi il 20 marzo del 1600. La legge si rese necessaria dopo che i Commissari inviati nel Dominio avevano denunciato l’alto numero di occupazioni abusive, specie nel medio levante. Il nucleo del testo disponeva: «Presentendo il Serenissimo Sig. Duce, Ecc.mi SS.ri Governatori ed Ill.mi Sig.ri Procuratori della Republica di Genova, che in alcuni luoghi del Dominio di essa Republica, cioè nelle communaglie di detti luoghi del Dominio, si è andato roncando o bruggiando per seminare, poi ne stessi luoghi, e ciò senza licenza autorità né azione alcuna, e volendo lor Ss.rie Ser.me provedere al indenità publica, e metter ordine tale, che nell’avenire non si comettano più simili cose, che hanno risultato, o risultano in non mediocre danno e pregiudizio, così del publico, che del privato, per tanto da parte di lor SS.rie Ser.me si statuisce, ordina, e proibisce che alcuno, sia chi si voglia, non possa roncare, né bruggiare, ne boschi osiano selve di communalie spettanti così alla Camera della Rep.ca come alle Comunità del Dominio». La pena ammontava ad un quarto del valore del danno «e di ogn’altra pena arbitraria a loro Signorie Serenissime così di galera, come di bando»220. L’inciso sull’assenza di licenza per le diffuse pratiche del “ronco” testimonia la consapevolezza del governo circa i rischi legati all’appropriazione delle comunaglie non intermediata dagli organi comunitari, che poteva generare – come in effetti generò – conflitti interni alle comunità. Da notare che la grida vietò l’esercizio del diritto di semina successivo all’incendio controllato indistintamente per le selve «Il detto Magistrato sii e resti Giudice delle differenze, che possano avere le Communità, tanto attive quanto passive, quale avrà pensiero di non permettere, che si consumino in liti», ASGE, Manoscritti, 311. 220 ASGe, Magistrato delle Comunità, 514. 219 75 camerali e per le comunaglie delle comunità. Solo per i boschi appartenenti al demanio la Camera emanò più decreti specifici. Tra molti ordini minori contro i danneggiatori, spicca la legge a stampa del 1697, prorogata nel 1707 e ancora il 5 marzo 1714 per 10 anni. Accanto ai consueti divieti di fare danni, rimuovere termini, causare incendi e realizzare fabbriche di carbone non autorizzate, si sancì la responsabilità dei campari per gli illeciti commessi nei boschi affidati alla loro sorveglianza221. Pressoché assenti sono invece disposizioni di vasta portata in materia di acque interne. Se si eccettua l’abbondante produzione di regolamenti e decreti dei Padri del Comune e della Camera per l’acquedotto urbano di Genova e gli impianti idraulici, l’unico settore in cui il governo intervenne fu quello della pesca in mare. La gestione di fiumi modesti, a carattere torrentizio, fu dunque interamente rimessa alle comunità nelle forme che si esamineranno in seguito. Se si confronta la grida del 1600 con un più antico decreto conservato negli Statuti dei Padri del Comune di Genova, rubricato Ne terre Communis approprientur, si possono notare importanti differenze. Il decreto tardo-medievale vietava la terminazione o divisione di «terris communibus vel communagiis» e il riconoscimento da parte dei magistrati del comune o del districtus di scritture o atti relativi al frazionamento. Tali fondi «communes sint et perpetuo remaneant»222. Il tassativo divieto di appropriazione operava per le ipotesi di divisione stabile delle comunaglie, mentre gli incendi di porzioni di bosco erano necessari per avviarvi delle colture temporanee. La prassi delle occupazioni tardo cinquecentesche dimostrò però che tramite il ronco si tendeva a trasformare stabilmente la destinazione del territorio silvestre, alterando il rapporto tra proprietà privata e proprietà comune a vantaggio della prima. Implicitamente con la grida del 1600 si ammise che la comunità potesse concedere parte dei propri terreni ai privati, facendo venir meno la perpetuità della destinazione collettiva. Al suo posto il governo preferì adottare un approccio volto a valutare caso per caso la migliore soluzione da assumere per risolvere le piccole e grandi crisi legate ai beni comuni. Posto che le magistrature centrali operarono per lo più in occasione dei conflitti, quando le proprietà collettive risultavano o usurpate o non erano adeguatamente gestite dalle comunità, e che intorno ad essi ruotavano di volta in volta interessi differenti, affidare ad un solo organo la cura di affari così complessi sarebbe stato controproducente. La Repubblica divise allora tra Giunta e Magistrato Le denunzie potevano essere comunicate a tutti i Giusdicenti del dominio, specialmente a quelli più prossimi come il Governatore di Savona per il bosco locale e quello di Sassello, il Capitano di Chiavari per i boschi di Varese Ligure o il Governatore di Finale per le selve ex-marchionali (dal 1714), ASGe, Camera di governo e finanze, 606. 222 C. DE SIMONI (a cura di), Statuto dei Padri del Comune della Repubblica Genovese, Genova, 1885, p. 268. 221 76 la cura del profilo più rilevante che emergeva da ogni istanza proveniente dal Dominio. Il Senato stabilì volta per volta a quale ufficio specifico demandare il compito di provvedervi sovrapponendo un interesse pubblico “statale” (la difesa dei confini statali, la vigilanza sui patrimoni locali, la tutela della salute pubblica etc.) a quello perseguito dagli attori locali, interessi che non sempre coincidevano. Se da un lato questa scomposizione conferma il noto “empirismo genovese” nel governo dello Stato, dall’altro rivela quanto i dirigenti della Repubblica fossero consapevoli della natura intimamente complessa dei beni collettivi. 77 Capitolo III Governare terre contese: fonti e conflitti per l’utilizzo di boschi e pascoli Questo capitolo propone alcuni case studies di gestione sul lungo periodo di risorse agrosilvo-pastorali da parte di alcune comunità liguri. Si è scelto di partire dall’individuazione delle risorse e del relativo “bacino d’utenza” per la ricostruzione dei diritti d’uso e delle forme di amministrazione dei beni attraverso i secoli perché, come spiegato in precedenza, è sul governo del territorio che i poteri locali e centrali si confrontavano per definire spazi ed equilibri dello sfruttamento delle risorse. Il territorio era il luogo in cui si dipanavano i conflitti interni o intercomunitari legati alla destinazione di quei beni e alla correlata ridefinizione dei diritti di proprietà individuali e collettivi. Ciascuna delle due sezioni affronterà il tema degli usi civici da una prospettiva dinamica, che tenga conto delle interrelazioni tra diritto di origine locale e centrale. Per questo si è volutamente fatto ricorso a fonti prodotte a Genova e in periferia, perché solo dal combinato disposto di queste fonti si può ricavare una disciplina complessiva di una risorsa e gli scopi politici sottesi a determinate scelte. 1) COMUNAGLIE E QUESTIONI DI CONFINE IN VALLE D’ARROSCIA 1.a) Il capitanato di Pieve di Teco e la fisionomia delle comunaglie Lo studio prende le mosse dall’esame di uno degli aggregati insediativi più importanti dell’entroterra ligure della riviera di Ponente, vale a dire l’insieme di comunità situate lungo la valle del torrente Arroscia, alle spalle della pianura di Albenga, che avevano in Pieve di Teco il centro principale. Tale scelta è giustificata per diversi motivi. In primo luogo il territorio di Pieve si snoda alle falde delle prime, alte cime delle Alpi marittime, situato in una posizione strategica lungo una vallata che conduceva da Albenga verso Ormea e il Piemonte. Venduto dai signori di Clavesana al comune di Genova tra 1384 e 1386, il capitanato pievese fu teatro di diverse azioni militari e cambi di mano durante il travagliato secolo 78 XV, finché Genova non ne cedette l’amministrazione al Banco di San Giorgio in attesa della stabilizzazione della situazione politica con la fine delle guerre d’Italia223. Retto da un capitano genovese tratto dall’ordine patrizio, era a tutti gli effetti una circoscrizione di confine. Eccettuato il versante orientale, verso il contado di Albenga, la giurisdizione pievese confinava per il resto con Pornassio, posseduto in parte dalla Repubblica e in parte dai signori Scarella; a sud con Rezzo (dei Clavesana), Cénova, Lavina e S. Bartolomeo (dei signori del Maro e cedute nel 1575 al Duca di Savoia), Vellego, Marmoreo, Ubaghetta, Montecalvo e Casanova Lerrone (dei signori Della Lengueglia), mentre a occidente Caprauna e Alto (dei signori Cepollini), Aquila d’Arroscia e Gavenola (appartenenti ai Del Carretto di Zuccarello). Ciò contribuì ad aumentare il tasso di litigiosità intercomunitaria per l’accesso a boschi e pascoli condivisi tra comunità vicine, dando luogo ad un contenzioso anche molto aspro e duraturo. Il capitanato di Pieve si presenta poi come una circoscrizione amministrativa complessa, composta da due compagini distinte (le ville superiori e inferiori). Il capoluogo formava con altri centri una delle due castellanie delle ville inferiori. Di essa facevano parte anche Vessalico, Cartari, Siglioli, Lenzari, Gazzo e Gazzetto. Nel complesso con 2250 persone circa era la frazione più popolosa. La seconda castellania delle ville inferiori aveva come perno il borgo di Ranzo, che con Borghetto di Acquatorta (Borghetto d’Arroscia), Ubaga, Costa Bacelega e Degola giungeva a contare circa 1800 abitanti. Sotto la dicitura “ville superiori” erano invece ricompresi il quasi abbandonato insediamento di Teco, dove era sito il castello prima della rifondazione clavesanica degli anni ’30 del Duecento, Acquetico, Trovasta, Trastanello, Armo, Moano, Nirasca, Lovegno, Ligazorio, Muzio e Calderara per circa 1950 abitanti224. Tale sub-articolazione del capitanato rifletteva i legami di solidarietà politica e di condivisione di beni comunali in essere tra le comunità Cenni di storia del borgo di Pieve in P. GUGLIELMOTTI, Ricerche sull’organizzazione del territorio, cit., in particolare pp. 101-106; J. COSTA RESTAGNO, Le villenove del territorio di Albenga tra modelli comunali e modelli signorili (secoli XII-XIV), in R. COMBA, F. PANERO, G. PINTO ( cura di), Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), Cherasco-Cuneo, 2002, pp. 271-306; R. MUSSO, Il dominio degli Spinola su Pieve di Teco, e la valle Arroscia (1426-1512), in Ligures, 1 (2003), pp. 197-214. Già in possesso dal 1453 della Corsica, a fine Quattrocento il Banco ricevette Lerici (1479), Sarzana (1484) con i rispettivi contadi. Durante le convulse vicende delle guerre d’Italia, furono affidate al Banco anche Ventimiglia (1514), Pieve e Levanto (1515). Il Doge, consapevole dell’ostilità degli uomini d’Arroscia nei confronti dei Fregosi, ritenne più prudente affidarne l’amministrazione al Banco finché, per l’onerosità delle spese, questo non restituì tutti i possedimenti liguri alla Repubblica nel 1562. La bibliografia su San Giorgio difetta però di studi sul suo governo delle comunità locali, si segnala solo la parziale ricostruzione di G. DE MORO, Ventimiglia sotto il banco di San Giorgio 1514-1562, Pinerolo, 1991. 224 I dati relativi agli abitanti sono riferiti agli anni ‘10 del Seicento, quando fu redatta la Descrizione di luoghi e terre appartenenti alla Ser.ma Repubblica di Genova, cfr. M. P. ROTA, Una fonte, cit., pp. 69-71. 223 79 interessate, oltre a costituire un fronte di azione comune contro il borgo di Pieve per il riparto delle imposte. Le comunità pievesi disponevano di numerosi beni usati collettivamente, economicamente più redditizi e quantitativamente più estesi nell’alta valle, rispetto alle comunaglie delle ville inferiori225. Si riscontra una notevole eterogeneità di siti compresi nel generico termine di comunaglie. Numerosi i boschi, che potevano essere costituiti da vegetazione minuta e di scarso valore o da faggete e castagneti. Diffuse le terre seminate stagionalmente e usate poi per la segatura del fieno, e in misura minore le terre incolte. Per fare qualche esempio, Acquetico possedeva due appezzamenti importanti, uno misto, boschivo (faggi e castagni) e seminativo e il secondo di boscaglia minuta e di faggi. La comunità aveva anche un terreno (le «chiazze di Theco») utilizzato prevalentemente per il pascolo. Armo e Trastanello possedevano in comune i boschi e i prati detti della valle Orsaira, alquanto estesi. Se per le ville superiori le risorse agro-forestali costituiscono talvolta l’unica voce d’entrata, per quelle inferiori spicca la partecipazione ai ricavi prodotti dai mulini di Vessalico. I censimenti di inizio Seicento classificano le comunaglie in base alla comunità di appartenenza. Ciascuna di esse disponeva quindi di propri beni comuni, dai quali erano solitamente esclusi gli uomini degli altri villaggi, anche se appartenenti alla medesima giurisdizione. La comunione indivisa su risorse naturali e beni artificiali tra Pieve e i centri minori dell’alta valle aveva infatti cessato di esistere nel 1491, quando gli uomini di Teco, Acquetico, Trovasta, Trastanello, Armo, Moano, Nirasca e Lovegno si radunarono al cospetto del Podestà di Pieve Giuliano Castagnola per porre termine alle liti e alle controversie e: «dividere an non cum hominibus dicti loci Plebis, et Vallem, sive territorium Viozene, nec non omnes alias gabellas, molendina, et res communiter hactenus possessas cum eis»226. Dalla divisione discese così la potestà di ogni centro abitato a gestire in autonomia i propri beni e ad autoregolamentarne l’utilizzo, come si vedrà nel prossimo paragrafo. Il territorio di Viozene citato era il più importante bene comune del capitanato227. Posto aldilà del Tanaro e del torrente Negrone, l’altopiano di Viozene è delimitato dalle vette dei monti Marguareis e Mongioie e si presentava come: ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 134 v-157. ASGe, Giunta dei confini, 94. 227 Il nome “Viozene” pare derivare dalla tribù dei Liguri Vogenni, abitanti le regioni montane poste tra Liguria e Piemonte sud-occidentale, cfr. F. BOCCHIERI, Pieve di Teco. Territorio, storia, arte, riuso, Udine, 1993, p. 102. Nello 225 226 80 «Un territorio campestre alpino e seminativo, nominato Viozena, distante dal Borgo diece miglia, qual circonda miglia 30 in circa, confinato all’oriente dal territorio d’Olmea, all’occidente dal territorio della Briga, al mezo di, dal fiume Negrone, e Tanagro, et alla Tramontana dal territorio del Mondevio, Freboza, et Olmea nel qual Territorio li Contadini delle suddette Ville sogliono seminare, e condurre i loro bestiami a pascere nei tempi estivi, e vi hanno molti alberghi, o sia tetti, nei quali habitano in detti tempi estivi et alcuni anco vi si governano all’invernata»228. Le dimensioni ragguardevoli del sito ne facevano la principale zona di pascolo dell’intero complesso della valle Arroscia ma anche il territorio più conteso da pievesi e ormeaschi per ben cinquecento anni. 1.b) I diritti d’uso delle comunaglie Alla molteplicità delle risorse collettive si associava un’ancor più grande varietà di diritti d’uso in capo agli uomini delle comunità pievesi. La ricostruzione di questi diritti è resa possibile tramite l’incrocio di fonti diverse: gli statuti dei borghi di Pieve e Vessalico, i bandi campestri approvati dalle comunità a partire dalla fine del XVI secolo, i censimenti patrimoniali di inizio Seicento svolti dagli inviati genovesi. Il processo di parziale autonomizzazione politica e amministrativa delle ville del capitanato, culminato con l’atto di divisione del patrimonio pubblico del 1491, favorì infatti la costituzione di situazioni giuridiche differenti per ciascun centro, che si trovò a quel punto nella condizione di dover gestire e difendere i propri beni collettivi. specifico sulla pastorizia nell’alta val Tanaro vedi T. PAGLIANA, Gli alpeggi dell’alta val Tanaro e la vita dei pastori, in R. COMBA, A. DAL VERME, I. NASO (a cura di), Greggi, mandrie e pastori nelle Alpi occidentali, Cuneo, 1996, pp. 149-178; per la rilevanza del pascolo di Viozene e del controllo di altre risorse naturali nel conflitto signorile tardo-medievale che oppose i Signori di Pornassio, di Garessio, di Ormea, i marchesi di Ceva e Clavesana – di cui in parte si è detto in apertura, vedi G. COMINO, Economia, scambi e signoria locale. L’area alpina del Piemonte sud-occidentale tra XI e XVI secolo, in F. PANERO, C. BONARDI (a cura di), Il popolamento alpino in Piemonte. Le radici medievali dell’insediamento moderno, Torino, 2006, pp. 237-262. Più in generale, alcune note sulla pratica del pascolo sulle Alpi liguri sono offerte da E. BASSO, Tracce di consuetudini pastorali negli statuti del Ponente ligure, in La pastorizia mediterranea, cit., pp. 133-153. 228 M.P. ROTA, Una fonte, cit., p. 72. Nel registro del Magistrato delle Comunità si indugia maggiormente sulla misura dei suoi confini: «Una terra detta Viozena, che cominciando dal fiume Tanaré in la parte verso Grimaudo vi sono canelle 1850 dal luogo detto le Colme, sin al colle delle Saline vi sono canelle n. 1955, dalle Saline sin’al fiume Tanager in confine del Carlino canelle 1419, dal Carlino sin’al Grimaudo in confine della Giara canelle 1950», ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 136 v. 81 Per il borgo di Pieve e le ville superiori gli statuti risalgono ad un anno imprecisato, tra il XVI e il XVI secolo, e furono successivamente messi a stampa229. Il testo è sostanzialmente ricalcato sui coevi statuti genovesi, senza significativi adattamenti alle condizioni economiche e ambientali locali. Non stupisce quindi che il solo articolo dedicato alla materia in oggetto sia il capitolo De his qui arbores inciderint, vel terras intraverint alienas, molto simile all’omologo della capitale230. Per il complesso delle ville inferiori vigevano invece gli Statuta villarum inferiorum del 1513, approvati dal Banco di San Giorgio il 18 dicembre 1514231. Il contenuto di questo testo presenta una maggiore vicinanza con le peculiarità del territorio, dedicando alcuni capitoli anche ai beni comunali. La comparsa dei bandi campestri rispose quindi a diverse esigenze. In prima istanza occorreva mettere per iscritto norme integrative di un dettato statutario o lacunoso (come per Pieve di Teco) o non più attuale. Un secondo motivo pare risiedere nelle conseguenze dell’occupazione militare del 1625-26. Non appare fuori luogo ipotizzare che l’evento bellico abbia contribuito ad innalzare il numero degli episodi di pascolo o taglio illecito, alterando l’equilibrio agricolo della zona, come espresso dal preambolo di alcuni bandi approvati nel decennio successivo232. Inoltre il costante transito delle greggi dirette a Viozene e la presenza di proprietari terrieri e di bestiame originari di comunità vicine appartenenti al Ducato di Savoia, come Cènova o Lavina, giustificarono un generale aggravio delle sanzioni per i danni campestri, di cui si parlerà ancora. Tornando ai diritti d’uso, dalle fonti ricaviamo quattro temi importanti: la sopravvivenza di comunioni indivise, la natura giuridica delle bandite, la disciplina dello ius pascendi conciliato con altri usi, i diritti esercitabili in particolare a Viozene. Pieve di Teco tentò di dotarsi di nuovi statuti, sia civili che criminali, a metà Seicento, ma senza successo per l’opposizione di alcune ville del Capitanato, cfr. R. SAVELLI, Gli statuti della Liguria. Problemi e prospettive di ricerca, in Società e storia, 83 (2009), pp. 3-33, in particolare pp. 17-24. La versione a stampa a cui si fa riferimento è quella datata 1652 intitolata Statutorum civilium burgi Plebis, et Villarum Superiorum libri quatuor cum aliquibus capitulis extraordinariis in fine, Genuae, apud Ioannem Mariam Farronum, 1652. 230 La riproduzione assume i tratti della copiatura nel primo capoverso, come si può notare confrontando il capitolo degli statuti di Pieve e il capitolo XIV del 6° libro degli statuti civili genovesi sulle fattispecie di danno dato, cfr. Degli Statuti civili della Republica di Genova, libri sei, Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1613, p. 189; Statutorum civilium burgi Plebis, cit., p 130. Simili, pur con gli opportuni aggiustamenti, anche le disposizioni in materia di procedura. 231 Editi da B. BATTISTIN, Gli statuti di Vessalico del 1513, Imperia, 1990. Il testo, in sostanza una risistemazione di materiali precedenti oggi ignoti, trovava applicazione espressa nei centri di Vessalico, Cartari, Ranzo. Ho consultato anche il manoscritto conservato presso l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, Fondo Rossi, 27. 232 Nei bandi del 1634 di Armo si propone di «deputare persone ch’habbino facoltà di capitulare, ordinare e provedere intorno a ciò quello sarà necessario et con authorità di poter terminare il domestico dal salvatico, come era inanti delle passate guerre» (ASGe, Senato Senarega, 1939). La stessa preoccupazione di preservare le coltivazioni private dal pascolo fu espressa dai capitoli di Pieve di Teco del 1632, da quelli di Moano del 1638. 229 82 Nonostante il frazionamento dei patrimoni citato, alcune ville mantennero situazioni di comunione indivisa o di condivisione dei diritti d’uso. Alcuni fondi di Calderara presentano ad esempio la caratteristica di essere aperti agli usi di semina degli uomini di Lenzari233. Armo e Trastanello possedevano in comune i boschi e i prati detti della valle Orsaira, alquanto estesi234. Anche il territorio di Viozene fu diviso nel 1491 in due lotti, identificati con i toponimi Rataira e Grimaldi235. Il primo fu assegnato alle comunità di Acquetico e Trovasta e l’altro a Moano e Calderara. A loro volta i due lotti sarebbero stati divisi dal Podestà di Pieve per ripartire tra gli uomini delle varie località l’effettivo godimento, qualora non avessero voluto conservare i pascoli indivisi, tenendo conto del “peso” di ciascuna villa in base ai registri d’estimo236. I casi di promiscuità erano quindi nettamente minoritari: in generale la fruizione delle comunaglie era legata alla residenza in uno specifico borgo o villa. Sia l’inchiesta del 1611, sia gli statuti di Vessalico e molti bandi campestri citano le bandite o comunque l’atto del “bandimento” dei terreni comunali. A Vessalico si trovavano cinque bandite, Lenzari disponeva di un terreno detto “Selvago” «la qual terra è posseduta in commune», mentre altre due bandite di semina (il Quarto sottano della chiazza e i Laghi) erano messe in affitto. Pieve di Teco possedeva un bosco (la “Bandiazza”) mentre ad Acquetico erano banditi i boschi comunali di Ancise. I nuovi capitoli campestri del 1629 introdussero la facoltà per i consoli locali di nominare appositi custodi dei terreni banditi237. La villa di Calderara proibì integralmente il pascolo nelle bandite comunali e nei castagneti durante il periodo della fruttificazione, senza eccezioni né per i terrieri né per i forestieri. L’istituto della bandita era diffuso nella Liguria di Ponente e nel Piemonte sud-occidentale. Secondo gli statuti di Ormea sulle bandite della comunità, distinte dai prati privati, erano vietati il pascolo e la raccolta di legname. «Herbagia seu bandita herbagii» per gli statuti di Lingueglietta non potevano essere venduti a persone forestiere ed erano riservate agli uomini della comunità. A Nello specifico gli uomini di Lenzari hanno espressi diritti di semina sui terreni detti Loveira e Peli curti, mentre altri due (Oveghi e Beccarelli) sono goduti esclusivamente dai calderaresi. Soltanto la Chiazza del bosco genera un reddito di 16 lire di Genova annue, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 145 v -146 r. 234 ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 141 r – 142 r. 235 Secondo Palmero le “alpi” costituenti l’altopiano di Viozene erano sette: Piano della Reijna, Mascaira, Pian Grimaudo, Roschatto, Lontararsi, Alpe dell’Armella, Alpe di Pian Rosso, cfr. B. PALMERO, Alpeggi monregalesi nelle relazioni territoriali di età moderna. Appunti di ricerca, in G. GALANTE GARRONE (a cura di), Le risorse culturali delle valli monregalesi e la loro storia, Vicoforte, 1999, pp. 31-58, in particolare p. 39. 236 ASGe, Archivio segreto, 355. 237 Le Ancise erano costituite da castagneti coltivati e terre incolte. Il bando campestre del 1629 lasciò ai Consoli di Acquetico la facoltà di bandirle per il consueto periodo (con le relative pene per chi vi avesse portato degli animali) o di dar «libertà di pascere in detto territorio per beneficio universale impunemente», ASGe, Archivio segreto, 52 (RSL, n. 2). 233 83 Cosio d’Arroscia i pascoli delle Alpi del Tanaro erano bandite a partire da maggio e protette da appositi guardiani. A Diano numerose bandite identificate con precisione accoglievano le greggi della comunità nei vari periodi dell’anno per il pascolo e la tosatura. I capitoli sull’erbatico di Ventimiglia (1303) disegnavano diversamente lo ius pascendi a seconda dell’animale coinvolto, assegnando a buoi e animali da macello bandite diverse da quelle delle capre ed escludendo dalla possibilità di acquistare l’erbatico gli uomini di molte comunità limitrofe. A Triora la bandita attribuiva il dominium herbae al titolare, il quale non poteva però impedire che fino a due buoi da lavoro vi pascolassero in ogni periodo dell’anno238. Le bandite compaiono anche in altre regioni italiane o straniere (Provenza e Alpi marittime francesi)239. Le caratteristiche del territorio e i diversi modi di organizzazione dell’attività agropastorale rendevano le bandite differenti da una località all’altra, ma è possibile rintracciare alcuni elementi comuni o, perlomeno, più ricorrenti. Anzitutto la bandita era un istituto di governo delle risorse collettive a disposizione delle comunità locali, che in alcune realtà si trovò a concorrere con il pascolo di Dogana regolato dallo Stato, come nel caso di Siena240. La bandita consisteva nella concessione a titolo oneroso dello ius pascendi ad una platea di soggetti che non si identificava sempre e necessariamente con l’intera comunità, potendo anche essere composta da un ristretto numero di grandi allevatori. Le entrate così generate consentivano alla comunità di far fronte a determinate spese correnti o al pagamento delle imposte determinate dallo Stato. Il diritto di pascolo era quindi di natura obbligatoria e non reale, non trattandosi più di un uso civico, e i capitoli rurali potevano escludere o conservare l’esercizio di altri usi collettivi sui fondi banditi (semina, raccolta di legna, foglie etc.). Per Ormea vedi G. BARELLI, E. DURANDO, E. GABOTTO, Statuti di Garessio, Ormea, Montiglio e Camino, Pinerolo, 1907, pp. 172-199; Per Lingueglietta vedi gli statuti del 1434 di cui RSL, n. 585 editi da N. CALVINI, Il feudo di Lingueglietta e i suoi statuti comunali (1434), Imperia, 1986, pp. 152-153; per Cosio d’Arroscia i capitula sono editi da R. G. GASTALDI, Cosio in Valle Arroscia, cit., pp. 230-231 ma vedi RSL, nn. 329-331; per Diano RSL, n. 338, statuti editi da N. CALVINI, Statuti comunali di Diano (1363), Diano Marina, 1988, pp. 232-240; i capitoli dell’erbatico di Ventimiglia in RSL, n. 1168 sono editi da N. CALVINI, Gli statuti inediti dell’erbatico di Ventimiglia (1303), in Rivista ingauna e intemelia, VII, (1941), pp. 49-64; per Triora RSL, n. 1118, editi da F. FERRAIRONI, Statuti comunali di Triora del secolo XIV, riformati nel sec. XVI, Bordighera, 1956, I, pp. 74-75. 239 Ben note sono le bandite di pascolo della Maremma, per le quali vedi A. DANI, Usi civici, cit., pp. 228-242; ma vedi anche per le Marche, S. CHIRICI, Proprietà terriera e allevamento nella Valle dell’Ussita nei secoli XIV-XVI, in Studi Maceratesi, XX (1987), pp. 165-198; per il nizzardo D. PERNEY, Une institution originale: les droits de bandite, Nice, 1978; M. ORTOLANI, Le droit de bandite dans le pays niçois - Etapes d'une réflexion, in Propriété individuelle et collective, cit., pp. 111-130. 240 Cfr. O. DELL’OMODARME, La transumanza in Toscana nei secoli XVII e XVIII, in Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen age, Temps modernes, 100 (1988), pp. 947-969; D. CRISTOFERI, I conflitti per il controllo delle risorse collettive in un’area di dogana (Toscana meridionale, XIV-XV secolo), in Quaderni storici, 155 (2017), pp. 317-347. 238 84 Perney ha tentato una ricostruzione del diritto di bandita alla luce dei diritti reali così come disciplinati dal codice civile (usufrutto, servitù, superficie, uso), rilevando l’irriducibilità della bandita ad uno o all’altro istituto. Questo non sorprende se si considerano le sue radici medievali, aliene dalle astrazioni razionalistiche e pandettistiche dei secoli XVIII e XIX241. La bandita assume invece una ben precisa fisionomia se la si inserisce nel contesto delle situazioni reali dell’età intermedia, ove la scomposizione dei diritti in relazione alle diverse utilità offerte dai fondi era la regola e la promiscuità dei godimenti in capo a diversi soggetti richiedeva strumenti giuridici altrettanto flessibili. È insomma dal punto di vista degli strumenti “pubblicistici”, di governo del territorio tramite la definizione dei diritti collettivi (riflettenti i rapporti socio-economici) che si possono inquadrare storicamente le bandite, senza snaturarne la realtà storica242. Le bandite presenti sul territorio del capitanato di Pieve di Teco erano chiaramente volte a limitare il pascolo del bestiame in alcuni siti durante determinati mesi dell’anno. Titolare del potere di dichiarare bandito un fondo era la comunità, tramite i propri rettori, ma il contenuto del bando risulta variabile. Gli statuti di Vessalico ad esempio, nel prevedere le sanzioni per gli ufficiali che avessero infranto il regime delle bandite, ammettevano che uno qualsiasi dei vari iura esercitabili potesse essere oggetto di limitazione ed erano perlopiù concesse a titolo oneroso243. Altrove, come ad Acquetico, le bandite interessavano soprattutto alcuni boschi ricchi di castagni, ove si praticava però anche il pascolo degli ovini. Qui non era ammesso il pascolo dal 10 maggio alla festa di S. Caterina (25 novembre) per proteggere la fruttificazione dei castagneti e la bandita boschiva si associava ad un limite espresso al numero di capi che ciascuna famiglia poteva possedere244. A Moano, secondo i bandi campestri del 1607, il diritto di pascolo era libero e La classificazione è resa ancora più complicata dal fatto che nel nizzardo e altrove il diritto di bandita poteva insistere indifferentemente su fondi comunali e privati ed era trasferibile dal concessionario ad un terzo. 242 Le bandite esprimevano dunque uno degli strumenti con cui si organizzò lo sfruttamento economico di territori lontani spesso dai centri abitati e su cui incrociavano gli interessi di protagonisti diversi, dai singoli proprietari ai rettori che amministravano i beni comunali, fino agli ufficiali del governo. Il problema della legittimazione dei diritti possessori in un’area montana è affrontato da B. PALMERO, Regole e registrazione del possesso in età moderna. Modalità di costruzione del territorio in alta val Tanaro, in Quaderni storici, 103 (2000), pp. 49-85. 243 La rubrica «De officialibus corrumpentibus banditas Communis» puniva i rettori e i campari di Vessalico, Cartari e Ranzo, che avessero violato «aliquam banditam factam per homines alicuius ex locis praedictis de boscando, vel stirpando, seu arrancando arbores grossas, et minutas, et de laborando seu lignizando […] et de herbagiis cum suis bestiis» imponendo pene pecuniarie, IISL, Fondo Rossi, 27. Tale rubrica, qui trascritta solo in parte, non è presente nell’edizione di Battistin. 244 La scelta di limitare il possesso delle capre (due nell’anno successivo all’approvazione e una sola nei 5 anni seguenti) fu punto di discordia in seno al Parlamento di Acquetico, ma fu approvata ugualmente. Il motivo risiedette nella insufficiente capacità dei terreni privati e comuni di accogliere un alto numero di capi: «In detta villa non vi sono persone che possano pascolare ne i loro territorii e Possessioni salvo con danno d’altri particolari. Le terre communi per il pascolo possono capire il n. 30 di pastori in circa di bestie, et ogni pastore di dette bestie resta di n. 50, e sono dette terre capaci del numero suddetto per mesi tre e mezo in circa l’anno; il bestiame di detta villa in tempo 241 85 gratuito per i residenti e oneroso – perché occorreva aggiudicarsi un’asta – per i forestieri, che potevano esercitarlo in una bandita loro riservata245. Le bandite di Calderara erano interdette a tutti, residenti o stranieri246. La villa di Lovegno con i capitoli del 1624 assegnò ai consoli il poter di proclamare bandite le comunaglie da giugno a novembre247. Nella Vessalico di inizio Seicento quattro bandite erano affittate a titolo oneroso e una era destinata alla libera pastura del bestiame degli abitanti248. Nel 1719 però la decisione presa dal Parlamento vessalicese di bandire le capre e le pecore dal proprio territorio suscitò l’opposizione delle vicine ville di Lenzari e Lovegno poiché l’assemblea, senza l’intervento dei loro rappresentanti, aveva stabilito che ovini e bovini potessero pascolare soltanto nelle bandite comunali (Bandia, Castellasso, Chiaspola, Albarei e Bottasso) pagando due soldi per le minute e quattro per le grosse. Anche in questo caso la ratio consisteva nella protezione dei castagneti da maggio a fine novembre249. Le bandite si presentano dunque come uno strumento necessario per le comunità pievesi per contenere la pastorizia a fronte di un territorio che per la sua conformazione non si dimostrava ideale per questo tipo di attività, ma che d’altra parte non poteva neppure essere messa semplicemente fuori legge, a costo di causare un grave danno per ampi settori della società. Le bandite costituiscono inoltre l’esatto contrario dell’idea hardiniana dell’accesso libero ad una risorsa collettiva: il loro scopo era anzi quello di far convivere pratiche agricole potenzialmente confliggenti, modulando diversamente oggetto del diritto (erba, terra, legname) e soggetti titolari (affittuari anche stranieri, solo alcuni o tutti gli uomini della comunità o nessuno) lungo le diverse stagioni dell’anno. La concessione onerosa o gratuita permetteva alle stesse di andare incontro alla soddisfazione dei bisogni finanziari della comunità, come vedremo nel prossimo paragrafo a proposito della gestione dei beni. La tutela dell’agricoltura locale, in d’inverno secondo il solito si conduce alle marine, et in tempo d’estate sopra l’alpi di Viozena», ASGe, Senato Senarega, 2061 (RSL, n. 4). Non risultano peraltro frequenti i conteggi svolti dagli ufficiali genovesi per conoscere numero e qualità dei capi di bestiame posseduti dai propri sudditi, per comparazione cfr. S. BARBACETTO, Contare i fuochi e gli animali. Sul peso economico dei beni comunali in Friuli al principio del Seicento, in Quaderni storici, 155 (2017), pp. 350-381. 245 L’incanto dell’erbaggio si teneva ogni anno sotto l’egida del console della villa, ASGe, Senato Senarega, 1733 (RSL, n. 627). 246 ASGe, Senato Senarega, 1691, RSL, n. 186. 247 A Lovegno tutto il territorio campestre era bandito. Da giugno a novembre «non sia lecito ad alcuna persona di detta Villa, e forastiera da essa condurvi a pascere alcune bestie minute, e capri. Questi però, se passaranno l’età d’un anno, e non altrimente, sotto la medesma pena statuita di sopra a danno de forastieri per le terre del comune, e de forastieri. Sia però lecito al detto Console, o sotto console pro tempore di disbandire la metà, o più, e meno gli parerà, di detto territorio campestre, e di permetter il pascolo passata la festa di S. Bartolomeo conforme al solito». La vigilanza era rimessa ad un camparo, ASGe, Senato Senarega, 1832, RSL, n. 602. 248 «La bandia del tono si affitta ogn’anno (L. 12); la Bandia del Comune (L. 70); un’altra zerbida (L. 200); un’altra detta Bottazzo (L. 200)»; ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 147 r-v. 249 ASGe, Magistrato delle Comunità, 530. 86 particolare dell’ulivo e del castagno, influenzò l’esercizio del diritto di pascolo non solo sui fondi privati ma anche su quelli comunali. Il bestiame, specie gli ovini, destinatari di restrizioni crescenti tra il XVII e il XVIII, furono così via via allontanati dalla bassa valle Arroscia e sospinti durante l’estate verso il pascolo d’altura a Viozene250. Circa lo ius lignandi e lo ius colligendi delle castagne nei boschi comunali, poco si dice circa le concrete modalità di esercizio. Molteplici le misure sanzionatorie contro i danneggiatori dei castagneti, la cui piantumazione nei boschi comunali era gestita dalla comunità stessa. Nel silenzio dei bandi si deve ritenere che il diritto spettasse agli uomini della comunità. I capitoli del 1599 di Pieve di Teco, seguiti poi dai regolamenti di alcune comunità vicine, codificarono espressamente uno dei c.d. “usi dei poveri”, cioè i diritti di raccogliere frutti (spighe, grappoli d’uva, castagne…) sfuggiti alla raccolta del padrone o non ancora colti, per l’esclusivo uso personale in caso di necessità251. Non sono da considerarsi usi civici veri e propri ma simili forme consuetudinarie di servitù anomale si riscontrano in molte parti d’Europa252. In chiusura un discorso a parte lo merita l’altopiano di Viozene, per il quale le principali fonti per l’accertamento dei diritti collettivi sono un lodo pronunciato dall’arcidiacono di Alba Bartolomeo e dal Marchese di Clavesana Ottone il 10 ottobre 1226 e i Capitula Viozene, di Sulla coltivazione e gli impieghi del castagno nell’economia dell’Italia nord-occidentale, quale sostitutivo di altri cereali, vedi almeno R. COMBA, Metamorfosi di un paesaggio rurale. Uomini e luoghi del Piemonte sud-occidentale (XXVI secolo) Torino, 1983; B. ANDREOLLI, M. MONTANARI (a cura di), Il bosco nel medioevo, Bologna, 1988, D. BACINO, Le terre del castagno nel Piemonte sud-occidentale (secoli XII-XVI), in Economia, società e cultura nel Piemonte bassomedievale. Studi per Anna Maria Nada Patrone, Cavallermaggiore, 1996, pp. 155-170. Per spunti comparatistici circa il ruolo di statuti e bandi rurali per la tutela dei prodotti agricoli locali e la disciplina delle bandite, senza alcuna pretesa di completezza, vedi oltre al già citato lavoro di Dani A. CORTONESI, Ruralia. Economie e paesaggi del medioevo italiano, Roma, 1995, in particolare pp. 69-120; D. NOVARESE, “Pro jure pali”. Tutela delle colture ed esigenze del pascolo in Sicilia, fra legislazione regia e norme consuetudinarie (secoli XII-XV), in La pastorizia mediterranea, cit., pp. 119-132; F. L. SIGISMONDI, La disciplina del pascolo e i “danni dati” negli statuti laziali della prima età moderna, ivi, pp. 276-295; A. CROSETTI, Potere e territorio: eclissi dell’autonomia comunale. I bandi campestri nel territorio albese tra XVII e XVIII secolo, in M. ORTOLANI, O. VERNIER, M. BOTTIN (a cura di), Pouvoirs et territoires dans les États de Savoie, Nice, 2010, pp. 341-352. 251 L’uso era riconosciuto solo per gli stranieri, tenuti al solo risarcimento del danno, a patto che non si fossero introdotti nei campi in presenza del proprietario, perché in tal caso si sarebbe trattato di furto: «Li viandanti forastieri cioè alieni da questa giurisdittione che alle volte per stanchezza entrano nelle terre per mangiare un poco di uva o fichi per rinfrescarsi e non fanno danno notabile siano esclusi dalle suddette pene e solamente restino ubbligati all’emendare il danno per loro fatto», ASGe, Senato Senarega, 1703, RSL, n. 745. Tale articolo fu trasposto quasi integralmente nei successivi capitoli di Muzio del 1606 (ASGe, Senato Senarega, 1691, RSL, n. 652). A Calderara la raccolta di castagne dei non abbienti era garantita dal divieto di pascolo nei castagneti dalla festa di S. Bartolomeo (24 agosto) a quella di S. Andrea (30 novembre), vedi ad es. i capitoli del 1601 in ASGe, Senato Senarega, 1691 o quelli del 1612 in ASGe, Senato Senarega, 1733. 252 Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 340-350. 250 87 probabile origine duecentesca e sicuramente antecedenti l’atto del 1491253. Dopo la frantumazione del dominio Aleramico e la crescita demografica degli ormeaschi, la contesa con i pastori di Pieve per l’accesso a Viozene trovò una sua prima composizione con il lodo pronunciato nel 1226254. Gli arbitri stabilirono che gli uomini di Ormea potessero utilizzare il sito di Viozene nei mesi invernali (da metà ottobre a metà aprile), lasciando invece la terra libera per il pascolo estivo ai pievesi, ai quali fu inoltre riconosciuto il diritto di far bandire i pascoli dai signori di Ormea e la facoltà di transitare attraverso il territorio di Ormea per due giorni e due notti con le mandrie senza recare danno ai campi. Nel 1340 un nuovo arbitrato non apportò mutamenti di rilievo255. Ciò conferma l’assoluta ordinarietà nel panorama giuridico medievale della compresenza di eterogenei diritti d’uso sulla terra facenti capo a soggetti – anche collettivi - differenti. Una situazione, questa, che caratterizzò in generale la regione delle Alpi marittime, dove la persistenza di usi civici promiscui si rinviene anche tra le comunità dell’alta Provenza e del Piemonte sudoccidentale256. I capitoli furono quindi redatti in attuazione del primo arbitrato e riservavano agli abitanti nella castellania di Teco che “facevano foco” e a coloro che possedevano un pezzo di terra a Viozene pur senza essere residenti lo ius pascendi. Il diritto dei secondi era però subordinato al pagamento di una taglia. Il pascolo era praticato durante la stagione estiva entro termini stabiliti: ammontava a sessanta soldi la pena per gli animali condotti al di fuori dei termini. Vedremo tra poco che la titolarità del diritto fu poi estesa anche ai residenti di altre comunità. Il diritto di far legna era ammesso per gli usi domestici, mentre era proibita la pratica del roncamento. Notevoli sono gli sforzi compiuti dai capitoli per conciliare la pastorizia con le coltivazioni, protette dai Copie dei capitoli in ACSPDT, Libro dei decreti antichi della Pieve; ASGe, Giunta dei confini, 94. Stando ad un’allegazione forense settecentesca che fa riferimento a non meglio precisati «statuti di detta Castellania di Teco sopra il detto territorio di Viozenna, suoi Gastaldi, e Custodi», il testo potrebbe risalire al 1292. 254 Cfr. J. DURANDI, Delle antiche contese de’ pastori di Val di Tanaro e di Val d’Arozia e de’ politici accidenti sopravvenuti, in Mémoires de l’Académie impériale des sciences, litérature et beaux-arts de Turin, 1809-1810, Turin, chez Felix Galletti imprimeur de l’Académie impériale, pp. 187-260, in particolare pp. 203-208. 255 Il testo citava le facoltà di «pascare et boschare per Viozena a fossattu Regini usque ad cullum Montis Nigri et a Tanagro usque punta Alpium, sine aliqua exatione et banno», senza quindi attribuire la proprietà del sito ad uno dei due contendenti. Una copia del lodo in ASGe, Archivio segreto, 355. Sulla sentenza vedi cenni, oltre che nel già citato lavoro di Durandi, in G. COMINO, Economia, scambi e signoria locale, cit., p. 243. Nel 1340 la sentenza pronunciata da Raffaele Doria confermo la potestà di Pieve di Teco di bandire Viozene ai sensi del lodo duecentesco, precisando che nelle vesti del soggetto passivo dovevano ora considerarsi i Marchesi di Ceva, succeduti ai signori di Ormea. L’erbaggio di Viozene, vale a dire il diritto di pascolare i bestiami, fu attribuito ai pievesi, con esclusione tanto dei Marchesi di Ceva – ai quali però spettava una parte delle decime riscosse da Pieve - quanto degli uomini di Ormea. Soprattutto, oltre a confermare il diritto di lavorare e coltivare il sito, Doria concesse ai pievesi la facoltà di creare dei campari ad hoc per Viozene, ASGe, Archivio segreto, 2. 256 Cfr. J. LASSALLE, La propriété collective dans le haute Roya à travers les règlements de contentieux territoriaux (XIIee XV siècles), in Propriété individuelle et collective, cit., pp. 25-46. 253 88 danni causati da pecore, ovini e capre con sanzioni pecuniarie di varia portata. Il diritto di semina era ammesso in una zona specificamente individuata e al suo interno gli eventuali appezzamenti indivisi dovevano essere lavorati rispettando i diritti del comproprietario257. 1.c) La gestione dei beni tra necessità finanziarie e giurisdizionali Se la conformazione dei diritti collettivi nel capitanato pievese tese a proteggere le comunaglie (specie i castagneti) dalle esternalità negative causate del pascolo estivo, l’analisi della gestione delle risorse può indicare quali furono le dinamiche politiche legate alla loro amministrazione. Risulta centrale sia per i borghi principali di Pieve e Vessalico, sia per le ville minori, il ruolo del Parlamento comunitario, formato dai residenti maschi. A queste assemblee spettava il compito di approvare i bandi campestri, eleggere i campari e approvare gli atti di disposizione delle comunaglie proposti dai consoli. Per quanto concerne i bandi campestri, il contenuto era determinato integralmente in sede locale, con sporadici interventi del Capitano genovese. I controlli svolti dal Senato e talvolta dal Magistrato delle Comunità dopo il 1623, riguardarono solitamente la moderazione delle pene e la precisazione dei limiti giurisdizionali dei consoli delle ville. Ad esempio le pene stabilite dai capitoli campestri di Calderara furono tutte ridotte della metà dal Senato258, mentre più puntuali furono i correttivi apportati ai bandi di Armo del 1641, dove i Governatori relatori Giacomo Saluzzo e Giobatta Imperiale proposero al Senato di modificare l’età minima per incorrere in responsabilità, i diritti di pascolo sulle proprietà private e pubbliche, la giurisdizione del Capitano di Pieve per le liti intorno all’uso dell’acqua e l’età minima per il giuramento dell’accusa259. Anche sugli atti dispositivi furono i Parlamenti il luogo istituzionale preposto all’adozione delle decisioni e dell’individuazione dell’interesse pubblico prevalente. La messa all’asta dell’erba di un pascolo, o la vendita del diritto di taglio in un certo bosco comunale erano questioni che coinvolgevano l’intera comunità e dovevano pertanto essere trattate nel consiglio “largo”, in Era infatti vietato «laborare, vel seminare, seu laborari, vel seminari facere in Viozena in terra, que sit de consortibus pro indiviso, sine voluntate consortium, tunc quilibet ex consortibus possit et debeat habere suam partem laborerii pro illa parte, quam in terra haberet, sive eo quod teneretur restituere partem aliquam illi, qui dictam terram laboraverit de laborerio suo», ASCPDT, Libro dei decreti antichi, cc. 9 r-v. 258 ASGe, Senato Senarega, 1733. 259 ASGe, Senato Senarega, 2040 (RSL, n. 108). 257 89 ossequio al principio secondo il quale «Quod omnes tangit, ab omnibus abprobari debet»260. D’altronde non mancarono illeciti o sotterfugi per far passare surrettiziamente alienazioni o locazioni svantaggiose per la comunità. I verbali delle sedute del Parlamento di Pieve di Teco e i censimenti patrimoniali di inizio XVII secolo permettono di ricostruire una linea di tendenza circa la gestione dei beni e di trovare conferma del fatto che nel novero dei beni comunali rientravano risorse sottoposte a differenti vincoli di indisponibilità, mai codificati una volta per tutte. Emerge poi con chiarezza il peso non trascurabile degli introiti derivanti dallo sfruttamento patrimoniale delle risorse collettive per i bilanci di diversi centri del capitanato. Il bosco pievese della Bandiazza era concesso a livello alla comunità sabauda di Cénova per un canone di 45 lire, mentre la terra dei Croxi era in affitto ad alcuni privati, per un introito complessivo di 103.13 lire. Acquetico dall’insieme delle bandite, affitto dei prati e vendita dei frutti (legnami e castagne) ricavava lire 366.13.4. Per le ville inferiori spicca invece la partecipazione ai ricavi prodotti dai mulini di Vessalico. Alla comunità principale, che vi partecipava per la metà, rendeva 700 lire annue al momento del censimento. Siglioli e Cartari ricavavano 290 lire (con una quota di ¼)261 mentre Lenzari e Gazzo 145 lire262. Su cifre più basse, ma in scala ugualmente significative, si attestano le entrate per i mulini da grano posseduti in comune da Bacelega, Borghetto d’Arroscia, Arancio (Ranzo) e Ubaga263. La locazione periodica di boschi e pascoli risulta praticata fin dal 1576, ma è altamente probabile che fosse una prassi molto più risalente264. Apposite delibere di vendita di legna tratta dai boschi comunali o di pascoli furono approvate allorquando particolari situazioni debitorie Sul principio del quod omnes tangit cfr. G. ERMINI, Il principio «quod omnes tangit etc.» nello Stato della Chiesa del Seicento (secondo il pensiero di G. Battista De Luca), in Rivista di storia del diritto italiano, 1976, pp. 279-300; A. CAMPITELLI, «Plures ut singuli, plures ut universi»: alle origini del principio maggioritario, in A. CIANI, G. DIURNI (a cura di), Esercizio del potere e prassi della consultazione, Città del Vaticano - Roma, 1991, pp. 55-68; A. DANI, Usi civici, cit., pp. 389-398. 261 Nel loro caso tuttavia l’affitto di «una terra prativa, boschiva, zerbida e castagnativa detta li Collarei, et Albarei» rende ben 394 lire, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 148 r. La stessa relazione chiarisce che in realtà solo la località Collarei è oggetto di locazione, poiché quella degli Albarei «non si vende, ma gl’huomini di dette Communità se ne servon per pascolo». 262 Anche in questo caso si registrano usi promiscui tra comunità diverse. Gazzo infatti ha un bosco detto la Chiazza posto entro i confini di Lenzari. Il terreno Salvago, che verosimilmente è il medesimo descritto tra i possessi di Lenzari, presenta analoghe caratteristiche di indisponibilità («non si suole vendere né appigionare, ma vi pascono li bestiami degli huomini di detta Communità»). Al contrario le terre delle Chiazze sottane sono affittate ogni anno per 36 lire di Pieve, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. .154 r. 263 I mulini comuni si trovano uno a Borghetto e un altro a Bacelega e dalla sommaria descrizione si apprende che erano muniti di tre ruote ad acqua ciascuno. I ricavi per Borghetto ammontano a 88.3 lire, per Ubaga 47 lire, per Ranzo lire 189 e Bacelega 200 lire, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 149 r, 151 v, 156 r, 157 r. 264 Il contraente veniva scelto mediante asta con rilancio immediato dell’offerta. L’incanto del 28 settembre 1576, in cui fu locata «herba Coste Sorie pascanda iuxta solitum», è il più antico attestato dai registri delle deliberazioni di Pieve di Teco, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1575-1582, c. 55 r. 260 90 costrinsero ad adottare misure ad hoc. Nel 1606 il Parlamento di Pieve decise di liquidare entro cinque anni un debito di 1.600 scudi, da reperire tramite la vendita all’asta del legname del bosco comunale e i pascoli di Rabina – precisando che quelli di Costa Soria erano già stati affittati265. I dibattiti in seno al Parlamento pievese non mancarono. Nel 1614, in occasione del nuovo affitto dei pascoli delle località Rolandi e Costa Soria per un anno, furono tre dei quattro Consoli a proporre che: «dicte herbe et pascuorum locationem libera facere, ad magis utile Communis, ut in eis ire pascare possint ac bestis nullis exclusis». Ad essi rispose il quarto console Giuseppe Bonello sostenendo che «è più utile del Comune locarle perché non gli vaddino capre, né buovi a menor prezzo, perché crescerano li arboscelli»: si procedette quindi come di consueto266. La situazione non migliorò durante il Seicento, quando Pieve e le ville circostanti dovettero far fronte alle conseguenze economiche delle guerre contro il Ducato di Savoia. Le spese conseguenti furono affrontate facendo ricorso alla stipulazione di contratti di censo, garantiti anche dai beni comunali, o direttamente alla vendita di alcuni beni, soprattutto boschi267. La situazione emergenziale in cui versavano alcune comunità rese più frequenti i tentativi di aggirare le procedure legali per lo svolgimento delle vendite, come vedremo nel prossimo capitolo. L’amministrazione delle comunaglie della bassa valle rientrava dunque tra le normali competenze degli organi di governo locali. Il discorso invece cambia per la gestione dell’alpe di Viozene. Sull’altopiano si dirigevano anche le greggi di Ormea e dalla fine del XVI secolo si appuntò sul suo controllo il lungo conflitto tra Repubblica genovese e Ducato sabaudo del quale si parlerà meglio nel prossimo paragrafo. Per ora basti dire che un sito di pascolo così lontano dal centro principale, condiviso tra più comunità e oggetto di una contesa secolare richiedeva accorgimenti supplementari, sotto i profili delle modalità di utilizzo che delle figure di controllo. ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1606-1618, cc. 3 r.-5r. ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1606-1618, cc. 220 r-v. A Settecento inoltrato il bosco della Rabina si trovava però in pessime condizioni. Bartolomeo Volpe, atteso che «altro quasi più non restavi che scogli, che niente frutta», propose ai Consoli di Pieve e Acquetico di concedergli il sito di Rabina in enfiteusi per tre generazioni, dandogli facoltà «d’aggregarlo, e piantarvi con darli allevati, alberi quarantacinque di castagna». Il canone pari a quattro lire genovesi sarebbe stato corrisposto solo a partire dal 12° anno, ma i rappresentanti delle ville superiori decisero di svolgere un’asta pubblica per la concessione a livello del sito, ASCPT, Libro dei Parlamenti delle Ville superiori di Pieve, cc. 57 rv. 267 Vedi ad es. la delibera del 20 febbraio 1628 per la costituzione di un censo di 440 scudi in ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1627-1637, c. 7. Dopo la guerra del 1625, la Repubblica intraprese l’ammodernamento delle mura del borgo di Pieve tra il 1626 e il 1628 e, come di consueto, il finanziamento dell’opera avvenne anche mediante la creazione di una nuova imposta il cui riparto tra borgo e ville diede luogo ad un lungo contenzioso. Cenni in E. LUSSO, Territorio, infrastrutture e tutela militare. I confini sabaudo-piemontesi in età moderna, in G. ASSERETO, C. BITOSSI, P. MERLIN (a cura di), Genova e Torino. Quattro secoli di incontri e scontri, Genova, 2015, pp. 187-214. 265 266 91 L’altopiano era diviso tra le comunità in una zona di pascolo e una destinata alla semina di legumi, segale e altri ortaggi. In particolare la campagna di Viozene era suddivisa in numerosi lotti (gli sciorti, volgarizzazione del latino sortes) oggetto di locazioni pluriennali. L’assegnazione era gestita dai consoli del borgo di Pieve e delle ville in possesso di una porzione del sito. Sui conduttori gravavano diversi obblighi: pagare la camparia, costruire baracche o rifugi laddove non ve ne fossero e conservare e migliorare le condizioni di quelli esistenti, seminare e consegnare una quota variabile di stare di segale. I fondi erano consegnati ai vincitori per la festa di S. Michele (8 maggio) e i contraenti potevano indicare un fideiussore a garanzia del pagamento della quota di segale dovuta. Gli appezzamenti venivano assegnati inizialmente uno per uno, mediante il toponimo identificativo almeno fino al 1611268. Nel 1634 si procedette invece a locare per otto anni la campagna ad un unico soggetto per 1.250 lire, con le consuete clausole. L’affitto della campagna in un unico lotto richiedeva certamente disponibilità maggiori di capitale ma rendeva anche più semplice l’amministrazione del sito per il Comune, e fu praticata fino alla fine del Settecento. Dal punto di vista istituzionale, ciò che rende peculiare il caso di Viozene è la previsione di una magistratura apposita per la gestione del pascolo e delle altre attività agricole: il gastaldo. Di questo antichissimo ufficio di derivazione longobarda, sottoposto nel tempo a variazioni notevoli quanto a statuto disciplinare, si trovano tracce anche in altre zone di montagna, come in alcune carte di regola trentine, dove il gastaldo svolgeva le funzioni di giudice e curava la concreta applicazione degli ordini delle Regole269. A Viozene operavano due gastaldi, uno per il borgo di Pieve di Teco e l’altro per le ville superiori, competenti con pari funzioni ciascuno per la propria Secondo Calvini a Viozene si contavano ben 73 sortes, cfr. N. CALVINI, A. CUGGÈ, Gli antichi percorsi del sale. Dalla Riviera di Ponente al territorio piemontese. Commercio e contrabbando, Imperia, 1995, p. 87. I contratti di locazione conservati in ASGe, Giunta dei confini, 94 identificano col toponimo 23 sortes, per le quali erano dovuti tributi in segale pari a 265 stare. 269 Vedi ad esempio la carta di Regola di Arsio e Brez del 1603, dove il gastaldo era giudice delle differenze in secondo grado, dopo la prima pronuncia dei regolani. Gli “Ordini e capitoli della regola di Santa Maria di Binde di Mori” del 1616 più diffusamente enunciavano che i gastaldi dovessero amministrare le entrate della regola e difenderne le ragioni, sovrintendendo al rinnovo delle cariche e all’aggiornamento periodico dei residenti aventi diritto, cfr. F. GIACOMONI (a cura di), Carte di regola e statuti delle comunità rurali trentine, vol. II, Milano, 1991, pp. 365-375 e 525530. In Liguria tracce del gastaldo si rinvengono nei Libri iurium: come amministratore del castello di Baiardo a metà Duecento (E. PALLAVICINO (a cura di), I Libri iurium della Repubblica di Genova, Genova, 2002, vol. I/8, p. 293), a Parodi Ligure, cfr. S. DELLA CASA (a cura di), I Libri iurium della Repubblica di Genova, Genova, 1998, vol. I/4, n. 751), a Celle, Varazze e Albissola tra i giudici civili nella convenzione con Genova del 1343, M. LORENZETTI, F. MAMBRINI (a cura di), I Libri iurium della Repubblica di Genova, Genova, 2007, vol. II/2, n. 49). 268 92 parte di altopiano270. I gastaldi venivano entrambi eletti in occasione della festa di S. Michele. I quattro Consoli di Pieve, a tenore degli statuti antichi, dovevano eleggere una persona che: «Regat ius, et iustitiam in burgo Plebis pro territorio Viozennae de insultis, damnis, et guastis, tam pro nemoribus, blavis, segetibus, et pecudibus, et omni alio damno quod fiat, et pro tempore fiet in dicto territorio Viozennae, qui vocatur Gastaldus ut moris est, et qui regat ius, et iustitiam secundum morem, usum et ritum capitulorum Viozennae, et qui Gastaldus habeat Camparium qui sit executor, et executiones faciat prout semper fecerunt»271. La presenza di un ufficiale munito di funzioni giurisdizionali assicurava una regolamentazione di dettaglio per l’esercizio della semina, della caccia e della pesca, sovrintendendo alla transumanza delle greggi e alla riscossione di gabelle e pedaggi. Contro le sentenze civili e criminali pronunciate dal gastaldo era ammesso appello i consoli del borgo o delle ville superiori e, in ultima istanza, al Capitano giusdicente. Il 15 agosto il gastaldo delle ville superiori, e il 24 quello di Pieve, emanavano i loro proclami272. Si segnalano l’obbligo di registrazione presso il cancelliere della quantità e qualità delle sementi impiegate e dei frutti da raccogliere. Nulla poteva infatti essere asportato dalla campagna viozenese senza autorizzazione del Gastaldo, neppure per uso personale. Inoltre gravava l’obbligo sui conduttori del bestiame di denunciare al magistrato il numero dei capi portati in altura, pena di confisca degli stessi273. Erano infine proibite, salvo espressa licenza, la caccia e la pesca nel Tanaro. La funzione del gastaldo è dunque rilevante come autorità di regolazione e controllo dell’accesso all’altopiano. Se per le comunaglie della bassa valle era sufficiente l’operato dei campari in esecuzione dei bandi campestri, la delicata posizione di Viozene richiedeva Il Casalis cita un atto del 10 maggio 1268 per l’istituzione dell’ufficio di gastaldo a Pieve di Teco, cfr. G. CASALIS, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, vol. XV, Torino, 1847, p. 46. Incerta la data di creazione di quello delle ville, ma di certo, se non contestuale, ess avvenne poco dopo il 1491. La delicatezza dell’incarico era tale che nel 1622 tre consoli delle Ville superiori scrissero a Genova avvertendo che se si fossero verificate discordie tra le medesime ville, sarebbe stata danneggiata la stessa giurisdizione della Repubblica, ASGe, Senato Senarega, 660. 271 Statutorum civilium, cit., p. 134. Le regole per l’elezione del gastaldo sono contenute nelle c.d. “Nuove leggi della Comunità”(collocabili all’incirca negli anni ’70 del XVI secolo) e in una successiva riforma del capitolo De officialibus et eorum electione del 1589, cfr. ASGe, Archivio segreto, 15; ASCPDT, Libro dei decreti antichi, cc. 3 r-v. 272 ASGe, Giunta dei confini, 94 conserva più copie di proclami aventi date diverse, ma senza che nel corso del tempo vi siano state innovazioni. 273 L’accesso a Viozene era subordinato al pagamento di un pedaggio, dovuto tanto dai pastori che dagli agricoltori, a pena di 10 lire genovesi. 270 93 un’organizzazione più complessa274. Il gastaldo doveva anche ribadire ogni anno il dominio genovese su Viozene, in risposta alle pretese degli ormeaschi. Anch’essi infatti disponevano di un loro gastaldo, la cui legittimità ad emanare ordini per il pascolo e l’agricoltura era ovviamente contestata dai suoi colleghi pievesi275. Le trasformazioni che tra XVII e XVIII secolo interessarono l’utilizzo dei beni comuni in valle Arroscia dipesero infatti, in misura maggiore o minore, dalle liti di confine che Pieve e le comunità del capitanato sostennero con i vicini insediamenti sabaudi. Fu in questo frangente che il governo genovese si ingerì nella gestione delle risorse comunitarie, sovrapponendo agli interessi delle comunità locali il peso dell’interesse pubblico statale. 1.d) Le comunaglie pievesi viste da Genova: i diritti collettivi come strumento di governo del territorio e difesa dei confini Dopo aver ricevuto dal Banco di San Giorgio il dominio sulla valle Arroscia nel 1562, la Repubblica si trovò a dover governare un territorio segnato da tensioni e conflitti mai del tutto sopiti. Oltre a mediare le ordinarie questioni di confine tra comunità, da Genova si guardava con preoccupazione alla catena montuosa del Tanaro, per l’intenzione sabauda, più volte manifestata, di impadronirsi di Viozene e Pornassio per poter unire con una strada franca il porto di Oneglia (dal 1575 enclave dei Savoia entro il territorio genovese) con Ormea e il resto dello stato. Le liti per i diritti di pascolo tornarono allora utili per le reciproche affermazioni di sovranità su questa zona di confine. Lasciando sullo sfondo gli aspetti “geopolitici” della questione viozenese, già trattati in altre opere, preme in questa sede porre in risalto due aspetti: la capacità della Repubblica di manipolare all’occorrenza i diritti collettivi in vista del raggiungimento di un assetto territoriale L’ufficio di camparo fu un’istituzione flessibile, modificata a seconda delle esigenze nel corso del tempo e sulla quale si appuntarono le attenzioni del governo centrale per rendere più deterrente la polizia rurale in una delicata zona di confine. Nel 1611 si levarono reclami dalle comunità contro il tentativo di investire della cognizione per le accuse campestri il Capitano di Pieve, in rottura delle precedenti consuetudini e degli statuti che assegnavano tale competenza ai consoli. Un secondo tentativo fu condotto dal Commissario generale per la visita ai confini della riviera di Ponente Giovanni Battista Raggio, nel 1651, che propose al Senato di sostituire i sei campari stipendiati dalla comunità con una squadra composta dal bargello, sei famigli e un cavallero a pari stipendio, con facoltà di eseguire le sentenze di condanna. Il Senato approvò la relazione l’undici settembre 1653 ma considerato che nel 1714 furono approvati dal Parlamento di Pieve nuovi capitoli per i campari, verosimilmente non se ne fece nulla, ASGe, Archivio segreto, 38, 254. 275 Emblematica è l’annuale revoca dei proclami sulla pesca, la semina e la caccia emanati dal gastaldo ormeasco in occasione della festa di S. Bartolomeo, sostituiti dai proclami dei gastaldi liguri sulle stesse materie, ASGe, Giunta dei confini, 94. 274 94 ottimale e la trasformazione nel corso del tempo degli usi civici in prove del dominium e quindi della sovranità statale sul territorio276. Va preliminarmente osservato che la restrizione dell’esercizio degli usi civici ai terrieri fu una costante dei bandi campestri approvati dalle ville del capitanato277. Questo progressivo irrigidimento del requisito della residenza, se comune a moltissime altre realtà locali, trova una sua ragion d’essere anche nella situazione peculiare di molte comunità della valle, adiacenti a villaggi o feudi ricadenti sotto sovranità diverse da quella genovese. Le comunità della Valle Arroscia cercarono di escludere i sudditi del Duca piemontese dal godimento dei loro beni collettivi per prevenire questioni giurisdizionali tra i rispettivi Stati278. Tra le controversie che si svolsero in valle, una particolarmente significativa ebbe come contendenti la comunità genovese di Acquetico e la sabauda Cènova nel 1685 per un terreno di pascolo sito entro i confini di Acquetico (l’Alpetta) ma sul quale i cenovini erano soliti portare gli animali a pascolare e tagliare il fieno da lungo tempo. La lite prese avvio nel 1683 quando i campari di Acquetico istruirono processi per danno campestre contro i pastori di Cènova. Dopo aver assunto sommarie informazioni, Il 22 marzo 1684 il Capitano di Pieve Giulio Cesare Usodimare illustrò alla Giunta dei confini i termini della controversia: «I prati suddetti sono situati nel territorio di Acquatico dominio di VV.SS. Serenissime e che restano posseduti dalli huomini di Cenova, per il raccolto dell’herbe estive. Pretendono però detti d’Acquatico, che dopo il raccolto dell’erbe estive non possano quei di Cenova più pascolare nelli detti prati in tempo di autunno, ed inverno, ma bensì, che detto Cfr. P. PALUMBO, Un confine difficile. Controversie tra la Repubblica di Genova e il Regno di Sardegna nel Settecento, Torino, 2010, pp. 17-25, 53-69, 175-196 e relativa bibliografia. Sulle problematiche di confine con la provincia nizzarda vedi B. DECOURT-HOLLENDER, Les limites du Comté de Nice et de la Republique de Gênes au XVIIIe siecle: affermissement de la frontière politique et défense de la «raison territoriale» des communautés, in M. ORTOLANI (a cura di), Pouvoirs et territoires dans les États de Savoie, Nizza, 2010, pp. 181-190. 277 Nello specifico, Calderara introdusse un divieto di custodia di bestiame appartenente a soggetti forestieri fin dalla prima redazione dei bandi campestri nel 1601, sotto pena di tre lire per ogni giorno e per ciascun capo (ASGe, Senato Senarega, 1691). La già menzionata riserva di pascolo per gli stranieri in vigore a Moano dal 1607 era giustificata dagli intrecci famigliari tra moanesi e sudditi sabaudi («E perché la comodità che danno le persone del luogo a forastieri per parentella, amicitia, o guadagno di condur bestie a pascolare nel territorio di Moano apporta grandissimo danno […]») ASGe, Senato Senarega, 1733. Nel 1623 fu poi introdotto l’obbligo di segnare gli animali per distinguerli dagli altri, ASGe, Senato Senarega, 1822, RSL, n. 629. 278 Emblematico un processo per l’illecito taglio di fieno in parte nel prato comune di Valdebelle e in parte su fondi privati a Calderara. Un certo Gregorio Tomati di Lavina, comunità suddita del Duca di Savoia, aveva lasciato in custodia una decina di bovini ad un uomo di Calderara, in violazione dei locali bandi campestri che proibivano espressamente la custodia di bestiame appartenente a sudditi ducali e il taglio di fieno e alberi nel territorio della villa pievese. In forza di tali norme, il Console comunicò al Capitano di Pieve di voler procedere. La Giunta dei Confini, investita della lite, propose ai Collegi di ordinare al Capitano, una volta accertati i fatti, di sequestrare e vendere i bovini del Tomati, illecitamente stanziati a Calderara, a titolo di risarcimento dei danni patiti dai privati. La lite è in ASGe, Archivio segreto, 76. 276 95 pascolo spetti solamente ad essi d’Acquetico […] Ho avuto notizia, che in Mendatica, e Pornassio, vi fossero qualche pastori prattichi di simile affare; e quelli fatti chiamare ho da essi inteso, che prima della passata campagna dell’anno 1672, quei di Cenova godevano, e possedevano liberamente e pacificamente i detti prati, tanto nel raccolto dell’erbe estive, quanto autunnali»279. A regolare i rapporti giuridici tra le comunità era intervenuta nel 1472 una sentenza che aveva costituito il diritto dei cenovini di «gaudere et usufructuare» dei prati «sub modis formis, et conditionibus quibus soliti sunt et non ultra» in cambio di una taglia di 4 soldi per ogni quadrimestre pagata ai rettori di Acquetico. Inoltre Cènova non avrebbe potuto cedere il proprio diritto se non agli uomini di Acquetico. Visto il perdurare della tensione per il desiderio dei cenovini di incrementare le proprie (scarse) terre di pascolo, la Giunta dei confini inviò in valle Arroscia il cancelliere Gio. Batta Garello, munendolo dei necessari poteri di arbitrium per comporre la causa. È interessante notare che nella lettera di istruzioni per Garello la Giunta non ritenne di ergersi a difesa di un uso civico della propria comunità soggetta - tutt’altro che provato con certezza – ma considerò prioritario conservare in mani genovesi la strada per Pornassio, che passava vicino alla zona contesa. Per raggiungere l’obbiettivo Garello avrebbe potuto anche modificare i diritti di pascolo, andando incontro alle pretese di Cènova: «Hor si come per quello riguarda il pascolo in tutto l’anno nel detto terreno Alpetta goduto da quei di Cenova, resta di poca consideratione l’accordarglielo per più de i mesi sei, et anche quando abbisognasse permetterglielo in tutto l’anno, così di non leggiero momento ci resta non dilatarle il confine per tutte le ponderationi, che vi sono, non solamente di non ampliare a detta Villa, o sia particolari il territorio, ma più per quella di unirsi al detto sentiero, o sia straditto, che porti alla strada della Briga. Sarà per tanto luogo, che voi con la vostra destrezza rimostrando a quei di Cenova le ragioni, che vi sarebbero di non accordarle il pascolo, se non dalli sette di Marzo, sino alli otto settembre andiate giuocando opportunamente la carta dell’arbitrio di più mesi, accordandoglielo per più tempo, et anche per tutto l’anno se abbisognasse, ne limiti però del terreno sudetto da noi desiderati, cioè sino al principio della strada, che curvando porta verso la Briga, e non sino al sentiero più inoltrato verso il territorio di Pornassi, come essi pretendono, avertendovi però in questa parte ad esser inflessibile ad alcun partito, che ne meno per un palmo si entri oltre la detta strada, che di sopra vi habbiamo espresso»280. Lo ius pascendi di cui erano titolari le due comunità dal sette marzo all’otto settembre cessava di sussistere a vantaggio di Cènova a partire dal giorno dopo, lasciando agli uomini di Acquetico la fruizione esclusiva dell’Alpetta durante l’autunno e l’inverno, ASGe, Archivio segreto, 89. 280 ASGe, Archivio segreto, 89. 279 96 Garello concluse con successo la sua missione di arbitro delimitando il territorio dell’Alpetta secondo le direttive della Giunta e modificando i diritti d’uso del pascolo in senso estensivo per Cenova rispetto alla situazione a quo. In particolare il compromesso elaborato riconobbe a Cènova un diritto esclusivo di utilizzo dell’Alpetta limitato a ventidue giorni (8 settembre – 1 ottobre), mentre da ottobre al 7 marzo sarebbe stata posseduta in comune281. Composta la lite, il governo si adoperò perché la terminazione non restasse solo sulla carta. A fronte del rischio che gli uomini di Acquetico abbandonassero il pascolo sull’Alpetta, con un decreto del 16 giugno 1685 la Camera di finanza ordinò: «a qualunque persona di detto luogo, che ha, o averà per avvenire più di sei bestie lanute di qualsivoglia sorte, sia obligato a condurle o farle condurre a pascolare in dette alpi tanto nel corrente quanto negli anni avvenire, sotto pena della perdita delle bestie sopradette, e d’ogni altra a noi arbitraria». Il modo di procedere della Giunta e l’operato di Garello dimostrano che i diritti collettivi erano considerati utili strumenti di controllo del territorio e di governo delle risorse collettive, da assegnare ai soggetti coinvolti tramite un processo di negoziazione. Un processo nel quale entravano anche interessi di più ampio respiro, giudicati prevalenti dal Senato. In vita della tutela di questi interessi (nel caso di specie, la conservazione della strada) era ammessa anche la deroga arbitraria delle consuetudini, considerate invece intangibili dagli attori locali. Nel caso di Viozene il governo dovette affrontare una situazione molto più spinosa: le aggressioni ai pastori e i furti di bestiame erano molto più frequenti rispetto ad altri siti di frontiera del capitanato e le manovre dei piemontesi per impadronirsi dell’altopiano erano più evidenti. Già nei primissimi anni del Seicento, e ancor di più dopo le guerre del 1625 e del 1672, occorse disporre una scorta armata per la salita al pascolo282. La perdurante conflittualità con gli ormeaschi si riverberò negativamente anche sulla redditività della risorsa. Il rischio di incorrere in gravi incidenti rese infatti meno appetibile l’aggiudicazione dell’appalto del pascolo e della campagna viozenesi, tanto che tra il 1630 e il 1632 il Parlamento di Pieve di Teco dovette gestire la «Restò in oltre concertato, che solamente dentro i confini sovra accennati, cioè dal detto colletto sino alla via, che conduce alla Briga, e non oltre havessero gli huomini di Cenova il ius di mietere, e raccogliere i fieni alla forma di detta sentenza dalli sette di marzo sino alli otto di settembre, e che rispetto alle herbe autunnali dovessero queste spettare alli istessi di Cenova per tutto settembre d’ogni anno privamente a quei di Aiguetico, e dal primo ottobre sino a i sette di Marzo tali pascoli restassero communi tra le dette Università». La desistenza a proseguire con le accuse campestri e la restituzione dei capi sequestrati segnò la fine delle ostilità e permise a Garello di apporre i termini divisori, ASGe, Archivio segreto, 89. 282 Nel 1603 l’ordine di scortare il bestiame fu dato dal Capitano di Pieve, cfr. ASGe, Senato Senarega, 1659. Nel 1630 fu invece il Parlamento di Pieve di Teco ad approvare la proposta di far scortare le greggi a spese della comunità, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1627-1637, c. 46. Nel 1673 fu rivolta analoga richiesta alla Giunta dei confini, ASGe, Archivio segreto, 81. 281 97 risoluzione del contratto per la manca previsione di un’assicurazione pubblica su parte delle greggi condotte283. I conduttori lamentarono la difficoltà di riscuotere i canoni dai locatori delle sortes e molti affittuari delle campagne iniziarono a sub-locarle ad uomini di Ormea, eludendo nei fatti il dettato della legge del 1637 che proibiva l’alienazione per mezzo di contratto, testamento, donazione, di qualsivoglia immobile posto ai confini dello Stato284. Lo spopolamento del pascolo metteva a repentaglio la giurisdizione della Repubblica sull’altopiano. Fu in quest’ottica difensiva dunque che il Senato sollecitò i giusdicenti delle circoscrizioni vicine a Pieve (Andora, Albenga) affinché costringessero i pastori delle loro comunità a portare le loro greggi a Viozene, estendendo così il godimento del pascolo anche a soggetti appartenenti a comunità che non vantavano diritti riconosciuti su di esso, in forza delle sentenze medievali ancora pienamente in vigore alla fine del XVIII secolo. Viozene diventò dunque il pascolo “di sfogo” delle greggi dell’attuale ponente savonese285. La controversia con Ormea e il Re di Sardegna per Viozene rimase irrisolta fino alla Rivoluzione. La Repubblica ancorò a dei diritti collettivi formalizzati nel XIII secolo la legittimità del suo dominium sul sito e, di conseguenza, degli atti giurisdizionali compiuti dagli ufficiali di Pieve. Emblematiche le Osservazioni sopra la controversia di Viozenna di Gio. Agostini Ricci stilate nel 1726 per la Giunta dei Confini: «Non controvertivasi dagl’Olmetani nanti de Signori Arbitri il dominio, né la giurisdizione di Viozenna, ma unicamente lo gius di pascervi, e legnarvi per tutto l’anno, quale venivale proibito dagl’uomini della Pieve perloche essendo diverso lo gius di servitù dal dominio, atteso che chi pretende aver servitù in qualche predio, confessa quegli non esser L’assicurazione gravante sulle casse comunali avrebbe coperto un terzo delle pecore, mentre per i restanti due terzi sarebbero stati responsabili i conduttori delle Alpi e i padroni dei capi. A seguito del respingimento della proposta, i conduttori Antonio Lengueglia e Augusto Gandolfo comparvero in Parlamento personalmente per chiedere la risoluzione, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1627-1637, cc 48 v. – 49 r. Una seconda proposta di assicurare almeno la metà delle bestie portate a Viozene fu avanzata e approvata nel 1632, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1627-1637, cc. 106 r.