UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI DOTTORATO IN DIRITTO
CURRICULUM DI FILOSOFIA DEL DIRITTO E BIOETICA GIURIDICA
XXX CICLO
TESI DI DOTTORATO
Il governo delle comunaglie. Fonti, gestione, conflitti e tutela dei beni ad
uso collettivo nella Liguria d’età moderna
SSD IUS/19
Tutor:
Chiar.mo Prof. Riccardo Ferrante
Chiar.mo Prof. Realino Marra
Candidato:
dott. Daniele Rosa
Anno Accademico 2018/2019
«La più abusata delle domande è quella che si chiede se l'incoscienza non giovi alla serenità più della
conoscenza, se l'innocenza non sia quindi da invidiare più della consapevolezza. Io dico invece che la
questione da porsi è se davvero abbiamo la possibilità di conoscere a fondo, se quel coordinato rimpallo di
domanda e risposta non sia solo un gesto insensato che si ripete in modo meccanico e ciò che raccogliamo a
seguito dei nostri interrogativi non siano elementi insufficienti che ci facciamo bastare e chiamiamo
conoscenza. Quindi di un rimpallo parliamo, ma molte delle volte la palla lanciata con un quesito non torna
più neanche indietro, precipita nel vuoto di un burrone. Allora, certo, la leggerezza va a braccetto con la
conoscenza o l'ignoranza? Ma il dilemma si divide tra chi si pone le domande e chi non lo fa. Non hanno
nessuna importanza le risposte, forse esse neanche esistono, e non sono significative neppure per l'annosa
questione che riguarda la beata innocenza. Tutto ciò che conta è porsi la domanda, quella giusta. Gli
interrogativi esatti creano la pressione per andare alla ricerca delle soluzioni, danno il via al cammino, fanno
scegliere percorsi e strade. Conta davvero la meta?»
(ALESSANDRO BILLOTTA, «Il colore giallo» – Mercurio Loi)
Con la presente tesi giunge a compimento il percorso di studio presso la Facoltà (ora Dipartimento) di
Giurisprudenza dell’Università di Genova, che mi ha visto prima studente del Polo didattico di Imperia e poi
dottorando del XXX ciclo del curriculum di Filosofia del diritto e bioetica giuridica. Un percorso impegnativo
ma estremamente gratificante, che ha inciso indelebilmente sul mio modo di intepretare (per non andare
fuori tema…) il mondo circostante.
La scrittura delle pagine che seguono, avvenuta non senza qualche fatica, non sarebbe stata possibile senza
l’ausilio di Maestri al contempo pazienti e illuminanti. Storici, d’altronde, non si diventa in un giorno e per
quel poco o tanto di buono che sono riuscito ad infondere in questo lavoro devo ringraziare i proff. Rodolfo
Savelli e Riccardo Ferrante. Senza la loro guida per l’avviamento alla frequentazione degli archivi, senza i
suggerimenti e le salutari “stroncature” delle redazioni intermedie questa tesi sarebbe stata ben più
mediocre. Un ringraziamento va anche al prof. Realino Marra per la cotutela e i suggerimenti per la stesura
del capitolo I.
Unitamente a loro, ringrazio tutti i componenti della sezione di Storia del diritto: dal prof. Vito Piergiovanni,
alle professoresse Maura Fortunati e Roberta Braccia, nonché il prof. Lorenzo Sinisi e le dottoresse Daniela
Tarantino e Federica Furfaro, fino all’amico Valter Montallegro e all’amico (e collega) Matteo Fiocca. È
grazie a loro che il secondo piano di via Balbi 30 è stato in questi quasi quattro anni un luogo dove
coniugare studio sereno, confronto intellettuale stimolante e, perché no, anche momenti di allegria.
Il dottorato ha rappresentato anche la prima prova di vita “indipendente”, contrassegnata da esperienze e
conoscenze del tutto nuove. A chi mi ha accompagnato per un tratto di cammino come coinquilino/a nel
mitico appartamento di Vico dietro il coro di S. Cosimo va un grazie per avermi sopportato e/o supportato.
Tra tanti, una menzione speciale va a Noemi, compagna di banco prima e di casa poi, la migliore “sorella
mancata” che potessi avere. Ringrazio tutti gli amici e compagni della sede genovese dell’ADI, augurando a
chi verrà dopo di me nel direttivo di mantenere ADIGe un luogo di aggregazione e di azione concreta a
favore di tutti i colleghi che vivono e fanno ricerca di base a Genova. Ringrazio poi Daniele, Francesco e
Lorenzo, promettenti medievisti che mi hanno accolto con entusiasmo durante le scuole dottorali toscane. A
Daniele va anche il ringraziamento per aver letto il capitolo I in anteprima.
La preparazione della tesi ha richiesto anche un certo sacrificio di tempo, sottratto ad altre persone care.
Giunto alla fine mi sento in dovere di chiedere venia a tutto il gruppo dei “Chiurli” per i numerosi pacchi
tirati loro dal 2015 al 2018. Ragazzi e ragazze, non avete idea di quanto siate stati importanti nel riempire il
(poco) tempo libero passato a Tovo di cose buone. Ringrazio anche tutto il gruppo di attivisti del MoVimento
5 Stelle di Pietra Ligure per aver compreso le ragioni della mia temporanea sparizione dal Meetup.
Infine per il supporto e l’affetto mai venuto meno ringrazio zii, cugini e parenti. Ai miei genitori Mary e Nico
il grazie finale e più grande, non solo per non avermi fatto mancare niente per i primi trent’anni di strada
con grandi sacrifici, ma anche per la fiducia nelle scelte che ho compiuto negli ultimi anni. Con la certezza
che essa non verrà mai meno.
Dedico a loro questa tesi e idealmente anche a Maria e alla Pina, le prime “fonti orali” sulla dura vita
contadina dell’entroterra ligure di inizio Novecento, che hanno vegliato su tanta parte della mia infanzia.
Con i loro racconti mi hanno instillato l’interesse per un mondo che non c’è più e un profondo rispetto per il
territorio in cui vivo.
Elenco abbreviazioni:
ASGe: Archivio di Stato di Genova
ASSr: Archivio di Stato di Imperia – Sezione di Sanremo
ASCA: Archivio Storico Comunale di Albenga
ASCPDT: Archivio Storico Comunale di Pieve di Teco
ASCSSM: Archivio Storico Comunale di Santo Stefano Magra
BCB: Biblioteca Civica Berio – Genova
BUG: Biblioteca Universitaria di Genova
CSBG: Censtro Servizi Bibliotecari del Dipartimento di Giurisprudenza di Genova
ASCFL: Archivio Storico Comunale di Finale Ligure
RSL: Repertorio degli Statuti della Liguria
DBC: Dictionnaire des biens communs
Sommario
Introduzione ......................................................................................................................................... 1
Capitolo I – I beni comuni tra storiografia della proprietà e dello Stato ............................................. 7
1.a) I “miti delle origini” della proprietà collettiva e del comune rurale .......................................... 7
1.b) Storici e giuristi di fronte al pluralismo proprietario medievale ............................................. 11
2.a) Beni comuni o beni del comune? Il problema della titolarità secondo la principale
storiografia ..................................................................................................................................... 18
3.a) Stato e corpi territoriali tra “macro” e “micro” storie ............................................................ 25
3.b) Stato e beni comuni in Liguria ................................................................................................. 36
CAPITOLO II - Le istituzioni di gestione dei beni comuni: il “metodo Ostrom” applicato alla ricerca
storica ................................................................................................................................................. 43
1.a) L’approccio neo-istituzionale allo studio dei beni comuni ...................................................... 43
2.a) Le risorse agro-silvo-pastorali dal Corpus iuris alla campagna ligure .................................... 47
2.b) Le acque interne e le res communes omnium ......................................................................... 54
3.a) Il modello di Ostrom applicato alla Repubblica di Genova: fonti e istituzioni locali ............... 62
3.b) Segue: magistrature e fonti statali ......................................................................................... 70
Capitolo III - Governare terre contese: fonti e conflitti per l’utilizzo di boschi e pascoli .................. 78
1) COMUNAGLIE E QUESTIONI DI CONFINE IN VALLE D’ARROSCIA .................................................................. 78
1.a) Il capitanato di Pieve di Teco e la fisionomia delle comunaglie .......................................... 78
1.b) I diritti d’uso delle comunaglie ............................................................................................ 81
1.c) La gestione dei beni tra necessità finanziarie e giurisdizionali ............................................ 89
1.d) Le comunaglie pievesi viste da Genova: i diritti collettivi come strumento di governo del
territorio e difesa dei confini....................................................................................................... 94
2) IL BOSCO DI SANREMO .................................................................................................................... 100
2.a) Le risorse forestali del Ponente ligure ............................................................................... 100
2.b) Il nemus Sanctiromuli: un bosco comune o comunale?..................................................... 103
2.c) Il governo del bosco: magistrature e politica forestale (1583-1753) ................................ 107
2.d) Il bosco attraverso la “rivoluzione” del 1753: cesure e continuità .................................... 112
Capitolo IV - Governare le privatizzazioni: le istituzioni liguri e la tutela delle comunaglie ........... 119
1.a) Introduzione ....................................................................................................................... 119
2.a) Il problema del recupero dei beni usurpati in dottrina: due consilia di Della Corgna ed
Ondedei ..................................................................................................................................... 124
2.b) Il Magistrato delle Comunità di fronte alle occupazioni ................................................... 134
3.a) La gestione degli abusi tra azione centrale e ambiente locale.......................................... 142
3.b) Autonomia e conflitto sociale: il caso di Castiglione Chiavarese....................................... 151
4.a) Le alienazioni: difesa dei beni o difesa delle regole? ......................................................... 162
Capitolo V- Le acque interne liguri: un bene comune? ................................................................... 171
1) Il governo delle acque tra mutamenti economici e scienza giuridica...................................... 171
1.a) Le politiche di gestione delle acque interne: gerarchia di diritti d’uso e istituzioni .......... 171
1.b) Il contributo della scienza giuridica al “giure delle acque” ............................................... 179
2) «RIGANO LA LIGURIA MARITTIMA MOLTE FIUMARE». DIRITTO E ISTITUZIONI DI GESTIONE DELLE ACQUE INTERNE
LIGURI ............................................................................................................................................. 186
2.a) La gerarchia dei diritti d’uso nelle fonti locali ................................................................... 186
2.b) Gestione e autorità di controllo sulle acque tra Genova e il Dominio ............................... 194
2.c) Governare un fiume di confine: diritto e conflitti in riva al Magra .................................... 203
2.d) Una fertile pianura dall’aria malsana: la fallimentare gestione delle acque ad Albenga 212
CAPITOLO VI - Dalle comunaglie al diritto del “Comune” ............................................................... 221
1) IL GOVERNO DELLE RISORSE COLLETTIVE IN UN TERRITORIO COMPLESSO: UN PARZIALE BILANCIO..................... 221
1.a) Le risorse collettive liguri: la lunga resilienza di un modo di possedere ............................ 221
1.b) Successi e fallimenti nella gestione dei beni comuni tra Stato e comunità ....................... 227
2) OLTRE I BENI COMUNI. TEORIE SUL “COMUNE” E SPERIMENTAZIONI TRA FRANCIA E ITALIA ........................... 239
2.a) I communs in Francia: una teoria ancora inattuata .......................................................... 240
2.b) Il movimento per i beni comuni in Italia: verso un giurista dei commons? ....................... 247
Bibliografia ....................................................................................................................................... 257
Introduzione
«Lo Feudalesimo est lo novo che avanza, tremate perché pugneremo ad oltranza!». Con
questa minaccia i Nanowar of Steel chiudono l’inno di “Feudalesimo e Libertà”, il finto partito
politico nato su Facebook nel 2013 con l’obbiettivo di restaurare la società feudale in Europa,
ricostituendo il Sacro Romano Impero. Il fenomeno “FeL” ha indubbiamente “sfondato” sui social
network per la sua capacità di portare il neo-medievalismo su temi e medium nuovi (la parodia
politica e sociale e i social, appunto) al punto da diventare un brand con una identità ben
riconosciuta, capace di ritagliarsi una fetta di mercato per prodotti ludici e di abbigliamento.
Com’è noto il neo-medievalismo, inteso come la rappresentazione di un medioevo alternativo a
quello indagato dagli storici, vera e propria fabbrica di tradizioni identitarie e culturali, più o meno
buio o violento, etnico o interraziale, religioso o amorale, non nasce con Feudalesimo e Libertà.
Lungo il Novecento il medioevo – ma sarebbe più corretto parlare di “medioevi” – ha
rappresentato l’inesauribile cassetta degli attrezzi dalla quale autori di libri, film, canzoni, gruppi
politici hanno estratto materiale in quantità, riplasmato ogni volta a seconda delle esigenze. Dopo
un relativo periodo di quiete, anche i medievisti hanno ripreso ad analizzare virtù e difetti del
medioevo “di ritorno” del terzo millennio1.
Se il medievalismo può veicolare una visione distopica della società e del costume di una
decina di secoli fa a fini artistici o folkoristici, maggiori problemi si pongono allorquando la storia è
posta alla base di ricerche scientifiche. In particolare il ricorso alla storia da parte dei giuristi –
storici, giuristi positivi, giudici, ciascuno con un proprio scopo – è tanto frequente quanto
disseminato di controindicazioni potenzialmente distorsive. Come avverte Cassese, la storia è
(deve essere) compagna necessaria del diritto, ma perché il rapporto possa dirsi reciprocamente
fruttuoso esso deve assestarsi su condizioni di parità e di verità. Il rischio è che una falsa storia,
ossia una ricostruzione parziale o avulsa dal contesto, getti le basi per un falso diritto o
ragionamento giuridico2. Detto rischio è destinato ad aumentare notevolmente allorquando, per
delicatezza e complessità dei temi trattati, la ricostruzione delle radici non può essere che
Vedi la sintesi di T. DI CARPEGNA FALCONIERI, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbari e crociati,
Torino, 2011.
2
S. CASSESE, La storia, compagna necessaria del diritto, in Le Carte e la Storia, XV, 2 (2009), pp. 5-11.
1
1
altrettanto articolata, con la concreta possibilità che alla fine l’argomento storico indebolisca la
tesi che si vuole sostenere, invece di rafforzarla.
Una dimostrazione delle controindicazioni di un approccio disinvolto alle fonti storiche è
data dalla recente produzione scientifica sui c.d. beni comuni. Argomento, quello della storia della
proprietà collettiva, in realtà già ampiamente discusso da storici e giuristi già a partire dall’ultimo
Ottocento e che ha conosciuto una nuova giovinezza a partire dai primissimi anni del nuovo
millennio. In Italia in particolare i beni comuni sono rapidamente entrati nel lessico politico, anche
grazie alla campagna referendaria del 2010-2011 contro la messa sul mercato della gestione del
servizio idrico integrato, campagna efficacemente denominata “Acqua Bene Comune”. Di quella
campagna fu protagonista il civilista Ugo Mattei, redattore dei quesiti referendari, già membro
della Commissione Rodotà per la riforma della disciplina codicistica dei beni e successivamente
presidente dell’azienda municipale dei servizi idrici del Comune di Napoli. Si deve a Mattei il salto
di qualità compiuto dai beni comuni, trasformatisi in parola d’ordine di un altro modo di gestire la
res publica e di ordinare la società, opposto ai paradigmi neo-liberali attualmente maggioritari.
Lasciando in disparte le implicazioni politiche del discorso – sulle quali il confronto è
tutt’altro che chiuso – non si può fare a meno di notare l’importanza rivestita dalla storia nel
Manifesto per i beni comuni scritto dallo stesso Mattei3. La tesi è ormai nota: fino alla modernità,
la società dell’Occidente medievale è permeata dai principi solidaristici cristiani e da consuetudini
e costumi popolari locali che pongono comunità e corpi sociali in un rapporto di simbiosi.
L’equilibrio tra uomo è natura è sancito dalla conservazione dei beni comuni, in un contesto
giuridico dove i diritti di proprietà privata sui fondi sono nettamente minoritari. Questo mondo
olistico viene gradualmente messo in crisi e soppiantato dall’affermazione di nuovi valori
(individualismo giuridico, razionalismo scientifico) e da un diverso ruolo dello Stato, che
rivendicata con successo la sovranità assoluta si fa regista dello smantellamento dei beni comuni
(fondamentale qui il richiamo alle enclosures inglesi) e della riforma della proprietà privata fino al
trionfo dei codici4. Le critiche alla proposta di Mattei non hanno tardato a comparire ed hanno
evidenziato l’eccessiva semplificazione del pensiero di alcuni intellettuali vissuti nei secoli cruciali
(XVI e XVII), troppo rapidamente iscritti nella lista nera dei “nemici” dei beni comuni5.
Cfr. U. MATTEI, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011.
Più recentemente vedi anche F. CAPRA, U. MATTEI, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro,
2017.
5
Cfr. E. VITALE, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari, 2013.
3
4
2
Ora, Mattei mutua da uno storico del diritto di livello quale Paolo Grossi il punto di vista
della scienza giuridica per svolgere l’analisi dell’evoluzione storica del diritto di proprietà, notando
correttamente le manipolazioni apportate già nel XIII secolo agli istituti romanistici per adattarli
alle situazioni possessorie medievali. Ma al di fuori del diritto “dotto” era vigente nelle campagne
un diritto consuetudinario, frutto di continue negoziazioni – che presupponevano dei conflitti –
per l’accesso ai beni comuni e la salvaguardia delle risorse collettive. In questa direzione però
l’indagine si ferma ad un superficiale richiamo al “diritto popolare consuetudinario” dei beni
comuni, senza approfondire né le dinamiche sociali sottese a quel diritto né il rapporto tra autorità
pubblica e proprietà collettive, considerato inesistente fino all’avvento dello Stato
sovrano/privatizzatore. Se una simile approssimazione si può spiegare con il taglio un po’ da
pamphlet del libro, è però stato giustamente notato da Ferrante che una storia “non presa sul
serio”, che riduce il medioevo a folklore da palio, causa più danni che benefici alla teoria dei beni
comuni, sempre che l’argomento storico possa essere utile a tal fine6.
Inoltre la critica che viene rivolta allo Stato privatizzatore amalgama in un
continuum politico-istituzionale circa quattro secoli di storia, come se dalle Parliamentary
enclosures al 2011 non fosse mutato nulla. Eppure lo Stato contemporaneo ha ancora un ruolo
nell’erogare servizi indispensabili per la cittadinanza, dalla sanità alla scuola, e in attesa di
eventuali rivoluzioni resta ancora il soggetto munito dell’autorità di tutelare d’imperio i diritti
individuali e collettivi. L’attacco generico all’ideologia neo-liberale e alla globalizzazione, in sé
condivisibile, manca però di individuare i concreti dispositivi giuridici con cui tale ideologia si è
potuta imporre negli ordinamenti. Ciò significherebbe evocare come parte del problema il diritto
comunitario dell’Unione Europea e, soprattutto, le asimmetrie insite nella costruzione della
moneta unica, che hanno profondamente snaturato le funzioni di governo dell’economia degli
Stati europei7.
Il presente lavoro nasce dunque con questo intento: effettuare una ricerca sulle forme
storiche di proprietà collettiva senza pregiudizi né precomprensioni, e senza neppure voler porre
in una antistorica continuità gli usi civici feudali e le molteplici sperimentazioni contemporanee
Cfr. R. FERRANTE, La favola dei beni comuni, o la storia presa sul serio, in Ragion pratica, 41 (2013), pp. 319-332.
Cfr. A. BAGNAI, Crisi finanziaria e governo dell’economia, in Costituzionalismo.it, 3 (2011), disponibile al link
http://www.costituzionalismo.it/articoli/406/; L. PATRUNO, La “teologia economica” dell’Europa e il “banco da
macellaio” (Schlachtbank) della Storia, in Costituzionalismo.it, 3 (2011), disponibile al link
http://www.costituzionalismo.it/articoli/394/; G. BUCCI, Le fratture inferte dal potere monetario e di bilancio europeo
agli
ordinamenti
democratico-sociali,
in
Costituzionalismo.it,
3
(2012),
disponibile
al
link
http://www.costituzionalismo.it/articoli/431/ (links consultati il 27 dicembre 2018).
6
7
3
nella cura dei beni qualificati come comuni. Lo scopo è quello di confermare, semmai ve ne fosse
bisogno, la complessità storica di concetti come “Stato”, “comunità”, “proprietà”, così come
l’originalità dei diversi percorsi politici e giuridici che condussero verso un nuovo rapporto tra
individuo e cose. In altre parole: le vicende inglesi si riprodussero pari pari ovunque? O invece un
mondo così spiccatamente policentrico come quello dell’Italia medievale e moderna non poteva
che dare luogo ad esperienze uniche, quantunque confrontabili? Le condizioni economiche e
sociali delle comunità rurali, così come le caratteristiche ambientali e politiche del territorio
mutavano da Stato a Stato – talvolta da regione a regione – ed è dunque difficile credere ad un
quadro dove prevale la tinta unita.
Quale terreno di indagine si è scelta la Liguria, per condurre una ricerca tra le carte
d’archivio tanto centrali – cioè prodotte dalla Repubblica di Genova – quanto locali, conservate
presso gli archivi storici di alcuni Comuni liguri. Il modello analitico di riferimento, utilizzato per
“unire i puntini”, è dichiaratamente quello fornito da Ostrom, che ha dimostrato la capacità di
adattamento dei diritti di proprietà colllettiva alle caratteristiche del bene e del contesto e la reale
possibilità di una efficace regolazione dell’uso del bene da parte della comunità di utenti. Ispirarsi
ai lavori di Ostrom aumenta il numero delle questioni da considerare per la ricostruzione di un
quadro sufficientemente esauriente. Il riferimento alle “istituzioni” chiama infatti in causa tutti gli
stakeholders coinvolti nel processo di elaborazione delle regole, ciascuno mosso da interessi e
obbiettivi specifici.
Oggetto dello studio sono perciò le comunaglie, vale a dire le risorse naturali sfruttate
collettivamente dalle popolazioni liguri dei secoli XIII-XVIII. La ricerca ha dimostrato che ben lungi
dall’essere beni esposti alla sola estrazione di utilità dei free rider, esse erano oggetto di una
disciplina concordata a livello locale, spesso nel quadro di un più ampio disegno di governo
territoriale deciso a Genova. Per dimostrare la solidità di alcune linee di fondo nel rapporto tra
Repubblica, comunità e beni collettivi si è associata alla più tradizionale analisi della gestione delle
risorse agro-silvo-pastorali una parte dedicata al governo delle acque interne liguri. Un aspetto,
quello del governo delle acque, ancora largamente trascurato dalla storiografia giuridica che pure
si è interessata al tema dei beni naturali, ma che sembra fornire importanti spunti in ordine sia alla
capacità degli ordinamenti medievali di mediare efficacemente il conflitto appropriativo delle
risorse idriche, sia per l’alto tasso di specializzazione raggiunto da alcuni giuristi nella materia de
qua.
4
Il binomio Stato – proprietà, per alcuni autori soggetto al brocardo «Simul stabunt, simul
cadent», è stato posto al centro della ricerca fin dal primo capitolo, che fa il punto sulla
storiografia tanto in materia di proprietà quanto di statualità moderna e relazioni tra comunità e
Stato d’antico regime per mostrare come quello dei beni comuni possa essere un valido campo
d’indagine per studiare congiuntamente due processi: la costruzione dello Stato e l’evoluzione
delle forme collettive di utilizzo delle risorse. Il secondo capitolo cala poi il metodo proposto da
Elinor Ostrom nella realtà giuridica di diritto comune (per quanto concerne la tassonomia dei beni)
e nel contesto istituzionale e politico ligure d’età moderna, esponendo le molte zone d’ombra e i
pregiudizi intorno allo “Stato dei Genovesi”. I capitoli centrali (da III a V) sono dedicati allo studio
di casi sulla base dei risultati delle ricerche d’archivio. L’analisi intreccia statuto giuridico delle
singole risorse esaminate (e relative fonti del diritto), natura e caratteri dei conflitti intorno
all’accesso al bene, obbiettivi perseguiti e strumenti impiegati dallo Stato nel suo intervento,
laddove avvenuto. Infine il capitolo VI, che funge anche da conclusione del lavoro, traccia un
sintetico bilancio tanto sulla vicenda storica dei beni comuni in Liguria tra medioevo ed età
moderna quanto sul ruolo giocato dalla Repubblica in particolare tra Sei e Settecento, epoca in cui
iniziavano a diffondersi idee ostili verso le terre comuni. Non apparirà sorprendente il fatto che la
parabola delle comunaglie dal basso medioevo si proietti in Liguria fin dentro il Novecento. Le
ultime pagine, mettendo brevemente a confronto i dibattiti contemporanei sui beni comuni tra
Italia e Francia, rilevano come il grande impegno dei giuristi italiani sul tema stia generando un
positivo miglioramento di molti istituti giuridici (dalla disciplina dei servizi idrici alle cooperative) e
una trasformazione delle prassi amministrative, seppur in maniera disorganica.