-v. 284 Dopo la guerra del 1672 il conduttore della campagna di Viozene, che si era aggiudicato l’appalto per 1000 lire, chiese una riduzione del canone per la mancata raccolta degli ortaggi dovuta agli eventi bellici e alle aggressioni dei piemontesi, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1659-1679, cc. 173-174. La legge sull’alienazione dei possessi ai confini in ASGe, Archivio segreto, 1021. 285 La direzione impressa dal Senato trovò terreno fertile nella politica ostile al pascolo caprino già intrapresa nel corso dei Seicento dalle comunità interessate. Per il bando di Albenga ASGe, Senato Senarega, 2061; per Andora ASGe, Senato Senarega, 1708; il bando di pecore e capre da Zuccarello in ASGe, Magistrato delle Comunità, 306. I consoli di Pieve dovettero richiedere più volte al Senato di ordinare con proprio decreto ai pastori ingauni e andoresi la transumanza a Viozene (ASCPDT, Decreti del Senato della Repubblica di Genova, cc. 282 r-v). Nel 1780 l’ingegner Girolamo Gustavo, nella sua Annotazione sulla visita a Viozene rilevò che l’alpeggio accoglieva circa 3.000 pecore provenienti dal genovesato (valli Arroscia, Andora e altri “luoghi circonvicini”) più 1.600 dalla valle d’Oneglia, ASGe, Giunta dei confini, 96. 283 98 di sua spettanza, cum res sua sibi non serviat, venivano a confessare gl’Olmetani spettare questo pleno iure agl’uomini della Pieve, quindi è che avendoli ristretto li Signori Arbitri questo preteso gius di pascere, e legnare dalla mettà di ottobre, sino alla mettà d’Aprile dichiarorono nel restante tempo essere piena facoltà degl’uomini della Pieve il porre in bando detto territorio di Viozenna ed essigerne le multe, atti sol proprii de veri Padroni, e che fan fede del loro pieno dominio, e giurisdizione»286. Termini come “pieno dominio” o “padroni” poggiavano chiaramente su fonti che tramite le espressioni «boschare et pascare» esprimevano una mentalità proprietaria differente rispetto a quella del XVIII secolo. Come ha notato Beatrice Palmero a proposito degli alpeggi promiscui tra Briga, Pieve ed Ormea, le convenzioni (lodi, sentenze) relative alle contese sui pascoli promiscui si trasformarono da semplici strumenti di difesa del territorio condiviso e di regolazione dello sfruttamento – che non escludeva l’alternanza tra comunità diverse – in atti coerenti con le esigenze di affermazione della sovranità, mediante la legittimazione di diritti gerarchicamente ordinati. Il conflitto tra le comunità rurali faceva dunque emergere nodi di diversa natura (economica, giurisdizionale, possessoria) che gli Stati provarono a sciogliere nell’ambito di una più ampia politica di organizzazione dello spazio alpino, fondata anche sui diritti collettivi di utilizzo delle risorse silvo-pastorali287. La peculiare posizione dell’altopiano sconsigliava qualsiasi ipotesi di frazionamento e privatizzazione. In termini di efficienza, il godimento collettivo assicurò nel tempo un ordinato svolgimento delle attività pastorali della vallata e la produttività dei lotti messi a coltura, sui cui redditi poggiò il sostentamento delle ville minori del capitanato. Dalle fonti risulta che solo gli scontri con i pastori di Ormea e gli episodi bellici settecenteschi determinarono l’abbandono dei terreni e la diminuzione di capi provenienti dal capitanato, senza che le modalità di gestione incidessero negativamente sulla produttività di Viozene. La memoria contiene una scorrevole analisi dei titoli fondanti il dominio ligure sull’alpe e la relativa decostruzione delle argomentazioni piemontesi, ASGe, Giunta dei confini, 94. 287 Cfr. B. PALMERO, Alpeggi monregalesi, cit.; EAD., Usages et autorité du pâturage sur les montagnes liguropiémontaises (XVe-XXe siècles), in S. BERTHIER-FOGLAR, F. BERTRANDY (a cura di), La montagne: pouvoirs et conflits de l’Antiquité au XXIe siècle, Chambéry, 2011, pp. 229-250. 286 99 2) IL BOSCO DI SANREMO 2.a) Le risorse forestali del Ponente ligure Dalla seconda metà del Quattrocento le foreste italiane ed europee subirono un inarrestabile ridimensionamento. La riduzione della superficie boschiva fu causata dal concorso di svariati fattori, più o meno correlati tra loro: crescita della popolazione, estensione degli spazi coltivati, maggiore utilizzo del legname per la cantieristica e l’attività artigianale, incremento del pascolo. Già Braudel aveva constatato la cronica (e perennemente insoddisfatta) domanda di legname da parte degli Stati cristiani al tempo di Filippo II. Più recentemente Williams, in uno studio di global history sulla deforestazione, ha messo in luce come la crisi ambientale prodotta dall’industrializzazione sia soltanto l’ultima tappa di un utilizzo massiccio delle foreste del pianeta partito già durante l’età classica. Un dato costante attraverso i secoli è stato infatti il disboscamento volto a soddisfare innumerevoli necessità, dal fare spazio ad un’agricoltura estensiva, al rifornire di legname flotte ed eserciti, fino all’alimentare le prime industrie288. Per la Liguria, è stato Massimo Quaini a porre in discussione il giudizio dato da Heers sulla Liguria come regione senza boschi, dimostrando come in realtà le diverse foreste situate prevalentemente a Ponente, sebbene anch’esse oggetto di pressioni crescenti da parte delle comunità locali, riuscirono a rifornire comunque di legname i cantieri navali almeno fino al XVIII secolo, quando la penuria di materia prima fu dichiarata apertamente289. La trasformazione dei boschi liguri iniziata nel tardo medioevo portò alla diffusione del castagno e dell’oliveto e alla sostituzione delle querce con i faggi. Sintetizzando questo processo, Diego Moreno ha usato l’efficace espressione «bosco come manufatto» proprio per indicare una risorsa naturale pesantemente modificata dall’uomo per i propri bisogni e allo stesso tempo in grado di prestarsi a diverse forme di occupazione e utilizzo290. Le caratteristiche della microeconomia locale influenzarono le modalità di sfruttamento dei boschi e, di conseguenza, anche le norme preposte Pregevoli per sintesi e completezza le pagine di G. CHERUBINI, Il bosco in Italia tra il XIII e il XVI secolo, in Il lavoro, la taverna, la strada. Scorci di medioevo, Napoli, 1997, pp. 95-114, in cui l’autore nota come l’intensificarsi della legislazione di tutela forestale interessò tutti gli Stati italiani a partire dal primo Cinquecento. I dubbi espressi dall’autore sul difficile accertamento dei diritti di proprietà e delle pratiche d’uso delle foreste e delle tecniche di lavoro sono in parte stati risolti proprio dagli studi sui beni comuni. Lo studio del disboscamento su vasta scala a partire dall’età antica è di M. WILLIAMS, Deforesting the Earth. From Prehistory to global crisis. An abridgement, Chicago, 2006. 289 Cfr. M. QUAINI, I boschi della Liguria e la loro utilizzazione per i cantieri navali: note di geografia storica, in Rivista geografica italiana, 75 (1968), pp. 508-537, contributo risalente ma ad oggi in sostanza insuperato. 290 Cfr. D. MORENO, Dal documento al terreno, cit., pp. 181-204; G. M. UGOLINI, Utilizzazione del bosco e organizzazione territoriale, cit., pp. 99-108; O. RAGGIO, Norme e pratiche, cit., pp. 170-181. 288 100 alla loro disciplina. La presenza di numerose ferriere localizzate in zone specifiche (Sassello, Masone, Finale dopo l’acquisto nel 1713) scoraggiò ad esempio l’estensione dei coltivi a danno della superficie boschiva. Allo stesso tempo, se gli alberi utilizzati per “far carbone” erano castagni – la cui coltivazione si era diffusa già a partire dal XVI secolo – ecco che si poneva l’ulteriore problema di non eccedere nel disboscamento per non privare le popolazioni di un alimento essenziale291. Non va tuttavia instaurato un nesso deterministico tra andamento delle attività economiche locali e domanda di legname292. La compresenza di diritti comunitari e feudali indusse Genova a promuovere una politica di interventi mirati. Era però necessario conoscere precisamente lo stato delle selve sotto i profili ambientale e giuridico. Per questo motivo nei primi anni del Seicento furono svolte diverse relazioni sui boschi delle Riviere, che ci danno conto dei boschi di Taggia, Ceriana, Triora e Badalucco. Altri importanti boschi si trovavano poi a Savona, a Sassello, sulla dorsale appenninica ricadente sotto la giurisdizione del Capitanato di Voltri (il bosco d Ovada) e a Parodi Ligure in Oltre giogo293. Dal punto di vista giuridico il quadro è senz’altro complesso. In sintesi si può dire che accanto ai boschi “camerali”, situati nei dintorni della città (boschi di Ovada e Parodi, bosco di Savona) acquisiti al dominio della Camera fiscale genovese e alla cui amministrazione furono preposti alcuni Procuratori della Camera medesima, le altre selve, più lontane dal capoluogo, furono al centro di un tentativo di acquisizione allo Stato compiuto solo in parte. Le comunità ponentine infatti non rimasero immobili di fronte alle pretese di dominio avanzate dal governo genovese. Baiardo, Taggia, Badalucco si opposero allegando il loro antichissimo possesso sui boschi, non di rado confermato da precedenti sentenze e decreti del Oltre ad A. ZANINI, Strategie politiche ed economia feudale ai confini della Repubblica di Genova (secoli XVI-XVIII). Un buon negotio con qualche contrarietà, Genova, 2005 pp. 143-161, vedi anche G. DORIA, G. SIVORI, Nell’area del castagno sulla montagna ligure: un’azienda tra la metà del Seicento e la fine del Settecento, in Quaderni storici, 39 (1978), pp. 937-954; G. BENVENUTO, Un bosco applicato a ferriere: economia e società a Masone nei secoli XVI-XVIII, in La Berio, XXIII, 1 (1983), pp. 47-59. Sull’uso dei boschi per la produzione di carbone vedi anche il già citato lavoro di D. MORENO, Querce come olivi, cit., pp. 117-122. 292 Come mostrato da Calcagno nel caso di Savona, il calo e poi la ripresa della cantieristica savonese non sono da collegare alla maggiore o minore disponibilità di materia prima del nemus savonese, ma alle caratteristiche dei traffici cittadini e alle mutevoli condizioni del mercato del lavoro, cfr. P. CALCAGNO, Savona porto di Piemonte. L’economia della città e del suo territorio dal Quattrocento alla Grande Guerra, Novi Ligure, 2013, pp. 158-163. 293 Sul bosco di Savona vedi M. T. SCOVAZZI, Il grande nemus di Savona nella storia politica ed economica della Sabazia e della Repubblica di Genova, in «Atti della Società Savonese di Storia Patria», XXVII (1949), p. 5-54; G. FALCO, Nemora et terras… Appunti per una storia di due boschi medievali savonesi, gli Iliceta e le Scalete, in «Atti e memorie della Società Savonese di Storia Patria», n.s. XXXVI (2000), pp. 73-96; G. ASSERETO, La città fedelissima, cit., pp. 80-82; P. CALCAGNO, Savona, porto di Piemonte, cit., pp. 155-174. Sul bosco di Ovada vedi il già citato lavoro di D. MORENO, La colonizzazione dei “Boschi di Ovada”, cit. Sul bosco di Sassello vedi E. GRENDI, La pratica dei confini. Mioglia contro Sassello, in Quaderni storici, 63 (1986), pp. 811-845. 291 101 governo di Genova. Dal confronto che ne seguì le comunità ottennero la riconferma dei loro usi civici esercitati sui boschi, in cambio di una generale cessione allo Stato dell’uso dei «roveri, e legnami da garibo di sorte», il cui taglio era riservato alla flotta della Repubblica294. La confusione tra boschi camerali e comunali permase, spesso entro i limiti della stessa area silvestre295. Le fonti giuridiche, composte da poche gride generali e da una gran massa di ordini e decreti specifici per singoli boschi, rivelano la refrattarietà del governo a considerare il complesso delle risorse forestali come un unicum, regolabile con atti generali. La stessa efficacia delle leggi a tutela dei boschi, più volte prorogate e ripubblicate, è da porre in dubbio296. È sul piano dell’intreccio tra fonti statali e locali pertanto che si costruì una disciplina parcellizzata, certo, ma aderente alle pratiche di utilizzo del bosco e diretta a segnare di volta in volta il punto di equilibrio tra uso civico e sfruttamento economico. La risorsa di cui vogliamo occuparci in dettaglio è la grande distesa boschiva situata a Sanremo, uno dei centri economicamente più vivaci della riviera di Ponente. Come riscontreremo anche a proposito della gestione delle acque interne, Sanremo mostrò particolari cure nell’amministrazione delle proprie risorse naturali, riformando i propri uffici e innovando la Emblematico è il caso di Taggia. Il bosco era utilizzato dalla Repubblica per la costruzione di galee, ma la comunità se ne era servita nel corso del tempo per il pascolo e le necessità dei propri abitanti. Nel 1618 il Magistrato dell’Arsenale emanò una grida generale con la quale si proibiva il taglio di qualsiasi tipo di albero nel bosco taggiasco e di estrarre altre risorse, con pene che andavano dall’ammenda pecuniaria ai 5 anni di remo. Misure che abolivano l’uso civico di legnatico e di pascolo riconosciuto da decenni dal governo a favore dell’universitas di Taggia, da cui erano sempre stato esclusi gli alberi impiegati nella cantieristica. Dopo le proteste degli Anziani, la Camera salvò la grida del Magistrato dell’Arsenale e contestualmente accolse la richiesta di Taggia, ripristinando lo status quo e qualificando come “concesso” alla comunità l’uso civico, in una posizione quindi di subordinazione rispetto alle necessità dello Stato. Anche a Ceriana la Camera genovese intervenne nel 1601 con ordini abbastanza stringenti circa il taglio degli alberi e il pascolo, ma la comunità oppose il continuo possesso della foresta e la natura comunale, cfr. M. P. ROTA, Una fonte, cit., pp. 44-50. 295 Nel 1619 il Podestà di Parodi Ligure informò il Senato circa le usurpazioni commesse dagli abitanti del luogo a danno dei boschi pubblici presenti nella sua giurisdizione. Il giusdicente ricordò «ch’essa Communità possedeva una buona parte di bosco oltre quello possede l’Ill.ma Camera, quale vien occupato da particolari de migliori del luogo». L’occupazione abusiva ostacolava l’esercizio dei diritti consuetudinari sulle comunaglie dei meno abbienti e per questo il Podestà chiedeva al Senato un decreto in forza del quale costoro potessero «conforme al costume antico tagliar per loro uso, e pascolare». Sebbene il demanio non avesse incamerato integralmente tutte le risorse forestali di Parodi (e di altre comunità del dominio), il Senato restava comunque l’autorità di riferimento per la difesa dei diritti consuetudinari delle popolazioni, ASGe, Senato Senarega, 50. 296 La legge del 1697, più volte prorogata, qualificava come danno ai «boschi publici» la rimozione dei termini confinari, il taglio di alberi, l’incendio e la fabbrica di carboni svolte senza permesso, oltre a punire alcuni delitti propri dei campari. La competenza giurisdizionale era assegnata ai giusdicenti maggiori ratione loci. Tuttavia quando nel 1783 fu incarcerato l’altarese Lorenzo Berta, sorpreso dai campari del bosco di Savona mentre stava tagliando un albero di rovere, il magistrato savonese informò la Camera che, mancando copia di leggi specifiche a tutela dei boschi della Repubblica «contro il carcerato Berta dovrà aver luogo la pena portata dallo statuto civile de damnis refficiendis, §§ qui in aliena terra». Da Ceriana nel 1785 fu lamentata la medesima incertezza circa le pene da applicare ai danneggiatori e si chiese alla Camera l’invio di una nuova copia a stampa del decreto sui danni campestri nei boschi pubblici, ASGe, Camera di governo e finanza, 609 294 102 disciplina che regolamentava il settore rispetto agli statuti bassomedievali. Il caso sanremese risulta inoltre interessante per verificare la sopravvivenza delle norme d’uso di una risorsa collettiva, anche al mutare dei rapporti politici e giuridici tra la comunità e lo Stato. L’economia di Sanremo conobbe una decisa fioritura durante l’età moderna, divenendo il più attivo centro di produzione ed esportazione di limoni, arance, cedri, tutelati già dagli statuti del 1435297. Il bilancio comunitario rifletteva le condizioni di benessere, secondo quanto riferirono le relazioni del primo Seicento. «Detta Comunità non ha né censi, né debiti, né tampoco le ville l’una nominata il Poggio, e l’altra la Colla», e in effetti gli introiti superavano quasi del doppio le uscite (12.300 lire contro poco più di 7.000). Accanto agli agrumeti figurava però anche un’altra risorsa di primo piano: il grande bosco comunale, situato lungo le pendici del monte Bignone alle spalle della città, che costituiva il confine naturale con le comunità di Ventimiglia, Perinaldo, Baiardo, Seborga e Ceriana. Le relazioni dei primi anni del Seicento lo descrivono come una selva in larghezza un miglio in circa e di longhezza da quattro in cinque miglia in circa, inevitabilmente segnato dal lavoro dell’uomo. Oltre agli onnipresenti castagneti, all’interno del bosco di Bignone «vi son compresi molti campi da seminare, et altri campi, e terre boschive, e castneative di particolari». Dunque non mancavano appezzamenti di proprietà privata, coltivati o incolti, mentre sul Bignone si trovavano anche le bandite utilizzate dalla comunità per il pascolo. Infine non si mancò di segnalare che grazie alla «molta diligenza, e ordini buoni» il bosco ospitava diversi alberi ad alto fusto (erici, roveri), impiegabili nella cantieristica, ma tendenzialmente insufficienti a soddisfare la domanda298. 2.b) Il nemus Sanctiromuli: un bosco comune o comunale? Passando ad esaminare le questioni giuridiche ed istituzionali più salienti, va in primo luogo chiarita la natura giuridica del bosco e la misura dei poteri esercitabili su di esso dalla Repubblica Su questo tratto peculiare dell’economia sanremese il rimando è a G. FELLONI, Commercializzazione e regime agrario: gli agrumi di Sanremo nel XVII e XVIII secolo, in Scritti di storia economica, cit., pp. 937-954, A. CARASSALE, L. LO BASSO, Sanremo, giardino di limoni. Produzione e commercio degli agrumi dell’estremo Ponente ligure (secoli XII-XIX), Roma, 2008. 298 Quando Gerolamo Doria e Giovan Battista Senarega visitarono il bosco nel 1601 notarono che gli alberi generalmente utilizzati per le costruzioni navali (roveri, faggi, ma ricordiamo che erano adatti anche noci e tigli) risultavano in certi casi inservibili perché troppo vecchi, segno di uno sfruttamento decisamente modesto della foresta, ASGe, Camera di governo e finanza, 91. Sulla stessa linea il censimento del 1611-1614, che prendeva atto dell’importazione di legname «per far barche» da Varazze e Arenzano, a causa dell’insufficiente numero di alberi adatti, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 53 v. Il bosco di Sanremo è citato anche nella Descrittione: M. P. ROTA, Una fonte, cit., pp. 40-41. 297 103 per le proprie esigenze. Si è visto infatti che in aggiunta alle politiche di disboscamento e di vendita del legname, talvolta praticate dalle comunità come illustrato per Pieve di Teco, anche il governo genovese dalla fine del Cinquecento iniziò a prelevare maggiori quantità di legname anche dai boschi delle comunità più periferiche del Dominio. Le pretese genovesi furono però respinte con successo da Sanremo tramite il richiamo alle due sentenze del 15 e 17 marzo 1361 pronunciate da Andriolo de Mari e Giovanni Cattaneo, arbitri eletti dal Doge Simone Boccanegra e dai sindaci di Sanremo perché stabilissero quali diritti spettassero a Genova e quali a Sanremo299. Nel giudicato furono compresi anche i redditi derivanti dalle bandite e dai pascoli, interamente assegnati a Sanremo e senza che il comune genovese potesse imporre unilateralmente prelievi straordinari o nuove norme300. Forti del privilegio dichiarato dagli arbitri, i sanremesi considerarono il bosco come un bene di proprietà comunale, inattingibile per la Repubblica, e ancora durante i vari censimenti del primo ventennio dei Seicento la comunità non riconosceva alcuna competenza al governo sul bosco. È interessante sotto questo profilo quanto riportato nella Descrittione, che riassume gli argomenti addotti dalle parti. Ricordato che la Repubblica, in quanto «Supremo Principe» era titolare di tutte le regalie e che poteva emanare qualsiasi ordine in nome dell’utilità pubblica per la conservazione del bosco, la relazione compie una precisazione significativa: «Il bosco in ogni caso non serve alla Communità, ma sì bene alli huomini li quali particolarmente ne godono, e se ne servono per fabrica delle loro barche, e per altro uso, onde non si può dubitare, che il Doria dal quale la Republica ha acquistato detto luogo, non si servisse ancora lui di detto bosco in la maniera che fa ogn’uno particolare di S. Remo, e se questo è, deve la Republica, ch’è successa in suo luogo, potere per uso suo servirsi di detti legnami» Con quell’inciso «non serve alla Communità, ma sì bene alli huomini» la relazione intende chiarire che le utilità del bosco non erano messe sul mercato, tramite aste o appalti, per la Questo arbitrato sostituì la previgente convenzione del 1199 tra Genova e Sanremo e regolò i rapporti tra i due centri nei secoli a venire fino a metà Settecento. Per la storia generale di Sanremo vedi G. ROSSI, Storia della città di Sanremo, Sanremo, 1867, R. ANDREOLI, Storia di San Remo, Venezia, 1878; A. GANDOLFO, La Provincia di Imperia. Storia, arti, tradizioni, Torino, 2005, II, pp. 874-895. Sul rapporto pattizio tra Genova e Sanremo e il suo deterioramento nel corso del XVIII secolo V. TIGRINO, Sudditi e confederati, cit. 300 Lo stralcio della sentenza che ci interessa è il seguente: «Item declaramus quod gabelle bandite et herbagia et ceteri alii introytus gabellarum dicti loci spectent ad ipsam universitatem dicti loci, et non ad comune Ianue prout hactenus spectaverunt. […] Item pronunciamus et declaramus quod Comune Ianue non possit homines predictos dicti loci Sancti Romuli presentes et futuros collectare nec collectari facere ordinarie vel extraordinarie nisi prout infra dicitur in presenti sentenzia, nec cabellas novas de novo imponere vel constituere seu colligi facere vel novos usus». Vedi l’intero testo delle due sentenze in M. LORENZETTI, F. MAMBRINI (a cura di), I Libri Iurium, cit., docc. 147-148. 299 104 generazione di un’entrata per le casse comunali. Il lodo trecentesco era quindi rispettato alla lettera, perché solo le bandite di pascolo furono oggetto di appalto ma non il taglio degli alberi301. Il godimento assumeva invece le forme di un uso civico, gratuito e limitato a determinati scopi. Stando così le cose, anche la Repubblica poteva fruire del bosco per le proprie necessità, essendosi sostituita sic et simpliciter ai signori Doria – de Mari, ultimi proprietari feudali di Sanremo302. Il bosco di Bignone era quindi comunale, ma se dovessimo recuperare la classificazione romanistica, esso si collocherebbe tra le res in publico usu più che tra le res publicae o le res communes. Dalla disciplina dell’accesso alla risorsa contenuta negli statuti del 1435, revisionati nel 1565, si ricava il tentativo di conciliare un’embrionale politica di tutela forestale con l’esercizio degli usi civici degli abitanti, essendo preclusa ogni forma di commercializzazione del legname, grezzo o semi-lavorato303. Alcuni capitoli in successione dichiaravano illecite una serie di pratiche, dal taglio (di interi alberi o solo delle fronde) al ronco alla lavorazione, il taglio di alberi o rami (soprattutto di quercia, rovere e pallare) per la costruzione di baracche e recinti304. L’unica pastura generalmente lecita era quella dei bovini utilizzati per l’aratura, mentre i proprietari di capre e altre bestie minute potevano asportare rami per nutrirle, evitando così che i famelici ovini distruggessero In altre regioni sappiamo che lo sfruttamento dei boschi, in certi casi assai intensivo, fu oggetto di società e imprese appositamente costituite e dal rilevante peso economico nel contesto locale, cfr. E. ROVEDA, I boschi nella pianura lombarda del Quattrocento, in Studi storici, 30 (1989), pp. 1013-1030; M. ORTOLANI, Les contrats d’exploitation forestière des communautés du comté de Nice au XVIIIe siècle, in C. DUGAS DE LA BOISSONNY (a cura di), Terre, forêt et droit, Nancy, 2006, pp. 413-441. 302 M. P. ROTA, Una fonte, cit., p. 41. Come ha notato Giovanna Petti Balbi, Simone Boccanegra preferì incorporare giurisdizioni signorili e feudi nella respublica genovese eliminando questo o quel signore, ma non il feudo come istituzione territoriale, non essendo nelle condizioni di stabilire un sistema di governo diretto e omogeneo su tutta la Riviera. La sostituzione nei rapporti di potere feudali non mutò dunque la sostanza dei rapporti giuridici neppure dal punto di vista patrimoniale del godimento dei beni posti entro il dominio cfr. G. PETTI BALBI, Simon Boccanegra e la Genova del ‘300, Napoli, 1995, pp. 265-279. 303 Sanremo ebbe statuti già prima del 1435. In un consilium, Pietro d’Ancarano fece menzione di generici «quaedam capitula tamen est castrum de Sancto Romulo» cfr. P. D’ANCARANO, Consilia sive iuris responsa, Venetiis, Apud Nicolaum Bevilaquam, 1568, cons. 437, n. 2. Per considerazioni sulle precedenti redazioni cfr. N. CALVINI, Statuti comunali di Sanremo, Sanremo, 1983, pp. 11-18. Tra i diversi manoscritti disponibili di quelli del 1565, ho consultato ASSr, Serie I, 57 (RSL, n. 898) e ASGe, Manoscritti, 991 (RSL, n. 890). 304 Era vietato tagliare alberi selvatici «causa faciendi ex ea ligna vel causa ronchandi aut in ipso nemore faciendi aliquod laborerium, vel aliquam ipsarum arborum scravet, seu eius frondes aut ramos incidat». Era ammesso solo il taglio degli alberi secchi per ricavarne legna da ardere ad esclusivo uso personale e senza alcun intento commerciale. La pena per chi abbatteva gli alberi «causa extrahendi vel deportandi ipsa ligna extra dictum districtum suo nomine, auto nomine alicuius» ammontava a 10 soldi. Il divieto di esportare legname da Sanremo per terra e per mare era ribadito al capitolo 73, dove si specificava che era proibito il commercio sia di legname grezzo che di assi, tavole, travi, legna da ardere e altri prodotti semilavorati salvo il caso di compravendita con mercanti forestieri giunti a Sanremo via mare, cfr. ASGe, Manoscritti, 991, cc. 128-130 e cc. 136-138. 301 105 irreparabilmente la selva305. Il taglio di querce e roveri a favore di singoli richiedenti era sottoposto ad autorizzazione comunale. Se concessa, i richiedenti avevano due mesi per procedere al taglio e, se non fosse avvenuto, era concesso a chiunque tagliare e appropriarsi dei medesimi alberi. Anche la semina, limitata ad alcune tipologie vegetali (lino, rape, canapa, navone306), era sottoposta ad un regime autorizzativo da parte del Consiglio e non poteva durare più di due anni consecutivi, non prorogabili se non prima di un decennio. Come anticipato dalle relazioni, nel bosco crescevano anche alberi idonei per le costruzioni navali. Gli statuti (capitolo De non faciendo lignum seu barcham in Sanctoromulo) limitavano agli originari e a coloro che abitavano nel districtus stabilmente («cum eius familia») da dieci anni senza interruzioni il diritto di far legna per la costruzione degli scafi. La richiesta di costruzione di un vascello da farsi al Podestà comprendeva il giuramento «quod in eo non participant aliquis forensis et quod illud non vendet nec alienabit alicui forensi nisi post annos quinque secuturos a confectione ipsius vasis». In caso di vendita, al Comune sarebbe spettato il 5 % del prezzo307. Anche gli statuti di Sanremo tutelavano il castagneto dai danni campestri e lo escludevano dal novero di alberi utilizzabili per la carpenteria navale. Il testo imponeva poi al massaro di curare annualmente l’inserimento di nuovi castagni nel bosco308. Infine si delegava ad appositi boni vires la verifica dei titoli costitutivi del diritto di proprietà di singoli campi all’interno del bosco e la stima il valore degli appezzamenti per il pagamento del prezzo al Comune e il corrispettivo riconoscimento del «dominium et proprietatem»309. Dagli statuti emerge chiaramente una precisa connotazione del publicus usus del bosco sanremese. Lungi dal disegnare un regime di libera appropriazione delle risorse forestali, il bosco Tra gli usi ammessi, va segnalato il diritto di raccogliere foglie e di usare i rami per i lavori agricoli. Era invece proibita la messa a coltura dei fondi siti nel bosco in cui fossero stati illecitamente tagliati degli alberi per un decennio, misura introdotta per agevolare la ricrescita di nuovi alberi, ASGe, Manoscritti, 991, c. 132 e N. CALVINI, Statuti, cit., p. 230. 306 Dai semi di navone (brassica napus) si ricavava un olio giallo e viscoso utilizzato insieme all’olio di lino per la preparazione del sapone verde e per l’illuminazione. Spesso confuso con l’olio di colza (tratti dai semi di brassica campestris), ne condivideva l’utilizzo come combustibile per l’illuminazione, cfr. AA.VV., Enciclopedia delle scienze mediche, ossia trattato generale, metodico e compiuto dei diversi rami dell’arte di guarire, Scienze accessorie, chimica medica, a c. di G. BEUGNOT, trad. italiana di M. G. Levi, Venezia, 1840, pp. 346-348; F. GERA, Nuovo dizionario universale di agricoltura, Venezia, 1842, t. XVIII, pp. 16-17. 307 ASGe, Manoscritti, 991, cc. 141-143. 308 Il capitolo 58 parla anche dell’innesto di «arbores pomorum et pirorum salvaticas nec non bozalorum in nemore existentibus». Con arbores pomorum et pirorum si intendevano alberi di melo e di pero, la cui coltura era diffusa mediante apposite clausole dei contratti agrari un po’ ovunque. Vedi per la zona di Salerno e Gaeta tra X e XIII secolo G. VITOLO, I prodotti della terra: orti e frutteti, in G. MUSCA (a cura di), Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo, Bari, 1987, pp. 159-185. Con bozalorum si designava invece il biancospino, cfr. S. APROSIO, Vocabolario ligure storicobibliografico (sec. X-XX), Savona, 2001, p. I, vol. I, voce bozalus, p. 166. 309 Cfr. N. CALVINI, Statuti, 231-232. 305 106 doveva fornire materie prime o complementari all’economia locale al di fuori del circuito commerciale. Rettori e ufficiali della comunità dovevano farsi carico della difesa dei castagni e del controllo del taglio degli alberi ad alto fusto tramite politiche attive e non soltanto sanzionando gli illeciti. L’esercizio di altri usi, come il pascolo e la raccolta di legna per fini diversi da quello nautico, era fortemente limitato, se non del tutto vietato. Sul finire del XVI secolo però abusi e illeciti superarono il livello di guardia. Le vecchie figure di controllo predisposte dagli statuti non dovettero essere più sufficienti per arginare le occupazioni di porzioni boschive e il taglio non autorizzato di alberi più o meno pregiati310. Inoltre si intensificarono gli illeciti commessi dagli uomini delle comunità confinanti con Sanremo e si diversificarono anche le attività economiche che domandavano legname. Le istituzioni di gestione del bosco si adattarono alle condizioni di crescente sfruttamento della risorsa, rendendosi maggiormente autonome dal giusdicente e dal Consiglio di Sanremo, ma senza che questo processo alterasse la natura giuridica del bosco. Esso rimase dunque ancora per il XVII e il XVIII secolo un bene comunale funzionale al soddisfacimento di alcune esigenze economiche dei sanremesi e non del fabbisogno di entrate della comunità. 2.c) Il governo del bosco: magistrature e politica forestale (1583-1753) Il sopra accennato adattamento istituzionale prese forma il 22 luglio 1583, quando il Consiglio di Sanremo approvò la proposta di istituire un collegio di quattro persone munite del potere di nomina di custodi del bosco, nonché di ordinanza a seguito di numerosi episodi di danneggiamento del bosco commessi da alcuni uomini del vicino castrum di Dolceacqua, feudo dei Doria. I quattro ufficiali ricevettero anche la delega a stipulare con Dolceacqua una convenzione sui danni campestri per la punizione dei colpevoli311. L’anno successivo il collegio dei Conservatori del bosco – questo il nome assunto – divenne permanente «per la disordinata, anzi sfrenata violenza, che si vede essere, et usare in detto bosco da huomini e persone forastiere, et habitanti Oltre ai tradizionali campari, gli statuti contemplavano quattro ufficiali eletti ogni anno a maggio col compito di sorvegliare il bosco e accusare i danneggiatori e una squadra di dieci uomini nominati dal Podestà, cfr. N. CALVINI, Statuti, cit., pp. 228 e 324. 311 ASSr, Serie I, 90, (RSL, n. 899), cc. 1-2. Peraltro la prassi di pattuire con le comunità confinanti le regole di utilizzo del bosco per evitare reciproche rappresaglie fu seguita da Sanremo non solo nei confronti di Dolceacqua, ma anche con Perinaldo e Ceriana per cui vedi infra. La delibera fissò infine una pena di 25 lire per chi rifiutava l’ufficio. 310 107 del proprio luogo, non havendo alcun rispetto di tagliare et occupare legnami, e causare molti danni in detto bosco, oltre che da molti è occupato anche nella proprietà del Commune»312. La creazione del nuovo collegio non fu un fatto di mera riorganizzazione interna del complesso amministrativo della comunità sanremese. L’affidamento ai Conservatori – che dovevano riunirsi una volta a settimana – della competenza generale ad occuparsi di ogni aspetto della conservazione del bosco, dalle autorizzazioni per l’abbattimento degli alberi alla regolamentazione degli altri usi, dalla giurisdizione sui danni campestri, alla nomina dei campari segnava verosimilmente l’impossibilità per il Consiglio ristretto e il Parlamento di Sanremo di occuparsi con la dovuta attenzione la materia forestale. Inoltre cessarono di avere vigore gli statuti nelle parti riguardanti il bosco, per lo scarso valore deterrente delle loro sanzioni313. I Conservatori nel successivo secolo e mezzo di attività si impegnarono per dare una regolamentazione più dettagliata per l’utilizzo delle risorse forestali, inasprendo le sanzioni e facendo largo uso dello strumento della bandita per favorire la ricrescita degli alberi. Furono misure la cui parziale inefficacia fu riconosciuta dagli stessi Conservatori, ma che appaiono emblematiche della consapevolezza di dover governare il bosco con disposizioni aggiornate ed un maggior controllo sul campo, onde evitarne la rovina. L’uso civico di far legna non venne meno ma subì col tempo progressive limitazioni. Inizialmente gli ufficiali si limitarono a ribadire il divieto di tagliare senza autorizzazione faggi, carpini, roveri e castagni (salva la potatura dei rami) anche quando questi crescevano sui fondi privati. Il diritto della comunità sugli alberi di maggior pregio si conservò nei secoli ed è una delle manifestazioni più evidenti, all’interno del nemus sanremese, della scomposizione delle utilitates offerte dalle risorse naturali in altrettanti beni oggetto di diritti d’uso e godimento. Sugli appezzamenti privati ciascun proprietario poteva seminare e (con limitazioni) far pascolare alcuni animali, ma il suo diritto di proprietà non si estendeva su tutti i vegetali che crescevano entro il perimetro del fondo314. Il passo successivo fu l’imposizione di un divieto generale di abbattimento di ogni tipo di albero vivo. Ai Conservatori furono assegnate una quota delle pene pecuniarie riscosse e 50 lire come salario, ASSr, Serie I, 90, c. 7. 313 ASSr, Serie I, 90, cc. 11-12. Per una comparazione sulla prassi amministrativa degli ufficiali forestali cfr. C. DUGAS DE LA BOISSONNY, Mésus ruraux et délits forestiers dans le patrimoine foncier de la ville de Nancy (premier tiers du XVIIIe siècle), in C. DUGAS DE LA BOISSONNY (a cura di), Terre, forêt et droit, cit., pp. 117-130. 314 Sulla proprietà degli alberi in capo ad un soggetto diverso dal proprietario del fondo vedi C. GIARDINA, La così detta proprietà degli alberi separata da quella del suolo, Palermo, 1941. 312 108 I Conservatori individuarono delle aree bandite da riservare a determinati usi. Così fecero ad esempio nel 1607 con i “Capitoli circa il legname da far barche”, delimitando i confini di una zona bandita che avrebbe costituito la riserva di roveri da tagliare sotto licenza per la costruzione di navi315. Non mancarono le frodi – molti tagliavano più alberi del consentito – ragion per cui i Conservatori, oltre alla vigilanza dei campari, istituirono nel 1679 un registro dove annotare numero e qualità degli alberi tagliati, nonché il nome dei maestri d’ascia responsabili della trasformazione e cantiere di costruzione, per una sorta di controllo incrociato da effettuarsi direttamente in cantiere316. Altre bandite pluriennali furono create a scopo di rimboschimento. Il bandimento comportava un automatico aumento delle pene per i danni causati agli alberi protetti: il taglio di castagne, erici, roveri e faggi nelle bandite era punito con una pena di ben sei scudi d’oro per ogni albero, mentre scendeva a 3 scudi nel periodo non coperto dal bando. Durante il Seicento i provvedimenti di bando di parti del bosco, individuate dai Conservatori, furono molti ed ebbero come scopo anche riaffermare la natura pubblica delle aree317. Nonostante l’incremento delle sanzioni, sul volgere della fine del secolo neppure questo si dimostrò sufficiente318. Nel 1680 i Conservatori decretarono un’inibizione generale dell’abbattimento per un decennio, tanto nelle parti bandite quanto nelle altre319. Se l’uso del legname per la cantieristica fu sottoposto ai vincoli appena illustrati, del tutto vietato fu invece l’impiego come combustibile per le manifatture artigianali presenti a Sanremo. Le delibere degli ufficiali citano fornaci di mattoni e calce – generalmente diffuse un po’ dappertutto La licenza era rilasciata al proprietario dello scafo e non era permesso vendere il legname a qualcuno che ne fosse sprovvisto. Il permesso era vincolato alla realizzazione di travi, tavole e altre parti dell’imbarcazione e non potevano essere abbattuti più di tre roveri per ciascuna richiesta. Entro 15 giorni dall’abbattimento, l’avente diritto doveva riunire il legname tagliato in cataste e trasportarlo via, pena la perdita dello stesso e l’assegnazione ad altri richiedenti, ASSr, Serie I, 90, cc. 39-45. 316 Un decreto precedente aveva già introdotto la marchiatura dei semilavorati ricavati dagli alberi del bosco di Bignone da parte dei Conservatori, ASSr, Serie I, 90, cc. 128-133. 317 Nel 1655 fu bandita una falda boschiva di castagneti poiché «da’ particolari venia non solo vanamente preteso per proprio e come tale di tagliarlo, il che sarebbe risultato di grave danno di questo publico, essendo aggregato di alberi novelli crescenti, che in pochi anni renderanno di serviggio comune». Il bando riaffermava dunque i diritti della comunità contro le occupazioni private, ASSr, Serie I, 90, c. 82. 318 Nel 1618 furono bandite alcune località del bosco (Pian Bertone, Pian Forchetto) di cui si individuarono i confini, altre furono bandite nel 1646 e nel 1654, ASSr, Serie I, 90, cc. 45-46. Con un provvedimento del 1646 i Conservatori bandirono una parte del bosco ove erano stati piantati alberi di rovere, faggi e carpini «li quali alberi tagliandosi non posson servire a cosa di consideratione, e per il contrario lasciandoli stare col tempo, diventeranno alberi grandi, da’ quali si potrà fare molto utile». Si dichiarava dunque bandito in modo tale che «niuna persona possa in detta parte di bosco tagliare alcuno di detti alberi, n’in esso far legna di sorte alcuna». Gli alberi banditi, segnati con una o due croci, furono tre faggi, quattro roveri e tre erici, ASSr, Serie I, 90, cc. 73-74; 79-80. 319 ASSr, Serie I, 90, cc. 135-140. 315 109 – nonché saponifici, concerie di pelli e distillerie, tutti laboratori che necessitavano di legname per poter funzionare. Nel 1622 i Conservatori proclamarono il divieto per i conduttori di mattonifici e fabbriche di calce di tagliare qualsiasi genere di albero e di acquistarne da terzi per usarlo come materiale da combustione. Il legname utilizzato per i forni era sottoposto al controllo dei medesimi Conservatori, senza l’approvazione dei quali l’officina non poteva iniziare a produrre320. Alla delibera sulle fabbriche di sapone del 1668 prese parte anche il Commissario genovese Gio. Stefano Sauli, poiché l’ordine fu esteso a tutto il territorio ricadente sotto la giurisdizione sanremese. Le condotte sanzionate furono le medesime: taglio, acquisto, procacciamento, detenzione di legname utilizzato per i saponifici e l’accensione dei forni senza il preventivo controllo dei Conservatori della legna da ardere321. Una delibera approvata nel 1740 confermò nella sostanza le determinazioni assunte nel secolo precedente anche in materia di fabbriche e opifici, ribadendone l’attualità322. Appare quindi evidente la scelta di escludere dall’appropriazione del legname i proprietari di imprese artigianali, vincolando il bosco alla soddisfazione dei soli bisogni della cittadinanza e alla costruzione di imbarcazioni. Anche l’esercizio dello ius pascendi fu circondato da restrizioni particolari. Il primo proclama contro le capre fu emesso nel 1590 e prevedeva la subordinazione del pascolo ovino alla concessione di una specifica licenza da parte dei Conservatori323. Nel 1634 si ricorse poi alla creazione di alcune riserve per il pascolo di capre e altri animali, individuate con i loro toponimi, bandendo il pascolo da tutta la restante superficie boschiva324. Inoltre, dal momento che per raggiungere la bandita di pascolo di Bignone molti passavano per il bosco con il proprio gregge, i Conservatori provvidero a creare un percorso obbligato per impedire che la dispersione degli ASSr, Serie I, 90, cc. 47-48. La pena per il fabbricante che avviava l’attività senza che la materia prima da impiegare fosse stata approvata dai Conservatori ammontava a ben 100 lire. 321 ASSr, Serie I, 90, cc. 95-97. Sulla diffusione dei saponifici lungo la riviera di Ponente vedi F. CICILIOT, La saponeria nella Liguria occidentale, Savona, 2001, in particolare pp. 16-99. L’A. però non cita Sanremo tra i centri di produzione, forse in ragione delle fonti utilizzate (Archivio di Stato di Genova e di Savona). I riferimenti contenuti nei capitoli alle piante di navone e di lino, nonché queste disposizioni e la controversia settecentesca sulle gabelle (tra cui quella del sapone) ci fanno ritenere che anche il borgo sanremese ospitasse alcuni saponifici particolarmente attivi. Secondo Ceciliot il sapone prodotto in Liguria tra Cinque e Seicento fu un bene da esportazione che conquistò mercati importanti, come quello milanese. Dalla seconda metà del XVII secolo, complici la decisione colbertina di avviare un’industria saponiera di alta qualità a Marsiglia (editto del 1688) e il progressivo rialzo dei costi delle materie prime (olio e legname), la competitività del prodotto ligure si contrasse costantemente e a Settecento inoltrato Genova era ormai stabile importatrice di sapone marsigliese. 322 ASSr, Serie I, 90, cc. 207 v.-209 v. 323 ASSr, Serie I, 90, cc. 33-34. 324 ASSr, Serie I, 90, cc.57-59. Nel 1647 si arrivò a proibire non solo il pascolo ma il semplice ingresso nel bosco interdetto, ivi, cc. 75-76. 320 110 animali aumentasse il rischio di danni325. Gli ordini volti a escludere gli animali dal bosco si intensificarono nettamente nel Settecento. Paradigmatica è la riformagione del 1729 che proibì ai sanremesi e ai forestieri di condurre senza autorizzazione: «alcuna sorte di bestie bovine, capre, capretti, pecore, montoni, agnelli, o porci ne’ boschi di detta Magnifica Comunità, compresi anche quelli boschi che fossero, o si potessero dire de’ particolari»326. Neppure sui fondi privati era dunque esercitabile il pascolo in assenza di permesso. La disciplina del bosco coinvolse anche gli altri organi della comunità, in particolare per l’approvazione dei bandi campestri, che lungo il XVII secolo aggiornarono le procedure per l’accertamento dei danni e rividero al rialzo il rigore delle pene. Oggetto di tutela fu anche il bosco, oltre ai frutti e agli agrumi, preziosissimi prodotti da esportazione327. Inoltre Consiglio e Consoli stipularono con i centri confinanti convenzioni e bandi campestri per la regolazione degli usi promiscui del bosco, che segnava in più punti il confine naturale con Perinaldo, Dolceacqua, Ceriana, Apricale, Isolabona. Nel 1558 ad esempio l’accordo con Perinaldo dichiarò interdetti ai perinaldesi diversi usi del nemus Sanctiromuli (raccolta di ghiande, foglie, taglio di querce, faggi, castagni e alberi selvatici, fieno, pascolo), comminando per ciascuno di essi sanzioni a gravità variabile328. Differenti per contenuto ma accostabili per ratio furono i capitoli campestri pattuiti da Sanremo e Ceriana nel 1629, originati come compromesso avente lo scopo di porre termine alle liti e relative rappresaglie che opponevano gli uomini delle due comunità329. Alcuni articoli si rivolgevano espressamente alle risorse ad uso collettivo, tutelando ad esempio i castagneti siti sui ASSr, Serie I, 90, cc. 109-110. ASSr, Serie I, 90, cc. 193 r.-194 r. 327 I bandi campestri del 1610, del 1635 e del 1683 furono inseriti in calce agli statuti di Sanremo nel registro di cui alla scheda in ASSr, Serie I, 57. Copia dei bandi del 1610 e del 1635, con rimandi ai capitoli statutari, anche in ASGe, Manoscritti, 991, e ASGe, Senato Senarega, 1726 (RSL, n. 901) e ASGe, Senato Senarega, 1807 (RSL, n. 902). 328 Cfr. F. CORVESI, Magnifica Communitas Podii Rainaldi. Perinaldo. Statuti, convenzioni e documenti inediti di una signoria ghibellina sorta tra Provenza e Liguria dai conti di Ventimiglia ai Duchi di Savoia (XI-XVIII sec.); Tricase, 2015, pp. 167-170, pp. 414-419. La convenzione conservò peraltro in vigore l’istituto della rappresaglia. Di tale convenzione si servì poi la Repubblica ad inizio Settecento per affermare i propri diritti giurisdizionali sul bosco del Conio, versante silvestre sanremese che confinava con Seborga. Sulle rappresaglie vedi i risalenti lavori di A. DEL VECCHIO, E. CASANOVA, Le rappresaglie nei comuni medievali e specialmente in Firenze, Bologna, 1894; G. I. CASSANDRO, Le rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI, Torino, 1938. Più recentemente L. TANZINI, Le rappresaglie nei comuni italiani del Trecento: il caso fiorentino a confronto, in Archivio Storico Italiano, 167 (2009), pp. 199-251. 329 Il testo è in ASGe, Senato Senarega, 1881 (RSL, n. 923). I capitoli furono approvati dal Senato di Genova il 7 gennaio 1630. Il ricorso alla concessione delle rappresaglie fu mantenuto ma solo nel caso in cui i rappresentanti di una delle due comunità non avessero dato luogo ai convegni necessari per addivenire alla stipula di nuovi capitoli entro 15 giorni dalla richiesta espressa della controparte. 325 326 111 fondi comunali o i pascoli e i prati330. Emanati per rimanere in vigore per 25 anni, salvo espressa richiesta di modifica, ai primi del Settecento risultavano ancora efficaci e invocati contro le illegittime rappresaglie perpetrate dai campari di Ceriana a danno delle greggi di alcuni uomini del Poggio di Sanremo331. Nonostante le pretese della Repubblica, il grande bosco sanremese non soltanto fu gestito in autonomia pressoché totale dalla comunità mediante i propri ufficiali, ma lo stesso prelievo di legname da parte del governo fu verosimilmente molto limitato, potendo fare affidamento su altre foreste. Il disboscamento crescente fu contrastato con una normativa sempre più restrittiva e lo sviluppo di un mercato di importazione del legname dalla Francia e dal nord Europa332. In punto di titolarità giuridica, se ad inizio Seicento la qualificazione del bosco era incerta, nell’aprile del 1716 il Commissario del borgo, rispondendo ad una lettera circolare inviata dai Collegi per avere ragguagli circa lo stato e i confini dei boschi camerali, non aveva dubbi: «altro non posso riferire, se non essere questa giurisdizione di S. Remo senza verun bosco spettante a codesta Eccellentissima Camera»333. Il bosco veniva dunque riconosciuto come comunale ma, come si è dimostrato, gestito in modo tale da farne una risorsa a disposizione dei sanremesi per i loro bisogni privati e per il parziale sostegno alla fabbricazione di navi, senza l’intermediazione del mercato. 2.d) Il bosco attraverso la “rivoluzione” del 1753: cesure e continuità Ad esempio il capitolo 1° stabilisce l’inutilità di indicare i confini per i danni causati in terre «boschareccie o prative». Il capitolo 6° sul taglio dei castagneti cita i boschi privati e delle comunità, così come il 10° sugli alberi verdi. 331 In una lettera del 28 dicembre 1701 i consoli del Poggio lamentarono che «seguivano da qualche tempo rapresaglie contro quelli del Poggio, giurisdizione di S. Remo, non solo nelle bestie, ma nelle persone stesse che segavano e con strapasso indicibile conducevano priggione, e per liberarsi era necessario far sborso di somme considerabili». La questione fu sottoposta al Commissario residente a Sanremo Gio. Batta Spinola, il quale convocò prima gli Anziani di Ceriana in contraddittorio con i consoli del Poggio e i consiglieri di San Remo e successivamente decretò che le convenzioni del 1629 dovessero ancora integralmente rispettarsi, decisione confermata ancora il 13 maggio 1700 da Carlo Spinola e Gio. Ambrogio Doria, sindacatori della riviera di Ponente, ASGe, Archivio segreto, 99. 332 Questo dato è ricavato dalla relazione del Commissario Marcantonio Carenzi, che durante l’occupazione sabauda del Ponente ligure amministrò Sanremo e distretto nel biennio 1746-48, cfr. V. TIGRINO, Sudditi e confederati, cit., p. 298-300. Dalle rilevazioni effettuate dai piemontesi, si ricava inoltre la condizione di relativo benessere che contraddistingueva Sanremo ancora a metà Settecento. Tra gli altri indicatori, il numero di bastimenti sanremesi in attività ammontava a 80 legni, di piccola e grande stazza. Per approfondimenti P. CALCAGNO, Lo sguardo del Savoia sul Ponente ligure: la raccolta di informazioni da parte degli ufficiali sabaudi durante l’occupazione di metà Settecento (1746-1749), in Genova e Torino, cit., pp. 251-270. 333 ASGe, Camera di governo e finanza, 606. 330 112 Il XVIII secolo vide deteriorarsi i rapporti tra Genova e diversi importanti centri del Dominio come Albenga, Spezia, Finale e Sanremo. La crisi originò da controversie di natura fiscale tra gli anni ’20 e ‘30, quando il governo decise di tagliare delle spese giudicate superflue e di riformare il sistema dei monopoli statali, dal quale dipendeva il servizio di riscossione in regime di appalto. L’attuazione di tali riforme andò ad intaccare gli antichi assetti di esenzioni in essere tra Genova e le comunità soggette, che si mossero in difesa dei loro privilegi. Sanremo si sollevò nel 1729 in opposizione alla riforma delle privative delle gabelle di tabacco, vino, sapone e polvere da sparo e contro la legge sul Portofranco. Risolta con una stentata pacificazione la prima crisi, nel 1753 la Repubblica e il borgo giunsero allo scontro armato a seguito della decisione del Senato (febbraio 1753) di approvare la separazione dal borgo di Sanremo della Colla (oggi Coldirodi), villa demograficamente più popolosa del districtus, e di ergerla a comunità autonoma334. La “rivoluzione” di Sanremo ebbe vita brevissima: dal 6 giugno, quando i sanremesi arrestarono il Commissario giusdicente Giuseppe Doria e l’ingegnere e cartografo della Repubblica Matteo Vinzoni, incaricato di apporre i confini tra Colla e Sanremo, al 16 dello stesso mese, giorno in cui fu spedita a Genova una supplica di perdono per la ribellione dai consiglieri del borgo rimasti dopo la resa nelle mani del generale genovese Agostino Pinelli335. Insignificante sul piano dei fatti d’arme, le conseguenze della sollevazione furono effettivamente rivoluzionarie sotto il profilo dei rapporti tra Sanremo e Genova: oltre a imporre pesanti contribuzioni risarcitorie, Pinelli ordinò l’abolizione degli statuti e delle convenzioni (in particolare l’arbitrato del 1361), la confisca dei beni comunali e la verifica da parte genovese di tutti i capitoli in materia economica approvati dalla comunità. La vicenda ebbe ricadute sul piano internazionale che in questa sede non serve ripercorrere. Preme invece indagare come i diritti collettivi e le istituzioni di gestione del bosco di Bignone uscirono modificati dalla cesura del 1753. La transizione durò circa tre anni, durante i Le ragioni di opportunità economica che persuasero i collantini a domandare il distacco da Sanremo furono molte. Da un lato la fiorente produzione di agrumi coltivati entro i confini della giurisdizione sanremese era sottoposta all’amministrazione del Consiglio di Sanremo, che decideva i prezzi. I collantini puntavano quindi a separarsi da Sanremo per poter vendere i propri agrumi ad Ospedaletti, senza sottostare alle politiche imposte dall’élite del borgo. In una lettera datata 8 marzo 1752 si lamentava l’obbligo di dover pagare le gabelle imposte da Sanremo senza trarre vantaggi dall’appartenenza alla stessa unità amministrativa. Oltre al cronico squilibrio nel riparto sulle ville dei debiti contratti da Sanremo e nel reimpiego delle entrate fiscali, gli uomini della frazione protestarono anche per la disparità di trattamento circa l’utilizzo del bosco: «L’istesso soffrono rispetto al bosco communale, facendosi lecito quei di S. Remo far tagliar alberi per il loro uso, senza che mai siane stato punito uno; al contrario, se alcuno di Colla si serve di qualche poca legna, per essi è inevitabile la pena», ASGe, Archivio segreto, 303. 335 Sulla ribellione, oltre al già citato V. TIGRINO, Sudditi o confederati, cit., vedi anche N. CALVINI, La rivoluzione del 1753 a Sanremo, Bordighera, voll. I-II, 1953, in particolare vol. I, pp. 7-39. 334 113 quali una commissione genovese guidata da Pasquale Rossi elaborò i nuovi regolamenti che avrebbero disciplinato il governo sanremese da lì in poi336. Frattanto gli agenti genovesi agli ordini di Vinzoni procedettero con la separazione di Coldirodi. Alla comunità fu assegnata la settima parte del bosco comunale di Sanremo, ma sorsero discordie durante le misurazioni – che durarono almeno fino a tutto il 1754 – per l’esatta determinazione della superficie forestale. Secondo gli ingegneri genovesi esso misurava 2.355.468 canne (quota per Colla canne 329.765), mentre dai rilievi effettuati dagli stimatori sanremesi e collantini le dimensioni della selva scendevano a 1.707.384 (quota per Colla canne 243.912). A rendere incerte le stime contribuiva anche il differente modo di qualificare i fondi privati siti all’interno dell’area. Se per Vinzoni essi erano da escludere dal calcolo, per altri periti dovevano essere inclusi perché: «il gius della Communità sopra i boschi, che consiste in fra legna secca e foglie, si estende egualmente sopra i boschi de particolari che del Commune, alla di cui custodia vi mantiene campari che li diffendano, ed impediscano il taglio di legna verde perfino a stessi padroni»337. Una parte del bosco (il Cuneo) era poi al centro di una controversia di confine con Seborga. Il contenzioso contrappose la Repubblica al monastero benedettino di Saint Honorat dell’isola di Lérins in Provenza, proprietario del castello di Seborga, che considerava il Conio parte del proprio patrimonio ecclesiastico338. Tra XVII e XVIII secolo furono numerose le accuse contro i seborghini scoperti o denunciati a raccogliere foglie, ghiande o a fare carbone nel bosco, istruite dai campari in forza dei capitoli339. Il regime di separazione tra la proprietà del suolo e degli alberi emergeva come un punto controverso nella riassegnazione dei diritti ai collantini. Né gli uomini al comando di Vinzoni né la commissione di Rossi sciolsero poi il nodo della proprietà comunale o statale del bosco, al punto che in una relazione del 1767 esso veniva citato ancora come «Bosco che si dice essere della I testi principali furono approvati tra l’autunno 1754 (“Regolamento economico”) e il giugno 1755 (“Regolamento interiore”, sugli uffici pubblici). Tra maggio e settembre del 1756 videro poi la luce i regolamenti sulle acque, i regolamenti capitolari dei Padri del Comune e quelli sui boschi della comunità. 337 ASGe, Archivio segreto, 304. 338 Gli abati sostenevano che il bosco del Conio fosse ricompreso entro i confini indicati nel testamento del conte di Ventimiglia Guido, redatto nel 954. Una copia in ASSr, Serie I, 26. Sulle liti di confine tra Seborga, Vallebona e Sanremo vedi N. CALVINI, Il feudo di Seborga, in La storia dei genovesi, XII/2, Genova, 1994, pp. 595-616; ID., Il Principato di Seborga. Un millennio di storia, Imperia, 1992. 339 Si ricorda che dal 1729 il feudo di Seborga apparteneva al Re di Sardegna. Nel 1735 il Commissario di Sanremo Camillo Doria incaricò uno dei quattro Conservatori di visitare la località contesa per riferire dei danni causati e punire i trasgressori. Alcuni documenti della causa (corrispondenza, memoriali, atti) in ASS, Serie I, 26; ASGe, Archivio segreto, 54. 336 114 Communità»340. Nonostante la revoca della convenzione del 1361 e dopo il frazionamento con Colla, Sanremo ritornò dunque in possesso dei propri beni pubblici, in perfetta continuità con il previgente assetto. La revoca degli statuti decretata dal Pinelli lasciò gli uomini di Sanremo e Colla privi di un testo scritto di riferimento anche in relazione all’utilizzo del bosco. Le prime bozze dei nuovi capitoli politici di Colla furono elaborate dal Senato e dalla Giunta dei Confini già nel febbraio del 1753 e in una di esse si dichiarò apertamente che in materia silvestre avrebbero legiferato gli stessi collantini341. Il regolamento boschivo fu effettivamente votato dal Parlamento di Colla nel novembre del 1757 e approvato dal Senato il 10 marzo successivo, con una disciplina che riproponeva in sostanza il contenuto dell’omologo testo sanremese, in forma semplificata e con pene per i danni campestri assai più miti342. Quanto al borgo principale, ai sensi del nuovo “Regolamento interiore” il Consiglio della comunità, composto da cento membri, doveva eleggere annualmente i cinque magistrati principali, tra cui il collegio degli Anziani, motore istituzionale della politica locale. Formato da sei membri maggiori di 40 anni, gli fu assegnata l’amministrazione ordinaria della comunità e la gestione del bosco343. I Capitoli per la buona direzione dei boschi della Comunità di S. Remo et in sua giurisdizione situati furono approvati il 19 maggio 1756344. Il testo riordinò su 49 articoli la stratificata massa di decreti approvati lungo i due secoli precedenti e dal punto di vista contenutistico le novità riguardarono più gli ufficiali preposti all’amministrazione della risorsa che i diritti d’uso. Agli Anziani fu imposto di far rispettare i capitoli e di punire gli abusi a vantaggio: «de’ poveri individui di quella [comunità], che sogliono dalli stessi [boschi] ricavare giornalmente il loro mantenimento, ma ancora per la conservazione et augumento de’ medemi tanto necessari alla La relazione di Alerame Pallavicino sullo stato dei boschi del Dominio è in ASGe, Camera di governo e finanza, 608. «Il capitolo che riguarda il regolamento dei boschi, e li capitoli campestri, siccome ha relazione alli capitoli e Statuti di S. Remo, li quali più non esistono, così la Comunità della Colla farà estendere il regolamento dei boschi, e li suddetti capitoli campestri per farli presentare al Serenissimo Senato», ASGe, Archivio segreto, 303. 342 Il regolamento constava di 10 articoli. Si segnala il diritto di tutti i membri della comunità di appropriarsi della legna secca, delle foglie e dei cespugli per usi domestici e di condurvi il bestiame a pascolare, tranne le capre. Il testo mutuava il sistema delle licenze per il taglio del legname in vigore a Sanremo e regolava sommariamente la procedura per l’accertamento dei danni dati. Una copia è in ASGe, Archivio segreto, 306. 343 ASGe, Archivio segreto, 305, RSL, n. 913. Gli Anziani rappresentavano il “corpo della comunità”, e si relazionavano direttamente con giusdicente genovese. La gestione delle bandite di pascolo del monte Bignone e l’incanto degli erbaggi furono invece assegnati ai Censori, mentre il collegio dei Raggionati, presieduto dal Governatore genovese, aveva competenza sui redditi, imposizioni fiscali, riscossione di interessi e gestione dei crediti e debiti della comunità. 344 Una copia in ASGe, Archivio segreto, 305, RSL, n. 919 da cui sono tratte le citazioni che seguono. 340 341 115 coltura del territorio, e comodo dei particolari benestanti». Si estese il novero delle situazioni causa di conflitti di interessi. Ora non solo i padroni di bestiami, ma anche i padroni di barche di stazza superiore alle cento mine non potevano partecipare alle sessioni del collegio degli Anziani dedicate ai boschi, con facoltà del Governatore di surrogare il collegio con dei supplenti nel caso non si fosse raggiunto il numero legale (4 membri su 6). Sicuramente però l’articolo che segnò maggiormente la rottura con le consuetudini “pre-rivoluzionarie” fu il secondo, con cui si assegnò la competenza a riformare il regolamento al Consiglio dei cento, previa approvazione del Senato genovese. Cessava quindi l’autogestione della comunità, per il tramite dei Conservatori che dalla fine del XVI secolo avevano diretto la politica forestale locale senza intromissioni da parte del governo345. Il regolamento trasferì agli Anziani le competenze prima spettanti ai Conservatori del bosco sulla nomina dei campari e la concessione delle licenze per il taglio degli alberi346. Inoltre furono previste situazioni in cui era necessaria la partecipazione del giusdicente genovese di Sanremo, in particolare per l’approvazione delle licenze concesse dagli Anziani e nel giudizio sugli illeciti dei campari, che è sicuramente uno degli elementi di novità del testo347. Sull’impiego delle risorse forestali non si registrarono, come detto, novità significative. L’uso civico di far legna sopravvisse e riguardava solo legname minuto secco (pini, piccoli arbusti e brughi), che potevano essere tagliati senza licenza alcuna, mentre gli alberi vivi non potevano essere abbattuti. L’abbattimento era sottoposto ad autorizzazione, la cui disciplina ricalcava le precedenti previsioni dei Conservatori. Per non favorire gli abusi il regolamento precisò che dalle licenze non si poteva «inferire alcun dominio o possesso, o sia quasi, ovvero gius, né tampoco detenzione veruna delle terre, o d’alcuna d’esse per quali dette licenze fossero concesse, et a favore di chi fossero concesse, a benche le medeme terre si pretendessero de’ Particolari». L’articolo disponeva che «Quando per la diversità de’ tempi, e delle circonstanze fosse espediente rivocare, o moderare alcuno de’ presenti ordini per la conservazione di detti boschi, detta rivocazione o moderazione spetterà al Magnifico Consiglio di Cento sogetti, e dovrà riportar almeno li due tersi de’ voti de’ congregati in legitimo numero, e l’aprovazione del Serenissimo Senato, altrimenti non sia luogo alla rivocazione, o grazia fatta dal detto Magnifico Consiglio, o che si prendesse di fare, e si consideri irrita e di niun valore». 346 I campari furono previsti in numero di due ed erano rimuovibili dall’incarico difetto di diligenza in ogni momento. A conti fatti il numero di persone fisicamente impegnate a sorvegliare il bosco diminuì sensibilmente, perché dai quattro Conservatori, assistiti dai campari e da un numero massimo di dieci accusatori pubblici (potenzialmente) in carica prima del 1753, si passò ai due soli campari previsti dal regolamento. 347 La connivenza degli ufficiali con i danneggiatori era sanzionata con la pena di 100 lire, ma l’aspetto più innovativo è l’iter processuale predisposto e valido tanto per i danni dati quanto per gli abusi dei campari. Si ammise la possibilità di ricorrere al biglietto “orbo”, largamente utilizzato per le denunce criminali le informative di carattere politico, per segnalare la commissione di un illecito. La denuncia era legittima a condizione che il biglietto indicasse almeno un testimone di buona voce e fama in grado di giurare sui dettagli di fatto dell’accusa. Il Vicario, compiuta l’istruttoria, doveva sottoporre la causa al Commissario per la decisione. Uno studio specifico sulle delazioni anonime in uso a Genova è stato compiuto da E. GRENDI, Lettere orbe. Anonimato e poteri nel Seicento genovese, Palermo, 1989. 345 116 Il regolamento conservò le autorizzazioni per il taglio degli alberi, per l’introduzione di animali al pascolo e per il taglio e la lavorazione di alberi destinati alla costruzione di imbarcazioni. Per questo erici, roveri e castagni furono ancora destinatari di una tutela differenziata – ancorché crescenti su fondi privati – e certi articoli furono poco più che trascrizioni di passi degli statuti o delle delibere dei Conservatori348. L’utilizzo, il procacciamento e il trasporto di legname per le fabbriche di sapone, mattoni, calce e pellami fu proibito senza variazioni sensibili. Il rilascio della licenza di taglio per fini navali fu sottoposto alla prestazione di una cauzione di 100 scudi, in aggiunta ai tradizionali giuramenti di non tagliare un numero maggiore di alberi rispetto a quelli richiesti e di completare il lavoro entro due mesi (tre se la lavorazione avveniva lontano dal bosco). Per la rigenerazione della selva fu sanzionato con la massima pena contemplata dal regolamento il taglio di alberi giovani, mentre sparì sotto il profilo formale la bandita boschiva349. il contenuto giuridico fondamentale della bandita però rimase, giacché i fondi privati compresi entro i confini della selva erano sottoposti a vincoli speciali, quali il già menzionato divieto di taglio di determinate piante, l’obbligo di doversi munire di licenza per tagliare anche gli alberi non tutelati, il divieto di pascolo. Per quanto concerne l’attività pastorale, le capre furono circondate dalla consueta normativa ostile. Gli Anziani potevano deputare un sito specifico nel bosco per la loro pastura, a patto che i capi introdotti appartenessero a uomini di Sanremo. Si ribadì la necessità del giuramento circa la proprietà sanremese dei bestiami in genere portati a pascolare a Bignone. Per assicurare poi la fertilità della vecchia bandita di pascolo montana e del bosco si proibì l’asportazione del letame, che avrebbe concimato la terra con comune beneficio350. Nell’ultimo trentennio di vita della Repubblica le condizioni del bosco andarono peggiorando, motivo per cui forse anche il governo proseguì a rifornirsi di legname l’Arsenale da altre selve (Savona, Ceriana)351. Il caso sanremese dimostra come una comunità seppe auto«Non sii lecito a veruna persona di qualonque grado, stato, e condizione il tagliare nelle loro proprie terre tanto boschili, quanto domestiche alberi selvatici, o brotti né alcuno d’essi come elici, roveri, castagne, et altri di tal natura alla pena di lire cento per ogni albero e per ogni contrafaciente». Per la sostanziale assonanza del regolamento settecentesco a disposizioni precedenti vedi ad esempio gli articoli 17, 18, 26 e 34. 349 Il bando riguardava «piante piccole d’alberi ovvero alboretti di elice, rovere, carpano, faggio, pino, e di qualsivoglia altro genere, o specie comprese anche le piante, ossian alboretti di castagna […] in detti boschi, compresivi anche quelli, che potessero dirsi de’ Particolari alla pena di lire cento per ogni volta, e per ogni contrafaciente». 350 Il prato di Bignone era interdetto all’accesso animale dal 1 settembre al 31 dicembre, a pena di lire 10 per bovi e asini e 2 lire per le bestie minute. 351 Vedi la lettera dell’ingegnere Girolamo Gustavo del 20 gennaio 1785 in ASGe, Camera di governo e finanza, 609. Un’altra lettera anonima che invocava una maggiore attenzione del governo per il patrimonio forestale della riviera di Ponente menzionava tra i più rovinati «quei di S. Remo e della Colla, ora perduti affatto, ne’ quali non son molti anni 348 117 organizzarsi per gestire un bene comune anche in assenza, o con scarse sollecitazioni, di direttive dello Stato. L’assenza di una disciplina generale, “legislativa”, non può essere d’altronde considerata un segno di arretratezza della Repubblica. Se confrontata con esperienze vicine, come quella sabauda, la politica forestale di Genova non appare affatto “arretrata” sotto il profilo degli strumenti giuridici impiegati e del rapporto tra fonti. Rispetto al governo piemontese, l’amministrazione ligure disponeva di minori uomini da impiegare nella sorveglianza, motivo per cui nel secondo Settecento fu preferita la concessione ai privati, ma solo con la Restaurazione si pose fine alla reciproca compenetrazione tra diritto locale e leggi del Principe tanto “al di qua” che aldilà degli Appennini352. La parziale inefficacia delle norme elaborate lungo l’arco di trecento anni è forse da addebitare più alle lacune della vigilanza che alla loro oggettiva inadeguatezza. In caso contrario le riforme del diritto locale successive al 1753 avrebbero mutato sensibilmente il quadro normativo in materia boschiva ereditato dai Conservatori, cosa che come dimostrato non avvenne. Il regolamento per i boschi del 1756, pur inserendosi in un contesto di livellamento degli spazi di autonomia della comunità, rifuse invece in forme nuove contenuti originatisi in loco, nella consapevolezza che solo gli abitanti del luogo potevano garantire un apparato di regole d’uso adeguato alle caratteristiche della risorsa e funzionale al soddisfacimento (almeno parziale) della domanda di legname locale. che impedito ne fu perfin l’accesso agli Ufficiali della Repubblica incaricati dell’esatta loro ricognizione, della marcazione delle piante da costruzione in essi essistenti», ASGe, Camera di governo e finanza, 2754. Per un confronto con un’altra Repubblica R. VERGANI, Legname per l’Arsenale: i boschi “banditi” nella repubblica di Venezia (secoli XVXVII), in S. CAVACIOCCHI, Ricchezza del mare, ricchezza dal mare (secc. XIII-XVIII), Firenze, 2006, pp. 401-414. 352 Come ha ben sintetizzato Pene Vidari, la legislazione piemontese sui boschi prima della Rivoluzione era di competenza locale (comunitaria o feudale), sottoposta al controllo regio, mentre con la Restaurazione avvenne il trionfo definitivo della legislazione regia, generale, che impose un’unica disciplina a ogni tipo di coltura forestale, mettendo fine alle autonomie periferiche, cfr. G. S. PENE VIDARI, Il bosco dall’ambito territoriale locale alla disciplina sabauda, in Pouvoirs et territoires, cit., pp. 333-340. 118 Capitolo IV Governare le privatizzazioni: le istituzioni liguri e la tutela delle comunaglie 1.a) Introduzione Il problema delle usurpazioni e delle privatizzazioni dei beni comuni e dei correlati strumenti giuridici di recupero o controllo offre diversi spunti rilevanti circa la capacità delle istituzioni locali di gestione dei beni di contenerne la dispersione e di analizzare l’operato del Magistrato delle Comunità, incaricato di vigilare sui patrimoni delle comunità soggette. La riduzione dei patrimoni comunali avvenne ovunque e in forme differenti. Le caratteristiche socioeconomiche e politiche del contesto ebbero in tal senso un impatto decisivo, determinando la trasformazione del paesaggio, delle pratiche agro-pastorali e dei relativi diritti reali esercitati sul suolo353. Com’è noto, oltre alla diminuzione patrimoniale, il danno principale patito dalle comunità consisteva nel mancato incasso dei redditi per i canoni o le imposte relative alle terre lavorate abusivamente. Oltre alle occupazioni illecite da parte dei privati, non può dimenticarsi il ruolo avuto dai provvedimenti assunti in materia fiscale dai vari governi, che individuarono spesso nei beni delle comunità i mezzi con cui far fronte a crisi debitorie talvolta abbastanza gravi, interessanti tanto lo Stato quanto le comunità medesime. La stessa storiografia europea ha trattato il tema secondo approcci differenti, approfondendo ora le conseguenze economico-sociali della fine delle proprietà collettive, ora gli aspetti giuridico-istituzionali354. Senza voler dare conto della sterminata bibliografia sull’argomento, possiamo isolare i tratti principali Condivisibili appaiono le osservazioni di Raggio, secondo il quale i fattori classici proposti dalla storia economica per giustificare l’erosione dei diritti collettivi (espansione del mercato e aumento demografico) possono delineare un contesto generale di approssimazione, ma non sono in grado di spiegare le caratteristiche specificamente locali delle usurpazioni e della ridefinizione dei diritti di possesso, nonché la manipolazione delle consuetudini, cfr. O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., pp. 160-161. 354 La storiografia inglese e quella francese possono essere considerate le due principali esponenti di questa diversità di indirizzi: da una parte, i formidabili cambiamenti indotti dalle enclosures portarono gli storici inglesi a studiarne gli effetti di medio-lungo periodo nella società inglese, mentre il problema dei differenti diritti collettivi sul suolo e la loro evoluzione tra XVIII e XIX secolo furono al centro delle riflessioni degli studiosi transalpini, a partire dal già citato Bloch. Per uno sguardo d’insieme vedi N. VIVIER, Introduction, in N. VIVIER E M. D. DEMELAS (a cura di), Les propriétés collectives face aux attaques libérales (1750-1914), Rennes, 2003, pp. 15-34. 353 119 Il novero dei conflitti appare molto variegato e di alcuni di essi abbiamo già dato conto nelle sezioni precedenti: poteva trattarsi di controversie per usi promiscui tra comunità confinanti, oppure opposizioni alla fisiologica tendenza di piegare fondi pubblici ad utilizzi del tutto privati. Indubbiamente le appropriazioni illecite operate da medi e grandi proprietari o dai signori feudali misero a dura prova la tenuta degli assetti collettivi, così come la creazione delle Dogane di pascolo in Toscana, nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli creò i presupposti per ulteriori abusi nella gestione delle bandite residue355. Sempre nel Regnum meridionale usurpi e occupazioni illegali furono conseguenza non solo dei conflitti interni alla società rurale, ma anche di una più accentuata concezione privatistica del rapporto con la terra da parte dei feudatari. Tramite chiusure o “difese” i baroni espropriarono porzioni crescenti del demanio, ledendo con un solo atto la sovranità regia sul territorio e gli insopprimibili diritti di uso civico delle universitates, per la difesa dei quali i giuristi amalgamarono materiali diversi, da antiche costituzioni del Regno alle moderne dottrine di diritto naturale356. L’area senese vide invece prevalere l’espansione della piccola proprietà agricola locale, che erose nel tempo l’estensione dei fondi prima goduti collettivamente, mentre grandi proprietari cittadini concentrarono i loro interessi fondiari solo su alcune comunità della Maremma settentrionale, parzialmente contrastati dall’ufficio dei Quattro conservatori dello Stato357. A Venezia, la quantità di usurpazioni commesse nello “Stato da terra” portarono la Serenissima a dare i primi provvedimenti già nel 1461, sancendo il divieto di vendita e concessione a livello o in enfiteusi dei beni comunali posseduti da più di 30 anni e ordinando la confisca degli altri. Nel corso del Cinquecento furono poi delegati degli appositi Provveditori alla materia dei beni comunali che sovrintesero al recupero o all’alienazione dei beni usurpati o illecitamente ceduti durante le guerre d’Italia. Sempre durante il XVI secolo, Venezia riuscì a imporre per legge il proprio dominio formale su tutti i communali, mentre alle comunità era concesso soltanto il diritto Sulle dogane di pascolo vedi almeno O. DELL’OMODARME, La transumanza in Toscana, cit.; ID., Le Dogane di Siena, di Roma e di Foggia. Un raffronto dei sistemi di “governo” della transumanza in Età moderna, in Ricerche storiche, 26 (1996), pp. 259-303; L. PICCIONI, Montagne appenniniche e pastorizia transumante nel Regno di Napoli nei secoli XVI e XVII, in Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, XI, 1989-90, pp. 145-234. 