Ai beni comuni, e ancor più all’ideologia “benicomunista”, si possono muovere obiezioni
più o meno condivisibili, ma certo è che il richiamo ad un passato “magico”, privo di conflitti e
avulso dalle contraddizioni proprie di ciascuna epoca, mina alle fondamenta l’edificio teorico che si
va costruendo. La storia che raccontano gli archivi è un po’ diversa e spesso intreccia anche il
diritto penale, quando (poniamo) nella difesa di un pascolo comune ci scappa il morto. Anche una
zona troppo spesso giudicata marginale dagli storici come la Liguria (non Genova, si badi) sta lì a
dimostrarlo.
La tesi che qui si introduce fornisce un’ulteriore prova della debolezza delle interpretazioni
eccessivamente semplificanti di fatti storici complessi e dipanatisi lungo secoli. Le diverse forme di
godimento collettivo del suolo sopravvissero in Liguria ben oltre la Rivoluzione francese, in quanto
5
snodi fondamentali del rapporto tra uomo e ambiente. Inoltre l’angolo visuale della gestione dei
beni ha messo in luce altre problematiche correlate che meriterebbero un più ampio
approfondimento. Se ne citano per brevità soltanto due. Una prima questione è l’approccio dei
giuristi ai vari aspetti del governo delle risorse (azioni di tutela e recupero, legittimazione degli
accordi tra utenti…) segnato dalla capacità di inquadrare le soluzioni emergenti dalla prassi e dalla
politica nel contesto di un diritto comune sempre meno romano e sempre più “patrio”. Il secondo
tema attiene alla pretesa ostilità dello Stato moderno (in ogni sua manifestazione storica) verso i
beni comuni. Tale lettura oscura il fatto che per tutta l’età moderna i beni comuni furono per gli
Stati importanti mezzi di sostegno economico delle comunità ed elementi di primaria importanza
nel governo del territorio, anche durante la stagione delle riforme ispirate dai fisiocratici. Pure la
Repubblica di Genova predispose strumenti giuridici per preservarli fino agli ultimi anni della sua
esistenza, nonostante la (ingiusta) fama di Stato “meno moderno” degli altri.
Il risultato – quanto voluto? – rischia di essere la produzione del mito dei beni comuni
capaci di affratellare l’umanità, precario quanto quelli che si vorrebbero distruggere. Eppure la
crisi economica e quella ecologica con cui si è aperto il XXI secolo stanno mettendo i giuristi di
fronte alla necessità sempre più pressante di riconfigurare istituti tradizionali alla luce delle
problematiche ambientali. Nello stesso frangente il ruolo dello Stato e della società va
assestandosi su nuovi equilibri per la tutela dell’ambiente e del territorio, la rigenerazione degli
spazi urbani per contrastare la ghettizzazione dei quartieri, l’accessibilità delle invenzioni
scientifiche e altro ancora. Dietro la rivendicazione talvolta un po’ generica dei beni comuni stanno
molteplici istanze, da una maggiore giustizia sociale all’uguaglianza radicale, alla ricostruzione di
legami sociali inclusivi intorno alla gestione di un bene. Azzoppare queste domande con argomenti
storicamente poco realistici risulta dannoso e in ultima analisi inutile, perché di fronte a molti,
innegabili “fallimenti” delle proprietà collettive, stanno anche diversi successi di rilievo. Soltanto
un’accurata storicizzazione delle narrazioni dominanti a favore della privatizzazione massiccia di
beni e servizi pubblici e dei vincoli esterni imposti allo Stato può mostrarne apertamente il respiro
cortissimo e la natura classista e anti-ecologica.
6
Capitolo I
I beni comuni tra storiografia della proprietà e dello Stato
1.a) I “miti delle origini” della proprietà collettiva e del comune rurale
Pubblicando le lezioni del corso di storia del diritto italiano tenute ormai novant’anni fa,
Francesco Brandileone esortava i propri studenti ad avere ben presente il fatto che: «è solo col
mezzo e col sussidio della storia che gli usi civici si possono spiegare, coll’aiuto della storia locale,
non mediante teorie generali»8. Un avvertimento che certo non appariva isolato, considerata la
ricchezza del dibattito sorto tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento sul tema della
ricostruzione storica delle proprietà collettive, e che risulta assai valido ancora oggi per chi intenda
affrontare lo studio di questi istituti giuridici. Pare quindi opportuno effettuare una sintetica ma
ineludibile ricognizione dei principali temi che furono per lungo tempo oggetto di riflessione da
parte della storiografia medievistica – ivi compresa quella giuridica – che oggi sono da considerare
per certi versi superati. In un momento culturale particolarmente sensibile all’“ossessione
embriogenetica”, per dirla con Marc Bloch9, una crescente consapevolezza della complessità del
fenomeno proprietario indusse numerosi storici a mettere in discussione il generico giudizio di
condanna a carico della proprietà collettiva, troppo prossima a quel mondo feudale ormai
definitivamente tramontato.
Possiamo prendere le mosse, retrospettivamente, dagli studi di Grossi sulla cultura
giuridica italiana del secondo Ottocento: nel momento in cui la dottrina nostrana si aprì alla
comparazione e guardò al dibattito sorto soprattutto in Francia alla fine del XIX secolo circa il
recupero della dimensione storica della proprietà, le suggestioni feconde di nuovi approcci si
fecero numerose10. A ciò si unì una rinnovata attenzione alla prassi, da cui emergevano usi di
sfruttamento comune della terra ben più diffusi di quanto la vulgata della civilistica non
ammettesse11. Il dibattito sulle origini delle forme comunitarie di proprietà contrappose diversi
Cfr. F. BRANDILEONE, Lezioni di storia del diritto italiano: anno scolastico 1928-29, 1929-30, Roma, 1931, p. 106.
Cfr. M. BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, 2009, pp. 24-29 (ed. orig. Parigi, 1949).
10
Il riferimento è ovviamente a P. GROSSI, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà
alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977.
11
Si deve a Giacomo Venezian uno dei primi, documentati lavori di ricerca che mise in luce l’eterogeneità dei diritti
collettivi esercitati in Italia e non solo. Contestualmente Venezian tentò di elaborare una proposta per l’inserimento di
queste “reliquie” entro la cornice legittimante dell’ordinamento italiano, cfr. G. VENEZIAN, Reliquie della proprietà
8
9
7
storici del diritto alla communis opinio dei romanisti, adusi ad esaurire l’esperienza proprietaria
romana in una concezione monista e individuale, che mal tollerava l’esistenza di comunioni. Una
visione, questa, che le disposizioni codicistiche in materia avevano semplicemente “riscoperto”,
restituendo alla società l’unico e naturale rapporto tra soggetto e cose12.
A guisa di precursore, Antonio Pertile individuò nell’impostazione germanica dell’uso della
terra la matrice della proprietà comune medievale. La sua indagine palesò la sostanziale
inesistenza di un diritto di proprietà privata presso i germani su beni diversi dalla casa e dal cortile
circostante. Gli ulteriori appezzamenti occupati dalla comunità erano ripartiti tra le famiglie in
sortes prima provvisorie e poi permanenti, famiglie che collettivamente esercitavano il pascolo e la
raccolta di legname e altri frutti sui fondi rimasti indivisi13.
Il sentiero filo-germanista tracciato dallo storico di Agordo fu ripreso e approfondito di lì a
poco da altri autori quali Carlo Calisse, Francesco Schupfer e Nino Tamassia. In particolare
Schupfer14, prima in occasione dello studio delle fonti sugli usi civici di Apricena e poi più
organicamente nel corso di storia del diritto privato, individuò inequivocabilmente nel possesso
collettivo il tratto caratterizzante il rapporto col bene terra delle tribù germaniche, designato con
termini differenti (marca, almenda, folcland). All’obiezione posta dai romanisti circa la presenza
anche tra i romani di communalia, Schupfer ribattè che essi sopravvissero solo in quanto
compatibili con le consuetudini degli invasori.
Con maggior dovizia di particolari, fu poi Tamassia a collegare eziologicamente le larghe
forme di proprietà collettiva all’instabilità della dimora propria dei popoli germanici – e di
conseguenza alla scarsa attitudine al lavoro prolungato sui medesimi fondi –, ricorrendo ad
un’analisi insieme giuridica ed economica15. Insomma la diversità dei modelli era da ricercare nelle
collettiva in Italia, in Opere giuridiche, vol. II, Roma, 1920, pp. 1-32. Sull’insofferenza della cultura giuridica verso le
proprietà collettive vedi anche P. GROSSI, Assolutismo giuridico e proprietà collettive, in Quaderni fiorentini per la storia
del pensiero giuridico, 19 (1990), pp. 505-522.
12
All’interno della stessa romanistica, tuttavia, si levarono voci critiche, come quella di Pietro Bonfante. Egli sostenne
la pari dignità storica di proprietà collettiva ed individuale. Il suo ragionamento in termini di conflitto tra la tradizione
romano-illuministica, creatrice di una sola proprietà collocata in una dimensione più dogmatica che pratica, e quella
storicistica più recente di matrice anglo-germanica che insisteva sulla pluralità delle manifestazioni proprietarie, si
concluse con il rifiuto di qualsivoglia archetipo e l’invito a prestare attenzione alle concrete forme organizzative del
corpo sociale, che anche in età romana aveva conosciuto diverse forme limitative del pieno dominio, cfr. P. BONFANTE,
Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la formazione dei iura
praediorum nell'età repubblicana, vol. I, Milano, 1976, pp. 88 e ss.
13
Cfr. A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, vol. IV, Torino, 1893, pp.
332-354.
14
Cfr. F. SCHUPFER, Degli usi civici e altri diritti del comune di Apricena, Atti dell’Accademia dei Lincei, 1886; ID., Il diritto
privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia, vol. III, Città di Castello-Roma, 1915, pp. 52-96.
15
«Così come si è detto dei romani, non c’è una parola e non ci potrebbe essere, che significhi proprietà: dice lo
Schupfer che l’idea è del Grimm, che cioè la lingua tedesca non abbia un’espressione che indichi la proprietà. Ma il
8
concrete esigenze nascenti presso società strutturalmente diverse quanto ad organizzazione
sociale.
Una posizione peculiare, tuttavia assai lungimirante per molti aspetti, fu assunta da Enrico
Besta che ridimensionò sensibilmente il contributo germanico alla conformazione dei diritti reali
del medioevo. Anzitutto già il diritto romano aveva conosciuto forme di dominio diviso (un caso di
scuola è l’habere in bonis della proprietà pretoria): cadeva quindi uno dei principali elementi posti
a discrimine tra dominium romano e proprietà germanica, vale a dire l’unitarietà. In secondo luogo
dimostrò che la “proprietà germanica” (un’espressione impropria secondo lo stesso Besta) non si
estendeva necessariamente alla cosa nella sua interezza, ma essendo strettamente correlata al
rapporto possessorio concretamente instaurato con essa, ammetteva la compresenza di più
“proprietari” in forza delle differenti porzioni del bene fruite da parte di ciascuno16. Una posizione
che all’incirca negli stessi anni Giovanni Curis, in una monumentale opera dedicata agli usi civici,
documentava ampiamente, dimostrando inoltre la coesistenza di proprietà collettive romane e
germaniche entro il disorganizzato quadro della società altomedievale17.
Un filone di studi parallelo ma correlato con quello delle proprietà collettive, capace di
suscitare l’attenzione degli storici, fu quello della nascita del comune rurale. Basterà in questa
sede richiamare gli scritti di due importanti medievisti di inizio Novecento quali Romolo Caggese e
Gianpiero Bognetti per individuare il principale elemento di debolezza affliggente tanto questi
studi quanto quelli sulle origini del comunitarismo agrario medievale. L’imponente opera di
Caggese si presentò come excursus sistematico dei rapporti politici, giuridici ed economici
interessanti il mondo rurale tra i secoli X e XII. Secondo Caggese i contadini italiani, asserviti ai
signori e perduta la proprietà delle terre, intrapresero una lotta di classe contro i feudatari.
L’appoggio garantito loro dalle città non fu però prestato a titolo gratuito, poiché dal 1300 esse si
Grimm c’entra poco: manca l’idea perché manca il fatto. […] Sarebbe anche inesatto parlare di proprietà collettiva,
cioè immaginando, come realmente fu, che un popolo, s’intende sempre germanico, relativamente stabile e fisso
sopra una determinata regione, concepisse quella occupazione con quell’animus possidendi a cui volentieri pensiamo
quando accenniamo all’origine della proprietà. […] Se la proprietà deve affermarsi come un diritto perenne, bisogna
che l’oggetto in cui questo diritto si compendia abbia un valore economico pure perenne; ma quel suolo che appena
sfruttato non può essere ricostituito nelle sue energie produttrici col lavoro economico, è assurdo immaginare che
debba costituire appunto quel diritto che s’intende oggi quando si riferisca a fondi resi redditizi per fatto dell’uomo»,
cfr. G. TAMASSIA, Lezioni di storia del diritto italiano. La proprietà, Padova 1927, pp. 39-41, ma più in generale pp. 1673. Degna di nota la sua esortazione a spogliarsi di qualsiasi idea preconcetta prima di intraprendere un esame delle
vicende della proprietà, habitus tipico dei romanisti, ID., Le alienazioni degli immobili e gli eredi secondo gli antichi
diritti germanici e specialmente il longobardo, Mantova, 1884, p. 18.
16
Cfr. E. BESTA, I diritti sulle cose nella storia del diritto italiano, Padova, 1933, pp. 79-89.
17
Cfr. G. CURIS, Usi civici, proprietà collettive e latifondi nell’Italia centrale e nell’Emilia con riferimento ai demanii
comunali del Mezzogiorno, Napoli, 1917, in particolare pp. 188-218.
9
sarebbero integralmente sostituite agli antichi signori nello sfruttamento massiccio del territorio
rurale18.
La nettezza dei passaggi tra le fasi, la retorica marxista e la rigidità dei rapporti causaeffetto furono denunciati con vigore da Gioacchino Volpe poco tempo dopo, ma al di là dei giudizi
storiografici, ciò che qui più interessa è registrare l’assenza tra gli elementi costitutivi del comune
rurale delle terre civiche: esso secondo Caggese originò solamente in forza di un legame stretto
volontariamente tra i membri19.
Di tutt’altro avviso fu il Bognetti, che studiando in particolare alcune realtà lombarde
ricollegò la nascita del comune rurale alle terre collettive. Intorno a vicanalia, comunalia e ager
compascuus le diverse comunità ricondotte a vici e pagi arcaici – le cui dinamiche di
funzionamento non furono alterate in maniera sensibile dalla dominazione romana – costituirono
la base dell’organizzazione economica dei villaggi. Fu quindi il perdurare del controllo – potremmo
dire del governo, per quanto grezzo – del territorio attuato dal villaggio a dare il là al movimento
che fece sorgere il comune rurale come soggetto politico20.
Ora, entrambe le tesi erano connotate da un radicalismo notevole. Come è stato
efficacemente notato da Wickham la storiografia successiva si è assestata su una posizione
intermedia che, fatte salve le peculiarità regionali, ha riconosciuto all’organizzazione comunitaria
sorta intorno agli usi civici e all’opposizione agli obblighi imposti dai signori gli elementi
determinanti la nascita del comune rurale21. Resta un’interpretazione di massima, la cui aderenza
al concreto dispiegarsi dei rapporti giuridici ed economici intercorsi tra villaggi, signori territoriali,
città ed episcopati può risultare anche imperfetta.
Qui sta in ultima analisi il vizio principale che afflisse buona parte degli studi pionieristici fin
qui citati sulle origini della proprietà collettiva medievale e sul comune rurale: mossi dall’ansia di
fissare il momento genetico di esperienze che la cultura giuridica coeva si ostinava a rimuovere,
bollandole come anomale, finirono per generalizzare esperienze singolari, inidonee a giustificare
Cfr. R. CAGGESE, Classi e comuni rurali nel medio evo italiano, voll. I-III, Firenze, 1907-08.
La dura recensione del Volpe è contenuta in G. VOLPE, Medio evo italiano, Firenze, 1923, pp. 143-188. Tornando al
Caggese, la nascita del comune rurale come ente collettivo fu così riassunta: «Noi vedemmo a suo tempo che le
Comunità rurali si costituirono lentamente in grazia di vincoli volontari contratti tra i loro membri in solido ed i signori
feudali dai quali dipendevano. Esse furono fin da principio delle vere aziende consortili, e gli occhi stessi dei
contemporanei le riguardavano come un tutto organico, capace giuridicamente di atti, di obbligazioni, di giurisdizione
– per quanto limitata – solo perché economicamente costituite in enti collettivi», cfr. R. CAGGESE, Classi e comuni rurali,
cit., III, p. 299.
20
Cfr. G. BOGNETTI, Sulle origini dei comuni rurali del medioevo con speciali osservazioni pei territorii milanese e
comasco, Pavia, 1926, in particolare pp. 214-215.
21
Una disamina storiografica sul tema del comune rurale è in C. WICKHAM, Comunità e clientele nella Toscana del XII
secolo. Le origini del comune rurale nella Piana di Lucca, Città di Castello, 1995.
18
19
10
una realtà ben più sfaccettata. Come una particolare conformazione dei diritti reali collettivi su un
dato territorio non poteva che avere un solo ascendente, così le vicende di formazione di singoli
comuni rurali non potevano rappresentare il processo valido universalmente. Gli studi sulla storia
della proprietà condotti nella seconda metà del Novecento avrebbero restituito una realtà dei
rapporti uomo-cose ben più frastagliata e meno piegabile ad analoghi riduzionismi.
1.b) Storici e giuristi di fronte al pluralismo proprietario medievale
Il dibattito sulle origini ebbe il merito d’altronde di portare all’attenzione della storiografia
il tema degli usi civici proprio negli anni in cui fervevano i lavori per la legge di riordino della
materia approvata nel 1927. Lo schema unitario della proprietà ottocentesca fermata nei codici fu
messo in discussione tanto dai civilisti quanto dagli storici nel momento in cui entrambe le
discipline tornarono ad interrogarsi sui diritti reali dell’età intermedia. Lo studio storico si unì agli
sforzi che la dottrina di diritto positivo stava compiendo per enucleare due assetti proprietari
chiaramente caratterizzati – una proprietà pubblica e una privata – ma il cammino fu irto di
incomprensioni almeno fino agli anni Sessanta, data la perdurante fascinazione verso il mito della
proprietà perfetta22. A partire da quel momento, individuati i tratti che conferivano autonomia alla
proprietà medievale, l’analisi storica si sarebbe concentrata su determinati casi di studio per
ricostruire specifiche “figure dell’esperienza”.
L’opera di revisione critica delle certezze acquisite fu animata dalla consapevolezza che il
diritto dovesse essere calato nuovamente nei fatti di vita in cui concretamente era chiamato ad
operare. Indubbiamente fu l’opera di Enrico Finzi a porre le premesse per un «ritorno alle cose»
della scienza giuridica in tema di diritti reali. La rilettura del diritto di proprietà alla luce dei
profondi legami con la realtà dell’impresa presupponeva innanzitutto una consapevolezza circa le
«varie forme concrete di godimento effettivo» e i caratteri pubblicistici (nota la chiosa: «Non vi
sono beni indifferenti allo Stato») che da sempre ne avevano segnato le vicende23.
U. PETRONIO, Usi e demani civici fra tradizione storica e dogmatica giuridica, in E. CORTESE (a cura di), La proprietà e le
proprietà, Milano, 1988, pp. 507-510 ha rilevato come tracce di adesione all’opinione che vedeva nella proprietà
privata la “vera proprietà” si riscontrino anche nelle opere di giuristi aperti al nuovo come Brugi, Calisse e Cassandro.
23
«Chi muovesse dalla considerazione della cosa sarebbe portato piuttosto verso l’empirismo germanico che, nella
gewere fondendo e confondendo in uno stesso concetto giuridico ogni potere sulla cosa ed ogni suo godimento, mal
distingueva proprietà e diritto reale e possesso, e tutti poneva come omogenei – pur graduandoli nella loro intensità
relativa, in virtù, appunto, del loro comune carattere e della comune attitudine a legittimare passivamente ed
attivamente il padrone, ai diritti e ai doveri propri di chi gode determinati beni», cfr. E. FINZI, «L’officina delle cose».
Scritti minori, a c. di P. Grossi, Milano, 2013, pp. 49-50. Sulla vita e le opere di Finzi cfr. P. GROSSI, Finzi Enrico, in
Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, Bologna, 2013 (d’ora in poi DBGI), vol. I, pp. 870-873.
22
11
Prosecutori dell’opera finziana furono Salvatore Pugliatti e Filippo Vassalli, spartiacque per
la scienza civilistica a cavallo del secondo conflitto mondiale. Nella sua opera più nota, Pugliatti
ammise che i differenti statuti proprietari esistenti non potevano essere trattati alla medesima
stregua. La contestazione del formalismo giuridico apriva all’indagine degli interessi concreti
nascenti nell’economia e nella società giudicati meritevoli di attenzione da parte della legislazione.
Per la proprietà ciò significava recepire il dato storico della polarizzazione medievale tra diritti
signorili, comunitari e individuali che dimostrava come l’apprensione individuale delle res non
potesse costituire – né avesse costituito in passato – l’unica fattispecie considerata rilevante per la
regolazione giuridica dell’istituto24.
All’incirca negli stessi anni, Vassalli ribadiva l’esistenza di tante proprietà quanti erano gli
scopi che l’ordinamento ammetteva come perseguibili mediante l’utilizzo dei beni. Era necessario
quindi introdurre criteri di valutazione sociale dell’istituto che compensassero la tradizionale
concezione di diritto soggettivo esclusivo25. Un intreccio complesso di interessi (pubblici e privati)
di impari rilevanza ma complessivamente oggetto di tutela: questa l’immagine della “nuova”
proprietà che emerse dall’”officina delle cose” tra gli anni ’40 e ‘50. Per Pietro Rescigno, l’uso,
l’organizzazione, il destino delle cose divenivano elementi costituenti un prius rispetto al titolare,
non più contemplati in funzione del soggetto, poiché era il medesimo soggetto a vedersi applicata
una particolare disciplina in funzione dei beni26.
La mutata sensibilità indusse la dottrina ad interrogarsi circa la natura giuridica dei diritti
collettivi e le ipotesi che furono avanzate non difettarono per quantità. Giovanni Curis elencò – per
contestarle - le principali proposte interpretative sul tavolo: servitù e iura in re aliena variamente
atteggiantisi a seconda del bene gravato o diritti di condominio27.
La tesi che sosteneva la natura di servitù traeva fondamento da alcuni passi della Glossa28.
Fu il Besta a porre in evidenza una sostanziale continuità interpretativa tra glossatori e
commentatori per cui i secondi in materia di pascoli non si discostarono dallo schema della servitù
Cfr. S. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, in particolare pp. 146-224.
Cfr. F. VASSALLI, Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in La concezione fascista della proprietà
privata, Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, Roma, 1939, p. 101-108.
26
Cfr. P. RESCIGNO, Disciplina dei beni e situazioni della persona, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno, 5-6 (1976-1977), t. II, p. 864.
27
Cfr. G. CURIS, Usi civici, cit., pp. 911-918.
28
In particolare le glosse di commento ai frammenti del Digesto D. 8.3.4; D. 8.3.1 dedicate proprio alla servitù di
pascolo, tra cui spiccava quella particolare a vantaggio dei buoi impiegati per l’aratura. Il rapporto tra fondo coltivato e
terra di pascolo poggiava sulla necessità del proprietario del primo di disporre della seconda per il mantenimento degli
animali usati nei lavori agricoli. Da qui, pertanto, la qualificazione come servitù, cfr. B. BRUGI, Le dottrine giuridiche
degli agrimensori Romani comparate a quelle del Digesto. Ricerche, Verona-Padova, 1897, pp. 319-330.
24
25
12
in re aliena elaborato dai primi29
La tesi della servitù fu avanzata anche dal Leicht, secondo il
quale non poteva darsi forma di proprietà collettiva diversa da quella regia/comunale, gravate nel
corso del tempo da servitù e iura in re aliena riconosciuti dall’autorità30.
Un ruolo importante nella qualificazione dei diritti collettivi come servitù fu giocato dalla
cultura giuridica meridionale tra XV e XVIII secolo, attenta ad elaborare un apparato di principi in
grado di offrire garanzie per le comunità contro gli abusi baronali. Giovanni Cassandro, principale
studioso del tema, in esito allo studio dovette però dichiarare l’impossibilità di trarre conclusioni
generali dalle pur copiose riflessioni dei giuristi napoletani, e ciò per diversi motivi.
In primo luogo l’origine consuetudinaria dei diritti civici palesava l’inadeguatezza della
categoria della servitus come unica chiave interpretativa. Le opiniones dei dottori, da Andrea
d’Isernia a Luca da Penne fino al Capobianco non illuminavano né il nodo della natura giuridica
degli usi civici né quello della loro titolarità a causa della stretta connessione con dispute pratiche,
ove l’afflato per organiche costruzioni teoriche era pressoché assente31.
Carlo Calisse propose una teoria intermedia che ammetteva allo stesso tempo l’esistenza di
servitù vere e proprie esercitate su fondi privati e usi civici su terre collettive o comunali. I diritti e
le consuetudini delle comunità erano entrate a far parte dall’organizzazione feudale del territorio.
Posto il ruolo del sovrano come dominus di tutte le terre sottoposte al suo controllo, l’autore
inquadrava gli usi civici come un “debito” nei confronti dei bisogni primari della vita, connaturato
all’ufficio stesso del governo32.
Accanto alla teoria della servitù, un notevole successo ebbe quella del condominium iuris
germanici, elaborata dal giurista Georg Beseler tra gli anni ‘30 e ’40 dell’Ottocento e rilanciata poi
Cfr. E. BESTA, I diritti sulle cose, cit., pp. 241-250. Come nota uno dei sostenitori della teoria della servitù, R. TRIFONE,
Gli usi civici, Milano, 1963, p. 91, tanto i giuristi romani quanto i glossatori furono in generale estremamente parchi nel
definire meglio la natura giuridica dei diritti collettivi.
30
Cfr. P. S. LEICHT, Il diritto privato preirneriano, Bologna, 1933, pp. 155-163
31
Cfr. G. I. CASSANDRO, Storia delle terre comuni e degli usi civici nell’Italia meridionale, Bari, 1943, in particolare pp.
264-277. L’autore conclude l’esame degli usi civici seguendo il Tractatus de iure et officio baronum erga vassallos di
Angelo Capobianco. Un esempio dell’impossibilità di tracciare confini chiari è dato dalla classificazione delle res
universitatis, dove Capobianco distingue tra demanialia curiae (i cui redditi sono percepiti dal feudatario) e demanialia
feudi (boschi, pascoli, monti). Su quale sia il criterio di assegnazione all’uno o all’altro insieme, nota Cassandro,
Capobianco non si esprime poiché i secondi sono individuabili «secundum consuetudinem loci et regionis» ed è
comunque presente, nell’elencazione del giurista, una sorta di clausola di apertura (commoditates territorii) che
permette di adagiare il modello teorico alle concrete necessità espresse dalla comunità. Già Enrico Besta aveva notato
peraltro come i giuristi del regno napoletano non avessero mai riassunto sotto un’unica categoria di beni demaniali la
totalità dei beni e diritti goduti o solo amministrati dal re ab origine o a seguito di acquisizione di cose
precedentemente di proprietà dell’universitas, cfr. E. BESTA. I diritti sulle cose, cit., pp. 179-197.
32
Cfr. C. CALISSE, Gli usi civici, cit., p. 37-38.
29
13
dal Gierke, che fece proseliti anche in Italia33. La natura sostanzialmente dogmatica del
condominium, in quanto istituto creato ex post dai giuristi e non riscontrabile negli assetti
dominicali del medioevo germanico, non impedì tuttavia di fungere da mattone su cui alcune
sentenze (Consiglio di Stato, IV, 22 gennaio 1964, n. 10; Corte d’Appello di Roma – sezione usi
civici, 10 ottobre 1967) fondarono il loro ragionamento a proposito della natura giuridica delle
istituzioni regoliere (rispettivamente, quella del Cadore e la regola feudale di Predazzo).
Si diceva del Curis. Rigettando le summenzionate tesi, egli interpretò gli usi civici come un
dominio utile, al pari della colonia, dell’enfiteusi e del livello. Né lo schema degli iura in re aliena
né la teoria del condominio erano adattabili alla realtà medievale, giacché il sistema del dominio
diviso incluse tanto gli antichi istituti romani quanto quelli sorti dopo la mescolanza con i popoli
invasori.
Una decisa e ulteriore svolta nel nostro discorso fu rappresentata dal noto corso sui beni
pubblici del Giannini, che nel 1963 fissò le coordinate entro cui si sarebbe mossa anche la più
qualificata storiografia successiva, da Grossi a Petronio. Illustrando i diversi caratteri della
proprietà individuale rispetto a quella pubblica – che comprendeva i diritti collettivi – Giannini
affermò che: «il tratto saliente non è l’appartenenza della cosa, ma il godimento di servizi che la
cosa rende o è idonea a rendere se convenientemente impiegata»34. La ricchezza dei beni
collettivi, secondo la lezione gianniniana, risiede quindi nel modo in cui è disciplinato l’utilizzo dei
beni mediante l’organizzazione dei differenti diritti appropriativi.
È da questo punto in poi che si può registrare l’avvio di una fase di studi volti a far
emergere il concreto dispiegarsi dei diversi diritti reali di cui erano titolari le comunità antiche.
Come detto, la debolezza principale delle teorie summenzionate consistette nel loro presentarsi
come capaci di interpretare in maniera esauriente l’intera esperienza giuridica del medioevo in
materia proprietaria, cercando di comprimerla entro forme appartenenti ad epoche successive. Si
Rammentiamo che con tale espressione si indica un tipo di comunione in cui i beni comuni spettano ad una
collettività (villaggio, famiglie più o meno allargate), i cui membri non sono titolari di quote liberamente disponibili.
Poiché tutti i partecipanti contribuiscono all’acquisizione o all’incremento del patrimonio collettivo, ciascuno ha titolo
a goderne. Come sottolineava Barassi, alla scomparsa esteriore della quota consegue l’unità del patrimonio che, in
quanto patrimonio autonomo perché della collettività e non dei singoli comunisti, è sottratto ai creditori particolari
dei comproprietari; cfr. L. BARASSI, Proprietà e comproprietà, Milano, 1951, p. 174; P. Grossi, Assolutismo giuridico e
proprietà collettive, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 19 (1990), pp. 526-541. Tra
coloro che accolsero la teoria del condominium vanno citati almeno Pugliatti (S. PUGLIATTI, La proprietà, cit., p. 195 e
ss), O. RANELLETTI, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 25 (1898),
pp. 206 e ss., e F. FILOMUSI GUELFI, Enciclopedia giuridica ad uso di lezioni, Napoli, 1873, p. 70.
34
Cfr. M. S. GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 33.
33
14
deve a Paolo Grossi, a partire dal primo studio del 1967, la sintesi più felice dei vari spunti affiorati
in quegli anni, sintesi da cui oggi non è possibile prescindere35.
La proposta grossiana prende le mosse da un dato: gli incerti e tumultuosi secoli
altomedievali scompaginarono il rapporto di forza tra uomo e natura36. La quotidianità economica
– come appunto la conduzione del bestiame al pascolo o il taglio della legna in certi siti – impose al
diritto di provvedere una tutela giuridica fondata sulla rilevanza dell’effettività dei rapporti reali.
Così l’usus diventò fatto normativo: tutte le situazioni contrassegnate da fruitio materiale e longus
tempus del godimento furono elevate ad una posizione che mai avevano occupato nei secoli
precedenti, in quanto assursero ad elementi in grado di individuare il dominium, pur in assenza di
particolari formalizzazioni da parte dell’ordinamento. Effettività, quindi, è la parola chiave
dell’esperienza giuridica medievale37.
Tuttavia c’è chi, come Cortese, ha individuato indizi anticipatori della degradazione dei
diritti reali classici già nel basso impero – ben prima dell’età delle invasioni – quando il possesso
iniziò a sovrapporsi alla proprietà e a condividere con essa i medesimi strumenti di tutela38. Lo
stesso Cortese avverte di non lasciarsi affascinare oltremodo dalla nota gewere, termine
mutevolissimo quanto a significati ed impieghi – non sempre strettamente tecnici – e che
possiamo definire molto latamente con Diurni come: «ogni sorta di uso, ogni concreto rapporto di
godimento della cosa, anche se parziale e limitato»39 che conobbe inoltre un’evoluzione nel corso
dei secoli40.
Cfr. P. GROSSI, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, 1992, in particolare il
primo saggio Naturalismo e formalismo nella sistemazione medievale delle situazioni reali, pp. 21-56.
36
Sul c.d. “primitivismo medievale”, Grossi sostiene che esso si identifica, da un punto di vista antropologico, «in un
soggetto […] incapace di affermare il distacco che separa la creatura raziocinante dal mondo dei fenomeni, il soggetto
per eccellenza dall’insieme degli oggetti», cfr. P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 2011, p. 68.
37
È l’effettività che, per citare ancora Grossi, è composta da «quei fatti che trovano per loro conto nella storia
quotidiana la forza di staccarsi dagli altri, di durare, di incidere», P. GROSSI, Ibidem, p. 65.
38
Cfr. E CORTESE, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma, 2015, pp. 194-196.
39
Cfr. G. DIURNI, Le situazioni possessorie nel medioevo. Età longobardo-franca, Milano, 1988, p. 58. Gewere e
possessio romana presentano alcune macroscopiche differenze, in particolare per quanto concerne il titolo
legittimante – la gewere è essa stessa titolo per lo ius possidendi – e la tutela giurisdizionale – che il diritto germanico
non differenziava rispetto ad altre situazioni giuridiche. Il possesso romano era intimamente connesso alla proprietà,
pertanto il suo svuotamento rendeva difficilmente riproponibile il ricorso a specifici riti possessori, distinti dal
processo sul merito. Sia Diurni che Cortese hanno però rimarcato come il termine gewere nei documenti italici altomedievali non compaia pressoché mai, rimpiazzato da sinonimi quali vestitura, tenimentum, possessio e similari. Sulla
gewere una rassegna storiografica è in E. CONTE, Vetustas. Prescrizione acquisitiva e possesso dei diritti nel Medioevo,
in E. CONTE, V. MANNINO, P. M. VECCHI, Uso, tempo, possesso dei diritti. Una ricerca storica e di diritto positivo, Torino,
1999, pp. 69-75.
40
Cfr. G. DIURNI, Possesso (dir. Intermedio), in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano, 1985, pp. 476-484. Pure nei secoli
basso medievali permase un atteggiamento che considerava il possesso una sorta di “presunzione del diritto”,
dimostrabile in giudizio anche per mezzo di giuramento, come bene scrisse A. PERTILE, Storia del diritto italiano, vol. IV,
Torino, 1893, pp. 79-80. Nelle controversie per i beni comuni ciò si riscontra con inequivoca chiarezza.
35
15
La civiltà medievale fu in ogni caso civiltà possessoria e sul rapporto con la cosa, sulla
valorizzazione del suo contenuto più materiale si edificò la teoria del dominio diviso41.
L’ammissione attribuita a Bulgaro dell’esperibilità dell’actio utilis rei vindicatio per la tutela di
rapporti che con la proprietà “piena” poco avevano a che fare introdusse le molteplici situazioni
possessorie in un sistema aperto al riconoscimento di tanti dominia quante erano le forme di
godimento esercitate in concreto. Da qui pertanto l’attributo di plura dato da Baldo degli Ubaldi al
numero dei dominii utili, di qui la qualità che ancora nel Quattrocento Zasius riconosceva
all’utilitas tratta dalla cosa come una proprietà (tra molte)42. Tra queste, l’utilizzo collettivo di
prati, boschi o fiumi rappresentò una delle più vitali forme di manifestazione del dominio utile,
invocato dalle comunità per lungo tempo avverso i tentativi di limitare i loro diritti43.
Se il dominium fruitionis fu il tratto caratterizzante i diritti reali lungo l’esperienza del diritto
comune, è pur vero che durante l’età moderna l’elaborazione dogmatica sulla proprietà intraprese
una strada sempre più segnata dall’individualismo giuridico: la titolarità riconquistò
progressivamente il centro della scena a scapito dell’esercizio di un potere concreto sulla res, il cui
valore di fondamento della validità del diritto iniziava ad essere messo frequentemente in
discussione44. Ma le secolari pratiche di sfruttamento di risorse naturali, essenziali per la vita
comunitaria, non vennero meno per il solo comparire di proposte dottrinali sicuramente
anticipatrici, ma complessivamente non maggioritarie: la gamma delle situazioni proprietarie
rimase fortemente variegata sino al Settecento.
Il nodo della qualificazione giuridica degli usi civici medievali è quindi irresolubile
servendosi degli strumenti interpretativi odierni. L’invito grossiano a spogliarsi delle “lenti
deformanti” dell’assolutismo giuridico per leggere l’esperienza dominativa dell’età intermedia è
stato sostanzialmente recepito dalla storiografia più recente, la quale a sua volta, pur
Cfr. P. GROSSI, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno, 17 (1988), pp. 394-405.
42
Cfr. P. GROSSI, Il dominio e le cose, pp. 191-215. È recentemente tornata su questi problemi, analizzando l’opera
scientifica del commentatore Giovanni Bolognetti, M. PIGNATA, Dominium e possessio tra ius e factum: la Lectura di
Giovanni Bolognetti, Napoli, 2007.
43
In un caso in cui la comunità di Fiemme era chiamata a difendere il proprio diritto sui boschi contro le pretese del
vescovo di Trento, fu coinvolto Tiberio Deciani in veste di consulente. In virtù di un’antica concessione trecentesca, gli
uomini di Fiemme disponevano del diritto utile sulle selve che, alla luce dell’interpretazione dell’investitura feudale,
doveva considerarsi un beneficio intaccabile: «verbum enim investivit in ea concessione positum denotat feudum, et
translationem utilis dominii», cfr. G. Rossi, Dottrine giuridiche per un mondo complesso. Autonomia di ordinamenti e
poteri pazionati in un consilium inedito di Tiberio Deciani per la comunità di Fiemme (1580), in AA.VV., Ordo iuris.
Storia e forme dell’esperienza giuridica, Milano, 2003, pp. 133-134.
44
Cfr. P. GROSSI, La proprietà nel sistema privatistico della Seconda scolastica, in La Seconda scolastica nella
formazione del diritto privato moderno, Milano, 1973, pp. 117-222.
41
16
abbandonando l’ambizione di risolvere una volta per tutte il problema, si è interrogata sulla natura
giuridica della proprietà collettiva.
Stefano Barbacetto ha ad esempio riesaminato la nota massima ubi feuda, ubi demania; ubi
demania, ibi usus ripercorrendo le tappe che portarono la giurisprudenza napoletana, a partire dal
Cinquecento, a forgiare il concetto di usus civicus tramite l’utilizzo di fonti diverse – diritto comune
giustinianeo, prammatiche del Regno e consuetudini locali – per arginare i diritti baronali di
esclusione e “diffida” dei fondi. Mettendo in fila alcuni consilia stilati in vista di controversie
giudiziarie, l’autore ha sì confermato il giudizio dato da Cassandro a metà Novecento
sull’inesistenza di una teoria generale degli usi civici nella dottrina meridionalistica, ma ha altresì
indicato gli argomenti costituenti il nucleo fondamentale di tale istituto. In particolare ha
sottolineato come gli usi non fossero qualificati né come servitù (reali o personali) né come
usufrutto, ma come onera originati dal diritto naturale che il proprietario doveva tollerare sia per
un dovere morale, sia per la natura stessa dei beni demaniali gravati45. Esaminando su una
prospettiva di lungo periodo le vicende dei beni comunali della Repubblica di Venezia, è stata
invece evidenziata la differente natura giuridica delle comugne, inalienabili e necessarie per i
bisogni dei sudditi, dai beni communali (la distinzione lessicale venne però meno nel corso del
tempo) che la Repubblica acquisì al proprio dominio e ne fece oggetto di diverse campagne di
alienazione per sostenere gli sforzi bellici, dalle guerre della Lega di Cambrai a quelle contro gli
Ottomani del Seicento. Anche in questo frangente Barbacetto ha notato che le normative che
intervennero nel riformare il contenuto di questi diritti furono funzionali ad un più marcato
controllo dello Stato di terra da parte del governo lagunare46.
Su posizioni simili si è attestato Alessandro Dani. Esaminando gli usi civici alla luce del
diritto proprio dello stato senese, con dovizia di richiami alle principali autorità dottrinali del
tempo, ha concluso sostenendo l’inapplicabilità della servitù prediale propriamente intesa,
trattandosi invece di un diritto di cui erano titolari gli abitanti di una comunità iure civico. Il nomen
iuris di servitù era sì attribuito da alcuni autori, ma in genere specificandone l’eccezionalità, come
testimonia la creazione della categoria delle servitù miste innominate. Le molteplici sfumature
45
La commoditas e la naturalis facultas di cui autori come Capobianco o De Luca parlavano a proposito degli usi civici
indicavano quindi il diritto d’uso limitato alle necessità di sostentamento della popolazione, per tale ragione erano
impignorabili e incedibili. Esulavano pertanto dalla copertura giuridica di tale discorso gli interessi allo sfruttamento
commerciale – in senso lato – del bene, cfr. A. BARBACETTO, L’uso civico sul demanio feudale: origini giurisprudenziali
(secc. XVI-XVII), in Archivio Scialoja-Bolla, Annali di studi sulla proprietà collettiva, 1 (2006), pp. 165-188.
46
Cfr. A. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie». I «beni communali» della Repubblica Veneta tra dominio
della Signoria e diritti delle comunità, Venezia, 2008.
17
riscontrabili tanto nella letteratura giuridica quanto nelle fonti locali circa la natura giuridica degli
usi civici conferma dunque la peculiarità degli assetti dominicali dell’età intermedia47.
Pare quindi ormai acquisito dalla storiografia il fatto che la multiforme varietà di forme
collettive di godimento renda problematiche ricostruzioni sintetiche e generalizzanti. L’analisi
combinata di fonti diverse riferite a contesti geografici e temporali delimitati permette invece di
apprezzare il concreto divenire storico di determinati usi civici, che qui possiamo intendere, sulla
scorta di Dani, come diritti reali spettanti agli abitanti di una determinata comunità sulle risorse
naturali del territorio48. Il diritto particolare risulta poi decisivo per chiarire un altro aspetto legato
ai beni comuni, che finora ha fatto solo capolino nella trattazione ma che occorre affrontare prima
di proseguire con questioni storiografiche collaterali: il nodo dell’appartenenza.
2.a) Beni comuni o beni del comune? Il problema della titolarità secondo la principale storiografia
Se l’accertamento della natura giuridica degli usi civici ha creato non pochi dissidi nella
storiografia, si può dire che pure l’individuazione del soggetto titolare dei medesimi è stata
questione a lungo dibattuta. La stretta correlazione dei due temi indusse molti autori ad articolare
proposte generali volte a giustificare il problema della titolarità dei diritti collettivi del medioevo,
periodo in cui notoriamente i confini tra dimensione “pubblica” e “privata” furono per molti
aspetti sfumati e non sempre chiaramente tracciabili.
Fondamentalmente emergono due ordini di problemi. Il primo, più risalente, risiedette
nell’attribuzione al Comune – inteso come soggetto istituzionale – o all’insieme degli abitantiutenti del dominio su boschi e incolti. In generale la storiografia più risalente concentrò il proprio
ragionamento sulla progressiva erosione dei beni regali appartenenti al re o all’imperatore a
vantaggio di enti ecclesiastici, maggiorenti, feudatari, fino all’ingresso in scena del comune che ne
avocò a sé la proprietà. Non mancarono peraltro delle distinzioni. Chi, come il Roberti,
circoscriveva ad esempio il ruolo dei beni collettivi nella nascita del comune cittadino alle sole
regioni romane, tendeva a privilegiare i profili privatistici della comunione, come un possesso di
tipo pertinenziale, di cui erano titolari i proprietari di sortes limitrofe. Solo il recupero del concetto
romano di universitas segnò il salto di qualità da beni comuni dei singoli a beni del Comune49. Il
Cfr. A. DANI, Usi civici nello Stato di Siena medicea, Bologna, 2003, p. 27-51.
Cfr. A. DANI, Pluralismo giuridico e ricostruzione storica dei diritti collettivi, in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio
sulla proprietà collettiva, 1 (2005), pp. 61-ss.
49
Cfr. M. ROBERTI, Svolgimento storico del diritto privato in Italia, II, Padova, 1935, pp. 113-120.
47
48
18
secondo, collegato al primo, riguardò proprio l’identificazione del Comune-ente con la comunità
degli abitanti o, per meglio dire, la fondatezza (e le conseguenze giuridiche) di una distinzione tra
di esse.
Besta contestò invece con vigore la tesi di chi sostenne la scomparsa dei bona
universitatum durante l’alto medioevo perché assorbiti nei beni feudali o incamerati dal fisco
regio. Una proprietà cittadina, distinta da quella del sovrano anche sotto il profilo
dell’amministrazione, sopravvisse e questo spunto consentì ai giuristi di diritto comune di porre
dei paletti all’appropriazione delle comunaglie da parte del potere centrale, come alcuni studi
recenti confermano50.
Pertile e Brandileone sottolinearono invece gli effetti della confusione medievale non solo
tra le diverse situazioni giuridiche, ma anche tra i singoli appartenenti ad una corporazione e la
corporazione stessa, quale persona giuridica distinta. Pertile in particolare, studiando l’evoluzione
del sistema delle partecipanze romagnole, avvertì che il passaggio della proprietà dai comunisti
all’autorità comunale, che provvedeva ad assegnare gli appezzamenti ai continui abitatori secondo
le carte di regola, poteva presentare altrove caratteristiche differenti dall’organizzazione
regoliera51. Brandileone affermò poi apertamente la sussistenza di multiformi proprietà comuni – i
cui diritti spettavano generalmente agli originari o agli abitanti e solo più raramente anche agli
stranieri – e proprietà comunali, soggette ai poteri dispositivi dell’ente che era chiamato ad
amministrarle e a raccoglierne gli introiti derivanti dal loro sfruttamento a titolo oneroso52.
Per quanto dotati di caratteristiche specifiche, la titolarità dei beni collettivi fu quindi
prevalentemente assegnata dalla storiografia al comune53, soggetto giuridico in grado di
rappresentare e tutelare gli interessi degli abitanti in maniera ben più efficace rispetto al sistema
signorile: i beni “comuni” diventarono, quasi per inerzia, “comunali”54. Tale lettura appare
condivisa ancora oggi da numerosi autori, secondo i quali non si è data una proprietà comune
distinta da quella comunale.
Cortese ad esempio ha ripreso la distinzione già accennata dal Brandileone, sostenendo
che i demani collettivi spettassero all’università quoad nomen et proprietatem e fossero comuni ai
cittadini solo quoad utilitatem, quoad usum, quoad effectum. I poteri di disposizione erano
50
Fu in forza dei caratteri propri delle res universitatis che Brescia e le comunità del distretto argomentarono la difesa
dei rispettivi diritti sui beni collettivi contesi con Venezia, come ha ricostruito S. BARBACETTO, «La più gelosa delle
pubbliche regalìe», cit., pp. 75-78.
51
Cfr. A. PERTILE, Storia del diritto italiano, cit., IV, pp. 332-350.