356 Cfr. G. CORONA, Demani ed individualismo agrario nel Regno di Napoli (1780 - 1806), Napoli, 1995, pp. 52-77 che ha notato come alla base delle occupazioni vi fosse, tra gli altri motivi, anche la farraginosità dell’iter giudiziario volto a legittimare i titoli di proprietà tipica dei tribunali regi a tutti i livelli. Sulla genesi nella giurisprudenza napoletana dell’uso civico vedi il già citato S. BARBACETTO, Uso civico sul demanio feudale, cit. Cenni sulle pratiche di utilizzo del demanio e le fonti giuridiche nel Regnum anche in A. BULGARELLI LUKACS, La gestione delle risorse collettive nel Regno di Napoli in età moderna: un percorso comparativo, in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 227-246. 357 Cfr. E. FASANO GUARINI, La Maremma senese nel Granducato mediceo (dalle “Visite e memorie del tardo cinquecento), in Contadini e proprietari nella Toscana moderna, vol I, Firenze, 1978, pp. 405-472. 355 120 di godimento. Dopo essersi proposto come paterno difensore dei beni usati collettivamente, alla ricerca di fonti di finanziamento per la guerra di Candia di metà Seicento, il governo si fece promotore della loro privatizzazione, ma il consueto concorso di frodi e inefficienza amministrativa resero tutta l’operazione di gran lunga meno redditizia rispetto alle stime iniziali358. Altrove la tensione tra assetti collettivi e sfruttamento privato determinò profondi adeguamenti delle istituzioni di gestione. È il caso ad esempio di alcune Partecipanze agrarie emiliane, dove già a partire dal XIV secolo si nota una contrapposizione tra i ceti agiati e la maggioranza dei meno capienti in merito all’assegnazione periodica delle terre comuni. La volontà dei maggiorenti di rastrellare molti lotti assegnati ai poveri e interrompere il riparto periodico per favorire uno stabile sviluppo delle attività agricole si unì alla progressiva esclusione dei residenti non originari dal diritto di accesso. A fronte delle novità interessanti il mondo contadino tra il XV e il XVI secolo, le Partecipanze tesero così a chiudersi verso l’esterno, contrapponendo alle mire espropriatrici dei proprietari cittadini (bolognesi in primis) una comunanza di interessi e di fatiche a difesa dei suoli collettivi359. La sopravvivenza di beni utilizzati collettivamente variò anche in relazione alle caratteristiche geografiche e naturali del luogo in cui erano situati. Si è già avuto modo di accennare nel capitolo I che in generale le maggiori resistenze alla privatizzazione provennero dalle aree alpine, laddove la proprietà collettiva costituiva una risorsa integrativa delle piccole proprietà private fondamentale per le popolazioni residenti, rispetto alla pianura. Qui l’erosione a beneficio della proprietà privata fu nettamente più evidente. Emblematica appare la decisione assunta dal governo austriaco di Milano nel 1779, quando con editto fu ordinata l’alienazione coattiva di brughiere e terreni incolti delle sole pievi di pianura del territorio lombardo. L’indebitamento di molte comunità aveva già concorso a soppiantare gli usi collettivi dei boschi e Cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., in particolare pp. 39-190. Fu a questo proposito che si pose la distinzione tra beni collettivi, appartenenti ai consortes e sottoposti ai poteri di amministrazione della Partecipanza, e beni comuni, rimasti indivisi e fruibili anche da parte di coloro che erano stati esclusi dalla chiusura dei partecipanti. Tuttavia tale distinzione non si verificò ovunque nello stesso momento, cfr. M. DEBBIA, Il territorio di Nonantola durante il medioevo: partecipanza o beni comuni? Il significato dei beni comuni nella storia della comunità locale, in E. FREGNI (a cura di), Terre e comunità nell’Italia Padana. Il caso delle Partecipanze Agrarie Emiliane: da beni comuni a beni collettivi, in Cheiron n. 14-15 (1990-1991), pp. 123-130; R. DONDARINI, Comunità rurali, cit. Come ha scritto Cazzola, la chiusura della Partecipanza fu un mezzo di difesa non privo di contraddizioni, ma per certi versi indispensabile per fronteggiare tanto i contrasti con i residenti esclusi quanto i rischi di disgregazione intestini del gruppo stesso dei comunisti, cfr. F. CAZZOLA, Tra conflitto e solidarietà: considerazioni sull’esperienza storica delle Partecipanze agrarie dell’Emilia, in Cheiron n. 14-15 (1990-1991), pp. 293-307. 358 359 121 dei prati a vantaggio di una gestione patrimoniale (affitto periodico) più redditizia360. Le somme incassate dalla privatizzazione furono vincolate all’estinzione dei debiti contratti dalle comunità. La crisi delle forme di sfruttamento collettivo delle risorse agro-pastorali e dei relativi istituti giuridici è quindi da imputare ad un concorso di fattori che, spezzando il legame solidaristico tra gli utenti, ne determinarono il venir meno. Nel corso del XVIII secolo, il diffondersi di nuove idee agronomiche di matrice fisiocratica-liberale assegnarono un rango preminente allo sviluppo dell’agricoltura nel quadro delle politiche economiche degli Stati. I sovrani erano sollecitati a promuovere riforme che facilitassero la libera impresa e il dissodamento di crescenti porzioni di terreno: in tale ottica usi civici di pascolo o di legnatico e proprietà collettive indivise e sottoutilizzate rappresentavano un cattivo esempio di gestione del territorio e dovevano quindi essere superate361. Dalla seconda metà del secolo si registrarono quindi iniziative di parcellizzazione e vendita dei beni comuni, ma tempi, modi di attuazione e reazioni sociali a queste politiche non sono perfettamente sovrapponibili da Stato a Stato362. È innegabile perciò che il processo di depauperamento delle risorse collettive origini già prima della grande stagione privatizzatrice del secondo Settecento. Molti Principi si proposero di scongiurare la perdita dei beni comuni sottoponendo a vincoli più stringenti le comunità in relazione agli atti dispositivi dei bona propria e di tutti i redditi e introiti fiscali. Le magistrature di sforzarono di mantenere in equilibrio il rapporto tra i fondi lavorati dagli abitanti e le risorse naturali comuni, nella consapevolezza della loro indefettibile interdipendenza. Oltre all’espansione delle proprietà private, crescevano anche le esigenze dell’erario e si faceva più concreta la probabilità di attingere ai beni comunali per potere onorare il carico fiscale. Secondo Mannori, lo Stato mediceo fu allo stesso tempo soggetto attivo del trend di concessione in enfiteusi o terratico di ampie parti di fondi comunali e difensore di quegli usi collettivi la cui soppressione avrebbe Cfr. M. ROMANO, I beni "comunitativi": la gestione delle risorse collettive nella Lombardia austriaca della seconda metà del Settecento, in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 207-226. Per quanto riguardava le zone montuose, pochi erano i beni naturali di qualche valore che giustificassero la vendita. Tuttavia la scarsità dei mezzi disponibili da parte dei residenti li rendeva in tutto e per tutto necessari alla sopravvivenza di popolazioni già provate da notevoli tassi di emigrazione: la vendita coattiva avrebbe solo aggravato le loro condizioni, senza benefici per lo Stato. 361 Cfr. N. VIVIER, Propriété collective et identité communale: le biens communaux en France 1750-1914, Parigi, 1998, pp. 29-34. Va detto che non tutti i piani di riforma presentati dagli agronomi, per quanto critici verso le condizioni dei fondi collettivi, prevedevano necessariamente il trasferimento ai privati. Alcuni, come il piano del conte d’Essuiles di tentò di conciliare un più razionale sfruttamento della terra con il mantenimento del sistema feudale, suggerendo di frazionare solo i diritti di godimento ma mantenendo la proprietà fondiaria in capo ai comuni. Sempre N. VIVIER, Introduction, cit., ha sottolineato come idee simili si diffusero anche al di fuori degli ambienti strettamente fisiocratici francesi. 362 Per una cronologia più dettagliata si rinvia ai diversi saggi contenuti in Les propriétés collectives face aux attaques libérales, cit. 360 122 causato più danni che benefici. Ciò avvenne sulla scorta della già illustrata convinzione che voleva i beni comuni come appartenenti all’università degli uomini componenti la comunità e non all’ente amministrativo, oltre che in base a ragioni di opportunità sociale e politica contingenti. Si può quindi affermare che i secoli centrali della modernità videro gli Stati porsi in generale come vigili conservatori del patrimonio delle comunità, almeno fino a quando il dissesto delle finanze locali, le (eventuali) necessità belliche, le innovazioni nel mondo agricolo e l’emersione di nuove idee economiche non posero i presupposti perché gli stessi sovrani decidessero di riconfigurare il tradizionale sistema di diritti reali sulla terra in senso più individualista. Con riguardo alla Repubblica genovese è opportuno soffermarsi ora in dettaglio sui tratti fondamentali del fenomeno appropriativo e sul sistema organizzato dalla Repubblica per intervenire laddove mala amministrazione e usurpazioni mettevano a rischio le comunaglie possedute dalle comunità. Esula dall’oggetto di questa sezione illuminare in dettaglio le trasformazioni agrarie avvenute tra XVII e XVIII secolo in Liguria, così come non ci attarderemo nel ricostruire le reti di relazioni sociali sottostanti i casi di usurpazione dei beni comunitativi di cui andremo a trattare: i (relativamente pochi) lavori dedicati all’argomento hanno già in parte avanzato documentate conclusioni363. In questa sezione prenderemo dunque le mosse dall’analisi delle problematiche sottese all’utilizzo delle azioni possessorie che le comunità avrebbero potuto esperire per costringere gli usurpatori dei loro beni a liberarli per giustificare la creazione di apposite magistrature dotate di ampi poteri arbitrari, tra le quali si colloca il Magistrato delle Comunità genovese. Una breve esposizione delle caratteristiche principali delle usurpazioni delle comunaglie liguri sarà seguita dall’esame di alcuni processi condotti dal Magistrato, differenti per importanza ed esiti, e da un sintetico sguardo al controllo amministrativo sulle alienazioni dei beni comunali decise dalle comunità locali. Mi riferisco in particolare a O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., che ha esaminato casi di occupazione di comunaglie a Castiglione, Lumarzo, Albisola, Vallefredda e Comuneglia. Su alcune di queste torneremo anche nelle pagine che seguono. Inoltre, sebbene non giuridicamente soggette alla Repubblica di Genova, interessanti anche le conclusioni di B. PALMERO, Comunità, creditori e gestione del territorio, cit. svolte a proposito di Briga. Grazie ad essi si è appurato che all’origine delle appropriazioni illecite vi furono prevalentemente i proprietari medio-grandi locali, spesso inseriti in reti parentali in grado di condizionare le scelte economiche fondamentali della comunità come la rinegoziazione dei diritti di possesso collettivo sulle terre comuni. Con particolare chiarezza emerge poi il peso dell’indebitamento comunitario per la dissoluzione dei beni comunali nel caso di Briga, che pur non essendo sottoposta alla giurisdizione genovese, bensì a quella sabauda, vantava relazioni e interessi con le comunità liguri confinanti come Triora e Ceriana. 363 123 2.a) Il problema del recupero dei beni usurpati in dottrina: due consilia di Della Corgna ed Ondedei Muovendo dal principio secondo cui Universitas minoris et pupillis aequiparatur, l’attività negoziale delle comunità si svolgeva sotto la vigilanza dell’autorità superiore e soltanto l’ordinaria amministrazione era immune da forme di controllo. Per tutti gli atti economicamente più rilevanti (stipula di censi per ottenere denaro immediatamente spendibile, aggiornamento dei libri catastali, acquisto o vendita di beni immobili) era necessaria l’autorizzazione del sovrano. In particolare l’alienazione dei beni comunali, notoriamente fonte di abusi che vedevano le comunità invariabilmente nel ruolo di parti lese, fu circondata da formalità ben dettagliate e sottoposta alla decisiva licenza del Principe364. Va ricordato però che il grado di compressione dell’autonomia negoziale e patrimoniale delle comunità variò da Stato a Stato. Il c.d. “accentramento” si adattò alle forme e alle condizioni istituzionali di ciascun ordinamento regionale, realizzandosi sì in modo diacronico nei diversi Stati, ma lungo linee di sviluppo assimilabili. In tale ottica è forse erroneo soffermarsi eccessivamente sulla qualità degli strumenti impiegati, fossero tradizionalmente giurisdizionali o in senso lato “amministrativi”, dal momento che sembra più rilevante analizzare i risultati effettivamente conseguiti365. A contrario, pure i casi di illecita spoliazione del patrimonio comunitario chiamavano in causa il Principe e, come detto nel paragrafo precedente, non furono pochi gli Stati che istituirono apposite magistrature per recuperare i beni. In stretto diritto, tutti i beni situati entro i confini della comunità che non fossero di proprietà altrui appartenevano alla stessa universitas, ma le pratiche di utilizzo potevano riguardare solo una parte di essi o differenziarsi comunque in ragione delle caratteristiche specifiche di quel bosco o di quel prato. Non era infrequente insomma che Su questo vedi l’ultimo paragrafo di questa sezione. Per fare un esempio, le comunità toscane furono sostanzialmente private della qualità di centro decisionale autonomo: oltre a non poter più disporre liberamente dei propri beni, furono anche vincolate ad amministrarli secondo le direttive impartite dal centro. Tra i mezzi tipicamente impiegati per il controllo del patrimonio comunale possono citarsi i censimenti periodici – finalizzati a costringere gli eventuali occupatori abusivi a sanare la loro posizione o a liberare il fondo -, le visite, i decreti di autorizzazione delle eventuali alienazioni, i processi di accertamento dei diritti vantati da comunità e privati, l’imposizione di incanti per l’ordinaria amministrazione, cfr. L. MANNORI, Il sovrano tutore, cit., pp. 189-222. Sulle formalità richieste dalla dottrina per la vendita dei beni comunali vedi A: Dani, Usi civici, cit., pp. 421-432. 365 Del tutto condivisibile appare la riflessione di Elena Fasano Guarini, secondo la quale il controllo dei bilanci e del riparto delle imposte, la conservazione dei patrimoni comunali e la prevenzione dell’indebitamento furono gli strumenti che si affiancarono alla giurisdizione allo scopo di pacificare la società e comporre i conflitti. Accorgimenti nuovi per esigenze antiche e insopprimibili dunque, ma come la stessa studiosa precisa: «Tutto ciò non è avvenuto dovunque nello stesso tempo e allo stesso modo, con la stessa forza, con gli stessi orientamenti e la stessa efficacia. Non ha in ogni caso comportato la sospensione delle autonomie locali e non ha precluso la lunga sopravvivenza di forme di negoziazione», cfr. E. FASANO GUARINI, Conclusioni, in Comunità e poteri centrali, cit., pp. 315-331. 364 124 castra e villae possedessero molteplici risorse naturali soggette ad uno sfruttamento variabile, più o meno intenso e regolamentato366. L’usurpazione di un bene creava i presupposti perché i sindaci della comunità esperissero le azioni di reintegrazione del possesso offerte dal diritto comune romano-canonico, introducendo una controversia di fronte al giudice di volta in volta competente a decidere. Eppure non può ignorarsi il fatto che in moltissime circostanze non fu agli strumenti ordinari che le comunità guardarono per difendersi dagli occupatori, bensì a procedimenti attivati con semplici suppliche rivolte alle magistrature statali. Possiamo già anticipare che su questa linea si attestarono anche le comunità liguri nei loro rapporti con le magistrature centrali. Le cause di questa scelta possono essere ricostruite analizzando due consilia stilati da Pier Filippo Della Corgna e da Giovan Vincenzo Ondedei367. Protagoniste dei pareri – nonché committenti delle scritture – due comunità umbre, rispettivamente Nocera e Spello. Dagli scarni dettagli sui fatti della causa si apprende che la prima era stata convenuta in giudizio dal monastero di San Pietro per un’asserita occupazione di boschi e pascoli siti su un monte. La seconda invece, vittima di un’usurpazione di beni comunali operata da un feudatario locale nel 1507, agì contro gli eredi per recuperare i beni solo nel 1580. Entrambi i giuristi si espressero nell’ambito di due cause possessorie azionate ai sensi del canone Reintegranda, un rimedio possessorio che Graziano aveva tratto dallo Pseudo Isidoro e inserito nel Decretum368. Su tale canone la dottrina aveva costruito in via interpretativa l’azione Oltre ai beni valorizzati economicamente, spettavano alla comunità anche le terre incolte, a prato o a selva, situate entro i confini, come affermava il Cravetta in un noto parere spesso richamato A. CRAVETTA, Consiliorum sive responsorum, Francofurti ad Moenum, Impens. Rulandiorum et Nicolai Rhodii, 1605, cons. 154, n. 1. Nell’incertezza dei toponimi e dei titoli proprietari, diventava quindi fondamentale provare contro gli usurpatori l’effettivo possesso della comunità tramite l’uso del pascolo e della raccolta di legna esercitati dagli abitanti o in virtù di accordi negoziali oppure su mandato e dietro consenso della stessa comunità, cfr. N. LOSA, Tractatus de iure universitatum, Lugduni, Sumptibus Antonii Chard sub signo S. Spiritus, 1627, pars III, cap. XVI, nn. 13-14. Su Losa vedi anche E. RUFFINI AVONDO, Il trattato "De jure universitatum" del torinese Nicolò Losa (1601), in Rivista di storia del diritto italiano, IV (1931), pp. 5-28. 367 P. F. DELLA CORGNA, Consiliorum sive responsorum, Volumen secundum, Venetiis, Apud Nicolaum Bevilacquam, & Socios, 1572, cons. 247; G. V. ONDEDEI, Consiliorum sive responsorum, Volumen primum, Venetiis, Apud Haeredem Luciani Pasini & Socios, 1692, cons. 17. 368 Si riporta il testo completo: «Reintegranda sunt omnia expoliatis vel eiectis Episcopis presentialiter ordinatione Pontificum: et in eo loco ubi abscesserant, funditus revocanda, quacumque conditione temporis, aut captivitate, aut dolo, aut violentia malorum, et per quascumque iniustas causas res ecclesiae, vel proprias, id est sua substantias perdidisse noscuntur ante accusationem, aut regularem ad synodum vocationem eorum», c. Reintegranda, 3, q. 1. 366 125 possessoria generale, utilizzabile (almeno dall’inizio del XV secolo) anche in campo civile per il recupero della cosa perduta a seguito di una spogliazione369. Alla base della sua fortuna giocarono due fattori: l’esiguità delle condizioni richieste per la sua esperibilità e l’ampio novero di ipotesi di spossessamento contemplate. In punto di elemento oggettivo la Reintegranda richiedeva soltanto che l’attore avesse perduto il possesso della cosa di cui chiedeva la restituzione, mobile o immobile che fosse, senza pagamento di danni né interessi. L’attore era quindi tenuto a provare il suo antico possesso e ad allegare l’attuale (e ingiusta) disponibilità della cosa presso il terzo convenuto. Dal punto di vista soggettivo, la Reintegranda era azionabile tanto dagli ecclesiastici quanto dai laici e il giudice, raggiunta la prova del possesso precedente e della spoliazione, doveva concedere la restituzione a prescindere dalla buona o mala fede del terzo. Anche nel caso in cui il convenuto fosse ignaro dell’illecito o fosse addirittura munito di titolo, il rimedio era legittimamente invocabile370. Della Corgna ed Ondedei si misurarono con il fenomeno delle usurpazioni di beni collettivi nell’ambito di un rito possessorio che non li impegnava a ricostruire la titolarità della proprietà dei beni in capo ad uno dei contendenti – circostanza frequente nei processi medievali su questi temi, lo si ribadisce – ma mirava semplicemente ad assegnare al precedente possessore la materiale disponibilità del bene, una volta provata l’illecita perdita. La lettura combinata dei loro pareri ci permette di isolare tre questioni significative relative all’efficacia dell’azione Reintegranda nel contrasto alle occupazioni dei beni comuni: la nozione si occupazione, la prova del possesso e l’operatività di prescrizioni e presunzioni legali. L’azione Reintegranda fu considerata dai primi canonisti come un mezzo di stretto diritto canonico, con esclusiva tutela del possesso di cose ecclesiastiche. La tendenza estensiva del suo campo di applicabilità fu contrastata, senza successo, da Innocenzo IV nel commento alla decretale clementina Saepe contingit. Papa Fieschi tentò di ricondurre il testo del Decretum al rango di semplice principio generale, cui davano concreta attuazione l’interdetto unde vi e gli altri rimedi romanistici. L’interpretazione dei canonisti e civilisti successivi rigettò la posizione innocenziana, qualificando la Reintegranda come un’azione generale di recupero del possesso distinta dalle altre. All’inizio del Cinquecento Roberto Maranta la descrisse come «plenissimum remedium, et magis generale, et concurrit cum omnibus aliis remediis», R. MARANTA, Speculum quod aureum, et advocatorum lumen, sive etiam aurea praxis merito vocatur, Francofurti ad Moenum, Impens. Sigis. Feyrab., 1586, pars IV, n. 58. Sulla Reintegranda nel quadro delle azioni a tutela del possesso vedi. A. PERTILE, Storia del diritto italiano, cit., vol. IV, pp. 185-195; E. BESTA, I diritti sulle cose, cit., pp. 274-284; L. MASMEJAN, La protection possessoire en droit romano-canonique médiéval (XIIIe-XVe siècles), Montpellier, 1990, pp. 184-205. 370 Nello specifico poteva sollevare eccezione ed opporsi efficacemente al recupero il terzo possessore in buona fede munito di titolo, che avesse ricevuto la cosa da un dante causa a sua volta in buona fede, opinione citata come comune dal Menochio. Eccezioni fondate su elementi di fatto diversi non erano sufficienti a vanificare la domanda attorea. Per l’analisi di tutte le possibili ipotesi con i rimandi dottrinali vedi J. MENOCHIO, De adipiscenda, retinenda et recuperanda possessione doctissima commentaria, Genevae, Apud Ioan de Tournes, et Iac. De La Pierre, 1629, XV, nn. 67-86. 369 126 Soffermiamoci inizialmente sui caratteri stessi della perdita del possesso. Le fattispecie volgarmente chiamate “usurpi” o “occupazioni” erano qualificate come spoliationes, che potevano comportare o meno l’uso della violenza per espellere o escludere il precedente titolare371. Qualificarle come occupationes in senso tecnico avrebbe significato considerare i beni come res nullius, vacanti e in attesa di qualcuno pronto ad impadronirsene. Della Corgna, contestando l’imprecisione terminologica del libello avversario, rilevava però che boschi e pascoli non erano res nullius, dal momento che salvo diversa attribuzione, si presumevano della comunità entro i cui confini erano situati372. Si poneva a questo punto il problema della prova del possesso da parte della comunità, affare di non poco momento373. Si è già fatto cenno alla questione della capacità testimoniale dei membri dell’universitas nei processi in cui la stessa comunità era parte, rievocando il contributo di Ugo Petronio circa la natura pubblica o comune delle risorse naturali374. In sintesi Petronio ha rilevato come la distinzione operata per la prima volta da Odofredo, circa l’inammissibilità della testimonianza dei cives in cause vertenti su beni della comunità da cui ricavavano un’utilità diretta, sia stata sostanzialmente seguita e confermata dai giuristi successivi fino a Bartolo e Baldo, offrendo ai trattatisti del tardo diritto comune una communis opinio non più revocabile in dubbio. Così Prospero Farinacci nel suo Tractatus de testibus, enunciato il principio della generale ammissibilità dei cittadini all’ufficio di teste a favore della loro comunità, poté definire verissima et communis Si deve sempre alla canonistica del Due-Trecento la progressiva confusione tra la deiectio romana, vale a dire lo spoglio violento, e la spoliatio canonica, intesa come semplice privazione illecita di una cosa per fatto del terzo, cfr. L. MASMEJAN, La protection possessoire, cit., pp. 108-113. Il venir meno di una nozione qualificata di violenza ebbe un rilievo importante alla luce dell’esperibilità degli interdetti classici e nel contesto della Reintegranda Ondedei si espresse così: «Nihilominus quia quis duobus modis spoliatus dici potest, et per vim, et re ipsa. Etiam si non probetur violentia, satis spolium iustificatur re ipsa, probata antiquiori possessione», G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, n. 13. 372 L’obiezione non solo formale per la scelta lessicale censurava il libello del monastero di S. Pietro, nella parte in cui accusava gli uomini di Nocera di aver occupato i suoi beni e non di averli spogliati: «Quia verbum occupo variis modis sumitur, et quandoque in bonam, et quandoque in malam partem ponitur, et quandoque indifferenter […] Nec est verum in caso nostro verba necessario tendant ad spoliationem. […] Sed occupare dicitur ille qui ingredit animo querendi possessionem, quam ipse non habebat; sed erat penes alium tempore ingressus quem ipse ingrediens intendebat spoliare, et sibi quaerere possessionem, quae occupatio dicitur spoliatio, quae spoliatio non comittitur sine violentia. Verbum occupatio, sumatur quandoque pro occupante possessionem vacantem […] In casu nostro non vere posse sumi dictis modis, cum dicatur in libello quod occupavit bona possessa per monasterium et Abbatem, et non erant vacantia, et occupatio tendebat in damnum et iniuria possidentis», P. F. DELLA CORGNA, Consiliorum, cit., cons. 247, nn. 8, 14. La definizione di occupazione riprende quella data da P. DI CASTRO, Consiliorum sive responsorum, vol. II, Augustae Taurinorum, Apud haeres Nicolai Bevilaquae, 1580, cons. 57, n. 2 373 Si rammenta che, in assenza di titoli legittimanti, la comunità acquisiva il possesso di risorse usate collettivamente mediante gli usi praticati dagli abitanti, a patto che a monte vi fosse un mandato, o almeno la «scientia et patientia» dei rettori, che valeva come un mandato tacito, come ricordava Ondedei appoggiandosi ad un’opinione indiscussa, G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 77-78. 374 Si rinvia a U. PETRONIO, La proprietà del bosco e le sue utilità, cit., in particolare pp. 430-435. 371 127 l’eccezione che si dava «in casu in quo commodum spectat ad singulos de universitate, quo casu non solum testis de universitate seculari, sed etiam ecclesiastica, nihil probat»375. Tra i numerosi dottori intervenuti a corroborare l’interpretazione tradizionale, lo spagnolo Diego de Covarrubias affrontò direttamente la questione della rilevanza dei diversi regimi di utilizzo delle risorse collettive ai fini dell’ammissione delle testimonianze dei cittadini. La distinzione compare fin dall’apertura del parere, quando il giurista cita le liti «ubi de pascuis publicis et communibus agitur» mosse dai cittadini di città, oppida e villaggi. Al giurista non sfuggiva che i fondi destinati al pascolo erano gestiti in modi diversi, con rilevanti ricadute sulla natura dei diritti vantati dai cittadini-utenti. Poiché l’utilità doveva essere riferita alla comunità per rendere valida in giudizio la testimonianza di un suo membro, il criterio da seguire nel caso di specie era la subordinazione dell’esercizio del pascolo (o altro diritto collettivo sul bene) al pagamento di una somma in denaro. Quindi soltanto se la lite riguardava i pascoli sfruttati dalla comunità in vista di un introito finanziario – qualche che sia il sistema adottato – i suoi membri potevano testimoniare davanti al giudice376. Su questo punto Ondedei si sofferma diffusamente nell’ambito della propria difesa di Spello, che nella causa contro i feudatari aveva prodotto la testimonianza di due cittadini a sostegno della propria domanda. Si intuisce dal consilium una probabile contestazione avversaria della veridicità stessa della deposizione, fondata sulla ricaduta positiva che la vittoria in giudizio avrebbe avuto per gli abitanti di Spello. Tale circostanza ad avviso delle controparti era in grado di viziare la dichiarazione e trasferire il commodum dalla comunità ai singoli. Ondedei replica richiamando un argomento tipico delle liti sorte da comunioni («Quia potius solet negligi, quod communiter possidetur») per comparare l’interesse dei singoli a quello della comunità al recupero dei pascoli. Il commodum ricavato da Spello sopravanza quello degli abitanti, che tornerebbero a fruire dei pascoli non immediate, bensì dietro pagamento di un P. FARINACCI, Tractatus de testibus, Francofurti ad Moenum, Zacharias Palthenius D. Typographus, 1606, quest. 60, nn. 450-455 e 496 con numerose citazioni di altri giuristi. 376 Covarrubias parte dal ricordato principio generale, secondo il quale «in causa universitatis non esse testem idoneum eum, qui sit de ipsa universitate, ubi tractatur in ea lite de iure universitatis, quod unicuique privatim commodum, vel damnum infert» mentre al contrario vanno ammessi i cittadini «quia in universitatem commodum ipsum defertur, non in singulos ipsius universitatis». Ferma la distinzione, al giudice spetta quindi comprendere le modalità di utilizzo del bene controverso per ricavare da esso le correlate preclusioni probatorie: «non ad usum publicum singulorum, sed ad locationem pascuorum pro annuo precio in publicum aerarium conferendo, esset civis, et oppidanus in ea causa testis legitimus et idoneus», D. DE COVARRUBIAS Y LEYVA, Quaestionum practicarum, earumque resolutionum, Francofurti, Ex Officina Typographica Nicolai Bassaei, Impensis Sigismundi Feierabend, 1573, cap. XVIII, n. 4. Sulla stessa falsariga vedi anche A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. XXXI, nn. 3-5. 375 128 canone riscosso dagli ufficiali locali, come si soleva fare prima dell’usurpazione377. Il giurista non nega la materiale convergenza dei due interessi, ma la percezione di un prezzo per l’esercizio del pascolo rende prevalente e giuridicamente autonomo l’honorem et utilitatem della comunità. Considerato che gli introiti così generati non sono distribuiti ai cittadini ma spettano ad bursam et capsam communem, il beneficio tratto dai singoli in caso di esito favorevole del processo è una mera conseguenza378. Una terza questione strettamente correlata a quest’ultima coinvolge il decorso del tempo ai fini sia della prescrizione acquisitiva dei beni usurpati sia della decadenza dall’azione di recupero. Sul primo versante il quadro era in linea teorica definito con sufficiente precisione: la prescrizione operava in presenza dei due noti requisiti (tempo trascorso e buona fede del possessore). Tuttavia conformemente alla ridotta capacità di alienare ad libitum, frutto dell’equiparazione al pupillo, anche la prescrizione di beni appartenenti ad una comunità era soggetta a notevoli limitazioni, presentandosi diversamente in relazione al tipo di bene interessato. A seconda dei casi, oscillava tra 100, 40 e 30 anni379. Ma per le cose publico usui destinatae assumeva nuovamente un ruolo decisivo il regime di accesso in vigore, oltre alla qualità stessa della cosa. Vie, piazze, teatri e i beni loro equiparati come pascoli e boschi, lasciati all’uso libero del popolo, si consideravano imprescrittibili per natura. Al contrario le medesime risorse naturali, nel momento in cui diventavano fonte di entrate finanziarie per le comunità, erano impropriamente considerate comuni ed erano pertanto soggette alla prescrizione quarantennale380. Ondedei rigetta l’accusa di falsa testimonianza sostenendo non solo il prevalente interesse della comunità, ma anche che le terre di pascolo contese non erano così estese da rappresentare un incentivo tanto remunerativo da indurre i testi a mentire, cfr. G.V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, n. 27. 378 Il rapporto meramente consequenziale di un interesse rispetto all’altro è affermato in maniera non equivoca: «Praeterea quia commodum principaliter respicit universitatem, et si in consequentiam esset singulorum, illud non videtur attendendum, nec in consideratione habetur ad repellendum testes». Applicando i principi già espressi al caso esaminato, Ondedei concludeva: «Sed quando (ut in casu de quo agitur) commodum et utilitas non spectat ad singulos, sed ad Universitatem, et fructus bonorum per officiales Communis recipiuntur pro communi utilitate, testes idonei reputantur», cfr. G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 28, 37. Della Corgna dedicò al problema minore spazio, G. F. DELLA CORGNA, Consiliorum, cit., cons. 247, nn. 8-9. 379 La prescrizione centennale riguardava quei beni acquisiti dalla comunità a titolo di legato, donazione, compravendita o lascito ereditario e trovava fondamento nel canone De sacrosancta Ecclesia dell’Authenticum. Per gli altri beni, e salve le eccezioni che si diranno in seguito, la prescrizione era di trenta o quarant’anni. 380 Il principio per cui «impraescriptibilia esse omnia usui publico destinata» era sottoposto ad una serie di limitazioni e specificazioni, sintetizzate da N. LOSA, Tractatus de iure universitatum, cit., parte III, cap. 17, in un capitolo interamente dedicato al tema della prescrizione a favore o contro la comunità. Come è stato messo in evidenza dal Dani però il tema dell’imprescrittibilità risulta godere di maggior attenzione presso la dottrina meridionale, la quale come si è accennato si serviva anche della prescrizione acquisitiva per contrastare gli abusi baronali, mentre le comunità dell’Italia centro-settentrionale sembrano aver risolto altrimenti la tensione tra diritti collettivi e interessi 377 129 Quanto alla buona fede, il discorso si fa più complesso, perché la materia contemplava un ampio ventaglio di ipotesi in cui operavano delle presunzioni legali, a loro volta contraddette da numerosi casi speciali, ed è pertanto ineludibile fare una sintesi limitata allo specifico oggetto della nostra trattazione. Preliminarmente va ribadito che per principio generale il possesso più antico si presumeva non solo lecito ma anche goduto in buona fede, mentre quello più recente – salvo ovviamente prova contraria – era guardato con sospetto, al punto da essere definito “clandestino”, potenzialmente contra ius381. La situazione era ovviamente più grave quando il possessore, oltre ad essere in mala fede, era privo pure di un titolo. Ora va da sé che gli occupatori erano spesso (ma non sempre) consapevoli della natura pubblica dei fondi appropriati e quindi dell’illiceità della loro condotta. Non di rado però venivano chiamati a rispondere dei loro atti molti anni o decenni dopo l’avvio degli abusi. La regola civilistica della presunzione di buona fede a favore di chi avesse posseduto la cosa per trent’anni era stata mitigata dai principi dedotti dal diritto canonico. Così la prescrizione trentennale poteva sanare la mala fede iniziale solo se essa era presunta, mentre se era certa e provata l’occupatore non poteva in alcun modo allegare il decorso del tempo a proprio vantaggio382. È chiaro che anche in questa circostanza la possibilità tanto materiale che giuridica di provare il possesso precedente di una comunaglia usurpata e l’atteggiamento del preteso spogliante aveva un impatto decisivo sulle probabilità di poter vincere in giudizio, specie quando la causa era intentata dopo molto tempo e le stesse testimonianze si facevano incerte. Il complicato privati, cfr. A DANI, Usi civici, cit, pp. 436-437. A titolo esemplificativo è sufficiente consultare il trattato del lucano De Jorio sui privilegi delle università per apprezzare le diverse ipotesi contemplate in tema di prescrittibilità di bona communia, dal diritto di pre-occupazione, alla prescrizione di servitù fino all’acquisto di diritti contro i Baroni. L’ultimo caso era quello dei beni usati per ottenere delle entrate come pascoli, boschi e laghi. Essendo beni venduti o affittati secondo schemi negoziali variabili, il cui uso quindi non era aperto indiscriminatamente a tutti, non potevano dirsi res in publico usu ed erano quindi soggetti alla prescrizione di 40 anni, C. DE JORIO, Tractatus de privilegiis universitatum, Neapoli, Typis Caroli Porsile Regii Impressoris, 1713, priv. 22, n. 32. Un discorso analogo valeva per le servitù di pascolo, cfr. A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. 17. 381 Per una rassegna di opinioni vedi D. TOSCHI, Practicarum conclusionum iuris in omni Foro frequentiorum, Romae, Ex Typographia Aloysii Zannetti, 1606, vol. VI, concl. 412. Sulla presunzione favorevole a chi dimostrava di aver goduto del possesso nel tempo più risalente cfr. L. MASMEJAN, La protection possessoire, cit., pp. 91-95. 382 L’incidenza della mala fede nella prescrizione è analizzata da Aimone Cravetta. La purgazione della mala fede presunta grazie alla longi temporis praescriptio si fondava sul commento bartoliano al rimedio Unde vi ed era stata ripresa da altri commentatori. Ma, avverte Cravetta, «de iure canonico standum est in hac materia malae fidei»: i canonisti avevano escluso che la mala fede, connessa al peccato compiuto, potesse estinguersi per il solo passare del tempo. Cravetta ammoniva quindi a non servirsi dell’autorità di Bartolo per estendere l’effetto sanante anche ai casi in cui la mala fede era certa, ostando in tal senso i precetti canonistici, A. CRAVETTA, Tractatus de antiquitatibus temporum, Lugduni, Apud Haeredes Iacobi Iuntae, 1562, parte IV, arg. Expressio alicuius actus, nn. 16-21. Nel suo Repertorio il Bonacossa riportava: «Mala fides praesumitur quando sciebat rem esse alienam, item statim, quod incipit scire rem a se possessam esse alienam; item in occupante praesumitur mala fides usque ad 30 annos tantum», I. BONACOSSA, Aureum repertorium alphabeticum De Praesumptionibus, Venetiis, Ex officina Damiani Zenari, 1580, p. 212-r. 130 gioco delle presunzioni e delle relative eccezioni era un ulteriore fattore di complicazione. A riprova di ciò, nel processo seguito dal Della Corgna come avvocato di Nocera, il monastero aveva prodotto a sostegno della domanda di recupero sia testimoni che atti di locazione, ma la comunità era riuscita a provare con propri testimoni che da almeno 70 anni possedeva i beni pretesi dai religiosi, tempo sufficiente per far scattare la presunzione di buona fede in capo ai nocerini383. L’acquiescenza dell’universitas nell’agire contro gli occupatori poteva determinare anche la decadenza dal diritto di esperire l’azione possessoria. Il punto era però controverso proprio per l’origine canonistica della Reintegranda, che si prefiggeva di tutelare i beni e gli uffici ecclesiastici senza limiti temporali. Le divergenze sono ampiamente testimoniate dal Cardinal Toschi, che a proposito del rimedio in parola elenca gli autori (tra gli altri Bartolo e Tartagni) secondo i quali dopo 30 anni si presumeva la buona fede del possessore attuale e il venir meno dell’interesse ad agire dello spogliato, ma rivela altresì che la giurisprudenza costante della Rota romana era stata di opposto avviso, decidendo sempre nel senso dell’imprescrittibilità del diritto ad agire384. Imprescrittibilità che le comunità alle prese con il recupero dei beni comuni avevano tutto l’interesse a sostenere, come nel caso di Spello. Ondedei, forte proprio della giurisprudenza rotale, rigettò l’eccezione di decadenza sollevata dei feudatari sostenendo non solo la perpetuità dell’azione, ma anche la legittimazione passiva degli eredi dell’originario usurpatore, avendo essi ricevuto i beni dal padre che li aveva ovviamente invasi e tenuti in mala fede385. I consilia dei due giuristi hanno dimostrato che, nonostante la sommarietà del rito, l’uso della Reintegranda per recuperare i beni comunali presentava non poche controindicazioni. Lo Non solo i testi del monastero non provavano il possesso dell’ente religioso oltre un decennio, ma gli stessi atti prodotti non sembravano riguardare esattamente i boschi al centro della lite. In ogni caso, sostiene Della Corgna, anche se i contratti di locazione provassero il possesso della controparte, a favore della comunità convenuta interverrebbe la prescrizione. Tali atti non sarebbero in grado di dimostrare la mala fede dei nocerini perché «ex tam longissima possessione debet resultare praesumptio bonae fidei». P. F. DELLA CORGNA, Consiliorum, cit., cons. 247, nn. 11-12. 384 Cfr. D. TOSCHI, Practicarum conclusionum iuris in omni Foro frequentiorum, Lugduni, Sumptibus Phil. Borde., Laur. Arnaud, et Claud. Rigaud, 1661, vol. I, concl. 45, nn. 82-85. 385 Si ricorda che la causa era stata intentata da Spello contro i figli del feudatario che aveva occupato i beni ben 73 anni prima dell’inizio del processo. La Reintegranda ammetteva che il bene restasse presso l’attuale possessore in buona fede soltanto se questi aveva ricevuto il bene da un dante causa a sua volta in buona fede. Nel caso di specie, lo spoglio era stato fatto consapevolmente e pertanto la mala fede seguiva la cosa, pregiudicando gli eredi convenuti pur in presenza di un titolo di per sé valido. Sempre a proposito della valutazione processuale del trascorrere del tempo, è interessante infine notare un altro argomento richiamato da Ondedei. Per rispondere all’obiezione tesa a sminuire l’efficacia delle testimonianze a favore della comunità su fatti tanto lontani, il giurista si appellò al metus. Spello era stata dissuasa per molto tempo dall’agire per recuperare i beni comunali perché i signori erano «viri potentissimi». L’inerzia era da riferirsi quindi al timore di probabili ritorsioni e non certo alla decisione di rinunciare spontaneamente all’azione: «Quando quis est spoliatus, si postea renunciat, per metum renunciasse praesumitur», G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 60-62, 79-86. 383 131 specifico regime di utilizzo del bene dedotto in giudizio era in grado di influenzare in maniera decisiva l’uso degli strumenti processuali a disposizione delle parti: dall’ammissione dei testimoni all’eccezione di mala fede o di prescrizione, le “istituzioni di gestione” in senso ostromiano – vale a dire l’insieme di regole vigenti per l’accesso e la fruizione di una risorsa collettiva – erano determinanti nel facilitare o rendere più ardua la restituzione. L’appiglio per superare la messe di preclusioni di cui il processo era disseminato era dato dall’arbitrium iudicis. Un cenno a questo proposito si rinviene proprio nel parere di Ondedei, che dopo aver addotto diversi argomenti a favore della capacità probatoria delle testimonianze a favore di Spello, ammette: «Praesertim quia cum in materia probationis non possit certa regula constitui. Sed an aliquid sit plene probatum, remittatur arbitrio iudicis, qui potest ex diversis praesumptionibus et coniecturis motum animi sui confirmare et ex eis sententiam ferre»386. L’arbitrio del bonus iudex doveva garantire così una decisione conforme ad un superiore canone di giustizia anche nei riti regolati, e di questo la dottrina giuridica era ormai pienamente convinta. L’invasione delle terre comuni assunse però in molti casi proporzioni assai più vaste: interi ettari furono occupati e sottoposti ad uso privato nell’arco di pochi anni, circostanza che si verificò anche in Liguria nelle forme che si illustreranno a breve. È chiaro che di fronte ad illeciti di tale portata i semplici rimedi possessori – per quanto sommari e diretti arbitrariamente dal giudice – non potevano garantire un sollievo rapido alle comunità spogliate. A fronte di un fenomeno che andava espandendosi, le comunità soggette riversarono sui Principi una domanda di giustizia a difesa dei loro patrimoni via via più intensa e incline a non esperire le azioni ordinarie. In molte realtà il recupero dei beni comunali fu perciò rimesso alle cure di apposite magistrature, accomunate dal ricorso sistematico all’arbitrium quale strumento non solo di gestione del processo, ma pure di individuazione equitativa della soluzione in grado di conciliare opposti interessi387. Le suppliche al sovrano sostituirono quindi i libelli introduttivi dei giudizi e i processi di recupero dei beni usurpati acquisirono un’indubbia valenza politica, così come intrisa di forti G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 73-74. In tema di arbitrium obbligatorio il rinvio a M. MECCARELLI, Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano, 1998. In particolare per la sovrapposizione dell’arbitrator alla figura del giudicante, con le relative conseguenze sui piani della semplificazione delle forme processuali, della natura transattiva delle decisioni e dell’assorbimento nell’arbitrium delle clausole diminuentes iuris ordinem pp. 43-61 e 255-276. 386 387 132 idealità politiche era la stessa pratica di supplicare il sovrano affinché si prendesse concretamente cura degli interessi e dei bisogni di singoli o gruppi, giusta la vocazione paternalistica del suo potere388. L’abbattimento al minimo delle forme rituali consentì ai magistrati incaricati di acquisire le prove, ispezionare i luoghi, ricevere le testimonianze degli abitanti della comunità senza tema di eccezioni di nullità legate alla qualità della fonte di prova o al tempo trascorso. Così facendo, uscì del tutto innovato il quadro degli strumenti attivabili allorquando le violazioni a danno dei beni di comune utilizzo si facevano più gravi: la discrezionalità degli ufficiali incaricati di risolvere le vertenze modellò nuove procedure, più efficaci dei rimedi tradizionali389. La valutazione delle nuove situazioni di possesso e dell’alterazione delle consuetudini locali si inscriveva così in una negoziazione tra il centro e gli attori periferici (usurpatori e comunità spogliata) che non poteva non svolgersi senza un’attività di indirizzo e conferma dei risultati svolta dai sovrani. Il bilanciamento di interessi tra la tutela del patrimonio comunitario e la legittimazione dei nuovi diritti di proprietà risultanti dalle occupazioni non fu certo sempre ottimale, ma rappresentò il tentativo di contenere le trasformazioni del comparto agricolo alla luce di una specie di “diritto al sostentamento”, che tutti gli uomini dovevano poter esercitare sulle risorse naturali e che costituiva allo stesso tempo un contrappeso alla facoltà di vendere pascoli e boschi in capo ai Principi. Vedremo ora che il governo della Repubblica non si discostò dall’eseguire questo bilanciamento in tutti i principali casi di occupazione390. A differenza degli atti introduttivi dei giudizi ordinari, dove l’esito degli stessi era predeterminato, la supplica apriva un canale istituzionale di dialogo in cui i supplicanti potevano contrattare la soluzione della questione con il sovrano, cui era rimessa la decisione finale. Su questi temi c. In particolare per un quadro generale il saggio ivi contenuto di C. NUBOLA, La «via supplicationis» negli Stati italiani della prima età moderna (secoli XV-XVIII), in Suppliche e «gravamina», cit., pp. 21-63. 389 I Provveditori sopra i beni comunali veneziani ad esempio erano muniti di giurisdizione sulle materie di loro competenza ed erano chiamati a decidere sulle liti relative tanto all’uso quanto al dominio dei beni comuni. L’iter del processo che si svolgeva davanti al collegio, per quanto speciale, vedeva comunque la partecipazione degli Avvocati fiscali della Signoria, cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., pp. 85-98. Con i dovuti distinguo, anche gli Intendenti francesi alle acque e foreste ricorsero ai loro poteri giurisdizionali largamente discrezionali per mediare tra Parlamenti, comunità, chiese e signori feudali in occasione de processi per l’appropriazione indebita o la divisione dei beni comunali, N. VIVIER, Propriété collective, cit., pp. 57-64. 390 Il principio fu enucleato con particolare chiarezza dai giuristi tedeschi attivi nel primo scorcio del Seicento. Cristoph Besold ad esempio scriveva a proposito della vendita dei beni pubblici, stigmatizzando il cattivo uso spesso fatto del denaro ricavato: «In primis nullo unquam tempore vendenda sunt ea bona atque iura, quae tuendae conservandaeque Reipublicae sunt destinata: item pascua civitatum, atque rusticorum, quibus tenues sustentatur. Haec enim omnia nulla ratione vendi debent, quia vendita, et Rempublicam et subditos perdunt», C. BESOLD, Discursus de aerario publico, Argentorati, Sumptibus Heredum Lazari Zetzneri, 1639, cap. V, p. 159, poi ripreso da altri, come Kaspar Klock e il già citato Christian Gottfried Leisser. In Italia, pur emergendo qua e là nelle fonti di ogni angolo del Paese, fu alla base della costruzione giurisprudenziale dell’uso civico per S. BARBACETTO, L’uso civico sul demanio feudale, cit. 388 133 2.b) Il Magistrato delle Comunità di fronte alle occupazioni Si è già parlato della costante riduzione della superficie boschiva che accomunò la Liguria al resto d’Europa nei secoli moderni, senza però raggiungere livelli tali da poter definire la regione una terra di “colline senza boschi”. È parimenti difficile stimare le proporzioni dell’erosione del patrimonio fondiario collettivo che interessò il territorio sottoposto alla Repubblica genovese tra il XVI e il XVIII secolo391. Dai fascicoli contenuti negli archivi è però possibile ricavare alcune indicazioni di massima sugli aspetti salienti del fenomeno. Un primo dato che emerge con chiarezza riguarda lo scopo delle principali occupazioni: l’avvio di determinate colture di pregio, o comunque essenziali per il commercio locale. Tra tutte spicca il piantamento di alberi di castagno, sulla cui tutela e diffusione si è già avuto modo di ragionare. Oltre ai castagneti pubblici e privati, spesso già destinatari di specifiche disposizioni da parte di statuti o bandi campestri, a partire dalla fine del Cinquecento prese campo in diverse località la pratica di piantarne ex novo su comunaglie prima adibite al pascolo collettivo, o di inserirli o sostituirli a danno della vegetazione silvestre preesistente. Altri tipi di coltivazione permanente (viti, alberi da frutto, talvolta cereali) si direbbero meno frequenti e la loro comparsa dipese comunque dalle caratteristiche geo-climatiche del sito. A ciò fece seguito una più decisa intolleranza verso il permanere dell’utilizzo collettivo del fondo usurpato: sebbene la coltivazione del castagneto non fosse astrattamente incompatibile con l’esercizio di alcuni diritti collettivi, gli occupatori tesero a escludere chiunque dal godere in qualsiasi modo dei frutti offerti dai loro fondi. La pratica attraversa i secoli. A Castiglione Chiavarese, teatro del più importante caso di usurpazione di terre comuni, le occupazioni abusive iniziarono intorno agli anni 70-80 del Cinquecento e si conclusero con i provvedimenti del Commissario Michele Bozomo nel 1643. Il censimento del 1611-14 riportò fedelmente la consistenza e la gravità degli abusi.392 Una relazione stilata nel 1615 dal Podestà locale per conto della Camera dei Procuratori in occasione del processo per il recupero dei beni ci informa che i terreni stabilmente occupati venivano lavorati in 391 Tale difficoltà è dovuta anche all’assenza di unità d’archivio dedicate esclusivamente al problema delle usurpazioni e degli abusi a danno dei beni comuni, neppure nel fondo del Magistrato delle Comunità. I casi su cui fonderemo l’analisi che andiamo ad introdurre sono tratti da materiali in parte contenuti nelle filze del Magistrato, in parte dai fondi di altre magistrature (Giunta dei Confini, Camera dei Procuratori) interpellate dal Senato per l’istruttoria o un parere sulla singola pratica. 392 Le risorse collettive della Podesteria castiglionese erano notevolmente differenziate, trattandosi di prati, boscaglie di brughi e arbusti e boschi di roveri, faggi e castagni, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835. 134 maniera differente: i boschi comuni che già ospitavano castagneti selvatici erano oggetto della consueta piantatura o inserimento di ulteriori castagni, mentre un’altra parte veniva “roncata” e coltivata a semenza (grano e segale) a periodi intermittenti393. Tutto ciò aveva ridotto sensibilmente l’area soggetta al pascolo collettivo, dal momento che le piante novelle sia di castagno che quelle di cereali non potevano essere poste in pericolo dalla voracità degli animali. All’esito del processo per il recupero dei beni, di cui parleremo più avanti, il 50% delle terre vendute agli occupatori era costituito da castagneti e su un restante 30% di fondi con coltivazioni promiscue, il castagno era la specie dominante394. Tra gli anni ‘70 e ’80 del Seicento iniziò una vasta campagna di occupazioni anche ad Albisola, vicino a Savona, ma il governo genovese ne fu informato solo nel 1707395. Pure in questo caso che le terre usurpate accolsero castagneti, talvolta piantati da pochi anni e non ancora in grado di fruttificare, mentre assai minoritarie appaiono altre specie (fichi, prugne). In numerosi casi il castagneto si unì all’impianto di vigneti, per la realizzazione dei quali gli occupatori ricorsero al terrazzamento di interi versanti collinari, con un sensibile mutamento del paesaggio agricolo locale396. La pratica del “roncamento” fu applicata diffusamente quasi ovunque. Il 4 febbraio 1792 fu infine denunciato al Magistrato delle Comunità che i Carmelitani Scalzi del convento di S. Agostino di Triora avevano usurpato due ampie porzioni di territorio comune (dette le Negree e Capriolo). I frati avevano fatto piantare più di 800 alberi di castagno e, per proteggerne la crescita, impedivano il pascolo altrui e la raccolta del fieno a coloro che, in virtù di regolari contratti d’affitto con la comunità, volevano esercitare i loro diritti sui fondi397. Sulla diffusione del castagneto per opera dell’uomo a partire dal tardo medioevo si è già detto. È verosimile che a Seicento inoltrato tale tendenza fosse anche ascrivibile alla penuria di Come già illustrato, la bruciatura di sterpaglie e del sottobosco consentiva di liberare il terreno per la semina e di produrre le ceneri da impiegare come fertilizzante naturale. Il fondo così arricchito avrebbe garantito frutti per due o tre anni consecutivi, salvo poi essere lasciato a riposto per periodi oscillanti dai 5 agli 8 anni, in cui sarebbe stato impiegabile come area di pascolo. Il testo della relazione del 1615 è interamente riportato da F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione. Lineamenti storici. Sestri Levante, 1995, pp. 150-153. 394 Cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 165-167. 395 ASGe, Magistrato delle Comunità, 551. 396 I lotti occupati visitati dagli ufficiali furono ben 57, di diversa estensione, da modesti prati adiacenti alle proprietà private a versanti collinari. Per una delle numerose occupazioni della famiglia Giachino in località Cava la visita riporta che «in qual occupatione è stato fatto vigna da cima a fondo, campiva, vignata et arborata». Nel bosco detto delle Lercie, gli eredi di tal Pietro Rossello avevano distrutto una parte importante di vegetazione (più di 1600 alberi di quercia bruciati) per far spazio ai campi e ai nuovi castagneti. Sempre ai Rossello erano riferibili un’occupazione in località Piantavigna, dove il bosco aveva ceduto il posto a castagneti e vigne, e in località Roscia, dove Nicolò Rossello aveva disboscato per costruire una cascina e coltivare fichi e prugne, ASGe, Magistrato delle Comunità, 551. 397 ASGe, Magistrato delle Comunità, 481. 393 135 cereali e all’andamento dei prezzi delle granaglie, che in generale conobbero un aumento, con alcuni picchi tra gli anni 90 del Cinquecento e il 1648-49. Negli stessi anni delle più importanti usurpazioni di comunaglie, Genova e la Liguria vivevano poi una pesante crisi annonaria, sopperita soprattutto grazie ai rifornimenti del Nord Europa, e anche la marineria ligure stava riducendo il proprio raggio d’azione, sospingendo molte persone a vivere del lavoro della terra e non più – o non soltanto – del mare. Non si può escludere a priori che tali fattori non contribuirono ad aumentare la pressione sulle terre ancora libere di cui la regione disponeva398. Qua e là emergono poi dalle fonti fattispecie di usurpazione meno allarmanti per dimensioni o per i danni arrecati al resto della popolazione, in cui l’allargamento della proprietà privata non pare ricollegarsi automaticamente a obiettivi in senso lato speculativi. Non è peraltro sempre possibile comprendere se e quali coltivazioni furono intraprese dagli occupatori sulle comunaglie invase ma quel che è certo è che le novità introdotte si ripercossero sul piano dei diritti collettivi esercitabili dagli abitanti. È il caso ad esempio delle diverse occupazioni segnalate intorno al 1623 in Val Polcevera, nell’immediato ponente genovese, disseminate tra varie comunità dell’alta valle399. Il Senato fu informato che gli uomini di due famiglie (Rizzo e Gallino) occupavano da quasi dieci anni sei appezzamenti di terra al Giovo, tutti confinanti con le comunaglie del luogo, per seminarvi granaglie e legumi. Ulteriori indagini svolte dal Capitano di Polcevera Giulio Della Torre fecero emergere un’altra ventina di usurpatori, che sui siti occupati avevano costruito cascine e avviato colture comuni (segale, biade, grano), mentre altri avevano soltanto chiuso i prati per riservarli esclusivamente ai loro capi di bestiame o per segarvi il fieno400. Sui prezzi del grano vedi ad esempio G. FELLONI, Prezzi e popolazione in Italia (secoli XVI-XIX), in Scritti di storia economica, cit., II, pp. 1231-1287. Il trend non mutò nel Settecento: per fare un esempio tratto dagli studi di Doria, a Montaldeo il prezzo del grano aumentò del 44%, quello delle castagne del 66% tra il 1732 e il 1735, G. DORIA, Uomini e terre di un borgo collinare: Dal XVI al XVIII secolo, Milano, 1968, p. 142. Sulla marineria ligure vedi, per ulteriori riferimenti bibliografici L. PICCINNO, Economia marittima e operatività portuale, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s. XL/1 (2000), L. LO BASSO, Economie e culture del mare: armamento, navigazione, commerci, in Storia della Liguria, cit., pp. 98-114. 399 Le principali località citate sono Torbi, Giovi (oggi sul territorio di Mignanego), Busalla, Montanesi, Santo Stefano di Larvego, Capanne di Marcarolo, San Martino di Paravanico. 400 Così Battista Ghiglione «ha usurpato communaglia vicino alla Bochetta, luogo detto Prè de Buosi, nel qual luogho da due o tre anni in qua vi appara sbarra, e vi sega l’herbe, e dice che vuole amazzare le vacche che vi vanno». A San Martino di Paravanico era invece la locale Compagnia del Corpus Domini a denunciare l’occupazione di un campo in parte seminato e in parte lasciato a prato, fatta da tal Gio. Batta Parodi, terra che la Compagnia affittava per lire 4.10 all’anno e che, dopo un momentaneo rilascio, era stata nuovamente usurpata. Interessante notare come la qualità di bene comune fosse utilizzata dallo stesso Parodi contro le pretese di reintegro della Compagnia: «Quelli di detta Compagnia richiedono però che li si ordini, che rilasci detta terra, lui allega, che è ben di Commune, però non ha ragione alcuna compita», ASGe, Archivio segreto, 49. 398 136 A Mele, giurisdizione di Voltri, nel 1716 fu denunciata un’importante occupazione di risorse collettive compiuta da un certo Tommaso Gaggero. Dalle testimonianze non si evince in quale maniera le comunaglie fossero state impiegate dopo l’appropriazione. Di certo, oltre a fornire brughi e legna da cui qualche testimone ricavava abbastanza per vivere e l’erba per gli animali, l’area era attraversata da tre rii costantemente muniti d’acqua che la rendevano idonea per una coltivazione più intensiva, ciò che avrebbe giustificato la sottrazione dei fondi al libero accesso da parte degli altri abitanti di Mele401. L’asperità del terreno tipica del paesaggio ligure rendeva impegnativa anche l’occupazione abusiva delle terre in possesso delle comunità sotto i profili del lavoro richiesto per adattarle alle nuove esigenze produttive e dei relativi mezzi economici necessari. Non è quindi casuale, in perfetta continuità con quanto riscontrato in altre regioni d’Italia, che responsabili delle appropriazioni fossero soprattutto i ceti più abbienti. Sulla composizione sociale dei responsabili delle usurpazioni più gravi (Albisola, Castiglione Chiavarese) si è concentrato il lavoro di Raggio, dal quale spicca il fatto che poche “parentele”, numericamente molto estese e forti di legami clientelari all’interno della comunità e di appoggi al di fuori, si accaparrarono una buona fetta dei fondi402. Nel caso di Castiglione ciò si può riscontrare in modo plateale. La composizione degli occupatori fu all’inizio decisamente variegata. Accanto ad alcuni esponenti delle principali famiglie del posto, si trovarono anche decine di semplici contadini che da lunghissimo tempo solevano coltivare stagionalmente appezzamenti di terreni comuni. Un paio di decenni dopo la situazione si era nettamente evoluta in senso elitario, per cui un ristretto numero di famiglie controllava ormai buona parte delle comunaglie usurpate a scapito di chi le aveva abbandonate o era divenuto un loro lavorante. Alla base di tali manovre non vi fu soltanto il desiderio di allargare le proprie basi patrimoniali. In taluni casi si può ravvisare nell’occupazione delle comunaglie la volontà di sottrarre certe risorse (soprattutto boschive) alle comunità confinanti, funzionale ad un progetto di sfruttamento organizzato delle stesse. In una situazione di cronica incertezza dei confini, il taglio 401 Al momento di decidere sul rilascio, gli stimatori valutarono in 6 lire il valore dei terreni occupati e in ben 12 lire quello dei miglioramenti apportati dal Gaggero, segno che i fondi erano stati sicuramente coltivati intensivamente, ASGe, Magistrato delle Comunità, 551. 402 Ad Albisola fu l’iniziativa di un gruppo proveniente da Ellera (piccola comunità dell’entroterra) economicamente dotato e capace di avviare un massiccio sfruttamento del territorio a mutare profondamente il panorama agricolo del territorio e le consolidate consuetudini di utilizzo comune delle boscaglie di cui la comunità abbondava. A Castiglione le famiglie Carroccio e Castiglione si impadronirono della maggioranza relativa delle comunaglie, vedi O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit. 137 di un bosco o la costruzione di cascine comportavano la ridefinizione dei confini giurisdizionali tra le comunità, per mezzo dei quali si incrementavano anche le risorse economiche a disposizione di alcuni suoi membri403. Sembra difficile immaginare che simili piani fossero attuabili senza la regia dei principali possidenti locali, contemporaneamente uomini forti del governo comunitario. La stratificazione sociale interna alle comunità trova quindi una sua epifania nel momento delle usurpazioni. Sul fronte opposto i soggetti danneggiati dai cambiamenti in atto indirizzarono al governo della Repubblica le loro proteste, supplicando il Senato affinché ordinasse il ripristino delle consuetudini violate. Ovviamente l’oggetto delle rivendicazioni variava a seconda della microeconomia locale, importando di più ora la difesa dei diritti di pascolo ora di raccolta della legna o di altri frutti (erba, foglie). Portato all’attenzione delle magistrature, il conflitto si ricomponeva servendosi del linguaggio giuridico e, come illustreremo meglio nel prossimo paragrafo, il conflitto palesava interessi materiali e concezioni della proprietà del suolo divergenti tra le parti in causa. Le controversie legate alle appropriazioni illegali di comunaglie dal 1623 furono rimesse al Magistrato delle Comunità, che per statuto doveva sorvegliare l’amministrazione dei luoghi soggetti e intervenire qualora malversazioni e spese eccessive portassero disordini e scontento tra i popoli del Dominio. La legge istitutiva del 1623, parzialmente modificata negli anni successivi, diede al nuovo collegio l’autorità sufficiente per reprimere gli abusi amministrativi diffusissimi a livello locale e, contemporaneamente, promosse una politica di più duro contrasto contro chi impoveriva le comunità. Il depauperamento poteva essere causato in tante maniere: stipula di contratti di censo dagli interessi troppo onerosi, mancata riscossione dei crediti e occupazione illecita di beni comunali. Su questo ultimo punto l’articolo 9 della legge disponeva: «Di più conoscendo, che alle dette Communità siino usurpati et occupati indebitamente beni, terre, case, e possessioni così domestichi, come selvatici, o altre qualsivoglian cose a loro spettanti, avrà facoltà, e cura di farglieli restituire con pagamento de frutti ove debbano pagarsi, dichiarando però, che chi si sentirà in ciò gravato, possa aver È quanto nota ad esempio T. PIRLO, Un clamoroso episodio, cit., pp. 5-18, dove il signore del feudo di Masone a partire dagli anni Settanta del 1500 incoraggiò l’occupazione dei boschi contesi con gli uomini di Voltri per rilanciare l’attività delle ferriere. Quantunque indecisa, l’occupazione delle comunaglie in Val Polcevera pare assumere tratti simili, dal momento che la trattazione fu assegnata dal Senato alla Giunta dei confini a motivo dell’alto numero di appezzamenti appropriati in zone incolte di diverse località. 403 138 ricorso agl’Ill.mi Procuratori, li quali possano procedere in ciò quello, che per giusticia stimeranno convenirsi, per il quale ricorso però non si ritardi l’essecuzione della sentenza»404. Con questa disposizione si attribuiva la giurisdizione sui beni comunali al Magistrato, che diventava giudice di prima istanza, essendo ammesso appello alla Camera dei Procuratori da parte del soccombente. La formula molto ampia consentiva alle comunità di dedurre di fronte al Magistrato qualsiasi lesione su beni di loro pertinenza, anche in materia di acque, come illustreremo nel prossimo capitolo. L’articolo non fu intaccato né aggiornato: anche i capitoli e i regolamenti emanati dal Magistrato delle Comunità tra Sei e Settecento si proposero di riformare – con alterne fortune – altri settori problematici dell’amministrazione delle universitates (nomina degli agenti e degli esattori; controllo dei conti; riscossione dei debiti) ma non si registrano altri provvedimenti di rilievo sui patrimoni comunali405. Per il Magistrato questo fu solo uno delle molteplici fattispecie di pregiudizio che le comunità potevano subire dai loro stessi abitanti, non meritevole di un trattamento differenziato anche dal punto di vista cancelleresco406. Volgendo lo sguardo al profilo delle condotte punite, possiamo notare una tendenza evolutiva della legislazione nel segno di un più uniforme e severo trattamento verso coloro che attentavano ai beni comunali. La rubrica De damnis reficiendis et arboribus caedendis del libro VI degli statuti civili genovesi non fissava solo una pena pecuniaria per i danni dati agli alberi entro la giurisdizione cittadina genovese ma stabiliva altresì che tale soglia non potesse essere derogata in melius dagli statuti e dalle fonti in vigore presso le comunità locali407. All’estendersi delle usurpazioni, richiesto da più luoghi di intervenire, il Senato emanò un decreto il 20 marzo 1600, che abbiamo già citato al capitolo I. Ricordiamo che il contenuto dispositivo del decreto proibiva i “roncamenti” e i tagli selettivi a scopo di coltivazione tanto nei boschi della Camera e nelle ASGe, Manoscritti, 311. Una raccolta di capitoli e regolamenti del Magistrato è in ASGe, Magistrato delle Comunità, 514, 520. 406 A differenza di altre magistrature simili, il Magistrato delle Comunità non separò gli atti relativi alle occupazioni dei beni comunali dagli altri. Suppliche, relazioni di visita, processi si trovano quindi infilzati insieme alle altre pratiche trattate nell’anno (periodo di suddivisione delle filze d’archivio) o, in qualche caso, nelle serie degli atti e scritture provenienti dalle giurisdizioni maggiori (Commissariati o Capitanati). 407 Nella versione in volgare del 1622 si legge: «Chi farà alcun danno ne i boschi della Republica, o anco spettanti alla communità o per uso, o altrimente, cada nelle pene respettivamente statuite a coloro, che fanno danni in simili boschi, purché però non siano minori delle soprascritte respettivamente», Degli Statuti civili della Serenissima Repubblica di Genova Libri sei, tradotti in volgare da Oratio Taccone, Genova, per Giuseppe Pavoni, 1622, libro VI, cap. XIV, p. 189 404 405 139 comunaglie delle comunità, stabilendo pene arbitrarie che raggiungevano la condanna alla galea o al bando, oltre al solito risarcimento del danno408. Se in precedenza abbiamo osservato che il decreto non prendeva in alcun modo posizione circa il punto della titolarità dei beni, proponendosi solo di punire determinati modi d’uso che ne alteravano la natura collettiva, possiamo ora mettere in evidenza il fatto che il decreto assegnava esplicitamente ai giusdicenti l’incarico di controllare e riferire al Senato su eventuali privatizzazioni illecite dei boschi comuni, cui avrebbero fatto seguito i provvedimenti più acconci al caso. Con l’istituzione del Magistrato delle Comunità il governo decise quindi di completare l’abbozzo di accentramento avviato già da alcuni anni, affidandogli la competenza su tali questioni. È evidente però che la fissazione del recupero dei beni nell’interesse delle comunità soggette quale obiettivo principale del Magistrato esprimeva la volontà politica di governare i conflitti senza ricorrere soltanto alla punizione dei responsabili, ma contrattando la parziale restituzione dei beni occupati. Sotto il profilo procedurale la legge istitutiva munì il collegio dell’arbitrium necessario per procedere «sommariamente e riguardata la sola verità del fatto», tralasciando le subtilitates409. La Repubblica mise così a disposizione delle comunità dominate una magistratura in grado di procedere contro gli abusivi senza i limiti e le dilazioni proprie della giustizia civile ordinaria410. Ai fini della concreta efficacia delle decisioni del Magistrato si ribadiva l’importanza del giusdicente locale, una volta di più vera longa manus del governo nel Dominio. Podestà e Capitani non avrebbero solo fornito ministri, notai e “cavalleri” in servizio presso la loro curia per lo Copia del decreto in ASGe, Magistrato delle Comunità, 514. Il capitolo, già presente nella redazione statutaria del 1413, fu riscritto e semplificato nel 1588 e inserito nel libro VI degli statuti civili, cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit., pp. 102-103. 409 L’espressione «sola facti veritate inspecta» risaliva alla clementina Saepe contingit ed era una delle varie clausole che esoneravano il giudice dall’obbligo di seguire strettamente l’ordo procedendi. In concreto concedeva al giudice maggiori poteri anche rispetto a quelli esercitabili in virtù della clausola «sine figura iudicii». Per l’instaurazione del giudizio era sufficiente una petizione contenente i soli elementi di fatto, anche poco dettagliati ed approfonditi. Il giudice andava incontro a pochi limiti quanto all’assunzione delle prove, specie quelle testimoniali, sia durante che dopo la conclusione del procedimento e poteva sentenziare anche in merito a fatti non contenuti nell’istanza introduttiva, vedi R. MARANTA, Speculum quod aureum, cit., parte IV, distinctio IX, nn. 32-34; O. CACHERANO D’OSASCO, Decisiones Sacri Senatus Pedemontani, Francofurti, Paltheniana, Curante Ioanne Feyrabendio, 1590, dec. I, nn. 20 e ss. 410 Per esteso l’articolo 6 disponeva: «Avrà detto Magistrato facoltà, e cura di far non solo ad istanza delle Communità, e suoi agenti, o d’altri interessati, m’anche ex officio render buon e vero, e leal conto con pagamento del reliquato, da chi avrà amministrato, o amministrerà per l’avvenire cure, e negotii publici delle Communità, e Luoghi predetti, e non l’avrà resi legittimamente, e lealmente a giudicio di detto Magistrato, procedendo in ciò, come anche a tutte l’altre cose spettanti alla sua cura sommariamente, e riguardata la sola verità del fatto, senza rimedio d’appellazione, concedendo solo, che chi si sentisse gravato possa averne ricorso dal Serenissimo Senato, il quale ricorso non ritardi l’essecuzione del giudicato, e per esseguire, e far esseguire le deliberazioni, che farà, possa non solo servirsi de ministri della Città, ma li Giusdicenti del Dominio debbano prontamente somministrar li loro ministri, acciò sia esseguito quello, che dal Magistrato sarà stato ordinato», ASGe, Manoscritti, 311. 408 140 svolgimento delle ordinarie pratiche accessorie ai procedimenti (citazioni, notifiche di provvedimenti e gride, visite) ma avrebbero ricoperto l’ufficio di giudice delegato del Magistrato se il caso l’avesse richiesto. La riforma, introducendo criteri equitativi e discrezionali nel giudizio sulle occupazioni, seguiva una tendenza ampiamente diffusa e palesava anche l’attenzione dei Collegi verso le popolazioni dominate, in particolare verso quegli strati più poveri spesso autori delle suppliche di denuncia. Essa era pure coerente pure con l’obiettivo della riduzione del contenzioso tra comunità, fenomeno che prosciugava le casse e faceva aumentare le tensioni. Nell’ottica dei governanti genovesi la speditezza del rito portava quindi con sé indubbi vantaggi411. Non possiamo però isolare il dispositivo di poteri arbitrari così congegnato dal contesto. Nello specifico, il contesto era un Dominio politicamente e giuridicamente composito, da cui discendeva anche una certa pluralità di istituzioni di gestione dei beni collettivi, che si conformavano alle caratteristiche economiche e politiche delle società che ne fruivano. I casi di Sanremo e Pieve di Teco sono emblematici a tal proposito, ma se spostiamo l’angolo visuale dalla periferia alla magistratura centrale, possiamo rilevare la linea politica tenuta dal Magistrato su questo frangente. Il collegio non si fece promotore di riforme riguardanti il regime giuridico dei beni posti sotto la sua vigilanza, né si ingerì spontaneamente nelle pratiche di gestione degli stessi vigenti presso le comunità del dominio. Il motivo, va ricordato, risiedeva probabilmente nel crocevia di interessi di cui i beni comunali erano il fulcro: un’area di pascolo era al tempo stesso una risorsa finanziariamente redditizia, un “ammortizzatore sociale” naturale, un confine tra comunità o tra Stati. La materia era quindi spinosa, troppo per provvedimenti di ampio respiro e omologanti. Il Magistrato delle Comunità giocò quindi “di rimessa”: gli ampi poteri giurisdizionali di cui disponeva furono dispiegati solo in occasione di iniziative provenienti dal Dominio. Il meccanismo supplicarescritto, largamente utilizzato dai Collegi governativi, fu riproposto anche dal Magistrato, che con L’esigenza di assicurare una definizione rapida del procedimento possessorio a tutela dello spogliato tramite la sommarietà del rito era comunemente affermata in dottrina. Menochio a proposito scriveva: «Hinc docent omnes, spoliatum de facto sua possessione, ante omnia esse restituendum, etiam de facto sine aliqua iuris solennitate, lege vel ipsa permittente». Pertanto il giudice poteva utilizzare anche prove di per sé deboli per formarsi un convincimento, J. MENOCHIO, De arbitrariis judicum quaestionibus et causis, Genevae, Sumptibus Samuelis De Tournes, 1690, q. VII n. 74; q. XXIV n. 4. Maranta ricordava che pure le cause in cui erano coinvolti pupilli, ai quali le comunità erano equiparate, dovevano essere trattate sommariamente R. MARANTA, Speculum quod aureum, cit., parte IV, distinctio IX, nn. 43, 193-194. 411 141 propri decreti – o con pareri che costituivano la parte sostanziale degli atti emanati dal Senato – regolò situazioni e rapporti giuridici ben determinati, con efficacia inter partes. Ma le occupazioni, e per certi versi anche le alienazioni, offrirono il destro al Magistrato per ingerirsi con maggiore decisione nell’amministrazione dei centri che lo chiamavano in causa, ridisegnando il panorama delle proprietà pubbliche e private tramite la legittimazione dei possedimenti acquisiti per vie di fatto e la conferma ufficiale dei diritti collettivi che non potevano essere soppressi, nonostante il ridimensionamento quantitativo dei beni su cui potevano essere esercitati. La portata costitutiva dell’intervento del Magistrato aveva ricadute anche in campo fiscale, perché le terre cedute agli occupatori venivano sottoposte al pagamento dell’avaria reale, sopperendo alle compiacenti “distrazioni” degli agenti locali, affatto rare. Vedremo però che l’incisività della condotta del Magistrato fu direttamente proporzionale alla capacità ordinante delle istituzioni di governo delle proprietà collettive. Infatti in realtà dove le risorse naturali collettive costituivano un elemento cardine dell’economia locale ed intorno alle quali si erano sviluppate lungo i secoli norme e pratiche di amministrazione solide, integranti l’identità stessa della comunità, i processi di privatizzazione conobbero resistenze più frequenti e meglio organizzate. Viceversa, in altre località dove i rapporti di produzione erano configurati diversamente, lo sfruttamento delle comunaglie prima delle occupazioni era avvenuto senza particolari limiti, senza che fosse incentivata l’elaborazione di un quadro normativo sufficientemente definito. Pertanto quando le colture arboree si estesero sui beni comunali, fu più facile addivenire al loro definitivo trasferimento ai privati. 3.a) La gestione degli abusi tra azione centrale e ambiente locale Abbiamo quindi messo sul tavolo gli strumenti indispensabili per leggere alcuni episodi di usurpazione di beni collettivi sotto diverse prospettive: quella strettamente processuale, quella socio-economica e quella giuridico-politica di rapporto tra governo e comunità periferiche. Possiamo quindi passare all’analisi diretta delle fonti per verificare le considerazioni svolte fin qui. Partiamo dalla maggiore capacità reattiva delle comunità avvezze a tutelare con cura il proprio patrimonio comunale. Un primo caso ci riporta in valle Arroscia, ad Acquetico. L’anno è il 1674. La comunità, alla pari di altre sue vicine, praticava da decenni una politica di coltivazione del castagno sulle comunaglie. Come abbiamo visto, i bandi campestri di molte comunità pievesi 142 vietavano il pascolo del bestiame nei castagneti in autunno, quando i frutti erano maturi per la raccolta, e obbligavano i terminatori ad effettuare delle visite annuali di controllo dei confini tra proprietà private e terre comuni. Acquetico aveva fatto piantare alcuni alberi di castagno nel territorio di Roncogelato, al confine con le proprietà dell’ufficiale militare Guglielmo Saldo. Questi, insieme ai figli, tagliò diversi castagni e rimosse i termini di confine, inserendo altri alberi per allargare le sue proprietà. Così facendo invase un sito che vantava pratiche di coltivazione controllata del castagno tutelate fin dai regolamenti rurali di metà secolo412. La supplica rivolta al Senato fu prontamente girata al Magistrato delle Comunità, il quale delegò il Capitano di Pieve Oberto Castiglione per il compimento del processo. L’ufficiale procedette secondo il rito sommario prima descritto. Dopo aver appurato la veridicità dei fatti denunciati con un sopralluogo, alla presenza degli agenti di Acquetico decretò la riapposizione dei confini tra proprietà comunale e privata e il ripiantamento dei castagni sradicati, chiedendo poi al Magistrato genovese di decidere sulla condanna pecuniaria dei responsabili413. In questa circostanza la spedizione della causa fu assai celere e in meno di un mese la comunità fu reintegrata nei propri diritti con un rito celebrato esclusivamente in sede locale, sotto l’alta vigilanza del Magistrato delle Comunità. Ma la giustizia periferica poteva dare talvolta risultati poco soddisfacenti o contraddittori, motivo per cui le comunità danneggiate erano costrette a supplicare il Magistrato perché trattasse direttamente la questione. È ciò che avvenne a Triora quando i Carmelitani nel 1792 si impossessarono di alcune terre comuni, impedendo gli usi altrui. Va premesso prima di proseguire che Triora, insediamento del profondo entroterra, disponeva di ampie distese di boschi e bandite di pascolo su cui si fondava una fiorente economia agro-pastorale. Proprio per il rilievo assunto da tali risorse, il loro utilizzo fu oggetto di una minuziosa regolamentazione fin dagli statuti tardomedievali414. La posizione al confine con alcuni Alla difesa della vegetazione arborea e alla castagnicoltura in località Roncogelato era dedicato l’art. 6 dei capitoli campestri di Acquetico del 1640, ASGe, Senato Senarega, 2061. 413 Dalla lettera inviata dal Capitano di Pieve al Magistrato 29 aprile 1674 si comprende che la sanzione dei responsabili per decisione del Magistrato fosse dotata di un’autorevolezza maggiore: «Hora per reprimere l’orgoglio del detto Guglielmo e suoi figlioli, persone inquiete, et contenerli in l’avvenire, come anche altri che turbassero et usurpassero li beni del Commune, stimerei accertato, che da VV. SS. Illustrissime potesse esser imposta quella pena peccuniaria, che meglio soverrà alla prudentia di VV. SS. Ill.me.», ASGe, Magistrato delle Comunità, 302. 414 Cfr. B. PALMERO, Boschi e confini nelle Alpi Marittime, cit.; E. BASSO, Tracce di consuetudini pastorali, cit. oltre ovviamente agli statuti editi F. FERRAIRONI, Statuti comunali di Triora, cit. In estrema sintesi, si ricorda che la pastorizia fu regolata in dettaglio sia con riguardo ai tempi che ai luoghi di alpeggio. Il custode dell’alpe e i campari dovevano vigilare sull’ammissione del prescritto numero di animali per famiglia al pascolo e alla repressione di eventuali illeciti. Le bandite erano tutelate tanto dalle invasioni del bestiame che dai lavori agricoli compiuti senza il permesso del 412 143 villaggi nizzardo-sabaudi come Briga e Saorgio (oggi La Brigue e Saorge) diede vita a numerosi conflitti per l’utilizzo di foreste delle alpi Marittime in cui esigenze economiche e questioni di sovranità territoriale si saldarono in maniera non dissimile dal caso di Viozene. Sull’usurpazione in sé abbiamo già detto qualcosa in precedenza. I Carmelitani Scalzi di Triora avevano fatto piantare 800 alberi di castagno presso le terre dette Negree e Capriolo. In più commissionarono il furto del fieno maturo a danno dei coltivatori degli appezzamenti situati in un’altra località (“Bauso doloso”). Gli occupatori in questo caso si avvalsero anche di strumentali accuse campestri contro coloro che portavano a pascolare i loro bestiami nel castagneto abusivo per manifestare pubblicamente la loro rivendicazione. Un atto simile può spiegarsi se ipotizziamo che i religiosi considerassero quei siti come propri, dai quali i terzi potevano essere esclusi415. Come qualificare giuridicamente i beni occupati? Sicuramente una parte di essi non si limitava a fornire un sostegno agli abitanti di Triora sprovvisti di proprietà terriera, ma essendo concessa con affitti annuali dietro pagamento di un canone (il terratico) rientrava in quei beni publico usui destinata che impropriamente venivano detti pubblici416. Non è possibile dire con certezza se anche i fondi occupati dal castagneto ricadessero sotto questo regime di utilizzo. L’intervento del Magistrato delle Comunità diventò indispensabile nel momento in cui la risoluzione della controversia andò incontro a complicazioni presso le giurisdizioni locali. Dopo due sentenze favorevoli ai terrieri danneggiati emanate dal magistrato sopra le accuse campestri e dal vicario della curia di Sanremo, il Podestà di Triora il 16 giugno 1792 dichiarò nulle le due precedenti pronunce. I Carmelitani presero formalmente parte al giudizio, dichiarando che: «le terre nelle quali erano state instituite le accuse da detti padre, e figlio Martini come beni delle padrone del fondo. Oltre a porre limiti e condizioni per il taglio del legname nei diversi boschi comunali, gli statuti provvedevano anche a stabilire le regole d’uso delle altre comunaglie, vale a dire le distese di terra comunale non bandite e potenzialmente coltivabili. Su di esse chiunque poteva avviare la coltura prenotando un lotto presso gli ufficiali del comune o semplicemente occupandolo: solo la seconda ipotesi contemplava il pagamento di una gabella in denaro o in natura. 415 Dalle scritture prodotte da Triora fa capolino il sospetto che l’ultima compilazione del catasto, risalente a metà degli anni Settanta del 1700, fosse stata manipolata a vantaggio dei Carmelitani grazie alla «taciturnità d’alcuni individui poch’affetti all’interesse commune, ed aderenti di detti RR. PP.». Il convento pagava come avaria tra le 36 e le 40 lire, mentre secondo i denuncianti la somma dovrebbe ammontare a circa 130 lire, se la stima fosse eseguita da periti imparziali, ASGe, Magistrato delle Comunità, 481. 416 Come dichiarato dagli agenti di Triora e delle ville (Molini, Corte e Andagna) al Magistrato delle Comunità, le terre Negree (in località Gerbonte) e Bauso doloso, danneggiate su mandato dei Carmelitani, erano state concesse a terratico a Gio. Batta Martino e a suo figlio Giuseppe con facoltà di semina e di raccolta e vendita del fieno. Nella supplica inviata a Genova si evidenziavano due distinte utilità. Una era il sostentamento assicurato dai lotti dati a terratico alle famiglie che non possedevano abbastanza terre. In più «il terratico che pagano i coltivatori de beni communi forma un de redditi non indiferente della medesima, quale ora è diminuito per essersi sospesa la coltura di questo territorio preteso occuparsi da RR. PP.», ASGe, Magistrato delle Comunità, 481. 144 dette Magnifiche Communità appartenessero al detto Convento di cui ordine avessero detti condannati damnificato»417. Secondo le formule rituali, il processo avrebbe rischiato di trascinarsi a lungo. Nel merito, fatti salvi i terreni periodicamente concessi a terratico per i quali potevano reperirsi anche prove documentali, nulla escludeva che il convento potesse provare un lungo possesso sulle Negree dove aveva piantato i castagni. La comunità scelse pertanto la via transattiva e il 26 giugno chiese ed ottiene l’autorizzazione al Magistrato di poter sborsare 609 lire per comporre la lite e ottenere, pagando, il rilascio delle terre occupate e migliorate dai religiosi interrompendo il processo418. In entrambi queste due circostanze la tenuta degli assetti collettivi fu assicurata da una pronta reazione dei soggetti interessati, conforme alla radicata consuetudine di utilizzo collettivo dei prodotti del suolo. Ma non è il caso di generalizzare. Le medesime aree potevano anche essere teatro di usurpazioni o malversazioni tollerate o non adeguatamente punite. Sempre a Triora ad esempio, più o meno nello stesso torno di anni, si informava il Magistrato delle Comunità che l’asta per l’affitto dei pascoli dell’alpe di Gerbonte era viziata da alcune irregolarità gravi (assenza del Podestà all’incanto, irregolare costituzione del Parlamento etc.) mentre gli uomini della vicina Badalucco detenevano da anni alcune terre comunali senza pagare i dovuti canoni, in un momento di difficoltà finanziarie della comunità alpina. Quanto alla valle d’Arroscia, nel 1683 i Consoli delle ville di Siglioli e Cartari comunicarono al Senato che alcuni boschi comunali erano stati in parte tagliati per far spazio a campi seminati. Lo stato di momentaneo indebitamento delle ville indusse il Capitano di Pieve Giulio Cesare Usodimare ad acconsentire alla richiesta dei consoli locali: sulla scia di una prassi per cui la semina nelle comunaglie era soggetta al pagamento di una quota del seminato, gli occupatori (21 in tutto) non furono puniti ma gli fu imposta la sanatoria tramite pagamento del terratico 419. Anche laddove l’economia agro-pastorale non poteva prescindere da una corretta gestione di pascoli e boschi comuni non mancavano violazioni delle regole di utilizzo, a fronte delle quali le reazioni non si presentano lineari e uniformi. Ciò conferma la natura flessibile delle proprietà ASGe, Magistrato delle Comunità, 481. La cifra sborsata arrivava quasi ad eguagliare il valore castale dei terreni occupati, tuttavia la mancanza di altri documenti e la perdita dell’archivio comunale di Triora impediscono di chiarire se questo episodio fosse solo l’ultimo anello di una catena di conflitti ben più lunga, ASGe, Magistrato delle Comunità, 481. 419 Scrivendo al Magistrato, i consoli delle ville orientarono la decisione del collegio sull’interesse preminente: «Quelli che l’anno corrente hanno seminato in sudetto territorio, e semineranno per l’avvenire, siano tenuti a pagare il terratico, conforme sogliono pagare all’altre comunità circonvicine, e questo per soglievo dell’istessa communità, aggravata da carrichi camerali, et altri, il che per esser giusto sperano ottenere». I debiti erano probabilmente dovuti alle spese per la guerra sabaudo-genovese appena conclusa, ASGe, Magistrato delle Comunità, 304 417 418 145 collettive durante l’età di diritto comune: il vantaggio connesso al loro sfruttamento consisteva talvolta nei soli frutti della terra, talaltra nel ricavato che se ne poteva trarre cedendole a terzi (per sempre o solo per un periodo circoscritto, in tutto o limitatamente a determinate utilitates) a seconda delle esigenze avvertite come più impellenti dalla comunità in quel dato momento. Se ci allontaniamo dalle zone montane della Liguria e ci avviciniamo alla costa, il discorso cambia, soprattutto per quanto riguarda l’ambiente in cui si verificano le occupazioni e le conseguenze sul piano processuale. A mutare non sono solo gli aspetti materiali dell’occupazione – il tipo di colture avviate, la composizione sociale degli usurpatori – ma anche il retroterra giuridico in cui si inscrivono tali episodi e il modus operandi del Magistrato delle Comunità. Senz’altro paradigmatico è quello che avvenne ad Albisola all’inizio del Settecento. Il centro era composto da diversi nuclei insediativi – i principali erano il borgo detto “superiore” e la Marina – ed era parte integrante della Podesteria di Varazze, Celle e Albisola. Nel 1653 erano stati confermati dalla Repubblica gli statuti del 1389, che comprendevano alcune rubriche dedicate alla materia silvo-pastorale non molto articolate420. In sostanza, oltre a mettere nero su bianco le condotte vietate e le relative sanzioni, il testo non si spingeva a regolamentare in dettaglio modi e limiti dell’utilizzo delle comunaglie albisolesi, per le quali si deve ipotizzare la vigenza di un regime di libero accesso basato sulla consuetudine421. Dalle inchieste di inizio Seicento risulta che Albisola disponesse di diverse boscaglie che si stendevano lungo i valloni circostanti il borgo, quantunque non di notevole pregio422. Come si diceva nel paragrafo precedente, l’appropriazione dei boschi comuni iniziò nella seconda metà del XVII secolo, ad opera soprattutto di alcune famiglie provenienti da una frazione di Albisola, che intrapresero una massiccia coltivazione di specie di pregio (castagno, viti e in misura minore alberi da frutto) sulle terre della comunità. Gli otto rettori delle due Albisole (superiore e La podesteria di Varazze comprendeva anche i centri di Celle e Albisola, per la storia del centro e ulteriore bibliografia cfr. A. ROCCATAGLIATA, Gli Statuti di Varazze, Genova, 2001, pp. V-LIII. Sugli statuti di Albisola, confrontati con i testi degli altri centri della podesteria vedi R. BRACCIA, Processi imitativi, cit., in particolare pp. 64-65. Ho consultato sia il testo trecentesco in BCB, B. VII.27 sia la versione compendiata più tarda – ma ai nostri fini priva di variazioni significative – in CSBG, 93.4.17. 421 Il capitolo sui De lignis a territorio Albisole non extrahendis sanzionava il commercio di legname con forestieri, mentre il De bestiis inventis in alienis terris fissava le pene pecuniarie per i danni dati dagli animali in orti, prati e boschi privati. Qualche disposizione sul nemus communis Albisole si ritrova sparsa in altri capitoli, che punivano i danni dati agli alberi di castagne, il taglio di alberi verdi senza licenza e autorizzavano il taglio e il prelievo della sola legna secca per uso personale. 422 I numerosi “boschi communi” di Albisola erano perlopiù composti da arbusti (brughi, ginestre) pochi faggi e altre vegetazione minuta. Tra le entrate si segnala una gabella del bosco, il cui ammontare non è dato conoscere per la rovina del registro dovuta all’umidità, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835. 420 146 marina) invocarono l’intervento del Magistrato delle Comunità perché inviasse un ufficiale a visitare i luoghi e a recuperare i beni. Con supplica del 22 aprile 1707 posero in risalto due criticità legate alle usurpazioni: oltre alla riduzione delle superfici incolte prima usate per il pascolo del bestiame e la raccolta di legname, l’abbattimento degli alberi piantati lungo la riva del torrente Sansobbia che attraversa Albisola per far spazio ai campi coltivati comprometteva la sicurezza pubblica423. Il Magistrato delegò il Podestà di Varazze, giusdicente del luogo, ordinandogli di recarsi insieme agli agenti delle due Albisole sul posto per la visita richiesta. Il Magistrato rimise la cognizione all’ufficiale territorialmente competente non solo per la verifica dello stato dei luoghi ma anche per la formazione di uno schema di composizione della causa. Ciò si spiega se teniamo presenti un paio di dati. Da una parte l’azione di restituzione fu avviata dai rettori di Albisola marina e superiore congiuntamente, che “coprirono” i residenti danneggiati dai soprusi. I confini delle parti in conflitto assumevano quindi contorni chiaramente definiti, senza pericolose convergenze di interessi tra rappresentanti delle comunità e usurpatori che avrebbero richiesto un diverso approccio del Magistrato alla definizione della controversia. Inoltre, conscio forse delle caratteristiche specifiche della vegetazione silvestre albisolese, tanto abbondante quanto poco pregiata, e della durata di alcune usurpazioni, il Magistrato non escluse a priori la possibilità di concedere in affitto le terre illecitamente coltivate424. La bassa intensità delle proteste dovette probabilmente convincere i cinque nobili componenti il Magistrato che la risoluzione del conflitto poteva utilmente svolgersi in sede locale, senza onerose udienze a Palazzo Ducale. Dalla relazione di visita condotta dal Podestà di Varazze Nicolò Giustiniani tra il 12 e il 23 luglio 1707 possiamo trarre alcuni elementi utili per dare la giusta profondità ai problemi In dettaglio si comunicò che le «terre, e boschi [che] servivano per uso de popoli d’ambe dette Communità» erano state «ridotte in vigne, et castagnetti», cagionando «grandissimo danno, e pregiudicio a dette Communità non solo per detto danno dato, ma anche per gli danni che per detta caosa continuamente ci da la fiumara». Già dalla supplica non si evincono quindi specifici sistemi di amministrazione delle comunaglie albisolesi, fatto poi confermato dalle testimonianze successive, come si vedrà tra poco. La tutela del territorio dalle piene del torrente Sansobbia era contemplata anche dagli statuti, che vietavano il taglio degli alberi posti a difesa dei fondi costeggianti il corso d’acqua, ASGe, Magistrato delle Comunità, 551. 424 Le istruzioni date al Podestà di Varazze seguirono due direttrici. Per un verso egli doveva verificare la regolare stipula degli eventuali affitti di particelle di terre comuni e che i canoni venissero effettivamente corrisposti alla comunità. Secondariamente era tenuto a compiere un’accurata istruttoria per «ricconoscere per mezzo delle più sincere informationi, giustificando quali siano gl’effetti communali che si pretendono usurpati da particolari con divisare da chi, da quanto tempo in qua, e che fitto potrebbero pagare annualmente, indicando quali siano li coltivati e di qual sorte di coltura, per rifferirci il tutto con ogni maggior distintione», ASGe, Magistrato delle Comunità, 551. 423 147 istituzionali sollevati da un’occupazione di così ampia portata425. È soprattutto il caso di chiedersi, al di là della netta preponderanza di una ristretta cerchia di famiglie nella vicenda, se tutti i fondi fossero stati invasi abusivamente, o non vi fossero invece situazioni in parte legittimate o dal compimento di atti negoziali o dalla lunghezza del tempo trascorso. Il più recente catasto di Albisola recava la data del 1656 ma dopo mezzo secolo esso non rispecchiava più né la distribuzione della proprietà fondiaria né il valore delle parcelle possedute dai privati. Per questo durante il sopralluogo del Giustiniani fu eseguito un costante confronto tra la descrizione del registro e il reale stato dei praedia, così come appariva agli occhi degli ufficiali. Su 57 occupazioni censite, in 9 casi i possessori citati produssero un regolare titolo di acquisto. Si trattava prevalentemente di atti di compravendita, talvolta stipulati dai padri dei possessori al 1707, o di eredità, mentre in un solo caso si fa menzione di una donazione. Secondo gli interpellati, i trasferimenti erano avvenuti in buona fede e al Podestà dichiararono di non sapere che i fondi lavorati fossero comuni426. Ancora maggiori furono i possessori di lungo periodo, che consideravano le comunaglie come proprie. Se prendiamo solo gli appezzamenti per i quali fu stimato un tempo di occupazione superiore ai 10 anni, per approssimazione o dichiarazione testimoniale, vediamo che erano addirittura 16 le terre oggetto di un godimento ormai connotato da una certa stabilità. Se a questi numeri aggiungiamo che la grande maggioranza degli occupatori si era semplicemente impossessata dei fondi adiacenti a quelli di cui erano già proprietari, possiamo dedurre una certa trascuratezza da parte dei rettori nel far controllare lo stato dei confini tra beni privati e beni comuni che giocò a favore degli usurpatori. Lo stesso dicasi per la facoltà di escludere dal Può essere utile descrivere come si svolse l’ispezione. Il Podestà fece preannunciare i sopralluoghi in ciascuna località da un proclama del nunzio della corte, che intimava a tutti coloro che avessero interessi nei boschi comuni di presentarsi all’ufficiale per rilasciare le dichiarazioni del caso. Il giusdicente si fece accompagnare dagli otto rettori del borgo di Albisola e della marina e località per località raccolse i giuramenti di persone del posto circa il precedente stato dei confini o gli usi civici praticati dalla popolazione. Per ogni particella furono annotate le coltivazioni e le migliorie apportate, l’attuale possessore, la durata stimata dell’occupazione, il valore e il potenziale reddito annuo. 426 I fratelli Francesco e Sebastiano Rosselli, citati per l’occupazione di un bosco coltivato a castagni, produssero la ricevuta di pagamento per l’acquisto del fondo e la fede di registrazione catastale del 1658. Un certo Gregorio Bagliardo, comparso in relazione all’occupazione di una parte di bosco in località Cianrenero, dichiarò di aver acquistato la terra nel 1706 dagli eredi di Bernardo Freghiero e di non conoscerne la qualificazione a catasto. Infine, interrogati su alcuni vigneti e castagneti posseduti abusivamente, Gio. Antonio Poggio e Simone Saettone risposero che «detti beni, che al presente possedono sì dette occupationi, sono detti beni nella loro heredità e che essi non hanno preso niente di quello del commune». Durante il sopralluogo alla località Piantavigna, gli ufficiali visitarono il vigneto di Pietro Rossello, che produsse l’atto di compravendita stipulato dal padre. Nonostante la scrittura, il Podestà acquisì la dichiarazione di tal Andrea Vezzolla che «testifica essere detta occupatione stata fatta in quello del Commune per esservi stato molte volte e veduto che prima era bosco commune a tutti, per havervi massime veduto legnare e tagliar del bosco minuto da più persone senza contraditione alcuna», ASGe, Magistrato delle Comunità, 551. 425 148 godimento i terzi praticata dagli occupatori: dopo svariati anni di lavori agricoli svolti senza contestazioni, gli interrogati furono generalmente concordi nel ritenere legittima l’inibizione dell’accesso per il pascolo brado o l’esercizio del legnatico. Un processo simile sarebbe stato semplicemente inaffrontabile con i riti possessori, tenuto conto delle decine di persone coinvolte e delle differenti situazioni di ciascun convenuto. L’arbitrium concesso al giusdicente locale dal Magistrato delle Comunità permise una gestione della controversia che unì alla valutazione degli elementi in diritto una realistica compensazione tra interessi collettivi e diritti soggettivi. Il prodotto fu una riscrittura dei diritti reali esercitati sul territorio di Albisola. Il Podestà varazzino, preso atto della conformazione del territorio e dei bisogni della comunità manifestati dagli agenti e dai testimoni, propose al Magistrato il recupero e il ripristino dello status di bene comune per 17 delle 57 terre visionate. Nello specifico si trattava di fondi lavorati in vario modo, ma che il Giustiniani aveva dichiarato: «assai bisognevol[i] al pascolo, et alle persone che in tempo di cattivi tempi puonno andarvi a legnare». Il potere arrogatosi dagli occupatori di impedire l’accesso alle risorse fu quindi sancito ufficialmente come illecito limitatamente a quei beni e non per gli altri. Senza dubbio va però altrettanto sottolineato che, nonostante l’espansione notevole della proprietà privata, le comunaglie non scomparvero del tutto, poiché molti fondi usurpati risultavano ancora «confinare con il commune». Il Magistrato delle Comunità esaminò la relazione e nel maggio 1708 emise la decisione finale che legittimava le occupazioni di maggior redditività, sottoponendole al prelievo fiscale sulla scorta delle stime effettuate durante la visita. In accordo con le indicazioni del Podestà, da Genova arrivò anche l’ordine di ripristinare il possesso comune dei fondi lasciati a bosco o soltanto coltivati discontinuamente tramite i “roncamenti”: «È stato decretato et ordinato che quei beni resi in coltura di vigne, castagne, olive e simili debbano restare a Patroni occupatori dei medesimi, con obligo di pagare sopra il valsente d’esso e secondo l’estimatione fattane come in sudetta visita un annuo canone alla Communità del tre per cento, quale debba servire in dedutione delle avarie et altri carrichi di detto Luogo, oltre l’annua avaria saran capaci detti beni occupati; e per li altri beni che non siano resi in coltura come sopra, ma fossero boschi, prati e campi, o come si suol dire roncati questi debban esser communati e che detti occupatori contenuti in detta visita sian obligati rilassarli a detta Communità et in essi sia lecito a particolari tutti dell’istessa Comunità di andarvi a legnare e pascolare i bestiami e fare come nelli altri beni comuni». 149 Date le condizioni di partenza, la sentenza finale sanò il 70% delle occupazioni e riaprì all’uso collettivo non soltanto i fondi occupati, ma anche quelli che a seguito delle trasformazioni avvenute risultavano fisicamente irraggiungibili per l’appropriazione di zone di passaggio e di alcune strade. Se letta alla luce dei criteri ostromiani, la vicenda pare chiaramente supportare la tesi di Hardin del depauperamento delle risorse collettive in presenza di free rider agevolati dal libero accesso alle medesime. L’assenza di istituzioni adeguatamente capaci di disciplinare l’appropriazione privata temporanea delle comunaglie e l’inefficacia dei meccanismi di controllo – dalla relazione non emergono accuse intentate dai campari agli occupatori – crearono le condizioni perché alcuni gruppi economicamente attrezzati potessero impossessarsi di molte terre senza grossi ostacoli. Al Magistrato e al Podestà che agiva quale giudice delegato fu rimesso l’onere di bilanciare i diritti di proprietà privata con la tutela della comunità davanti al fallimento del meccanismo di composizione degli interessi in sede locale. L’incapacità di controllare l’integrità delle risorse pubbliche è un argomento che ritorna ciclicamente: prima dell’affermazione della cartografia moderna, i confini raramente potevano dirsi certi ed indiscutibili, specie per quelli delimitanti due enti sovrani distinti. Le secolari liti di confine tra Mioglia e Sassello studiate da Osvaldo Raggio si riproducono pressoché ovunque nella Liguria d’età moderna e l’analisi delle risorse collettive in valle Arroscia ce ne ha dato un’ulteriore conferma. L’alterazione dei termini di confine a danno degli spazi collettivi poteva però risolversi, e in concreto avveniva di frequente, in un’appropriazione non autorizzata interna alla stessa comunità. La mancanza di una oggettiva rappresentazione del precedente stato dei luoghi faceva il gioco degli usurpatori, che potevano sostenere tramite testimoni la proprietà del fondo occupato. La corretta gestione delle comunaglie passava anche per regolari (potremmo dire rituali) visite e riapposizioni dei confini separanti le terre private, coltivate o incolte, e quelle destinate all’uso pubblico e ad una costante sorveglianza da parte degli stessi fruitori delle risorse. Il rapporto tra lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la sua denuncia e l’efficacia dei provvedimenti di reintegro può dirsi inversamente proporzionale: più tempo passava, minori erano le probabilità di riuscire a recuperare integralmente il fondo usurpato. Oltre ai casi che abbiamo già esaminato, possiamo a questo proposito richiamare quello che accadde a Tivegna nel 1645, quando i rettori della comunità spezzina denunciarono al Senato un’occupazione di terre comunali da parte di un certo Andrea Mazzo. Maggiormente significativi appaiono i fatti precedenti la denuncia. Dall’esposizione degli agenti si apprende che parecchie persone usurpavano una serie di terre comunali. Tra gli occupatori, il Mazzo era stato sottoposto a 150 processo penale dal Capitano della Spezia per il taglio di molti castagni, dal quale era uscito assolto grazie a due testimoni secondo cui: «detto Andrea era molto tempo che godeva detta terra stata damnificata». Ciononostante, il giusdicente aveva inviato un notaio a visitare il luogo e a riposizionare i termini confinari, ordinando poi con sentenza del 1644 il rispetto della confinazione alle parti. Tuttavia né Mazzo, né gli altri occupatori si erano adeguati e per questo i rappresentanti di Tivegna avevano fatto ricorso al governo427. Possiamo situare la condotta illecita del Mazzo intorno ai primi anni Quaranta del Seicento, ma par di capire dagli atti che le altre occupazioni risalissero a molto prima. Questo episodio dimostra una volta di più che non agire tempestivamente causava incertezza sull’esatta titolarità del bene conteso: dopo anni la posizione della comunità si faceva più difficile da difendere e il rispetto dei confini tradizionali tra fondi privati e comunali faticava ad imporsi sulle posizioni acquisite dagli occupatori. Se riprendiamo il criterio ostromiano circa l’esatta individuazione della risorsa, possiamo comprendere che una siffatta situazione, diffusa un po’ dappertutto nelle campagne tardomedievali, non presentava le condizioni ideali per la conservazione dell’uso collettivo dei beni. 3.b) Autonomia e conflitto sociale: il caso di Castiglione Chiavarese L’intervento del Magistrato delle Comunità nei processi di recupero dei beni comunali presenta caratteristiche diverse a seconda del contesto di svolgimento dell’abuso. Quello albisolese fu sicuramente uno degli episodi più gravi di depauperamento del patrimonio fondiario di una singola comunità, agevolato da un quadro normativo inadeguato nel disciplinare l’uso delle risorse. Ma il caso in assoluto più eclatante fu quello di Castiglione Chiavarese, dove la vasta appropriazione di terre comunali manifestò un latente conflitto interno alla comunità da cui essa sarebbe uscita trasformata anche dal punto di vista istituzionale. Va aggiunto che la confinazione era stata eseguita con la partecipazione e il consenso dei rettori e degli occupatori. La sentenza del Capitano spezzino che le attribuiva efficacia fissò un termine di un mese entro il quale «li possessori delle terre della detta università fussero tenuti a mostrare le loro ragioni, altrimente s’intendessero essere beni della detta università». La composizione però fallì perché nessuno pose fine all’usurpo, e il Mazzo ricorse al Capitano della Spezia chiedendo che i Consoli di Tivegna gli rimborsassero le spese per il processo criminale da cui era uscito assolto. Comparendo di fronte al Magistrato delle Comunità i procuratori della comunità chiesero di rendere esecutiva la sentenza del Capitano e l’autorizzazione a recuperare i beni illecitamente posseduti col risarcimento dei danni patiti per l’abbattimento del castagneto compiuto dal Mazzo, ASGe, Magistrato delle Comunità, 169. 427 151 La comunità di Castiglione, nell’entroterra di Moneglia, era sede di Podestà e godeva di una totale immunità fiscale, in virtù di una convenzione risalente al 1440: i castiglionesi non versavano alcuna imposta al fisco genovese ed erano tenuti a sostenere soltanto l’onere di pagare salario e spese del Podestà e della sua familia428. Lo status di comunità convenzionata esentava la curia locale dall’obbligo di redigere i registri d’estimo. Il sistema di divisione del carico fiscale consisteva nella suddivisione proporzionale di un valore fisso simbolico tra il borgo di Castiglione e le ville della giurisdizione, metodo seguito dal Quattrocento e solo parzialmente riformato nel 1610, senza però che fossero cancellate le disuguaglianze più gravi429. Abbiamo già accennato alla grande quantità di comunaglie rilevata dalle inchieste di inizio Seicento sul territorio di Castiglione. Oltre a servire come terra di pascolo e a fornire ai residenti legname per il proprio uso, si apprende da una lettera del Podestà di Castiglione che molte persone erano solite trarre dai boschi comuni fasci di legna smerciati tra Sestri e Genova430. Detta abbondanza si inscriveva entro un quadro normativo di modesta qualità. I capitoli campestri (datati 1587) non sancivano altro che brevi e tradizionali divieti di procurare danni ai coltivi e alle «terre altrui sì dimestiche come salvatiche», deputando a ciò appositi campari431. Tutto ciò, unito ad una divaricazione degli interessi sempre più marcata tra i gruppi sociali, gettava le basi per L’esenzione era stata conseguita dagli uomini di Castiglione per “meriti acquisiti sul campo” in occasione della ribellione di Genova alla signoria di Filippo Maria Visconti del 1435 e della successiva difesa della riviera di levante dagli assalti del condottiero milanese Niccolò Piccinino. In riparazione dei danni patiti e delle perdite di vite umane, nel 1440 il Comune di Genova approvò la richiesta dei sindaci castiglionesi, impegnandosi per tutto il tempo in cui la comunità fosse stata sottoposta a «non imponerge ne laxarge imponere sopra de loro ne de loro beni avarie alcune ordinarie ne estraordinarie ne etiam prestito alcuno nì scodere eccetto quelle le quali si imponeranno per lo salario de lo Podestà loro e de serventi o messi suoi». Una copia è in ASGe, Senato Senarega, 1733. 429 Il riparto delle imposte per le spese comunitarie avveniva ancora nei primi anni del XVII secolo secondo un “modo antico” abbastanza schematico: all’intero territorio della Podesteria era attribuito un valore fisso di 50 carati, pari a 200 lire (4 lire a carato) che venivano ulteriormente suddivise in quarti. Il valore totale era poi ripartito tra il Borgo e le 13 ville con un criterio proporzionale (per possessi e per teste) periodicamente ridefinito dal consiglio comunitario. Come era già emerso durante la prima inchiesta del 1531 e come sarà acclarato durante i processi per le usurpazioni, tale meccanismo era fonte di sistematiche vessazioni a danno dei più poveri. Nel 1610 il Parlamento locale approvò una riforma comprensiva di una “caratata perpetua”, sul cui esatto funzionamento vi sono più ombre che luci. Si può ragionevolmente ritenere però che, ferma la divisione tra borgo e ville del podere complessivo di 50 carati, il podere di ciascuna frazione venisse calcolato sulla base delle terre situate entro i confini della circoscrizione e non sulle terre possedute individualmente dagli abitanti. In tal caso si potrebbe realmente parlare di censimento perpetuo, perché stimava una volta per sempre il valore di tutti i beni di una certa villa, cfr. ASGe, Manoscritti, 797, cc.39-40; ASGe, Magistrato delle Comunità, 365/B, F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 343-354. 430 ASGe, Magistrato delle Comunità, 135. Le usurpazioni interruppero evidentemente questo mercato di sopravvivenza, dando fiato alle proteste. 431 Cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 141-142. 428 152 pesanti frodi a danno del patrimonio collettivo432. Ma quali erano le pratiche consuetudinarie di utilizzo delle comunaglie castiglionesi? Nel 1600, quando gli uomini di Castiglione lamentarono l’insostenibilità delle «riduttioni a proprio uso» di ampie porzioni di terre comuni, il Senato emanò il 20 marzo il decreto valido per tutto il Dominio sul divieto di appropriazione delle comunaglie di cui abbiamo parlato a più riprese. Appena un mese dopo gli uomini della villa di Campegli richiesero un decreto che punisse pecuniariamente i danneggiatori delle loro comunaglie, in modo da poter accusare legittimamente gli uomini dei centri contigui. È interessante notare che questi ultimi presentarono un memoriale al Senato, dichiarando che in realtà da sempre gli abitanti in ciascun centro potevano: «scorrere dall’un capo all’altro della giurisdittione legnando e pascendo, essendo quelle terre communi in universale, e non assegnate particolarmente a villa per villa»433. Al netto dell’esigenza immediata dello scritto – opporsi ad un provvedimento potenzialmente sfavorevole – pare però abbastanza evidente come si confrontassero all’interno della stessa unità amministrativa due visioni diverse sull’accesso alle risorse: una (quella di Campegli) orientata ad vedersi riconoscere un potere di tutela più intenso sui “propri” beni comuni anche in virtù della soggettività socio-politica raggiunta - Campegli era sede di parrocchia -, l’altra propensa a conservare lo status quo del godimento indistinto di tutte le risorse da parte di residenti nella podesteria, senza limiti di sorta. Altre testimonianze circa l’accesso alle risorse sostanzialmente libero proviene dagli atti del successivo processo, che chiarì come l’etichetta di “occupatori” dovesse riferirsi soltanto a coloro che si erano appropriati stabilmente di alcuni boschi, chiudendone l’accesso ai terzi e mutandone spesso la destinazione agricola. Accanto ad alcuni esponenti delle principali famiglie del posto, si trovavano infatti anche decine di semplici contadini che da lunghissimo tempo solevano coltivare stagionalmente appezzamenti di terreni comuni. Il 19 giugno 1624 il Podestà di Castiglione Giacomo Fornelli informò il Magistrato delle Comunità che molti avevano seminato su terreni sterili per cercare di far fronte alle cattive annate di olio, uva e castagne che si erano susseguite in quegli anni434. La pratica della coltura temporanea era del resto sempre stata utilizzata, col che si Accanto a semplici lavoratori di terra nulla (o poco) tenenti, si era sviluppato un ceto di notabili arricchitisi grazie al commercio e all’esercizio di attività artigianali o di servizi (tavernari e bottegai), oltre ai mulattieri che agivano sulla tratta Sestri Levante – pianura Padana. 433 ASGe, Senato Senarega, 1625. 434 I semplici fruitori temporanei, citati come occupatori, si dichiaravano pronti a rilasciare il fondo occupato, dopo aver raccolto i frutti della semina. Uno di loro, Pietro Grino, respinse l’accusa sostenendo che «se alle volte ha lui 432 153 giustificava il fastidio manifestato da costoro nel vedersi inquisire dal giusdicente. Viceversa le intenzioni di altri usurpatori erano dichiaratamente ostili agli usi collettivi temporanei delle risorse: «È ben vero che vi sono di quelle persone che godeno tante di esse terre che vagliono più di 8 in 10 milia, uno delli quali si chiama Gio. Francesco Maggio et l’altro Antonio Carrosso detto Mangiafatto, et quelli se li godeno, come beni proprii, et non come comunaglie, et sono beni che li rendono molto fruto, cosa che non fa quelli che hanno seminato qualche poca biada, perché sono terre inutili»435. Il processo contro gli occupatori di Castiglione durò circa un quarantennio ma fu sospeso e riavviato più volte, dopo intervalli anche rilevanti e per niente congrui con una soluzione ordinata della questione. Accanto al momento delle suppliche di denuncia ad inizio secolo, possiamo isolare due fasi contraddistinte da precise scelte di conduzione del processo e dalle relative reazioni a livello locale. La prima va dal 1619 al 1627 e vede realizzarsi due fallimenti: quello del Senato nel tentativo di trasformare gli occupatori in enfiteuti e quello castiglionese di mediare il conflitto tra ricchi occupatori e il resto della comunità. La seconda fase (anni 1639-1643) è segnata dal cambio di strategia adottato dal Magistrato delle Comunità e porta alla vendita dei fondi usurpati gestita direttamente dal Commissario genovese. Vedremo che la tradizionale funzione di bilanciamento tra interessi contrastanti svolta dagli ufficiali genovesi fu portata ai limiti dell’impraticabilità per le profonde lacerazioni del tessuto sociale. Partiamo dalla prima fase del processo, la cui direzione fu impostata dal Senato dal momento che il Magistrato delle Comunità non era stato ancora istituito. Dopo più di un decennio durante il quale i Podestà che si erano succeduti non erano riusciti a punire gli occupatori, il Senato si risolse per l’invio di un commissario ad hoc col compito di accertare lo stato dei luoghi e restituire all’uso pubblico i terreni. L’incaricato, il nobile genovese Cornelio De Ferrari, si recò a seminato qualche poco nelli beni communali, ciò ha fatto per il passato perché chi voleva vi seminava, e poco o nulla di frutto vi ha preso, atteso la mala qualità delle terre», ASGe, Magistrato delle Comunità, 135. 435 Simile differenza sostanziale fu tenuta nel debito conto dal Senato fin dal 1603, quando ordinò al Podestà di procedere con la causa, calibrando però le pene a seconda dello stato patrimoniale del condannando: «Ci è parso dirvi che procediate inanti in detta causa per li termini di giusticia e che rispetto alli poveri miserabili la condanna non passi la somma di lire diece e gli altri richi che possono pagar la pena li condannerete sino alla somma de L. 100 per caduno e se vi sarà qualcheduno che per abbrugiamento o altro meritasse maggior pena, ce lo scriverette», ASGe, Magistrato delle Comunità, 135. 154 Castiglione nel novembre del 1619 e censì circa una settantina di occupatori, riscontrando però notevoli resistenze al rilascio dei fondi436. Vista la sua relazione e considerata la disponibilità di altre comunaglie non usurpate, il Senato emanò un decreto il 6 dicembre. Considerata la consistenza e i miglioramenti apportati a molti fondi, la Repubblica rinunciò alla politica repressiva di cui il decreto del marzo 1600 era il significativo manifesto ma stabilì che le terre occupate fossero date in locazione o enfiteusi per l’annuo canone dell’1% del valore e che, in caso di trasferimento, fosse pagato il laudemio alla comunità. I boschi di castagno, sebbene investiti a privati, dovevano rimanere aperti al pascolo – tranne, va da sé, nel periodo di fruttificazione – e ogni altra occupazione da quel momento era vietata senza licenza governativa, né potevano essere dati in locazione i fondi comuni ancora liberi. Una deputazione di tre uomini eletta dal Parlamento di Castiglione avrebbe dovuto individuare i beni e stipulare i contratti.437 La scelta dell’investitura enfiteutica premiava, sanandolo, il lavoro degli occupatori ma portava con sé diverse conseguenze rilevanti dal punto di vista giuridico ed economico. In primo luogo con essa si ufficializzava che le comunaglie erano di dominio della comunità e non della Repubblica. Come abbiamo più volte osservato, la titolarità dei beni ad uso collettivo raramente era definita con univocità, mentre in questo caso la qualità del soggetto proprietario diventava chiaramente identificabile: il contratto aveva ad oggetto i fondi «ex communaliis bonis spectantibus ad Communitatem Castilioni» e alla comunità doveva essere versato il canone annuale e il laudemio in caso di vendita, salvo l’esercizio della prelazione riconosciuta a favore dei rettori438. Non solo. L’imposizione del canone annuale all’1% fu considerata una violazione dei privilegi su cui si fondava ii rapporto tra Castiglione e Genova. Si ricorda infatti che dal 1440 la comunità godeva non solo del privilegio di essere esente da avarie o gabelle decisa dal capoluogo, Al 1602 risultavano censiti 75 occupanti, numero destinato a crescere fino a raggiungere i 118 del 1639. Si stima che le comunaglie usurpate nel 1619 ammontassero a circa 14-15 ettari di terreno, F. FIGONE, La podesteria di Castiglione, cit., p. 157, O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., p. 149. 437 Il decreto in latino è in ASGe, Magistrato delle Comunità, 135. 438 Si ricorda che in sede processuale la concessione enfiteutica non provava di per sé il dominium del concedente, salvo che esso non emergesse da altri elementi. La questione era comunque controversa e i commentatori non mancarono di presentare le articolate posizioni sul punto: F. FULGINENS, Tractatus de iure emphyteutico, Genevae, Apud Leonardum Chouët, 1665, quest. XXVI; G. L. RICCIO, Praxis aurea quotidianarum rerum ecclesiastici fori, Venetiis, Apud Laurentium Marchesinum et Socios sub signo Sapientiae, 1674, vol. II, resol. XCVII, nn. 1-6. Trattandosi di beni di una universitas, ceduti in esecuzione di un comando del sovrano, il dubbio nel caso di Castiglione non si poneva: essi appartenevano alla comunità, che li concedeva in enfiteusi ai privati possessori. Ma una soluzione che conservava una (seppur debole) proprietà pubblica delle terre non sarebbe stata accolta dal consenso degli interessati. 436 155 ma di dover sostenere (per l’ordinario) soltanto le spese per la corte podestarile, secondo il sistema fiscale prima illustrato439. Le ampie immunità contenute nel patto non fornivano alla comunità alcun appiglio giuridico per pretendere ulteriori prelievi: le pensiones dovute in virtù di contratti agrari relativi a fondi siti sul territorio erano pertanto da considerarsi illegittime440. La procedura proposta dal Senato, che prevedeva l’elezione da parte del Parlamento di tre persone per la stima dei beni e la stipula delle concessioni, abortì fin da subito. I castiglionesi nicchiarono fino al 1624, quando il vicario della corte di Chiavari fu inviato a Castiglione per sollecitare il compimento dell’iter sotto pene pecuniarie. Quando il Parlamento fu convocato alla presenza dell’ufficiale emerse in tutta la sua gravità la spaccatura tra i grandi occupatori e gli esclusi: «Dopo di haver ragionato il popolo nel luogo solito, se gli propose quanto da VV. SS. Molto Illustri venne ordinato, et la maggior parte di quelle persone cominciorno a levarsi in piedi, et dire che non volevano altrimente prendere investitura alcuna delli beni di questa Communità poiché loro son franchi di ogni cosa, e che questo non vogliono li sii posto simile agravio, et tutto questo li diceva tutte quelle persone che godeno gran somma di detti beni, et quelli che non ne godono cominciorno a dire che era bene di prender dette investiture, non essendo ciò altrimenti agravio ma sibene utile di questa Communità, et per queste parolle si cominciorno a maltrattare l’una parte e l’altra di parolle molto impertinenti». La rissa che mandò a monte ogni dibattito convinse il vicario che poco o nulla si sarebbe concluso per via del conflitto di interessi di molti componenti del consiglio. È opportuno soffermarsi un momento sui motivi posti alla base dell’opposizione verso la formalizzazione dei All’incirca in quegli stessi anni, i rettori di Castiglione dovettero ricorrere più di una volta alle convenzioni quattrocentesche per contrastare l’espansione della fiscalità genovese. Nel 1613 i sindaci opposero le immunità pattizie all’introduzione della gabella della macina (ASGe, Senato Senarega, 1733). Alla fine degli anni ’20 il Senato chiese un parere al consultore Stefano Lasagna per sapere se l’avaria straordinaria al tasso dell’1% per spese belliche gravante sul Dominio ricadesse sotto l’ambito di applicazione delle convenzioni o meno. La risposta fu affermativa e il Senato non poté far altro che prenderne atto, ASGe, Magistrato delle Comunità, 860. Sulle varie forme di prelievo vedi G. FELLONI, Distribuzione territoriale della ricchezza e dei carichi fiscali nella Repubblica di Genova, in Scritti di storia economica, cit., I, pp. 199-234. 440 La determinazione di un canone era un elemento costitutivo dell’enfiteusi stessa, ma non si richiedeva una sua proporzionalità al prodotto netto del fondo. Salvo casi particolari di distruzione del bene o di invasione da parte di eserciti nemici, la semplice sterilità casuale, una cattiva annata o altri casi fortuiti non sollevavano l’enfiteuta dal pagamento integrale del canone, mentre nel caso della locazione di lunga durata la contingente minore produttività del bene si ripercuoteva sul locatore mediante la compensazione del canone. La diversità del trattamento era giustificata dall’appartenenza dei frutti, che erano fin dalla loro origine di proprietà dell’enfiteuta ma non del conduttore, F. PINHEIRO, De censu et emphyteusi tractatus, Eborae, Ex typographia Academiae, 1681, disp. IV, sez. III, n. 24. 439 156 titoli di possesso. Il rispetto delle convenzioni, è stato notato da Raggio, era spesso utilizzato pretestuosamente da alcuni notabili nelle loro relazioni con magistrati genovesi per ribadire il rispetto dell’autonomia da cui dipendeva la loro supremazia a livello locale. Ma scendendo su un piano più concreto, vi sono indizi che inducono a ipotizzare altre cause. Particolarmente interessante appare la dichiarazione di Antonio Arzeno, citato a comparire nel 1626 di fronte al Magistrato delle Comunità per conto proprio e di altri quattordici occupatori. L’accusa al Parlamento di Castiglione, strutturalmente incapace di deliberare dal momento che «non si congrega mai salvo una volta l’anno al primo di Gennaro con tanta confusione che malamente si può espedire quelli negotii forzosi», cioè il rinnovo delle cariche, appare prevedibile e in linea con la difesa di molti occupatori. La critica più interessante Arzeno la muoveva al canone imposto dal Senato all’1% annuo ma non tanto sulla base delle convenzioni del 1440, bensì perché l’occupazione non implicava lo sfruttamento continuo dei terreni e quindi una loro redditività costante. Lo si è detto prima: il “ronco” richiedeva fino ad un massimo di dieci anni perché la boscaglia ricrescesse e si potesse coltivare nuovamente il fondo. Un canone annuo non teneva conto di questa caratteristica ed era giudicato insostenibile da parte di chi, tutto sommato, non si dichiarava pregiudizialmente contrario a fare “instrumenti et altre scritture” per aggiudicarsi la propria quota dei beni441. Nonostante il deterioramento del contesto istituzionale, il Parlamento locale riuscì a licenziare una riforma dei capitoli campestri nel 1630. Il nuovo articolato dichiarò illecito il taglio, i “roncamenti” e «altri lavori nocivi al crescimento di quella boscaglia, intendendosi anco vietato il potervi condure a pascolare capre, ma non altre bestie» e riformò lo statuto dei campari, prevedendone 6 tenuti a sorvegliare e a formulare le accuse per i danni dati alle comunaglie442. Sull’efficacia di questo testo è però lecito avanzare più di un dubbio. Dal contenuto si deduce Arzeno dichiarò che «Le terre nelle quali hanno ognuno di essi seminato […] non possono sopportare il carrico che se le pretende d’imporre di pagare uno per cento l’anno e massime, che quella terra dove si sarà seminato due volte convien poi lassarla posare per sette in otto anni tanto che di nuovo vi cresca il boscho, quale roncato poi e bruggiato serve in luogo di grassura, altrimente sarebbe del tutto gettata via la spesa e le semente, et il pagare terratico osia piggione annua di simili cose che non fruttano, se non con tanta distanza di tempo non è cosa che possa sostenersi, e verrebbe per questo la Communità a pigliare li sudori e travagli di questi poveri huomini, il che non è raggionevole né giusto», ASGe, Magistrato delle Comunità, 135. Questa obiezione era funzionale ad un certo tipo di sfruttamento del suolo, privo del connotato di stabilità che pure caratterizzava altre usurpazioni. Si deve tenere altresì presente che la discontinuità delle visite degli ufficiali genovesi agevolarono molti occupatori, che avevano buon gioco a dirsi disponibili a rilasciare i terreni dopo aver raccolto i frutti della semina, consci del fatto che nessuno avrebbe controllato l’aderenza al vero delle loro affermazioni. 442 Lo scopo dichiarato dal preambolo era restituire ai poveri di Castiglione boscaglie sufficienti per mantenere su discreti livelli il commercio di legname a Sestri, precedentemente praticato. Il testo fu approvato con emendamenti dal Senato il 14 ottobre 1630, ASGe, Senato Senarega, 1889, RSL, n. 263. 441 157 facilmente la sua origine dettata dall’emergenza di reprimere ulteriori spoliazioni, tramite la (tardiva) previsione di nuove sanzioni pecuniarie. Non sembra che i titolari dei fondi occupati da più tempo e che ormai vi praticavano stabili coltivazioni potessero essere citati alla luce delle nuove disposizioni, quando ormai perfino il Senato ne aveva in qualche modo riconosciuto l’utilità. Gli stessi Commissari genovesi non parvero tener conto del testo. L’approvazione dei bandi fu un successo simbolico della minoranza dei contrari alle usurpazioni, nel quadro del persistente conflitto che scuoteva il borgo e le ville. L’opposizione portata avanti dagli occupatori contro l’azione del Senato fu quindi in definitiva vincente e segnò un primo, momentaneo punto a loro favore. Il registro delle argomentazioni tirate in ballo univa un piano “alto” consistente nella ferma difesa dello status di comunità privilegiata, ad uno assai più pragmatico, volto a far intendere ai governanti genovesi che l’ostilità si dirigeva soprattutto verso quella soluzione, cioè l’investitura enfiteutica e il conseguente mantenimento di un dominio della comunità. La sospensione durata più di un decennio non fece altro che esacerbare gli animi ed acuire le disuguaglianze socio-economiche. Tra gli anni Venti e Trenta una parte degli occupatori più piccoli si inserirono nel reticolo di rapporti clientelari che faceva riferimento alle famiglie del notabilato locale più attive nella campagna di usurpazione (Carroccio e Castiglione tra tutte). La tendenziale concentrazione di lotti di terra occupata in mano ad un numero ristretto di famiglie portò molti di quelli che ad inizio secolo avevano usurpato “poca robba” a divenire manenti o mezzadri di chi, al contrario, di “robba” se n’era accaparrata molta di più443. Gli strati sociali medio-bassi, denunciando le malefatte degli occupatori, criticavano in realtà le disparità economiche e le ingiustizie fiscali che le appropriazioni abusive avevano aggravato, sì, ma non creato444. Gli usurpatori d’altronde disponevano di un’influenza riconosciuta pubblicamente e in grado di mandare a monte qualsiasi ulteriore tentativo di attuazione del decreto senatorio del 1619. Per fare solo un esempio, quando nel 1639 si presentò a Castiglione un nuovo Commissario, Geronimo Sanseverino, questi coinvolsero nella difesa dei loro interessi Cfr. sia O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., p. 152 che F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 155-156. Francesco Maria Imperiale, durante il sindacato degli ufficiali della riviera di Levante per il 1642, visitò Castiglione e informò il Senato delle gravi spaccature e “partialità” intercorrenti tra poveri e ricchi, il divario tra i quali era aumentato nel corso degli anni. Sulle occupazioni in particolare, stimate sufficienti le comunaglie rimaste libere, scrisse: «Perciò disaprovano le coltivazioni, se bene più utili al luogo che le boscaglie, sotto preteso del ben publico, volendo il danno privato», F. FIGONE, La podesteria di Castiglione, cit., p. 163. 443 444 158 prima due sacerdoti (l’arciprete di Castiglione e il rettore della chiesa parrocchiale di Masso) e poi Gio. Batta Carroccio, chiedendo e ottenendo la sua ricusazione445. La seconda ed ultima fase del processo fu caratterizzata da un netto cambio di marcia deciso dal Magistrato delle Comunità per chiudere definitivamente la questione. Attese l’impraticabilità delle concessioni enfiteutiche e l’evidente impossibilità di supportare le istituzioni locali nella ricomposizione della frattura, al collegio non restava altro che alienare direttamente le terre civiche. D’altro canto però si voleva sfruttare l’occasione per introdurre una maggiore equità nel sistema di riparto dell’avaria sugli immobili in vigore. Il disegno era quindi decisamente favorevole agli occupatori ma tentava di compensare la perdita di una parte consistente delle comunaglie con la redazione di un nuovo catasto che ponesse fine alle vessazioni cui i poveri erano soggetti da decenni. L’attenzione su quest’ultimo argomento fu richiamata soprattutto dalla relazione stilata nell’estate del 1642 dal Capitano di Chiavari Nicolò Clavesana. La disuguaglianza nel sistema di prelievo era alla base di una buona fetta delle tensioni che turbavano Castiglione da inizio secolo: «non sono le terre carattate, né si sa per qual caosa uno sia più in registro dell’altro». In più i maggiori responsabili delle occupazioni, come Gio. Andrea Carroccio e Gio. Batta Castiglione, non pagavano alcunché in quanto cittadini di Genova. Gli altri, per quanto privi del privilegio della cittadinanza, volgevano spesso a proprio vantaggio la crisi di liquidità delle famiglie più deboli, che per avere un po’ di denaro a breve termine accettavano di vendere i propri terreni riservandosi l’onere fiscale relativo, che quindi non si trasferiva ai compratori. Occorreva eseguire l’accatastamento di tutti i fondi della Podesteria, non solo per quelli occupati, e registrare il valore I due prelati, Paolo Tealdo e Michele Vallaro, scrissero al Magistrato delle Comunità il 23 gennaio 1640, mentre la lettera del Carroccio è datata 1 gennaio 1643 rispettivamente in ASGe, Magistrato delle Comunità, 365/B e 166. I due scritti sono però analoghi per contenuti, segno che ormai la strategia difensiva degli occupatori era compiutamente definita. Tra gli argomenti citati, oltre all’ingiustizia del canone dell’1%, vi fu quello della consuetudine dell’addomesticamento del bosco selvatico e delle colture temporanee che «habbiamo per tradditione da vechi et antenati, che sempre così s’è costumato fare». Lo scontro su questo punto rivela quindi il mutamento delle pratiche d’uso dei fondi, rispetto ad una consuetudine spesso richiamata ma non più rispettata nella sua essenza. La gente «otiosa e poltrona», «invidiosa del ben altrui» che denunciava gli occupatori stava sollevando un falso problema, dal momento che su trenta miglia di terreno compreso entro i confini della giurisdizione di Castiglione c’erano ancora sufficienti risorse collettive per tutti. Un altro argomento non secondario citato consisteva nel ricordare al governo che i beni usurpati erano stati al centro di un’attività negoziale (compravendite, donazioni, doti) che ne rendeva socialmente improponibile il recupero. La rinnovata attenzione per l’affaire di Castiglione fece salire la tensione tra i gruppi in lite e furono denunciati al Magistrato delle Comunità furti, omicidi e risse a danno di coloro che portavano i propri animali a pascolare sulle comunaglie occupate. Dietro le violenze c’era la mano dei principali occupatori, tra cui Gio. Andrea Carroccio, cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 160-161. 445 159 imponibile e l’ammontare della tassa per ciascuna particella, ponendo fine alle manipolazioni dolose dei libri d’estimo e alle confusioni «mai in pregiudicio de ricchi».446 Il Magistrato recepì e trasse le dovute conseguenze. L’anno successivo la nomina dell’ultimo Commissario pro recuperatione bonorum communalium, Michele Bozomo, fu accompagnata dall’accantonamento del decreto del 1619. La decisione di procedere alla vendita definitiva dei terreni occupati faceva decadere uno dei motivi di protesta sollevati dagli usurpatori (l’onerosità del canone annuale) e permetteva loro di disporre liberamente del bene, una volta pagato il prezzo. Il collegio confermò poi la linea già intrapresa nel 1619: i boschi di castagni, quantunque privatizzati, dovevano essere gravati dall’uso civico di pascolo, mentre sulle comunaglie residue si costituiva un vincolo di indisponibilità salvo licenza del Senato. A questi provvedimenti si aggiungeva poi l’ordine al Bozomo di far censire tutti gli immobili siti sul territorio di Castiglione447. Il Commissario Bozomo censì 84 particelle di terreni ex-comuni da vendere, valutandole nel complesso (secondo il valore precedente l’occupazione e i relativi miglioramenti) 3.501 lire. L’operazione di vendita rese 433 lire, di cui solo 205 riscosse immediatamente, e 22 fondi su 84 furono gravati dall’uso di pascolo collettivo. Il ricavato fu irrisorio rispetto al valore attuale dei beni, in certi casi intorno al 10 %, e quindi la vendita rappresentò indubbiamente un affare per gli occupatori. Buona parte dei fondi venduti peraltro confinava con terre rimaste comuni, segno che le accuse dei nullatenenti potevano essere davvero sproporzionate448. Da questa vicenda, alla quale abbiamo dedicato qualche pagina in più per l’evidente complessità dei fatti, possiamo trarre alcune importanti indicazioni. È in primo luogo innegabile che il sistema di prelievo fiscale in vigore a Castiglione ebbe un ruolo di indubbio rilievo nel ASGe, Magistrato delle Comunità, 365/B. Le istruzioni al Bozomo sono contenute in una relazione del Magistrato delle Comunità al Senato stilata il 12 agosto 1642. In dettaglio il Magistrato suggeriva di stimare il valore dei fondi usurpati «nel stato primevo anco a buon mercato», senza cioè considerare le migliorie eseguite per evitare ulteriori contestazioni. Date le dimensioni del fenomeno «non si può né deve castigare come delitto particolare, et essendo maggior utile della Serenissima Repubblica haver detti beni coltivati, da quelli i suoi sudditi ricevono maggior sollevo, che boscaglie a fatto inutili». Per quanto riguarda l’accatastamento degli immobili privati, il Magistrato ordinò a Bozomo di farsi accompagnare da due o tre stimatori del posto e un cancelliere. Nel loro libro dovevano annotare per ogni particella «il nome del padrone, che al presente le possede con li loro respettivi confini, et estimo, acciò da questo si faccia registro, sopra il quale a soldo, e lire debbano detti habitanti pagar li carrichi tanto pubblici, come privati senza continuare nel disordine presente, dove il povero paga per il ricco, e questo resta immune; nel qual libro distintamente si noti anchora la qualità, grandezza, sito e confini de beni communi, acciò sempre consti quali sono, e che non possino essere alienati», ASGe, Magistrato delle Comunità, 365/B. 448 Per quanto non fosse più la soluzione principale, Bozomo stipulò anche una decina di locazioni enfiteutiche, mentre per circa un’altra decina di fondi gli occupatori presentarono atti di acquisto rogati tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento. 446 447 160 mancato sviluppo di istituzioni amministrative sufficientemente solide. Il processo mise in luce la strutturale incapacità di governare adeguatamente la routine politica del centro del Parlamento castiglionese, da cui discendeva anche il basso livello dei servizi svolti dagli ufficiali, al punto tale che nel 1647 – quindi pochi anni dopo il frazionamento deciso da Bozomo – furono approvati dei capitoli politici per il governo di Castiglione, in riforma di quelli precedenti, approvati dal Magistrato delle Comunità449. L’alterazione delle consuetudini di utilizzo della terra si abbatté come un uragano su istituzioni deboli e controllate agevolmente dalle stesse persone che stavano defraudando la comunità dei propri beni. Dal punto di vista sostanziale fu proprio il tradizionale esercizio libero del pascolo e del legnatico su tutti i fondi comuni a pregiudicare le possibilità di recupero degli stessi, nel momento in cui gli strati economicamente più attrezzati della società si servirono dei tradizionali “roncamenti” per impadronirsi stabilmente di parecchi ettari di comunaglie e intensificare la ben più redditizia coltivazione delle castagne. La mancata codificazione di regole scritte, in grado di conciliare appropriazione temporanea e godimento collettivo, agevolò verosimilmente gli occupatori. Le poche e tardive disposizioni a tutela dei boschi comuni arrivarono solo nel 1630. È possibile spiegare tale assenza? Senza dubbio la pastorizia aveva scarso peso nell’economia del centro, ragion per cui l’ampia distesa silvestre sopravanzava di molto la domanda di terre di pascolo e non vi era dunque necessità di regolamentarne l’utilizzo. La semplice raccolta di legna da rivendere presso i mercati dei centri costieri doveva probabilmente trovare da sé, anche qui in via consuetudinaria, un proprio equilibrio tra taglio e tempi di rigenerazione della vegetazione. Pure la coltivazione stagionale si svolgeva senza un qualche indirizzo da parte degli organi comunitari, nemmeno nelle forme del frazionamento e dell’assegnazione – temporanea o definitiva – di parte delle comunaglie: qualsiasi canone o terratico corrisposto per l’affitto sarebbe stato illegittimo per le convenzioni. In questo quadro dovettero operare le magistrature della Repubblica, alle quali va perlomeno imputata una certa lentezza nella gestione del processo. La politica di arbitrato tra le parti a Castiglione non trovò terreno fertile per l’ostilità che gli occupatori si erano attirati. In ogni caso, fallito il primo tentativo del Senato, il Magistrato delle Comunità valutò che per la Le misure adottate cercarono di ovviare al problema dell’inadeguatezza delle persone elette agli uffici di massaro e Priore e al disordine che regnava sovente in occasione delle sedute del Parlamento, dove le delibere erano più spesso adottate per acclamazione – con i relativi abusi – che con le palle colorate, ASGe, Magistrato delle Comunità, 171. 449 161 conservazione della quiete nella podesteria fosse indispensabile intervenire alle radici dello scontento, che originava dal modo regressivo con cui ricchi e poveri concorrevano alle spese comuni. La risposta alla domanda di giustizia che si levava dalla comunità si articolò così in una ridefinizione dei confini tra proprietà privata, pubblica e privata gravata da uso civico, attuata mediante un’inedita ingerenza nell’amministrazione locale. Con la registrazione degli estimi svolta dal Commissario, le varie situazioni reali diventavano conoscibili (e quindi tutelabili) dagli organi giurisdizionali genovesi. Come ha osservato Figone, sorsero contese negli anni successivi circa l’esatta delimitazione dei fondi privati e sul pagamento del prezzo, così come altre occupazioni si verificarono ancora nel XVIII secolo, sebbene di minor portata450. Esse erano tuttavia strascichi frequenti in questo tipo di cause, che non sminuiscono gli sforzi compiuti dei Commissari nel tentativo di governare il conflitto sociale. Ci sembra di poter affermare in conclusione che la vicenda di Castiglione sia rappresentativa per un verso del fatto che a larghe condizioni di autonomia amministrativa e fiscale non corrispondevano necessariamente buone pratiche di gestione delle risorse collettive. Le differenze tra Sanremo e Castiglione, entrambe comunità convenzionate, dovrebbero essere a questo punto evidenti. Per altro lato conferma come sui beni comuni potessero convergere tensioni di origine diversa che le magistrature della Repubblica tentarono di contenere, conciliando alla meglio antiche consuetudini collettive – sempre meno “collanti” della società – con la legittimazione di nuovi diritti di proprietà frutto di un’agricoltura estensiva che a Genova non era certo guardata con disprezzo. 4.a) Le alienazioni: difesa dei beni o difesa delle regole? L’alienazione dei beni comunali era circondata da particolari solemnitates e i giuristi solevano rimandare per la materia de qua ad un consilium del mantovano Antonio Gobbi che le illustrava una ad una. Alessandro Dani ha ben contestualizzato il contenuto del parere di Gobbi nel quadro 450 Cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 168-171. 162 della dottrina del tempo e dello ius proprium senese. Rimandando a quella sede per gli approfondimenti, possiamo sintetizzare così:451 1) Competente a deliberare era il consiglio della comunità, regolarmente convocato secondo le consuetudini del luogo, con l’intervento e l’avallo dell’ufficiale rappresentante il sovrano; 2) Durante la seduta, ciascuno doveva poter esprimere il proprio parere – specie i notabili e possidenti del posto – e, solo dopo aver esaurito la discussione, si poteva proseguire con la votazione; 3) La deliberazione era valida a patto che vi prendessero parte almeno due terzi dei componenti dell’assemblea a pena di nullità della stessa e, a cascata, del contratto eventualmente stipulato; 4) Fondamentale era la redazione di un verbale da parte del notaio che indicasse i nomi degli intervenuti al Consiglio e l’oggetto della delibera; 5) L’elemento causale doveva consistere nel bene e nell’utilità della comunità, di cui i consiglieri erano garanti; 6) La comunità doveva aver ottenuto la preventiva autorizzazione del Principe per alienare i propri beni; 7) Il mezzo preferito per l’individuazione del contraente era l’asta pubblica, tuttavia su questo punto Dani ha rilevato come l’opinione del Gobbi non fosse seguita da tutti; 8) A perfezionamento della vendita interveniva il decreto con cui l’ufficiale del Principe integrava la volontà espressa dalla comunità. Va da sé che questo apparato regolamentare andava incontro a molteplici deroghe ed adattamenti in ragione sia della specialità dei vari diritti particolari, sia delle dimensioni delle comunità e del tipo di beni oggetto di disposizione. A rilevarlo era stato, tra gli altri, niente meno che il Cardinal De Luca nel “Dottor volgare” concludendo che: «molto rari, e forse niuni sono i casi, ne’ quali in questa materia si abbia da caminare con la sola disposizione delle sudette leggi. Atteso che […] non vi è forse luogo, il quale sopra ciò non viva con le sue leggi, o consuetudini particolari, le quali, così in questa, come in ogni altra materia, prevagliano le sudette leggi chiamate comuni»452. Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 421-438. La fonte è in A. GOBBI, Juris Consultationes decisivae civiles et criminales, Venetiis, Apud Nicolaum Pezzana, 1707, cons. V. Si chiarisce che le solennità erano richieste per qualsiasi atto di disposizione di un certo rilievo, perciò non solo in occasione delle alienazioni ma anche locazioni, enfiteusi etc. 452 G. B. DE LUCA, Il Dottor volgare, Roma, Nella Stamperia di Giuseppe Corvo, 1673, lib. 7, parte III, cap. VIII, n. 1. 451 163 Ogni Stato faceva quindi storia a sé, e lo stesso giurista di Venosa portò come esempi le realtà che meglio conosceva, vale a dire lo Stato Pontificio e il Regno napoletano. Scopo di questa sezione è dunque quello di esaminare alcuni casi di vendita sottoposti al vaglio delle magistrature di Genova per comprendere secondo quali schemi esse sovrintesero al controllo sugli atti dispositivi dei beni comunali e quali interessi tutelarono in via prioritaria. Per cominciare bisogna dire che le procedure di vendita o di locazione periodica dei beni erano raramente regolate dagli statuti locali. In conformità con l’incanto delle gabelle, oggetto di una disciplina più diffusa, il modello dell’asta pubblica si estese anche alla vendita dei beni comunali, con aggiudicazione a colui che avesse presentato la migliore offerta allo spegnimento di una candela. Salvo sporadiche eccezioni, le comunità del Dominio non si discostarono da questo metodo per assegnare ai privati di pascoli e boschi. È pacifico che a seconda delle attività agropastorali praticate presso la comunità considerata e delle risorse di cui essa disponeva, la locazione periodica poteva essere effettuata costantemente oppure solo nei periodi in cui erano necessarie entrate extra. A giustificazione delle operazioni fu spesso addotto lo stato di indebitamento, come già accennato problema endemico e diffuso a tutte le latitudini, seppur con un grado di incidenza variabile da luogo a luogo. I Parlamenti locali erano le assemblee preposte a deliberare in ordine agli atti dispositivi dei beni. Alla presenza dei consoli locali e del giusdicente territorialmente competente, il Parlamento metteva ai voti la proposta. Se essa aveva ad oggetto la cessione o il frazionamento di un bene della comunità, il verbale era inviato a Genova per l’approvazione del Senato o di altra magistratura da esso delegata. Anche in questo campo, come per il recupero dei beni usurpati, il Magistrato delle Comunità assunse progressivamente la competenza generale al trattamento dei fascicoli provenienti dal Dominio e indirizzati al Senato. Beninteso, senza automatismi: il principale collegio di governo della Repubblica aveva comunque facoltà di decidere autonomamente o di chiedere un parere funzionale all’emanazione di un decreto di risposta. L’interlocuzione tra capitale e Dominio si serviva dei giusdicenti quali informatori nonché controllori della legalità delle procedure. In particolare furono soprattutto i giusdicenti maggiori, dotati della massima giurisdizione all’interno della loro circoscrizione, a fungere da longa manus dei Collegi, scavalcando i Podestà locali, troppo spesso facilmente influenzabili. Le operazioni di un certo rilievo dovevano essere autorizzate preventivamente e convalidate al loro completamento, a maggior ragione se la comunità era indebitata. Il debito 164 accumulato si presentava come la principale causa della vendita di parte dei beni, soluzione spesso caldeggiata dagli strati più agiati. Il Senato e il Magistrato delle Comunità assunsero le dovute decisioni tenendo conto di diversi fattori: capacità economica della comunità, gravità dell’indebitamento, valore del bene oggetto della causa, sussistenza di eventuali contrasti in seno alla comunità stessa. Un’ordinata discussione del consiglio locale avrebbe fatto emergere infatti alla luce del sole le posizioni contrarie alla privatizzazione. Tuttavia abbiamo visto nelle pagine precedenti che le negligenze dei rettori e le disfunzioni dei Parlamenti comunitari potevano spesso impedire alle istituzioni locali di elaborare una sintesi efficace ed era in queste circostanze che l’intervento suppletivo degli organi repubblicani si rendeva indispensabile. Alcuni casi possono aiutarci a ricostruire la procedura amministrativa seguita in occasione della dismissione del patrimonio comunale. Iniziamo da quanto accadde a Casarza negli anni Trenta del 1600. La comunità era gravata da parecchi debiti, dovuti soprattutto a spese sostenute per processi aventi ad oggetto proprio le comunaglie. Nel 1630 ottenne dal Senato l’autorizzazione al frazionamento e alla vendita di parte dei campi comuni fino al raggiungimento di 2.096 lire, sotto la vigilanza del giusdicente di Sestri Levante. Il Magistrato delle Comunità, dopo aver esaminato i conti presentati dal giusdicente, fu però di diverso avviso e ordinò ai sindaci di Casarza di iscrivere quei debiti tra le spese cui far fronte tramite le avarie ordinarie. A questa decisione la comunità si oppose, rinnovando la richiesta di alienazione di prati e boschi453. Il Magistrato fece allora pubblicare una grida a Casarza fissando un termine di otto giorni entro il quale dovevano comparire a Genova o presso la cancelleria del Podestà di Sestri coloro che si opponevano per esporre: «perché non si debba concedere alli detti huomini di Casarza licenza di poter vender tante communaglie di detti huomini, o sia della detta Communità, per pagarne del prezzo di esse quello che sudetta Communità deve». Spirato il termine senza alcun reclamo, il Magistrato delle Comunità propose al Senato di autorizzare la vendita mediante pubblica asta da svolgersi sotto l’egida del Capitano di Chiavari. La somma da raggiungere però salì a 2.479 lire, con le quali sarebbero stati soddisfatti due creditori di Casarza e si sarebbe estinta la cospicua spesa per interessi. Notiamo quindi che tramite il consueto schema giurisdizionale-contenzioso, il Magistrato delle Comunità si proponeva come autorità competente per la risoluzione delle eventuali controversie tra favorevoli e contrari alle privatizzazioni. Il Magistrato esercitò il proprio potere 453 ASGe, Magistrato delle Comunità, 164. 