52
Cfr. F. BRANDILEONE, Lezioni di storia, cit., pp. 90-117.
53
Cfr. G. CURIS, Usi civici, cit., pp. 588-589.
54
Cfr. anche G. CURIS, Usi civici, cit., pp. 590 e ss.
19
interamente nelle mani dell’ente comunale, proprietario. I caratteri di inalienabilità e
imprescrittibilità erano da riferirsi soltanto ai beni perpetuamente destinati al pubblico uso,
quantitativamente minoritari rispetto ai beni comunali amministrati in vista di un reddito55.
Petronio, affrontando il tema del regime giuridico del bosco, ha parlato di estraneità alla
mentalità dei giuristi medievali del problema della proprietà. Esaminando una notevole mole di
quaestiones dottrinali in materia di capacità dei cives di testimoniare in una causa in cui era parte
l’universitas, l’autore ha desunto il generale divieto di deporre in quelle cause riguardanti i singoli
dal punto di vista delle utilità, come avveniva per l’uso di un bene collettivo come il bosco, da cui
traevano un vantaggio diretto. Sebbene non esaminata direttamente, i giuristi ritennero
indiscutibile il fatto che la proprietà del bosco della comunità spettasse all’ente comunale e che i
singoli, come detto in precedenza, ne godessero solo i frutti56.
Da ultimo possiamo chiudere richiamando i lavori di Emanuele Conte, che ha posto in
rilievo almeno due aspetti del problema particolarmente interessanti. In primo luogo la
distinzione, rinvenibile negli atti di cause sette-ottocentesche, tra beni e diritti della collettività
popolare e del Comune appare giustificata dallo scopo di sottrarre le terre comuni alle riforme
agro-economiche di stampo liberal-fisiocratico, senza che il ricorso alla dottrina napoletana sui
demani potesse giovare in tal senso57. Inoltre il pensiero giuridico medievale ritenne del tutto
plausibile imputare diritti reali ad edifici o loca, come dimostra la nota controversia decisa
dell’arcivescovo Mosè di Ravenna, concernente l’appartenenza dei beni di un convento rimasto a
lungo abbandonato58. Ciò testimonia la netta importanza avvertita per la conservazione di uno
stabile equilibrio tra le cose, che la volontà dell’uomo non poteva stravolgere mettendo a
Cfr. E. CORTESE, Domini collettivi, in Enciclopedia del diritto, XIII (1964), pp. 913-926.
Cfr. U. PETRONIO, Usi e demani civici, cit.
57
Cfr. E. CONTE, Comune proprietario o comune rappresentante? La titolarità dei beni collettivi tra dogmatica e
storiografia, in Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge, 114 (2002), pp. 73-94. In particolare Conte
afferma che «per tutto il XIX secolo la dottrina meridionale non arrivò mai a privare l’ente astratto della proprietà per
attribuirla al popolo. L’assetto di fondo restava in sostanza quello consolidato dalla tradizione: ai cittadini presi uti
singuli i giuristi meridionali riservavano un diritto d’uso sulla cosa, la cui proprietà continuava ad attribuirsi
all’universitas: ma, a differenza di quanto si concedeva due secoli prima, i limiti nella disponibilità da parte dei Comuni
s’erano irrigiditi al punto di escludere di fatto ogni commerciabilità o cambiamento di destinazione», ibidem, p. 79.
58
In dettaglio, l’arcivescovo di Ravenna stabilì che l’abbandono del convento da parte dei monaci non aveva interrotto
il possesso dei beni del monastero, qualificati come pertinenze, in attesa che una nuova comunità di religiosi vi si
insediasse nuovamente. La sussistenza dell’edificio di culto garantiva quindi la continuità della situazione giuridica e va
detto che i monaci erano titolari soltanto di un diritto d’uso delle cose. Come ha ricostruito Conte, quella di Mosè era
una decisione perfettamente in linea con il diritto vigente nei secoli centrali del medioevo, dove i disordini che
affliggevano anche la Chiesa indussero i Papi a riconoscere il dominio sui beni ecclesiastici ai loca, per metterli al
riparo da malversazioni e dispersioni, cfr. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Roma, 1995, pp. 201-203; E.
CONTE, Intorno a Mosè. Appunti sulla proprietà ecclesiastica prima e dopo l’età del diritto comune, in I. BIROCCHI, M.
CARAVALE, E. CONTE, U. PETRONIO (a cura di), A Ennio Cortese, I, Roma 2001, pp. 342-363.
55
56
20
repentaglio il soddisfacimento dei bisogni di potenziali generazioni future (di cives o di monaci,
come nel caso di specie). Equilibrio che sarebbe stato progressivamente incrinato dal rifiorire
dell’individuo come soggetto di diritto pienamente capace e «padrone di se stesso» per usare le
parole di Calasso.
Nel già citato lavoro di Barbacetto, l’utilizzo congiunto di legislazione veneziana e opinioni
dottrinali ha restituito un quadro complesso, da cui emerge il profondo valore politico legato
all’attribuzione della titolarità del diritto alla comunità o alla Repubblica, che attuò una decisa
politica di acquisizione dei beni delle comunità di Terraferma59.
In tempi più recenti sono tornati sul problema della titolarità Christian Zendri e Giuliano
Marchetto. Il primo ha riletto approfonditamente i brani dedicati alla servitù di pascolo su fondi
dell’universitas contenuti nel Tractatus de servitutibus di Bartolomeo Cipolla. Passando in rassegna
tutte le questioni affrontate, Zendri ha notato che per il celebre giurista veronese la
determinazione del titolare del diritto di pascolo (la comunità, un gruppo organizzato differente o i
singoli) era presupposto obbligato da cui discendevano le specifiche regole relative alla prova
processuale e al regime della circolazione60. Una costruzione giuridica flessibile, quindi, in grado di
modellarsi su realtà concrete assai multiformi. Marchetto ha invece esaminato i consilia di alcuni
commentatori, dai quali la tesi di Petronio è uscita in sostanza confermata per quanto concerne le
questioni strettamente processuali, mentre sul punto della gestione dei beni collettivi la
distinzione tra proprietà dell’ente e proprietà dei singoli uti cives sarebbe stata determinante per
individuare il soggetto competente a decidere del loro impiego61.
Anche il problema della titolarità riconduce così alla lezione grossiana: nella misura in cui
l’esperienza giuridica pone al centro la cosa e non il soggetto, la domanda “Di chi è?” potrebbe
sembrare poco utile per la ricostruzione delle vicende dei beni comuni, venendo soppiantata
eventualmente dal diverso interrogativo “Chi e come può servirsene?”. La soluzione delle due
problematiche citate in apertura appare non agevole per le stesse caratteristiche di molte
universitates, specialmente quelle rurali di minori dimensioni, dove la partecipazione quasi
unanime degli abitanti alla vita politica e il ridottissimo apparato di “ufficiali” poteva rendere
molto labile il confine tra ente e mera hominum congregatio. Tuttavia è ragionevole pensare,
come ha osservato Dani, che lungo l’età moderna anche i comuni rurali avessero ormai raggiunto
Cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., pp. 85-258.
Cfr. C. ZENDRI, Pubblica privata collettiva. La servitus iuris pascendi nella dottrina di Bartolomeo Cipolla (ca. 14201475), in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio sulla proprietà collettiva, 1 (2014), pp. 191-204.
61
Cfr. G. MARCHETTO, Beni e diritti collettivi nella letteratura consulente tra medioevo e prima età moderna. Primi
spunti per una riflessione, in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio sulla proprietà collettiva, 1 (2016), pp. 157-174.
59
60
21
una piena dimensione formale62, ulteriormente legittimata (aggiungiamo) da una rinnovata
interlocuzione con le autorità centrali anche con riguardo alla gestione dei propri patrimoni
collettivi.
Per altro verso, l’elemento dell’appartenenza non è stato reputato ozioso dalla storiografia
medievistica degli ultimi venti anni, che ha ripreso con forza l’argomento nell’ambito degli studi
sui conflitti e sugli snodi politici più importanti della vita comunale.
La massa di studi prodotti permette di fissare alcuni punti fermi. La riorganizzazione
politico-amministrativa che interessò le comunità tra X e XII secolo, al netto delle specificità locali,
seguì linee di sviluppo comuni. Uno dei principali obiettivi politici dei nuovi soggetti consistette nel
rivendicare porzioni crescenti di giurisdizione territoriale a scapito dei poteri signorili o ecclesiastici
concorrenti. Il recupero delle comunaglie condotto dai Comuni fu pertanto uno degli strumenti
attuativi di tale indirizzo: le universitates, superando i precedenti diritti d’uso, miravano ad
ottenere il dominium pieno sulle risorse per garantirsi un controllo sulle stesse più largo e agevole
ed esercitare così i correlati diritti di natura pubblica63. Chiaramente il variare da luogo a luogo dei
rapporti di forza tra comunità e poteri signorili o ecclesiastici determinò diversi gradi di successo e
di rapidità per queste operazioni di acquisizione. Senza troppo badare a schemi e classificazioni, il
Comune si ritrovò in mano una mole di beni differenti per natura e origine, ma indistintamente
compresi entro il termine comunia, che furono rapidamente oggetto di un processo di
inventariazione – mediante inchieste e embrionali catasti – funzionale alla loro valorizzazione e
gestione patrimoniale.
La divergenza degli interessi di cui i diversi strati sociali cittadini erano portatori in relazione
ai comunia è stata al centro degli studi inaugurati da Maire Vigueur a partire dagli anni Ottanta e
proseguiti poi da altri studiosi64. Essi hanno dimostrato il peso fondamentale dei beni collettivi nei
Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 96-103.
Il nesso tra beni del fisco regio e diritti pubblici è stato ben ricostruito da Tabacco. I re d’Italia tra IX e XII secoli
furono fautori di una politica di alienazione di beni fiscali che incorporavano, nella loro piena consapevolezza, diritti e
poteri di natura pubblica, dando così luogo a nuclei di potere dotati di determinati margini di autonomia entro l’ordito
politico del regno. Non casualmente per indicare questi poteri si fece ricorso alla nozione di proprietà, che in tutta
evidenza era adoperata in senso evolutivo, comprendendo concetti estranei alla proprietà “classica”. Per usare le
parole di Tabacco: «è evidente l’intenzione di distinguere, senza separarli, da un lato i beni materiali dai quali si ricava
un semplice profitto economico, e dall’altra i proventi, gli obblighi, gli honores, cioè i diritti che sono strettamente
legati alla coscienza di una funzione di carattere pubblico. Ci sono una contraddizione logica e un’ambiguità, dal punto
di vista giuridico, volute coscientemente, per collocare poteri di interesse collettivo all’interno di una piccola signoria
di natura diversa, gestita con tutta la libertà e l’autonomia proprie dei diritti di natura privata», G. TABACCO, Dai re ai
signori. Forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Torino, 2000, pp. 67-87.
64
Il riferimento è al volume monografico del 1987 dei Mélanges curato da Maire Vigueur, che nella breve introduzione
colse il nesso tra produzione di documenti ricchi di informazioni sui beni comuni e situazioni di conflitto o
competizione tra gruppi o comunità, cfr. J. C. MAIRE VIGUEUR, I beni comuni nell’Italia comunale: fonti e studi, in
62
63
22
bilanci locali e il nesso tra operazioni di recupero dei beni e conflitti politici interni alle comunità.
Senza attardarsi in sintesi difficilmente esaurienti e tenendo sempre presente che tali fenomeni si
verificarono in tempi diversi da città a città, basti dire che ora il conflitto tra milites e pedites, ora
le politiche dei governi di Popolo che avevano rovesciato i regimi podestarili non risultarono
favorevoli per i meno abbienti, che auspicavano un mantenimento delle forme di fruizione
collettiva delle terre. Un impiego economicamente fruttuoso delle risorse comunali si impose in
molte realtà, specialmente a causa dell’elevata bellicosità intestina ed esterna, che mise a dura
prova le casse pubbliche65.
Come è stato recentemente scritto da Mineo, la divaricazione tra gli interessi dei gruppi
egemoni all’interno delle città e quelli dei cittadini che beneficiavano dell’uso pubblico e libero
delle risorse trovò un riscontro “ideologico” nella trasformazione del concetto politico di bonum
commune e uno pratico mediante la statuizione di innovative (e più stringenti) regole per l’accesso
ai beni66. Va però altrettanto esplicitato che le forme stesse di questa conflittualità e le politiche di
alienazione dei beni seguirono direttrici nettamente distinte a seconda del contesto geografico: i
centri situati in pianura furono in generale più aperti alle innovazioni e ad uno sfruttamento più
intensivo del suolo, mentre gli insediamenti montani, proprio a motivo dell’asperità delle
condizioni di vita e della maggior forza dei legami solidaristici, conservarono meglio e più a lungo i
propri patrimoni comuni.
La tesi di chi vorrebbe le risorse collettive di proprietà sostanzialmente comunale pare
quindi uscire confermata anche dalla storiografia più recente, a patto però che non si escluda a
priori la possibile sussistenza, da verificare caso per caso, di regimi giuridici differenziati volti al
soddisfacimento di interessi diversi. Tuttavia se è vero che accanto alla dottrina, vanno esaminate
pure le fonti prodotte localmente, non può negarsi che le forme attestate di collettivismo agroMélanges de l’École Française de Rome. Moyen Age - Temps modernes, 99/2 (1987), p. 554. Una recentissima rassegna
storiografica sull’argomento è apparsa nel volume edito in onore dello stesso Maire Vigueur, M. T. CACIORGNA, Beni
comuni e storia comunale, in M. T. CACIORGNA, S. CAROCCI, A. ZORZI (a cura di), I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur.
Percorsi storiografici, Roma, 2014, pp. 33-49.
65
R. RAO, I beni del comune di Vercelli. Dalla rivendicazione all'alienazione (1183-1254), Vercelli, 2005, pp. 71-72, ID.,
Comunia. Le risorse collettive del Piemonte comunale, Milano, 2008, pp. 211-239.
66
Cfr. E. I. MINEO, Caritas e bene comune, in Storica, 59 (2014), pp. 7-56. Secondo l’autore l’amministrazione dei beni
comuni da parte delle città risentì dei dibattiti culturali sorti tra Due e Trecento a proposito del valore politico della
carità e dell’evoluzione del concetto cristiano di bene comune. Analizzando le opere di alcuni predicatori del periodo,
l’autore ipotizza l’esistenza di una corrente di pensiero che, muovendo dalla fine del “comunismo delle origini” e
dall’inevitabilità della regolazione istituzionale della proprietà, avrebbe giudicato negativamente tutti i beni materiali,
convogliati in un unico contenitore. Per l’A. «lo sviluppo dell’ideologia del bene comune è legato intimamente alla
costruzione della fiscalità cittadina e dei suoi codici culturali. Detto in breve, l’ostilità diffusa nei confronti
dell’imposizione diretta e il crescere del fabbisogno comunale spingevano rapidamente allo sfruttamento finanziario
dei comunia, rendendo a poco a poco marginale il capitolo delle entrate fondato su di essi», pp. 45-47.
23
silvo-pastorale mutarono nel corso del tempo. Le medesime fonti locali – statuti, bandi campestri,
concessioni e soprattutto allegazioni o consilia – menzionano i pascoli, i boschi, i fiumi come luoghi
su cui gli utenti esercitano una quantità di usi differenti. Esemplare è il caso ligure del ronco, una
pratica diffusa di messa a coltivazione (temporanea) di territorio boschivo, sovente proibita in
talune zone boschive o di pascolo, a seconda delle contingenti esigenze. Ma sappiamo che lo
stesso bosco dava luogo ad una regolazione giuridica articolata, attenta a preservarlo dai danni
causati dal pascolo eccessivo e attenta a prescrivere in base alle diverse qualità arboree modalità
di taglio e utilizzo (privato o commerciale). Così una comunità poteva disporre di beni “comuni”,
formalmente di titolarità comunale, ma goduti dagli utenti senza (o con un meno intenso)
intervento del Comune-ente e di beni “comunali”, impiegati secondo una politica più attenta al
fine di lucro67. Fino ai rivolgimenti seguiti alla rivoluzione del 1789, si può affermare che il rapporto
di complementarietà tra questi regimi giuridici adattò alle cangianti condizioni ambientali,
economiche e socio-politiche locali l’uso dei beni latu sensu pubblici.
Il diritto al sostentamento della popolazione era una delle proposte che vennero avanzate
circa la ratio degli usi civici sui beni collettivi. Accanto ad essa, figuravano la dottrina dell’originaria
comunione dei beni universale – comunione poi degradata dall’appropriazione individuale – e la
concezione degli usi “tollerati” dai pubblici poteri o dai privati proprietari. Considerato il carattere
irrisolvibile della quaestio, si concorda con chi ha proposto di maneggiare questi costrutti teorici di
oggi o di ieri come semplici ipotesi68. A prescindere dalla disputa sulla sua origine, il criterio della
necessità di dare sostentamento ai sudditi persistette fino alla matura età moderna e fu recepito e
condiviso dai giuristi. Si può affermare che costituì un contrappeso all’alienabilità dei comunia?69
Tra i tanti esempi, si possono citare le proprietà regoliere delle Alpi venete. I beni della Regola erano distinti da
quelli comunali in quanto appartenenti esclusivamente agli iscritti al registro della Regola, da cui erano esclusi coloro
che non discendevano dalle famiglie originarie, anche nel caso in cui abitassero nel villaggio. Le tensioni tra nuovi
residenti e originari portarono la Repubblica di Venezia ad imporre nel secondo Seicento alle comunità la cooptazione
e l’ammissione al godimento dei beni collettivi di ogni persona residente in loco da almeno 50 anni, cfr. I. CACCIAVILLANI,
La proprietà collettiva nella montagna veneta, in G. C. DE MARTIN, (a cura di), Comunità di villaggio e proprietà
collettive in Italia e in Europa, Padova, 1990, pp. 49-76; D. CELETTI, La gestione comune del patrimonio boschivo in area
bellunese e feltrina. Aspetti economici, sociali, naturalistici, in G. ALFANI, R. RAO (a cura di), La gestione delle risorse
collettive. Italia settentrionale, secoli XII-XVIII, Milano, 2011, pp. 125-140. Per la classificazione dei beni comuni in
Carnia cfr. S. BARBACETTO, «Tanto del ricco quanto del povero». Proprietà collettive e usi civici in Carnia tra Antico
regime ed età contemporanea, Pasian di Prato, 2000, pp. 79-85.
68
Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., p. 55-62.
69
Nell’opera di recuperi dei communali usurpati, la Repubblica di Venezia vantò di possedere un diritto proprio su
quei beni sovrabbondanti le esigenze dei sudditi, come si afferma in un inciso – espunto nella redazione definitiva - di
una parte del Consiglio dei Dieci indicata da Barbacetto: «Se ritrovano nelli territorii del Trivisan, et Friul, una gran
quantità de beni communali, quali ipso iure spettano alla Signoria nostra ultra quelli che sono necessarii all’uso delli
habitanti delli loci ove essi beni sono situati, bona parte de li qual è stà, et in dies vengono indebitamente usurpati»,
cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., p. 56.
67
24
La risposta affermativa suggerita dalle fonti e confermata dalla storiografia significa
ammettere, da un lato e ancora una volta, che la tensione dialettica tra diversi attori sociali si
rifletteva anche sulla qualificazione della proprietà dei beni. L’attribuzione a un bosco o a una terra
prativa della qualità di “comune” agli abitanti o “comunale”, scelta indubbiamente gravida di
conseguenze giuridiche, appare in ultima analisi un processo sostanzialmente politico interessante
la comunità e, in età moderna, il sovrano, chiamato a vigilare sulla conservazione dell’integrità del
patrimonio comunitativo.
Si scorge quindi una possibile chiave di lettura del problema: l’operazione medievale di
acquisizione da parte dei Comuni di una massa indistinta di beni collettivi tra loro assai eterogenei,
unita al forte ruolo delle consuetudini e delle pratiche agricole locali, paiono alla base delle
numerose difficoltà definitorie tanto della natura dei diritti quanto del soggetto titolare. La piena
proprietà del Comune istituzionale sulle risorse collettive si affiancò certamente a quella privata,
ma il processo non pervenne mai ad una netta distinzione, poiché beni contrassegnati da più forti
vincoli di indisponibilità e aperti agli usi civici sopravvissero per ragioni riconducibili alle peculiari
circostanze locali.
Se talvolta questa divaricazione condusse, tra medioevo ed età moderna, alla nascita di
istituzioni proprietarie distinte dal Comune-ente (è il caso delle Partecipanze di Nonantola)70, in
altri casi la tensione per la salvaguardia dei beni ad uso collettivo diede luogo a conflitti che
trovarono nel Principe un arbitro e, talvolta, un attore attivamente impegnato nell’attuazione di
una propria politica di governo del territorio e del patrimonio dei centri assoggettati. Per questo
motivo è anche con il problema della statualità che è opportuno confrontarsi.
3.a) Stato e corpi territoriali tra “macro” e “micro” storie
Lo studio dei beni comuni non può pertanto ignorare la disciplina del diritto d’accesso. Si è
visto nel paragrafo precedente che a partire dalla creazione dei Comuni cittadini si pose il
problema di conservare differenti regimi di sfruttamento in grado di soddisfare le esigenze ora del
Comune-ente ora della comunità degli utenti. A partire dal XV secolo il mutamento delle strutture
politiche e dei rapporti di forza tra centri urbani era ormai irreversibile: comunità, signorie feudali,
Sulle Partecipanze emiliano-romagnole la bibliografia è vastissima. Vedi almeno i saggi contenuti in E. FREGNI (a c.
di), Terre e comunità nell’Italia Padana. Il caso delle Partecipanze Agrarie Emiliane: da beni comuni a beni collettivi,
«Cheiron», 14-15 (1992); E. TAVILLA, Pubblico e privato tra Unità nazionale e particolarismi regionali. Problemi giuridici
ed istituzionali in Emilia tra Otto e Novecento, Milano, 2006, pp. 1-38; G. ALFANI, Le Partecipanze: il caso di Nonantola,
in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 48-62 e relativa bibliografia.
70
25
abbazie dovettero progressivamente relazionarsi con un soggetto in grado di esercitare
un’influenza più stabile e duratura sul territorio. Si tratta quindi di fare il punto (non solo
storiografico) sul tema della formazione e del consolidamento dei c.d. Stati regionali italiani e dei
loro rapporti con i corpi territoriali preesistenti.
Non diversamente dalla qualificazione giuridica degli usi civici, gli stessi lemmi “Stato” e
“comunità” sono connotati da forti ambivalenze che negli anni non hanno mancato di suscitare
vivaci discussioni tra gli storici circa il metodo d’analisi, l’applicabilità stessa della nozione di Stato
ai secoli precedenti l’Ottocento e la minore o maggiore capacità ermeneutica dell’indagine su scala
locale. La fase più accesa del confronto tra due modi alternativi di intendere la storia latu sensu
sociale si è dipanata lungo trent’anni, a partire dagli anni Settanta con la nascita dell’approccio
microstorico, volto allo studio su piccola scala di fenomeni più complessi o solitamente
generalizzati, per terminare sostanzialmente alla fine degli anni ‘90.
Le prossime pagine muovono dunque dalla sintesi delle principali proposte storiografiche
sulle origini dello Stato, argomento che iniziò a riscuotere l’interesse degli studiosi a partire dal
secondo dopoguerra. Si dimostrerà che oggi lo studio dello Stato può seguire percorsi analitici in
grado di superare una serie di dualismi classici (città/contado, centro/periferia per citare i più noti)
mettendo al centro le azioni concrete dei vari soggetti (o corpi) in relazione ad oggetti determinati.
Dopo il noto lavoro di Federico Chabod sull’organizzazione politica dello Stato
rinascimentale71, alla fine degli anni Sessanta Guido Astuti individuò nella progressiva crescita
delle funzioni amministrative e dei poteri di governo principeschi il tratto caratteristico del
processo di sviluppo teorico dei principati e dei regni dalla fine del medioevo al XVIII secolo72.
Astuti non negò che l’edificazione dello Stato assoluto (o accentrato) fosse stata contrastata dalla
resistenza posta dagli ordinamenti feudali, cittadini e rurali, osservando anzi che proprio
nell’unicità dell’ambiente politico italiano risiedeva la ragione principale del mancato costituirsi di
una monarchia nazionale unitaria.