165 rideterminando all’occorrenza anche gli obiettivi finanziari che le alienazioni dovevano raggiungere. Consapevole delle frequenti irregolarità che affliggevano le cessioni, il collegio incaricò il giusdicente maggiore più vicino alla località interessata – qui il Capitano chiavarese – perché garantisse la legalità della procedura e mediassero personalmente i conflitti sorti. Il secondo caso ci porta ad Ortonovo. I rettori del borgo spezzino avevano ottenuto dal Senato nel 1637 un decreto che li autorizzava a mettere all’incanto i beni fondiari del comune elencati in una lista. Alcuni di questi, che già fruttavano alla comunità piccoli redditi derivanti dall’affitto, sarebbero stati concessi a livello o in enfiteusi, mentre per le altre terre che non rendevano nulla si sarebbe semplicemente dato luogo alla vendita definitiva. Alla gara parteciparono anche due debitori della comunità (tali Francesco Masini e Andrea Coppino), aggiudicandosi alcuni appezzamenti ma, al momento del frazionamento e della redazione degli atti, rifiutarono di ricevere la proprietà dei beni, realizzando forse di aver acquistato quelli meno pregiati, e riuscirono a far sospendere la procedura454. Seguendo le forme consuete di supplica al Principe, i due fecero istanza al Senato nel marzo del 1639 chiedendo di non approvare la delibera finale di vendita. Le motivazioni sollevate di fronte al Magistrato delle Comunità, more solito delegato a sbrigare la faccenda, consistevano nell’irregolarità dell’asta, che aveva riguardato anche fondi non compresi nella lista del 1637, e nella ipotetica insufficienza di siti dove praticare il pascolo e la raccolta di legna. I Consoli di Ortonovo chiesero comunque l’approvazione dell’operazione, sostenendo che si trattasse solo di una confusione tra i nomi degli appezzamenti. Il Commissario di Sarzana, dopo la visita ad Ortonovo, propose che fosse ridotte ad un terzo l’estensione delle terre da assegnare a Masini e Coppino con equivalente riduzione del prezzo e che per il resto si approvasse la vendita. Ad agosto del 1639 il Magistrato propose al Senato di dare il proprio assenso all’aggiudicazione e chiudere la questione. Il caso è rivelatore del complesso intreccio di interessi che ruotavano intorno alle alienazioni delle comunaglie. In particolare sotto gli argomenti sollevati dai due ricorrenti si celava una strategia abbastanza precisa, diretta a mantenere la comunità in condizioni di esposizione debitoria nei loro confronti per meglio condizionarne la vita politica, almeno fino a quando non si fosse presentata una buona contropartita. Nel caso di specie, considerato che Ortonovo disponeva 454 ASGe, Magistrato delle Comunità, 164. 166 di altri siti dove portare il bestiame al pascolo, il Magistrato ritenne prioritario l’alleggerimento del carico debitorio rispetto alla conservazione delle risorse455. La vittoria dei consoli davanti ai collegi genovesi fu però vanificata l’anno successivo: Masini riuscì infatti a farsi eleggere anche Console e Coppino consigliere nel 1640, nonostante le direttive del Magistrato delle Comunità volte ad evitare simili situazioni456. L’elezione, per quanto favorita dal parziale pagamento dei loro debiti al cassiere di fronte all’assemblea riunita, non fece che aggravare la situazione di Ortonovo perché i nuovi rettori non diedero seguito all’asta, né si premurarono di riscuotere i crediti vantati dalla comunità o i canoni non pagati per l’affitto di altri terreni comunali già locati457. Il semplice controllo ex ante ed ex post non poteva dunque dirsi sufficiente e in una simile circostanza il Magistrato avrebbe dovuto agire contro gli agenti per la negligenza nel curare la riscossione dei debiti, ma non si conosce l’esito della vicenda. Durante l’esame del processo contro gli usurpatori castiglionesi abbiamo notato come Senato e Magistrato delle Comunità adottarono due approcci diversi per la definizione della causa. Anche in materia di alienazioni non sempre il Senato avallò le proposte del Magistrato all’insegna del risanamento finanziario delle comunità soggette, se questo cozzava con il rispetto di altri interessi giudicati prioritari. Un caso emblematico a questo proposito si verificò a Vessalico nel 1634. Sappiamo che il conflitto sabaudo-genovese interessò molto da vicino le comunità ponentine del capitanato di Pieve di Teco e ciò ebbe riflessi anche sui loro bilanci. Oltre alle spese eccezionali per la riparazione dei danni e il mantenimento degli indigenti, dopo la guerra del 1625 la Repubblica intraprese l’ammodernamento delle mura del Borgo di Pieve di Teco in ottica difensiva, in parte finanziata mediante la creazione di una nuova imposta il cui riparto tra le tre comarche diede luogo ad un Le comunità di Ortonovo e Nicola disponevano, tra gli altri, anche del diritto di pascolo alla Marinella di Sarzana, località pianeggiante vicino alla foce del fiume Magra. Verso fine Seicento le due comunità intentarono una causa per il rispetto dei loro usi civici contro il conduttore della Marinella che aveva ricevuto il sito in enfiteusi dal comune di Sarzana, ASGe, Archivio segreto, 97. 456 L’elezione fu propiziata dalla rinuncia del primo Console eletto, che aprì la strada all’elezione di Masini. Dal rapporto del Commissario pare che gli ufficiali uscenti tentarono di influenzare l’elezione per evitare che persone in conflitto di interesse fossero elette, ma senza riuscirvi. Il Commissario, vista l’acclamazione e la mancanza di opposizioni, ratificò quanto deliberato – la raccomandazione del Magistrato delle Comunità, se trasgredita, non determinava la nullità dell’elezione - informandone però subito Genova. 457 Una lettera anonima del 1640 descrive il Masini come un “caporione”, che «non ha mai guardato se non al danno di essa Communità, e particularmente mentre era console l’anno passato, qual ufficio si usurpò e mendicò per poter maneggiare detta Communità et le liti, che sustentava, e che al presente sustenta contro essa a modo suo». L’anonimo informatore elencava i nomi di 10 uomini che dovevano ad Ortonovo circa 200 lire, elenco definito però parziale. Anche i conduttori di terre comunali morosi erano diversi, ASGe, Magistrato delle Comunità, 165. 455 167 lungo contenzioso458. Gravato da questo carico e da pregressi censi contratti per le spese di guerra e per acquistare scorte alimentari per la popolazione, Vessalico all’esordio degli anni Trenta si trovò pesantemente indebitato. Tra i provvedimenti individuati per dare sollievo alle casse comunali, i Consoli scelsero di proporre la vendita della bandita boschiva del Comune durante la seduta del Parlamento del 19 febbraio 1634459. Questa mossa si attirò però l’aperta opposizione di un gruppo abbastanza ampio di vessalicesi, che ricorsero al Senato contro la vendita. In sintesi furono due i motivi di doglianza dedotti. Innanzitutto si eccepirono diversi e gravi vizi affliggenti la seduta del Parlamento che aveva deliberato in proposito e l’asta conseguente. L’assemblea era stata convocata senza l’adeguata pubblicità e il numero di persone convenute non era sufficiente per integrare il numero legale – la proposta era stata approvata con 39 voti favorevoli e 18 contrari. Dall’esposizione dei ricorrenti si profila insomma un tentativo di trasferire il bosco pubblico in mani private sotto il pretesto dell’indebitamento tramite una serie di forzature procedurali, dirette da un ristretto gruppo di famiglie benestanti del posto460. Il secondo argomento riguardò la natura comune del bosco, che forniva agli uomini del borgo legname impiegato nelle più svariate circostanze, dai lavori alle mura alle riparazioni dei mulini locali fino all’alimentazione di alcune fornaci di calce. Inoltre: «in li tempi de carestia, o penuria di vetovaglie, bisognando li poveri di ristoro, et aiuto, si servono in luogo di sigortà, del detto bosco obligandolo, non havendo la communità altri stabili sufficienti, che per altro sarebbono soggetti a gravissimi dissaggi». Il bosco rientrava quindi tra le garanzie date dalla comunità ai propri creditori, che sarebbero stati soddisfatti nel tempo grazie agli introiti derivati dal prelievo fiscale e dai redditi generati dai mulini e dai frantoi. L’alienazione consentiva di alleggerire il carico gravante sulle casse di Vessalico, misura da cui chiaramente traevano maggiori benefici coloro che disponevano Il rinnovamento dei secondi anni Venti fu in realtà l’ultimo anello di una catena di interventi di edilizia militare che interessarono il Borgo a partire dai primissimi anni del Seicento. Per finanziarli, il Senato ricorse a provvedimenti ad hoc come la vendita dell’ufficio della scrivania all’asta e l’assegnazione alla comunità di un terzo del valore delle condanne riscosse, come informa la Descrizione in ASGe, Manoscritti, 218, cc. 31 r. – 34 r. Sulle mura di Pieve cfr. E. LUSSO, Territorio, infrastrutture e tutela militare. cit. 459 Richiamata la pesante situazione debitoria della Comunità, che si trovava a sborsare quasi 10.000 lire per effetto delle spese ordinarie e dei debiti accumulati, i Consoli proposero di mettere all’incanto la Bandita del Comune con aste da tenersi per cinque o sei giorni festivi. Il ricavato sarebbe andato ad estinguere parte del debito consolidato, ASGe, Senato Senarega, 1939. 460 Per far sì che la manovra dei «più ricchi di questo luoco, tutti parenti» andasse a buon fine, non fu suonata la campana per annunciare pubblicamente la riunione e la notizia dell’adunanza fu diffusa solo fra gli stretti famigliari. Anche l’asta rischiava di non dare quei benefici sbandierati, dal momento che «seguendo detta vendita si come loro procurano, che segue Domenica prossima che viene, acciò detto bosco resti fra di loro con manco pretio di quello che vale», ASGe, Senato Senarega, 1939. 458 168 di proprietà allibrate e tassate, ed è proprio in tale prospettiva che va letta la decisione di cedere il bosco: il ricavato avrebbe ridotto la quota che i possidenti avrebbero dovuto sborsare e un piccolo gruppo di famiglie se ne sarebbe servito in maniera esclusiva461. Il Senato ordinò al Capitano di Pieve di recarsi a Vessalico per verificare l’effettiva utilità dell’operazione e svolgere una breve istruttoria. Chiaramente gli esponenti del “partito privatizzatore” ribadirono la bontà della decisione presa e poiché dopo alcune sedute, si era già raggiunta la somma di 750 lire per l’acquisto del bosco, chiesero al giusdicente di garantire la prosecuzione dell’incanto. Contrariamente alle loro aspettative, il Capitano accolse la domanda di riconvocazione del Parlamento con tutte le formalità del caso: rimessa ai voti la proposta, fu bocciata per 46 voti contro 23. È interessante però notare che nel suo rapporto, il Capitano pievese espresse al governo genovese il proprio favore alla vendita della selva, adducendo la disponibilità di altre risorse collettive462. Sulla stessa linea si pose il Magistrato delle Comunità, proponendo al Senato di convalidare l’asta nonostante la violazione delle regole procedurali, ma questi, nella seduta del 21 agosto, «proposito de concedendo dictis Consulibus venditionem nemoris in precibus requisita, et sumptis calculis, propositio reprobata fuit». Il governo scelse quindi di anteporre il rispetto della volontà politica espressa dalla comunità nelle forme legali all’alleggerimento del debito comunitario che, nel modo in cui andava realizzandosi, risultava essere un buon affare soprattutto per i registi di tutta l’operazione. Questo episodio è anche importante come riprova del fatto che in un contesto segnato da una lunga tradizione di utilizzo regolato delle risorse collettive, la loro difesa risultava più efficace, nonostante una situazione finanziaria destinata a non migliorare nell’immediato463. Se finora abbiamo trattato di vendite definitive, dobbiamo perlomeno ricordare brevemente che alla sua attenzione venivano spesso sottoposti anche atti di locazione periodici dei beni o gabelle comunali per l’approvazione. Contenuto e complessità dei contratti di locazione variavano a seconda della quantità e delle pratiche di utilizzo dei beni, proprie di ciascuna 461 Oltre a richiamare il possesso in comune del bosco da lunghissimo tempo, gli oppositori ricordarono che «né si può sotto corretione di VV. SS. Serenissime allegar dalla parte per inconveniente il sgravar la Communità da debiti con pagar per podere, poiché quando si vende un stabile si vende franco, e libero, eccetto che dalle avarie e carrichi publici communi, così restano li particolari obligati sgravar la Communità per quella rata parte che loro possedono», ASGe, Senato Senarega, 1939. 462 ASGe, Senato Senarega, 1939. 463 Nel 1637 i rettori di Vessalico chiesero l’autorizzazione al Magistrato delle Comunità di poter prendere a prestito 400 scudi per acquistare vettovaglie per i poveri, ASGe, Magistrato delle Comunità, 162. 169 comunità, ma in generale il Magistrato valutò principalmente la congruità dei benefici finanziari ricavati e la regolarità dell’iter amministrativo seguito464. Alla luce dei casi esposti, possiamo affermare che anche in occasione degli atti di cessione dei beni comunali il Magistrato delle Comunità legittimò il proprio ruolo mediante la riconduzione entro l’alveo istituzionale l’eventuale conflitto intorno all’utilizzo delle risorse naturali. Il Magistrato si rese via via più autonomo nel valutare quale fosse la soluzione più confacente al buon governo delle medesime sulla base delle circostanze peculiari di ciascun caso. Stante che il suo compito primario consisteva nella riduzione dei debiti contratti localmente, esso intervenne solertemente allorquando per farvi fronte le comunità sceglievano di vendere il loro patrimonio. Il Magistrato tentò di trarre il massimo in assenza di un apparato amministrativo proprio, facendo dei giusdicenti maggiori una specie di ispettori da attivare nei casi più gravi. L’equilibrio tra proprietà privata e collettiva, messo sotto stress anche da debiti dovuti a guerre e carestie, fu perseguito dal Magistrato in ausilio del Senato, ma come abbiamo riscontrato in diversi episodi le valutazioni dei due organi non furono sempre convergenti. Nel complesso di può considerare dimostrata l’ipotesi da cui eravamo partiti, cioè che anche in Liguria le proprietà collettive subirono erosioni meno significative nelle zone montane del Ponente, laddove i rapporti di produzione trovavano nei beni comuni un elemento indispensabile. Lì si riscontrano anche le più organizzate reazioni in caso di abusi a danno del patrimonio comunale. In definitiva non ci sembra errato sostenere che le magistrature genovesi, per il loro stesso modo di operare, costituirono un valido ed efficace presidio di tutela dei beni per quelle comunità dotate di una “tradizione” nell’amministrazione di risorse comuni. Altrove il combinato agire dell’espansione delle coltivazioni private e dell’indebitamento indussero i governanti della Capitale a vigilare soltanto sulla regolarità delle procedure e a conferire legittimità ai mutamenti avvenuti, tentando al più di conservare quel minimo di comunaglie necessarie per il sostentamento dei più poveri. Ad esempio nel 1634 il Magistrato approvò il contratto con cui la comunità di Triora aveva appaltato la gabella dell’erbaggio e del pascolo sulle bandite alpine ad un suo creditore, Giovanni Ardissone di Taggia (ASGe, Magistrato delle Comunità, 161), mentre nella prima metà del Settecento fu chiamato a convalidare i numerosi contratti di locazione dei pascolo stipulati da Arenzano (ASGe, Magistrato delle Comunità, 551). 464 170 Capitolo V Le acque interne liguri: un bene comune? 1) IL GOVERNO DELLE ACQUE TRA MUTAMENTI ECONOMICI E SCIENZA GIURIDICA 1.a) Le politiche di gestione delle acque interne: gerarchia di diritti d’uso e istituzioni Durante il medioevo si sviluppò una vera e propria “cultura dell’acqua”. Una coscienza diffusa, cioè, del valore di un bene prezioso ma limitato, indispensabile per i bisogni umani e strettamente correlata alle attività economiche più diffuse, ma anche facilmente inquinabile con conseguenze potenzialmente fatali per interi insediamenti465. Data la rilevanza storica delle acque per la società medievale, il governo delle acque è ormai un tema storiografico consolidato e ricco di studi al quale tuttavia, lo si è anticipato, la storiografia giuridica ha contribuito in minima parte. Eppure l’indagine sui beni comuni offre l’occasione per indagare l’apporto della scienza giuridica alla definizione degli strumenti con cui furono governate le acque stesse. Il trinomio dominium – usus – iurisdictio presiedeva alla disciplina delle risorse collettive tanto agro-pastorali che idriche e fu tramite il diritto che i governi (cittadini o statali) determinarono limiti e modalità di esercizio dei diritti sulle acque. Fu un processo disomogeneo, dove la rivendicazione particolaristica delle regalie sui corsi d’acqua medievale e la struttura economica locale portarono di volta in volta a normative differenti tra loro. A monte vi fu però ovunque l’individuazione di una publica utilitas che le risorse idriche dovevano soddisfare, in funzione della quale gli organi politici fissarono uno specifico regime proprietario e le regole di derivazione per i privati. L’affermazione di Astuti circa l’esistenza di due distinti regimi giuridici tra loro alternativi (libertà di derivazione gratuita o concessione onerosa) può dirsi ancora attuale nel cogliere le due soluzioni con cui il diritto locale mediò il rapporto uomo – acqua. Il primo modello fu adottato in Lombardia. Prima del XV secolo esistevano solo due grandi canali da cui traevano l’acqua le “rogge” per l’irrigazione dei campi. Il primo era il Naviglio Grande, derivato dal Ticino con direzione Milano, i cui lavori di costruzione durarono dal 1177 al 1272. Il secondo era la Muzza che irrigava la pianura lodigiana partendo dall’Adda e fu ultimato all’inizio del XIII secolo. Fino alla fine del Duecento la libertà di derivare con il consenso dei vicini fu un 465 Cfr. J. LEGUAY, L’eau dans la ville au Moyen Âge, Rennes, 2002. 171 principio generalmente seguito per consuetudine, che tuttavia si rivelò inadeguato a reggere l’urto di una domanda d’acqua in rapida crescita. I consorzi tra utenti privati, che comparvero sulla scena tra Due e Trecento per gestire privativamente le acque di alcuni fiumi secondari (Olona, Vettabbia, Nirone), limitandosi a tutelare i diritti di alcuni a scapito di altri, non potevano offrire soluzioni adeguate. Fu il comune di Milano allora che si assunse l’incarico di determinare chiaramente i confini tra acque pubbliche e private. Della questione fu investita una commissione di 14 giureconsulti, che nel 1296 – recuperando alla lettera il contenuto della de regalibus – dichiarò pubbliche solo le acque dei fiumi navigabili e dei loro affluenti, riducendo il diritto del comune milanese alla sola gestione del Naviglio e poco di più. Alla fine dell’età comunale le acque sottoposte al dominio di Milano sottostavano così a tre differenti regimi giuridici: esistevano infatti le acque pubbliche (fiumi navigabili regali su cui il comune vantava diritti fiscali); le acque civiche (Naviglio, gestito direttamente dal Comune tramite concessioni d’uso) e le acque private (sulle quali i poteri del Comune si riducevano alla sola risoluzione delle controversie, a prescindere dall’effettiva titolarità)466. Una sostanziale estensione dei diritti privati sull’acqua riguardò anche il cremonese, in risposta ad esigenze di bonifica ed irrigazione non molto diverse467. Il costante aumento della domanda di acqua almeno fino al Cinquecento indusse poi le autorità ducali a mettere in opera lavori di ulteriore ampliamento dei navigli nella prima età moderna468. Al secondo modello si ispirò invece la politica seguita dalla Repubblica di Venezia per il Dominio di terraferma. Nel 1556 con il decreto istitutivo dei Provveditori sopra i beni inculti dichiarò pubblici tutti i corsi d’acqua (maggiori e minori), riconoscendo agli utenti il solo diritto d’uso costituito tramite concessione onerosa. Con questo provvedimento, coerente con quello di attribuzione alla Signoria dei beni comunali, la Repubblica superò il precedente regime giuridico ereditato dal diritto particolare vigente nelle città via via sottomesse469. La sentenza informò sostanzialmente gli statuti successivi. Il canale della Muzza fu invece dichiarato pubblico dagli statuti di Lodi e il comune poteva cederne l’uso dietro pagamento di un piccolo canone annuale, cfr. G. BIGATTI, La provincia delle acque, Ambiente, istituzioni e tecnici in Lombardia tra Sette e Ottocento, Milano, 1995, pp. 34-51. 467 F. PETRACCO, Il divertimento delle acque. Irrigazione e bonifica tra Cinque e Seicento nella provincia cremonese: il caso del diversivo Magio, infrastruttura privata di utilità pubblica, in A. CALZONA, D. LAMBERINI (a cura di), La civiltà delle acque tra medioevo e rinascimento, Firenze, 2010, vol. I, pp. 261-271. 468 Cfr. E. ROVEDA, Uomini, terre e acque. Studi sull’agricoltura della “Bassa lombarda” tra XV e XVII secolo, Milano, 2012, pp. 260-277. 469 Con la consueta chiarezza il Ferro ricordava che: «Nello Stato Veneto le acque tutte di qua dal Mincio sono di pubblica ragione, e di là del medesimo i particolari le commerciano, come fanno delle terre. Non possono dunque i privati usar delle acque di ragione del Principe senza una special investitura; ed a queste presiede il Magistrato Eccellentissimo di Beni Inculti, instituito dal Senato per versar anche sopra questa materia», M. FERRO, voce Acque, in Dizionario di diritto comune e veneto, I, Venezia, 1845, pp. 31-35. Pur trattando prevalentemente delle opere di canalizzazione, affronta alcuni aspetti giuridici dei diritti sulle acque delle comunità padane assoggettatesi a Venezia R. 466 172 Presso altre realtà cittadine i confini tra acque pubbliche e acque private appaiono espressi in termini meno netti. Più che l’attribuzione proprietaria dei corsi d’acqua, agli statutari dei centri urbani settentrionali interessò vincolare il loro uso a fini pubblici per la soddisfazione degli interessi della collettività470. La rivendicazione comunale delle acque “regali” si saldò a dei piani di governo delle risorse idriche più o meno coerenti ed organici, in parte ricostruibili grazie agli statuti471. Questi e i provvedimenti assunti in seguito dai comuni e poi dagli Stati definirono una gerarchia di diritti d’uso sulle acque, variabile a seconda dei bisogni e delle attività economiche. Alla stregua di quanto esaminato per i pascoli e i boschi, dunque, anche per le acque si pose il problema (politico) di raggiungere un equilibrio tra usi potenzialmente confliggenti di una risorsa scarsa tramite la modulazione di diritti d’uso riconosciuti a singoli o collettività. Se considerata dal punto di vista neo-istituzionale, lo studio della gestione delle acque deve considerare le principali funzioni economiche a cui l’acqua concorreva, l’autorità investita della potestà giurisdizionale a regolamentare la risorsa e la natura e il contenuto delle fonti normative. Lo straordinario ruolo politico svolto dalle città rimase una specialità italiana. Altrove la proprietà delle acque si distribuì tra i sovrani e l’insieme di soggetti (signori laici, ecclesiastici, città) a vario titolo legati al sovrano da vincoli feudali. In Spagna ad esempio il codice delle Partidas riservò espressamente al sovrano i fiumi navigabili, mentre per i corsi minori il diritto eminente del re o dei signori coesistette con i domini utili degli utilizzatori, spesso dichiarati dalle carte di franchigia o di privilegio sui beni comuni concesse dai feudatari. Alcune città in età moderna emanarono poi delle ordenanzas contenenti una più puntuale regolazione dei vari usi. Una situazione simile si riscontra in Francia. Le numerose consuetudini vigenti stabilivano regole speciali relativamente all’utilizzo dei fiumi, ma l’ordinanza del 1669 sulle acque e le foreste razionalizzò i diritti che i corpi territoriali potevano esercitare. La condizione di liceità era in ogni caso la concessione regia472. VERGANI, Problemi d’acque e scavo di canali nell’alta pianura veneta dei secoli XIV-XVI, in La civiltà delle acque, cit., II, pp. 507-526. 470 Cfr. ad esempio P. GALETTI, La disciplina delle acque nelle normative statutarie del territorio piacentino, in F. CAZZOLA (a cura di), Acque di frontiera Principi, comunità e governo del territorio nelle terre basse tra Enza e Reno (secoli XIIIXVIII), pp. 37-51; G. DOTTI MESSORI, Norme statutarie, magistrature e istituzioni per il governo del territorio a Modena in età medievale, ibidem, pp. 103-138: R. RINALDI, La normativa bolognese e il suo contado, ibidem, pp. 139-164. 471 Come ha evidenziato P. RACINE, Du moulin antique au moulin medieval, in P. GALETTI, P. RACINE (a cura di), I mulini nell’Europa medievale, Bologna, 2003, pp. 1-15. 472 L’accentuata confusione dei regimi giuridici dei vari corsi d’acqua rende ardue sintesi più estese. Considerazioni ulteriori per la Spagna in J. MALUQUER DE MOTES, El agua en el crecimiento catalan de los siglos XVII y XVIII: derechos de propiedad y utilizaciones energéticas, in S. CAVACIOCCHI (a cura di), Le acque interne. Secc. XII-XVIII, Atti in cd-rom del convegno di Prato, 15-20 aprile 1983. Per riferimenti bibliografici più aggiornati e un’indagine più accurata sulle fonti 173 I fiumi servirono soprattutto come vie di comunicazione, come corpi alimentatori di impianti idraulici e come fonti d’irrigazione. Sull’uso largamente praticato della navigazione dei fiumi, le ricerche condotte hanno dimostrato che la rovina delle strade romane rilanciò il ruolo primario delle vie d’acqua473. Nell’ottica di signorie, città ed enti ecclesiastici, i diritti di navigazione sui fiumi fecero parte dello strumentario di governo del territorio a cui si legava il controllo e lo sfruttamento di tutte le altre risorse fluviali (porti, isole, terreni golenali coltivabili)474. Dopo l’XI secolo i Comuni iniziarono a ripristinare adeguate infrastrutture viarie, tramite la ristrutturazione delle antiche strade e la costruzione di nuovi tracciati. Fiumi e canali artificiali navigabili continuarono ad essere percorsi da battelli e traghetti, ma la loro rilevanza nell’”economia dei trasporti” del tardo medioevo si ridimensionò475. Il rinascimento medievale poggiò su un’espansione economica nettamente più accentuata rispetto al passato, trainata dalla messa a coltura di nuove superfici prima occupate da boschi e paludi. L’aumento della produzione agricola fu legato all’estensione delle superfici coltivate, più che a innovazioni tecniche, perché la resa dei raccolti si attestò intorno al 3 per 1 del seminato fino al Trecento, con picchi al 4 o 5 per 1 più frequenti solo dal XV secolo in poi476. Ciò incentivò pratiche di diversificazione, entro le possibilità offerte dal clima locale, grazie alle quali accanto al locali castigliane vedi anche P. ZAMBARANA MORAL, Historia del derecho medioambiental: la tutela de las aguas en las fuentes jurídicas castellanas de la edad moderna, in Revista de Estudios Histórico-Jurídicos, XXXIV, 2012, pp. 277-319. In Franca i diritti regi sulle acque prendevano sostanzialmente la forma dei poteri di giurisdizione e non di disposizione o godimento diretto, vedi J. RENAULDON, Traité historique et pratique des droits seigneuriaux, Paris, chez Despilly, 1765, pp. 357-370; G. LEYTE, Domaine et domanialité publique dans la France médiévale (XIIe- XVe siècles), Strasbourg, 1996, pp. 165-185; X. GODIN, Considérations sur la police des eaux fluviales dans la première Modernité, in A. MERGEY, F. MYNARD (a cura di), La police de l’eau. Réglementer les usages des eaux: un défi permanent, Paris, 2017, pp. 69-103. 473 Vedi per i primi indirizzi di ricerca J. SYDOW, Le vie d’acqua, in S. CAVACIOCCHI (a cura di), Le acque interne, cit., e gli altri contributi di quella sezione; P. RACINE, Poteri medievali e percorsi fluviali nell’Italia padana, in Quaderni storici, 61 (1986), pp. 9-32. Un lavoro di sintesi abbastanza ampio che analizza il tema dal VII al XIV secolo su scala nazionale è quello di S. PATITUCCI UGGERI, La viabilità di terra e d’acqua nell’Italia medievale, in S. PATITUCCI RUGGERI (a cura di), La viabilità medievale in Italia. Contributo alla carta archeologica medievale, Sesto Fiorentino, 2002, pp. 1-72, oltre agli altri saggi del medesimo volume, geograficamente più circoscritti. Per la Lombardia vedi N. COVINI, Strutture portuali e attraversamenti del Po: alcuni aspetti delle relazioni tra comunità, signori e Stato ducale lombardo (secolo XV), in La civiltà delle acque, cit., I, pp. 243-259. 474 Per un caso sulla Sesia cfr. R. RAO, Abitare, costruire e gestire uno spazio fluviale: signori, villaggi e beni comuni lungo la Sesia tra Medioevo ed età moderna, in R. RAO (a cura di), I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia. Territori, insediamenti, rappresentazioni, Firenze, 2016, pp. 13-29. 475 Per alcuni studi sulle vie d’acqua in Toscana vedi ad esempio L. ROMBAI, Le acque interne in Toscana tra medioevo ed età moderna. Il caso delle Maremme, in A. MALVOLTI, G. PINTO (a cura di), Incolti, fiumi, paludi. Utilizzazione delle risorse naturali nella Toscana medievale e moderna, Firenze, 2003, pp. 17-42; F. SALVESTRINI, Navigazione e trasporti sulle acque interne della Toscana medievale e protomoderna (secoli XIII-XVI), in La civiltà delle acque, cit., vol. I, pp. 197-220. Per un confronto tra le politiche di navigazione fluviale di diverse città in età comunale vedi R. GRECI, Le città navigabili. I progetti dell’età comunale, in La civiltà delle acque, cit., vol. I, pp. 177-196 476 Le rese agricole restarono pressoché immutate fino alla rivoluzione agraria di fine Settecento, cfr. G. DUBY, L’economia rurale nell’Europa medievale, Bari, 1966 (ed. orig. Paris 1962); M. MONTANARI, Tecniche e rapporti di produzione: le rese cerealicole dal IX al XV secolo, in B. ANDREOLLI, V. FUMAGALLI, M. MONTANARI (a cura di), Le campagne italiane prima e dopo il Mille. Una società in trasformazione, Bologna, 1985, pp. 44-68. 174 tradizionale frumento si intrapresero coltivazioni di segale, orzo, avena, sorgo, oppure altri legumi idonei alla macinatura, come le fave. Sia la crescita dei terreni coltivati che l’edificazione di nuovi mulini furono iniziative avviate e guidate al successo grazie all’azione di vescovi, abbazie, signori feudali o comuni (urbani o rurali), soggetti capaci di mobilitare maggiori risorse umane ed economiche rispetto al singolo o ad una famiglia477. Lo sfruttamento più intensivo e razionale delle campagne richiedeva anche l’irreggimentazione dei fumi. Sono però noti i danni portati dalle piene che periodicamente rompevano gli argini, riportando l’acquitrino nelle terre coltivate. Nonostante gli sforzi profusi dalle popolazioni delle comunità fluviali, l’equilibrio idrogeologico era afflitto da una costante precarietà478. Alcuni studi di storia rurale dedicati al tema delle bonifiche hanno accertato tuttavia un dato: anche nelle vaste zone pianeggianti lombarde e venete l’introduzione di colture che necessitavano di grandi quantità d’acqua fu guardata talora con scetticismo, talaltra con vera e propria ostilità, tanto dalle autorità quanto dagli stessi proprietari terrieri. Il persistente attaccamento alle coltivazioni granarie, certamente giustificato dalla costante paura di non riuscire a sfamare la popolazione in tempi di carestia, unito alla difesa dei prati su cui si praticava l’allevamento rallentò l’avvio di coltivazioni specializzate come leguminacee invernali, miglio, lino e soprattutto il riso, da più parti accusato di deteriorare le condizioni di vita degli abitanti prossimi alle risaie. Si può dire quindi che le paludi non ovunque fecero spazio a coltivazioni intensive, ma incrementarono gli ettari dei tradizionali campi cerealicoli479. Dal punto di vista tecnico-giuridico, l’acquedotto coattivo rappresentò indubbiamente l’istituto più originale del diritto intermedio, perché il proprietario di un fondo era obbligato a vendere o a concedere una striscia del proprio terreno per la realizzazione di un canale a favore di Cfr. A. CORTONESI, Ruralia, cit., pp. 21-61; G. CHERUBINI, L’Italia rurale del basso Medioevo, Roma-Bari, 1985, pp. 1114; M. LUZZATI, La dinamica secolare di un «modello italiano», in R. ROMANO (a cura di), Storia dell’economia italiana, vol. I, Torino, 1990, pp. 5-116. 478 Il problema riguardava in generale tutta l’Italia. Per uno studio particolare relativo all’area padana vedi V. FUMAGALLI, Il paesaggio si trasforma: colonizzazione e bonifica durante il medioevo. L’esempio emiliano, in Le campagne italiane, cit., pp. 95-132. 479 Già Fernand Braudel aveva osservato che il confronto tra agricoltura e allevamento, a parità di superfici impiegate, vedeva vincente la prima in termini di resa produttiva. Inoltre va tenuto presente che i prodotti delle due attività si rivolgevano a classi non del tutto sovrapponibili: il pane rivolto (prevalentemente) ai ceti medio bassi, il formaggio e soprattutto la carne a quelli medio-alti, pur in un contesto di tendenziale diminuzione del consumo di carne tra XVI e XVIII secolo, cfr. F. BRAUDEL, Civilization and capitalism 15th – 18th Century. Vol. I The structures of everyday life. The limits of the Possible, Londra, 1981 [ed. orig.: Parigi, 1979], pp. 104-144 e 190-199. Per le proposte di riforma agricola nella bassa pianura lombardo-veneta vedi S. CIRIACONO, Acque e agricoltura. Venezia, l’Olanda e la bonifica europea in et moderna, Milano, 1996, pp. 39-49. 477 175 un fondo vicino, dietro percezione di una somma di denaro. Nonostante la sua indubbia importanza ai fini produttivi, non di rado i testi statutari presentavano una disciplina lacunosa480. Anche laddove permasero terre incolte, fertili o ghiaiose, lasciate prive di protezione dalle piene dei fiumi stava una platea di beni comuni che comprendeva, oltre ai soliti pascoli, anche gli spazi acquei in cui si praticava la pesca e la caccia all’uccellagione, i canneti, i mulini alimentati dai fiumi che non di rado divennero di monopolio comunale per assicurare alla comunità adeguati rifornimenti di farina. Anche intorno al territorio paludoso sorsero conflitti, per riprendere le parole di Cazzola: «per decidere se quest’acqua poteva essere mantenuta ed impiegata utilmente per la pesca, la caccia e le attività di raccolta e pascolo a vantaggio della comunità rurale, ovvero se la potenziale terra coltivabile che giaceva sommersa dall’acqua poteva essere riscattata utilmente per le colture agrarie, per farne campi e poderi, a privato ed esclusivo vantaggio di colui che nella bonifica investiva risorse finanziarie e lavoro»481. La coltivazione di cereali estivi come orzo e avena, intensificatasi nel periodo carolingio, aumentò la domanda dei servizi di macinatura. È difficile avere un quadro chiaro della quantità di mulini attivi nei i secoli precedenti il Mille stante la frammentarietà delle fonti, ma si può ragionevolmente sostenere che una larga maggioranza dei contadini abitanti nelle terre del regno franco potesse macinare i propri grani in mulini situati all’interno della tenuta o poco distanti. Per quanto concerne i mulini, in un suo imprescindibile lavoro Marc Bloch ha collocato nell’VIII secolo il sorpasso del mulino idraulico rispetto agli impianti a trazione animale o umana (tramite schiavi, ormai ridottisi numericamente)482. Anche in questo caso solo i signori laici o ecclesiastici riuscirono Laura Moscati ha però dimostrato come la dottrina del maturo diritto comune e, specie per il Piemonte sabaudo, la giurisprudenza senatoria abbiano elaborato col tempo principi e regole di dettaglio, successivamente fatte proprie dalle riforme legislative del Settecento. La natura dell’acquedotto coattivo rimase incerta, almeno in Piemonte, fino alle Costituzioni regie del 1723, quando fu dichiaratamente qualificata come servitù legale. Moscati ha dimostrato come dottrina e giurisprudenza integrarono in senso evolutivo le disposizioni di un editto di Carlo Emanuele I del 1584. I compilatori settecenteschi attinsero molto anche alle Constitutiones dominii Mediolanensis, cfr. L. MOSCATI, In materia di acque, cit., pp. 15-68. 481 Le indagini condotte sulle zone umide della Toscana (lago di Bientina, Padule di Fucecchio, la bassa Maremma) hanno dimostrato che una multiforme varietà di proprietà comunali e usi civici organizzò lo sfruttamento delle risorse idriche e del suolo in vista dell’autosufficienza alimentare della popolazione. Vedi almeno: F. CAZZOLA, Risorse contese: le zone umide italiane nell’età moderna, in A. PROSPERI (a cura di), Il padule di Fucecchio. La lunga storia di un ambiente «naturale», Roma, 1995, pp. 13-34; G. PINTO, Incolti fiumi, paludi. Alcune considerazioni sulle risorse naturali nella Toscana medievale e moderna, in Incolti, fiumi, paludi, cit., pp. 1-16 e A. MALVOLTI, I proventi dell’incolto. Note sull’amministrazione delle risorse naturali del comune di Fucecchio nel tardo Medioevo, ivi, pp. 247-272; B.A RAVIOLA, «Terra nullius». Ghiare, siti alluvionali e incolti nella piana del Po di età moderna, in G. ALFANI, R. RAO (a cura di), La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 157-173. 482 Il mulino idraulico determinò anche il progressivo abbandono della coltivazione del farro, la spulatura e macinazione del quale mal si adattavano ai nuovi impianti, cfr. A. VERHULST, L’economia carolingia, Roma, 2004, [ed. orig. Cambridge, 2002], pp. 88-101. Il noto lavoro di Bloch è M. BLOCH, Avènement et conquête du moulin à eaux, in 480 176 a destinare risorse sufficienti alla loro costruzione, per far fronte all’aumento della domanda dei servizi di macinatura. La bannalità del mulino garantì la redditività dell’investimento, vincolando i residenti al monopolio, fino a quando i comuni cittadini e rurali non si sostituirono ai signori nell’esercizio della iurisdictio483. Toccò a loro a quel punto dirigere le politiche di approvvigionamento annonario e idrico, interagendo con gli altri soggetti operanti sul territorio. Gli schemi seguiti furono diversi, dal coordinamento con i titolari dei mulini delle forme di sfruttamento delle acque, all’acquisizione diretta di diritti signorili su fiumi e mulini, ma comune fu il fine: legare sempre più strettamente le risorse del contado alla domanda di beni e servizi della città484. Lo spettro delle strutture che abbisognavano di un accesso diretto a fiumi o canali comprendeva anche tintorie, gualchiere, fabbriche di tessuti, officine metallurgiche, cartiere485. Lo sviluppo dell’industria laniera, che nel nord Europa prosperò già intorno all’VIII-IX secolo, indusse molte città a destinare speciali zone per questo tipo di produzione, gestendo il rifornimento idrico sia sul piano infrastrutturale che su quello della disciplina dei diritti d’uso486. Allo stesso modo si comportarono con manifatture artigianali inquinanti come la conciatura delle pelli e la macerazione e lavorazione della canapa. La gestione delle acque ebbe quindi un peso politico di primo piano. Come risorsa fondamentale per la vita, se ne doveva assicurare un rifornimento costante e di buona qualità. Gli organi di governo si fecero poi carico di organizzarne la distribuzione più giusta ed equa possibile, Annales d’Histore économique et sociale, VII (1935), pp. 538-563, disponibile anche in italiano in M. BLOCH, Lavoro e tecnica nel medioevo, Bari, 1959, pp. 48-87. 483 La banalità dei mulini, criticata nel corso del Settecento perché lesiva della naturale libertà degli uomini, rimase in vigore in Francia fino alla rivoluzione francese, mentre in Italia la situazione è meno omogenea. Per il milanese ad esempio si è ipotizzato che i mulini, salvo rare eccezioni, avessero perso ogni qualità bannale già nel corso del XII secolo, cfr. C. G. MOR, Bannalità, voce in Novissimo Digesto Italiano, II, Torino, 1958, p. 272; M. GARAUD, La Révolution et la propriété foncière, Paris, 1958, pp. 65-69; L. CHIAPPA MAURI, Acque e mulini nella Lombardia medievale. Alcune riflessioni, in I mulini nell’Europa medievale, cit., pp. 233-268; G. CHERUBINI, La «bannalità» del mulino di una signoria casentinese (1350), in Id., Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del basso medioevo, Firenze, 1974, pp. 219-228. 484 Molti gli studi condotti con riferimento a città e ai loro contadi. A mero titolo esemplificativo vedi per il milanese L. Chiappa Mauri, I mulini ad acqua nel milanese (secoli X-XV), Roma, 1984. Per il senese D. BALESTRACCI, La politica di gestione delle acque e dei mulini nel territorio senese nel basso medioevo, in I mulini dell’Europa medievale, cit., pp. 287-302. Sul Piemonte vedi tra i tanti saggi, e per ulteriori rinvii bibliografici R. COMBA, Il principe, la città, i mulini. Finanze pubbliche e macchine idrauliche a Torino nei secoli XIV e XV, in G. BRACCO (a cura di), Acque, ruote e mulini a Torino, Torino, 1988, I, pp. 79-103; V. MARCHIS, Acque, mulini e lavoro a Torino, in Acque, ruote e mulini, cit., II, pp. 969. 485 Notoriamente la prima gualchiera da carta attestata dalle fonti in Italia è quella di Fabriano, attiva già nel 1268. In campo siderurgico l’acqua azionava i magli o dei mantici che alimentavano il forno di fusione dei minerali. Per considerazioni di sintesi vedi P. MALANIMA, L’energia disponibile, in Storia dell’economia italiana, cit., pp. 117-136. 486 Considerazioni di sintesi sul tema dell’industria della lana in E. CARUS-WILSON, L’industria laniera, in M. POSTAN, P. MATHIAS, Storia economica Cambridge. Commercio e industria nel medioevo, Torino, 1982, pp. 402-481. 177 cercando un non facile equilibrio tra usi diversi (irriguo, idraulico-industriale, potabile domestico o pubblico) per realizzare il “bene comune”487. Le comunità rurali, cittadine, poterono a tal fine adoperare un ampio numero di strumenti normativi, dagli statuti agli accordi contrattuali. L’allargamento territoriale della giurisdizione statale pose poi lo Stato di fronte alla scelta di assumere o meno una responsabilità politica in ordine all’amministrazione dei corsi d’acqua delle comunità dominate. Le soluzioni istituzionali messe in campo per governare i cambiamenti e risolvere i conflitti tra titolari di diritti d’uso furono influenzate anzitutto dalle regole generali in tema di derivazione (libera o subordinata a concessione). Nella seconda ipotesi, la licenza poteva essere rilasciata dalle singole comunità o da ufficiali o magistrati del Principe, come avveniva a Venezia con ben due magistrature (Savi alle Acque e Provveditori sopra beni inculti) 488. Per la Toscana Elena Fasano Guarini ha riscontrato come l’autorità granducale, guidata da una visione complessiva – sebbene discontinua – dei problemi attinenti ai corsi d’acqua del Dominio, favorì consapevolmente una trasformazione dei rapporti produttivi. Inoltre le funzioni amministrative e giudiziarie esercitate dall’Ufficio ridussero notevolmente gli spazi di autonomia delle comunità locali lungo il XVII secolo, disciplinando ad esempio le attività di pesca e di taglio degli alberi costeggianti gli argini o servendosi della forza-lavoro locale per dare corpo ai progetti di bonifica489. Nella misura in cui gli Stati adottarono una politica interventista in materia idrica, la potestà di ridefinire la gerarchia dei diritti d’uso su fiumi e rivi fu sottratta alle comunità locali e attribuita ai governi. Su un piano parallelo si situa la creazione di ufficiali delegati a vigilare sull’uso Cfr. A. LEVASSEUR, La police de l’eau dans la ville médiévale (XIIIe-XVe siècles). Fondements, mise en ouvre et protection d’un «devoir de l’eau», in La police de l’eau, cit., pp. 47-67. 488 I primi sei Savi furono istituiti nel 1415 per la soprintendenza della laguna, dei porti e dei lidi. La composizione mutò più volte lungo il XVI secolo e nel 1542 si creò anche la figura tecnica del Soprintendente generale ai fiumi dello stato. I Savi avevano facoltà di procedere penalmente contro i danneggiatori degli argini e dei corsi d’acqua a tutela della laguna. I Provveditori ai beni inculti, come detto, comparvero nel 1556 dopo che una visita generale ai luoghi dello Stato compiuta nel 1545 aveva rivelato che «per negligenza degli abitanti, moltissimi fondi di terra ferma e dell’Istria erano divenuti affatto incolti, per esser resi o troppo secchi, o coperti di acque, e ridotti ad una sterilità non naturale». Allo scopo di incrementare la coltivazione cerealicola, i Provveditori potevano concedere le licenze per la realizzazione di canali e colatoi, nonché le concessioni di derivazione per campi, mulini e altri edifici idraulici a favore di singoli privati o di consorzi di proprietari. I costanti problemi dati dal fiume Adige indussero infine la Repubblica a costituire un collegio di tre provveditori ad flumen. Eletti nella seconda metà del Cinquecento, diventarono definitivi solo nel 1667, cfr. M. FERRO, voci Acque (Magistrato delle), Adige (Magistrato dell’), Beni Inculti, in Dizionario di diritto, cit., I, pp. 35-36, 44-45, 264-265; S. CIRIACONO, Acque e agricoltura, cit., pp. 49-61 con ulteriore bibliografia. 489 Cfr. E. FASANO GUARINI, L’intervento pubblico nella bassa valle dell’Arno nei secoli XVI e XVII, in Le acque interne, cit. Sulla campagna pisana vedi anche A. M. PULT QUAGLIA, L’uso delle acque interne nel territorio pisano in età moderna, in Incolti, fiumi, paludi, cit., pp. 215-235. Un interessante studio sulla gestione delle risorse idriche nel regno di Murcia, tra politica regia e istituzioni locali degli irrigatori cristiani e musulmani in M. MARTINEZ MARTINEZ, La cultura del agua en la Murcia medieval (ss- IX-XV), Murcia, 2010. 487 178 delle acque, dare attuazione ai lavori di arginatura e bonifica e punire i trasgressori. È in questo frangente allora che la iurisdictio torna a farsi spazio come attività di governo del territorio e disciplinamento della popolazione in vista del perseguimento di una publica utilitas che per le acque, così come per le comunaglie, assunse contenuti concreti diversi a seconda del luogo e del tempo considerati. 1.b) Il contributo della scienza giuridica al “giure delle acque” Le novità emergenti dal diritto locale e il rinnovato interesse pubblico per una efficiente amministrazione dalle acque interne coinvolsero anche i giuristi, chiamati a ricercare all’interno del Corpus iuris principi e norme con cui indirizzare o integrare il dettato delle fonti locali. Le forme letterarie ovviamente variarono. Il noto Tyberiadis o De fluminibus di Bartolo, prevalentemente dedicato ai temi delle acquisizioni di proprietà conseguenti alle alluvioni e alle isole formatesi nel letto dei fiumi, fu accompagnato dai commenti svolti da diversi autori ai frammenti del Digesto, specie alla lex Quominus490. La crescente complessità del settore idrico e lo sviluppo in alcuni Stati di leggi e giurisdizioni specializzate concorsero nel rendere lo ius aquarum una materia dotata di una sufficiente autonomia, tale da essere organicamente inquadrata in apposite opere. Per l’area italiana furono Antonio Gobbi e Francesco Maria Pecchi a redigere nel XVII secolo i principali trattati monografici sul regime idraulico e la risoluzione di numerose questioni tramite l’applicazione del diritto romano e locale. Ovviamente le opinioni espresse nelle pagine di commentari e trattati furono poi citate da una quantità di giuristi più o meno rinomati all’interno di numerosi consilia e vota. In numerosi ordinamenti fu proprio la giurisprudenza a promuovere lo sviluppo di un diritto delle acque, opera cui i giuristi concorsero nell’ambito della loro attività consulente o giudicante491. I moltissimi aspetti della complessa materia non possono evidentemente esaurirsi in poche pagine. Si vuole piuttosto dare conto di alcune questioni per dimostrare l’ampiezza degli spazi lasciati alla scienza giuridica da una disciplina “legislativa” che disponeva solo per alcune, parziali Sull’opera e sul ruolo dei giuristi nella costruzione dello ius aquarum cfr. O. CAVALLAR, Quod de Tibere dicetur: fiumi, incrementi fluviali, mulini ad acqua e giuristi, in La civiltà delle acque, cit., I, pp. 91-120. Per l’analisi dell’evoluzione dei water rights in Inghilterra tra diritto romano e consuetudini britanniche dal medioevo al XIX secolo J. GETZLER, History of water rights at Common law, London, 2004. 491 Tra i non molti lavori dedicati all’attività consulente sull’oggetto del presente capitoli vedi P. MAFFEI, Un “consilium” della fine del Duecento in tema di acque (con notizie su Iacopo D’Arena, Riccardo Petroni ed altri consulenti), in M. ASCHERI (a cura di), Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, Padova, 1991, pp. 135-152. 490 179 fattispecie e in misura strettamente correlata all’intervento pubblico di messa in sicurezza dei fiumi più tumultuosi, in vista di un più razionale sfruttamento dell’acqua. Sotto gli altri profili, le principali norme di utilizzo delle acque venivano ricavate dalla tradizione giuridica giustinianea, filtrata attraverso l’interpretatio sapienziale e giurisprudenziale. Inoltre con frequenti rinvii alle consuetudines loci, ad accordi tra utenti, comunità o Principi i giuristi legittimarono la fissazione concordata delle regole d’uso di una risorsa, la cui importanza dal punto di vista della politica economica e territoriale era indubbia492. La scienza giuridica fece proprie le preoccupazioni dei governi di assicurare un volume di raccolti adeguati ai bisogni della popolazione e le riqualificò col proprio linguaggio. Per Gobbi la pubblica utilità della derivazione delle acque «praediorumque fertilitate praesertim consistit». Non diversamente Pecchi mosse dalla necessità vitale dell’acqua per giustificare il pubblico interesse ad una fiorente produzione agricola dei campi coltivati privati. L’acqua era dunque una risorsa che per quanto sottoposta ad appropriazione privata, produceva vantaggi indispensabili per l’intera collettività493. La crescita politica dei poteri pubblici aveva attirato tra le funzioni pubbliche non soltanto la concreta determinazione della publica utilitas ma pure la conformazione del diritto di derivazione come liberamente esercitabile o sottoposto a concessione. L’interesse dei sovrani si arrestava in genere ad un equilibrato sfruttamento dei fiumi, tramite un’attenta valutazione degli effetti delle derivazioni. Posto l’indiscutibile principio di illiceità delle derivazioni dai fiumi navigabili senza permesso, per quei fiumi non navigabili o affluenti di altri navigabili «cognitio an aquae deductio nocitura sit, necne, spectat ad ipsum Principem, cum agatur de iuribus ad ipsum reservatis». Pecchi notava inoltre che la giurisdizione dei Principi in materia di acque si era estesa Dovendo operare una scelta, si utilizzeranno le opere dei due principali specialisti del diritto delle acque del Seicento, Antonio Gobbi e Francesco Maria Pecchi, senza ignorare però le lecturae svolte sulla lex Quominus da Bartolo da Sassoferrato, Giason del Maino e Giovan Francesco Sannazzari della Ripa in qualità di più autorevoli commentatori di D. 43.12.2. Le edizioni consultate sono le seguenti: BARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam ff. Novi Partem, Venetiis, 1585, tit. De fluminibus, cc. 135-137; G. DEL MAINO, In primam Digesti novi partem commentaria, Lugduni, 1582, § repetitio l. quominus de fluminibus, cc. 161 v.-170 (riportante la lettura universitaria tenuta nell’ottobre 1491); G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo, cit., tit. De fluminibus, cc. 71 v.-79 v.; A. GOBBI, Tractatus varii, cit.; F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, I e II, cit.; ID, Tractatus de aquaeductu, III e IV, Ticini Regii, Ex officina Caroli Francisci Magrii, 1681. 493 Il passo di A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. II, n. 1. Pecchi si soffermò sul rapporto tra incremento della redditività dei fondi privati e il bene pubblico di cui godevano tutti i consociati dal poter disporre di rifornimenti alimentari abbondanti e diversificati. In definitiva «aquam ducere ad privatorum bona irriganda, respiciet bonum publicum, cum tendat ad Annonae manutentionem, pro cuius conservatione in quocumque Regno, Provincia, ac Statu, tam diligenter custoditur», F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, t. I, cap. VII, q. III, nn. 12-21. 492 180 al punto tale che anche nei grandi fiumi padani, quali il Po o il Ticino, nessuno poteva navigare o pescare senza autorizzazione, sebbene ciò fosse lecito per diritto comune494. Il potere di imporre divieti di derivazione conosceva qualche limite? Le risposte fornite dai giuristi svilupparono il richiamo allo ius gentium accennato da Bartolo a proposito della libertà di derivazione d’acqua dai fiumi non navigabili. Del Maino individuò nella sussistenza di una causa di pubblica utilità il presupposto che poteva giustificare il divieto di servirsi delle cose che per diritto naturale spettavano a tutti gli uomini, essendo soggette solo a Dio. Ma era sufficiente la sola manifestazione di volontà del potere pubblico per ritenere sussistente la pubblica utilità alla base del provvedimento, come aveva ritenuto Baldo? Del Maino opinava diversamente: «Ista responsio non est bona ad istum tex. qua illud quod dicitur in Principe in dubio presumitur iusta causa, et voluntas principis habetur pro iusta causa, procedit in his quae sunt positivi iuris, et in quibus princeps potest tollere vel non tollere. Secus autem in his quae sunt iuris gentium, quibus non potest princeps ex sola voluntate derogare, in istis praesumpta causa non sufficit ad tollendum ea qua sunt iurisgentium»495. Sannazari si mosse sulla scia di Del Maino, pur tra qualche critica, rilevando che né l’imperatore né il senato potevano senza un valido motivo «statuere contra ius civile fundatum in ratione naturali». Nemmeno un’autorità legibus soluta poteva, in linea teorica, derogare alle leggi fondamentali sull’utilizzo delle cose comuni e in uso pubblico496. Più tardi Pecchi notò molto chiaramente che la prassi aveva reso molto labili i limiti ai poteri di disposizione e di proibizione in capo alle autorità. Sicché, salva la prova di aver usucapito il diritto a pescare o a estrarre acqua durante il periodo di occupazione della risorsa, le decisioni pubbliche adottate tramite appositi provvedimenti normativi erano difficilmente censurabili in tal senso497. Cfr. F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, cit., I, cap. II, q. II, nn. 18-19. G. DEL MAINO, In primam Digesti novi, cit., nn. 6-7, ma più diffusamente nn. 3-7. 496 G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo, cit., nn. 8-12. Il rispetto delle necessità pubbliche poteva invalidare anche i privilegi di derivazione concessi successivamente al costituirsi di un diritto di utilizzo dell’acqua da parte di una comunità, via prescrizione o altro privilegio. Sannazari esprimeva chiaramente il principio per cui «Privilegia publice utilitati damnosa non sunt recipienda», pur con un’oscillazione forse non solo lessicale tra usi della respublica e usi accolentium: si presenta insomma anche qui il problema della sussistenza o meno di un’autonoma soggettività giuridica della comunità rispetto ai singoli abitanti. 497 Cfr. F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, cit., I, cap. II, q. II, nn. 27-28. Gobbi dal canto suo osservò che i sovrani, in assenza di una legittima causa di giustificazione, non potevano «prohibere usum fluminum, sed tantum illum restringere, et moderari», ma riconobbe allo stesso tempo che alcuni statuti cittadini avevano proibito interamente le derivazioni, A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. II, nn. 13-16. 494 495 181 Alla stregua delle attività silvo-pastorali, anche l’utilizzo dell’acqua di un fiume da parte di una comunità era sovente fondato sulla consuetudine. Quando la domanda di acqua aumentò a seguito delle trasformazioni in campo agricolo e produttivo, giuristi e governanti dovettero fare i conti con le istanze di conservazione degli antichi assetti, corroborati dalla vetustas, contrapposte alle pressioni per la ridefinizione dei diritti d’uso. Il tempo immemorabile metteva infatti al riparo il singolo utente da innovazioni per lui dannose, poiché la consuetudine antica aveva forza di legge498. Un semplice accordo tra privati e, a certe condizioni, perfino la decisione di un signore o di una comunità non avevano efficacia derogatoria come affermava un’autorevole mole di consilia richiamati dal Gobbi. In generale si può però dire che in tema di acquedotto e derivazioni era regola universalmente riconosciuta che il corso dei canali non potesse essere deviato né impedito in pregiudizio dei vicini e di coloro che captavano da tempo l’acqua in una posizione più bassa499. Il rispetto della consuetudine quale limite al potere dei proprietari dei fondi attigui di disporre dell’acqua non era assoluto. Tra chi argomentò in senso contrario spicca il cardinal De Luca, in occasione di un parere su una causa per il decorso di acque in pregiudizio dei proprietari dei fondi inferiori. Qualificando il caso entro lo schema della servitù, l’autore negava l’illiceità della diversione in mancanza di prova da parte degli asseriti danneggiati dell’esistenza della servitù medesima a loro vantaggio500. In un’altra causa vertente sulla divisione stagionale dell’uso delle acque, De Luca sostenne che la consuetudine locale – secondo la quale l’acqua del fiume doveva servire per azionare i mulini d’inverno e irrigare gli orti privati in estate – doveva essere rispettata senza tener conto di una concessione di derivazione disposta dal barone locale e pregiudizievole per i proprietari dei praedia che da sempre si erano serviti dell’acqua per irrigare501. Il rispetto della sola vetustas come elemento costitutivo di diritti o presupposto per la tutela giudiziale di situazioni possessorie non era sufficiente a governare un ambito della vita socio-economica in tumultuoso cambiamento e che vedeva anche evolversi i rapporti tra proprietari fondiari. Peraltro vi era anche in questo frangente il rischio concreto che i soggetti A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XII, nn. 23-26. A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XII, nn. 1-5. 500 Cfr. G. B. DE LUCA, Theatrum veritatis, cit., IV, De servitutibus, disc. XXVI. Va specificato però che il caso riguardava un fossato già dichiarato privato in precedenti sentenze, la cui acqua, lasciata libera di scorrere per molto tempo attraverso i vigneti dei convenuti, era stata ad un certo punto deviata da questi per loro uso, scatenando l’azione giudiziaria dei vicini. 501 Nel caso di specie «huic consuetudini magna aequalitatis ratio assistebat» e la pretesa del barone di mutarla non era sostenuta da poteri giurisdizionali sufficientemente ampi da recare lecitamente pregiudizio ai diritti preesistenti degli utenti, cfr. G. B. DE LUCA, Theatrum veritatis, cit., IV, De servitutibus, disc. XXVIII. 498 499 182 interessati a manipolare a proprio tornaconto i diritti d’uso sui fiumi cercassero di sostenere durante i processi la non cogenza delle norme consuetudinarie, qualificando l’uso stesso come una mera facoltà e non un diritto fondato su un titolo502. Del Maino rilevò acutamente il contrasto che poteva verificarsi in concreto tra le esigenze sorgenti dal mondo rurale, rievocando un fatto specifico già esaminato da Baldo in cui alcuni coltivatori avevano trattenuto nei propri fondi l’acqua del canale che, più a valle, attivava le macine di un mulino che da lunghissimo tempo se ne serviva. La soluzione proposta ribadiva il rispetto dell’uso più risalente, lasciando però trasparire una preferenza verso la possibilità di risolvere la causa mediante una composizione che definisse la ripartizione dell’acqua e le modalità di impiego con reciproci benefici503. L’efficacia vincolante degli accordi tra gli irrigatori non poteva essere messa in discussione neppure dal Principe. Secondo Pecchi alcuni utenti non potevano mutare i giorni o le ore di irrigazione rispetto a quanto pattuito contrattualmente con gli altri coutenti. Le modifiche unilaterali degli accordi elaborati a maggioranza «magna cum deliberatione, ponderatione, maturitate, et summo studio, et labore» erano vietate. Ogni tipo di modifica contrattuale poteva essere adottata a condizione che non recasse pregiudizi a terzi, consenzienti gli altri titolari di diritti d’uso, e neppure il Principe poteva intromettersi ledendo i diritti acquisiti. Parimenti inammissibile era l’introduzione di nuove consuetudini in violazione delle clausole dell’accordo, poiché difettanti del necessario consenso tra gli interessati e prive di un’apprezzabile ratio. Pertanto, concludeva Pecchi: «in hac materia standum esse conventionibus ad lites sedandas»504. Tra i vari impieghi dell’acqua, s’è detto, figurava quello di forza motrice dei mulini idraulici. Intorno all’attività di questi edifici ruotavano numerose problematiche affrontate dai giuristi in un numero di controversie così alto che Bartolo poté parlare nel suo commento alla de fluminibus di quotidianas quaestiones circa molendina. Dottrina e giurisprudenza enuclearono così una serie di principi guida utili a risolvere le controversie più frequenti, in particolare quelle riconducibili al Sempre nei pareri XXVI e XXVIII De Luca evoca il fatto che le controparti della causa avessero eccepito le lacune probatorie a sostegno della vigenza della consuetudine. In particolare nel discursus XXVIII si legge: «Ideoque illius observantia demandanda erat, quamvis per alteram partem huiusmodi consuetudinem non bene probatam esse diceretur, quasi quod usus, vel non usus aquae per habentes praedia in latere sinistro fuisset mera facultas, contra quam non praecedente prohibitione cum subsequuta acquiescentia non datur praescriptio», G.B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, cit., IV, De servititutibus, disc. XXVI, n. 4. 503 Cfr. G. DEL MAINO, In prima Digesti novi, cit., nn. 94-96. 504 Cfr. F.M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, cit., II, cap. IX, q. 22. 502 183 divieto di atti emulativi505. Ma ancor più a monte si colloca l’inserimento del mulino nella classificazione dei beni e le conseguenze sul piano giuridico discendenti dalla sua funzione. Oltre ai mulini privati o feudali, esistevano i mulini pubblici, per i quali si riproponeva la scissione tra proprietà (della comunità o dello Stato) e l’uso (pubblico e comune a tutti)506. La necessità di disporre di sicuri rifornimenti annonari per la popolazione attribuiva ai mulini una funzione pubblica di primaria importanza. La publica utilitas, qui ravvisabile non solo nel proficuo uso dell’acqua ma anche nell’effettiva operatività degli impianti, giustificò per i giuristi la creazione di un apparato di regole particolarmente favorevoli per i mulini e i loro conduttori. Gobbi, chiamando a proprio sostegno un consilium di Baldo, affermava che nelle molte liti sorgenti dai conflitti tra conduttori dei mulini e terzi per l’uso dell’acqua, si dovesse giudicare nei casi dubbi in favore dei mulini, proprio in virtù della funzione pubblica svolta507. Regime di favore corroborato dal rapporto giuridico che si instaurava tra il bene-mulino e gli abitanti del luogo. Hering a proposito scrisse: «Caeterum huic respondeo, cives alicuius communitatis molendininis Reipublicae non servitutis, aut locationis conductionis iure, sed iure dominii sive proprietatis uti; utpote quorum usus omnibus et singulis suo modo, et citra aliorum iniuriam, est communis; in tantum, ut pauperi hic aeque illius utifrui liceat, ac diviti. […] Si statutum fiat, vel exstet pauperes non debere uti pascuis publicis, quod illud statutum sit iniquum, atque ita praedicta obiectio locum nullum invenit.»508 Sulla materia degli atti emulativi in campo molitorio si rimanda soprattutto a N. SARTI, Inter vicinos praesumitur aemulatio. Le dinamiche dei rapporti di vicinato nell'esperienza del diritto comune, Milano, 2003, in particolare pp. 121-138. Sarti ha ben rilevato come le conclusioni di Pillio da Medicina e di Azzone furono sostanzialmente anticipatrici delle interpretazioni dei commentatori basso-medievali in materia di uso delle acque. È soprattutto esemplare la nona quaestio aurea relativa alla illiceità della costruzione di un secondo mulino su un fiume pubblico, a danno di un altro attivo da più di 30 anni, poiché sono già presenti tutti gli elementi tipici di questo tipo di controversie: i limiti allo ius aedificandi, la verifica della sussistenza concreta del danno in relazione all’utilità ricavata dall’utilizzo di un bene pubblico/comune e la rilevanza del tempo trascorso per misurare l’efficacia dei diritti di derivazione. 506 Johann Hering nel suo trattato sul diritto dei mulini incorporò i mulini tra i bona universitatis publicis usibus exposita, J. HERING, Tractatus singularis de molendinis eorumque iure, Francofurti, Typis Wechelianis apud Danielem et Davidem Aubrios et Clementem Schleichium, 1625, q. VII, n. 7. Allargando lo sguardo al contesto insediativo, i mulini erano pertinenze dei centri abitati ove erano edificati. Per dettagli cfr. G. DEL MAINO, In prima Digesti novi, cit., n. 120; A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XIV, nn. 13-14. 507 A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XIV, nn. 19-22. 508 J. HERING, Tractatus singularsi de molendinis, cit., q. VII, nn. 22-24. Hering richiama in particolare l’opinione di Giovan Battista Piotti a proposito della facoltà di accusare e di giurare contro i poveri che portavano i propri animali a pascolare sulle terre comunali ed ora, per effetto di una riforma statutaria, vedevano il loro atto, da sempre lecito, qualificato come danno dato. La modifica, ingiustificatamente pregiudizievole per gli interessi di chi aveva due o tre capi di bestiame, non poteva derogare alle antiche consuetudini che, giova ripeterlo, avevano una particolare forza cogente tanto in materia pastorale che di acque. Espressamente: «Nam cuilibet de populo competit ius depascendi animalia sua cuiscunque generis in pascuis publicis, cum sint omnibus communia. […] Fallit etiam quando statutum 505 184 Data la centralità economica e politica del mulino per le comunità, il principio della libera edificabilità fu fortemente compresso dalla crescita del potere pubblico, che tra le competenze acquisite in politica annonaria si interessò anche della costruzione dei gli impianti di macinatura. Antonio Gobbi, dopo aver ricordato che anche all’interno dei feudi i signori non potevano inibire la costruzione di un mulino ai sudditi, constatò: «Hodie vero aliter videtur practicari, ut nimirum molendina absque Principis licentia, nequeant fabricari». Con quell’aliter il giurista mantovano riassumeva l’enorme distacco delle pratiche amministrative e di governo delle risorse fluviali rispetto al principio romanistico. Alla base della sottoposizione a concessione dell’impresa molitoria vi era anche una ragione giuridica, oltre che politica. Sia che fosse realizzato su fiumi navigabili o meno, l’edificio si situava sugli argini i quali, essendo a loro volta pubblici e non comuni, non erano liberamente occupabili senza permesso dell’autorità509. Le autorità pubbliche si posero dunque come mediatrici in un’attività la cui regolazione non poteva essere interamente rimessa ai principi giuridici ma richiedeva un’adeguata ponderazione politica. La mediazione pubblica si poneva lo scopo di prevenire le liti valutando la sostenibilità di un concorso di impianti idraulici sul medesimo corpo idrico. L’abbondanza o la penuria di acqua corrente, influenzata dai cicli stagionali, suggeriva di provvedere ad una ripartizione temporale delle derivazioni per risolvere i conflitti e sfruttare comunque i mulini in sovrannumero, tramite gli atti ritenuti di volta in volta più idonei allo scopo (statuti, delibere, arbitrati…). Inoltre in periodi di siccità il proprietario del mulino più a monte non poteva in alcun modo appropriarsi interamente dell’acqua lasciando all’asciutto gli edifici molitori posti a valle. Caso tipico richiamato spesso dai giuristi era quello del comune di Bologna, che proibiva la costruzione di nuovi mulini senza l’autorizzazione del governo cittadino, limitando lo ius aedificandi del proprietario. Sempre il comune bolognese in passato aveva concesso prima ai frati Predicatori e poi ai Francescani minori l’acqua di un fiume. «Nam» scrisse Bartolo «cum illa aqua novum esset generale contra omnes divites, et pauperes». Mulini e pascoli assolvevano quindi nell’elaborazione giuridica ad una funzione simil-perequativa, in forza della quale l’accesso a tali beni non poteva essere impedito a nessuno, G.B. PIOTTI, Tractatus de in litem iurando, Venetiis, Apud Andream Ravenoldum et Bartholaemeum Rubinum, 1565, § L, n. 33. 509 A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XIV, n. 26. La dottrina aveva poi chiarito che si dovesse intendere compreso nel divieto anche l’allargamento di impianti già attivi, B. DA SASSOFERRATO, In primam ff. Novi, cit., n. 1; A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XIV, nn. 17, 27-28. 185 sufficiens esset ad utrumque, diviserunt eam mensuris, et quilibet ordo ducit eam ad suum locum»510. Dall’insieme di tali questioni emerge un indirizzo tutto sommato univoco circa il modo di governare le acque secondo la scienza giuridica. Consapevoli delle notevoli differenze geomorfologiche, idrogeologiche ed economiche che caratterizzavano la campagna italiana e dell’alto numero di controversie de aquis, i giuristi concepirono un doppio ruolo del potere pubblico nel ciclo delle acque. Per un verso esso doveva sovrintendere alle opere principali (canalizzazioni irrigue principali, derivazioni, costruzione di impianti idraulici) assumendo le decisioni più adeguate al contesto e mobilizzando le risorse necessarie. Al contempo si profila però anche un’autorità che conserva (compatibilmente con le esigenze economico-sociali) gli spazi consuetudinari, che incentiva o almeno non ostacola l’autodisciplina delle comunità locali o dei consorzi di utenti, in molti casi più efficaci nel gestire equamente la risorsa – pur sempre una res communes omnium – prevenendo liti destabilizzanti per le comunità stesse. Le politiche seguite nei vari ordinamenti non sempre aderirono a queste direttive, ma è significativo il fatto che la disciplina di un bene di uso pubblico trovasse un proprio punto di forza nella compenetrazione tra fonti di diversa provenienza. 2) «RIGANO LA LIGURIA MARITTIMA MOLTE FIUMARE». DIRITTO E ISTITUZIONI DI GESTIONE DELLE ACQUE INTERNE LIGURI 2.a) La gerarchia dei diritti d’uso nelle fonti locali Le caratteristiche geo-morfologiche del territorio ligure e dei suoi bacini idrografici stanno probabilmente alla base della scarsità di studi sulle modalità di impiego dei corsi d’acqua regionali. Eppure furono proprio due fiumi a delimitare storicamente i confini del genovesato, che estendendosi «a Corvo usque ad Monachum» aveva per limite orientale il fiume Magra (sulle cui rive era capo Corvo) in Lunigiana e giungeva fino al Var (o Varo, in volgare) nel Nizzardo. Alcune Seguiva poi il consiglio a produrre un atto pubblico o, ancor meglio, a ottenere un nullaosta dal magistrato all’inizio dei lavori per notificare formalmente ai concorrenti l’intenzione di servirsi dell’acqua. Alla città felsinea rimandava anche Gobbi ricordando che lo statuto cittadino vietava la realizzazione di un impianto i cui canali, provocando il ristagno o un’espulsione irregolare dell’acqua, danneggiassero i mulini già operativi, BARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam ff. Novi, cit., n. 10; A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XV, nn. 15-16. Sul divieto di raccolta d’acqua in tempore siccitatis vedi BARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam ff. Novi, cit., n. 25, successivamente seguito da tutti i commentatori posteriori. Giason del Maino distinse tra fiumi pubblici (seguendo Bartolo) e privati. Nel secondo caso una volta che l’acqua entrava nel canale, il proprietario diveniva dominus aquae e poteva farne ciò che preferiva, salvo il limite del divieto di atti emulativi a danno degli interessi pubblici, G. DEL MAINO, In prima Digesti novi, cit., nn. 91-92. 510 186 descrizioni del dominio genovese risalenti ai secoli XVI-XVII citano i corsi d’acqua distinguendo tra fiumi, rivi e torrenti a seconda della lunghezza e dell’importanza per le comunità finitime511. Ad Ottocento inoltrato la sezione appennino-alpina compresa tra Magra e Var apparve allo scrittore Davide Bertolotti solcata da innumerevoli fiumare di varia grandezza e tra tutte «il Varo, la Roja, la Centa, l’Entella e la Magra primeggiano tra loro per la copia ed incessanza dell’acque»512. Le caratteristiche salienti dei fiumi regionali venivano sintetizzate in poche righe di grande efficacia: «Le fiumane ligustiche ingrossano repentinamente e smisuratamente ad ogni subitanea pioggia, e scendono impetuose, rovinose, talora improvvisamente, ravvolgendo seco ciottoli ed anche grossi macigni, fanno alluvioni, e con ciò rinnalzano i loro alvei, arrecando grandissimi guasti nelle loro subitanee piene. Per la maggior parte asciugano nell’estate, o non conducono che un filo d’acqua; ma poche ore di pioggia bastano a farle soverchiare i loro argini e impedire il passo al viandante. Le acque invece che scendono dalla pendice settentrionale, tributarie dell’Adriatico, non sono così rovinose e repentine, e conservano in generale maggior copia delle loro acque»513. È significativo in primo luogo che si parli di fiumare e non di fiumi veri e propri per comunicare apertamente il carattere principale dei corsi d’acqua del versante marittimo, cioè la discontinuità stagionale del flusso idrico. Le condizioni di secca estiva cessavano con l’arrivo delle piogge autunnali e invernali, capaci di causare alluvioni rovinose. L’andamento tumultuoso e Agostino Giustiniani descrive il fiume Arroscia «vicino al mare [è] nominato Centa, come che in esso entrino cento picoli fiumi o per dir meglio rivi, secondo alcuni» ma senza attardarsi sulle attività economiche legate al fiume, cfr. M. QUAINI (a cura di), La conoscenza, cit., pp. 71-112. Uno dei pochi fiumi citati per il loro rilievo economico è il Leira, nei pressi di Voltri «celebre per l’utilità grande che produce a gli huomini del paese, come che su quella siano edificati molti molini, molte ferrere, molte fabriche per il papèro e somiglianti edificii». Nella villa di Sernio, vicino a Bavari, sgorga una «copiosa fontana che dona acqua in abondantia, et a vinti sei molini quali sono in detta villa». Il rilievo dei corsi d’acqua in campo agricolo viene indirettamente attestato dagli attributi di fertilità riconosciuti dall’autore a determinate terre, come la valle di Oneglia, Triora, la valle di Diano e del Bisagno. Cenni all’idrografia ligure erano già contenuti nella Naturalis historia di Plinio il vecchio, ripresi dallo Stella negli Annales Genuenses, cfr. G. PETTI BALBI (a cura di), Annales Genuenses, in «Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento e Millecinquecento, ordinata da L. A. Muratori», t. XVI, p. II, Bologna, 1975, pp. 12-13. 512 Considerando soltanto i corsi principali che sboccano in mare, non vi era (né vi è) praticamente borgo costiero di qualche importanza che non fosse bagnato da un fiume o un torrente: «Il Varo, il Paglione, la Roja nella contea di Nizza, la Nervia che bagna Dolceacqua, l’Argentina l’Imperio e la Meira, ossia le fiumare di Taggia di Oneglia e di Andora, la Centa accanto ad Albenga, la fiumara di Finale, il Letimbro a Savona, la Sansobia ad Albizzola, il Leirone tra Cogoleto ed Arenzano, la Cerusa e la Leira in mezzo alle quali giace l’industre e popoloso borgo di Voltri, la Polcevera e il Bisagno a destra ed a manca di Genova, l’Entella che tra Chiavari e Lavagna porta al mare il tributo di tre grandi valli, e finalmente la Magra che ingrossata dalle acque dell’emula Vara, s’insala lambendo il piede orientale del Capo Corvo, e radendo a sinistra i campi dove fu Luni», D. BERTOLOTTI, Viaggio nella Liguria Marittima, Torino, 1834, t. I, p. 19. 513 L. DE BARTOLOMEIS, Oro-idrografia dell’Italia, in L’Italia sotto l’aspetto fisico, storico, artistico e statistico, parte II, fasc. 215, disp. 429, Milano, [1873], p. 195. 511 187 rapido delle acque trascinava poi a valle detriti che innalzavano gli alvei e in certi casi potevano anche ostruire le foci. Se consideriamo che molti di questi fiumi a carattere torrentizio erano di lunghezza modesta, abbiamo posto tutti i dati geografici che stanno alla base della politica genovese in materia di acque. Dal punto di vista normativo, risulta assente una disciplina generale delle acque interne del Dominio di provenienza statale. Salvo alcune eccezioni i fiumi liguri non ricoprivano un’importanza tale da giustificare una legislazione ad hoc. Solo alcuni erano navigabili per un tratto del loro percorso e la scarsissima estensione delle pianure fluviali non creava i presupposti per riforme in vista di uno sviluppo dell’agricoltura, alla stregua di quanto accaduto nel Lombardo-veneto. La politica genovese rimase sotto questo profilo essenzialmente “cittadina”, ossia diretta ad assicurare la tutela dell’uso pubblico dell’acqua mediante la gestione dell’acquedotto civico e la pianificazione degli impianti idraulici eretti soprattutto lungo il Bisagno e il Pocevera. I due capitoli statutari dedicati alle acque, non particolarmente originali, furono integrati dai decreti dei Padri del Comune, la magistratura incaricata di gestire l’acquedotto e sostenere gli oneri finanziari per la manutenzione dell’intera rete514. Che l’estensione della politica genovese sulle acque si fermasse alle necessità della capitale è dimostrato anche dallo studio di Zanini sui lavori di ampliamento dell’acquedotto civico di inizio Seicento, che produssero la diminuzione della portata d’acqua del Bisagno a valle della presa. A soffrirne furono soprattutto i numerosi mulini privati che dovettero ridurre o interrompere del tutto le loro attività. Il contrasto tra privati proprietari degli impianti e l’interesse collettivo fu superato dal governo con una legge del 1622 con la quale fu stabilito un indennizzo o un risarcimento a favore dei danneggiati. Il governo si servì del conflitto per rivisitare i diritti di proprietà delle strutture idrauliche esistenti. Essendo ormai poco redditizi i vecchi opifici lungo il Bisagno, i Padri del Comune furono incaricati di costruire 19 nuovi mulini tra Trensasco e Sarzano, di proprietà pubblica e concessi in affitto, incrementando così anche le entrate dell’erario. I due capitoli statutari sono però indicativi della preoccupazione del governo cittadino di tutelare in special modo i canali di rifornimento dei mulini mediante la proibizione tanto della deviazione d’acqua quanto della riparazione senza licenza degli ufficiali preposti di alvei, canali o chiuse, cfr. Degli Statuti civili, cit., VI, capp. XV, XVIII. Numerosi decreti e regolamenti sull’acquedotto civico dei Padri del Comune sono editi in C. DE SIMONI (a cura di), Statuto dei Padri del Comune, cit. Vedi anche C. GUASTONI, L’acquedotto civico di Genova: un percorso al futuro, Milano, 2004. 514 188 Interesse precipuo fu dunque quello di assicurare l’abbondante rifornimento dell’acquedotto civico, subordinando a ciò ogni altro utilizzo incompatibile515. Se dunque i fiumi rivieraschi erano comunque sottoposti ad un uso pubblico – nelle forme che si esporranno a breve – questo “pubblico” consisteva prevalentemente nella collettività locale insediata nei pressi del corso d’acqua. Il governo si interessò della gestione delle acque non tanto per i suoi aspetti ordinari, quanto invece nei casi in cui le controversie relative al loro uso chiamarono in causa interessi territoriali o fiscali rilevanti per l’intero Stato. L’andamento stagionale dei corsi fluviali non fece comunque venir meno il carattere pubblico degli stessi. Ce lo testimoniano due fonti. La prima è un conislium di Baldo degli Ubaldi, in occasione di una lite tra le comunità di Villafranca Lunigiana e Lusuolo per l’interdetto, (invocato dalla prima) contro la costruzione di un mulino (voluto dalla seconda) sul fiume Magra, inequivocabilmente flumen publicum516. La seconda è una scrittura prodotta a Vessalico, dove nel 1642 fu condotto un tentativo di liberalizzazione dell’attività molitoria, a danno della privativa comunitaria. Tal Giacomo Benci, che guidava il fronte dei contrari, ricordò ai Consoli che le acque del torrente Bottasso, su cui si appuntavano le mire dei privatizzatori, non potevano essere vendute senza concessione del Senato «poiché essendo stati concessi li acquaritii dal Prestantissimo Officio di S. Georgio alle Comunità, li furono concessi con conditione che non potessero di quelli disporre senza licenza di loro Signorie»517. La definizione del concreto uso pubblico al quale i fiumi venivano subordinati era rimesso alle singole comunità, che espressero in forma più o meno dettagliata negli statuti le norme sulle derivazioni d’acqua, la tutela delle condotte e la repressione degli illeciti. Menzioni esplicite sulla titolarità pubblica delle acque si trovano così sporadicamente negli statuti. Quelli di Triora vietavano ad esempio di inquinare i «flumina seu aquas Triorie». A Diano ai sensi degli statuti del 1363 dalla tutela delle fontane pubbliche discendeva un regime di inappropriabilità dell’acqua A. ZANINI, “Perché la città sia ben proveduta d’acque”. Momenti di crisi e strategie di gestione delle risorse idriche. (Genova, secoli XVI-XVII), in I. LOPANE, E. RITROVATO (a cura di), Tra vecchi e nuovi equilibri. Domanda e offerta di servizi in Italia in età moderna e contemporanea, Bari, 2007, pp. 73-85. 516 Il processo nacque come opposizione del comune di Villafranca alla decisione di Lusuolo di costruire un proprio mulino, realizzando una presa per la derivazione d’acqua. Il danno lamentato consisteva nella sicura diminuzione del volume di grani macinati – e dei correlativi introiti – che la costruzione del nuovo impianto avrebbe causato a Villafranca. Baldo respinse come absurdum l’inquadramento della fattispecie suggerito dai procuratori di Villafranca, secondo i quali il fiume era comune tra le due comunità alla stregua di un corso d’acqua privato. Scorrendo per tutto l’anno il Magra era invece un fiume pubblico e così impostata, la questione andò a risolversi nel rigetto della pretesa di Villafranca per insussistenza del danno, B. DEGLI UBALDI, Consiliorum sive responsorum, Venetiis, apud Dominicum Nicolinum, et socios, 1580, vol. I, cons. 71. 517 ASGe, Magistrato delle Comunità, 166. Per i dettagli della vicenda vedi infra. 515 189 corrente, che non poteva essere né incanalata dai privati né asportata in altro modo. Solo i capitoli politici di Diano del 1622 designarono esplicitamente con l’espressione «acque Comuni» quelle destinate all’uso dei mulini «ancorché non fussero arrivate al beudo ordinario»518. Il capitolo 31° degli statuti albenganesi del 1288 dedicato ai mugnai dichiarava espressamente che i mulini situati tra le ville di Cisano e Lusignano prendevano l’acqua «de aquareriis sive aquarerio communis Albingane». Il comune era dunque titolare di alcuni canali di particolare utilità pubblica per la funzione economica svolta519. Lo statuto del borgo di Calizzano in val Bormida dichiarava pubblici tutti i fiumi presenti entro i confini del centro, sancendo al contempo la libera derivazione per gli usi irrigui, mentre gli statuti del 1535 di Novi in Oltregiogo qualificavano come Communis il fossato «quod est ab Ecclesia S. Gaudentii supra mediam viam, per quam itur ad Gragnolatum»520. In un territorio collinare e spesso angusto, dove la terra coltivabile era faticosamente ricavata grazie ai terrazzamenti, il confronto si giocava tra usi irrigui e come fonte di energia idraulica, in particolare durante i mesi estivi quando minore era la quantità d’acqua a disposizione521. Tra i due pare essere l’irrigazione l’uso maggiormente tutelato da molti testi statutari. La valle del torrente Argentina, a ponente, si offre come un buon caso di studio per la presenza di diverse comunità lungo il suo corso munite di statuti, accostabili per l’omogeneità di soluzioni prospettate per la gestione dell’acqua. Partendo dalle comunità più interne, a Triora gli articoli dello statuto relativi all’argomento in parola sono numerosi. Un primo dato rilevabile è la ricchezza di acque sorgive del territorio triorese. Il testo ne menziona una decina di pubblica rilevanza, individuandole con i rispettivi toponimi, e si premura di tutelare la qualità delle acque punendo chi lava, abbevera gli animali, interrompe il flusso o inquina522. La sanzione per chi deviava illecitamente il corso dell’acqua ammontava a mezzo scudo d’oro, ma nel caso delle acque al servizio dei mulini la pena ammontava a due scudi, cfr. i capitoli a stampa di Diano in RSL, n. 347, cc. 118-120. 519 La proprietà comunale dei canali e dei mulini non durò a lungo e già a metà Trecento il beudus molandini si trova attestato come beudus Cepollorum, dal nome di una delle più importanti famiglie albenganesi che lo aveva acquistato, cfr. gli statuti duecenteschi RSL, n. 20, editi J. COSTA RESTAGNO (a cura di), Gli statuti di Albenga del 1288, Genova, 1995, p. 61. 520 Cfr. gli statuti di Calizzano in RSL, n. 195, editi Statuti di Calizzano, 1600, Rocchetta Cairo, 1988, pp. 31-32. Su Calizzano vedi anche G. C. LASAGNA, Gli statuti di Calizzano, in Atti della Società Savonese di Storia Patria, XXXI (195960), pp. 17-68. Per Novi V. TRUCCO, R. ALLEGRI (a cura di), Statuti civili concessi dalla Repubblica di Genova a Novi: con decreto del 15 marzo 1535 e con aggiunte in materia dello stesso secolo XVI, Alessandria, 1976, pp. 35-38. L’acqua del fossatum Communis non poteva essere derivata o deviata, p. 91. 521 Sull’agricoltura, oltre ai già citati lavori di Quaini e Moreno, vedi anche G. NUTI, Sull’agricoltura in Liguria nel XIII secolo (dal Cartulario del notaio Salmone), in Clio, 1 (1974), pp. 5-31. 522 Il divieto di inquinare l’acqua di fonte è ripetuto in vari luoghi degli statuti. Degno di nota è il bando in vigore nel trimestre luglio-settembre riservato ai calzolai, conciatori di cuoio e macellai, che non potevano lavorare in prossimità di fonti e canali, onde non pregiudicare l’irrigazione durante il raccolto. 518 190 L’acqua corrente che scaturiva dalle fonti pubbliche non poteva essere deviata ma ad ogni abitante era concesso di trattenerne una parte per usi irrigui per tre ore ogni due giorni. In caso di compresenza di più utenti sullo stesso corpo idrico, gli statuti rimettevano all’autonomia privata la negoziazione delle ore e dei giorni di captazione tra gli aventi interesse, fissando la pena di 6 lire per la violazione dell’accordo. Ovviamente chi non partecipava alla divisione non aveva alcun diritto di adaquare. La pesca libera era proibita in tutti i torrenti e fiumi di Triora, in quanto attività sottoposta a concessione onerosa. Mancano curiosamente disposizioni sui mulini, nonostante una delle ville della podesteria (Molini di Triora) situata più a valle del borgo principale prendesse il nome proprio dalla presenza di numerosi impianti attivi già dal medioevo. La rubrica De aquis accipiendis pro rigandis ortis degli statuti di Badalucco delinea un sistema di irrigazione dei campi basato sul godimento periodico dell’acqua canalizzata tra le comunità di Badalucco e Montalto, acqua a sua volta divisa tra gli utenti di ciascun centro. Le sanzioni pecuniarie colpivano chi violava l’ordine sia chi privava dell’acqua uno dei due paesi. Le fonti, site a Montalto, erano affidate in gestione ad un conduttore, ai sensi dello statuto responsabile per qualsiasi mancanza o interruzione dello scorrimento. Una rubrica speciale riconosceva poi il diritto di ciascuno di abbeverare il bestiame presso le fonti situate entro i confini di un fondo privato523. I capitoli aggiuntivi del 1444 circondarono poi di tutele particolari la Colletta, forse una località in cui era collocata una cisterna, regolando gli orari di presa e obbligando i campari di Montalto ad assicurare il costante rifornimento d’acqua sotto pena pecuniaria524. Lo statuto di Taggia, posta sulla costa in prossimità della foce dell’Argentina, dedica un capitolo alla gestione dei canali irrigui del districtum Thabie. L’articolo riconosceva il diritto di «aptare, reficere vel purgare» canali di legno o semplicemente ricavati tramite solchi nella terra a seguito di danni, senza tener conto di opposizioni o dell’effetto della prescrizione. Anche in questo caso lo statuto rimetteva agli accordi tra utenti la divisione dell’uso delle acque irrigue, precisando inoltre che il Podestà doveva renderla cogente e punire alle pena di 3 soldi chi l’avesse violata. Sempre il Podestà locale era l’autorità competente a costituire la servitù di acquedotto e a comporre le liti. La rubrica si chiudeva con un’enunciazione importante: nelle ghiare del fiume non Per gli statuti di Badalucco e Montalto vedi RSL, n. 116 ed editi da N. CALVINI, Gli antichi statuti comunali di Badalucco, Imperia, 1994, pp. 194, 204, 214. 524 Il testo parla della Coletam come di un luogo cui condurre l’acqua, in modo tale da consentire a chiunque «que iverit ad acipiendam aquam possit semper acipere aquam ad Coletam, videlicet in bunda heredum quondam Jacobi Admirati». Era inoltre vietato prendere l’acqua dal mattino all’ora terza e dal vespro fino a sera, mentre nel giorno di sabato il divieto copriva l’intera giornata, N. CALVINI, Gli antichi statuti, cit., p. 241. 523 191 soggette ad alcun tipo di lavorazione la derivazione era libera e gratuita, mentre nel momento in cui quell’appezzamento veniva toccato dal lavoro umano, ricadendo in proprietà privata, la presa e la relativa servitù di acquedotto divenivano onerose525. La rubrica dedicata ai doveri dei mugnai contemplava anche un capoverso volto a garantire l’equilibrato sfruttamento del canale vicino al quale erano presenti campi coltivati. Per il resto le altre disposizioni concernevano la manutenzione dei mulini comuni tra più privati e la riparazione dei canali526. A Diano era l’acqua che azionava le ruote dei mulini a godere di una protezione speciale. Gli statuti del 1363 ponevano come unica eccezione al divieto di deviazione dell’acqua dai canali dei mulini l’irrigazione stagionale527. La rubrica De molinari, e molini dei capitoli politici del 1622 riunì disposizioni in materia di acque prima disperse tra vari capi degli statuti antichi, regolando il concorso di usi tra i mugnai e i proprietari di orti situati nei pressi dei canali dei mulini. Questi ultimi potevano servirsi dell’acqua per l’irrigazione dal vespro domenicale fino al mezzogiorno del martedì ma solo durante le ore diurne, «ordinatamente con discretezza, acciò dentro esso termine ognuno possa participare di detta acqua». L’irrigazione durante il periodo compreso tra le feste di san Giovanni Battista (24 giugno) e di San Michele (29 settembre) era sottoposta alla vigilanza di mugnai e proprietari delle terre, che insieme dovevano garantire a tutti la distribuzione dell’acqua necessaria per ciascun orto. L’assenza del mugnaio o di uno dei proprietari o di un loro famigliare o dipendente determinava nel primo caso la libera irrigazione e nell’altro l’impossibilità di fruire dell’acqua per quel giorno. Un borgo che fondò la prosperità della propria economia su un’agricoltura selezionata e vocata all’esportazione fu Sanremo. La coltivazione degli agrumi destinati al mercato si univa alle tradizionali colture ortive e ciò imponeva un’attenta amministrazione delle scarse risorse idriche a disposizione della comunità ponentina. I torrenti più importanti della zona (Nervia, Argentina) si trovavano al di fuori del distretto, che poteva fare affidamento soltanto su alcuni rii discendenti dalle colline dell’entroterra528. Cfr. l’edizione degli statuti RSL, n. 1072 di N. CALVINI, Statuti comunali del 1381, Taggia, 1981, pp. 242-243. Era dovere del mugnaio assicurarsi di non «ducere aquam in tanta quantitate pro beudo quod faciat dampnum in ortis vel possessionibus contiguis», N. CALVINI, ibidem, p. 179. 527 Cfr. gli statuti trecenteschi di Diano RSL, n. 338 editi da N. CALVINI, Statuti comunali di Diano (1363), Diano Marina, 1988, pp. 126-129, 278-281. 528 Nella Descrittione del Giustiniani si lege che «Il territorio di San Remo è tutto pieno di citroni, limoni, cedri et aranzi, non solamente dilettevoli al vedere e boni al gusto ma di grande utilità, come che questi frutti si portino per mare e per terra in più luoghi», M. QUAINI (a cura di), La conoscenza, cit., p. 77. Vedi anche A. CARASSALE, L. LO BASSO, Sanremo, giardino di limoni, cit. Sanremo non dispose prima del XIX secolo di molte acque potabili per uso umano secondo L. DE BARTOLOMEIS, Oro-idrografia dell’Italia, cit., p. 204. 525 526 192 Le linee fondamentali erano contenute già negli statuti del 1435. Dalla rubrica De rigandis ortis, et de clusis, seu aquareciis non innovandis possiamo infatti trarre indicazioni destinate a non esser modificate dalle riforme del XVII secolo. Anzitutto il consueto favor riservato ai mulini cedeva il posto all’irrigazione degli orti e dei campi, interesse del tutto preminente per l’economia sanremese. Ciò si traduceva nell’impossibilità di costruire chiuse o canali «non solitas, et non solitos» tanto per irrigare quanto per azionare le ruote di un mulino. Dall’altro i mugnai non potevano né deviare, né proibire ad un irrigatore di servirsi della medesima acqua che alimentava il loro impianto sotto pena pecuniaria. In secondo luogo emerge l’attenzione per le pratiche di gestione collettiva dell’acqua dei valloni o dei singoli canali, che gli statuti incentivavano ponendo al tempo stesso sanzioni per la violazione degli obblighi derivanti dalla compartecipazione al consorzio529. Per ovviare alla siccità estiva, i decreti sulle acque approvati nel 1608 fissarono una gerarchia di diritti d’uso modellata non sulla mera proprietà fondiaria formale, bensì sul tipo di coltivazione praticata. Privilegiata l’irrigazione regolare dei soli agrumi, si limitava quella a beneficio dei castagneti a soli tre giorni (il 15 dei mesi di luglio, agosto e settembre) mentre era del tutto inibita per i vitigni. Orti e campi di canapa potevano ricevere acqua dai rivi solo per 15 giorni dopo la semina. Il prolungamento del periodo era sottoposto al pagamento di una somma di denaro giornaliera. L’utilizzo per fini diversi da quello irriguo determinava come sanzione la sospensione della derivazione. Sotto il profilo della distribuzione dell’acqua le riforme successive non introdussero novità dirompenti. Solo i capitoli sulle acque del 1682 modificarono le regole di ripartizione, stabilendo che ogni anno l’irrigazione iniziasse dai primi fondi lasciati senz’acqua secondo l’ordine dell’anno precedente530. La preoccupazione di tutelare in ogni frangente i proprietari degli orti coltivati emerge a più riprese nei capoversi in cui si citano i mugnai. La gestione consortile dell’acqua di un canale era stimolata dalla disposizione secondo cui, in assenza di divisione, ciascun proprietario che «de novo plantaverit ortaliam» poteva derivare senza alcuna richiesta agli altri utenti. La divisione poteva essere richiesta da uno dei partecipanti al giusdicente, sul quale gravava il dovere di convocare gli utenti interessati per «ipsam aquam inter eos bene et iuste dividendum pro rata» ed era tenuto far rispettare i patti stipulati, punendo i trasgressori. I proprietari consorziatisi per il godimento dell’acqua di un canale erano poi tenuti a sostenere solidalmente le spese per le riparazioni, N. Calvini, Statuti Sanremo, cit., pp. 318-321. 530 I decreti sulle acque del 1608 in ASSr, Serie I, 57, cc. 133-141. I capitoli sulle acque furono riformati tra il 1671 e il 1676 ASGe, Archivio segreto, 84 (RSL, n. 910) e nel 1682 ASSr, Serie I, 57, cc. 136 v – 140 v. Nel 1702 fu nuovamente integrata la normativa a causa della penuria di piogge, ivi, cc. 155 v-158. Dopo la sollevazione di metà Settecento, il regolamento emanato nel 1756 coordinò in un’unica sede le previgenti disposizioni. Furono quindi riproposti i contenuti tradizionali (ufficiali regolatori, fattispecie illecite e pene, regole di procedura) con minime innovazioni. Significativo è l’articolo 11 che confermò l’assenza di una via preferenziale per l’alimentazione dei mulini rispetto agli orti, ASGe, Archivio segreto, 305, RSL, n. 921. 529 193 La puntuale regolazione sanremese sull’uso delle acque fu presa a modello dalla vicina Bordighera per i capitoli del 1692 dedicati a disciplinare l’uso irriguo delle acque del vallone di Monte Negro, tra Bordighera e Ventimiglia, che alimentavano anche i mulini bordigotti in estate531. L’acqua «patrimonio de’ luoghi dell’università di XXmiglia» era oggetto di liti per le rotture delle chiuse commesse dai proprietari privati e dai possessori a terratico dei fondi comuni. La cura del Parlamento fu quella di addivenire ad un testo che ripartisse tempi e turni di irrigazione da giugno a settembre, tutelando i canali dei mulini e fissando le adeguate pene. I proprietari di fondi posti sotto l’acquedotto dei mulini comuni verso ponente non potevano servirsi dell’acqua a valle della presa poiché essa era riservata ad irrigare le terre comuni. Era inoltre vietata l’accumulazione d’acqua in pozzi e cisterne durante il quadrimestre di vigore della regola per non pregiudicare il godimento di tutti gli utenti532. Appare evidente che le comunità considerarono fiumi e torrenti come beni di pertinenza della collettività. Il bilanciamento tra diritti d’uso privati e interesse pubblico fu individuato tramite l’adozione ora di una precisa disciplina dell’accesso, integrata talvolta da accordi tra gli utenti. Si conferma così un quadro normativo molto sfaccettato, dove la normativa statutaria lasciava in molti casi maglie assai ampie per l’autoregolazione da parte degli stessi utilizzatori o, più semplicemente, per la prosecuzione delle pratiche consuetudinarie533. La marginalità del ruolo dello Stato sotto questo profilo fece venir meno anche la necessità di instaurare un regime di concessioni per l’utilizzo delle acque, tipico del modello demaniale. Si può quindi ritenere che vigesse in buon parte delle comunità liguri il principio della libera derivazione, sebbene temperato dalla definizione di una gerarchia di diritti d’uso frutto di un processo politico eminentemente locale, senza input da parte del governo. 2.b) Gestione e autorità di controllo sulle acque tra Genova e il Dominio 531 Le acque del vallone di Monte Negro sembrano costituire un tutt’uno con i mulini pubblici e il patrimonio fondiario comune di Bordighera. Le terre da irrigare erano costituite anche da appezzamenti di comunaglie concessi a terratico ad alcuni abitanti del posto, che non potevano derivare l’acqua per condurla altrove, ASGe, Archivio segreto, 94, in RSL, n. 709. 532 I capitoli furono approvati dal Senato, previa relazione favorevole del Commissario di Sanremo Giovan Battista Pallavicino, il 7 luglio 1692 con il parere della Giunta dei Confini. 533 A tale scopo sarebbe necessario estendere l’indagine agli archivi notarili per verificare l’esistenza di contratti di irrigazione stipulati formalmente tra gli utenti di una certa comunità. 194 Una politica di gestione delle acque, più o meno incisiva a seconda del contesto politico e ambientale locale e degli obiettivi di trasformazione del territorio, doveva necessariamente avvalersi di soggetti incaricati di rendere esecutive le norme e le direttive impartite dagli organi di governo e mediare le tensioni scaturenti tra soggetti portatori di confliggenti interessi. A parte la competenza giurisdizionale esercitabile in loco dai giusdicenti, rientrava nell’autonomia amministrativa di ciascuna comunità istituire ufficiali preposti alla vigilanza sui corsi d’acqua. Le scelte compiute dagli statuti liguri si orientano verso due soluzioni: l’affidamento della competenza ad ufficiali già incaricati di altre mansioni o la creazione di figure specifiche, ipotesi questa nettamente minoritaria. Nel primo insieme rientrano comunità diverse tra loro per posizionamento geografico e dimensioni. A Triora la cura delle numerose sorgenti e dei relativi acquedotti era affidata ai rasperi, che il capitolo XVII degli statuti definiva come «custodes nemorum et bonorum Communis». Analoga incombenza gravava sui loro omologhi delle tre ville dipendenti dal borgo (Molini, Corte e Andagna)534. L’assenza di un incarico esclusivo non toglie che la sorveglianza sui canali e le fonti fosse avvertita come un interesse pubblico, per il vitale contributo all’agricoltura triorese. Le leges municipales stilate dal Capitano di Chiavari Giovan Battista Raggio per la comunità di Lavagna nel 1656 assegnarono ai censori la competenza su strade, cloache e fossati. Gli stessi censori erano tenuti a conservare gli atti pubblici relativi agli acquedotti e a vigilare sulla loro pulizia da parte dei proprietari confinanti535. Gli statuti di Ovada del 1327 non contemplarono un ufficiale dedicato alle acque, facendo rientrare il controllo sulla pulizia di torrenti e rivi tra le mansioni del Podestà e del suo vicario536. Il borgo di Novi suddivise tra massari, campari e incaricati temporanei la competenza a curare gli interessi pubblici della comunità in materia537. La creazione di appositi uffici destinati a provvedere alla regolazione dell’accesso all’acqua fu propria di comunità tanto costiere quanto montane, ma con un elemento di demarcazione abbastanza evidente costituito dalla durata della carica. Se molte comunità interne contemplarono di solito figure temporanee, in ottica spesso di prevenzione delle liti, i centri della Cfr. F. FERRAIRONI, Statuti comunali di Triora, cit., I, pp. 83-84. Cfr. le Leges municipales Lavaniae, BUG, 4. BB. VII. 66 (2), RSL, n. 561, pp. 25-32. 536 G. FIRPO, Statuti di Ovada del 1327, Ovada, 1989, p. 132. 537 I massari dovevano tra le altre cose garantire il buono stato dei pozzi, riscuotendo la quota di eventuali spese dai residenti più vicini agili stessi, e controllare che i proprietari dei canali facessero la debita manutenzione. Ad agenti eletti appositamente, senza una continuità d’incarico, spettava l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie per le prese dal canale del Comune. Un numero sufficiente di campari eletti annualmente doveva infine dividere tra gli utenti interessati l’acqua del canale di Gadio, cfr. V. TRUCCO, R. ALLEGRI (a cura di), Statuti civili, cit., pp. 35-39, 91-94. 534 535 195 costa mostrano la tendenza ad istituire uffici stabili, per via di una maggiore mole di lavoro data dalla vicinanza alla foce e la natura perlopiù pianeggiante del territorio, che favoriva un uso più intensivo delle risorse idriche. Non mancarono tuttavia eccezioni. Le comunità munite di veri e propri ufficiali alle acque furono Sanremo, Albenga, Vado e Castelnuovo Magra. A Vado l’ufficio dei Deputati alle acque, eretto anche per la tutela della salubrità dell’aria, è citato dagli statuti del 1783. A Castelnuovo Magra un Magistrato alle acque fu sicuramente operativo dl 1674 al 1797, ed è singolare che questa fosse l’unica comunità genovese sita sul Magra a munirsi di agenti specializzati, nonostante le nota turbolenza del fiume538. Ad Albenga il collegio degli Ufficiali alle acque sorse per iniziativa del commissario genovese Gregorio Molassana nel 1588, come prolungamento amministrativo delle competenze che gli statuti del 1288 e del 1350 riconoscevano già al Podestà cittadino539. La comunità di Sanremo si conferma anche sotto questo punto di vista assai vivace. I bisogni dell’agricoltura, più volte ricordati, esigevano un corretto utilizzo delle risorse idriche. I decreti sulle acque del 1608 istituirono i soprastanti alle acque, eletti in numero di due per ogni vallone o fossato artificiale. Il compito principale consisteva nel curare tempi e quantità di distribuzione dell’acqua tra i proprietari dei fondi serviti dal rivo. Questi ultimi erano iscritti su un apposito registro tenuto dai soprastanti, che dovevano quotidianamente visitare i corsi d’acqua di loro competenza per verificare lo stato delle derivazioni e accusare chi le alterava o chi si appropriava dell’acqua violando l’ordine stabilito. I nuovi capitoli del 1703 tentarono di rafforzare l’intervento pubblico nel settore per via delle pratiche scorrette diffuse a danno dei poveri. È ragionevole pensare che il catasto degli orti, documento contenente le colture praticate in ciascun fondo già previsto dai decreti del 1608, non fosse mai stato redatto o, se esistente, non fosse aggiornato. I capitoli ordinarono nuovamente la dichiarazione in cancelleria dei fondi e del numero di alberi coltivati. A supporto dei regolatori (nuova denominazione dei soprastanti), la riforma istituì una magistratura composta da tre membri col compito di esaminare le loro relazioni, adottare i provvedimenti opportuni e comporre le liti insorgenti per l’utilizzo dell’acqua, ricorrendo se necessario al Commissario per l’esecuzione Cfr. E. PETACCO, L. PIAZZI, Istituzioni, territorio, economia: Castelnuovo Magra ed il suo archivio storico, Arcola, 1996, p. 91. 539 Gli ufficiali alle acque costituirono in realtà più di un collegio, condividendo parte delle competenze con il Magistrato dei pubblici, ma per questo vedi infra. 538 196 delle decisioni. Inoltre la stessa magistratura si doveva far carico della riparazione dei canali, individuando i lavori da svolgere e dividendo le spese tra i proprietari interessati540. Tra le incombenze usualmente ricadenti su queste figure, troviamo la repressione delle derivazioni abusive, capaci di turbare l’equilibrato utilizzo dell’acqua, e il controllo sulla pulizia e la manutenzione di canali e torrenti, a carico dei proprietari frontisti. Specie la seconda attività, come dimostrato dal caso albenganese di cui parleremo, non sempre risultava efficace. In località dove la distribuzione dell’acqua era disciplinata puntualmente, agli ufficiali spettava anche il compito di controllare l’ordinato svolgimento dei turni di distribuzione. Altre comunità, anche di notevoli dimensioni, demandarono ad agenti individuati volta per volta la gestione di una serie di questioni relative alle acque, in contesti dove il concorso di usi era meno gravoso per la conservazione della risorsa. I capitoli della villa di Bestagno, nell’entroterra di Oneglia, prevedevano l’elezione di una commissione di due uomini per terziere competente sia a stabilire il luogo di realizzazione di un canale sul fondo altrui in caso di contestazioni, sia ad ordinare la ripartizione dell’acqua. Le disposizioni speciali per Prosanico e Gazzelli punivano coloro che violavano l’ordine di turno per la presa dell’acqua, mentre i capitoli di Torria fissavano a 6 denari la multa per chi avesse deviato il torrente Carpaneto, prosciugando il beudum Communis541. Una previsione analoga a quella di Bestagno si ritrova anche negli statuti di Rezzo, ove la costituzione di una servitù coattiva di acquedotto era soggetta alla mediazione di un numero imprecisato di boni homines. Va detto che l’intervento di stimatori o arbitri per la composizione delle liti in occasione del riparto della risorsa o per la costituzione di una servitù coattiva a vantaggio di orti e mulini era già presente nei capitoli delle castellanie ponentine di Mendatica, Cosio e Montegrosso del 1297542. Gli statuti di Onzo del 1581 al capo De discordia terminorum, arborum, aquarum et viarum obbligavano il giusdicente ad assegnare a due bonos viros partibus non suspectos la definizione Il testo prendeva atto che consentire a ciascuno di accusare i regolatori pregiudicava l’efficacia della loro attività di vigilanza, ASSr, Serie I, 57 cc. 155 v.-157r. 541 Il capitolo 7 del libro VI degli statuti onegliesi impediva di servirsi in agricoltura delle fonti e dei pozzi «de quo accipitur aquam ad bibendum aut alios usus in domibus». È significativo inoltre che i primi due articoli degli Specialia Gazzelii fossero dedicati alle acque (De fontibus e De aqua), a sottolineare l’importanza della risorsa idrica nell’economia locale. Per gli statuti di Oneglia e i capitoli speciali delle ville cfr. G. MOLLE, Statuti di Oneglia e della sua valle, Imperia, 1979, in particolare pp. 247, 296-297, 305-308, 316, 332, 347, 349. 542 S. MACCHIAVELLO (a cura di), Liber iurium ecclesiae, comunitatis, statutorum Recii (1264-1531). Una comunità tra autonomia comunale e dipendenza signorile, Genova, 2000, p. 58. Per Cosio e Mendatica cfr. Capitula Castellanie Cuxii, Mendatice et Montisgrossi (1297), in Atti della Società Ligure di Storia Patria, appendice al vol. XIV, 1888, pp. 8081. 540 197 sommaria della controversia entro otto giorni543. In val Bormida gli statuti di Millesimo contemplavano l’elezione di tre boni homines per la manutenzione e la pulizia di strade e canali a partire dal mese di giugno, mentre alla stima del danno da pagarsi per la realizzazione di un canale su fondo altrui era rimessa agli estimatori544. Gli statuti del 1345 di Savona delegarono a quattro uomini il coordinamento delle operazioni per la costruzione degli argini del torrente Lavagnola, a spese dei proprietari frontisti545. In sintesi, anche l’articolazione istituzionale per l’amministrazione delle acque fu elaborata dalla comunità locale, in relazione alle priorità che il contesto geografico o le esigenze economiche ponevano a quella specifica collettività. La varietà di soluzioni adottate testimonia per un verso l’empirismo nell’approccio al problema, che non escludeva la condivisione di modelli istituzionali tra più comunità, e dall’altro l’assenza di qualsivoglia ingerenza da parte del governo centrale. Se nei capitoli precedenti si è visto che la Repubblica fece sentire il proprio peso nella gestione delle risorse collettive solo quando erano in gioco interessi esorbitanti il piano meramente locale, o che le istituzioni locali non erano in grado di mediare adeguatamente (confini e sovranità, difesa delle foreste militarmente strategiche, tutela fiscale, risoluzione dei conflitti vertenti sulla proprietà dei fondi), si può affermare che Genova non si discostò dal medesimo modus operandi neppure sulle acque. In realtà una piccola differenza rispetto ai boschi e ai pascoli è data dalla presenza, almeno dalla seconda metà del Seicento, dei Deputati camerali alle acque e ai mulini. Questi due Procuratori si occupavano però prevalentemente delle pratiche coinvolgenti i mulini di proprietà dello Stato, e non anche gli impianti comunitari. Le controversie sui diritti d’uso dell’acqua dei fiumi non furono dunque di loro esclusiva competenza, ma come gli altri beni comunali chiamarono in causa le magistrature centrali a seconda dell’interesse pubblico di maggior rilievo nel caso di specie. Alcuni episodi tratti dai fondi d’archivio ben illustrano come il governo agì a fronte di conflitti sorti intorno alle acque, o per sopperire all’incapacità delle istituzioni locali di risolvere la controversia o per impedire privatizzazioni pregiudizievoli per le finanze comunali. Vedi gli statuti di Onzo, RSL, n. 689, editi in A. CASA, Gli antichi statuti del libero comune di Onzo tradotti dal latino dell’epoca (1581), Albenga, 1996, p. 109. 544 Per gli statuti di Millesimo vedi L. OLIVERI, Gli statuti di Millesimo (1593). Aspetti di vita in Val Bormida, Genova, 1987, RSL, n. 623, rubb. LXIX, CIII. 545 I capitula del 1345 di Savona sono editi da L. BALLETTO, Statuta antiquissima Saone (1345), Bordighera-Genova, 1971, (RSL, n. 986), pp. 219-220. 543 198 Un caso emblematico avvenne tra 1721 e 1722 a Carrodano, nell’entroterra di Levanto. I titolari di alcuni mulini avevano costruito degli sbarramenti in legno che, interrompendo il naturale corso del torrente Levantina, avevano causato l’allagamento dei campi situati lungo il fiume e la rovina dei raccolti546. L’innalzato livello dell’acqua metteva inoltre a rischio la stabilità di un ponte importante per i collegamenti viari tra Carrodano e i centri vicini. I Deputati camerali alle acque e mulini Marcantonio Giustiniani e Niccolò Cattaneo, dopo aver inviato Paolo Battista Fieschi sul luogo decretarono che: «Si debbano al più presto levare le dette prese, in maniera che l’acqua possa prendere il suo corso naturale, e ciò al minor danno, con fare che un molino dii l’acqua all’altro e con deliberare, che in appresso non sii lecito ad alcuno di qualonque conditione innovare nel fiume con far nuove prese senza espressa e previa licenza dell’illustrissima et Eccellentissima Camera e previa la citazione degl’interessati nelle pianure, e ciò sotto quelle pene che più pareranno all’Illustrissimo et Eccellentissimo Commissionato» Le “innovazioni” in materia di acque appaiono vietate, salvo la facoltà del governo di autorizzare nuove derivazioni in contraddittorio con i terzi interessati. Dalla tipologia di documenti conservati nelle filze dei Deputati alle acque, le autorizzazioni alla derivazione d’acqua rilasciate dai Deputati furono quantitativamente insignificanti. Ciò conferma quanto detto in precedenza sulla competenza delle comunità in materia di costituzione dei diritti di appropriazione della risorsa a favore dei privati. L’invio sul posto di Fieschi per la rimozione delle prese fu solo apparentemente risolutivo perché nonostante l’iniziale collaborazione dei proprietari dei mulini, emerse rapidamente una seconda contrapposizione tra alcuni di loro – che potevano condividere l’acqua dei medesimi canali – e tal Angelo Battista Saluzzo, originario di Levanto, autore di una presa di derivazione usata in estate per irrigare un prato e dei campi. Secondo alcuni l’innalzamento del livello del fiume era addebitabile in via principale proprio alla sua presa. Saluzzo chiese ed ottenne dal Fieschi il mantenimento nel possesso dell’acqua – derivazione di cui godeva a titolo oneroso per averla lecitamente acquistata. Il Commissario ordinò poi il 26 aprile 1722 lo smantellamento delle Gli sbarramenti servivano per innalzare il livello dell’acqua, assicurando così una derivazione più efficiente e costante. La scelta del sito per il posizionamento degli sbarramenti era legata alle caratteristiche del torrente, che non doveva trasportare troppi materiali solidi, mantenere un flusso costante lungo l’anno e non essere propenso ad esondazioni frequenti. Le prese di derivazione venivano solitamente collocate poco più a monte delle barriere, cfr. M. E. CORTESE, L’acqua, il grano, il ferro. Opifici idraulici medievali nel bacino Farma-Merse, Firenze, 1997, pp. 68-78. 546 199 dighe costruite nel letto del fiume, concedendo ai padroni dei mulini di realizzare un prolungamento dei canali lungo la riva del torrente, tramite la costruzione di una seconda sponda parallela all’argine, senza causare danno ai vicini né creare gorghi o intasamenti pericolosi per i mulini superiori. Andatosene l’inviato della Camera, quasi tutto tornò come prima. Alcuni uomini di Carrodano a luglio scrissero ai Collegi per informarli che molti avevano ricostruito le prese, tra i quali Saluzzo: i campi e gli orti dei carrodanesi erano dunque nuovamente a rischio allagamento. Francesco Maria Durazzo, inviato ad ottobre a Carrodano, appurò che quanto denunciato rispondeva a verità ed ordinò nuovamente la distruzione delle chiuse e la rimozione del canale di un mulino, anche per non mettere ulteriormente a rischio la tenuta del ponte sul fiume. L’esecuzione dell’ordine fu rimessa al Commissario di Sanità di Bonassola Francesco Ferretto, con l’ausilio dei soldati, stante l’indisponibilità degli interessati ad adeguarsi. Alla base del fallimento della gestione dell’acqua del torrente Levantina vi è anzitutto la mancanza di istituzioni adeguate alla mediazione tra gli interessi confliggenti degli appropriatori, un’assenza non colmabile neanche dall’intervento dell’autorità esterna, che faticò ad imporre i propri ordini. Il caso di Carrodano dimostra inoltre che l’azione del governo non si rivolse soltanto verso gli impianti di proprietà demaniale, ma tutelò anche quelli privati, allo scopo di difenderne la funzione di pubblica utilità. Occorrerebbe un’indagine più approfondita per verificare se il conflitto descritto fosse spia di una ridefinizione più vasta dei diritti d’uso delle acque del torrente, considerato che nella vicina frazione di Ferriere erano localizzati alcuni opifici siderurgici. Le forme di manifestazione dell’intervento centrale furono, al solito, assai mutevoli, poiché spettò ora ai membri dei Collegi ora ai giusdicenti l’imposizione di norme volte a conciliare l’uso irriguo con il rifornimento degli opifici idraulici. I sette mulini (parte privati, parte camerali) di Porto Maurizio che si servivano in comune delle acque del torrente S. Lorenzo pativano d’estate un sensibile decremento d’acqua per le numerose derivazioni effettuate dai proprietari dei fondi vicini al canale. Nel 1623 fu dapprima il governo a limitare ad un solo giorno alla settimana il diritto di derivazione da parte dei proprietari fondiari. Nel 1676 il Capitano di Porto Maurizio Battista Chiavari ribadì il principio, mediante una sentenza che assegnava a ciascun lotto di terre le ore di fruizione dell’acqua, sotto pena di 25 lire e due tratti di corda547. Il dispositivo della sentenza di Chiavari stabilì in dettaglio: «Che quelli, che hnno campagne per adaquare dell’aque de suddetti molini, possino servirsi di sudetta aqua dal sabbato mattina d’ogni settimana sino alla domenica mattina 547 200 A Finale, nel 1763, il Governatore Massimilano Sauli confermò le statuizioni dei suoi predecessori a tutela dei mulini privati e della cartiera situati a Calvisio e nella borgata di Pia. Anche qui all’irrigazione fu riservata solo una giornata tra il sabato e la domenica, con proibizione per coloro che non godevano del diritto di estrarre l’acqua dai canali al servizio degli impianti di derivare illecitamente, forando o danneggiando altrimenti le condotte548. I conflitti tra uso industriale e uso agricolo dell’acqua non furono i soli a chiamare in causa le magistrature della Repubblica. Come bene comunale, anche l’acqua – o meglio, i diritti d’uso – e i mulini potevano essere oggetto di alienazioni volte a risanare le dissestate casse delle comunità locali. In tali frangenti, si riprodusse lo schema già esaminato a proposito delle alienazioni nel capitolo IV. Possiamo citare un paio di esempi che coinvolsero il Magistrato delle Comunità. Il primo caso ci riporta a Vessalico, nel capitanato di Pieve di Teco, nei primi anni ’40 del Seicento, all’incirca il medesimo periodo durante il quale alcuni membri della comunità avevano tentato di privatizzare il bosco comune. La comunità, gravata da debiti e censi per 50.000 lire, vantava entrate sicure soltanto dall’affitto degli edifici produttivi di proprietà comune con le ville inferiori del capitanato549. La frequenza con cui d’inverno le alluvioni rendevano inservibili mulini e frantoio, per la rottura delle chiuse e dei canali, spinse il Parlamento di Vessalico a deliberare la costruzione di un nuovo impianto lungo le rive del torrente Bottasso, affluente dell’Arroscia, così da poter garantire la continuità del servizio di macinatura. Uno dei possidenti del borgo, Pietro Manfredo, mobilitò il capitale di cui disponeva per rastrellare i terreni siti lungo il Bottasso e più idonei per la costruzione del frantoio e offrì 50 scudi alla comunità per la vendita dell’acqua, necessaria per alimentare il mulino che avrebbe realizzato privatamente. Si è già visto che la parte contraria all’operazione gli oppose il rilascio della licenza da parte del Senato. La pressione verso la privatizzazione dei beni comunali scosse nel profondo la vita politica del borgo della bassa valle Arroscia, generando conflitti interni e ciò accadde anche la questione del Bottasso. Manfredo possedeva infatti non solo i mezzi economici, ma anche gli appoggi politici per raggiungere il proprio obbiettivo ed alterare l’ordinato svolgimento delle seguente, cioè quei dalla presa dell’aqua sino alli tre primi molini dell’Ancellino Gandolfo per ore quattro, quei da detti tre molini sino a quello di Gio. Gerolamo Ricca sino a quello di Giacomo Ricca sino al primo dell’Eccellentissima Camera ore sette, e quei dal primo sino all’ultimo dell’Eccellentissima Camera ore cinque, e che in tal forma gradatamente dovere osservarsi sotto le pene contenute nelle preventive gride, et ordini dell’Eccellentissimo Tribunale», ASGe, Camera di governo e finanza, 1063. 548 ASGe, Camera di governo e finanza, 1063. 549 Ad inizio Seicento la metà degli introiti derivanti da un frantoio e dai mulini ammontavano a 850 lire, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 147 r. Gli edifici erano in comunione tra Vessalico, Lenzari, Siglioli, Cartari e Gazzo. 201 deliberazioni assembleari550. Nel febbraio 1642 il sopralluogo degli estimatori rilevò che Manfredo (nonostante l’inibitoria) aveva già costruito il frantoio ed era pienamente operativo. L’incanto per l’acqua del Bottasso avvenne ad inizio maggio – la concessione del Senato era arrivata il 14 aprile – e se lo aggiudicò Pietro Manfredo per 250 scudi. Nei decenni successivi al primo edificio se ne aggiunse un secondo, privo di qualsiasi copertura legale e che arrecò un ulteriore danno alla redditività dei mulini comunali. È evidente da un lato che la connivenza degli ufficiali locali fu decisiva per la buona riuscita del piano organizzato dal Manfredo, che poté compiere una serie di illeciti senza incorrere in conseguenze. Dall’altro si conferma il modus operandi del Magistrato delle Comunità a fronte di gravi crisi debitorie. Nel caso in esame esso fu centrato solo in parte, poiché oltre a risultare privo di effetti l’intervento del Commissario Zoagli, il Magistrato non riuscì ad impedire la costruzione di un secondo frantoio servito dal Bottasso, non autorizzato. Nel secondo caso Ortovero, una villa della piana di Albenga, fu costretta nel 1685 a porre fine alla privativa sui mulini e frantoi per alleggerire il debito che impegnava la comunità per un interesse annuo oscillante tra il 6 e il 7 per cento. Giudicata accettabile dai locali consoli l’offerta del marchese Francesco Maria Clavesana, signore di Casanova Lerrone e Vellego, il Parlamento di Ortovero costituì una commissione di sei procuratori cui delegò la definizione dell’affare che avrebbe fatto incassare ben 21.000 lire. Per assicurare un ragionevole profitto all’acquirente, la comunità si impegnò a non costruire altri mulini e ad imporre ai propri abitanti di macinare grani e olive presso gli impianti passati a Clavesana551. Oltre agli edifici, la comunità vendette anche i canali e i diritti sulle acque derivate dall’Arroscia a servizio dei mulini, per di più esenti da qualsiasi onere. Tra le condizioni di vendita fu espresso il divieto di non distruggere canali e chiuse, né effettuare deviazioni d’acqua o altre nuove opere capaci di danneggiare i mulini. La popolazione ortoverese poteva anzi essere obbligata ad eseguire i lavori di riparazione, se richiesta dal compratore. La comunità concordò L’inibitoria del Capitano di Pieve emanata contro Pietro Manfredo perché non si ingerisse nell’affare dell’acqua ebbe vita breve, grazie all’interessamento di tal Paolo Giordano, che convinse l’ufficiale a rimuoverla. Neppure l’intervento di uno dei Commissari del Magistrato delle Comunità (il nobile Francesco Zoagli) tornò a vantaggio della comunità vessalicese. Il collegio dei consoli infatti annoverava un suo parente, mentre gli altri erano suoi “adherenti”, ASGe, Magistrato delle Comunità, 166. 551 Cenni sulla presenza di mulini ad Ortovero in G. BARBARIA, Ortovero: una comunità ligure nella storia, Albenga, 1995. L’organizzazione del contado da parte del comune albenganese è tratta da J. COSTA RESTAGNO, Le villenove del territorio di Albenga, cit. 550 202 però il mantenimento di un uso civico per l’irrigazione dei campi, il cui esercizio era limitato ai giorni di sabato e domenica a partire da aprile fino ad ottobre. Il Magistrato delle Comunità approvò il contratto, rimettendo però al Senato la concessione della licenza per il trasferimento dei diritti sulle acque pubbliche, che fu verosimilmente concessa, considerato che nel 1687 l’alienazione fu richiamata come ormai perfezionata. In questo caso la riduzione del debito (abbattuto quasi interamente) fu perseguita tramite il trasferimento ad un privato di beni comunali, ma nel rispetto dei diritti di accesso alle risorse idriche per l’irrigazione. Dal punto di vista della tutela degli interessi collettivi all’utilizzo dell’acqua e degli impianti idraulici pubblici, il Magistrato adottò dunque una politica simile a quella seguita per l’alienazione di boschi e pascoli, cercando di contemperare due opposte esigenze: l’estinzione dei debiti e la conservazione di un adeguato patrimonio collettivo. Tale politica non escludeva a priori il trasferimento ai privati di quote dei beni comunali, ma tentava almeno di convogliarlo entro forme legali, mirando a tutelare le acque da appropriazioni massicce. L’azione delle magistrature centrali si configura quindi nei termini di un controllo in vista dell’equilibrato utilizzo delle risorse idriche, onde evitare effetti destabilizzanti sull’intero centro abitato, ma senza iniziative autonome di trasformazione del territorio e di ridefinizione della gerarchia dei diritti d’uso delle acque. L’efficacia dell’intervento del governo o del Magistrato appare strettamente legata alla capacità delle istituzioni locali di supportare la sua azione di mediazione. Per saggiare però più a fondo l’interazione tra governo e comunità nella gestione delle acque è opportuno prendere in esame due casi specifici in grado di allargare l’orizzonte dei problemi cui entrambi erano tenuti a far fronte. 2.c) Governare un fiume di confine: diritto e conflitti in riva al Magra La storia del fiume Magra si intreccia con quella dei soggetti che nell’arco del medioevo si disputarono il dominio della Lunigiana, soggetti a loro volta inseriti in relazioni politiche di ben più vasto respiro perché partecipi, ora come protagonisti, ora come comprimari, a partite diplomatiche che vedevano quali altri giocatori città come Firenze e Genova, l’Imperatore o la 203 Chiesa, feudatari come i Malaspina552. Il Magra e la sua fertile piana rappresentarono un elemento di spicco della base patrimoniale costruita tra X e XII secolo dai vescovi di Luni, che si assicurarono una serie di diritti di sfruttamento dei pascoli e delle acque fluviali. Contestuale fu l’organizzazione del territorio tra Magra e Vara, tramite la fondazione di borghi muniti di fortezze come Sarzana, Santo Stefano sulle rive del Magra, Caprigliola e Bolano in prossimità della confluenza tra i due fiumi, Falcinello, Ponzanello e Fosdinovo alle spalle di Sarzana stessa.553 Al volgere del secolo tuttavia l’incapacità dei vescovi di Luni nel rendere effettivamente cogente la loro giurisdizione sul territorio in presenza di altri soggetti (città o feudatari) sufficientemente organizzati e animati dagli stessi obiettivi, senza scendere a patti con i gruppi dirigenti dei borghi e dei castelli vassalli, determinò l’inizio delle fortune del più vitale e meglio posizionato borgo di Sarzana554. In un momento storico in cui si tornava a guardare con interesse alle zone costiere per la ritrovata vivacità dei traffici commerciali, il Magra era una via d’acqua troppo importante per la navigazione sia per la fluitazione del legname che dai colli interni veniva trasportato a valle. La crescita di Sarzana come centro politico ed economico di riferimento in concorrenza con (e poi al posto di) Luni era nell’ordine delle cose e lo spostamento della sede vescovile disposto da Innocenzo III nel 1203-04 formalizzò lo stato di fatto. L’affrancamento di Sarzana e dei borghi vicini dal potere vescovile e l’erosione del dominio episcopale ad opera dei Malaspina, dei Fieschi – e indirettamente del comune genovese – proseguirono tra alterne vicende fino all’inizio del Trecento. Ludovico il Bavaro con un diploma del 26 novembre 1328 concesse al comune di Sarzana da una parte la facoltà di «introytus ordinare, Parlando di Lunigiana, si fa riferimento ad una regione “marginale”, intendendo in tal modo un’area disomogenea territorialmente e posta ai margini fisici di entità politicamente più strutturate e definite (Lucchesia, Garfagnana, genovesato…), che nel suo periodo di massima espansione si estende da Framura nel Levante ligure a Piazza al Serchio in Garfagnana e in alta Versilia, comprendendo l’alta e bassa val di Magra e la val di Vara. Un territorio quindi geograficamente assai vario, andando litorale tosco-ligure alle anguste valli appenniniche, ma attraversato pure da fondamentali vie di comunicazione, come la Francigena e l’Aurelia, e valichi appenninici. Il principale fattore di omogeneizzazione politico-amministrativa sia stato rappresentato dalla diocesi di Luni. Su questi temi vedi R. RICCI, Poteri e territorio in Lunigiana storica (VII-XI secolo). Uomini, terra e poteri in una regione di confine, Spoleto, 2002, pp. 1-14 e la citata bibliografia. 553 Vedi R. RICCI, Poteri e territorio in Lunigiana storica, cit., pp. 156-188. Furono innalzati castelli anche a Ceperana, Vezzano, Trebiano, Ameglia, cfr. G. VOLPE, Toscana medievale. Massa marittima, Volterra, Sarzana, Firenze, 1964, pp. 324-334. 554 Nel 1163 Federico I aveva accolto i sarzanesi sotto il mantello protettivo dell’impero concedendo loro, tra l’altro, l’esenzione da qualsiasi pedaggio o dazio per l’attraversamento o l’uso del Magra e la conferma degli usi civici consuetudinari, diploma poi concesso nuovamente da Federico II nell’agosto 1226. Nel 1198, quindi pochi anni dopo la legittimazione del proprio comitatum, il vescovo Gualtiero cedette ai sarzanesi il diritto d’uso dei pascoli e dei boschi episcopali compresi tra la Magra e l’Avenza, i monti di Fosdinovo e il mare, in cambio dell’appoggio nella guerra contro i marchesi Obertenghi. Cfr. G. VOLPE, Toscana medievale, cit., pp. 368-386. I documenti sono contenuti in G. PISTARINO, II "Registrum vetus" del Comune di Sarzana, Sarzana, 1965, doc. nn. 1,2, 11. 552 204 facere et habere» ma soprattutto fissò la giurisdizione del districtus cittadino nel raggio di due miglia, dal mare fino al torrente Parmignola e al monte Caprione555. Il basso corso del Magra veniva così definitivamente attirato nella potestà amministrativa della città sarzanese, come gli statuti del 1330 provano platealmente556. La val di Magra restò una zona contesa fino alle guerre d’Italia: subentrata al Banco di San Giorgio nel 1562 nel governo diretto della bassa valle del Magra, la Repubblica si trovò a gestire un nutrito gruppo di comunità che da tempo avevano legato la loro prosperità al fiume. Un fiume che, dopo la confluenza del Vara nei pressi di Ceparana, si estende per circa 15 km fino al mare e che Genova controllava solo per la parte finale, costituendo per diversi tratti il confine naturale con le comunità ricadenti sotto la signoria toscana557. Alcune descrizioni del XVI secolo ci danno testimonianza di un corso pescoso e ricco d’acqua558. Quali furono i capisaldi del governo di Genova sul Magra? La maggior parte delle comunità della bassa valle erano dotate di statuti e vantavano convenzioni di soggezione con la Dominante che lasciavano loro come di consueto ampi margini di autonoma circa l’amministrazione dei propri beni. Inoltre il sistema di sfruttamento dell’acqua fluviale, in particolare per l’alimentazione dei numerosi mulini eretti lungo il corso, preesisteva abbondantemente alla signoria genovese559. Non furono quindi imposte unilateralmente riforme ma il governo, direttamente o attraverso i propri giusdicenti, mirò a raggiungere un equilibrato utilizzo dell’acqua tra tutte le comunità della valle ristabilendo i diritti violati. Trattandosi di una Sarzana aveva peraltro già ottenuto nel 1318 il diritto a riscuotere la saltarìa sulla stessa area in locazione dal vescovo di Luni Gherardino – in quel momento esiliato a Firenze – per 50 fiorini d’oro e una pensione annua di 12 denari imperiali. Il testo in G. PISTARINO, Il Registrum vetus, cit., doc. n. 38. Sull’espansione del comune di Genova in Lunigiana vedi anche R. PAVONI, Ameglia: i vescovi di Luni, i vicedomini, i Doria e il Comune di Genova, in Giornale storico della Lunigiana e del territorio lucense, n.s., XLIII-XLV (1992-1994), n. 1-4, pp. 11-170. 556 Editi da I. GIANFRANCESCHI, Gli statuti di Sarzana del 1330, Cuneo, 1965, vedi RSL, n. 947. Informazioni sugli statuti sarzanesi anche in A. ROCCATAGLIATA, I notai di Sarzana e i loro archivi (secc. XIII-XVIII), in Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Cappellini, LXXX (2010), pp. 225-287. 557 Cfr. F. BONATTI, M. RATTI, Sarzana, Genova, 1991, pp. 71-86; A. BERNARDINI, Alle origini dello “Stato” di San Giorgio in Lunigiana. Le prime acquisizioni territoriali della Casa nell’estremo Levante ligure (1476-1479), in Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Cappellini, LXXVIII (2008), pp. 133-155. 558 Così la «Descrizione della Liguria» (1543) di Giacomo Bracelli e Fabio Biondo: «Da la parte di levante vien questo porto a chiudersi in un capo, chiamato hora di Luna, presso al quale va giù nel mare Macra, piacevol fiume e pieno di pesci, e novissimo e celebre per dividere la Liguria da la Toscana», cfr. M. QUAINI (a cura di), La conoscenza, cit., p. 69. 559 Indubbiamente anche i campi coltivati a cereali, alberi da frutto e gli orti – che per prescrizione statutaria ogni abitante di Santo Stefano, Ponzano, Vezzano e altri centri era obbligato ad avere – attingevano alle ricche fonti idriche presenti in valle, ma senza raggiungere estensioni ragguardevoli. A parte ciò si può ritenere che la coltivazione del lino e della canapa, che richiedeva notevoli quantità d’acqua ed era praticata in altre località della Lunigiana toscana, fosse del tutto minoritaria in bassa val di Magra. A motivo dei lunghi periodi di macerazione, la coltura del lino peggiorava la salubrità dell’aria e la vivibilità delle zone di macerazione. Cenni su questo tema in I. LAZZERINI, Le comunità rurali della Lunigiana negli statuti dei secoli XII-XIV, Firenze, 2001, pp. 135-142. 555 205 zona di confine particolarmente delicata, Genova optò apertamente per una politica di basso profilo, diretta a difendere la giurisdizione territoriale e la pace tra le comunità governate, ma senza intraprendere iniziative degne di nota sul terreno delle opere di regimazione del fiume e della relativa ridefinizione dei diritti d’uso. È difficile datare con certezza l’avvio della diffusione del mulino idraulico in media e bassa val di Magra. La menzione dei mulini tra le concessioni fatte dall’Imperatore Ottone al vescovo di Luni Adalberto nel 963, essendo inserita in un più vasto elenco di possedimenti vescovili disseminati tra vari castra (Vezzano, Sarzana, Lerici, Ameglia per citarne alcuni) non permette di stilare elenchi precisi560. È ragionevole pensare che impianti di modeste dimensioni attecchirono senza pena in una terra abbondante di acque. La discontinuità del flusso dei torrenti che dalle colline scorrevano verso il Magra poteva però costituire un limite alla loro piena efficienza561. In ogni caso è evidente il ruolo di Sarzana come centro propulsore della gestione delle acque per le comunità della bassa valle. Risale al 1235 l’accordo sull’utilizzo dell’acqua del Magra con cui i santostefanesi ottennero, tra l’altro, la cittadinanza sarzanese. L’atto prevedeva la vendita da parte dei consoli di Santo Stefano di «medietatem pro indiviso prese aque et aqueductus et betalis et tereni, per quod ducitur ipsa aqua a flumine Macre, sicut intrat aqua predicta in betale suprascriptum, usque ad saltariam et foveam Veçanensium» in cambio di 15 lire imperiali e quattro macine, rinunciando a qualsivoglia futura rivendicazione o azione contro i sarzanesi. Le clausole sull’impiego dell’acqua riconoscevano un generale diritto dei rettori di Sarzana di servirsene a loro piacimento perché la quota spettava loro iure proprietario. Il prosieguo del contratto enunciava altresì l’obbligo delle parti di procedere alla costruzione di tre mulini sull’acquedotto derivato da Santo Stefano di cui sopra. La gestione consortile tra le due comunità toccava tutti gli aspetti dell’attività dell’impianto, dalla divisione delle acque al riparto delle spese per la costruzione e la manutenzione, agli utili562. M. LUPO GENTILE, Il regesto del Codice Pelavicino, Genova, 1912, doc. 18. Secondo Neri e Petacco la crescita numerica dei mulini è da ascrivere alla suddivisione del comitato episcopale e dei feudi malaspiniani in signorie e comuni più o meno indipendenti, fino all’affermazione degli Stati fiorentino e genovese. In questo lasso di circa quattro secoli, molte comunità si sarebbero dotate di un proprio edificio molitorio, di proprietà pubblica o privata, cfr. G. NERI, E. PETACCO, Arcola: termini di confine e mulini, Sarzana, 1993, pp. 19-24. Il paese di Caprio (alta val di Magra) disponeva ancora ad inizio Ottocento di 19 mulini, 4 frantoi e altri opifici idraulici alimentati dal torrente Caprio e altri minori. Si conservavano ancora i resti di due mulini a braccia, da secoli in disuso. Non è da escludere che anche in Lunigiana il mulino idraulico abbia sostituito quello a trazione umana, secondo l’ipotesi formulata da Bloch, E. REPETTI (a cura di), Dizionario geografico fisico storico della Toscana, contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana, Firenze, 1833, vol. I, pp. 471-472. 562 G. PISTARINO, Il Registrum vetus, cit., n. 30. 560 561 206 Una convenzione del 1237, oltre a ribadire la perpetuità della comunione di canali ed edifici, affermò il divieto di cessione di diritti o del possesso dei beni a terzi. Le complicate vicende storiche della civitas di Sarzana si ripercossero tuttavia anche nella gestione dei mulini comuni, poiché durante la dominazione pisana, nel 1317, Il Podestà decretò la vendita della quota dei redditi prodotti dai mulini di Piazza per un anno a tal Adorno Pasqualini di Sarzana, per il prezzo di 30 lire imperiali563. Dall’accordo fu invece escluso il castrum di Sarzanello564. Gli statuti di Sarzana, a cominciare da quelli del 1330 in avanti, da un lato riflettono fedelmente le trasformazioni occorse al sistema di gestione dei mulini nel secolo trascorso e dall’altro non ignorano l’opportunità di dettare precise disposizioni per la tutela delle fonti d’acqua e la manutenzione dei canali565. Nell’edizione del 1529 furono articolati meglio gli obblighi solidali dei consorti in occasione dei lavori di riparazione ordinari e straordinari. Il testo si fece carico anche assegnare a due uomini eletti ogni anno dal Capitano il compito di controllare i canali che portavano acqua al mulino della Porta, aggiuntosi ai tre consortili di Piazza. La costruzione di nuovi mulini rese probabilmente irrinunciabile la messa per iscritto di regole più precise sulla gestione e manutenzione delle condutture che servivano gli impianti566. Degna di nota è infine l’attenzione rivolta alle fosse usate per irrigare i numerosi orti e ai pozzi567. Registrum vetus, cit., n. 33. Lo stesso documento elenca anche gli obblighi e i diritti del gestore dei mulini quali l’obbligo di consegnare l’impianto intatto, l’onere di agevolare il trasporto dei grani per la macinatura, anche approntando una scuderia di asini e cavalli, la conservazione delle bilance e la quota di compenso dovutagli per la macinatura. 564 La crescita del borgo di Sarzanello portò i rettori del castrum ad agire contro i consoli di Sarzana per vedersi riconosciuta la quota di 1/3 dei redditi incassati dal comune ai sensi dell’atto del 1235 ma il lodo pronunciato dall’arbitro Franco da Trebiano respinse la domanda, confermando che tutti i diritti ed introiti spettavano «iure dominii seu quasi» alla sola universitas Sarçane, cfr. Registrum vetus, cit., n. 36. 565 La rubrica De molendinis de Pracia et fluminis Macre, preso atto della politica di affitto dei mulini, limitò il potere dispositivo del Comune, che poteva cedere ad un privato fino ad un massimo di tre anni solo l’usufrutto della propria metà, sancendo poi definitivamente gli obblighi dell’usufruttuario tramite l’inserimento nel testo statutario delle clausole dell’atto del 1317, cfr. I. GIANFRANCESCHI, Gli statuti di Sarzana, cit., pp. 70-71. Vedi anche gli statuti del 1529 in BCB, m.r.VIII.1.11, cc. 53-54, RSL, n. 950. 566 Il capitolo De molendinis reficiendis a consortibus del 1529 (più esaustivo rispetto all’edizione del Trecento) vietò espressamente atti pregiudizievoli per il buon funzionamento dei mulini, come la manomissione dei canali e delle alzate e l’interramento dei beudi. La condivisione dell’acqua tra più impianti era tutelata dalla proibizione di «extorquere acquam unum alterius, vel alterum alteri, ita quod non habeat cursum rectum versus dicta alia molendina» a pena di 40 lire genovesi, cfr., BCB, ibidem, cc. 50-51. 567 Responsabili del riattamento della fossa “de Aciliano” e del rivum Pilli erano appositi ufficiali eletti ogni anno dal Consiglio di Sarzana su iniziativa del Podestà/Capitano. Le spese per la realizzazione dei lavori del rivo erano divise tra coloro che si giovavano dell’acqua scorrente per il canale. All’inizio di agosto, il giusdicente doveva anche comandare pubblicamente la pulizia e la riparazione dei pozzi. I lavori erano a carico delle “vicinie” che fruivano dell’acqua e il magistrato doveva vigilare che non venissero realizzati edifici «super aliquo puteo Communis et super terreno putei Dominarum», a pena di ben 100 soldi imperiali, I. GIANFRANCESCHI, Gli statuti di Sarzana, cit., pp. 66-68. Sulla pesatura dei cereali e della farina ivi, p. 73. 563 207 Gli statuti della comunità di Santo Stefano vietarono la chiusura e la deviazione di ogni acquedotto, tanto pubblico quanto privato, punendo così ogni atto pregiudizievole non solo per l’ordinata convivenza ma che avrebbe disperso un bene prezioso568. Un capitolo assegnava poi al proprietario del fondo inferiore la “ragione” sulla fossa irrigua attraversante una proprietà altrui, in una rudimentale riproposizione dell’acquedotto coattivo569. I tre mulini posseduti da Santo Stefano e i due frantoi (i torchi “di sopra” e “di sotto”) venivano regolarmente messi all’incanto ogni anno insieme alle altre gabelle e beni comunali570. Il sistema così formato resse per secoli e attraversò le varie dominazioni che si alternarono tra Tre e Cinquecento. Assai più problematico si rivelò invece il rapporto tra la stessa Santo Stefano e la vicina Ponzano571. Qui a fronte di un problema analogo – la necessità della seconda comunità di alimentare i propri mulini con l’acqua presa sul territorio della prima – le due comunità furono incapaci di addivenire ad un compromesso, ma neppure l’intervento degli ufficiali genovesi giovò a ricomporre definitivamente la controversia, che si trascinò fino alla fine del Settecento. A metà Cinquecento, durante l’amministrazione del Banco di San Giorgio, i Protettori riconobbero con sentenza ai ponzanesi il diritto di derivare dai canali di Santo Stefano (detti di Rossiolano e Ceratello) e servirsene per l’irrigazione e per azionare le ruote dei mulini, senza dover intraprendere la costruzione di un nuovo canale direttamente dal Magra572. In coerenza con la pronuncia, gli statuti di Ponzano del 1586 introdussero la rubrica Del bedale del Mulino, assente nelle versioni precedenti, a tutela del nuovo acquedotto costruito per la derivazione dai canali di È il capitolo XXVI° del quarto libro degli statuti del 1565 in ASGe, Archivio segreto, 36, RSL, n. 941. Capitolo LXXXVII° degli statuti del 1533 in ASGe, Manoscritti, 667, RSL, n. 940. Vedi anche G. NERI, E. PETACCO, Tutela ambientale, diritto di famiglia, note di araldica comunale attraverso le carte delle comunità di Santo Stefano e Ponzano, Sarzana, 1992, pp. 29-30. 570 Dal censimento della comunità di S. Stefano del 1611 risulta che i tre mulini e un frantoio rendevano 184 lire annue, mentre il torchio “detto il canal del Rio” fruttava da solo 276 lire. L’elenco delle entrate cita anche una pigione pagata da tal Bertino Pasquinelli per un mulino privato (25 lire), ASGe, Magistrato delle Comunità, 835. La riforma degli statuti di Santo Stefano compilata dal Commissario di Sarzana Tommaso di Negro nel 1609 specificò che i conduttori dovevano lasciare alla comunità tutte le migliorie apportate ai mulini e ai torchi, ASGe, Archivio segreto,36. 571 Ponzano possedeva un grosso impianto in località Vencinella dotato di sei macine, azionate da un roteggio di sedici pale, unito ad un frantoio. La caratata di inizio Seicento censì in tutto tre torchi (rendita complessiva 734 lire) e un mulino (lire 50), ASGe, Magistrato delle comunità, 835. 572 I due canali segnavano il confine tra Ponzano e Santo Stefano. La sentenza concedeva agli uomini di Ponzano «facultatem, et ius aqueductum, et quandocumque ipsis placuerit, tam de die, quam de nocte ad eorum libitum accipere aquam, et bedalia, et bedale, et presam, et presas facere, factamque manutenere in dicta parte territorii assignata ut supra dicte universitati Sancti Stephani, tam in terris universitatis, quam etiam particularium hominum, et habitantium dicti loci, et dictam aquam ducere, et duci facere, per dicta bedalia, et presas faciendas ad molendina Pontiani absque aliquo impedimento, et prohibitione dictae universitatis Sancti Stephani, eius Potestatis et particularium». Si imponeva poi la costituzione della servitù di acquedotto a favore dei ponzanesi sui fondi privati di Santo Stefano, ASCSSM, Fondo Taddei, 3, doc. 99. 568 569 208 Santo Stefano573. Gli oneri della riparazione e pulizia dei canali di Rossiolano, Ribarbari e di Rendinette gravavano su ogni famiglia della comunità, che doveva delegare un proprio membro (maschio o femmina) a lavorare nei giorni individuati dal Parlamento574. Per indennizzare parzialmente i santostefanesi, un nuovo lodo pronunciato dal Commissario di Sarzana nel 1628 impose a Ponzano un canone di 80 lire all’anno per l’uso dell’acqua, che Santo Stefano avrebbe dovuto assicurare costantemente ma che, di fatto, negò a più riprese575. Fu invece del tutto fallimentare la decisione di costituire d’autorità un consorzio tra i mulini di Santo Stefano e di Ponzano assunta nel 1637 dal Commissario sarzanese Agapito Centurione: affittati con un'unica asta pubblica, i redditi degli edifici sarebbero stati divisi a metà tra le due comunità576. Oltre al danno economico – le entrate furono minori per entrambi i paesi – il decreto scontentò le parti anche per il modo con cui era stata emanato (in assenza dei sindaci di Ponzano) e per la sua inefficacia nel risolvere il problema dell’accesso alle fonti idriche577. Il consorzio fu sciolto solo nel 1670 in occasione di una nuova transazione, che cancellò anche il canone di 80 lire, mantenendo però in capo a Santo Stefano l’obbligo di assicurare il rifornimento idrico a Ponzano e a svolgere i lavori di manutenzione e difesa della presa e dei canali fino alla Vencinella578. 573 Le edizioni precedenti del 1543 e del 1573 (in ASGe, Senato Senarega, 1405, RSL, n. 769-770) citavano un’«aqua funtis de Chiarolo» azionante il mulino comunale tramite un acquedotto situato lungo una strada. Il nuovo articolo richiamava espressamente la realizzazione della nuova opera: «Perché si construì l’acqueduto, et bedale del Comune destinato alli molini et torchii si prohibisce che alcuno sotto la pena di lire 40 per volta ardisca di non fare, e cavar pietre di detto bedale», ASCSSM, Statuti Ponzano, c. 49. 574 La rubrica «Di provedersi alle acque» vietava anche la deviazione abusiva di solchi, fossi e canali, fissando le corrispettive pene, cfr. G. NERI, E. PETACCO, Tutela ambientale, cit., p. 93. 575 Nel 1629 i rettori di Ponzano si appellarono al Senato chiedendo il rispetto della transazione dell’anno prima. In dettaglio eccepirono che «questa transatione non è mai stata osservata da quelli di Santo Steffano, quali non solo non hanno concesso l’aqua né mandatala fra i detti cannali, né hanno fatto alcuna difesa per mantenerla a quelli di Ponzano, i quali hanno quattro mulini, in quali consiste la rendita maggior d’esso Commune». Il danno arrecato ai quattro opifici ponzanesi si ripercuoteva però anche sulla capacità fiscale della comunità, che sui redditi del mulino e dei frantoi fondava larghissima parte delle proprie entrate. Inoltre, a differenza dei mulini consortili di Piazza, su quello di Ponzano la comunità esercitava diritti bannali, ASCSSM, Fondo Taddei, 2. 