Cfr. F. CHABOD, Esiste uno Stato del Rinascimento? In Scritti sul Rinascimento, Torino, 1967, pp. 591-623 (ma lo scritto
risaliva al 1957) dove l’A. sostenne che l’essenza dello Stato rinascimentale era da riconoscere nella formazione e nello
sviluppo di un corpo di ufficiali dipendenti dal Principe, al cui combinato operare era da ricondurre larga parte
dell’iniziativa politica del governo in campo diplomatico, fiscale, amministrativo e militare.
72
Cfr. G. ASTUTI, La formazione dello Stato moderno in Italia, Torino, 1967. In particolare l’A. individuò tre campi di
intervento: la sottomissione della nobiltà feudale al potere del principe e la riduzione dei suoi privilegi; l’imposizione
di forme più pregnanti di supremazia nei confronti della Chiesa e del clero e la soppressione o almeno la limitazione
delle istituzioni democratiche locali, residuati dell’antico autonomismo cittadino. Per quanto forse eccessivamente
influenzato dal modello francese, il lavoro di Astuti ebbe il pregio di porre alcuni temi di natura giuridica in una
posizione di assoluto rilievo per lo studio degli ordinamenti statali moderni, come la revisione delle fonti normative
locali, l’inserimento delle giurisdizioni territoriali entro il tessuto amministrativo regionale e la riforma del sistema
finanziario e fiscale medievale per far fronte ai crescenti fabbisogni richiesti da una burocrazia più cospicua.
71
26
Pochi anni dopo fu Giuseppe Galasso a riprendere la sua analisi, sostenendola con una
rassegna delle principali realtà statuali della penisola tra Quattro e Seicento. Il persistente
particolarismo fu indicato come il carattere specifico del processo di formazione dello Stato in
Italia e non come espressione di un presunto “ritardo” rispetto alle altre esperienze europee,
particolarismo che i governi tentarono in diversi modi di armonizzare senza però pregiudicarne
irrimediabilmente la sopravvivenza73. Era un periodo maturo per il compimento di indagini mirate,
volte a chiarire le tecniche adoperate in ciascun ordinamento per coordinare le organizzazioni
territoriali e feudali entro una struttura organica che proseguissero i lavori per certi aspetti
d’avanguardia di Chabod su Milano e di Berengo su Lucca, ma che superassero la prospettiva
urbano-centrica propria di quel periodo.
Una svolta fu impressa dai lavori compiuti negli anni Settanta da alcuni storici, tra i quali
vanno citati almeno Giorgio Chittolini, Gaetano Cozzi ed Elena Fasano Guarini: i capisaldi dei loro
lavori risultano sostanzialmente confermati fino a tempi più recenti74. Fu in quel momento che la
nascita e lo sviluppo dello Stato assunsero il rango di legittimi oggetti di ricerca. Prescindendo
dalle caratteristiche specifiche delle realtà studiate, le indagini svolte hanno fissato alcuni punti
fermi. Anzitutto lo Stato regionale – secondo la terminologia di Chittolini – presenta una natura
policentrica ben distinta sia dalle strutture contemporanee in vigore a partire dall’Ottocento sia
dallo Stato assoluto monarchico di altre realtà europee coeve. Esso dimostra una spiccata
«La riduzione di molti comuni già indipendenti e centri talora di domini di considerevole estensione a città suddite, a
vario titolo e in varia condizione, degli stati emersi vittoriosi nella lotta per il predominio regionale, e, quindi, la loro
riduzione a semplici enti territoriali amministrativi, è un aspetto estremamente importante del processo di formazione
dello stato moderno in Italia; […] il persistere di più o meno ampie sfere di autonomia statutaria o di fatto che
compete a feudi e comuni – comune significa ora, definitivamente, potere municipale – alimenta anch’esso quella
molteplicità di giurisdizioni che è un’ulteriore caratteristica con cui si realizza lo stato moderno nelle prime epoche
della sua storia», cfr. G. GALASSO, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’impero romano ad oggi, Torino, 1974, p.
83, più in generale pp. 61-101. Lo stesso Galasso tornò anni dopo sull’argomento verificando la validità della propria
ricostruzione nel volume dedicato alle dominazioni angioina e aragonese del Regno di Napoli, G. GALASSO, Il Regno di
Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in G. GALASSO (a cura di), Storia d’Italia, vol. 15/1, in
particolare per le riforme approvate durante il regno di Ferrante I d’Aragona e le vicende del mondo feudale e
comunale vedi pp. 731-760.
74
Il riferimento è ovviamente ai primi lavori di Giorgio Chittolini, oggi raccolti in La formazione dello Stato regionale e
le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Milano, 2005. Si segnalano inoltre G. CHITTOLINI E D. WILLOWEIT (a cura di),
L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, Bologna, 1994; G. CHITTOLINI, A. MOLHO, P. SCHIERA (a
cura di), Origini dello Stato: processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, Bologna, 1994; G.
CHITTOLINI, Città, comunità e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (XIV-XVI secolo), Milano, 1996. Di Cozzi
fondamentale è stato lo studio delle riforme del diritto e delle strutture giurisdizionali centrali e periferiche veneziane,
collegate alla generale tendenza alla restrizione dell’esercizio del potere, per cui vedi G. COZZI (a cura di), Stato, società
e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), Roma, 1980; G. COZZI, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e
giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, 1982. Di Elena Fasano Guarini si segnalano solo i principali contributi
all’interno di una produzione assai vasta: E. FASANO GUARINI, Lo stato mediceo di Cosimo I, Firenze 1973; E. FASANO
GUARINI (a cura di), Potere e società negli Stati regionali italiani tra ‘500 e ‘600, Bologna, 1978; E. FASANO GUARINI,
Repubbliche e principi. Istituzioni e pratiche di potere nella Toscana granducale del ‘500-‘600, Bologna, 2010.
73
27
propensione alla costante negoziazione con i diversi centri di potere che, seppur sottomessi, non
perdono la loro capacità di contrattare la conservazione di margini di autonomia75. Il
particolarismo già evocato da Astuti e Galasso viene quindi esaminato più approfonditamente
poiché si riconosce un ruolo attivo ai corpi territoriali nel processo di ridefinizione degli spazi
politici e territoriali, al punto da parlare apertamente di “diarchia” tra centro e periferia.
Lo
Stato
regionale
si
pose
quindi
come
soluzione
necessaria
al
problema
dell’organizzazione delle forze politiche e sociali agenti sul territorio e che con molta cautela per
Chittolini si può definire “moderno”, intendendo con questo una modernità di valori e schemi
d’azione e non tanto in senso cronologico. Secondo Schiera lo Stato che getta le proprie
fondamenta tra XIV e XV secolo si propone di: «tenere insieme il livello istituzionale
dell’organizzazione del potere, con quello ideologico di legittimazione della sua funzione nei
confronti dei sudditi, con quello disciplinante di coazione rispetto ai comportamenti collettivi di
questi ultimi»76. A motivo della natura corale della sua dimensione politica, lo Stato regionale fu
chiamato a mediare e a coordinare più di prima gli interessi divergenti di vari soggetti, operando
una sintesi che con difficoltà avrebbe portato sul lungo periodo all’emersione di un interesse
pubblico generale.
Il prolifico ventennio di studi sullo Stato regionale ha generato tuttavia anche una serie di
indirizzi storiografici a vario titolo critici verso il paradigma statualista, da molti considerato non
retrodatabile o inadatto a illuminare le problematiche relative ai vari aspetti del sociale. Molti
studiosi, a partire dagli anni Settanta, hanno allora eletto la comunità come campo di studio
privilegiato per proporre nuove letture dei processi politici, che in “periferia” si articolano intorno
alle famiglie e alle parentele, alle parrocchie e ai villaggi77. L’acme della vivacità dialettica tra
«Il nuovo Stato regionale, soprattutto quello principesco, rinuncia forse a quanto di assoluto e totalitario vi era nelle
esigenze di accentramento del Comune medievale: esso è anzi assai generoso nel riconoscimento degli autonomismi
locali, tanto che l’antico distretto cittadino risulta spesso dissolto e frazionato in numerosi centri di giurisdizione:
piccoli territori borghigiani, comunità montane, signorie rurali. Si rendono necessarie nuove e più articolate
formulazioni giuridiche per definire i rapporti con il signore (o la città dominante) da un lato, e i diversi nuclei
territoriali che costituiscono lo stato dall’altro: la varietà dei patti di capitolazione con le città assoggettate, gli
strumenti di accomandigia, lo stesso contratto feudale, che non a caso fra Trecento e Quattrocento registra una vasta
fioritura»; G. CHITTOLINI, La crisi delle libertà comunali e l’origine dello Stato territoriale, in La formazione dello Stato
regionale, cit., p. 40. Posizione sostanzialmente ribadita in G. CHITTOLINI, Il “privato”, il “pubblico”, lo Stato, in Origini
dello Stato, cit., pp. 553-591.
76
Cfr. P. SCHIERA, Legittimità, disciplina, istituzioni: tre presupposti per la nascita dello Stato moderno, in Origine dello
Stato, cit., p. 44.
77
Come notava Tocci «la comunità pare essere oggi una sorta di unità di studio ideale sulla quale convergono, quasi a
sperimentare l’efficacia delle rispettive metodologie, tanto gli studiosi delle istituzioni, quanto quelli della fiscalità,
della giustizia, della mentalità, dell’antropologia sociale» avvertendo allo stesso tempo di non enfatizzare il valore di
esperienze pur sempre parziali: «Se ogni comunità, per intenderci, è storiograficamente un punto d’osservazione,
però nessuna in particolare è il miglior punto in assoluto; né si tratta per altro di punti indifferentemente
75
28
analisti micro e macro delle strutture politiche tra 1500 e 1700 si è registrato negli anni ’90, dopo
l’uscita di due opere “d’impatto” di Grendi e Raggio che ebbero come campo di studio proprio la
società ligure. Non si intende in questa sede ripercorrere integralmente il cammino fatto dalla
micro-analisi storica dalla fine degli anni Settanta ad oggi, né prendere posizione sulle varie
interpretazioni date della microstoria medesima, ma alcune annotazioni rilevanti per il nostro
discorso meritano di essere fatte78.
Tra gli studi di comunità più noti, spicca Il Cervo e la Repubblica di Grendi, che ha il merito
di aver richiamato l’attenzione su alcuni connotati della ricerca prima scarsamente considerati: la
materialità del territorio, l’analisi della comunità come sistema politico che si articola nello spazio
geografico, l’attenzione ai circuiti economici e commerciali, la capacità rivelativa dei rapporti tra
gruppi propria dei conflitti giurisdizionali. Contestualizzazione e relazioni tra gruppi sono i capisaldi
del lavoro di ricerca adottati poi in altri saggi79e che Grendi utilizza come presupposto per rigettare
in larga parte il dualismo Stato-comunità80.
Maggiore enfasi sul ruolo dei gruppi parentali e sull’analisi dei rapporti conflittuali o solidali
interni alle famiglie e tra queste e i rappresentanti del “centro” è stata posta da Osvaldo Raggio a
proposito della società della Val Fontanabuona. Qui la critica ripresa da Grendi sul paradigma dello
Stato moderno («chiave di lettura e di interpretazione spesso a senso unico dei fenomeni politici e
dei movimenti sociali») e la sua asserita non estendibilità al caso genovese conduce l’autore da un
lato a giustificare la scelta di approfondire temi tradizionalmente considerati marginali (culture,
stili di vita, pratiche, linguaggi e costumi locali) e dall’altro a qualificare l’attività delle istituzioni
pubbliche come un difficile e costante negoziato con le società locali con l’intento dichiarato di:
intercambiabili, avendo ciascuna comunità una propria ben precisa identità che si esplica – in ultima istanza – in una
determinata funzione in quel sistema relazionale che è dato, al livello di evidenza più rappresentabile, dal tessuto
politico e istituzionale dello Stato», cfr. G. TOCCI, Introduzione, a G. TOCCI (a cura di), Le comunità negli Stati italiani
d’antico regime, Bologna, 1989, p. 10.
78
Una sintesi già in G. TOCCI, Le comunità in età moderna. Problemi storiografici e prospettive di ricerca, Roma, 1997,
pp. 53-80, e di recente P. BURKE, L’invenzione della microstoria, in Rivista di storia economica, 24 (2008), pp. 259-273.
79
Per un excursus storiografico cfr. O. RAGGIO, La storia come pratica. Omaggio a Edoardo Grendi (1932-1999), in
Quaderni storici, 100 (1999), pp. 3-10.
80
«Tenere presente la dialettica Stato-comunità non significa dare «corpo sociale» al politico: Stato e comunità non
sono realtà coerenti e unitarie, e i loro rapporti non sono concepibili se non nel mobile rapporto di alleanze di gruppi e
mediazioni che rappresenta il vincolo dell’influenza reciproca, il presupposto delle successive soluzioni politiche. E a
tal fine è necessaria quella rigorosa contestualizzazione che dà significato al formarsi degli schieramenti e comporta la
ricostruzione degli scambi economici, delle forme di aggregazione sociale, del linguaggio politico corrente. Ed è a
questo livello che il problema dell’innovazione/trasformazione conserva tutto il suo fascino di impresa analitica non
predeterminata. La qualificazione di un tale approccio come “antropologico” ha il sapore di un esorcismo. La sintesi
che interessa è l’integrazione dei piani del processo storico, non la prospettiva statuale che prefigura il destino di un
territorio», E. GRENDI, Il Cervo e la Repubblica. Il modello ligure di antico regime, Torino, 1993, p. XI.
29
«osservare dal basso, insieme all’esperienza quotidiana e ai comportamenti delle persone e dei
gruppi sociali, i ritmi più inesplorati della grande storia politica»81.
Le due opere sono accomunate da almeno un paio di elementi fondamentali: la
ridefinizione di “comunità” tramite l’analisi delle sue diverse componenti (e delle loro relazioni) e
l’idea che la Repubblica genovese fosse sprovvista di un progetto di integrazione politica del suo
dominio. Difettando di un disegno coerente di costruzione statuale, la vita sociale locale pare
subire una trasformazione più per opera del mercato che dello Stato – è la lettura di Grendi –
mentre per Raggio la perdurante conflittualità tra parentele, mediata ma non risolta dall’autorità
genovese, generano un patrimonio di legittimazione politica di cui beneficiano tanto i giusdicenti
genovesi che i “principali” delle parentele, ma le cui sorti sul lungo periodo esulano però dalla
trattazione82.
L’uscita del Cervo e di Faide e parentele, come si premetteva, rinfocolò la discussione
intorno al concetto di Stato regionale e/o “moderno”, già rivisitato dalla storiografia istituzionale
di quegli anni. Ora, tali posizioni paiono muovere da un concetto di Stato – assoluto e/o
precursore degli ordinamenti politici liberali – discutibile e certamente non condiviso dall’intera
storiografia contemporanea. Par quasi di capire che, attesa l’incapacità della repubblica genovese
di organizzarsi in termini chabodiani come principato accentrato, di Stato non si possa in fin dei
conti neppure parlare, preferendo definirla con gli sfumati termini di: «sistema di interazioni che
riflettono le forme di organizzazione locale non meno che le iniziative del Principe»83. Così la
resilienza dei clan familiari all’operato dei magistrati genovesi e l’intreccio che lega parentele
rivierasche alle fazioni della capitale viene letto da Raggio come un fatto eccezionale, quantunque
un monito a tenere in debito conto l’opposizione e la refrattarietà al disciplinamento dei corpi
territoriali fosse stato lanciato da Marino Berengo quasi cinquant’anni fa84.
Cfr. O. RAGGIO, Faide e parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino, 1990, pp. IX-XXI.
Opportuna la notazione di Angelo Torre, che ha evidenziato come l’accostamento tra le due opere non debba far
perdere di vista le differenze, pure sensibili. Una tra esse è sicuramente la dicotomia “culturale” tra esponenti del
potere centrale e società locale. Laddove per Grendi essi trovano un luogo d’incontro nella coscienza sociale dello
spazio, per Raggio lo iato tra culture è maggiore e sostanzialmente incolmabile, come prova il carattere insopprimibile
degli scontri di faida, cfr. A. TORRE, Società locale e società regionale: complementarietà o interdipendenza?, in Società
e storia, 67 (1995), pp. 113-124. Se è vero, come è stato scritto, che l’ambizione dei due autori consisteva nell’indicare
un nuovo terreno di verifica per la comprensione del sistema politico territoriale, poiché i tradizionali settori della
politica e dell’amministrazione non risultavano soddisfacenti, è vero altrettanto che l’ambizione di vedere lo Stato
dalle comunità sia per certi versi delusa, specie nell’opera di Raggio, cfr. nella stessa pubblicazione A. M. BANTI,
Identità socio-politiche: un processo dinamico?, pp. 125-128.
81
82
83
84
Cfr. O. RAGGIO, Faide e parentele, cit., p. XXVI.
Cfr. M. BERENGO, Il Cinquecento, in ID., La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, Milano, 1970, pp. 483-518.
30
Non appare quindi più possibile oggi porsi il problema della statualità assumendo che il
potere pubblico si strutturi secondo forme immutabili in ogni epoca storica o che essa sia
riconoscibile soltanto nella misura in cui il potere politico, pienamente sovrano, si organizzi ed
operi senza alcuna interferenza o condizionamento, per mezzo di un apparato amministrativo
capace di informare di sé la società. A ben vedere ciò comporta tradire la vitalità dei differenti
luoghi di potere che rapportavano dialetticamente con il sovrano85.
Anche la storiografia giuridica più recente ha dimostrato di essere ben munita di questa
consapevolezza, già a partire dagli studi di Fioravanti, Mannori e Sordi sul c.d. Stato giurisdizionale,
caratterizzato dall’utilizzo, da parte del potere politico, non di un’amministrazione
tendenzialmente uniformante, ma della giurisdizione come strumento elastico di manifestazione
dell’imperium entro i confini di un territorio concepito sì in senso più unitario, ma senza che da
tale concezione scaturisca una politica di livellamento dei soggetti che lo compongono o di
abrogazione dei diritti locali. Dal tardo medioevo lo Stato iniziò a svolgere funzioni ulteriori
rispetto al passato, il cui esercizio fu rimesso alle strutture giurisdizionali già in essere86.
Riprendendo le conclusioni di Otto Hintze, anche Mario Caravale ha sottolineato gli
elementi di continuità del pluralismo politico-istituzionale tra medioevo e prima età moderna che
caratterizzano i principali regni europei. Beninteso: senza sminuire la portata di novità di assoluto
rilievo, come la Riforma o lo scoppio di conflitti bellici di portata continentale, che non avrebbero
secondo l’autore alterato sensibilmente il quadro istituzionale87. Ascheri88 e Birocchi89 a loro volta
hanno ribadito che il consolidamento istituzionale verificatosi dopo il Quattrocento non recise i
legami con la teoria giuridica e la prassi politica precedenti. Lo Stato si atteggiò come luogo in cui
Condivisibile appare l’affermazione di Corrao, secondo cui il problema del dominio e delle sue forme di realizzazione
si identifica «con il problema della sovrapposizione di due livelli di potere, della possibilità e delle modalità di
inserimento e di utilizzazione da parte dell’oligarchia della dominante delle reti dei poteri locali. Che ciò avvenga
sconvolgendole o mantenendole in efficienza, poi, dipende dalla capacità, dagli interessi, dalle scelte del ceto
dirigente “centrale” e dalla forza, dall’efficienza delle articolazioni del potere locale», cfr. P. CORRAO, Stato, dominio,
società politica: specificità e comparazioni, in A. ZORZI, W. J. CONNELL (a cura di), Lo Stato territoriale fiorentino (secoli
XIV-XV). Ricerche, linguaggi, confronti, San Miniato, 2001, p. 225-232.
86
Cfr. M. FIORAVANTI, Stato e costituzione, in M. FIORAVANTI (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto,
Roma-Bari, 2002, pp. 3-36; più diffusamente lo stesso Fioravanti ha analizzato il problema dello Stato moderno alla
luce dei modelli storiografici e di comparazione elaborati nel XIX secolo in Stato (storia), in Enciclopedia del diritto,
XLIII, Milano, 1990, pp. 708-755; B. SORDI, L. MANNORI, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2001.
87
In particolare Caravale non nota salti di qualità per quanto riguarda le politiche di accentramento e di unificazione
normativa, ridimensionando quindi la portata della teorizzazione della sovranità operata da Bodin, cfr. M. CARAVALE, La
nascita dello Stato moderno, in ID., Storia moderna, Roma, 1998, pp. 77-101.
88
Cfr. M. ASCHERI, Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Bologna, 2009, in particolare pp. 376399.
89
Cfr. I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, 2002, pp. 96-104.
85
31
ceti, autonomie corporative e territoriali trovarono una composizione in grado di garantire la
coesione complessiva della società.
D’altra parte non va disconosciuto il merito dei numerosi studi microstorici su scala
comunitaria per aver arricchito il quadro degli assetti politici e i campi di indagine con il ricorso a
metodi propri dell’antropologia e della sociologia, dimostrando per tabulas l’irriducibilità della
società politica alle sole magistrature e la vitale esistenza di luoghi “altri” del potere. Il rischio,
insomma, è quello di gettare via il bambino con l’acqua sporca allo scopo di contestare l’idea che
la storia istituzionale e giuridica siano ormai discipline inadatte a comprendere i secoli della
modernità. Il superamento delle dicotomie gerarchizzanti Stato/comunità, centro/periferia o
alto/basso è stato reso possibile tenendo insieme i risultati offerti dalla microstoria con le
correzioni di rotta effettuate negli ultimi anni dagli studi istituzionali.
Alcuni elementi hanno così conquistato un rilievo centrale. Anzitutto l’orizzonte regionale
del processo di aggregazione di molteplici entità territoriali tra loro differenti per peso politico ed
economico ha disvelato una vitalità delle periferie tale che non è più possibile concepire il
rapporto centro-periferia come unidirezionale, bensì biunivoco, in forza del quale la periferia
sempre meno appare come un qualcosa di passivamente subalterno al centro. Inoltre gli studi
sulle reti clientelari e di patronato dei gruppi dirigenti e sulla delicata questione del sistema
pattizio su cui si articola lo Stato moderno hanno restituito profondità al contesto in cui gli ufficiali
del sovrano operarono, stretti tra l’attuazione delle politiche centrali e la garanzia delle autonomie
locali90.
La ricerca della rispondenza ai modelli teorici, complice la crisi dello Stato contemporaneo,
ha quindi progressivamente ceduto il passo allo studio di quella che potremmo chiamare
“costituzione materiale” degli Stati regionali, cioè la verifica dell’operato di magistrature, comunità
e gruppi variamente individuati in relazione alla cura di interessi concreti91. In particolare, la critica
Erano, questi, elementi già acquisiti al momento della polemica tra macro e micro storici, quindi vedi G. CHITTOLINI,
Stati padani, Stato del Rinascimento: problemi di ricerca, in G. TOCCI (a cura di), Persistenze feudali e autonomie
comunitative in stati padani fra Cinque e Settecento, Bologna, 1988, pp. 9-29; E. FASANO GUARINI, Centro e periferia,
accentramento e particolarismo: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, in Origini dello Stato, cit., pp. 147176 concentrato prevalentemente sull’Italia ma attento a indicare le vie d’uscita per superare l’impasse; L. BLANCO,
Note sulla più recente storiografia in tema di «Stato moderno», in Storia, amministrazione, costituzione, Annale
dell’I.S.A.P., 2 (1994), pp. 259-298.