576 Decisione citata in una delibera del 30 luglio in ASCSSM, Delibere Ponzano 1624-1639, c. 95 v. 577 La diffidenza verso la controparte portò il Parlamento di Santo Stefano ad approvare una proposta volta a vietare le sub-locazioni degli impianti comunali ai ponzanesi, ASCSSM, Delibere Santo Stefano 1631-1654, delibera del 29 settembre 1651. Comunicata la sentenza di Centurione al Parlamento di Ponzano, i consiglieri fecero notare che la decisione «resta molto dannosa a detta Comunità, et huomini […] massime che si vede che la presente Comunità non è stata citata, né chiamata», ASCSSM, Delibere Ponzano 1624-1639, c. 95 v. 578 Copia dell’atto in ASCSSM, Libro dei decreti della comunità di Santo Stefano. Il quarto articolo del compromesso, al centro delle dispute successive, disponeva: «Che tre volte l’anno siano obbligati quei di S. Steffano levare per sei giorni continui l’aqua, acciò quei di Ponzano possino nettare i loro bedali, al tutto però sempre, nel tempo più congruo, e commodo alla communità, a giudizio del soddetto Ill.mo Signor Commissario, e che altante volte, se quelli di S. Steffano haveranno bisogno d’impedire l’aqua per nettare i bedali, a loro commodo, ne loro bisogni, li sia lecito il farlo con darne aviso a molinari di Ponzano, e prendere licenza dall’Ill.mo Signor Commissario, al quale sia sempre lecito il poter permettere, che si chiudino in un caso impensato». 209 La fine del consorzio tra Santo Stefano e Ponzano incontrò dunque il favore delle stesse comunità. Le circostanze che determinarono il fallimento furono principalmente due. La prima, di ordine tecnico, consisteva nell’onere della riparazione di canali e chiuse condivisi, che la transazione del 1670 addossò interamente a Santo Stefano, senza che Ponzano fosse tenuta a contribuire in alcuna misura alle spese. I santostefanesi dovevano scongiurare ingorghi lungo i canali capaci di danneggiare i mulini di Piazza, ma come fu eccepito durante il processo nel secondo Settecento i costi di manutenzione complessiva dell’intera rete non potevano ricadere su una sola comunità, vuoi perché così facendo si derogava in peius al diritto comune, vuoi perché la turbolenza del Magra rendeva i lavori troppo frequenti ed onerosi579. La seconda criticità consistette proprio nella stessa propensione del fiume ad esondare, danneggiando le strutture di conduzione dell’acqua, danni che si riverberavano indirettamente sull’operatività dei mulini di Ponzano. I ponzanesi si lamentarono più volte per l’insufficienza del livello di acqua corrente rispetto a quanto richiesto, ma dalle testimonianze raccolte dal Commissario di Sarzana nel 1630 si comprende che per gli uomini di Santo Stefano la condivisione dell’acqua tra le due comunità era un fatto consolidato nel tempo e incontestabile. Tuttavia solo i santostefanesi dovevano fronteggiare le disastrose piene del Magra e la rottura delle chiuse a scopo preventivo si rendeva necessaria per impedire danni più gravi580. Invece di accusare la comunità vicina, sostenevano i santostefanesi, Ponzano avrebbe potuto servirsi della fonte sita nel proprio territorio come forza idraulica quando il canale di Rossiolano si prosciugava. Tensioni e liti coinvolsero anche le comunità confinanti ricadenti sotto la giurisdizione toscana. Anche in questo caso furono le comunità a stipulare specifiche convenzioni per l’uso delle risorse idriche. Una particolarmente importante fu conclusa nel 1539 tra Santo Stefano e i borghi Dal 1759 alla fine degli anni Sessanta del secolo si svolse un ulteriore contenzioso tra Ponzano e Santo Stefano davanti al Magistrato delle Comunità per la chiusura dei canali e la loro pulizia. L’avvocato di Santo Stefano a proposito dall’iniquità degli oneri scrisse: «L’obbligo di tirare l’acqua della Magra all’imboccatura dell’alveo per i sghiari, e ripari, che convien fare nel letto d’un fiume vario di sua natura nel corso, e rapido, che frequentemente dall’ottobre infino a maggio ingrossa, devastando ogni riparo; un anno per l’altro non importa minor spesa di 400 o 500 lire. Tutto questo peso si pose a carico della Comunità di S. Stefano, e la Comunità di Ponzano, cui vien comunicata l’acqua per uso dei di lei molini, si rese esente da qualunque onere; e pure ogni buon principio di ragione persuade, che siccome ella ne sente egual vantaggio, debba essere pure a parte di tali spese», G. VENTURINI, Ingiustizia delle eccezioni date dalla magnifica Comunità di Ponzano alla transazione fatta dal M. Michelangelo Ferro nelle controversie vertenti tra la magnifica Comunità di S. Stefano, e detta M. Comunità di Ponzano, Genova, per Casamara dalle Cinque Lampadi, 1768, p. 10. 580 Il teste Antonio Ferrari dichiara che «i molini di Ponzano, hanno più acqua che li nostri di San Steffano, essendo che vi nasce una polla, o sia acqua viva, che non hanno li molini di San Steffano». Battista Tarrella spiega che da moltissimo tempo l’acqua del canale Ceretiello scorre fino alla Vencinella e ai mulini di Ponzano, in misura sufficiente per tre mulini. «Ma quado la chiusa si rompe, perché la Magra vien grossa, bisogna havere patienza, e rompere anco il bedale a San Steffano» 579 210 di Albiano e Caprigliola in forza della quale il borgo ligure godeva del diritto di derivare l’acqua dal Magra entro i confini di Caprigliola, in cambio di un corrispettivo per la macinatura dei grani pari a quello imposto agli originari di Santo Stefano. Per più di ottant’anni l’accordo fu rispettato, consentendo all’insediamento genovese di reperire l’acqua anche quando il fiume deviava dal suo corso solito. Lungo gli anni Venti del Seicento gli uomini di Albiano violarono ripetutamente la convenzione per favorire gli interessi di alcuni privati. Nel 1622 l’appaltatore albianese della pesca nel Magra interruppe con barriere il corso dell’acqua per favorire la propria attività. Nel 1625, complice una nuova deviazione del fiume che lo fece allontanare dai limiti di Santo Stefano, i mulini del borgo ligure rimasero nuovamente a secco. Quattro anni dopo alcuni membri della famiglia Corbani, importanti proprietari di fondi lungo il Magra che ambivano ad acquistare il possesso di alcune zone della ghiara liberate dal fiume cercarono di scoraggiare i mugnai dal ripristinare gli acquedotti. I Corbani erano abbastanza influenti da manovrare i consoli locali e godevano di appoggi anche presso il Magistrato dei Nove a Firenze, al quale chiesero di non ottemperare agli obblighi scaturenti dall’atto del 1539. L’episodio portò con sé altre scaramucce tipiche delle liti confinarie (semina abusiva, rimozione di termini divisori) ma l’opposizione dei Corbani volta a rimuovere la servitù coattiva gravante sui loro terreni fu in ultima analisi vincente: la comunità di Albiano si associò alle loro proteste, mentre il Senato genovese per appianare la controversia si rivolse direttamente all’ufficio dei Nove, esortando il Commissario sarzanese a contenere le rappresaglie. A Santo Stefano non rimase altro che dichiarare tamquam non esset la convenzione sull’uso delle acque nel 1632. Molteplici furono dunque i conflitti appropriativi legati all’acqua del Magra che coinvolsero le comunità della bassa vallata. Sotto il profilo normativo, statuti, delibere dei consigli locali e consuetudini formatesi nel tempo furono le fonti principali circa l’uso del fiume e, più in generale, le fonti con cui si provvide alla tutela ecologica dell’area fluviale. A questi si affiancarono nel corso del tempo gli accordi (convenzioni, sentenze) con cui le comunità pattuirono forme e limiti d’esercizio dei rispettivi diritti collettivi. Tra i diritti d’uso è evidente la supremazia dell’alimentazione degli edifici idraulici. Essa rispecchiava il regime di debole irreggimentazione 211 delle acque del Magra seguito ancora per tutta l’età moderna. Il principale mezzo di contrasto risiedeva nella difesa naturale offerta dalla vegetazione delle “macchie” del Magra581. Se l’obiettivo della gestione collettiva dell’acqua del Magra fu quello di offrire ai principali utenti il bene scarso di cui abbisognavano, si può dire che il risultato fu complessivamente raggiunto. Il governo svolse le consuete funzioni di mediatore e mirò a difendere l’accesso delle comunità ad un fiume quanto mai “mobile”, senza ingerirsi però nelle forme di impiego dello stesso. Il governo rifiutò il ruolo di regista di un’opera di sistemazione fluviale di ampia portata, anche di fronte alla proposta del nobile Matteo De Franchi di deviare artificialmente il corso Magra poco più a valle della confluenza col Vara, avanzata al Senato nel 1640. Se attuata, la piana sarzanese ne avrebbe sicuramente giovato in termini di maggiore produttività agricola: oltre ai terreni recuperati al fiume, quelli golenali non avrebbero più vissuto sotto la spada di Damocle delle alluvioni. Sarebbe allora stata realizzabile una più razionale dislocazione di mulini e altri impianti idraulici e una rivisitazione dei diritti d’utilizzo pubblici e privati582. 2.d) Una fertile pianura dall’aria malsana: la fallimentare gestione delle acque ad Albenga 581 La mechia del Magra comprendeva tutti i terreni boschivi e agricoli situati tra la confluenza del Magra col Vara e la foce e serviva dunque i centri abitati posti sia ad oriente che ad occidente del fiume. La difesa della vegetazione che rafforzava gli argini e riduceva l’impeto delle piene fu al centro dei bandi campestri approvati tra XVI e XVIII secolo dalle comunità del Magra. Nella seconda metà del Settecento il noto medico e naturalista Giovanni Targioni Tozzetti ricordava le «varie folte, macchie, e salciaie, che frenavano l’impeto del fiume, e l’obbligavano a gettarsi tutto dalla parte del promontorio Lunense, e bagnare le radici sassose del medesimo monte, senza nuocere alle terre coltivate», destinatarie di una delibera di tutela del comune sarzanese già nel 1460, che non fermò per il disboscamento, cfr. G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali, e gli antichi monumenti di essa, t. X, Firenze, per Gaetano Cambiagi stampatore Granducale, 1777, pp. 314-324, in particolare p. 323. Le inondazioni e gli spostamenti dell’alveo indussero le comunità della bassa valle ad istituire un procedimento pubblico di verifica dei titoli possessori e di riassegnazione ai proprietari dei fondi liberati dall’acqua chiamato rilevaglia. A partire dagli statuti di Sarzana del 1330 e poi a seguire Vezzano, Ponzano e Santo Stefano, alcuni ufficiali (“rellevatori”) eletti dai locali Parlamenti e sotto il controllo del giusdicente ricevevano la rivendicazione degli appezzamenti da parte dei privati, visitavano i luoghi e valutavano le prove documentali o testimoniali prodotte. All’esito del procedimento le terre rivendicate, se il possesso era stato provato, erano iscritte in un registro e copia dell’atto di assegnazione era consegnata al proprietario. Viceversa se la prova non era raggiunta, oppure il proprietario risultava irreperibile, i fondi erano attribuiti al comune. Sulle dispute giurisdizionali per il controllo della piana vedi ad es. D. VENERUSO, Contributi per la storia amministrativa di Vezzano dal tramonto della Repubblica di Genova all’inizio dell’età liberale (1797-1848), in AA.VV. Studi vezzanesi, Cuneo, 1970, pp. 61-76. 582 Per quanto invitante sotto il profilo strategico – sul golfo della Spezia aveva manifestato qualche mira la Spagna ad inizio Seicento e l’interramento l’avrebbe reso meno appetibile – il timore di un eccessivo impaludamento della piana e le opposizioni delle comunità della bassa valle indussero il governo a rinunciare. Di opere per la difesa dal fiume si continuò però a parlare ancora fino agli estremi anni di vita della Repubblica, e anche dopo, durante la dominazione francese, fino alla costituzione dei primi consorzi di canalizzazione del bacino del Magra in pieno Ottocento. Vedi U. MAZZINI, Il progetto genovese di scaricare la Magra nel Golfo, in «Memorie dell’Accademia Lunigianese G. Cappellini», II, 1920, pp. 17-32; M. QUAINI, Viaggiatori, vedutisti e cartografi nel Golfo della Spezia e in Lunigiana, in M. QUAINI (a cura di), Carte e cartografi in Liguria, Genova, 1991, pp. 219-231. 212 Tra i fiumi più considerevoli per lunghezza e importanza per il sostegno all’agricoltura vi era il Centa, croce e delizia della piana di Albenga, originante dalla confluenza del torrente Neva nell’Arroscia 4 km circa prima della foce. Esso spiccava tra i corsi d’acqua del medio ponente ligure per le piene devastanti. Se le comunità del distretto sarzanese dovettero fronteggiare le irruente inondazioni del Magra, uscendone non troppo compromesse, diversamente la mancata irreggimentazione del Centa contribuì in modo decisivo al declino demografico e politico di Albenga a partire dal tardo medioevo, imponendo anche trasformazioni economiche i cui effetti perdurarono almeno fino al XIX secolo583. Sotto il profilo idrografico, la pianura albenganese era solcata dal Centa e da altri rivi secondari (Carenda, Antoniano, Remerdaro, Allavena i principali) e da una rete di canali e fossati artificiali che crebbe dal XII al XVI secolo, segnandone indelebilmente l’aspetto. Croniche e spesso catastrofiche le alluvioni: tra 1252 e 1254 il Centa mutò addirittura letto, invadendo e occupando stabilmente quello che era probabilmente solo un importante canale artificiale utilizzato dai cuoiai cittadini. Le inondazioni proseguirono anche nei secoli successivi, distruggendo ponti, danneggiando i campi coltivati e i mulini che nel frattempo erano stati costruiti e in qualche caso le mura stesse della città. Anche gli affluenti del Centa furono interessati da eventi simili584. Gli sforzi del comune furono notevoli ma il carattere seriale delle esondazioni rese sterili i lavori di prevenzione e ripristino dei danni eseguiti di volta in volta. Aderenti alle priorità imposte dalla natura, gli statuti del 1288 si occuparono soprattutto di mettere nero su bianco lil dovere per il Comune di effettuare la manutenzione dei canali e dei corsi d’acqua. Altri obblighi gravavano sui privati, come stabilito per il controllo del Neva a carico degli uomini di Bastia e Leca o per la pulizia dei canali dei mulini, le cui spese erano addebitate ai titolari dell’impianto585. L’esigenza di preservare fondi ed edifici dalla furia delle piene non venne mai meno ed anche la redazione Cfr. G. BALBIS, L’agricoltura in Albenga nel XV secolo, in Clio, X/1 (1974), pp. 121-158. Vedi L. DE BARTOLOMEIS, Oro-idrografia dell’Italia, cit., pp. 205-206. All’incirca a metà del XIII secolo il torrente Arroscia mutò alveo spostandosi dal meridione all’attuale corso a nord-ovest del centro abitato: il nuovo ramo di fiume fu chiamato Centa. A fine Trecento strariparono l’Arroscia e il Neva. Ancora il Neva tra il 1408 e il 1410 danneggiò le mura del borgo di Cisano, mentre l’ampia alluvione del 1656 che toccò tutta la piana portò l’Arroscia ad invadere il letto del rio Remerdaro, rimanendovi alcuni anni. Come è stato rilevato, già gli statuti del 1288 giustappongono disposizioni riferite al vecchio Arocia prima della deviazione ad altre rivolte al Centa, più vicino al borgo, cfr. V. ZUCCHI, Topografia storica della piana di Albenga nel medio evo, in Rivista Ingauna e Intemelia, n.1-4, 1938, pp. 18-53, cfr. gli statuti del 1288 RSL, n. 20, p. 108, nota 93; M. QUAINI, Matteo Vinzoni e l’ingegneria idraulica: il caso del Centa, in «Rivista Ingauna e Intemelia», 52-53 (1997-1998), pp. 113-119. 585 Sono dedicati alla manutenzione dei canali i capitoli 86 (De alveo Arocie et Neve determinando), 87 (De non faciendo edificio in alveo Arocie et removendo quod ibi factum est vel plantatum) e 88 (De driçando Nevam) degli statuti del 1288. 583 584 213 statutaria del 1350 ribadì, con qualche aggiunta, la preminenza della cura idrologica del territorio586. Il Quattrocento si chiudeva con una città in condizioni sempre più gravi: i due secoli appena passati non avevano solo impegnato le casse pubbliche per i lavori di riparazione, ma avevano anche provocato un’estensione delle zone paludose nei dintorni del borgo cittadino. Le colture ortive lasciarono quindi posto alla lavorazione del lino e soprattutto della canapa, mentre nelle zone collinari più distanti si avviava una decisa coltivazione di uliveti e viti. Nel frattempo si era anche diffusa intorno al borgo e nel contado la presenza di mulini, che insieme alle concerie di pelli fruivano del reticolato di canali e «bedali». All’inizio dell’età moderna tuttavia non risultano attivi impianti di proprietà pubblica587. La riforma statutaria del 1519 apportò alcune novità, mettendo in luce i caratteri ormai emergenziali della situazione idro-geologica della città e il contestuale tentativo di un gruppo ormai consolidato di possidenti di imporre all’intera comunità delle contromisure normative in difesa delle coltivazioni. Si segnalano soprattutto tre articoli. Il De defendendis possessionibus a flumine Cente et aliorum fluminum assegnò al consiglio di Albenga il compito di eleggere una commissione composta da un numero variabile di membri (da quattro a otto) che esaminasse lo stato dei fondi danneggiati dopo un’alluvione e imponesse coattivamente il finanziamento delle opere di riparazione delle difese. A questa si aggiunse l’istituzione del Magistrato dei Pubblici, competente per la rimozione degli impedimenti alle strade pubbliche e la pulizia del canale de Pratis, che dovevano difendere anche dagli scarichi inquinanti dei canapai588. La creazione di questo collegio con competenze miste palesò la latente, ma ormai innegabile, dissonanza tra gli interessi dei lavoratori della canapa con quelli di altri settori della società locale: il trattenimento dell’acqua per i maceratoi e lo scavo di una quantità di fossi privi di Gli statuti del 1350 introdussero una nuova rubrica in materia di rotture dei canali dei mulini a causa di inondazioni, disciplinando gli eventuali trasferimenti di proprietà dei fondi per la costruzione dei nuovi canali, RSL, n. 21; P. ACCAME, Statuti antichi di Albenga (1288-1350), Finalborgo, 1901, pp. 302-303. 587 Cfr. J. COSTA RESTAGNO, Albenga, Genova, 1985, p. 37. La medesima studiosa ha rilevato che anche per Albenga si può constatare che i primi mulini idraulici furono costruiti per iniziativa di enti ecclesiastici (episcopato, monastero dell’isola Gallinaria) o di signori, soppiantati poi dal Comune intorno alla metà del XII secolo. La proprietà pubblica di alcuni molendina tuttavia non durò più di un paio di secoli, cfr. J. COSTA RESTAGNO, I mulini di Albenga e l'antico assetto delle acque nei dintorni della città, in Ligures, 3 (2005), pp. 166-176. L’inchiesta dei primi del Seicento non registra più alcun mulino in possesso della comunità, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 277. 588 La pulizia di fossi e canali era funzionale alla difesa dell’integrità delle strade adiacenti o confinanti con gli stessi. La macerazione o lo scarico delle acque inquinate dalla lavorazione delle canape nel canale era vietata e la denuncia degli illeciti era formulabile da chiunque, con la possibilità di incassare metà della sanzione, cfr. gli statuti del 1519, comprensivi delle riforme apportate nel 1608 in CSBG, 93.4.32, (RSL, n. 57), cc. 27 v. – 30. 586 214 sbocco sui rivi o sui canali principali concorreva all’impaludamento della piana e amplificava gli effetti delle inondazioni. Il pregiudizio recato ad alcuni operatori (mugnai, coltivatori) e alla salubrità dell’aria dell’intera città fu al centro di numerose discussioni del Consiglio albenganese e oggetto di lettere inviate dai Consoli al Senato genovese589. Va osservato che solo la portata dannosa delle inondazioni accomuna questo caso con quello del Magra. Diversi sono gli altri caratteri che più rilevano per la gestione del fiume: il Centa non era un fiume di confine e la disciplina del suo impiego era tradizionalmente rimessa agli statuti, più che a patti esterni, con il Comune che era titolare anche del potere di concedere le licenze di derivazione. Detta disciplina si era però rivelata inadeguata con il trascorrere dei decenni e l’inarrestabile peggioramento delle condizioni idrogeologiche, ma la comunità appariva incapace di raggiungere una soluzione coerente tanto sul piano ingegneristico che su quello giuridico. A farsi carico del compito di dettare una riforma più organica fu dunque il governo, con l’invio di due Commissari ad Albenga (Lorenzo De Fornari e Gregorio Molassana) rispettivamente nel 1552 e il 1587-88 che emanarono alcuni decreti inseriti poi negli statuti590. Il primo decreto consiste in undici articoli volti a regolamentare con maggiore precisione i modi e i limiti dell’irrigazione e della lavorazione della canapa rispetto a quanto già disposto dagli statuti, in modo da renderla compatibile con gli altri usi e tutelare la salute pubblica591. Furono così individuati i luoghi ove era ammessa la macerazione, tutto l’anno o solo durante l’estate, imponendo pene severe (pecuniaria e di bando) ai trasgressori. Agli sciaiguatori appartenenti ad alcune tra le più importanti famiglie cittadine (D’Aste, Ricci, Scotto, Costa) fu concessa l’autorizzazione direttamente dal De Fornari. Tra le misure volte a migliorare le condizioni della rete idraulica si segnalano l’obbligo di scavare fossi che permettessero lo scorrimento delle acque verso i rivi o i canali principali, la pulizia dei fossati di Lusignano e San Fedele e il riconoscimento del diritto dei mugnai delle due stesse ville di proibire la deviazione dei canali alimentanti i mulini per l’irrigazione delle canape592. Cfr. J. COSTA RESTAGNO, Il territorio di Albenga: quattro secoli di cartografia, in M. QUAINI (a cura di), Carte e cartografi, cit., pp. 119-131. La macerazione della canapa avveniva da luglio a ottobre e richiedeva preferibilmente grandi quantità d’acqua per ottimizzare il processo. Una volta terminata, l’acqua de-ossigenata doveva essere scaricata e le canape lavate e poi messe ad essiccare, cfr. F. GERA (a cura di), Nuovo dizionario universale di agricoltura, vol. XIV, Venezia, 1841, voce Macerazione, pp. 723-728. 590 ASCA, Statuti, 15, RSL, n. 28. 591 Vedi la rubrica De xeiguando canapum negli statuti del 1519 in ASCA, Statuti, 15, c. 37. 592 ASCA, Archivio D’Aste, 45. 589 215 Nel 1587 il Commissario Molassana emanò un primo, succinto provvedimento in agosto, nuovamente rivolto ai canapai di San Fedele e Lusignano per integrare e correggere in parte gli ordini del predecessore in vista della tutela della salubrità dell’aria. Lo scarico delle acque dai maceratoi doveva avvenire lo stesso giorno e dovevano essere convogliate nella ghiara del Centa o disperse per i terreni, in modo da facilitarne l’assorbimento593. Molassana fu anche il primo a stabilire una quantità massima di acqua di cui ciascun canapaio poteva servirsi per la macerazione, obbligando quelli di San Fedele e Lusignano a condividere la risorsa senza inquinarla a danno dei vicini594. Il testo più importante fu però il decreto del 15 ottobre 1588, quando Molassana intervenne su due fronti. Da un lato, ribadì l’efficacia del decreto di De Fornari, proclamando nuovamente il divieto di sciacquare le canape nei luoghi non consentiti e di inquinare i canali dei mulini. Per altro verso, considerati gli ulteriori eventi alluvionali, creò ex novo il magistrato degli Ufficiali alle acque, un organo collegiale essenzialmente preposto alla vigilanza sulle acque, alla costruzione o riparazione degli argini e all’esecuzione degli ordini sui canapai595. In particolare per quanto riguardava l’approntamento degli argini, Molassana stigmatizzava indirettamente le croniche difficoltà dei rettori cittadini nel riscuotere le tasse imposte per la loro costruzione dagli aventi interesse, ragion per cui gli ufficiali furono muniti di maggiori poteri596. Gli eletti dovevano anche ispezionare periodicamente il letto e la ghiara del Centa, oltre agli altri tratti di rivi o canali segnalati alla loro attenzione, per rimuovere tutto ciò che poteva impedire all’acqua di scorrere liberamente (vegetazione, detriti, manufatti). Fu dunque grazie all’interessamento degli inviati governativi che la normativa sulle acque di Albenga fu profondamente rivisitata. Il combinato disposto dei decreti di De Fornari e Molassana ridisegnò l’idrografia della piana e dei diritti d’uso delle acque per i canapai e i mugnai, cercando di contemperare le esigenze della salute con gli interessi economici di un settore tra i più redditizi La prassi comunemente seguita consisteva invece nel trattenere le acque stagnanti, che la sola evaporazione indotta dalle temperature estive non era in grado di smaltire. 594 ASCA, Archivio D’Aste, 45. 595 Gli Ufficiali si componevano di due collegi di quattro persone, uno per il ponente della piana e uno per il levante. Eletti a gennaio dal Consiglio generale di Albenga, restavano in carica un anno e disponevano della stessa autorità giurisdizionale del Commissario per quanto riguardava l’emanazione di ordini e l’imposizione di pene, ASGe, Giunta dei confini, 108. 596 L’articolo 8 dichiarava apertamente che «la special caosa della rovina di questo paese procede dalla difficultà, che si ha in essiger esse tasse e nell’abusi di farle quando a un modo, e quando a un altro». Per aggirare le contestazioni che impedivano l’avvio dei lavori, Molassana conferì l’autorità commissariale agli Ufficiali di imporre i tributi e riscuotere coattivamente le somme presso i debitori, ASGe, Giunta dei confini, 108. 593 216 della città597. L’istituzione degli ufficiali e la limitazione della lavorazione di canapa e lino a ben precise località del contado non diedero però i risultati sperati, al punto che nella seconda metà del XVIII secolo la situazione era immutata, se non peggiorata. Quali le cause del fallimento nella gestione delle acque albenganesi? Un primo elemento consiste nel fatto che gli ufficiali alle acque non riuscirono a raggiungere tutti gli scopi istituzionali fissati dai decreti. Le fonti pervenuteci raccontano di due collegi perlopiù impegnati nel riparare gli argini distrutti dalle piene, o nella costruzione di nuove palizzate a protezione dei prati e dei campi disseminati nel contado. Le denunce dei proprietari e le iniziative d’ufficio avviavano un procedimento di verifica dello stato dei luoghi, cui seguiva la proposizione di un progetto con la relativa stima delle spese da imputare ai proprietari frontisti. Si trattò quindi di un’attività prevalentemente manutentiva, senza spunti di risistemazione idraulica di più vasta portata e non priva di ostacoli nella riscossione della “tassa sulle acque”598. La diffusa trascuratezza nella cura dell’ambiente fluviale non poteva essere sanata dai soli ufficiali, perché alcuni fattori che aumentavano il rischio delle alluvioni erano riconducibili all’abbandono di antiche pratiche ecologiche. Ad esempio fu più volte ricordato tra il Cinque e il Seicento che l’eccessivo innalzamento del letto del Centa sarebbe stato evitabile qualora si fosse ripristinato l’uso di ararlo, dissodando e rimuovendo parte del sedime per abbassare l’altezza dell’alveo e facilitare lo scorrimento. Inoltre gli ufficiali dovettero procedere spesso contro coloro che estendevano le superfici coltivate occupando l’alveo, favoriti in ciò dai lunghi periodi di secca del Centa e degli altri corsi. Oltre all’occupazione di un bene pubblico, tale pratica non agevolava per ovvi motivi la realizzazione di arginature stabili599. Come riferisce il Mangini «Solo di canepa da fabricare le funi per navigli cava ogn’anno 740 scudi» cfr. M. QUAINI (a cura di), Conoscenza, cit., p. 157. 598 Alcuni procedimenti di verifica dei danni e di riparazione o costruzione degli argini per la protezione dei campi privati in ASCA, Magistrati diversi, 708, 709, 710. A fine Seicento Gio. Antonio Aschero rifiutò di pagare la tassa dell’acqua perché le sue terre erano prese a livello. La scarna documentazione rimasta non permette però di effettuare una valutazione statistica sull’incidenza delle opposizioni alla tassa. Nel 1691 il Senato fu poi informato da Bartolomeo Riccio che, nonostante l’elezione degli Ufficiali «mancano bene la maggior parte di quelli li compongono non solo di spontaneamente essercire il loro ufficio, ma ancora di non congregarsi alle chiamate», sebbene la rottura degli argini di un canale tra San Fedele e Lusignano richiedesse un intervento di riparazione. Il governo affidò allora al Commissario giusdicente di Albenga il compito di visitare il luogo e ripartire tra gli interessati la tassa, ASCA, Magistrati diversi, 710. 599 Nel 1758 gli Ufficiali intervennero per alcune riparazioni agli argini della Carenda. Nel corso della visita, oltre a rilevare che molti proprietari avevano di loro iniziativa praticato aperture negli argini, ordinarono che i frontisti ripulissero l’alveo del fiume «con doversi anche tagliare, ossia smorrare parte delle ripe delle terre, che occupano, e rendono stretto detto alveo». L’estensione dei fondi nelle aree golenali era abbastanza frequente, stando anche alla relazione di Francesco da Nove, ASCA, Magistrati diversi, 709. Sulla relazione vedi anche V. ZUCCHI, Topografia storica, cit. 597 217 Anche l’attività dei canapai stentò ad essere ricondotta alle norme dei decreti e diede quindi luogo a conflitti con i proprietari dei mulini per l’appropriazione dell’acqua. Teoricamente gli ufficiali avrebbero dovuto vigilare anche su questo aspetto, ma dagli atti di alcuni processi celebrati nel corso del XVII secolo si evince che le prescrizioni di De Fornari e Molassana furono spesso disattese dagli interessati600. Alcune controversie emblematiche originarono a Bastia. Un processo si svolse nel 1608 davanti alla corte podestarile di Albenga tra un gruppo di notabili proprietari di frantoi e mulini di Bastia e Cisano (Alessandro Costa, Gregorio D’Aste, Giobatta Bossano) e alcuni «sciaiguatori» di canapa, tra cui figuravano cognomi altrettanto di spicco (Giovanni e Guglielmo Trincheri, Antonio Vio, Giobatta Bruno), accusati di aver deviato le acque verso i loro campi601. Dal sopralluogo condotto durante l’istruttoria emerse l’alto numero di fondi irrigati grazie all’acqua sottratta dal canale, impresa facilitata dalla fitta rete di fossi minori che attraversava la piana. Il processo, svoltosi secondo le forme del rito possessorio, si concluse con la dichiarazione di manutenzione nel possesso degli attori. Nel 1665 furono i Sindacatori della riviera di Ponente a comporre una nuova lite tra Gio. Antonio Peloso, proprietario di mulini e frantoi a Bastia, e i canapai per l’utilizzo dell’acqua in uscita dalle ruote. Nel caso di specie la deviazione verso i campi danneggiava i mulini di Leca, posti più a valle, e la decisione contemperò le diverse esigenze introducendo la turnazione a giorni alterni, già contemplata dagli statuti di Albenga602. Durante il Settecento non furono introdotte riforme amministrative volte a semplificare l’intreccio di attribuzioni in materia di acque tra le magistrature cittadine, né a rivedere la disciplina sostanziale, sebbene le esondazioni del Centa e l’avanzamento degli acquitrini non avessero cessato di affliggere Albenga603. Era però abbastanza chiaro che difficilmente la comunità sarebbe riuscita a darsi autonomamente norme nuove, per il peso politico dei soggetti interessati Non giovò a tal proposito la concorrente competenza giurisdizionale del Podestà (sancita dal decreto De Fornari) e degli ufficiali (istituiti da Molassana) per quanto riguardava gli illeciti commessi dai canapai ai danni degli acquedotti dei mulini. Ricadeva senz’altro tra le cure degli ufficiali la repressione delle immissioni di acque inquinate nei «beudi», mentre per altre fattispecie la competenza rimaneva al Podestà, come giudice civile o criminale a seconda della specifica natura dell’illecito. 601 In termini espliciti i canali dei mulini erano stati danneggiati da «certi sciaquatori de canapi, che hanno fatto presso detta bearera in luoghi prohibiti dagli ordini fatti da M. Illustrissimi Signori Commissari del Serenissimo Senato, prendendo l’aque sudette, e conducendole a detti sciaiguatori con rompere il canale, e ripe, e ciuze di dette bearere, dal che restano dannificati in detti loro molini, che per mancamento di aque non possono più macinare», ASCA, Archivio D’Aste, 45. 602 La sentenza, riconoscendo il diritto dei particolari di Bastia di servirsi dell’acqua per l’irrigazione nei giorni di mercoledì e domenica, proibì però allo stesso tempo la costruzione di nuovi mulini. La sentenza fissò anche la quantità massima d’acqua che i canapai potevano utilizzare nei giorni stabiliti, ASCA, Archivio D’Aste, 45. 603 Negli anni ’70 del secolo si consumò anzi un conflitto tra il Magistrato dei Pubblici e gli Ufficiali alle acque per il ristoro dei danni causati dalle piene alle strade, a seguito dell’imposizione di una tassa di 800 lire per i lavori da parte degli Ufficiali e contestata dal Magistrato, ASCA, Magistrati diversi, 711. 600 218 che si contrapponevano alle riforme. Non più rimandabili apparivano i lavori di regimazione e arginatura del Centa, che avrebbero eliminato alla radice buona parte dei problemi ormai secolari dell’albenganese. Nel 1751 sembrò essere giunto il momento della svolta. Sorta una lite tra il Comune e il convento dei frati minori, a motivo della pretesa del Magistrato dei Pubblici di ripulire un fossato in disuso da anni e che attraversava il giardino di clausura del convento, il Senato ordinò all’ingegnere e cartografo Matteo Vinzoni e al figlio Panfilo di lasciare Pietra Ligure e dirigersi ad Albenga per studiare la questione e redigere una pianta dell’intero bacino idrografico del Centa. Nella lettera inviata a Genova in cui riassumeva i termini della controversia, il Commissario di Albenga Lazzaro Viganego constatava che la causa delle inondazioni non era di certo risolvibile con il ripristino di questo o quel fossato secondario, ma bisognava intervenire alla radice e radicalmente: «[Il fiume Centa] ha il letto quasi più alto della città medesima, epperò in tempo di gran pioggie allaga tutte le vicine campagne, entra in città ed è di ostacolo non solo alle aque piovane, ed alle altre, che entrano per le porte il poter sboccare fuori della detta città, oltre il danno che porta alla salute delli abitanti per la gran quantità di fango che lascia per le strade. E però se non si rimedia all’origine del male con abassare il letto, e tenere freno con li dovuto ripari il detto fiume, non ostante l’apertura di questo condotto la città sarà sempre inondata»604. Al di là degli aspetti tecnico-ingegneristici, già esaminati da Quaini, la relazione stilata da Vinzoni per il governo della Repubblica presenta alcuni spunti interessanti. Anzitutto l’ufficiale genovese considerò i lavori da eseguire nella piana del Centa come tasselli coerenti di un generale progetto di sistemazione idraulica della zona e respinse così sia la politica di piccolo cabotaggio da sempre seguita dalle magistrature civiche, sia il disegno originato localmente di deviare parte delle acque del fiume nell’Antognano605. Accanto alla costruzione di nuovi argini e palificazioni e alle varie ipotesi di deviazione del corso, Vinzoni presentò come inderogabile l’abbassamento e la pulizia dei condotti e dei fossi privati, misura che di certo avrebbe suscitato le contestazioni dei ASGe, Archivio segreto, 1236. La relazione è in ASGe, Giunta dei confini, 108. Nella lettera scritta il 28 agosto al governo, il cartografo notò che «Questi Signori anno desiderio di fare de grandi lavori, e variare alveo al fiume, che per esseguirli vi si richiedono parole, e denari, e non anno abbondanza che delle prime, le quali al solito de i luoghi otiosi, sono di continuo contrasto, e con riguardo del respettivo particolare privato interesse», ASGe, Archivio segreto, 1236. 604 605 219 canapai606. Inoltre ripropose l’utilità di arare il letto del fiume, se necessario obbligando tutti i maschi di età compresa tra i 17 e i 70 anni abitanti nella giurisdizione di Albenga. Sotto il profilo giuridico-istituzionale, il colonnello allegò alla relazione una copia del decreto di Molassana di un secolo e mezzo prima, in particolare per il metodo di riparto delle spese. Conscio delle difficoltà di bilancio successive alla guerra di successione austriaca, Vinzoni propose di chiamare a concorrere anche gli enti ecclesiastici. Un semplice auspicio, tuttavia, poiché il governo non ebbe né la volontà, né poi il tempo per dare seguito al progetto vinzoniano. Il fallimento nella gestione delle acque delle istituzioni albenganesi non è dunque da imputare alla sola comunità locale, incapace di disciplinare l’uso delle acque e di provvedere alle opere necessarie. Gli ufficiali non riuscirono ad imporre la prevalenza dell’interesse collettivo sull’interesse privato dei singoli utenti. Il governo rispettò fino in fondo l’autonomia patrimoniale della città convenzionata – nonostante l’erosione dell’autonomia politica e normativa condotta tra XVI e XVII secolo – lasciandole in toto l’onere di fronteggiare i guasti prodotti dal Centa, ma la sorte del progetto Vinzoni evidenziò i limiti di una simile impostazione e, indirettamente, la scarsa reattività del Senato a fronte di un quadro ormai critico. Dopo più di trecento anni di alluvioni, il governo avrebbe dovuto supportare la comunità facendosi carico anche finanziariamente della risistemazione dell’alveo e agevolando una riforma delle magistrature locali sulle acque che distinguesse meglio le competenze e munisse gli ufficiali di poteri più ampi. Ma i Collegi genovesi optarono anche in questo caso per la conservazione degli equilibri esistenti con i centri del Dominio. Lo scavo consentiva di ricevere una quantità di acqua piovana maggiore, rendendo più difficile l’allagamento della campagna. Pur senza citare direttamente i coltivatori di canapa, Vinzoni scrive: «Quindi è che li fossi non potendosi da se mantenere scavati, e necessariamente dovendo interrirsi per le cause sopradette, oltre molte, che o l’ignoranza, o la malizia permette, anno bisogno li fossi di temporanei, e replicati scavamenti», ASGe, Giunta dei confini, 108. 606 220 CAPITOLO VI Dalle comunaglie al diritto del “Comune” 1) IL GOVERNO DELLE RISORSE COLLETTIVE IN UN TERRITORIO COMPLESSO: UN PARZIALE BILANCIO 1.a) Le risorse collettive liguri: la lunga resilienza di un modo di possedere La Repubblica Democratica Ligure, sorta dopo il crollo della Repubblica oligarchica, avviò un’inchiesta sulle condizioni demografiche ed economiche delle municipalità del nuovo Stato tramite l’Istituto nazionale607. Il questionario richiedeva ai compilatori di fornire informazioni sullo stato e l’utilizzo di comunaglie, boschi, acque e sull’esistenza di prati artificiali. Raccomandandosi al Presidente dell’Istituto, il parroco di Mendatica Giuseppe Sciandini esponeva che: «Non si costumano prati artificiali […] Vi sono comunaglie molte, a selva, a pascolo, il descriverne l’estensione non m’è possibile. Le buone strade, ed una più grande popolazione renderebbero più utili le selve. Li pascoli comunali servono al grande numero delle bestie locali. L’alpi di spettanza di questo Comune vengono affittate dalle attuali Municipalità». Le tinte non mutano se si esaminano le risposte di comunità site più a valle, come Quiliano608. I risultati dell’indagine, sebbene non coprissero l’intero territorio regionale, confermano però una linea di tendenza che nelle pagine precedenti è stata accennata più volte: la resilienza sul lungo periodo degli usi civici e, in generale, delle comunaglie nell’ambito dell’economia rurale delle comunità liguri. Per quanto sottoposte ad un processo di ridimensionamento che vantava cause differenti, le aree boschive e le terre zerbide di pascolo e coltivazione temporanea conservarono in generale un ruolo non secondario tanto sotto il profilo del sostentamento dei non proprietari, sia come voce di entrata per i bilanci locali. Vedi l’art. 17 della costituzione della Repubblica Democratica in Costituzione della Repubblica Ligure con le successive leggi organiche, Genova, Stamperia nazionale, 1803, p. 9. L’Istituto entrò in funzione il 5 ottobre 1798. Sugli istituti nazionali vedi L. PEPE, Istituti nazionali, accademie e società scientifiche nell'Europa di Napoleone, Firenze, 2005. 608 ASGe, Repubblica Ligure, 610. Sull’inchiesta vedi più in dettaglio C. COSTANTINI, Comunità e territorio in Liguria: l’inchiesta dell’«Instituto nazionale»(1799), in Territorio e società nella Liguria moderna, Firenze, 1976, pp. 291-363. 607 221 L’agricoltura ligure mantenne perlopiù inalterati i suoi tratti fondamentali. Il terzetto ulivovite-agrumi assorbiva gran parte degli investimenti di capitale diretti verso il settore primario, mentre la coltivazione dei boschi a castagno e in minor misura a nocciolo ammortizzò le periodiche crisi cerealicole. L’orografia del territorio regionale d’altronde non offriva larghi spazi per la diffusione dei prati artificiali o estese coltivazioni di riso o altri cereali e anche la regimazione delle acque conobbe risultati contrastanti a seconda delle località609. Innegabilmente vendite e occupazioni ridussero quantitativamente gli ettari di comunaglie disponibili, ma senza condurre ad un impoverimento massiccio delle terre civiche. Si è visto che i fattori alla base di tale ridimensionamento cambiarono a seconda della localizzazione della comunità e della risorsa, delle caratteristiche dell’economia locale e dei comportamenti dei gruppi interni alle comunità stesse. Il passaggio delle comunaglie dall’uso comune alla proprietà privata mise in luce la spaccatura interna della società rurale, con ripercussioni anche sul piano del diritto. La consuetudine non era infatti più in grado di assicurare un’estesa uniformità di condotta tra i soggetti interessati e si rendevano necessari nuovi strumenti, come i bandi campestri, spesso rivolti a difendere più i campi privati che i beni comunali610. La pratica dei «roncamenti», un sistema di lunga rotazione con antichissime radici, fu abbandonata da strati crescenti della popolazione in favore di coltivazioni stabili e di lunga durata, associate alla cura dell’erba per il fieno e alla conseguente chiusura delle terre al pascolo brado tramite recinzioni e muri611. In alcuni casi si è riscontrata la penetrazione di capitali da centri limitrofi che ridisegnarono l’aspetto delle campagne, come ad Albisola. Dal solo esame delle fonti archivistiche centrali, è difficile ricavare un dato sulla frequenza di episodi simili. Di certo la presenza di proprietari stranieri incise negativamente sulla riproduzione degli usi civici nel corso del tempo. Emblematico è quanto accaduto a Cipressa e Lingueglietta, due piccole comunità dell’entroterra imperiese, solite mettere all’incanto il pascolo invernale non solo sulle comunaglie, ma anche sui fondi privati incolti o aggregati con alberi da frutto. Nel 1686 si levarono però le proteste da parte di un gruppo Il fallimento della comunità albenganese nel domare la rete drografica naturale del Centa e dei torrenti secondari può spiegarsi da un lato con l’incapacità politica di rendere effettive le regole stabilite nel corso degli anni, dall’altro con la mancanza di capitali rivolti all’investimento in agricoltura, cfr. M. QUAINI, Per la storia del paesaggio, cit., pp. 3335. 610 A questo proposito sarebbe interessante stabilire, tramite un esame incrociato presso gli archivi comunali e centrali, in quante occasioni i bandi campestri furono emanati a seguito di consistenti appropriazioni di comunaglie per la difesa della proprietà privata. È verosimile che quanto accaduto a Castiglione, con la tardiva approvazione dei bandi dopo decenni di usurpazioni, sia accaduto anche altrove. 611 Cfr. D. MORENO, Dal documento al terreno, cit., pp. 149-159. 609 222 di proprietari terrieri provenienti da Porto Maurizio e da Costarainera. I supplicanti contestarono la ragionevolezza dell’uso civico di pascolo: «Gli agenti della Cippressa e Lengueglia si sono compiaciuti vendere li herbaggi delle terre sì zerbide quanto aggregate con ricavarne pochissima somma, e caosarne danno gravissimo, e massime agli alberi domestici delle persone forastiere, perché nelle proprie invigilandovi gli huomini di dette ville, poco o niuno ne vengono a patire, e perché simile vendita pare del tutto irragionevole, Bernardo Aquarone, Pantaleo Ricci, e molti altri del luogo del Porto Maoritio, et il R. P. Gio Batta Gandolfo della Costa Rainera havendo molti poderi in quelle giurisditioni per non haver a sentire danni irreparabili, vengono a supplicare humilmente VV. SS. Ill.me voglino restar servite ordinare che da detta vendita o concessione di pascolo, restino escluse le terre aggregate de sudetti oratori, e che contra li dannificanti possino instituire le accuse solite, o fare tutti quelli ordini, che meglio pareranno»612. Davanti al Capitano di Porto Maurizio si confrontarono due interessi e due concezioni della proprietà contrapposte: la conservazione del diritto di pascolo sui fondi privati, acquisito ab immemorabili dalla comunità e condiviso con i centri vicini, e la volontà di proteggere la proprietà dalla servitù collettiva della quale peraltro i convenuti non potevano avvalersi, non possedendo bestiame. La richiesta di sottrazione dei propri beni allo ius pascendi era quindi finalizzata a riqualificare secolari pratiche pastorali in danni dati, perseguibili dalla giustizia campestre. La tradizionale facoltà di disporre di una singola utilità del terreno (l’erba) scindendola dalle altre veniva ora rigettata da un gruppo di possidenti estranei alla comunità. Altro carattere peculiare delle proprietà collettive liguri è l’indefinitezza della loro natura giuridica. Le comunaglie non comprendevano soltanto risorse differenti dal punto di vista fisico e ambientale, come anticipato, ma anche beni in senso giuridico che potevano rientrare tra le res publicae in patrimonio o tra le res in publico usu. L’esatta collocazione di una risorsa in una delle due categorie dipendeva dall’esito dei processi politici interni alla comunità stessa e molto meno dall’operato del governo genovese, che non seguì l’esempio di Venezia o di altri Stati coevi definendo una volta per tutte la fisionomia giuridica dei beni comunali. Una scelta che alla luce di quanto illustrato, non può certo dirsi irrazionale, considerata la grande disomogeneità delle risorse non solo dal punto di vista fisico-naturale, ma anche per il ruolo ricoperto nelle rispettive economie locali. 612 ASGe, Magistrato delle Comunità, 305. Non è dato sapere come si concluse la controversia. 223 D’altronde la polivalenza del termine “comune” riferito ai pascoli era ben nota anche agli stessi giuristi specialisti della materia. Fernandez De Otero, osservando la regolazione pastorale spagnola, notò che la locuzione pascua publica comprendeva sia i pascoli destinati all’uso pubblico e alla comune utilità dei residenti, sia quelli propriamente appartenenti all’ente, generatori di lucro. Il giurista sottolineò le imprecisioni lessicali: «Et quia eorum redditus, vel pecunia (quae ex eis provenit) pro communi commodo erogari debet, ideo publica (quamvis abusive) etiam solent nominari cum vere, et proprie privatarum rerum effectus, et qualitatem sortiantur in multis, ut in d. l. inter publica, ibi: Sed si qua sunt civitatum, velut bona, seu peculia servorum, civitatum, proculdubio publica habentur, d. l. 10 ibi: Mas los fructos, y las rentas que salieren dellas, deven ser metidas en pro comunal de toda la ciudad, y villa cuya fueren»613. Più sfumata la posizione del giurista tedesco Heinrich Hahn. Introducendo gli usi di pascolo sui fondi pubblici, avverte che comune è termine che «accipitur diversimode» e che diffusa è la confusione tra comune e pubblico, sebbene nella pratica non si registrino differenze per l’esercizio del pascolo. Attingendo abbondantemente alla letteratura giuridica italiana del secolo precedente (Deciani, Menochio, Cravetta), l’autore tedesco riesamina il percorso che ha portato all’assimilazione dei fondi comuni ai bona universitatum: «Commune illud dicitur, quod non quidem ad universitatem, sed tamen ad plures pertinet dominos. Nos hic per fundum communen cum Noe. Meurer intelligimus statuta et definita loca, in quibus vicanorum animalia pasci et aestivari solent, caeteris inderdictis: et nuncupantur pascua vicanalia seu communalia vulgari sermone, alias pascua universitatis. Universitatis enim nomine designatur vicanorum societas legitima, quae res communes habet, et praecipue pascua circum villas et pagos, pro eorum sufficientia et necessitate, adeo, ut si quis pascua villis auferat, necesse sit, ipsas cito in perniciem ruere»614. Nella prassi, di cui il vulgari sermone era fedele specchio, i pascoli comuni erano divenuti a mano a mano comunali, cioè di proprietà dell’organizzazione istituzionale (societas legitima) e non A. F. DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., II, nn. 7-8, p. 4. La distinzione principale risiedeva nella proprietà: «In eo tamen differunt, quod communium proprietas nullius sit, fiatque accipientis l. quaedam ff. de R. D., publicorum autem proprietas sit universitatis, et non possit quoquam privato occupari», H. HAHN, Dissertatio inauguralis de iure pascendi, Helmestadii, Typis Henningi Mulleri Acad. Typ., 1654, cap. XI. 613 614 224 soltanto del mero aggregato di individui coabitanti nel medesimo luogo, ma da essi impiegati pro sufficientia et necessitate. Era dunque la pluralità di forme di utilizzazione, non definibile in assoluto e a priori, che influenzava la gerarchia di diritti esercitabili sulle risorse, la cui attrazione nella sfera pubblica era comunque incontestabile. Sia che si trattasse di fondi concessi dietro pagamento di un terratico annuale o pluriennale, sia di boscaglie aperte al libero sfruttamento dei residenti di una o più specifiche comunità, non si riscontrano fattispecie di “assenza” di proprietà: per quanto magari sfumata dall’inerzia dell’ente locale, la titolarità pubblica delle comunaglie è una costante. L’elasticità delle comunaglie fece sì che le stesse risultassero difficilmente comprimibili entro gli schemi del diritto civile contemplati nel Corpus iuris. Lo prova la rilettura del possesso di Viozene nella produzione di memorie e allegazioni tra genovesi e piemontesi nel XVIII secolo, dove da atti che riconoscevano delle semplici facultates si facevano discendere le prove della proprietà di una parte e delle servitù di legnatico e pascolo dell’altra615. Un’altra prova è data da una controversia di portata più modesta che coinvolse quattro ville del Marchesato di Finale (Tovo, Bardino, Magliolo e Gorra) contro la villa di Verezzi. Originatasi prima dell’acquisto del feudo da parte di Genova nel 1713, la lite vide le quattro comunità difendere alcune selve della dorsale appenninica del Melogno (non trasferite dal demanio marchionale alla Camera genovese) dai pretesi diritti di sfruttamento degli uomini di Verezzi. La vicenda conferma che dipanare l’intricata matassa degli usi civici esercitati in forza di titoli legittimanti diversi (possesso immemorabile, lodi o privilegi antichi di secoli) e dal difficile accertamento era impresa ardua. Le quattro comunità finalesi potevano vantare un lunghissimo possesso dei boschi, concretizzatosi con l’esercizio degli usi civici da parte degli abitanti e anche di valorizzazione patrimoniale tramite la periodica vendita del taglio dei faggi. La comunità di Verezzi sosteneva invece di poter esercitare servitù analoghe grazie a un privilegio concesso dal Marchese Giacomo Del Carretto nel 1253616. Nel 1780 Agostino Queirolo, giurista incaricato dal governo di decidere, dichiarava «liberas, et immunes a servitute, seu quasi lignandi, fenandi, et pascendi, et a quocunque alio jure, et servitute, vel quasi erga praedictam Communitatem, et Homines Veretii». Un decreto del Senato sospese la sentenza in attesa della valutazione dell’interesse della Camera Vedi ASGe, Giunta dei confini, 94, 95. Oltre a garantire l’accesso al mercato del borgo in cambio di un tributo annuale, il Marchese garantì la sua protezione agli uomini di Verezzi «tali modo, quod universi homines praedicti Loci Villae Veretii possint ire, stare, venire, et redire per totam terram suam salvi, et securi in Personis, et rebus sicuti caeteri Homines praefati D. Marchionis». 615 616 225 dei Procuratori e dell’accertamento della feudalità delle selve, ma va rilevata l’ampiezza della formula usata da Queirolo per designare i diritti ingiustamente vantati da Verezzi. Protrattasi fino alla caduta della Repubblica e ragionevolmente non conclusa, la vicenda conferma l’irriducibilità delle risorse naturali della collina ligure ad una categoria unitaria di beni pubblici. Ad avviso di chi scrive, si può ben parlare di resilienza delle comunaglie in Liguria come “altro modo di possedere” largamente diffuso e capillarmente complementare con l’individualismo agrario. Non mancarono contrasti, lo si è dimostrato, ma da essi non uscì vincitore un modello, comunitarista o individualista che fosse. Si determinarono invece nuovi equilibri tra allevamento e agricoltura (latamente intesa) influenzati dal paesaggio e dall’organizzazione territoriale, così poco uniformi lungo l’arco regionale. La comunione delle terre andò certo ridimensionandosi tramite appropriazioni e alienazioni ma la lunga durata delle comunaglie e degli usi civici in Liguria è confermata anche dalla relazione dell’avvocato Giacomo Carretto, che ad inizio Novecento riscontrava per il circondario di Albenga l’ininterrotta sopravvivenza nella mentalità dei residenti di un regime alternativo alla proprietà privata: «In quasi tutti i comuni rurali del circondario di Albenga ed in molti altri della provincia, da tempo immemorabile si esercita l’uso del pascolo su luoghi comunali, ed alcuna volta promiscuamente su luoghi comunali e di privati; e sebbene tale uso non abbia il nome né la veste di un diritto, è talmente antico ed immutato, e necessario che quasi viene nella coscienza pubblica ad assumere le apparenze di un’incontestabile necessità di natura. Ne avviene perciò che alla domanda se in un comune esistano diritti civici, si risponda negativamente; e quando poi chiedi se i cittadini esercitino il pascolo su beni comunali, si rimanga sorpresi che di ciò alcuno possa dubitare»617. Dal punto di vista di molti utenti, la bontà degli usi collettivi non era venuta meno neppure durante il secolo XIX, ma esula dai fini della ricerca indagare l’evoluzione degli usi civici in Liguria nel corso dell’Ottocento. È invece opportuno inserire la lunga sopravvivenza dei beni usati collettivamente nel quadro delle istituzioni di gestione dei beni che, come anticipato nel capitolo I, chiama in causa il ruolo dello Stato. G. CARRETTO, Gli usi civici nelle Provincie di Cuneo, Genova e Porto Maurizio, Roma, 1908, p. 63, ma vedi anche la relazione conclusiva con la classificazione di comunaglie e usi civici alla luce del diritto contemporaneo, pp. 133-157. 617 226 1.b) Successi e fallimenti nella gestione dei beni comuni tra Stato e comunità Le politiche agrarie fisiocratico-liberali promosse da sovrani e ministri, con l’appoggio di accademie e società d’agricoltura, cercarono di promuovere la piena proprietà della terra e il suo libero sfruttamento, smantellando un’impalcatura secolare fatta di privilegi fiscali, diritti signorili e diritti collettivi delle comunità locali. Le contraddizioni di questo processo di “liberazione della terra” di portata europea furono molteplici, considerato che ciascuno Stato diede attuazione alle riforme muovendo dalle proprie, originali, caratteristiche economiche, cercando allo stesso tempo di modificare le strutture agrarie senza sconvolgere troppo i rapporti di dominio in vigore nella società618. Un caso esemplare fu proprio la Francia. Qui la monarchia si fece prima protettrice di usages, droits et biens communaux usurpati illecitamente dai signori per l’allargamento delle loro tenute, spesso tramite la produzione di titoli e documenti falsi ma fatti valere in giudizio. La protezione dei beni comunali fu sancita da un editto del 1667 e poi dalla più nota ordinanza sulle acque e foreste del 1669. Durante il secolo successivo però, sotto la doppia pressione delle difficoltà finanziarie e delle crescenti richieste di riforma del settore, il governo incentivò un nuovo attacco ai beni comunali, favorendo il dissodamento dei fondi incolti da parte della feudalità. Ad una nuova ondata di abusi pose fine la legislazione rivoluzionaria che dopo aver agevolato il recupero giudiziario dei communaux, ne ordinò la divisione a titolo gratuito e definitivo (senza distinguere tra beni patrimoniali e goduti in comune) fino alla legge del 9 Ventoso dell’anno XII619. Gli studi compiuti negli ultimi anni hanno dimostrato che anche le enclosures inglesi, il caso più noto di sottrazione di fondi agricoli agli usi collettivi, si affermarono con difficoltà ed opposizioni da parte delle comunità locali, fino alla decisa accelerazione delle c.d. enclosures parlamentari inaugurate dal Public general enclosure act del 1801, seguito poi da altri provvedimenti620. Anche in Italia alcuni progetti di riforma agraria furono intrapresi prima dell’invasione francese, come nella Toscana di Pietro Leopoldo, in Piemonte o nel Regno di Napoli, Il riformismo agrario generò tensioni e conflitti di varia intensità in tutto il continente, ben prima della Rivoluzione francese, cfr. J. JESSENNE, N. VIVIER, Libérer la terre! Une Europe des réformes agraires (vers 1750-1850) ?, in Revue d’histoire moderne et contemporaine, 64, 4/4 bis (2016), pp. 27-65. 619 Cfr. M. GARAUD, La Révolution, cit., pp. 369-386. 620 Cfr. M. TURNER, Enclosures in Britain, 1750-1830, London, 1984; E.P. THOMPSON, Customs in common, London, 1991, pp. 97-126; L. SHAW-TAYLOR, The management of common land in the lowlands of southern England, circa 1500 to circa 1850, in The management of Common Land, cit., pp. 59-86. 618 227 ove l’ostilità verso servitù collettive e vincoli sui beni comunali si tradusse in misure legislative621. Più vicino alla realtà italiana, si potrebbe citare la vicenda dell’editto delle chiudende nella Sardegna sabauda di inizio Ottocento. La decisione di Vittorio Emanuele I di concedere ai proprietari fondiari la facoltà di chiudere i terreni con muri o siepi nel 1820-1823 assestò un colpo durissimo alla pastorizia – che per le caratteristiche del territorio era praticata nelle forme del pascolo brado – causando sul medio periodo disagio sociale ed aumento della criminalità622. Alla luce dei risultati forniti dalla ricerca e tenuto conto del metodo seguito per lo svolgimento della stessa, restano da chiarire in conclusione due questioni. La prima riguarda l’eventuale “fallimento” delle proprietà collettive: se andarono in contro a critiche circa la loro inefficienza anche in Liguria, ciò fu dovuto al modello proprietario o ad altri fattori? In secondo luogo la Repubblica intraprese qualche iniziativa di chiaro stampo liberal-fisiocratico? Per quanto concerne l’incidenza di nuove idee sulla proprietà agraria, occorre richiamare in parte le considerazioni svolte nel paragrafo precedente. La policoltura praticata sulle comunaglie, spesso e volentieri associata al pascolo sui medesimi fondi, resistette fino alla caduta della Repubblica, come la già citata inchiesta dell’Istituto nazionale mise in luce623. La composizione delle colture (castagno, faggi, ontani, larici, cereali) e l’intensità dell’attività pastorale dipendevano dalle pratiche agro-silvo-pastorali locali la cui definizione era del tutto rimessa alla comunità (in senso amministrativo) o al gruppo sub-comunitario (frazione, villa). Lasciando sullo sfondo il tema dell’evoluzione delle medesime pratiche nel corso del tempo, si è dimostrato che sulla gestione complessiva delle risorse naturali impattarono diverse variabili. Per quanto riguarda l’amministrazione del patrimonio boschivo, la contemporanea presenza del bestiame – spinto da tempo a pascolare su territori permanentemente incolti per la scomparsa del maggese – unita alla costante attività di abbattimento dei residenti pregiudicava in molti casi la rigenerazione delle selve. Un disboscamento eccessivo metteva anche a rischio la tenuta idrogeologica del territorio perché, riducendo la capacità di assorbimento dell’acqua Cfr. G. CORONA, La propriété collective en Italie, in Les propriétés collectives, cit., pp. 157-174 ; EAD., Demani e individualismo agrario, cit. 622 Cfr. A. MATTONE, Nel crepuscolo degli usi collettivi in Sardegna. Dall’introduzione della “proprietà perfetta” all’abolizione dei diritti di ademprivio (1820-1865), in F. ATZENI, A. MATTONE (a cura di), La Sardegna nel Risorgimento, Roma, 2014, pp. 481-589. 623 Cfr. D. MORENO, Dal documento al terreno, cit., pp. 205-217. 621 228 piovana dei versanti collinari e montani, aumentava indirettamente il flusso d’acqua delle fiumare rendendo più frequenti le inondazioni624. La conservazione delle risorse silvo-pastorali fu sfavorita anche dal loro costituire in moltissimi casi dei confini naturali tra comunità. Il clima di ostilità faceva aumentare proporzionalmente anche il numero degli abusi commessi a danno dei beni. Inoltre il contenzioso giurisdizionale avente per oggetto la regolazione dei confini, il possesso di un sito o l’esercizio dei diritti collettivi, imponeva alle casse comunali spese straordinarie, per far fronte alle quali si ricorreva anche alla vendita o alla locazione di beni comunali. Se si riesaminano i casi alla luce delle condizioni di sostenibilità di Ostrom, solo alcune realtà liguri rispettano un numero sufficiente di condizioni per una gestione discreta. Quantunque elaborata dalle comunità locali, la normativa prodotta risultava lacunosa sotto alcuni profili di primario rilievo. Uno di questi era l’individuazione precisa del perimetro dei beni di comune utilizzo e dei soggetti legittimati ad appropriarsi della risorsa. Se la confinazione precisa si riscontra in alcuni statuti di area prevalentemente montana (Cosio d’Arroscia, Triora, alcune ville di Pieve, Sanremo, i capitoli per l’erbatico di Ventimiglia), la sua assenza rivelava al momento delle occupazioni l’estrema difficoltà per la comunità a rientrare in possesso delle comunaglie usurpate. D’altra parte, salvo i beni comunali patrimoniali, per i quali il diritto d’uso era costituito mediante un atto negoziale, molti usi civici traevano legittimazione da atti risalenti, corroborati dal lungo tempo trascorso e difesi dalle comunità anche a distanza di alcuni secoli. Il carattere rigido, definitivo di queste disposizioni mal si accordava con i cambiamenti sociali ed economici in atto. La ricomposizione del conflitto in assenza di un intervento statale in grado di ridefinire la gerarchia dei diritti d’utilizzo e le norme collegate, legittimandole, era pressoché impossibile. Una considerazione va svolta anche riguardo agli stessi Parlamenti delle comunità competenti a decidere sui beni comuni. Lungi dall’essere luoghi di manifestazione di un comunitarismo unitario, al loro interno si riproducevano le divaricazioni tra gli interessi e i comportamenti dei vari gruppi sociali. I casi di Vessalico e Castiglione sono più di tutti paradigmatici. In fondo la naturale tendenza ad estrarre da una risorsa la massima utilità possibile cercando di non sostenere i relativi costi era un fenomeno costante, spesso tollerato o compiuto con la connivenza degli agenti locali. Ciò nondimeno si è riscontrata la capacità di molte comunità di far fronte alle problematiche poste dalla gestione di risorse collettive, come Sanremo o Santo 624 Vedi G.M. UGOLINI, Utilizzazione del bosco, cit., pp. 115-120. 229 Stefano Magra, ricorrendo a differenti strumenti giuridici e soluzioni istituzionali più o meno complesse per mantenere sufficienti livelli di coordinamento nell’azione degli utenti e scoraggiare comportamenti individuali tipici del free rider. Strettamente legato alla creazione delle regole è il tema delle forme di sorveglianza sugli appropriatori. Le comunità liguri, alla pari delle comunità rurali del resto d’Italia, si munirono di ufficiali locali (campari, rasperi) incaricati di vigilare sulle proprietà pubbliche e private e, in alcuni centri, furono affiancati da ufficiali preposti alla distribuzione delle acque e alla riparazione di fiumi e canali artificiali. La scelta ricadeva su uomini appartenenti alla medesima comunità, un elemento che rende conforme la pratica antica con i principi ostromiani. Sull’indipendenza e l’adesione degli stessi controllori alle regole in vigore le fonti gettano in diversi casi più di un’ombra625. La scarsa irreprensibilità dell’operato delle guardie campestri era nota anche al governo. Relazionando i Collegi sui danni commessi nella Bandita boschiva di Sassello, i Procuratori camerali delegati ai boschi Antonio Grimaldi e Gio. Pietro Serra citarono il rapporto dei Sindacatori della riviera di Ponente dal quale emergeva un quadro alquanto grave che merita di essere riportato per intero: «La causa principale, da cui procedono simili, e tanti danni, restringersi alla poca vigilanza di quei campari, perché se bene i danni sono moltissimi, poche sono le denoncie, che si fanno, e che quantonque le gride, et ordini per osservanza della legge in questa materia pubblicata, che impone pena a transgressori etiam sino ad anni cinque di galea, possino dimostrare il rigore si vuole, ad ogni modo alcuni che vengono accusati sfuggon la pena, o è sì tenue, che non li intimorisce. Riflettano pure loro Eccellenze che li campari fanno l’accuse, quando dubitano esser scoperti di non compire al loro ufficio, o perché sono complici, e partecipi di tali danni, come hanno riconosciuto, da processi che ultimamente loro Eccellenze ordinarono a quel Magnifico Podestà impinguarsi, non essendo state fatte che le sole denuncie. E che li detti campari siano partecipi de danni ne scrive anche l’illustre Governatore di Savona, commissionato a far rivedere li danni, e visitare li suddetti boschi»626. Traccia di casi simili si trova talvolta negli archivi locali. Un caso, ad esempio, è il processo istruito nel 1675 contro Gio. Battista Mallarino, guardiano del bosco di Ronco di Maglio nel Marchesato di Finale per «haver tagliato, et fatto tagliar alberi d’abeto di quelli del Boscho di Roncho di Maglio, et contravenuto al suo ufficio di Guardiano e custode dello stesso». Si apprende che il Fiscale ne ordinò la scarcerazione dopo 4 mesi di detenzione, ma non ci è dato sapere come terminò la causa (ASCFL, Camera, 57). Da Vernazza nel 1626 si informa il Magistrato delle Comunità che i campari, eletti per vigilare sui boschi e terre comuni e sulle coltivazioni private, trascurano il loro incarico per dedicarsi alla pesca, nell’indifferenza degli agenti locali (ASGe, Magistrato delle Comunità, 138). 626 ASGe, Camera di governo e finanza, 606. 625 230 Il sistema giurisdizionale di controlli diffusi su più livelli di governo scontava più di un difetto nel prevenire la cattiva condotta degli agenti forestali, potendo al massimo intervenire a valle con l’istruzione di processi per danni, quando il numero degli illeciti non perseguiti oltrepassava la soglia di tolleranza. Quello della custodia dei boschi fu comunque un problema che il governo vide sorgere un po’ dappertutto, tanto per risorse possedute da secoli quanto per altre di più recente acquisizione, come quelle del Marchesato di Finale627. Le diffuse inefficienze del sistema di controllo, lamentate anche presso realtà (relativamente) virtuose come Sanremo o Triora, erano spia di un generale sfaldamento delle istituzioni di gestione delle risorse collettive? Fornire una risposta certa è assai difficile, dovendola fondare soltanto sulle fonti scritte. Sembra però ragionevole affermare che la scelta di guardie inadeguate rendeva inutili anche le normative più stringenti, incentivando gli altri fruitori del bene a tenere comportamenti illeciti (e non cooperativi). Anche la legislazione posta dalla Repubblica aveva una parte di responsabilità nel determinare le possibilità di scelta di capaci sorveglianti da parte delle comunità. Gli Anziani di Ceriana nel 1760 chiesero ai Collegi la facoltà di derogare al privilegio di ineleggibilità alle cariche comunali di cui godevano gli iscritti alle liste dei soldati scelti: le persone migliori erano tutte iscritte e quelle che rimanevano «erano le meno capaci, meno sincere e più inferiori all’adempimento de’ loro doveri»628. Insomma se anche in Liguria le proprietà collettive mostrarono segni di “fallimento” rispetto all’obbiettivo di allocare meglio della proprietà privata le risorse, ciò pare addebitabile più al mancato rispetto di alcuni dei principi operativi individuati da Ostrom che al modello proprietario in sé. Le comunità dovevano far fronte ad una serie di problemi correlati alla conoscenza dei comportamenti individuali da parte di decisori e controllori e alla sintesi tra interessi differenti che la stessa struttura istituzionale degli organi politici della prima modernità rendeva talvolta di difficile soluzione. Rispetto ai principi ostromiani vi erano quindi delle condizioni oggettive che ne pregiudicavano il pieno dispiegamento. Venendo alla politica tenuta dalla Repubblica, si è più volte posto l’accento su cosa il governo genovese non fece: non acquisì compiutamente al proprio demanio tutte le risorse Scrivendo il 19 marzo 1749 il Governatore di Finale Sauli informò la Camera che la richiesta di individuare un soggetto cui affidare la custodia del bosco Ronco di Maglio – selva al centro di un conflitto d’uso con gli uomini di Pallare fin dai tempi della dominazione spagnola – non poteva essere soddisfatta in tempi brevi. Il sondaggio effettuato dall’economo dell’Impresa generale finalese aveva dato esito negativo: «Mi segna non esservi persone da potersi fidare, che vogliano prendere tale incarrico, e ne pure con qualche mercede». 628 ASGe, Camera di governo e finanza, 608. 627 231 forestali più importanti della regione, non fornì una regolazione quadro sulle comunaglie se non generali divieti di usurpazione né si intromise nella disciplina delle acque se non espressamente chiamato in causa dalle comunità. Ma a giudizio di chi scrive non è possibile inferire da queste assenze anche la mancanza di una politica imperfetta ma coerente nelle sue linee essenziali sul punto. Le condizioni di partenza poste da un Dominio disomogeneo giuridicamente ed economicamente, discontinuo dal punto di vista territoriale e costituito da un gran numero di comunità dell’entroterra che fondavano la propria autosufficienza anche sulle risorse collettive sconsigliavano interventi unilaterali di modifica dei diritti di uso e godimento. Tuttavia sotto la triplice spinta del debito, delle questioni di confine e delle trasformazioni agricole le pratiche di appropriazione e utilizzo dei beni si allontanarono dalle regole formali sancite da statuti o sentenze. Secondo Ostrom la mancanza di leggi nazionali relative alle risorse collettive non comporta l’assenza di regole effettive, perché gli utenti si daranno comunque regole informali (operative nel lessico ostromiano) per gestire la risorsa. Però, ricorda Ostrom: «In molti contesti caratterizzati dall’uso di risorse collettive, le regole operative seguite dagli appropriatori possono differire considerevolmente dalle norme legislative, amministrative e giurisprudenziali. La differenza tra regole operative e leggi formali può comportare solo il colmare le lacune rimaste in un ordinamento giuridico generale. Al limite, le regole operative possono assegnare de facto diritti e doveri che sono contrari ai diritti e doveri de jure di un ordinamento giuridico formale»629. Da questa prospettiva si coglie allora lo sforzo di mediazione politica volta a governare la modificazione delle regole e dei diritti di sfruttamento con il concorso delle stesse parti interessate. Così facendo la Repubblica conservò sulle comunaglie un ruolo di semplice custode, in virtù della sovranità territoriale, spendendosi però per evitare che l’esito di una serie di processi economici fosse determinato dai soli rapporti di forza interni delle comunità stesse. Magistrato delle Comunità e Giunta dei confini, ciascuno per il proprio ambito di competenze, cercarono di creare uno “spazio pubblico” di confronto tra gli attori coinvolti per colmare lo iato tra regole formali e condotte concrete, individuando caso per caso la publica utilitas prevalente. 629 Cfr. E. OSTROM, Governare i beni collettivi, cit., p. 81. 232 In questo spazio pubblico gli ufficiali e le magistrature genovesi si servirono spesso dell’arbitrium come mezzo per la costituzione di situazione giuridiche, talvolta derogatorie delle consuetudini tradizionali e delle normative già in vigore. Esso era necessario sia per colmare i contrasti capaci di paralizzare i processi decisionali degli organi locali sia perché i rimedi classici offerti dai riti giudiziari possessori non erano in grado di addivenire in tempi ragionevoli alla conclusione della controversia. La funzione arbitrale esercitata dai giusdicenti e Commissari delegati dal Magistrato o dalla Giunta non può essere quindi declassata a sintomo di arretratezza, bensì come un metodo di riconduzione entro forme legittime e legali delle trasformazioni in corso in campo economico e delle contese tra comunità o tra gruppi, che fosse allo stesso tempo rispettoso dell’intelaiatura costituzionale dello Stato genovese. A ciò vanno ricondotte sia l’approvazione dei capitoli campestri, svolta dal Senato ma approvati dai Parlamenti locali alla presenza o con l’avallo dell’ufficiale genovese, sia la presenza degli stessi ufficiali (in chiave certificatrice) in occasione delle investiture o del riposizionamento dei termini di confine. Non ci furono ovviamente soltanto successi, perché in diversi casi neppure l’intromissione del potere centrale portò ad un risultato soddisfacente. Lasciando da parte alcune controversie legate a dissapori tra Genova e la Savoia (Viozene o il bosco del Cuneo a Sanremo), in altre circostanze l’equilibrio raggiunto fu o criticato dalle stesse comunità (consorzio dei mulini tra S. Stefano e Ponzano) o alla lunga meno incisivo di quanto auspicato (riforma dei regolamenti sulle acque ad Albenga). Si è tuttavia riscontrata una generale direzione politica del Magistrato delle Comunità nel senso della conservazione (nei limiti del possibile) degli usi civici e dei beni comunali a vantaggio delle popolazioni locali. In particolare la gestione delle acque evidenziò i limiti che uno Stato d’antico regime a base ancora fortemente cittadina scontava. I progetti di canalizzazione del Magra e del Centa, che avrebbero condotto ad un più razionale utilizzo delle acque, caddero nel vuoto per motivazioni diverse. Soprattutto il caso del Centa mise però in luce che una gestione ottimale di un fiume così problematico non poteva basarsi soltanto sulla rivisitazione delle regole d’uso dell’acqua, ma richiedeva anche degli investimenti il cui totale addossamento alla comunità ingauna era insostenibile o politicamente improponibile, come ventilato da Vinzoni. Ad ogni modo la netta separazione amministrativa e finanziaria tra Stato e comunità non favoriva la presa in carico da parte della fiscalità genovese delle spese necessarie per realizzare l’opera. Ostava anche la 233 congiuntura, con i patrizi intenti a discutere di accorpamenti delle magistrature e di riduzione delle uscite, viste le condizioni del bilancio dopo la guerra di successione austriaca630. Resta infine da chiedersi se le nuove idee influenzarono in qualche misura la politica di amministrazione dei beni pubblici seguita dal ceto di governo della Repubblica. Se è vero, come sostenuto da Bitossi, che il sistema politico genovese non poteva permettersi una politica riformista eccessivamente audace – e questo limite diventò ancor più evidente dopo il 1789 – è indubbio che un vocabolario politico d’avanguardia, coerente con il movimento dei Lumi, risuonasse anche nelle sedute dei Consigli della Repubblica, sebbene privo di mire destabilizzanti di un assetto di governo che si reggeva da duecento anni. Così, in mezzo a più ampie discussioni sulla riforma giudiziaria per il superamento delle Rote e sulla politica annonaria, i Collegi decisero di mettere mano anche alla disordinata materia dei boschi. I malanni di una gestione pubblica incapace di controllare effettivamente l’aderenza alle prescrizioni impartite dai Deputati camerali ai boschi faceva propendere una certa parte del patriziato verso la privatizzazione delle selve. Di affitto o concessione a livello perpetuo dei boschi pubblici si era cominciato a parlare già nel 1721, ma alla Camera fu opposto il danno che le comunità ne avrebbero ricevuto per il loro sostentamento. L’anno dopo si ritentò inserendo nel pacchetto anche i mulini, i frantoi e gli altri immobili camerali ma senza successo, e non migliore fortuna ebbe un terzo passaggio in Maggior Consiglio nel 1738. Quasi un trentennio più tardi, per mettere in campo riforme di qualsiasi segno occorreva disporre di un quadro aggiornato sullo stato di conservazione delle foreste pubbliche e sugli aspetti giuridicamente più rilevanti per ciascuna di esse. Lavoro affatto semplificato dalla confusione e dispersione che regnavano sovrane nella documentazione relativa. I Coadiutori camerali decisero il 10 gennaio 1766 di affidare la stesura di una dettagliata relazione ad Alerame Maria Pallavicino, che presentò il risultato delle sue fatiche il 12 marzo 1767. Pallavicino mise mano alla grande quantità di lettere, relazioni di visita di giusdicenti e Sindacatori di riviera, scritture del Magistrato delle galee e di altri uffici per offrire una sintesi chiara ai Cfr. C. BITOSSI, La repubblica è vecchia, cit., pp. 153 e ss. Interessante notare che proprio nel manoscritto di Gualberto De Soria, analizzato da Bitossi, si proponga l’istituzione degli Edili rustici, incaricati di sovrintendere alle strade di campagna, ai ponti e al regolamento di fiumi e torrenti, assistiti da architetti e periti idraulici. Più in generale, la consapevolezza che dal Dominio, specie la riviera di Ponente, non si potessero ottenere maggiori entrate fiscali era condivisa da larga parte del patriziato, ibidem, pp. 560-566. La visione municipalistica del governo dell’economia ligure non era comunque un’eccezione cfr. F. FRANCESCHI, L. MOLÀ, Stati regionali e sviluppo economico, in Lo Stato del Rinascimento, cit., pp. 401-420. 630 234 Collegi631. Il pensiero era sempre rivolto al fabbisogno dell’arsenale militare e al pesante indebitamento della Camera, pertanto non deve stupire che la stessa relazione sia “parziale”. Essa restituisce infatti solo le informazioni utili per l’industria navale, (qualità della vegetazione, distanza delle macchie dal mare e lo stato delle vie di comunicazione) sorvolando sugli altri usi boschivi ed è dichiaratamente finalizzata a gettare le basi per una decisa privatizzazione del patrimonio forestale632. La relazione diede conto di nove boschi pubblici situati a Levante e diciassette a Ponente (Oltregiogo compreso), che rendevano annualmente 3922.6.4 lire in virtù di affitti e contratti di livello o enfiteusi. Una somma giudicata spaventosamente modesta dal relatore, considerata la potenziale ricchezza del patrimonio silvestre di cui Genova disponeva ma che andava impoverendosi quotidianamente633. Non erano ovviamente contemplati gli introiti di cui beneficiavano esclusivamente le comunità locali. I Coadiutori camerali esortarono il governo a prendere atto del fatto che le misure di difesa adottate in passato (nomina di campari, militarizzazione di alcuni boschi con corpi di guardia) avevano sortito gli effetti esattamente opposti a quelli auspicati. In verità la missione era resa L’introduzione della relazione sulla pratica merita di essere riportata per supportare quanto detto in precedenza circa l’approccio non più localistico alla materia forestale: «Avendo considerato gli Illustrissimi et Eccellentissimi Diputati alla cura de pubblici boschi per avere una piena cognizione di tutto ciò, che si conviene per raggion della loro obbligazione essere in primo luogo necessario avere sotto gl’occhi un registro intiero in cui siano descritti i boschi tutti, e distintamente primieramente quelli della riviera di Levante, e successivamente gl’altri della riviera di Ponente come altresì quelli di là da Giovi con la loro estensione, circonferenza, confini, quantità circa, e qualità degl’alberi che li compongono e loro distanza dal mare, et altre particolarità degne per saputa, ad ogetto di potersi valere all’arberatura de medesimi per la provista del Magistrato dell’Arsinale nella fabbrica de scaffi delle galee, come per il lavoro continuo che ne sta facendo il prefatissimo Magistrato dell’artigliaria, e per gl’altri pubblici lavori onde si sono applicati da molto tempo in qua ad averne le più individuali notizie da Magnifici Giusdicenti con moltiplicità di lettere loro scritte. Mentre per lo passato non s’era fatto alcun libro in cui si facesse una particular mentione di detti pubblici boschi», ASGe, Camera di governo e finanza, 608. 632 Per fare solo un esempio, la relazione non cita, se non con un brevissimo cenno, all’alimentazione delle ferriere che interessava i boschi del Marchesato di Finale. La relazione sul Ronco di maglio si conclude infatti così: «Di faggio ve ne sono poche da far remi, et altre per il più non atte ad altro, che a far carbone», ASGe, Camera di governo e finanza, 608. La relazione si compone di varie parti: un primo blocco (“Pratica dei boschi”) contiene il testo del referto, nutrito di rimandi alle fonti documentarie consultate dal Pallavicini. Da esso fu ricavato un “Ristretto” con l’elencazione dei boschi comunità per comunità, partendo da quelle di Levante, e una “Nota del reddito attuale” dei boschi camerali concessi in affitto al 1767. Infine è presente la proposta di riforma avanzata dallo stesso Pallavicino con i verbali di alcune votazioni consigliari. In ASGe, Archivio segreto, 1063, il fascicolo n. 74 contiene il testo della relazione e gli articolati sottoposti alla votazione del Consiglio in più sessioni, con i riassunti degli interventi in aula di alcuni Magnifici. 633 Significativo questo passaggio in chiusura della relazione: «La Republica intanto, sebbene padrona di un cospicuo fondo, altro reddito in oggi non ne ricava, che quello di annue L. 3982.6.4, come risulta dall’annesso foglio segnato B, e può quindi considerarsi padrona di un fondo poco meno che infruttuoso, quale anzi va sempre più deterriorando per le distruzioni, usurpazioni, e smembramenti, che ne fanno le Communità, ed i particolari, tanto nazionali, che esteri, senza che chi presiede al Governo ne abbia notizia, o avendola possa verificarli, o impedirli», ASGe, Camera di governo e finanza, 608. 631 235 assai ostica dalla stessa conformazione del territorio ligure: larga parte delle foreste confinava con i «popoli degli esteri Dominii» che si aggiungevano ai sudditi del Doge nel disboscare senza controllo, per necessità o nell’ambito di micro-conflitti locali. Vetrerie e ferriere «a spese del Pubblico consumano ogni sorte di arboratura in detti boschi», mentre le occupazioni abusive a scopo agricolo avevano modificato profondamente l’aspetto del paesaggio che «in oggi comparisce diverso, e più non distinguendosi l’antica qualità, estensione, e confine, si confonde il terreno di pubblica spettanza con quelli de’ particolari, in pregiudizio anche gravissimo del Territorio della Repubblica»634. La riforma da adottare doveva tenere conto delle caratteristiche dei singoli boschi e della loro vicinanza al mare. I boschi situati alle pendici alpine del profondo entroterra – dove i costi di trasporto avrebbero superato i benefici – e quelli privi di vegetazione utile per la cantieristica potevano essere alienati o locati perpetuamente635. Per gli altri bisognava valutare la fattibilità di strade di collegamento con la costa, se assenti. Per l’attuazione del progetto si propose l’istituzione di una nuova Deputazione di cinque membri, che avrebbe dovuto tenere un proprio registro di scritture su cui annotare investiture, debitori morosi e condanne, nonché un fondo di tipi geometrici dei boschi, tutto allo scopo di evitare il perpetuarsi del caos burocratico636. Lo strumento scelto per la stipula dei contratti di vendita quanto di affitto o enfiteusi fu l’incanto pubblico e per le locazioni perpetue era obbligatorio prestare un’assicurazione sul pagamento dei canoni annui. A tutela dei boschi e degli interessi fiscali furono formulati alcuni indirizzi, come l’indivisibilità del bene tra gli eredi dell’enfiteuta o la predisposizione di generali ASGe, Camera di governo e finanza, 608. Il ronco, vale a dire il taglio e il dissodamento di fondi boschivi per la semina, fu bersaglio di critiche crescenti tra XVIII e XIX secolo. Il funzionario forestale Agostino Bianchi nelle Osservazioni sul clima, sul territorio e sulle acque della Liguria marittima edite nel 1817 bollò come «cattive pratiche della nostra Agricoltura» la semina di cereali negli uliveti e nei vigneti, il pascolo caprino nei boschi e la semina vaga del ronco. Il concorso di queste pratiche, spogliando le montagne del loro manto forestale, contribuiva alla loro erosione portata da venti e piogge, cfr. G.M. UGOLINI, Utilizzazione del bosco, cit., pp. 65-70. La compromissione dei boschi fu, come già detto, un problema generale non solo italiano. A titolo comparativo per lo stato delle foreste e la legislazione settecentesca a loro difesa nel Regno di Napoli vedi G. POLI, Una risorsa insidiata: la presenza dei boschi nel Mezzogiorno d’Italia durante l’età moderna, in S. CAVACIOCCHI (a cura di), L’uomo e la foresta. Secc. XIII-XVIII, Firenze, 1996, pp. 533-550, G. CORONA, Demani ed individualismo, cit., pp. 104-128. Per la Francia una compressione dei diritti d’uso fu stabilita in Lorena dall’amministrazione forestale D. BERNI, L’action de l’administration forestière Lorraine au XVIIIe siècle, in Terre, forêt et droit, cit., pp. 69-88. 635 Con riserva per i secondi di proibire comunque il taglio di roveri, faggi e altri alberi idonei qualora fossero stati piantati dal conduttore/enfiteuta. 636 La Deputazione avrebbe avuto il compito di dedicarsi alla «ricognizione di detti boschi, e terreni, assumerne tutte le più sincere e distinte ricognizioni, e passar poi o alla loro vendita, o alla locazione perpetua, o alla formazione delle strade ove la spesa potesse venir compensata dal beneficio de legnami da estraersi, e provedere in decorso di tempo a tutto ciò che fosse necessario». La proposta suggeriva di porre come presidente del nuovo collegio uno dei Procuratori, con due membri del minor Consiglio e due altri patrizi, anche minori di 27 anni, assistititi da uno dei cancellieri della Camera stessa, ASGe, Camera di governo e finanza, 608. 634 236 obblighi di conservazione della selva e di incremento della vegetazione, specie per le zone di confine. L’indicazione di prescrizioni più dettagliate sarebbe stata poi rinviata ai singoli atti di concessione, il mancato rispetto dei quali avrebbe determinato la risoluzione del contratto. La flessibilità dell’impostazione adottata da Pallavicino nella sua relazione per i Coadiutori emerse anche a proposito del nodo più spinoso dell’intera materia, quello su cui le precedenti proposte erano cadute: il trattamento da riservare agli usi civici delle comunità. Se lo scopo dell’intera manovra era quello di assicurare una migliore conservazione delle foreste rendendo certi confini fisici e titoli giuridici di appartenenza in capo ai privati, esso non cozzava forzatamente con il mantenimento di aree sottoposte all’uso collettivo. Era anzi l’occasione propizia per fare una volta per tutte chiarezza sui diritti di proprietà vantati dalle comunità: «E siccome alcune Communità povere si trovano in precisa necessità per la loro sussistenza di prevalersi de boschi pubblici per pascolo de bestiami, e taglio di legna a proprio uso, potrebbe da chi fosse incombenzato previe le opportune informazioni assegnarsi loro o tutto il terreno o porzione di esso, entro certi limiti, con vendere, o affittare il rimanente. In questa guisa rimarebbe proveduto alle indigenze de Popoli senza continuarsi l’odierno gravissimo disordine di distrugersi a man salva tutto l’intiero bosco sotto l’amparo, e pretesto delle urgenze comunali. Per quelle Communità poi, che pretendono la spettanza in proprietà di qualche bosco potrebbe autorizarsi lo stesso Tribunale ad esaminare il gius, che possa loro competere sentito il M. Sindico Camerale, quindi farne quelle dichiarazioni, che stimasse di giusticia»637. La proposta fu approvata dai Collegi che l’otto aprile 1767 diedero ordine di redigere la minuta dell’articolato per avviare l’iter in Minor Consiglio638. La discussione apportò precocemente emendamenti di rilievo. Sparì la Deputazione proposta da Pallavicini e la competenza fu assegnata ai Coadiutori camerali stessi, malgrado la loro dichiarata indisponibilità. Gli introiti delle alienazioni sarebbero andati a ripagare il debito di tre milioni gravante sull’erario e i boschi siti entro le due miglia dai confini non potevano essere ceduti a stranieri ma esclusivamente a cittadini della Repubblica, preferendo comunque la cessione alle comunità stesse se avessero avuto i mezzi per acquistarli. Così modificata, la legge non convinse comunque un numero sufficiente di Magnifici: ASGe, Camera di governo e finanza, 608. Il governo apportò alcuni aggiustamenti al testo base, estendendo la politica di alienazione a tutti gli immobili camerali e precisando che qualsiasi contratto di vendite o enfiteusi perpetua dovevano essere approvati con 4 voti favorevoli su 5 della nuova Deputazione. 637 638 237 gli 87 voti favorevoli (52 i contrari) erano lontani dalla maggioranza qualificata e il Consiglietto decise di rinviarne la discussione ad un’altra sessione. La proposta fu riassunta tra l’aprile e il maggio 1769 e le minute di cancelleria ci offrono alcuni spunti interessanti per comprendere come alcuni patrizi si approcciarono al problema. Ambrogio Doria ad esempio affermò che i boschi non erano «materia di una legge», considerate le peculiarità fisiche e giuridiche di ognuno di essi. Giacomo Brignole e Gio. Agostino Imperiale ribadirono, forse un po’ pleonasticamente, la necessità di separare i fondi su cui le comunità esercitavano gli usi di pascolo e legnatico da quelli alienabili ai privati. Imperiale tuttavia aggiunse una considerazione degna di nota a proposito delle conseguenze ambientali della scelta privatizzatrice: la probabile messa a coltura dei boschi avrebbe reso più fragile il territorio, incrementando i rischi di frane e alluvioni639. Nonostante il recepimento degli emendamenti suggeriti durante la discussione, l’esito del voto non cambiò. È chiaro tuttavia che il favore verso la proprietà privata dei boschi non assumeva – almeno nelle idee di chi prese la parola – una dimensione totalizzante: la cessione di numerosi boschi pubblici non doveva pregiudicare la conservazione degli antichissimi usi civici delle comunità640. I diversi atti di concessione in affitto o enfiteusi contenuti nelle filze d’archivio tra gli anni 1760-1797 paiono confermare che la scelta privatizzatrice espressa dalla relazione Pallavicino non fu un canto del cigno641. Non è questa la sede per un esame approfondito dei diversi contratti, ma Dopo aver ricordato che alcuni uomini delle valli savonesi estraevano liberamente dal bosco camerale legname di castagno e brughi con cui alimentavano anche le fabbriche di maiolica, l’intervento di Imperiale prosegue: «Che bisogna riflettere che vendendosi i boschi o dandosi in enfiteusi saranno subito ridotti in coltura, e le pioggie dirotte porteranno necessariamente l’alzamento del letto de’ fiumi, e torrenti, e conseguentemente l’inondazione delle Città, luoghi e borghi nelle riviere, e non potersi trascurare un rischio così grave», ASGe, Archivio segreto, 1063. Col senno di poi, considerazioni ancora attualissime. 640 Sia la relazione sia le minute delle discussioni non fanno uso di termini giuridicamente impegnativi come “demanio”, “proprietà” o altri, ma la sostanza consiste comunque nel bilanciare i poteri dispositivi del sovrano sul patrimonio appartenente allo Stato vincolandoli al soddisfacimento di certi bisogni. Le circostanze legittimanti l’alienazione dei pubblici fu oggetto di lunghe riflessioni da parte della cultura giuridica di diritto comune. In Francia esse furono chiaramente enucleate solo nel XVI secolo e divennero una loi fondamentale del regno: solo in caso di finanziamento di spese belliche e di costituzione di un appannaggio per l’erede maschio era possibile cedere a terzi beni demaniali. I meccanismi di controllo elaborati non solo oltralpe furono spesso inefficaci e in molti casi prevalsero deroghe ed eccezioni. Sulla formazione del principio di inalienabilità del demanio in Francia G. LEYTE, Domaine et domanialité publique dans la France medievale (XII-XV siecles), Strasburgo, 1996. Per una comparazione tra Francia e Savoia vedi F. A. GORIA, Claudio di Seyssel e i beni demaniali, in Pouvoirs et territoires, cit., pp. 169-179 641 Nel 1750 fu messo all’asta il taglio di ampie porzioni dei boschi di Monte Rotondo, del Bando e di Rinegro a Calizzano (Marchesato di Finale), ASGe, Camera di governo e finanza, 608. Parti dei boschi di Ovada e Sassello erano già da tempo oggetto di enfiteusi e concessioni a livello, ma nel 1789 fu riformato il regolamento destinato agli enfiteuti con l’obiettivo di risolvere la cronica morosità degli affittuari. Nel 1788 fu il bosco di Tomena (Triora) ad essere messo all’asta. Il disordine e l’approssimazione con cui furono però effettuate alcune concessioni convinsero la Camera ad emanare un decreto il 12 maggio 1789 con cui impose la previa determinazione della consistenza e dell’estimo dei boschi affittandi per mezzo di periti, ASGe, Camera di governo e finanza, 609. Nel 1794 infine la 639 238 l’impressione è che i Procuratori camerali ai boschi scelsero di raggiungere il medesimo obiettivo senza provvedimenti di ampio respiro, ma adattando puntualmente a ciascun negozio l’indirizzo esplicitato nel 1767 con decreti ad hoc. Per quanto risorse forestali e usi civici non fossero «materia di una legge», a Genova si intraprese un percorso di graduale trasferimento ai privati dei principali boschi regionali. Anche questo episodio conferma in primo luogo la resilienza degli usi civici, dei quali nessuno chiese il superamento, e il prudente approccio del governo repubblicano nel modificare istituti e assetti di governo del territorio che segnavano ormai il passo, dopo secoli di vigenza. 2) OLTRE I BENI COMUNI. TEORIE SUL “COMUNE” E SPERIMENTAZIONI TRA FRANCIA E ITALIA La ricerca storica sulle proprietà collettive ha conosciuto una nuova vivacità negli ultimi decenni, in concomitanza con l’avvio di un dibattito di scala continentale sul tema dei commons, assurti a vessillo della difesa di un modo di regolare la produzione e la proprietà di risorse (tanto materiali quanto immateriali) alternativo a quello predominante. Indubbiamente lo shock causato dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, ripercossosi poi in Europa con un effetto domino che ha coinvolto molti Stati aderenti all’Unione Europea, ha fatto fare un salto di qualità allo stesso dibattito che, da tecnico, si è fatto anche politico. E per politico s’intende sia il contributo crescente di teorici, sociologi, filosofi alla costruzione di un nuovo modello di azione politica, sia l’attenzione che partiti, comitati, movimenti hanno iniziato a dare al tema dei beni comuni, facendone oggetto di iniziative legislative o amministrative. Sul campo dei beni comuni si giocano insomma più partite, segnate da obiettivi, linguaggi, strumenti e “tempi di gioco” diversi. Il “benicomunismo” non intende più soltanto sconfiggere l’hardinianesimo neo-malthusiano degli anni ’60 – al quale gli studi di Ostrom hanno già inflitto un colpo verosimilmente definitivo – ma si propone come movimento politico di opposizione al neoliberismo, quale sistema di mercificazione pervasivo e totalizzante dei rapporti sociali e non solo di quelli di scambio. Contemporaneamente, da un punto di vista più tecnico-giuridico, i beni comuni hanno rinvigorito il processo di “costituzionalizzazione” della proprietà, cioè la trasformazione da Camera stipulò con tal Gio. Batta Pino il diritto esclusivo di raccogliere semi di faggio per produrre olio, misura che interessò anche il bosco di Sanremo, ASGe, Camera di governo e finanza, 610. Sui contratti di sfruttamento delle risorse forestali in una zona geograficamente prossima alla Liguria vedi M. ORTOLANI, Les contrats d’exploitation forestière des communautés du comté de Nice au XVIIIe siècle, in Terre, forêt et droit, cit., pp. 413-441. 239 semplice principio a diritto vigente della funzione sociale della proprietà. Fare ordine non è semplice, né la parte conclusiva di questo lavoro ha la pretesa di sostituirsi alla mole di monografie e articoli di diritto positivo sul punto. Si vuole invece effettuare una sintetica comparazione tra l’esperienza italiana e quella francese per rilevarne affinità e differenze, nonché porre in evidenza alcuni punti fermi tratti dalla lunga storia delle proprietà collettive, utili per la disciplina dei commons contemporanei. 2.a) I communs in Francia: una teoria ancora inattuata La scelta della Francia come termine di raffronto con i progressi scientifici e le sperimentazioni di “altri modi di possedere” non è casuale. Si tratta a ben vedere di due realtà situate su differenti livelli di avanzamento: l’Italia è certamente all’avanguardia tanto sotto il profilo teorico che pratico, grazie al lungo lavoro di critica della proprietà pubblica e privata originatosi dopo il 1948, brevemente richiamato in apertura, e oggi arricchitosi anche di un nuovo linguaggio a seguito dell’aumentata interdisciplinarietà del dialogo. Ad essa guardano giuristi, storici e filosofi francesi in uno scambio proficuo di cui il recente Dictionnaire des biens communs è forse la testimonianza più eloquente642. Tuttavia se oggi è l’Italia a costituire un modello (seppur in evoluzione), c’è stato un momento in cui la Francia ha rappresentato un esempio da seguire, specie per le azioni politiche legate al bene comune per eccellenza: l’acqua. Si è richiamata nell’introduzione l’importanza del referendum del 12 e 13 giugno 2011 sulla gestione del servizio idrico integrato per la definitiva affermazione nell’agone politico dei beni comuni. Nel corso della campagna referendaria – ma sui media anche prima – la scelta privatizzatrice fu contestata facendo appello alla decisione della città di Parigi di riportare sotto il controllo pubblico l’acquedotto, dopo una gestione privata durata dal 1985 al 2009. Una scelta rivendicata dal maire Delanoë, in un contesto nazionale dove la maggioranza degli utenti sono serviti da società private643. Tramite la costituzione di Eau de Paris si intende arrivare ad un Cfr. M. CORNU-VOLATRON, F. ORSI, J. ROCHFELD (a cura di), Dictionnaire des biens communs, Paris, 2017 (d’ora in poi DBC). 643 Nel 2013 le società pubbliche servivano in Francia il 35% di utenti per i servizi idrici e il 47% per i servizi di depurazione, cfr. P. BAUBY, The French system of water services, in «CIRIEC Working paper», 2009, n. 3, reperibile al link https://ideas.repec.org/p/crc/wpaper/0903.html (url consultato il 13 dicembre 2018). Nel caso specifico, il servizio idrico di Parigi era delegato a Générale des eaux per i quartieri a destra della Senna e a Lyonnaise des eaux per la parte a sinistra. Il modello francese di gestione privata nel settore idrico è stato anche adottato fuori Europa, ma con scarsi risultati sotto i profili degli investimenti e dell’efficienza, cfr. S. PETITET, Paris-Buenos Aires et retour, mythes et limites du «modèle français» de gestion des services d’eau potable, in Environnement Urbain/Urban environment, 1 (2007), reperibile al link http://eue.revues.org/1029 (url consultato il 13 dicembre 2018). 642 240 modello gestionale che realizzi economie di scala, generi un abbassamento delle tariffe per i cittadini grazie al venir meno della remunerazione del capitale e coinvolga maggiormente la collettività nelle decisioni legate al governo del servizio con la creazione di un osservatorio644. In Italia problemi simili hanno assunto visibilità nazionale per la vicenda dell’Acquedotto pugliese, trasformato nel 1999 in società per azioni in house, una veste giuridica inadatta perché capace di condizionare obiettivi legali e politiche aziendali in senso incompatibile con la ratio dell’acquabene comune645. Nello stesso periodo, contemporaneamente al Nobel conseguito da Ostrom, anche in Francia si è così imposto all’attenzione degli studiosi il tema dei biens communs come potenziale trasformatore di istituti e linguaggi politici. È possibile distinguere due filoni principali di studi. Uno, più strettamente giuridico-economico, ha preso spunto dalle ricerche ostromiane per proporre nuovi schemi proprietari e modelli gestionali in grado di reggere alle sfide ambientali e sociali del nuovo millennio. Un altro, di stampo filosofico-politico, ha preso le mosse dal discorso sui beni comuni per elevare il “comune” a principio di azione politica, rifiutandone dunque la reductio ad rem, propria invece del primo indirizzo. Per dare un giudizio complessivo è bene esaminare brevemente entrambe le correnti. La contestazione della proprietà assoluta ed esclusiva, diretta erede del dominium di derivazione romanistica, ha trovato una felice e documentata espressione nei lavori di Yan Thomas, che ha invertito la logica del processo genetico del diritto reale soggettivo. Questo non sarebbe una facoltà naturale e originaria dell’uomo ma la conseguenza di due precise decisioni collettive: l’esclusione dalla sfera patrimoniale di alcune cose (res extra commercium) e la creazione di una terza categoria di beni assoggettata ad un particolare vincolo di destinazione collettiva, nettamente prevalente sulla titolarità, capace di limitare le facoltà dispositive tanto dei privati che della respublica stessa646. Se è quindi la proprietà privata ad avere un carattere derivato Per uno studio approfondito P. BAUBY, M. M. SIMILIE, La remunicipalisation de l’eau à Paris. Etude de cas, in «CIRIEC Working paper», 2013, n. 2, disponile al link https://ideas.repec.org/p/crc/wpaper/1302.html (url consultato il 13 dicembre 2018); V. CHIU, Vers la «remunicipalisation» du service public d’eau potable en France, in «Pyramides», 25 (2013), reperibile al link http://journals.openedition.org/pyramides/985 (url consultato il 13 décembre 2018). 645 Cfr. M. CIERVO, Beni comuni: accesso alla risorsa e giustizia sociospaziale. Il caso dell’Acquedotto Pugliese, SPA in house, in Memorie geografiche, n.s. 14 (2016), pp. 537-543. 646 È in sostanza il ruolo delle res in publico usu, cui tardivamente si sovrapposero le res communes omnium, a creare uno spazio di cose pubbliche indisponibili e vincolate all’uso di una moltitudine non preventivamente definita di soggetti, cfr. Y. THOMAS, «La valeur des choses. Le droit romain hors la religion», in Annales, Histoires, Sciences sociales, 6 (2002), pp. 1431-1462. 644 241 e non originario, risulta fallace il fondamento storico principale della proprietà tradotto in norma dall’art. 544 del Code civil. La crisi ambientale e l’avanzamento delle nuove enclosures nel settore della proprietà intellettuale e dei brevetti hanno quindi indotto molti studiosi a rileggere gli studi di Ostrom per trovare soluzioni alternative ad un modello proprietario sempre più discusso e superare il pregiudizio della proprietà comune come situazione di “assenza di proprietà”647. Tra gli spunti offerti dalla studiosa, ha ricevuto particolare attenzione il recupero della teoria della proprietà come fascio di diritti (bundle of rights o, in francese faisceaux de droit) elaborata dal realismo giuridico americano. Il primo a proporne una versione organica fu l’economista istituzionalista John Rogers Commons, in «The distribution of wealth» del 1893 e sviluppata più ampiamente nel 1924, a seguito anche di un articolo di Hohfeld che organizzò la molteplicità dei rapporti giuridici in uno schema basato sul binario opposizione/equivalenza, per dimostrare che la proprietà è un insieme di relazioni all’interno delle quali gli individui sono interdipendenti648. La riscoperta dei loro scritti da parte dei giuristi progressisti americani a partire dagli anni Settanta non ha però suscitato l’interesse dei giuristi francesi, che ne hanno apprezzato le potenzialità applicative solo dopo l’analisi concettuale ostromiana649. La teoria della proprietà come fascio di diritti ha alla base l’idea che la distribuzione della ricchezza risulta dalla politica dello Stato – ivi comprese le regole giuridiche che definiscono la proprietà – e non dalle forze naturali del mercato. La proprietà senza Stato, sostiene Commons, non esiste, né esiste una proprietà del tutto assoluta. Essa consiste sempre in un fascio di diritti (pubblici o privati) distribuiti tra soggetti diversi. Lungi dall’assumere i connotati universali e immutabili cari ai giusnaturalisti della tarda modernità, dietro la proprietà si cela invece un insieme di diversi diritti – questi sì, individuabili e costanti – la combinazione e distribuzione dei quali dipendono dai rapporti sociali tra i soggetti. Ne risulta che questo assetto non è mai definitivo, perché soggetto a scomposizioni e ricomposizioni in funzione delle forze sociali presenti Su questo particolare aspetto cfr. S. BROCA, Les communs contre la propriété? Enjeux d'une opposition trompeuse, in SociologieS, Dossier «Des communs au commun : un nouvel horizon sociologique?», disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/sociologies/5662 (consultato il 15 dicembre 2018). 648 Cfr. J. R. COMMONS, The distribution of Wealth, London, 1893; ID., The legal foundations of capitalism, New York, 1924. Le otto nozioni giuridiche fondamentali di Hohfeld erano: diritti, doveri, privilegi, assenza di diritti, poteri, soggezione, immunità, incapacità. Vedi W. N. HOHFELD, Some fundamental legal conceptions as applied in judicial reasoning, in Yale Law journal, 23, 1913, pp. 16-59; 649 La teoria della proprietà come un bundle of rights in grado di riconnettere alla stessa cosa le posizioni di utilizzatori, possessori e proprietario fu esplicitamente fatta propria da Ostrom in un articolo del 1992 scritto con Edella Schlager: E. SCHLAGER, E. OSTROM, Property rights and natural resources: a conceptual analysis, in Land economics, 68/3, 1992, pp. 249-262. 647 242 in un dato contesto. Sono state così proposte diverse tassonomie della proprietà. Tra queste vanno almeno citate quella di Anthony Honoré del 1961, che individuò una lista di ben undici diritti, e quella più limitata di Ostrom e Schlager sulle common pool resources, che contemplarono solo quattro diritti (accesso e prelievo, amministrazione, esclusione, alienazione) correlati ad altrettante posizioni (proprietario, usufruttuario, detentore di diritti d’uso e gestione, utente)650. Si è fatta dunque spazio l’ipotesi di utilizzare la teoria del bundle of rights come veicolo per ridare forza alla funzione sociale della proprietà, superando al contempo sia i limiti insiti nella sua matrice di Common law, sia la lettura di Ostrom, che non ha rimesso in questione la nozione di proprietà651. La ridefinizione della proprietà non più come regno della volontà dell’individuo ma come strumento funzionale ai bisogni sociali è un processo che necessiterà di numerosi esperimenti pratici per essere perfezionato652. Sulla scorta di quanto sopra, è ormai chiaro che non potrà esistere “un modello” di proprietà comune, ma più modelli articolati diversamente a seconda delle caratteristiche del bene da condividere, dell’ampiezza della comunità interessata e degli scopi (trasmissione alle generazioni future, conservazione dell’accesso o dell’integrità etc.). Judith Rochfeld ha ad esempio ipotizzato tre distinte soluzioni, che ruotano intorno ad altrettante comunità diverse (negative, positive, diffuse) capaci di innovare alcuni istituti già presenti nel diritto civile francese, come la disciplina delle choses communes (art. 714 del codice) o di alcuni beni demaniali. Il ripensamento della proprietà va insomma verso il recupero del “diritto all’inclusione”, cioè di un diritto individuale di non essere esclusi dall’uso o godimento di risorse produttive accumulate da tutta la L’elencazione di Honoré era ovviamente più ampia, in ragione dell’oggetto studiato (la proprietà in generale e non limitata alle risorse naturali). Essa includeva quindi anche il diritto al reddito, il diritto al capitale e quello alla sicurezza dall’espropriazione: cfr. A. HONORÉ, Ownership, in ID., Making law bind: Essays legal and philosophical, Oxford, 1961, pp. 161-193; E. SCHLAGER, E. OSTROM, Property rights, cit., p. 252. 651 Sotto questo profilo la minimizzazione dell’ambiente istituzionale e politico nei casi studiati da Ostrom lascia in ombra il rilievo della conformazione dei diritti di proprietà in ciascun ordinamento, cfr. O. WEINSTEIN, Comment comprendre les « communs » : Elinor Ostrom, la propriété et la nouvelle économie institutionnelle, in Revue de la régulation, 14 (2013), disponibile all’URL : http://journals.openedition.org/regulation/10452 ; (consultato il 14 dicembre 2018). Per la proposta di lavoro sulla funzione sociale della proprietà a partire dai beni comuni e dal bundle of rights vedi. F. ORSI, Elinor Ostrom et les faisceaux de droits: l’ouverture d’un nouvel espace pour penser la propriété commune, in Revue de la régulation, 14 (2013), disponibile all’URL : http://journals.openedition.org/regulation/10452 ; (consultato il 14 dicembre 2018); F. ORSI, Revisiter la propriété pour construire les communs, in B. CORIAT (a cura di), Le retour des communs. La crise de l’idéologie propriétaire, Mayenne, 2015, pp. 51-67. 652 Vedi ad esempio A. INGOLD, Les sociétés d’irrigation: bien commun et action collective, in Entreprises et histoire, 50, 2008, pp. 19-35; B. CORIAT, Le retour des communs, in Revue de la régulation, 14 (2013), disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/regulation/10463 (consultato il 15 dicembre 2018). 650 243 società. Risorse la cui destinazione “comune” è sempre frutto di una decisione politica e mai discendente da caratteristiche naturali della cosa653. Gli esiti concreti di tale ripensamento sono per ora ancora abbastanza modesti. La supremazia dell’art. 544 viene però sempre più erosa dal processo di valorizzazione di altre proprietà, collettiva o comune, che faticosamente cercano di emanciparsi dal modello dominante. Anche il tentativo di costruire un diritto dei beni comuni a partire dalla c.d. propriété démembrée in materia ambientale, con la costituzione di obbligazioni reali ambientali disciplinate dal codice dell’ambiente, attende di essere intrapreso654. Analogamente abbondante dal punto di vista della produzione scientifica, ma ancora in attesa di realizzazioni compiute è il processo creativo di nuove istituzioni per la gestione dei beni qualificati come comuni, ivi compresi anche alcuni servizi pubblici, e per l’attuazione di progetti di economia sociale, tramite l’adeguamento al nuovo paradigma di modelli già esistenti, come le cooperative655. Il secondo filone di approccio al tema dei communs, come anticipato di stampo filosoficopolitico, ha negli scritti di Pierre Dardot e Christian Laval la sua più alta (e discussa) espressione656. Il loro discorso si emancipa tanto dall’alveo micro-istituzionale dell’approccio economico à la Ostrom, quanto dal piano giuridico di riproposizione aggiornata dei communs superati nel XVIII secolo, rifiutando recisamente ogni proposta di oggettivizzazione. Il comune è invece un principio di azione politica, che va tradotto in pratiche di auto-organizzazione e di auto-governo radicalmente democratiche. È la società che elabora collettivamente regole e definisce delle pratiche per l’autogestione di spazi comuni. Solo entro la cornice di una costante ”istituzione del Comune” la designazione di alcuni beni come comuni (quindi inappropriabili e inalienabili) è realizzabile ed acquista un senso. Cfr. J. ROCHFELD, Quels modèles juridiques pour accueillir les communs en droit français?, in B. CORIAT (a cura di), Le retour des communs, cit., pp. 87-105. 654 Vedi A. CHAIGNEAU, voce Propriété collective, in DBC, pp. 954-957; G. SALORD, Propriété commune, in DBC, pp. 960964; L. PFISTER, Propriété démembrée, in DBC, pp. 964-969. 655 Vedi P-A. MANGOLTE, Une innovation institutionnelle, la constitution des communs du logiciel libre, in Revue de la régulation, 14 (2013), disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/regulation/10517 (consultato il 15 dicembre 2018); A. LETOURNEAU, La théorie des ressources communes : cadre interprétatif pour les institutions publiques ?,in Éthique publique, 17 (2015), disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/ethiquepublique/2284 (consultato il 15 dicembre 2018); J-C. BARBIER (a cura di), Économie sociale et solidaire et État. A la recherche d’un partenariat pour l’action, Paris, 2017, in particolare N. ALIX, L’économie sociale et solidaire et les communs: les tendances à l’ouvre et les enjeux d’une coopération, ivi, pp. 43-61. 656 Cfr. P. DARDOT, C. LAVAL, Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo, Roma, 2015 (ed. orig. 2014). Vedi anche la recensione di M. FIORAVANTI, E. I. MINEO, L. NIVARRA, Dai beni comuni al comune. Diritto, Stato e storia, in Storia del pensiero politico, 1/2016, pp. 89-116. 653 244 Dardot e Laval muovono su un terreno già battuto da Michael Hardt e Antonio Negri, autori di una trilogia che si è conclusa proprio con un libro dedicato al Comune657. La critica dei due autori francesi tocca sia la definizione di comune658 sia il fine ultimo del libro, quello cioè di identificare il comune con le risorse disponibili “catturate” dal capitale, di cui le moltitudini possono riappropriarsi659. Il comune dunque esiste già e non abbisogna istituirlo, ciò che è esattamente antitetico alla tesi sostenuta da Dardot e Laval. Ora, non è questa la sede per un esame critico delle rispettive impostazioni politico-filosofiche, peraltro già analizzate anche dagli stessi interessati660. La sociologia politica del comune come prassi istituente proposta nel libro si fonda però sulla dimostrazione dei limiti della teoria di Ostrom e su una approfondita disamina della consuetudine che meritano qualche considerazione. All’economia istituzionale dei commons Dardot e Laval muovono tre critiche principali: il mancato superamento della teoria dei beni privati e pubblici, nonostante l’accento posto sulle istituzioni di gestione e non sulle qualità del bene per definire un commons; una visione liberale degli individui razionali capaci di costruire gli accordi più convenienti per il gruppo (in ossequio alla logica del “dilemma del prigioniero); la sottovalutazione del ruolo dei rapporti di potere interni al gruppo e all’influenza sui comportamenti esercitata dal sistema sociale nel suo complesso661. Sono critiche che gli autori formulano pur riconoscendo alla scuola ostromiana il merito di aver portato il discorso dei beni comuni sul terreno dell’azione collettiva e delle regole d’uso stabilite dagli appropriatori. Dal punto di vista storico, soprattutto l’ultima critica appare quella più fondata anche retrospettivamente, come dimostrato anche nei capitoli centrali della presente tesi. La consuetudine occupa un posto importante nella distesa analisi del sistema di common law, da cui gli autori partono per esplorare la legittimità del diritto consuetudinario della povertà. Il sistema giuridico inglese è correttamente storicizzato come un prodotto dell’attività di selezione delle consuetudini da parte dei giuristi e dei tribunali: esse erano leges loci, un insieme di pratiche, Cfr. M. HARDT, A. NEGRI, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, 2010. Ad uno teologico (il comune come ricchezza materiale del mondo) e uno antropologico (l’insieme delle condizioni e dei risultati dell’attività umana), se ne associa uno legato alle caratteristiche del capitalismo cognitivo, che vede il lavoro immateriale a forte intensità cognitiva un produttore spontaneo del comune. Inoltre un quarto significato intende il comune come nuova forma di organizzazione sociale della moltitudine che agisce collettivamente, cfr. M. HARDT, A. NEGRI, Comune, cit., pp. 8-10, 145-146. 659 Cfr. M. HARDT, A. NEGRI, Comune, cit., pp. 174-178. 660 Vedi la recensione tranchant di A. NEGRI, La metafisica del Comune, il Manifesto, 6 maggio 2014 (disponibile all’URL: https://ilmanifesto.it/la-metafisica-del-comune/, consultato il 15 dicembre 2018); S. MAROTTA, Alcuni problemi sociologico-giuridici sul tema del comune. Riflessione a margine di un recente libro di Pierre Dardot e Christian Laval, in Sociologia del diritto, 1/2016, pp. 175-182; S. VIBERT, L’institution de la communauté, in SociologieS, disponibile all’URL http://journals.openedition.org/sociologies/5683 (consultato il 15 dicembre 2018). 661 Cfr. P. DARDOT, C. LAVAL, Del Comune, cit., pp. 124-148. 657 658 245 aspettative, regole e sanzioni inscritte in un ambiente determinato. Ma ancor più rilevante è l’osservazione, tratta da Thompson, per cui la consuetudine fu sempre un luogo di conflitto tra le forze sociali, un campo aperto alla ricomposizione del confronto in nome di un senso di giustizia ed equità da determinare volta per volta662. La dimensione conflittuale si pone quindi come essenziale alla stessa attività di creazione e consolidamento del diritto consuetudinario. Considerato che il nuovo “diritto del comune” rovescia il binomio comunità-attività, facendo precedere l’azione istituente alla comunità politica, rimane irrisolta la questione dell’identità dei soggetti che dovrebbero “mettere in comune”, i loro caratteri storici, culturali, antropologici, economici etc. Viene insomma a mancare totalmente la fissazione (anche vaga) dei contorni del collettivo che dovrebbe agire e confliggere per creare il comune e disporre dell’inappropriabile. Eppure sia Ostrom che gli studi sulla consuetudine hanno evidenziato l’importanza della delimitazione di soggetti, luoghi e beni chiaramente definiti quale elemento necessario (ma non sufficiente) per un’azione collettiva di successo663. Una simile forzatura non deve però stupire, perché s’inscrive in un radicale rifiuto della teoria del diritto contemporanea, che mette all’Indice non solo la proprietà privata ma anche la proprietà dei beni pubblici dello Stato. Un’impostazione forse obbligata per dare maggior forza alle tesi dell’opera, ma rischiosa perché liquidando lo Stato come nemico del “comune” alla stregua delle multinazionali si preclude la possibilità di costruire la categoria del comune partendo da un nuovo statuto della proprietà pubblica e da una più marcata limitazione della proprietà privata da parte dell’autorità, mediante strumenti giuridici in parte già disponibili. Una simile impostazione situa quindi su posizioni (per ora) poco convergenti teoria politica ed elaborazione giuridica. I “limiti del giuridico” sono stati denunciati apertamente da Dardot anche a proposito della valutazione dell’esperienza italiana664. Quanto incida in ciò un generale Cfr. P. DARDOT, C. LAVAL, Del Comune, cit., pp. 253-256. Laval ha ribadito la posizione, sostenendo che concetti come comunità, associazione, mutualismo sono inadatti a contenere le trasformazioni in atto nel mondo della cooperazione sociale tra individui, i cui esiti ultimi non sono ancora pronosticabili, C. LAVAL, «Commun» et «communauté» : un essai de clarification sociologique, in SociologieS, 2016, disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/sociologies/5677 (consultato il 15 dicembre 2018). 664 La critica ruota intorno alla definizione stessa di beni comuni come mezzi di soddisfazione dei diritti fondamentali. Se la definizione stessa dei diritti fondamentali dell’uomo coinvolge una decisione democratica, è direttamente l’accesso alla democrazia che deve essere rivisto alla luce del “comune”: «Il s’agit bien au-delà de la démocratie comprise dans son sens le plus radical, comme co-participation de tous les citoyens aux affaires publiques. Ce n’est pas une exigence abstraite, c’est une condition de possibilité de la gestion des biens communs eux-mêmes. […] Avec cette exigence nous touchons à un principe « méta-institutionnel » sans lequel il est impossible non seulement de gérer mais même d’identifier les « biens communs » : c’est à chaque fois à la société elle-même de déterminer ce qui est un bien commun et ce qui ne l’est pas en fonction de l’appréciation collective qu’elle porte sur les besoins de la 662 663 246 sentimento di irriformabilità di un sistema di servizi pubblici legato a doppio filo alla storia amministrativa dello Stato francese, sentimento presente in misura diversa in molti contributi citati, è difficile dire. Certo è che rubricare come secondario l’apporto della cultura giuridica alla prassi istituente – specie a livello locale – rischia di perpetuare l’attuale immobilismo dell’ordinamento francese su questo fronte. Se Commun di Dardot e Laval ha un merito è aver indicato alcune strade di sviluppo con le nove “Proposizioni politiche” per la costituzione di una “federazione di comuni”, la cui attuazione è però una storia ancora tutta da scrivere. 2.b) Il movimento per i beni comuni in Italia: verso un giurista dei commons? L’Italia può invece vantarsi del proprio ruolo di laboratorio per un numero di sperimentazioni sociali ed istituzionali in lenta e costante diffusione sul territorio. Nonostante le critiche, è innegabile che proprio l’attiva partecipazione dei giuristi ad alcune importanti battaglie politiche ed azioni giudiziarie in difesa di alcuni beni o servizi considerati comuni al fianco di comitati e movimenti abbiano contribuito a portare l’argomento nell’agorà dei non addetti ai lavori. In particolare un potente momento di formazione e discussione critica si è avuto nel 2011 in occasione del già citato referendum sul servizio idrico integrato, che portò all’abrogazione dell’art. 23-bis della legge 133/2008, poi modificata dal c.d. decreto Ronchi. Fu in quei mesi che tornò con forza di dominio pubblico la proposta della Commissione Rodotà per la riforma della disciplina dei beni pubblici, grazie al “manifesto” per i beni comuni pubblicato da Mattei665. Negli stessi anni si è verificata una positiva contaminazione che ha rianimato la nozione di funzione sociale della proprietà, che la civilistica italiana aveva ormai archiviato tra i (tanti) progetti incompiuti di trasformazione dei rapporti economici indicati dalla Costituzione666. personne. Une telle détermination n’est pas, tant s’en faut, l’affaire exclusive des juristes», P. DARDOT, Les limites du juridique, in Tracés. Revue de Sciences humaines, 16, 2016, disponibile all’URL http://journals.openedition.org/traces/6642 (consultato il 15 dicembre 2018). 665 Si ricorda che la Commissione fu istituita nel 2007 e definì i beni comuni come quelle cose «che esprimono utilità funzionali all’ esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona», vedi l’articolato al link: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page;jsessionid=aRh5d2RDNnNFTxKJWbZ08+Lg?contentId=SPS47624 &previsiousPage=mg_1_12_1 (consultato il 16 dicembre 2018). Vedi poi il già citato U. MATTEI, Beni comuni, cit.; E. VITALE, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari, 2013. 666 A. QUARTA, La polvere sotto il tappeto. rendita fondiaria e accesso ai beni comuni dopo trent'anni di silenzio, in Rivista critica del diritto privato, 31/2 (2013), pp. 253-272; U. MATTEI, Una primavera di movimento per la 'funzione sociale della proprietà, in Rivista critica del diritto privato, 31/4 (2013), pp. 531-550. 247 Il successo della campagna referendaria, subita dalle principali forze politiche parlamentari e poi disconosciuta in meno di un anno con il sostegno alla decisione del governo Monti di riportare in vigore la normativa abrogata, ha impedito che sui beni comuni calasse il velo dell’oblio. Al contrario si sono intensificate le riflessioni sul superamento della tradizionale forma individualista ed escludente di proprietà, tesa ad estrarre utilità dalla rendita con conseguenze negative per il territorio e le collettività lì insediate, con elaborazioni più dettagliate di revisione della proprietà pubblica e, successivamente, di erogazione dei servizi pubblici nei settori fondamentali (sanità, istruzione, beni culturali) in nome dei principi di accesso, inclusione e sussidiarietà. Anche dal punto di vista pratico gli esperimenti di “messa in comune” di beni pubblici o privati, spesso fatiscenti e abbandonati, si sono diffusi a tutte le latitudini del Paese, aggregando individui e associazioni intorno a progetti culturali o artigianali667. Il permanere del tema nel dibattito politico ha facilitato nell’ultimo decennio il graduale ingresso nell’ordinamento dei beni comuni, seppur in forme diverse e spesso non coordinate tra loro e nonostante l’assenza di una tassonomia sancita ufficialmente dalla legge. Anzi, ciò non ha impedito alla stessa Corte di Cassazione di recuperare la definizione dell’abortito progetto Rodotà per qualificare le valli di pesca della laguna veneziana come beni comuni (C. Cass. 3665/2011)668. Fornire un quadro esaustivo dello stato dell’arte della dottrina civilistica e pubblicistica, unito all’evoluzione in atto dei comportamenti degli attori sociali, è impossibile in poche pagine e fuori luogo all’esito di una ricerca storica. Semmai approfittando dello sguardo di lunga durata offerto dal caso ligure, si vuole concludere formulando alcune osservazioni sulle principali novità emergenti e sul ruolo che i giuristi attrezzati di conoscenza storica potranno giocare in questi processi di “produzione di istituzioni”. I commons della conoscenza (brevetti, pubblicazioni scientifiche etc.), campo nel quale in ogni caso qualche passo in avanti verso un più ampio regime di accesso libero si sta compiendo, e quelli immateriali saranno quindi lasciati un po’ sullo sfondo nelle righe che seguiranno, sebbene alcuni tratti fondamentali siano condivisi con quelli ecologici e urbani669. Riprendendo la sintesi proposta da Fulvio Cortese, l’Italian theory sui beni comuni presenta i seguenti caratteri670: Sono noti a livello nazionale i casi di occupazione del Teatro Valle di Roma, di Torre Galfa a Milano, del Colorificio Toscano di Pisa, della fabrica Rimaflow di Trezzano sul Naviglio e dell’ex Asilo Filangieri di Napoli. 668 Le Sezioni Unite introdussero la definizione con un obiter dictum, introducendo ufficialmente la categoria nel diritto vivente italiano, cfr. R. A. ALBANESE, Dai beni comuni all’uso pubblico e ritorno. Itinerari di giurisprudenza e strumenti di tutela, in Questione giustizia, 2 (2017), pp. 104-111. 669 Sui commons digitali e open data vedi G. DONADIO, Open Acess, Europa e modelli contrattuali: alcune prospettive sui beni comuni, in Rivista critica del diritto privato, 31/1 (2013), pp. 107-122; A. PRADI, A. ROSSATO (a cura di), I beni comuni 667 248 a) Pluralismo nella definizione di ciò che è “comune”, sia per l’oggetto che per la variabilità sociale e territoriale delle valutazioni; b) La fonte del “comune” deriva da dati normativi costituzionali o sovra-nazionali; c) Stretto legame tra risorsa/servizio proveniente dal “comune” e una collettività di riferimento; d) Carattere necessariamente partecipato dell’azione definitoria, della gestione e della valutazione dei risultati; e) Eterogeneità dei soggetti compartecipi; f) Ricorso ad una tecnica giuridica volutamente ibrida, di diritto pubblico o privato; g) Necessità di forme di condivisione costante di informazioni sul “comune” gestito. A spingere per una più concreta oggettivizzazione dei beni – categoria la cui definizione pare destinata a mantenere una vocazione espansiva – è l’urgenza di adattare l’ordinamento giuridico alle molte crisi del nostro tempo: ecologica, economica, relazionale, sociale. La cannibalizzazione degli ecosistemi condotta attraverso l’azione combinata di diritti di proprietà esclusiva e scarse o nulle azioni di limitazione da parte degli Stati ha prodotto e continua a produrre gravi conseguenze sulle società locali di molte parti del mondo671. Inserita in questo contesto una governance ecologica del territorio avente come scopo la riconquista del “comune” come spazio in cui vige l’“opposto della proprietà” acquisisce un respiro ed una potenza politica notevole. La proposta Rodotà di connettere determinati beni – la cui elencazione nel disegno di legge non era giustamente esaustiva – alla tutela di diritti fondamentali è solo il primo passaggio di uno sviluppo più ampio della tutela giuridica dell’ambiente. Il cambio di paradigma legato al “comune” deve saldare insieme la costruzione di un diritto coerente con le leggi ecologiche e la tutela dei diritti delle generazioni future, primo fra tutti il diritto ad un ambiente salubre, ponendosi come obbiettivi il contrasto all’estrazione di profitti – cosa che non esclude limitate forme di digitali. Valorizzazione delle informazioni pubbliche in Trentino, Trento, 2014; F. PONTE, I big data come commons goods, in Cyberspazio e diritto, 57 (2017), pp. 31-68. Si segnala che è all’esame della Commissione Cultura della Camera dei Deputati l’A.C. 395 sulla riforma del regime di accesso aperto alle informazioni scientifiche e ai prodotti della ricerca finanziati con fondi pubblici. 670 Cfr. F. CORTESE, Che cosa sono i beni comuni?, in M. BOMBARDELLI (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi. Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, Napoli, 2016, pp. 37-62. 671 Esemplare l’accaparramento di vastissime porzioni di terreni agricoli e forestali mediante il c.d. “land grabbing”: cfr. L. PAOLONI, Land grabbing e beni comuni, in M. R. MARELLA (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, cit., pp. 139-148; M. BALDARELLI, Beni comuni e terreni collettivi. Brevi note sulle frontiere del mercato fondiario in Africa, in A. QUARTA, M. SPANÒ (a cura di), Beni comuni 2.0. Controegemonia e nuove istituzioni, Milano, 2016, pp. 71-84. 249 commercializzazione delle utilità prodotte dalla risorsa in alcuni casi – l’appianamento delle disuguaglianze e la difesa dei beni tanto dalla distruzione che dall’abbandono672. Diversi sono i settori dove il “comune” sta orientando le scelte legislative e amministrative, a partire da quello più tradizionale delle risorse silvo-pastorali soggette a uso civico. Dopo la legge Zucconi sugli usi civici (l. 5489 del 24 giugno 1888), che cercò di realizzare un compromesso tra il riordinamento fondiario su base individuale e la conservazione delle proprietà collettive inscritte nella struttura economica italiana, intervenne la più nota legge 1766 del 16 giugno 1927 col proposito di sciogliere laddove possibile i gravami civici sulle proprietà private e ridimensionare l’estensione delle proprietà collettive. I tentativi di riformare la legge fascista furono intrapresi quasi subito ma con scarsi risultati, finché l’attuazione del regionalismo assegnò alle Regioni molte competenze in materia, diversificandone la disciplina. Dalla metà degli anni ’80, con la c.d. “legge Galasso” (l. 431 dell’8 agosto 1985) gli assetti fondiari collettivi acquisirono una specifica valenza ambientale e non più soltanto produttiva, orientamento poi avallato anche dalla giurisprudenza costituzionale673. Sulla scorta della mutata sensibilità nei confronti di un territorio rurale e boschivo che negli ultimi anni ha mostrato tutta la propria fragilità, e nell’ottica di un più ampio quadro di ripopolamento dei borghi e dei piccoli centri la legge n. 168 del 20 novembre 2017 la cui prospettiva muta già a partire dal lessico scelto: domini collettivi in luogo di usi civici, che sono ricondotti al novero dei beni collettivi. Sebbene non abroghi espressamente la legge del 1927 né si ponga come legge cornice per le leggi regionali, la 168 segna un punto di partenza tardivo per una organica attuazione legislativa dei principi costituzionali in tema di proprietà collettive su nuove basi. Lo Stato si propone come difensore dei domini collettivi, a tutela sia della loro vocazione produttiva che ambientale e paesaggistica, ma il dispiegamento degli effetti della legge andrà verificato nei prossimi anni674. Cfr. S. RODOTÀ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, 2013, pp. 4659-488; U. MATTEI, Il buon governo del comune. Prime riflessioni, in S. CHIGNOLA (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, Città di Castello, 2012, pp. 210-221; F. CAPRA, U. MATTEI, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro, 2017. 673 Vedi P. FALASCHI (a cura di), Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Camerino, 1991; F. MARINELLI, Gli usi civici, Milano, 2013, pp. 73-128, 250 e ss.; S. MURA, Parlamento e questione fondiaria nell’Italia liberale (1861-1914), Milano, 2017. La rilevanza delle comunità di villaggio e dei diritti collettivi sul patrimonio boschivo e agricolo locale era già stata sottolineata poco dopo l’approvazione della legge Galasso, cf. G. C. DE MARTIN (a cura di), Comunità di villaggio e proprietà collettive in Italia e in Europa, Padova, 1990. 674 Cfr. M. COSULICH, Gli assetti fondiari collettivi nell'ordinamento repubblicano: dalla liquidazione alla valorizzazione?, in Archivio Scialoja Bolla – Annali di studio sulla proprietà collettiva, 2, (2018), p. 9-26; più critico sull’utilità della legge 672 250 Sempre collegato alla rigenerazione dello spazio rurale è lo sviluppo di nuove forme di attività imprenditoriale che contemplano tra le loro mission anche la salvaguardia di beni comuni e di risorse ambientali, unitamente all’esercizio di attività economiche in campo agricolo o turisticoricettivo. Nella teoria dei commons in realtà l’idea che anche dei privati cittadini possano coprodurre beni comuni, definendo collettivamente il tipo di bene, l’organizzazione della produzione, le modalità di accesso è perlopiù ignorata ma ciò non ha impedito l’evoluzione di alcuni modelli societari caratterizzati dalla prevalenza dei fini sociali e ambientali sulla creazione di profitto. Spiccano in particolare le cooperative di comunità che, rispetto alle cooperative tradizionali, esercitano l’attività economica con lo scopo di perseguire lo sviluppo di comunità vulnerabili, massimizzando il benessere collettivo (non solo dei soci)675. Va notato che, in assenza di un riferimento normativo nazionale tanto sulla nozione di “bene comune” quanto sulle cooperative di comunità, sono state le leggi regionali a riconoscere queste forme innovative di imprenditoria, definendone i settori di attività e istituendo forme di sostegno mirate. La legge della Regione Liguria n. 14 del 7 aprile 2015 attribuisce la qualifica di cooperativa di comunità a quelle società cooperative che attraverso la valorizzazione delle risorse umane, delle innovazioni, dei beni culturali, ambientali e comuni accrescono le occasioni di lavoro e di reddito676. La diffusione spontanea di numerose cooperative di comunità sul territorio nazionale ha indotto anche il Ministero dello Sviluppo economico ad approfondire la sostenibilità economicofinanziaria di tali imprese. Tra i vari aspetti portati in luce dal rapporto, basatosi molto su case studies delle coop già attive, preme evidenziare come la governance dell’impresa sia difficilmente 168 e le sue lacune G. DI GENIO, Gli usi civici nella legge n. 168 del 2017 sui domini collettivi: sintonie e distonie attraverso la giurisprudenza costituzionale e il dibattito in sede Costituente, in Federalismi, 18 (2018), pp. 2-16. 675 Vedi i contributi raccolti in L. SACCONI, S. OTTONE, Beni comuni e cooperazione, Bologna, 2015; P. A. MORI, Comunità e cooperazione: l’evoluzione delle cooperative verso nuovi modelli di partecipazione democratica dei cittadini alla gestione dei servizi pubblici, in Euricse Working Papers, 77 (2015) disponibile al link http://www.euricse.eu/it/publications/wp-7715/ (consultato il 16 dicembre 2018); S. DEPEDRI, S. TURRI, Dalla funzione sociale alla cooperativa di comunità: un caso studio per discutere sul flebile confine, in Rivista impresa sociale, 5, 2015, pp. 65-82. 676 Tra i progetti integrati (art. 4) la valorizzazione dei beni comuni, ambientali e culturali è al primo posto, seguita dalla cura dell’ecosistema comunitario e la produzione di beni e la prestazione di servizi. Coerentemente con questa impostazione si possono citare l’art. 5 della c.d.c. di Mendatica “Brigì”, gli artt. 3 e 4 dello statuto della c.d.c. “Germinale” (Demonte, CN) e gli artt. 3 e 4 dello statuto c.d.c. “La Volpe e il Mirtillo” di Ormea (CN). Sotto il profilo della sperimentazione di questo modo di prendersi cura dei beni comuni dando (o ridando) al contempo occasioni di lavoro per i piccoli borghi dell’entroterra, la Liguria può senz’altro dirsi al passo di altre Regioni anche più popolose: R. LA MARCA, S. TRINGALI, Cooperative di comunità e beni comuni. Viaggio in Liguria: tra attivismo cooperativo e nuovi modelli di sviluppo locale, Labsus, 17 luglio 2018, disponibile al link http://www.labsus.org/2018/07/cooperative-dicomunita-e-beni-comuni/ (consultato il 19 dicembre 2018). 251 modellabile a priori, ma debba essere adattata alle circostanze del contesto comunitario di riferimento e alla qualità dei soci aderenti, per garantire allo stesso tempo efficienza, autogestione, democraticità e garanzia dell’accesso al bene o al servizio anche da parte dei non soci677. Un problema aperto dunque, che per quelle imprese dedite alla gestione di beni considerati comuni, richiede specifiche soluzioni coerenti con i principi fondamentali propri dei medesimi beni. Anche sull’acqua vanno registrati progressi, in particolare per il servizio idrico integrato che, nonostante le ovvie ricadute ambientali e la stretta correlazione con il bene acqua, comprende attività complesse basate sull’organizzazione di fattori (impianti di captazione, depurazione, reti idriche etc.) articolata e onerosa. Nello sforzo di fornire piena attuazione al referendum del 2011, fallito il primo tentativo di disciplinare la materia, è in corso d’esame presso la Commissione Ambiente della Camera dei Deputati l’esame della p.d.l. n. 52/2018 sulla gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque. In attesa dell’esito dell’iter parlamentare, si può soltanto notare la previsione di alcune misure importanti, come la garanzia di un diritto universale di accesso all’acqua, l’istituzione di un fondo per la ripubblicizzazione del SII, l’assegnazione al Ministero della determinazione delle tariffe e l’introduzione di strumenti di partecipazione civica alla governance locale del servizio. Un servizio la cui permanenza nel campo pubblico è ribadita più volte (artt. 8, 9, 10) ma che potrà realizzarsi secondo un principio di libera organizzazione678. Quello del servizio idrico è sicuramente il campo ove la tensione per sottrarre un bene (e il relativo servizio di fornitura) al mercato è più evidente, a motivo anche dei vincoli esterni imposti al bilancio pubblico e alle possibilità di spesa di Stato ed enti locali. Vincoli che appaiono tanto più irragionevoli se considerata l’ingente mole di lavori di adeguamento della rete e di realizzazione degli impianti di depurazione e che, d’altra parte, creano i presupposti politici per l’affidamento ai privati del servizio. La proposta di legge in esame sembra dunque avviata per la giusta strada di coniugare pubblicità del servizio e previsione di fondi per gli investimenti negli impianti e nella rete, senza i quali la qualifica di bene comune data all’acqua resterebbe una mera petizione di principio. Ministero dello Sviluppo Economico, Studio di fattibilità per lo sviluppo delle cooperative di comunità, Roma, 2016, pp. 188-201. 678 Sull’acqua vedi almeno A. LUCARELLI, Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica, Viareggio, 2011; F. CAPORALE, I servizi idrici. Dimensione economica e rilevanza sociale, Milano, 2017. 677 252 Correlate alle acque vanno citati i c.d. “contratti di fiume”, disciplinati dall’art. 68-bis del codice dell’ambiente (D. Lgs. 152/2006)679. Tramite questi atti di pianificazione negoziata, su base volontaria, Stato, Regioni, Enti locali, autorità di bacino, privati possono individuare insieme le politiche più idonee per contenere il degrado eco-paesaggistico e riqualificare i territori dei bacini idrografici. La comunità nel suo complesso è dunque chiamata ad elaborare una visione condivisa, facendo emergere tanto i conflitti quanto gli interessi condivisi680. Il contratto di fiume declina in un ambito specifico i principi di sussidiarietà orizzontale e verticale, prestandosi facilmente ad essere uno strumento giuridico duttile per la tutela del bene comune fiume attraverso il coinvolgimento e la corresponsabilizzazione della stessa comunità insiediata. Da ultimo si possono citare i commons urbani, cioè tutti quei beni immobili pubblici di varia natura (edifici, giardini, parchi urbani, impianti sportivi) che versano in uno stato di abbandono e degrado ma di cui gruppi più o meno ampi di “cittadini attivi” decide di prendersi cura, restituendone la fruizione al pubblico. Oltre alle iniziative di occupazione più clamorose, come il Teatro Valle a Roma, in decine di altre città si sono verificati casi di riappropriazione di spazi pubblici, in accordo con le amministrazioni locali o in loro vece. Anche in questo caso risulta essenziale la presenza degli elementi di base per la gestione di un bene collettivo (individuazione chiara del gruppo di interessati, modalità decisionale partecipata e trasparente, assenza di fini di lucro), ma i percorsi amministrativi che hanno dato legittimità a queste pratiche sono diversi. Un primo, importante laboratorio è costituito dal Comune di Napoli, che dopo le elezioni vinte da Luigi De Magistris nel 2011 istituisce un apposito Assessorato ai Beni comuni. Al lavoro di questo ufficio vanno ricondotte due delibere sulla rigenerazione degli immobili pubblici e privati, da destinare a quei soggetti che vogliano restituire alla proprietà immobiliare la sua piena funzione sociale. In entrambi i casi il Comune è l’ente mediatore del cambio di destinazione o del passaggio di proprietà, a lui spetta individuare i soggetti (associazioni, comitati, cooperative etc.) per la gestione del bene e di vigilare sul mantenimento della fruizione collettiva della cosa681. L’articolo è stato inserito all’art. 59 c. 1 della legge 221 del 28 dicembre 2015 (c.d. “collegato ambientale” alla Legge di stabilità 2016): «I contratti di fiume concorrono alla definizione e all'attuazione degli strumenti di pianificazione di distretto a livello di bacino e sottobacino idrografico, quali strumenti volontari di programmazione strategica e negoziata che perseguono la tutela, la corretta gestione delle risorse idriche e la valorizzazione dei territori fluviali, unitamente alla salvaguardia dal rischio idraulico, contribuendo allo sviluppo locale di tali aree». 680 È stata elaborata anche una Carta nazionale dei contratti di fiume ed è ormai operativo da un decennio il Tavolo nazionale dei contratti di fiume, http://nuke.a21fiumi.eu/. 681 Trattasi delle delibere n. 258 e 259 della Giunta Comunale di Napoli, che traducevano in atto amministrativo le proposte avanzate da Alberto Lucarelli, giuspubblicista ben addentro al tema dei beni comuni. Vedi ad es. A. LUCARELLI, Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, in Costituzionalismo.it, 3 (2014) al link 679 253 Altro strumento amministrativo che sta conoscendo un notevole successo è quello dei patti di collaborazione, attraverso i quali numerose amministrazioni traducono operativamente i principi di sussidiarietà e di amministrazione condivisa con la cittadinanza. La stesura del patto è il momento di emersione dell’interesse generale del caso concreto, per la cura del quale amministrazione e cittadinanza individuano congiuntamente obiettivi, mezzi finanziari, coinvolgimento di altri enti etc. e il suo contenuto può essere vario, purché abbia un bene comune come punto terminale dell’azione combinata di Ente locale e comunità. Nonostante la ricorrente applicazione dei patti per la gestione di cose semplici (aree verdi, giardini), non va sottovalutata la loro diffusione sul territorio e la potenziale adattabilità a realtà complesse682. L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura, richiamando anche i principi espressi dalla carta europea sui beni comuni683. Quanto esposto fin qui sembra sufficiente per dimostrare le molteplici direttrici su cui si articola la gestione di un bene da parte di una collettività. Si intersecano interessi diversi, politiche pubbliche assegnate dall’ordinamento ad enti di differente livello, grande mutevolezza delle caratteristiche sia degli stakeholders che delle risorse gestite. Inoltre già questi pochi esempi dimostrano che trascinare sul banco degli imputati delle crisi contemporanee non solo la (rapace) proprietà privata, ma anche lo Stato sovrano e privatizzatore è un’operazione forse ideologicamente attraente ma in concreto controproducente. Come spiegato in sede introduttiva, appiattire lo Stato su un’unica posizione non rende giustizia al suo divenire storico e preclude la possibilità di farne un alleato – come in molti casi si sta già dimostrando – contro gli aspetti deteriori del liberismo684. http://www.costituzionalismo.it/articoli/492/ (consultato il 19 dicembre 2018); ID., Beni comuni e funzione sociale della proprietà: il ruolo del Comune, in L. SACCONI, S. OTTONE, Beni comuni e cooperazione, cit., pp. 111-122. 682 Cf. G. ARENA, Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, in M. BOMBARDELLI (a cura di), Prendersi cura, cit., pp. 283-306; ID., Che cosa sono e come funzionano i patti per la cura dei beni comuni, in Labsus.org, 6 febbraio 2016, disponibile al link http://www.labsus.org/2016/02/cosa-sono-e-come-funzionano-i-patti-per-la-cura-dei-beni-comuni/ (consultato il 19 dicembre 2018); C. ANGIOLINI, Possibilità e limiti dei recenti regolamenti comunali in materia di beni comuni, in A. QUARTA, M. SPANÒ (a cura di), Beni comuni 2.0, cit., pp. 147-156. Proprio al laboratorio di Labsus si deve un rapporto annuale sul numero e la tipologia di patti di collaborazione per la gestione dei beni comuni in Italia. Sempre in tema di urban commons e soluzioni alternative M. R. MARELLA, La difesa dell’urban commons, in M. R. MARELLA (a cura di), Oltre il pubblico, cit., pp. 185-201; A. VERCELLONE, Urban commons e modelli di governo. Il community land trust, in A. QUARTA, M. SPANÒ (a cura di), Beni comuni 2.0, cit., pp. 171-185. 683 Cf. A. SIMONATI, Per la gestione “partecipata” dei beni comuni: una procedimentalizzazione di seconda generazione?, in M. BOMBARDELLI (a cura di), Prendersi cura, cit., pp. 103-142; F. GIGLIONI, Beni comuni e autonomie nella prospettiva europea: città e cittadinanze, ivi, pp. 151-218. 684 Cfr. A. ALGOSTINO, Riflessioni sui beni comuni tra il “pubblico” e la Costituzione, in Costituzionalismo.it, 3, 2013 al link http://www.costituzionalismo.it/articoli/460/ (consultato il 19 dicembre 2018); L. PENNACCHI, Beni comuni e politica progressista: l’erosione della democrazia e il futuro della sfera pubblica, in L. SACCONI, S. OTTONE, Beni comuni e cooperazione, cit., pp. 81-110. 254 In un quadro così variopinto e denso di problematiche da risolvere nel presente, cosa può dire uno storico? Ad avviso di chi scrive due cose. Premesso che qualsiasi ricerca storicamente accurata ha evidenziato sia la centralità del conflitto tra comunità e signori o città per la creazione di spazi politici e la definizione delle regole di accesso, sia la non sovrapponibilità della proprietà collettiva storica con ciò che nel XXI secolo viene inteso come bene comune, è innegabile che una delle chiavi di volta storicamente più efficaci risieda nella tutela giudiziale di un diritto diffuso all’uso dei beni pubblici. Lo si è visto anche a proposito dell’operato del Magistrato delle Comunità, quando l’attivazione del procedimento di recupero dei beni occupati manifestava formalmente un bisogno da soddisfare, chiarendo solo dopo l’avvio dell’azione le posizioni soggettive degli attori coinvolti. Come osservato da Spanò una ridefinizione teorica della tutela potrà proteggere le nuove forme di vivere, produrre e cooperare create dal “comune”685. In secondo luogo la conoscenza storica tanto della storica duttilità del contenuto dei diritti di proprietà quanto delle pratiche di utilizzo di specifici beni comuni locali può validamente supportare iniziative di riattivazione di quei beni in vista di una riappropriazione collettiva del territorio. L’attivazione di circuiti relazionali intorno alla gestione di un bene, la convergenza operativa di soggetti pubblici e privati in vista dell’attuazione di un progetto possono allora dare nuovamente luogo a quella “produzione dei luoghi” per mezzo della cooperazione tra soggetti che caratterizza l’antichità. Un processo storico, si è detto, che dunque può riproporsi ma che non potrà mai dirsi perfettamente compiuto. Per i diversissimi campi di applicazione dei principi del “comune”, pare dunque profilarsi la domanda di giuristi capaci padroneggiare competenze che spaziano dal diritto civile a quello pubblico, passando per materie trasversali e soggette ad articolati riparti di competenza tra enti di diverso livello, a nozioni di economia aziendale. Siamo forse all’alba di un nuovo mestiere, il giurista dei commons? A giudicare dalla platea di soggetti interessati dalla neonata Scuola Italiana Beni Comuni si potrebbe dire di sì686. Neppure questa specializzazione sarebbe a ben vedere una novità assoluta, come dimostrano le figure più note di dottori incontrate nei capitoli centrali, da 685 Cf. V. CERULLI IRELLI, L. DE LUCIA, Beni comuni e diritti collettivi, in Politica del diritto, XLV, 2014, pp. 3-35. Sulla nozione di “diritto pubblico diffuso” e la relativa tutela popolare vedi da diverse prospettive A. DI PORTO, Res in publico usu, cit., pp. 78-89; M. SPANÒ, Il comune rimedio. Un’apologia minima della tutela, in A. QUARTA, M. SPANÒ (a cura di), Beni comuni 2.0, cit., pp. 133-146. 686 Nata in partnership tra Labsus, Università di Trento ed Euricse la Scuola organizza corsi di formazione specifici rivolti ad imprenditori del profit e no profit, funzionari pubblici e professionisti chiamati a svolgere attività di consulenza giuridica e finanziaria tanto in fase di progettazione che nella successiva fase di gestione del bene o servizio. 255 De Otero a Pecchi e Gobbi, capaci di maneggiare diversi iura propria all’interno di una più ampia cornice concettuale e valoriale espressa dal diritto comune per “giuridicizzare” situazioni possessorie uniche. L’irriducibilità della categoria a definizioni esaurienti e schemi completi lascerà molto probabilmente largo spazio ai giuristi nel fissare gli avanzamenti della materia lavorando tanto sul piano dell’elaborazione concreta di soluzioni di governance delle risorse, sia promuovendo l’introduzione di principi e norme coerenti con la dimensione ecologica del diritto687. Se sarà quello ambientale il tema politico principale del XXI secolo, la scienza giuridica italiana non si farà trovare impreparata, anche ai beni comuni. Sulla necessità di importare intorno ai commons naturali un governo dell’economia e della società più attento alle condizioni ambientali del pianeta, attraverso la revisione dei diritti di proprietà e la definizione di nuovi rapporti tra Stato e mercato, vedi B. H. WESTON, D. BOLLIER, Green governance. Ecological survival, human rights and the law of the commons, New York, 2013, in particolare pp. 123-225. 687 256 Bibliografia Aa.Vv. 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