91
A questo proposito, si condivide l’osservazione di Marina Montacutelli: «È necessario, cioè, scomporre ogni
categoria analitica: anche lo Stato, se inteso non soltanto come configurazione politico-istituzionale più complessa di
altre che ne riprodurrebbero - in piccolo o in sua assenza – le prerogative e le funzioni. Non s tratta di precostituire
categorie astratte, di porre la questione dello stato in termini di accertamento della sua efficienza e funzionalità
rispetto a un modello indeducibile, ma di studiarlo nel concreto del suo agire, in modo processuale e non evolutivo:
ciò significa che nell’endiade “stato moderno” appare più discutibile l’aggettivo (se inteso in senso “modernizzante”)
90
32
mossa a concetti tradizionali – accentramento, omologazione, razionalizzazione delle strutture –
che presuppongono una prospettiva lineare per la misurazione della crescita dello Stato, permette
di concentrare l’attenzione sul rapporto tra finalità perseguite e mezzi impiegati o impiegabili (tra
cui sicuramente figurano gli strumenti giuridici e istituzionali)92. Così facendo, si delineano le forze
in campo e si ricostruisce la contrapposizione di obiettivi che fu alla base dei conflitti, calando
quindi diritto e istituzioni nella società e sul territorio. In tal senso si muovevano già alcuni
interventi al convegno di Chicago del 1993, proponendo un “ritorno alle fonti” per sottoporre alla
prova dei documenti ogni interpretazione sulla natura di qualsiasi realtà statuale93.
L’indicazione può dirsi oggi in gran parte recepita, considerato che lavori assai differenti tra
loro per modelli e campi d’indagine – la fiscalità, la costruzione di un sistema di warfare, gli
apparati della giustizia e il loro funzionamento – hanno confermato che lo sviluppo dello Stato,
lungi dall’essere lineare, non assunse come pardigma l’assolutismo francese, livellatore dei corpi
preesistenti. Esso si configurò invece come un processo di integrazione in cui la concentrazione del
potere era diretta ad aggregare comunità e ceti verso un orizzonte comune, che richiedeva una
nuova organizzazione dei corpi politici presenti sul territorio94.
che non il sostantivo», cfr. M. MONTACUTELLI, L’Oltremonte e il mare: alcune considerazioni su un modello
mediterraneo, in Società e storia, 67/1 (1995), p. 160.
92
Studiando la formazione del dominio fiorentino, Andrea Zorzi ha individuato tre priorità nelle politiche di governo:
legittimazione reciproca tra dominante e comunità soggette; riconoscimento delle pratiche politiche locali (ivi
compresi i conflitti tra fazioni) e loro interazione con le pratiche di governo della Dominante; negoziazione tra i diversi
poteri territoriali su materie specifiche. Volendo offrire una possibile interpretazione, l’A. scrive: «Linea politica di
fondo del gruppo dirigente fiorentino appare essere stata non tanto quella di perseguire l’amministrazione di un ente
unitario in cui le cosiddette funzioni pubbliche servissero il processo di integrazione statale (aumento delle risorse
fiscali, costituzione di ordinamenti militari più stabili, articolarsi delle istituzioni centrali e periferiche, formazione di un
personale di funzionari e ufficiali etc.), bensì quella di “reggere” politicamente un dominio territorialmente variegato
in cui l’apparato giuridico-istituzionale e le pratiche di governo servissero anzitutto come strumento di
conservazione». Fondamentale dunque è l’analisi dell’attività degli uffici di governo centrali e periferici e delle
magistrature giudicanti, A. ZORZI, La formazione e il governo del dominio territoriale fiorentino: pratiche, uffici,
“costituzione materiale”, in Lo Stato territoriale fiorentino, cit., pp. 190-221.
93
Si segnalano in particolare i contributi in Origini dello Stato di G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria
nell’esperienza degli Stati italiani della prima età moderna, pp. 287-302; L. PEZZOLO, Sistema di potere e politica
finanziaria nella Repubblica di Venezia (XV-XVII), pp. 303-330; R. SAVELLI, Tribunali, «decisiones» e giuristi: una
proposta di ritorno alle fonti, pp. 397-424. Le potenzialità offerte da alcune scelte di campo, come il rifiuto della
contrapposizione antico/nuovo e l’opzione per lo Stato composito come esperienza dotata di propria dignità
indipendente dal suo prefigurare una modernità più “vera”, sono state colte dal Mannori che recensendo il volume ha
affermato l’opportunità, in una fase storica di crisi dello Stato monoliticamente inteso, di «verificare in che misura la
civiltà ottocentesca, a dispetto della sua autorappresentazione enfaticamente rotturista, abbia continuato a muoversi
lungo i binari antichi di una politica concepita come governo di gruppi contrapposti e come ricerca di una mediazione
tra le loro confliggenti esigenze», cfr. L. MANNORI, Genesi dello Stato e storia giuridica, in «Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico moderno», 24, 1995, pp. 485-505.
94
Il diverso configurarsi del rapporto tra crescita delle città, accumulazione di risorse economiche, mobilitazione di
forze militari ed crescita dell’amministrazione regia diede luogo a forme di Stato diverse, secondo la classica
interpretazione di Charles Tilly, cfr. C. TILLY, Coercion, Capital, and European States, AD 990-1990, Cambridge, 1990.
Per ricognizioni storiografiche aggiornate sullo Stato vedi le considerazioni introduttive di A. HOLENSTEIN, Empowering
33
La chiave di lettura che si inserisce in questo solco metodologico e che tornerà utile per lo
studio delle forme di gestione dei beni collettivi liguri è quella rappresentata dalla tutela svolta dal
centro a beneficio delle comunità locali. Una “invenzione”, per usare le parole di Mannori che ne
ha saggiato l’applicabilità in Toscana, capace di accomunare gran parte delle esperienze
istituzionali europee di quel periodo e che segna uno netto scarto rispetto ai munera
giurisdizionali del sovrano medievale.
I fondamentali della tutela amministrativa sono noti ma val la pena rievocarli per sommi
capi. L’evoluzione della società tra tardo medioevo ed età moderna presenta ai gruppi dirigenti
comunitativi una serie di interessi emergenti che richiedono la predisposizione di corrispondenti
attività volte a soddisfarli. Stante l’incapacità, effettiva o putativa, della comunità a provvedervi
autonomamente, il centro ne assume la direzione ed il controllo sotto diversi profili (capacità di
spesa, disponibilità dei beni comunali, adempimento di una serie di prestazioni obbligatorie)
assimilandola alla condizione giuridica del pupillo, bisognoso di un tutore per la migliore cura dei
suoi affari. Come precisa lo stesso Mannori, questa pratica di governo, senza squalificare
l’importanza di nessun corpo intermedio, dimostra come: «la conservazione di una struttura
marcatamente pluralistica non sia affatto incompatibile con uaccentramento amministrativo una
volta che, affermata la natura minorile della civitas, il centro sia riuscito a riunire nelle proprie
mani tutta quanta la “capacità di agire” prima dispersa tra i mille corpi intermedi del suo Stato»95.
È sulla falsariga del modello tutelare che i temi del particolarismo politico d’antico regime e
del tentativo da parte del “centro” di darvi un qualche ordine possono essere studiati, tentando di
comprendere quali reazioni suscitò questo processo e quali strumenti giuridici il “centro” mise in
campo in vista della cura di determinati interessi. Ovviamente tra Stato e Stato lo specifico grado
di realizzazione e di efficacia della tutela è destinato a variare, ma quello che più preme
sottolineare è come essa permetta di verificare, senza apriorismi, l’efficienza funzionale di quelle
riforme che, magari non sempre in maniera organica e razionale, gettarono le basi dello State
building.
interactions: looking at Statebuilding from below, in W. BLOCKMANS, A. HOLENSTEIN, J. MATHIEU (a cura di), Empowering
interactions. Political culture and the Emergence of the State in Europe 1300-1900, Farnham, 2009, pp. 1-35 e l’intera
parte quarta dello stesso volume (pp. 281-326); L. TEDOLDI, Dove eravamo rimasti? Lo Stato in età moderna tra
problemi storiografici e questioni aperte, in «Le Carte e la Storia», 2, 2009, pp. 19-33; F. BENIGNO, Parole nel tempo. Un
lessico per pensare la storia, Roma, 2013, pp. 163-184.
95
Cfr. L. MANNORI, ll Sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel Principato dei Medici
(sec. XVI-XVIII), Milano, 1994, in particolare pp. 137-188. Benché il libro si muova per esplicita ammissione dell’A.
entro il binomio centro/periferia, l’opera non indulge in riproposizioni della teorica chabodiana, dedicando il primo
capitolo a dimostrare l’assenza – semantica prima ancora che politica o giuridica – di un termine che designi nella sua
interezza l’ordinamento territoriale del principato mediceo.
34
Accanto all’indiscutibile carattere composito degli Stati d’età moderna e alla politica
tutelare, un’ultima tendenza storiografica ha contribuito a porre diversamente la questione della
formazione dello Stato: si allude all’approccio di “produzione di località”96. Di “approccio
topografico” aveva già parlato Edoardo Grendi97, invitando a riconsiderare attentamente i processi
di genesi locale delle fonti, riconducendole agli oggetti concreti di cui trattavano. Esso è stato
raccolto con varie sfumature da una corrente nutrita di storici che hanno fatto nuova luce sul
funzionamento delle istituzioni, dimostrando la natura legittimante delle pratiche in un contesto in
cui l’amministrazione della giustizia era spesso il segno più visibile del potere98. È così emersa una
maggiore consapevolezza circa le modalità con cui le istituzioni erano utilizzate dagli stessi attori
(le parti di un processo o di un contratto) allo scopo di certificare agli occhi dell’autorità
determinate prerogative.
Dall’altro lato si è riconosciuta sempre più importanza alle pratiche di trasformazione del
territorio, specchio a sua volta di usi e di relazioni tra insediamenti vicini. Grazie ai risultati della
geografia storica e della storia sociale, si è recentemente proposto all’attenzione di un’ampia
platea di studiosi (comprendente archeologi, biologi, ecologi, storici e…storici del diritto) la
possibilità di individuare come oggetto di ricerca le pratiche di utilizzo di risorse naturali in siti
concreti in vista di una rinnovata ecologia storica99. Alcuni elementi in grado di radunare diverse
discipline (la scelta delle risorse naturali come oggetto comune di studio, l’utilizzo incrociato di
fonti cartografiche, giuridiche e di terreno) e gli scopi prefissati fanno auspicare un ulteriore
avanzamento delle conoscenze sul modo in cui l’ambiente locale fu modellato nel corso del
tempo.
Si può dire allora che i beni comuni rappresentino un valido campo di ricerca che,
ponendosi a metà strada tra dimensioni micro e macro, dia riscontro alle molte problematiche
Il riferimento è ad A. TORRE, La produzione storica dei luoghi, in Quaderni storici, 110 (2002), pp. 443-475; M. DELLA
MISERICORDIA, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna
lombarda nel tardo medioevo, Milano, 2006; A. TORRE, Luoghi. La produzione di località in età moderna e
contemporanea, Roma, 2011 con relative indicazioni bibliografiche. Il tema dello spazio si presta a decifrazioni
multiple che qui non si possono richiamare interamente, per cui si rimanda a A. TORRE (a cura di), Per vie di terra.
Movimenti di uomini e di cose nella società di antico regime, Milano, 2007 e C. G. DE VITO, Verso una microstoria
translocale (micro-spatial history), in Quaderni storici, 150 (2015), pp. 815-833.
97
E. GRENDI, Storia di una storia locale: perché in Liguria (e in Italia) non abbiamo avuto una local history?, in Quaderni
storici, 82 (1983), pp. 141-197.
98
Riprendendo la lezione già di Grossi e di P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica
medievale 1100-1433, Milano, 1969 e riassunta da A. M. HESPANHA, Introduzione alla storia del diritto europeo,
Bologna, 1999, pp. 40-49.
99
Cfr. R. CEVASCO, V. TIGRINO, Lo spazio geografico: una discussione tra storia poltico-sociale ed ecologia storica, in
Quaderni storici, 127 (2008), pp. 207-242; A. TORRE, V. TIGRINO, Beni comuni e località: una prospettiva storica, in
Ragion pratica, 41 (2013), pp. 333-344.
96
35
enucleate fin qui? L’argomento, esaminato da questo punto di vista, non ha attirato l’interesse dei
ricercatori fino a tempi piuttosto recenti, quando un crescente numero di storici ha ripreso ad
occuparsene sulla scorta delle ricerche di Elinor Ostrom sulle common-pool resources,
mutuandone il modello neo-istituzionale mirante a verificare il grado di tenuta delle istituzioni di
governo delle risorse collettive.
3.b) Stato e beni comuni in Liguria
Lo studio degli usi civici obbliga quindi, sulla scorta di quanto visto fin qui, a localizzare la
ricerca entro un contesto definito per trarre dall’esame delle fonti elementi utili per svolgere
considerazioni di ordine più generale sull’evoluzione degli istituti e le politiche di conservazione e
sfruttamento praticate. È quindi opportuno fare brevemente il punto su alcuni dati acquisiti dalla
storiografia a proposito delle istituzioni politiche e giuridiche della Liguria d’età moderna100.
Com’è noto, se comparata a Venezia, la Repubblica di Genova non ha goduto nei secoli di
quell’aura mitica sviluppatasi a partire dal tardo medioevo e che avrebbe influenzato
profondamente gli storici. Al contrario: studi recenti hanno chiarito che numerosi aspetti del
sistema politico genovese erano ignorati o poco compresi dagli stessi trattatisti coevi101. D’altra
parte, come notava Grendi, il mito, questo sì tutto locale, del genovese mercante/navigatore ha
contribuito in buona misura a proiettare gli interessi storici verso la dimensione internazionale del
patriziato e dei suoi affari, rimuovendo integralmente interi problemi storiografici102.
Nota ai limiti della proverbialità, l’ingovernabilità medievale e la presunta “arcaicità”
istituzionale di Genova hanno rappresentato per lungo tempo il pretesto per eludere il tema
dell’organizzazione territoriale103. Le tecniche finanziarie, le colonie commerciali mediterranee e le
fortune imprenditoriali delle maggiori famiglie erano i campi in cui il patriziato si era distinto, non
certo quello del governo di una regione agricola e, si può dire, “non all’altezza” del gruppo
dirigente della città. La sovrapposizione tra storia delle fortune finanziarie dei privati e storia
Una riflessione storiografica più ampia, riguardante anche questioni qui non affrontate, è in V. TIGRINO, Il dibattito
storico-politico sul Dominio della Repubblica di Genova in età moderna: feudi, ex-feudi, città e quasi-città, in M.
SCHNETTGER, C. TAVIANI (a cura di), Libertà e dominio. Il sistema politico genovese: le relazioni esterne e il controllo del
territorio, Roma, 2011, pp. 315-365.
101
Cfr. C. BITOSSI, L’immagine del sistema politico genovese nell’età moderna: scrittori e ambasciatori (1550-1730), in
Libertà e dominio, cit., pp. 193-224, G. ASSERETO, Viaggiatori francesi a Genova tra Seicento e Settecento: pregiudizi e
stereotipi, in Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Capellini, 70 (2000), pp. 3-12.
102
Cfr. E. GRENDI, Storia di una storia locale. L’esperienza ligure 1792-1992, Venezia, 1996, p. 22.
103
Una recente critica del pregiudizio sulla struttura politica del comune genovese in C. SHAW, Genova, in A. GAMBERINI,
I. LAZZARINI, Lo Stato del Rinascimento in Italia (1350-1520), Roma, 2014, pp. 201-220.
100
36
istituzionale arrivò al punto da indurre il Valsecchi, ripreso da Galasso, a definire Genova una
grande “società per azioni”104. Non dissimile il giudizio espresso da Heers, che sottolineò in toni
critici lo iato tra l’avanzato grado di professionalizzazione mercantile raggiunto dai cittadini del
capoluogo e l’arretratezza delle dinamiche feudali ben radicate nelle zone rurali105. Certi pregiudizi
o “precomprensioni” delle vicende genovesi, che oggi si stanno superando non senza fatiche,
hanno quindi radici lontane.
Le zone d’ombra sul governo del territorio paiono accomunare tanto la medievistica
quanto la storia moderna e di ciò sono testimoni alcuni recenti saggi che vorrebbero costituire una
storia regionale ad ampio respiro106. Per il periodo basso-medievale Giovanna Petti Balbi ha notato
come in definitiva una sintesi del processo di «comitatinanza» e di costruzione del dominio
compiuto dal Comune genovese tra XII e XIV secolo sia complicata per la frammentarietà degli
studi disponibili107. Una esiguità dovuta al prevalere di altri interessi (quelli di natura sociale ed
economica, cui si è fatto cenno) e di una tendenza diffusa ad esaurire la storia ligure con le vicende
del capoluogo e della sua classe dirigente, direzione su cui si muovono anche alcuni saggi
contenuti nei lavori citati108.
104
Cfr. F. VALSECCHI, L’Italia nel Seicento e nel Settecento, in Società e costume. Panorama di storia sociale e tecnologia,
6, Torino, 1986, pp. 651-660.
105
Cfr. J. HEERS, Genova nel Quattrocento, Milano, 1983. Critico sul punto R. LOPEZ, Quattrocento genovese, in Rivista
storica italiana, LXXV, 1963, pp. 709-727.
106
Senza risalire ai lavori più datati, per tastare l’indirizzo delle recenti tendenze storiografiche regionali si sono
considerati i seguenti lavori: D. PUNCUH (a cura di), Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, Genova, 2003;
Storia della cultura ligure, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s. XLIV/1-2 (2004) e XLV/1-2 (2005); G.
ASSERETO, M. DORIA (a cura di), Storia della Liguria, Roma-Bari, 2007, G. AIRALDI, Storia della Liguria, Genova-Milano,
2008-2010, in particolare voll. II e III. A tali volumi si rinvia pertanto anche per le più ampie indicazioni bibliografiche.
Non va però omesso che una delle più efficaci sintesi della storia regionale d’età moderna si deve a C. COSTANTINI, La
Repubblica di Genova nell’età moderna, in Storia d’Italia, a c. di G. Galasso, vol. IX, Torino, 1978.
107
Si utilizza il concetto di comitatinanza coniato da De Vergottini per indicare il processo di estensione dell’area di
influenza del Comune cittadino che tra XI e XIII secolo, sfruttando il proprio potere militare e le proprie risorse
economiche, soppianta il vescovo e si pone come interlocutore principale nei rapporti con castelli e borghi del
contado, sottomettendoli e specificando in appositi patti le garanzie di autonomia dei centri dominati, cfr. G. DE
VERGOTTINI, Origini e sviluppo storico della comitatinanza, in Studi senesi, serie II, 43 (1929), pp. 347-481, ora in G. ROSSI
(a cura di), Scritti di storia del diritto italiano, Milano, 1977, pp. 5-122.
108
Oltre al saggio di G. PETTI BALBI, Tra dogato e principato: il Tre e il Quattrocento, in Storia di Genova, 2003, cit., 233324, un rapido cenno alle vicende riguardanti le Riviere si trova in V. POLONIO, Dalla marginalità alla potenza sul mare:
un lento itinerario tra V e XIII secolo, in Storia della Liguria, 2007, cit., pp. 24-42, mentre il Quattrocento è
prevalentemente occupato dalle lotte faziose delle famiglie cappellazze (R. Musso, La tirannia dei cappellazzi. La
Liguria tra XIV e XVI secolo, ivi, pp. 43-60). Al medioevo sono dedicati due saggi di storia giuridica in materia di fonti
che in parte allargano il loro orizzonte all’intera regione, cfr. V PIERGIOVANNI, La cultura giuridica in Liguria nel
passaggio dall’alto al basso medioevo, e R. BRACCIA, Cultura giuridica e cultura della legge in Liguria tra medioevo ed
età moderna: la legislazione statutaria, in Storia della cultura ligure, cit., 44/1, rispettivamente pp. 11-18 e pp. 19-36.
In controtendenza, spicca per profondità di indagine e utilizzo di fonti di prima mano il lavoro di P. GUGLIELMOTTI,
Ricerche sull’organizzazione del territorio nella Liguria medievale, Firenze, 2005.
37
Se volgiamo lo sguardo all’età moderna, le lacune non sono minori anche se alcuni,
importanti studi di storia giuridico-politica hanno posto dei punti fermi imprescindibili. Sotto
l’espressione “età di Andrea Doria” Bitossi ha compreso il cinquantennio compreso tra la nascita
della Repubblica aristocratica, propiziata dal passaggio all’Impero di Carlo V d’Asburgo dello stesso
Doria e delle sue navi e formalizzata dall’approvazione delle reformationes, e l’ultima stagione
delle lotte tra le fazioni cittadine culminata nella guerra civile del 1575 e l’entrata in vigore delle
Leges novae nel marzo del ’76109. 1528 e 1576 costituiscono indubbiamente due momenti “forti”
della storia istituzionale genovese: la riforma degli organi di governo fa tutt’uno con la
conservazione dell’indipendenza, pur sotto l’ombrello protettivo degli Asburgo d’Austria, prima, e
di Spagna poi. E proprio le implicazioni politiche sono state il fulcro dell’analisi che Arturo Pacini ha
condotto a proposito delle riforme del ’28, scorgendo in esse la manifestazione più chiara della
capacità di adattamento di Genova al mutato contesto internazionale che andava definendosi
nell’ultimo scorcio delle guerre d’Italia, adattamento certo non indolore, come palesarono le
stesse tensioni di metà secolo sfociate nella congiura di Gian Luigi Fieschi110.
Con le leggi di riforma dell’assetto costituzionale redatte a Casale tra il 1575 e il 1576,
Genova si dota di un apparato di poteri pubblici destinato a rimanere invariato nei suoi tratti
fondamentali fino al 1797. Questa relativa stabilità ha incentivato una serie di studi volti a chiarire
le cause della rivolta e i termini del dibattito che portò alla stesura delle Leges novae. Senza
entrare nei dettagli, rimandati al prossimo capitolo, il 1576 ha assunto il rango di anno a quo tanto
per alcuni, significativi contributi di storia istituzionale, quanto per i principali lavori di Grendi e
Raggio citati in precedenza111. Il tema del governo del territorio è rimasto tuttavia secondario,
Cfr. A. PACINI, La repubblica di Genova nel secolo XVI, in Storia di Genova, 2003, cit., pp. 325-390; C. BITOSSI, L’antico
regime genovese, 1576-1797, ivi, pp. 391-508; C. BITOSSI, L’età di Andrea Doria, in Storia della Liguria, 2007, cit., pp. 6178.
110
Cfr. A. PACINI, I presupposti politici del secolo dei genovesi. La riforma del 1528, in Atti della Società Ligure di Storia
Patria, n.s., XXX/1, Genova 1990; Id., La Genova di Andrea Doria nell’Impero di Carlo V, Firenze, 1999. La tesi di Pacini
era stata in parte anticipata dal saggio di V. PIERGIOVANNI, Il sistema europeo e le istituzioni repubblicane di Genova nel
Quattrocento, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 13, (1983), pp. 3-46, che aveva già letto l’intreccio tra
ragioni della politica internazionale, dialettica tra le fazioni cittadine e sviluppo di una burocrazia adeguata, specie nel
settore finanziario con il Banco di San Giorgio, come elementi anticipatori di quella che sarebbe stata la politica
italiana nei due secoli successivi. Recentemente ha sostenuto la tesi della “sopravvivenza per adattamento” di Genova
come città-stato grazie alla riforma delle proprie magistrature di governo e all’alleanza asburgica T. SCOTT, The citystate in Europe 1000-1600. Hinterland, territory, region, Oxford, 2012, pp. 206-207.
111
Tra tanti vedi almeno V. PIERGIOVANNI, Il Senato della Repubblica di Genova nella “riforma” di Andrea Doria, in
«Annali della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova», IV (1965), pp. 230-275, ora in V. PIERGIOVANNI,
Norme, scienza e pratica giuridica tra Genova e l’Occidente Medievale e Moderno, in Atti della società ligure di storia
patria, n.s. LII/1 (2012), pp. 13-56; R. SAVELLI, Potere e giustizia: documenti per la storia della Rota criminale a Genova
alla fine del ‘500, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 5 (1975), pp. 29-172; ID., La repubblica oligarchica:
legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano, 1981; G. ASSERETO, Dall’amministrazione patrizia
all’amministrazione moderna: Genova, in L’amministrazione nella storia moderna, Milano, 1985, pp. 95-159, ora in ID.,
109
38
salvo le eccezioni rappresentate dai lavori di Assereto e Felloni sull’amministrazione del
Dominio112. Gli studi di Bitossi puntano invece i riflettori sul personale politico inviato negli uffici
periferici e molto meno su questioni più “materiali”113. Sulla stesa falsariga si collocano le opere di
sintesi più recenti, concentrate a contestualizzare l’instaurazione della Repubblica senza però
allargare il quadro al dominio regionale, se non per brevi cenni ricapitolativi114.
Ma non è tutto. Se abbastanza si è scritto sulle magistrature governative e giudiziarie di
vertice, risultano invece abbastanza superficiali anche le conoscenze in nostro possesso a
proposito dei due collegi che si associarono al governo della Repubblica nella cura dei rapporti con
le comunità del Dominio: Giunta dei Confini e Magistrato delle Comunità115. La scarsissima
bibliografia disponibile la dice lunga sulla minore dignità storiografica della “periferia” ligure.
Peraltro può sembrare un paradosso il fatto che proprio a quei fondi di archivio abbia attinto
Raggio nei suoi lavori sull’usurpazione delle comunaglie in Liguria e sui bandi campestri, relegando
però sullo sfondo l’intervento degli organi centrali che pure hanno prodotto quei documenti116.
Può essere, come ha scritto Savelli, che il disinteresse per la disciplina del territorio sia da
ricondurre al fatto che le stesse leggi del 1576 non avessero l’ambizione di ridisegnare
completamente le istituzioni genovesi – e quini anche i rapporti tra Genova e le comunità a vario
titolo soggette – ma si ponessero più pragmaticamente l’obiettivo di sciogliere i nodi politici più
spinosi emersi in quella specifica congiuntura, e che quindi su di essi si sia arrestata l’attenzione117.
Di certo Genova nel corso della sua legò a sé le diverse realtà politiche territoriali delle Riviere
utilizzando strumenti diversi quali convenzioni, patti, investiture feudali. Questa politica pattizia
tra “diseguali” non seguì chiaramente un progetto unitario, il che rese nel Settecento assai arduo
mettere in campo quelle riforme amministrative su cui pure si dibatté ampiamente, come ha
La metamorfosi della Repubblica. Saggi di storia genovese tra il XVI e il XIX secolo, Savona, 1999, pp.9-76; R. FERRANTE,
La difesa della legalità. I sindacatori della Repubblica di Genova, Torino, 1995.
112
Cfr. G. FELLONI, Le circoscrizioni territoriali civili ed ecclesiastiche nella Repubblica di Genova, in Atti della società
ligure di Storia patria, n.s. XXXVIII/2 (1998), pp. 897-936.
113
Cfr. C. BITOSSI, Il governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova, 1990.
114
In particolare C. BITOSSI, L’antico regime genovese, 1576-1797, in Storia di Genova, 2003, cit., pp. 391-509 con
ampia bibliografia; ID., La Repubblica di Genova: politica e istituzioni, in Storia della Liguria, 2007, pp. 79-97; di portata
veramente regionale il contributo di Felloni che esamina il sistema fiscale genovese nel suo complesso, ivi compresa
l’amministrazione finanziaria locale, G. FELLONI, Le attività finanziarie, in Storia della Liguria, 2007, cit., pp. 132-152.
115
Oltre ad Assereto, vedi G. BENVENUTO, Una magistratura genovese, finanziaria e di controllo: il Magistrato delle
Comunità, in La Berio, 20 (1980), n. 3, p. 18- 42. Un quadro generale e datato delle varie magistrature, privo di
particolari ambizioni, si deve a G. FORCHERI, Doge, Governatori, Procuratori, Consigli e Magistrati della Repubblica di
Genova, Genova, 1968.
116
Cfr. O. RAGGIO, Forme e pratiche di appropriazione delle risorse. Casi di usurpazione delle comunaglie in Liguria, in
Quaderni storici, 81 (1992), pp. 135-169; ID., Norme e pratiche. Gli statuti campestri come fonti per una storia locale, in
Quaderni storici, 88 (1995), pp. 155-194.
117
Cfr. R. SAVELLI, La Repubblica oligarchica, cit., pp. 212-213.
39
mostrato Bitossi118. La necessità di consultare una massa di fonti diverse (convenzioni, statuti, atti
prodotti localmente) e non sempre reperibili o accessibili (specie se conservate presso archivi
locali) ha in sostanza lasciato pressoché privi di accoglimento gli inviti formulati da Piergiovanni e
da Savelli a studiare congiuntamente statuti e convenzioni per ricostruire l’evoluzione del rapporto
tra Genova e comunità locali e archiviare così lo stereotipo di uno Stato “senza territorio”119.
Ci si può chiedere a questo punto in quale misura proprio la lezione di Grendi e Raggio
abbia indirizzato gli studi degli ultimi decenni a leggere “dal centro e dalla periferia” la storia di
singole comunità e, segnatamente, ad occuparsi dei beni comuni. Ai due studiosi non sfuggì infatti
il ruolo svolto dalle terre collettive all’interno delle dinamiche politico-economiche delle comunità
analizzate. Il patrimonio storiografico da cui prese le mosse Grendi, peraltro, era abbastanza
povero di studi locali diversi dalla memorialistica di vago sapore campanilista: il campo attendeva
quindi di essere arato, in molti casi per la prima volta120.
A conti fatti, limitatamente ai temi che qui ci interessano, possiamo identificare due
tendenze prevalenti, una che possiamo definire di matrice politico-istituzionale e una che ha
intrecciato il metodo della geografia storica con la scelta di analisi dell’operato delle istituzioni su
scala eminentemente “locale”.
Il primo filone è ben rappresentato da alcuni lavori di Assereto, Calcagno e Braccia121. Da
essi emergono con sufficiente chiarezza sia gli strumenti (militari, giuridici, fiscali) messi in campo
dalla Dominante per controllare i centri soggetti sia le tensioni tutte interne alle comunità per il
controllo delle risorse economiche o il riparto degli oneri imposti dalla Repubblica, tensioni che
trovavano una manifestazione nei conflitti giurisdizionali e nella produzione normativa locale.
Cfr. C. BITOSSI, «La Repubblica è vecchia». Patriziato e governo a Genova nel Settecento, Roma, 1995. L’espressione
“patti tra diseguali” è di Ascheri, che ha precisato come la natura anti-federale di questo assetto, in quanto privo di
una convergenza politica di fondo tra le parti, fu alla base delle perduranti tensioni tra Dominante e dominio
registrabili un po’ ovunque negli Stati italiani lungo tutta l’età moderna, cfr. M. ASCHERI, Le città-stato, Bologna, 2006,
pp. 153-154.
119
Cfr. V. PIERGIOVANNI, I rapporti giuridici tra Genova e il Dominio, in Atti della Società ligure di storia patria, n.s.
XXIV/2 (1984), pp. 45-58; R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, amministrare la giustizia, organizzare il territorio, in R. SAVELLI
(a cura di), Repertorio degli statuti della Liguria (secoli XII-XVIII), Genova, 2003, pp. 84-87 e pp. 172-174, secondo il
quale, dalla campionatura effettuata durante la catalogazione, si ricava una linea di tendenziale riduzione degli spazi di
autonomia quanto meno sotto il profilo della legislazione.
120
Cfr. E. GRENDI, Storia di una storia locale, cit., pp. 96-103.
121
Cfr. R. BRACCIA, Diritto della città. Diritto del contado. Autonomie politiche e autonomie normative di un distretto
cittadino, Milano, 2004; G. ASSERETO, La città fedelissima. Savona e il governo genovese tra XVI e XVIII secolo, Savona,
2007; P. CALCAGNO, «Nel bel mezzo del Dominio». La comunità di Celle Ligure nel Sei-Settecento, Ventimiglia, 2007,
anche se i riferimenti giuridico-istituzionali sono ridotti ai minimi termini; ID., «La puerta a la mar». Il Marchesato del
Finale nel sistema imperiale spagnolo (1571-1713), Roma, 2011, contributo, questo, che allarga di molto la
prospettiva, trattando prevalentemente delle vicende internazionali del Marchesato finalese tra dominio spagnolo e la
cautela di Genova, che temette prima la realizzazione di un porto concorrente e poi che il feudo finisse nelle mani del
Duca di Savoia.
118
40
Tuttavia risultano sporadici i riferimenti alle ricadute sulle forme di amministrazione dei beni ad
uso collettivo conseguenti al mutare dei rapporti giuridici tra comunità studiate e Genova122.
Il secondo filone prende le mosse da alcune prospettive suggerite dagli studi di storia rurale
e di geografia storica, i cui alfieri liguri sono indubbiamente Quaini e Moreno123. Il lavoro compiuto
ha aperto prospettive di analisi importanti su oggetti generalmente negletti dalla storiografia
ligure, come talune tecniche di lavoro agro-forestali, l’insediamento della piccola proprietà
all’interno di grandi aree boschive e la realizzazione della vasta campagna cartografica di metà
Settecento. L’archeologia di sito e la storia della cartografia hanno quindi fornito alcuni dati
importanti per lo studio delle risorse collettive, ma senza entrare nello specifico circa le ricadute
istituzionali, e non meramente agro-economiche, del loro sfruttamento.
In tempi più recenti si è affermato l’indirizzo microstorico di produzione delle località,
esemplificato dagli studi di Angelo Torre, di cui si è parlato in precedenza. Per l’area ligure hanno
sperimentato questo approccio lo stesso Torre e altri, in vario modo aderenti alla sua
impostazione. Il rilievo dato all’identità storica di ciascun luogo e alla contestualizzazione del
medesimo entro reti di relazioni sociali – la cui estensione presenta geometrie variabili a seconda
dell’oggetto studiato – ha costituito un’occasione propizia per proficui scambi tra scienze diverse
che, mantenendo intatte le proprie peculiarità circa linguaggi e lettura delle fonti, sembrano aver
trovato un laboratorio comune su cui confrontarsi124.
A dimostrazione che la storia del diritto, tramite i beni comuni, possa ben inserirsi anche in
questo dibattito tra storici, oltre a quello tra giuristi positivi, si possono citare alcuni lavori di
È il caso dell’ultima parte della monografia di Braccia, in cui si prende in considerazione il fenomeno dei bandi
campestri emanati tra XVI e XVII secolo dalle comunità del contado ingauno, il cui contenuto disciplina generalmente
tre materie: danni dati, costituzione e limiti degli usi civici su beni privati e regole sulle proprietà collettive, cfr. R.
BRACCIA, Diritto della città, cit., pp. 203-217. Assereto si sofferma invece sul vastissimo bosco di Savona, uno dei
principali “polmoni verdi” della regione, rifacendosi perlopiù a contributi risalenti, G. ASSERETO, La città fedelissima,
cit., pp. 80-82.
123
Vedi almeno: M. QUAINI, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria. Note di geografia storica, in Atti della società
ligure di storia patria, n.s. XII/2 (1972); D. MORENO, La colonizzazione dei “Boschi d’Ovada” nei secoli XVI-XVII, in
Quaderni storici, 24 (1973), pp. 977-1016; ID., Querce come olivi. Sulla rovericoltura in Liguria tra XVIII e XIX secolo, in
Quaderni storici, 49 (1982), pp. 106-136; M. QUAINI (a cura di), La conoscenza del territorio ligure fra medio evo ed età
moderna, Genova, 1981; AA.VV., Territorio e società nella Liguria moderna. Studi di storia del territorio, Firenze, 1983;
D. MORENO., Dal documento al terreno. Storia e archeologia dei sistemi agro-silvo-pastorali, Bologna, 1990; M. P. ROTA,
Una fonte per la geografia storica della Liguria: il manoscritto 218 dell’Archivio di Stato di Genova, Genova, 1991; G.M
UGOLINI, Utilizzazione del bosco e organizzazione territoriale nella Liguria tra Sette e Ottocento: le opere di G.M.
Piccone e di A. Bianchi, Genova, 1995.
124
Paradigmatici a questo proposito sono M. CASSIOLI, Ai confini occidentali della Liguria. Castel Vittorio dal medioevo
alla Resistenza, Imperia, 2006; V. TIGRINO, Sudditi e confederati. Sanremo, Genova e una storia particolare del
Settecento europeo, Alessandria, 2009; L. GIANA, Topografie dei diritti. Istituzioni e territorio nella Repubblica di
Genova, Alessandria, 2011; A. M. STAGNO, V. TIGRINO, Beni comuni, proprietà privata e istituzioni: un caso di studio
dell’Appennino ligure (XVIII-XX secolo), in Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studio sulla proprietà collettiva, 1 (2012),
pp. 261-302.
122
41
Beatrice Palmero e di Roberta Braccia125. L’accostamento è giustificato dalla scelta, compiuta da
entrambe le studiose, di un’area territoriale ben precisa come campo di analisi e la consapevolezza
che le asimmetrie nei rapporti di forza tra borgo e ville o tra gruppi interni ad un singolo centro
siano rilevabili da vari indizi, quali i rapporti di credito, la distribuzione della proprietà fondiaria e
l’evoluzione delle forme di autonomia delle ville, che sempre di più durante l’età moderna
reclamarono spazi di intervento normativo.
Il territorio inteso come luogo di convergenza di giurisdizioni, poteri, interessi economici
ridefinisce gli stessi caratteri della storia locale e appare quindi idoneo a fornire una visuale
innovativa per provare a sciogliere alcuni dei nodi cui si è fatto cenno, utilizzando quale oggetto di
verifica i beni comuni. Senza riprodurre vecchi schemi storiografici, l’interesse per le forme di
gestione delle risorse può indubbiamente rivelare molto su come i diritti legati al territorio siano
stati plasmati grazie al concorso di attori diversi.
Gli studi compiuti da Beatrice Palmero sugli usi collettivi nell’estremo ponente sono numerosi, qui basti richiamare
B. PALMERO, Comunità, creditori e gestione del territorio. Il caso di Briga nel XVII secolo, in Quaderni storici, 81 (1992),
pp. 739-757; EAD., Territori comunali: una contesa tra Ventimiglia e Dolceacqua (XIII-XVIII secc.), in Intemelion, 2
(1996), pp. 41-84; EAD., Una fonte contemporanea per la storia del territorio. Il "Commissariato agli Usi Civici" e le
pratiche d’uso, in Quaderni storici, 125 (2007), pp. 549-590; EAD., Boschi e confini nelle Alpi marittime in età moderna.
Gli usi di confine e i limiti del bosco di Gerbonte tra le alpi delle comunità (1666-1670), in M. AMBROSOLI, F. BIANCO (a
cura di), Comunità e questioni di confini in Italia settentrionale (XVI-XIX sec.), Milano, 2007, pp. 25-42. Ad integrazione
di quanto già riportato nel libro su Albenga, Braccia espose i risultati di un confronto mirato sui beni comuni tra gli
statuti di diverse località del ponente, situate in un’area compresa tra Finale Ligure e Albenga, non mancando di
sottolineare l’importanza dei conflitti giurisdizionali e degli interventi di riforma dei bandi campestri per la disciplina
dei diritti collettivi, cfr. R. BRACCIA, Le proprietà collettive negli statuti rurali del Ponente ligure: alcuni rilievi e riflessioni,
in M. ORTOLANI, O. VERNIER, M. BOTTIN (a cura di), Propriété individuelle et collective dans les Etats de Savoie, Nizza,
2012, pp. 47-62. Sulla validità dello studio dei beni comuni allo scopo di ricostruire le dinamiche dello spazio politico
territoriale cfr. R. BORDONE, P. GUGLIELMOTTI, S. LOMBARDINI, A. TORRE, Lo spazio politico locale in età medievale, moderna
e contemporanea. Ricerche italiane e riferimenti europei, Alessandria, 2007, pp. 28-33.
125
42
CAPITOLO II
Le istituzioni di gestione dei beni comuni: il “metodo Ostrom” applicato
alla ricerca storica
1.a) L’approccio neo-istituzionale allo studio dei beni comuni
Si è accennato in precedenza all’interesse dei medievisti per le relazioni tra beni comuni e
scontri politici interni alle società comunali tra XII e XIII secolo. Una trattazione simile riferita
all’età moderna si ebbe nel 1992 con la pubblicazione di un numero monografico dei «Quaderni
storici» dedicato alle risorse collettive e curato da Diego Moreno e Osvaldo Raggio. Partendo dalle
considerazioni svolte da Marc Bloch sul regime agrario francese – segnato da un crescente sfavore
verso la sovrapposizione di diritti reali sulla terra, di cui il pascolo “vano” sui fondi privati era la
principale manifestazione – il volume affrontò il tema proponendo un innovativo approccio di
taglio sì “microstorico”, ma capace di coniugare ricerca storica, archeologia, ecologia storica,
botanica. Il bersaglio polemico era la tesi sostenuta da Garret Hardin sulla inevitabile distruzione
delle risorse naturali sottoposte a forme comuni di gestione, ma l’opzione di scala limitò
profondamente la contestualizzazione delle pratiche studiate entro la cornice istituzionale di
riferimento126.
In seguito, nonostante la qualità dei saggi e l’indubbia fecondità delle prospettive indicate,
l’interesse per le risorse collettive si è parcellizzato, almeno fino al 2009, in una quantità di studi
non sempre accostabili per il metodo impiegato e fini di ricerca e aventi come terreno di indagine
singole comunità o regioni127. Cito il 2009 perché in quell’anno è stato assegnato il premio Nobel
per l’economia e le scienze sociali ad Elinor Ostrom per i suoi studi sugli adattamenti istituzionali e
le dinamiche delle azioni collettive riguardanti le common pool resources, riassunti nel libro
L’influenza di fattori non riconducibili strettamente al contesto locale è chiaramente esclusa, come fenomeno
dotato di un qualche rilievo, dalla stessa premessa dei curatori: «Gli autori di questo fascicolo descrivono realtà
definite da una gerarchia mobile di risorse; mostrano il ruolo di una pluralità di attori, spesso antagonisti (notabili
locali, creditori, imprenditori, famiglie e parentele, gruppi stratificati, associazioni), e di configurazioni sociali mutevoli,
in tempi e contesti diversi», cfr. D. MORENO, O. RAGGIO, Premessa, in Quaderni storici, 81 (1992), p. 614. I modesti
successi di quella prospettiva, seppur ampiamente mitigati da un interesse storiografico nel frattempo irrobustitosi,
sono stati oggetto di riflessione a 25 anni di distanza in un altro numero della stessa rivista, cfr. V. TIGRINO, Premessa,
in Quaderni storici, 155 (2017), pp. 297-316.
127
Una rassegna storiografica sulle varie tendenze regionali è stata recentemente proposta da D. CRISTOFERI, Da usi
civici a beni comuni: gli studi sulla proprietà collettiva nella medievistica e modernistica italiana e le principali tendenze
storiografiche internazionali, in Studi storici, 57 (2016), pp. 577-604, in particolare pp. 589-599.
126
43
Governing the commons del 1990128. La studiosa arrivò a quella pubblicazione dopo più di un
ventennio di ricerche sul campo, condotte non solo per sottoporre a verifica la tesi di Hardin
formulata nel 1968 sulla rivista Science, ma anche per dimostrare che né il controllo statale né la
proprietà privata sono immuni dal rischio di fallire l’obiettivo di conservare la risorsa129. Alla base
delle ricerche ostromiane vi è lo studio di Mancur Olson, che negli anni ’60 indagò il
funzionamento dei gruppi di pressione. Olson si concentrò soprattutto sull’analisi del
comportamento dei soggetti propensi a sfruttare i benefici dell’azione del gruppo senza
contribuire ai costi o rispettare le regole interne (i c.d. free rider) e sulle forme di coercizione
necessarie per assicurare l’efficacia delle azioni poste in essere dai gruppi più numerosi. Per Olson
la naturale propensione dell’individuo a perseguire il suo interesse egoistico deve essere bilanciata
dal ricorso ad incentivi selettivi, capaci di discriminare chi si sottrae alla cooperazione, rendendo
così più conveniente unirsi all’azione collettiva130.
È da questo retroterra teorico che Ostrom plasma la nozione di “istituzione” consistente
nell’insieme di: «regole operative seguite per determinare chi è autorizzato a prendere decisioni in
alcuni campi, quali azioni sono consentite o soggette a restrizioni, quali regole di aggregazione
verranno adottate, quali procedure vanno seguite, quali informazioni devono, o non devono,
essere fornite e quali compensi devono essere assegnati agli individui a seconda delle loro
azioni»131. In presenza di talune condizioni, quando gli utenti possono scambiarsi informazioni e
Tradotto in Italia sedici anni dopo: E. OSTROM, Governare i beni collettivi, Venezia, 2006.
G. HARDIN, The tragedy of commons, in Science, n. 162 (13/12/1968), pp. 1243-1248. Secondo Hardin, l’accesso
libero alle risorse naturali comporta la loro integrale distruzione a causa del comportamento dei free-rider, vale a dire
coloro che sfruttano eccessivamente la risorsa per ridurre l’utilità che gli altri fruitori possono ricavarne. Il biologo si
servì come esempio di una terra dedicata al pascolo comune, risorsa che Ostrom avrebbe invece dimostrato di essere
al contrario agevolmente conservabile anche senza ricorrere ad un controllo centralizzato, pubblico o privato. La tesi
di Hardin sviluppava per certi versi i concetti già espressi dall’economista William Forster Lloyd negli anni 30
dell’Ottocento. Recentemente è stata posta in rilievo l’affinità della tesi di Hardin con l’indirizzo neo-malthusiano
assunto dal movimento ambientalista statunitense negli anni Sessanta, secondo cui la crescita della popolazione
globale avrebbe irrimediabilmente danneggiato l’ecosistema via aumento dell’inquinamento ed eccessiva
concentrazione abitativa nelle grandi aree urbane. La sfiducia verso le teorie dell’azione collettiva e il successo della
tragedy e del dilemma del prigioniero trovarono terreno fertile nel clima culturale e politico degli anni della Guerra
Fredda, condizionando, oltre alla didattica accademica, anche alcune iniziative di cooperazione per lo sviluppo
promosse dagli USA in Paesi del Terzo mondo, come espone F. LOCHER, Third World pastures: the historical roots of the
commons paradigm (1965-1990), in «Quaderni storici», n. 151, (2016), pp. 303-333. Cenni anche in D. WALL, The
commons in history. Culture, conflict and ecology, Cambridge, 2014, pp. 10-42.
130
Meno dannosi nelle piccole aggregazioni, i comportamenti di free riding diventano generalmente più numerosi al
crescere del gruppo, laddove si allentano i legami personali di conoscenza (e dunque di controllo reciproco) tra i
membri. La strategia per evitare condotte opportunistiche deve quindi tenere conto in primo luogo della dimensione
del gruppo in oggetto e in un secondo momento elaborare adeguati incentivi selettivi, distinti dal conseguimento
dell’interesse comune e forniti individualmente ai consociati, sotto forma di sanzioni economiche, giuridiche, sociali,
premi etc., cfr. M. OLSON, La logica dell’azione collettiva. I beni pubblici e la teoria dei gruppi, Milano, 2013 (ed. orig.
Harvard, 1965).
131
Cfr. E. OSTROM, Governare i beni collettivi, cit., p. 80.
128
129
44
convenire su modi e livelli di appropriazione del bene e sulle corrispondenti sanzioni per le
infrazioni, la “tenuta” dell’istituzione così plasmata è generalmente ottimale.
Un dato su cui la stessa Ostrom ha avuto modo di tornare ancora nel 2010 riguarda la complessità
dei sistemi studiati per la gestione dei beni comuni. Essendo i singoli elementi del sistema
interrelati tra loro, non possono essere studiati omettendo i legami con le altre parti, né
presupponendo che le dinamiche evolutive di tali istituzioni non siano influenzate dall’ambiente
locale, dalla cultura e dal rapporto costi-benefici132. Sempre sulla complessità delle informazioni di
cui tenere conto per stabilire le regole di appropriazione, oltre che sulle relative asimmetrie
informative e dei costi necessari per colmarle, si basa la dimostrazione che situazioni
regolamentari collettive siano più vantaggiose di situazioni etero-normate. Il rilievo dato dalla
Ostrom ai caratteri di pubblicità e di effettività delle regole appropriative, caratteri che le
distinguono nettamente dalle semplici pratiche, consentono quindi di adattare il suo modello
anche allo studio storico-giuridico.
Nello stesso anno un convegno tenutosi a Nonantola – luogo non casuale – si proponeva di
raccogliere l’eredità di quella stagione di riflessioni a cavallo tra anni ’80 e ’90, introducendo però
un innovativo e più omogeneo approccio allo studio dei beni collettivi proprio sulla scorta della
lezione ostromiana, di taglio neo-istituzionale. L’obiettivo dichiarato consisteva nel superare i
passati dibattiti di cui si è parlato, concentrandosi sulle forme di gestione dei beni praticate
nell’Italia settentrionale in rapporto ai principali cambiamenti economici, che produssero un più
attento uso del suolo e la valorizzazione degli introiti generati.133 Gli studi pubblicati, verificando
l’adeguamento delle istituzioni preposte alla conservazione dei commons, hanno tenuto conto per
un verso delle peculiarità delle comunità studiate – che la microstoria ci ha dimostrato essere
corpi composti da gruppi portatori di interessi talvolta contrapposti – e dall’altro dello specifico
sistema giuridico del “lungo medioevo”, che accanto ad una massa di diritti locali di varia origine
conosceva una fonte di chiusura del sistema nel diritto comune.
In generale, va detto che la storiografia italiana è giunta con un po’ di ritardo a trattare
questi temi, rispetto ad altre esperienze europee. Tra queste spicca soprattutto il nord Europa ed
è obbligatorio citare almeno il pluriennale impegno di Tine de Moor e del gruppo di ricercatori da
lei coordinato in seno all’Università di Utrecht (denominato Institutions for collective actions) e le
Cfr. E. OSTROM, A long polycentric journey, in Annual Review of Political science, n. 13 (2010), pp. 1-23. Riflettono su
questo aspetto della sua ricerca E. BERGE, F. VAN LAERHOVEN, Governing the commons for two decades: a complex story,
in International Journal of Commons, 5 (2011), pp. 160-187.
133
Più diffusamente vedi G. ALFANI, R. RAO, Introduzione, in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 7-14.
132
45
pubblicazioni dell’International Journal of the Commons, curato dall’associazione IASC promossa
dalla stessa Ostrom134. Secondo de Moor l’emersione di istituzioni di corporate collective action è
un fenomeno che accomuna la nascita delle gilde e delle corporazioni di mestiere alle istituzioni
preposte alla gestione di risorse naturali. A tale risultato si sarebbe pervenuti per far fronte alla
crescita demografica e allo sviluppo del mercato e le azioni collettive così organizzate, oltre a
produrre una distribuzione sociale del rischio, comportavano minori costi di transazione per i
singoli agenti e una maggiore uguaglianza nell’accesso alla risorsa. I beni comuni quindi sono da
rapportare a specifici “corpi” e non a intere comunità e costituiscono con le corporazioni una delle
modalità di azione collettiva diffuse nel medioevo. È una proposta di utilizzo del metodo
istituzionale che non è stata esente da critiche ma risulta indubbiamente una delle più organiche
finora avanzate135.
Per quanto riguarda più dappresso la storiografia giuridica, posta la posizione di tutto
riguardo che le diverse risorse collettive occupavano nelle economie locali, l’analisi delle forme di
gestione dei beni comuni ha dimostrato la sua idoneità a porre in relazione la proprietà collettiva
con vicende istituzionali, ambientali ed economiche grazie agli studi di Stefano Barbacetto e
Alessandro Dani136. L’evoluzione dei diritti d’uso e delle forme di gestione dei beni, coniugando
storia giuridica e diversi aspetti di storia sociale, sono state studiate su una prospettiva di lungo
periodo, ponendo particolare cura nel sottolineare tanto le specificità giuridiche degli istituti e il
loro modificarsi a seconda dei tempi e dei luoghi quanto il ruolo che ebbe la dottrina di diritto
comune nel tradurre in linguaggio giuridico quelle pratiche sotto forma di pareri, trattati o
decisioni giudiziarie.
Sia l’Institutions for collective actions (www.collective-action.info) sia l’International Association for the Study of the
Commons (www.iasc-commons.org) conducono un’attività di ricerca scientifica spiccatamente interdisciplinare. Di de
Moore vedi almeno: M. DE MOOR, L. SHAW-TAYLOR, P. WARDE, The management of common land in north west Europe, c.
1500-1850, Turnhout, 2002; M. De Moor, The dilemma of the commoners. Understanding the use of common-pool
resources in long-term perspective, Cambridge, 2015. In Italia va riconosciuto il merito di un analogo impegno non
soltanto sul fronte della ricerca storica, ma anche su quello del dialogo con giuristi positivi e amministratori pubblici al
Centro Studi sui demani civici dell’Università di Trento, diretto per anni da Pietro Nervi. Il Centro cura anche la
pubblicazione dell’“Archivio Scialoja Bolla-Annali di studio sulla proprietà collettiva” (www.usicivici.unitn.it).
135
Perplessità sono state espresse circa le condizioni di esistenza per eventuali azioni collettive (un atteggiamento
relativamente tollerante da parte dell’autorità, la sussistenza di relazioni sociali non strettamente limitate ai rapporti
di parentela e il riconoscimento giuridico degli accordi) e il nesso causale tra queste e lo sviluppo di forme di gestione
comune delle risorse collettive, dal momento che non si può affermare con certezza che società informate da valori e
caratteristiche differenti da quelle studiate nei Paesi Bassi non siano ugualmente riuscite a predisporre istituzioni
efficaci, cfr. D.R. CURTIS, Tine de Moor’s “Silent revolution”. Reconsidering her theoretical framework for explaining the
emergence of institutions for the collective management of resources, in International Journal of Commons, 7 (2013),
pp. 209-229.
136
Sono i già citati A. DANI, Usi civici, cit., e S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit.. Di Dani vedi
anche Le risorse naturali come beni comuni, Arcidosso, 2013.
134
46
La scelta di adottare il modello ostromiano – con gli opportuni adattamenti –permette così di
allargare il campo d’indagine. Focalizzarsi sullo studio delle risorse naturali collettive introduce
infatti oggetti, quali i fiumi, i laghi, i bacini di pesca, precedentemente ignorati dagli studi classici
sulle proprietà collettive. Prima di entrare nello studio dei casi specifici, è opportuno qualificare le
risorse collettive alla luce della classificazione delle res operata dal diritto comune e modificata
dalla prassi. Nei prossimi due paragrafi si farà quindi il punto su boschi, pascoli, prati, acque e
fiumi da un punto di vista teorico. Infine si farà una panoramica sintetica delle fonti e delle
magistrature genovesi coinvolte nella gestione dei beni comuni nella Liguria moderna.
2.a) Le risorse agro-silvo-pastorali dal Corpus iuris alla campagna ligure
La suddivisione dei beni in diverse categorie che i giuristi medievali ereditarono dal Corpus
iuris era il risultato di un processo evolutivo durato diversi secoli, che aveva portato ad
un’articolazione via via più dettagliata, soprattutto per quanto concerne le cose in vario modo
riferibili al “pubblico”. Riprendendo brevemente la classificazione delle res e considerando solo le
res humani iuris, ricordiamo che le Istituzioni giustinianee (I. 2.1 pr.) contrapponevano le res
privatae a ben quattro specie di cose diverse: le res publicae, le res communes omnium, le res
universitatis e le res nullius. Dirimente è il significato che il termine publicus assunse durante i
secoli.
In età repubblicana entro la dimensione “pubblica” non trovavano spazio categorie quali
“Stato” o “persona giuridica”, ma il populus Romanus nella sua concreta realtà di comunità
organizzata e centro di imputazione di diritti e interessi. In tale contesto maturarono comunque
due regimi differenziati di res publicae: le res in patrimonio (o in pecunia) populi e le res in publico
usu. Si distinguevano così le cose patrimoniali, destinate a sostenere finanziariamente gli oneri
dello Stato e delle città e quindi oggetto di una specifica attività negoziale non dissimile da quella
privata, dalle cose destinate a soddisfare determinati bisogni e rimesse all’uso pubblico dei cives,
pertanto non disponibili né appropriabili. Recentemente Andrea Di Porto ha riproposto
all’attenzione degli studiosi la peculiarità del regime delle res in publico usu, mettendo in evidenza
in particolare come dall’analisi degli interdetti volti a tutelarle emergano i poteri e le
responsabilità riservate al cittadino in ordine alla difesa delle stesse137.
Cfr. A. DI PORTO, Res in publico usu e beni comuni: il nodo della tutela, Torino, 2013, pp. 24-35. Vedi anche A. DANI, Il
concetto giuridico di “beni comuni” tra passato e presente, in Historia et jus, 6 (2014), paper 7, in particolare pp. 3-9,
137
47
A ciò si aggiunga il fatto che in un primo tempo anche i beni delle colonie e dei municipia erano
considerati pubblici. Solo successivamente la locuzione publicus fu riservata esclusivamente ai beni
del populus Romanus, mentre i beni delle comunità territoriali furono compresi nella nuova
categoria delle res universitatis. Il disordine terminologico è tuttavia testimoniato da molti passi
del Corpus dove l’appellativo publicae viene ancora riferito ai beni delle città. In ogni caso, anche
per questi vigeva un duplice regime normativo e di utilizzo, a seconda che si trattasse di res in
patrimonio o in publico usu.138
Almeno fino al Principato quindi il panorama dei “beni pubblici” fu contrassegnato da una
certa complessità di contenuti, abbastanza lontano dalle tinte monocromatiche con cui si è soliti
tratteggiare la proprietà romanistica. Ma appunto a partire dall’età dei Severi le res in patrimonio
populi si trasformarono in res in patrimonio fisci, cioè del fisco statale, mentre le cose veramente
publicae rimasero quelle in usu populi139.
Secondo parte della dottrina romanistica, i compilatori giustinianei avrebbero mantenuto
tale impostazione della disciplina delle res publicae, considerandole appartenenti alle persone
giuridiche pubbliche e non alla collettività di riferimento mentre le res in publico usu
corrisponderebbero in sostanza ai nostri beni demaniali140. Una simile classificazione avrebbe
incontrato solo maggiori incertezze a livello delle res universitatis, ma dal punto di vista del
patrimonio statale essa sarebbe stata sufficientemente solida. È però ancora condivisibile
l’opinione di Grosso, secondo il quale tra le due categorie di beni pubblici in realtà non ci sarebbe
mai stata una separazione assoluta. Le ibridazioni e le sfumature, in questa materia all’ordine del
giorno, sono da attribuirsi anche al rapporto tra Stato e res in publico usu, oscillante tra
atteggiamenti più fortemente proprietari (in senso privatistico) e un ruolo di vigilanza sulla
destinazione pubblica del bene che poneva in secondo piano il profilo dell’appartenenza141.
disponibile al link http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/dani_6.pdf (consultato il 30 dicembre
2018).
138
G. GROSSO, Le cose: corso di diritto romano, Torino, 1941, pp. 181-193. Il termine «publicae» utilizzato per i beni
municipali era bollato di abusività dagli stessi giuristi, che però non poterono fare altro che prendere atto dell’uso
corrente. Marciano inoltre parlava anche di communia civitatum in D. 1.8.6.1.
139
Il cambio di denominazione ha forse un valore ulteriore rispetto alla pura evoluzione semantica, perché può
intendersi come un riflesso dell’avvenuto distacco dello Stato come ente dalla comunità di uomini governata. Su
questo punto va ricordato che il Vassalli sostenne che, dopo l’introduzione del concetto di res fiscales, il termine
publicus avrebbe indicato soltanto il contenuto oggettivo delle cose, conferito loro dallo scopo e dal regime di utilizzo,
e non dal soggetto titolare. Grosso non condivideva questa impostazione, notando che la limitazione assoluta della
qualifica di publicae alle sole res in usu publico non si riscontrava nel diritto giustinianeo, G. GROSSO, Le cose, cit., pp.
118-129.
140
Così G. SCHERILLO, Lezioni di diritto romano. Le cose, parte I, Milano, 1945, p. 212.
141
G. GROSSO, Le cose, cit., pp. 118-129.
48
Per quanto riguarda più in particolare le risorse agro-pastorali, va detto che anche i romani
conobbero forme di collettivismo agrario, tra cui la più nota è certamente il compascuo. Esso non
presentava caratteristiche omogenee già nella Roma arcaica e subì un’evoluzione significativa tra
la Repubblica e l’Impero, a seguito dell’innestarsi dell’ordinamento coloniale – colonie che erano
titolari di uno specifico ager compascuus distinto da quello statale – su preesistenti forme di
sfruttamento comune di boschi e specchi d’acqua, diffuse tra i pagi italici142. Esso coesistette per
secoli assieme alla proprietà ex iure Quiritium e a quella pubblica-patrimoniale, dimodoché va
ridimensionata la concezione che vorrebbe la proprietà romana divisa tra “pubblica” e “privata”
senza spazio alcuno per dimensioni altre, sulla scorta degli studi di Capogrossi Colognesi 143.
Secondo gli studi di Enrico Sereni, condotti proprio in Liguria, già prima della penetrazione romana
esistevano terre aperte agli usi e all’occupazione dei singoli pagi e altre terre, propriamente
compascuali, in cui il diritto di occupazione e recinzione a scopo di coltura era precluso. Queste
forme di organizzazione della gestione della terra s’integrarono nei secoli successivi con
l’ordinamento coloniale e sopravvissero tramutandosi in vicanalia e communalia nell’alto
medioevo144. È significativo che la prova più importante di tale assetto sia la nota tavola di
Polcevera, a testimonianza delle radici antichissime delle comunaglie liguri. Fondamentalmente
plausibile appare dunque l’ipotesi secondo cui la sintesi tra costumi delle popolazioni rurali, che
avevano vissuto la romanizzazione anche nelle forme del controllo territoriale, e le tradizioni
germaniche riportò alla luce forme di utilizzo collettivo delle risorse già in vigore, più o meno
“occultate”, prima del V secolo.
L’indeterminatezza dei confini tra una categoria e l’altra fu senz’altro incrementata dalla
concezione della proprietà pubblica in uso tra Longobardi e Franchi. Con riguardo ai primi, è noto il
contrasto storiografico tra chi sosteneva la tesi della confusione tra il patrimonio regio e i beni
pubblici e chi al contrario vi si opponeva. I beni che facevano capo al re infatti, prescindendo dal
soggetto effettivamente incaricato di gestirli (curia di Pavia, duchi locali, gastaldi…), sottostavano
Gli studi di Capogrossi Colognesi dedicati a questo specifico tema hanno ricostruito il carattere pluralistico delle
forme di sfruttamento comunitario della terra in età romana. La primitiva agricoltura romana si basava su un dualismo
tra coltivazioni individuali e terre gentilizie utilizzate dalla gens per il pascolo e l’estrazione di legna. L’ager
compascuus si sarebbe affiancato alle terre gentilizie in quanto appezzamento sfruttato soltanto dai proprietari di
fondi vicini che formavano un pagus. L’ager compascuus della colonia assunse invece caratteri parzialmente diversi,
giacché era nelle facoltà dei coloni deliberarne l’alienazione Da esso si distingueva ancora l’ager publicus coloniale,
costituito sempre da boschi e pascoli e sempre aperto allo sfruttamento collettivo, ma i beni publici, a differenza di
quelli compascuali, erano inalienabili, cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Proprietà e signoria in Roma antica, vol. I, Roma,
1994, pp. 165-183.
143
Cfr. L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Cittadini e territorio: consolidamento e tradizione della civitas romana, Roma, 2000,
pp. 185-227, 242-244, 263-284.
144
Cfr. E. SERENI, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma, 1955, pp. 492-509.
142
49
ad un regime di natura privatistica nel senso che divennero per la maggior parte res in commercio.
Come tali, boschi, pascoli, corsi d’acqua furono spesso oggetto di atti di disposizione a favore di
individui o collettività, via alienazione o concessione, per il finanziamento della curia regia145.
La concezione patrimoniale del demanio regio si consolidò sotto l’impero carolingio e la categoria
dei iura regalia fu la più evidente manifestazione di quella contaminazione tra elementi
pubblicistici-giurisdizionali e privatistici-patrimoniali che avrebbe contraddistinto l’intera epoca
feudale. Tra le regalie, oltre ai poteri costituenti la sovranità, si annoverarono anche i beni la cui
fruizione era sottoposta all’esazione di un tributo, ma si dovette attendere la constitutio de
regalibus del novembre 1158 per l’elencazione di una serie di res e iura regalia, considerata
comunque non esaustiva146.
Tra le risorse naturali di utilizzo collettivo, i pascoli furono quelli che suscitarono il maggior
numero di controversie tra privati e/o tra comunità e sulla loro disciplina si modellò la regolazione
anche dei boschi e dei prati147. Le terre di pascolo, oltre che private, potevano essere pubbliche,
con il distinguo ben evidenziato dal Leiser sui diversi “livelli” ove poteva collocarsi la pubblicità del
bene, locale o centrale e sul predominio dell’uso sul dominium148. Come ricorda il giurista spagnolo
Fernandez De Otero, era proprio il ruolo centrale dell’uso collettivo che incideva sulla capacità di
disposizione, essendo vietata (salvo autorizzazione sovrana) l’alienazione del bene149. La comunità
Un deciso oppositore della teoria della confusione fu il Besta, E. BESTA, I diritti sulle cose, cit., pp. 180-182. Si può
senz’altro condividere l’opinione di Cortese secondo il quale i secoli altomedievali rappresentarono un passo indietro
dal punto di vista della tutela dell’interesse all’uso collettivo di certi beni poiché la qualità pubblica della proprietà fu
riferita, fino al pieno medioevo, alla loro appartenenza al sovrano. Cfr. E. CORTESE, Demanio (dir. Intermedio), in
Enciclopedia del diritto, vol. XII, 1964, pp. 73-74.
146
L’elenco è noto ma lo si riporta limitatamente alle voci di rilievo per il presente lavoro: «Regalia sunt armandiae,
viae publicae, flumina navigabilia, et ex quibus fiunt navigabilia, portus, ripatica, vectigalia (quae vulgo dicuntur
telonia) […] angariarum, parangariarum et plaustrorum, et navium praestationes, […] piscationum reditus et
salinarum». Non essendo ricomprese nell’elenco, i giuristi considerarono i boschi e gli altri beni naturali come regalie
minori, a disposizione dei sovrani e dei signori territoriali. Sixtinus, riprendendo Luca da Penne, scrisse in proposito
che le regalie minori «potius ad fiscale ius et proventus, quam ad ipsam supremam authoritatem, dignitatem et
postestatem spectant», R. SIXTINUS, Tractatus de regalibus, Francofurti, Typis Ecenolphi Emmelii, Impensis Petri Kopfii,
1617, lib. I, cap. II, n. 45.
147
La comunanza di regole era giustificata anche dal fatto che molti boschi erano usati anche come pascolo per il
bestiame, che si nutriva della vegetazione del sotto bosco o delle ghiande, circostanza tenuta in considerazione anche
dai giuristi specialisti della materia. In generale il pascolo era definito molto ampiamente come «locum, sive aream, in
qua usus pascendi haberi possit» A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis et iure pascendi, Coloniae Allobrogum,
apud fratres De Tournes, 1732, cap. I, nn. 1-26.
148
Autore di un importante trattato vertente sulle principali questioni di diritto agrario, il giurista seicentesco Christian
Leiser scrive che accanto ai pascoli riservati alle greggi del Principe, communiter si dicono pubblici anche i pascoli
comuni di città e villaggi «quia in usu publico et communi utilitate civium et vicinorum sunt constituta», C. G. LEISER, Ius
georgicum sive tractatus de praediis, Lipsiae et Francofurti, apud haeredibus Friderici Lanckisii, typis Immanuelis Titii,
1698, lib. III, cap. X, n. 4.
149
Cfr. A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. XI, nn. 1-5.
145
50
era titolare dei soli poteri di usum et administratio, ma non del dominium, e ai giuristi non sfuggì
che le forme di godimento potevano assumere caratteristiche molto diverse da luogo a luogo.
La regolazione dell’accesso al pascolo era dunque rimessa alle comunità stesse che se ne
servivano, dalla più grande civitas alla villa rurale, tramite statuti e delibere speciali. A queste fonti
spettava anche fissare nel caso un limite al numero di capi che ciascun residente poteva portare al
pascolo, per evitare un sovra-sfruttamento dello stesso150. I poteri regolativi non potevano però
contraddire una precedente e antica consuetudine, magari costitutiva del diritto stesso. Come
avvertiva il cardinale De Luca, in materia di pascoli: «a locorum legibus vel moribus normam seu
praxim recipiunt, ideoque certam ac uniformem non de facili recipiunt regulam, vel iuris
theoricam, sed pro facti qualitate diversas recipiunt decisiones»151. Nel regno napoletano il
governo dei pascoli e delle altre risorse naturali era condiviso tra Universitates e baroni, che
potevano riservarne una parte per sé o venderla, col consenso però del re e senza pregiudicare il
commodum dei vassalli152.
La scienza giuridica ammetteva dunque l’esistenza di un ampio panorama di situazioni in
cui le risorse pastorali erano destinate al godimento di determinate collettività, tenute ad
amministrarle responsabilmente, dando luogo ad una dimensione del “pubblico” ove i
residenti/utenti erano parte integrante delle procedure di gestione del bene. Il quadro non va
però idealizzato, perché gli stessi giuristi notarono che le concrete facoltà di accesso erano
proporzionate all’estensione dei fondi privati posseduti da ciascun utente e che gli interessi tra
maiores e pauperes in occasione delle privatizzazioni divergevano.
Il bosco è notoriamente il serbatoio delle risorse più importanti delle società preindustriali
(legname, frutti per il consumo umano e animale, fogliame). Oltre al già accennato problema del
pascolo condotto nei boschi, lo ius lignandi degli uomini di una comunità per l’autoconsumo
doveva spesso concorrere con altri diritti, tra i quali possiamo richiamare almeno quello alla
raccolta del fogliame impiegato come fertilizzante, alla raccolta di frutti spontanei e al taglio del
legname per attività artigianali. Il titolare dello ius forestalis, secondo la dizione di Leiser, poteva
emanare leggi e statuti per scongiurare la devastazione dei boschi, conseguente ad un
Cfr. A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. XII; C. G. LEISER, Ius georgicum, cit., lib. III, cap. X, nn. 1516.
151
G. B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, Venetiis, apud Paulum Balleonium, 1716, lib. IV, Summa sive
compendium, § III, n. 85.
152
Rendella è testimone fedele della grande varietà di soluzioni in vigore nel regno di Napoli in materia di pascoli, P.
RENDELLA, Tractatus de pascuis, defensis, forestis et aquis, Trani, Typis Laurentii Valerii, 1630, De Baronum pascuis, cap.
IV.
150
51
disboscamento smoderato153. In misura forse maggiore rispetto ai pascoli, in età moderna gli Stati
si attribuirono spesso la titolarità di tutte o di parte delle foreste di maggior pregio, con una
restrizione più o meno marcata degli usi civici locali. Emergeva così in maniera esplicita la
compresenza di due tipi diversi di sylvae publicae, atte a realizzare interessi pubblici diversi: il
fabbisogno dello Stato da una parte, l’economia locale dall’altra. Si vedrà nel prossimo capitolo
che un tentativo in questa direzione fu intrapreso anche dalla Repubblica di Genova.
Col termine pratum si designavano infine i fondi riservati al taglio del fieno154. Nella pratica
lo stesso fondo poteva essere terra di pascolo o prato a seconda dei tempi e delle stagioni, ma le
conseguenze giuridiche di uno o dell’altro uso erano rilevanti. La difesa del prato per la crescita
dell’erba imponeva un limite al pascolo di ordine temporale e spaziale – i campi riservati a prato
venivano delimitati – ma i frequenti abusi giustificavano l’erezione di cinte e siepi per impedire
che la voracità di bovini e ovini pregiudicasse il raccolto. L’inserimento tra i bona publico usui
destinata non poteva però neppure in questo caso dirsi scontata: accanto a numerosi luoghi in cui
la segatura del fieno era un uso civico degli abitanti – praticato anche sui fondi privati – si diedero
casi di vendita del diritto al raccolto, pur mantenendo intatta la proprietà del fondo155. La
circostanza per cui ciascuna utilità resa da un fondo era oggetto di distinti diritti consentiva infatti
alle comunità di mettere sul mercato l’erba in virtù di un loro dominio su di essa (diverso dalla
proprietà privata sui frutti), rendendo ulteriormente incerta la qualificazione giuridica dei diritti
collettivi156.
Se dalla schematizzazione si volge lo sguardo alla realtà agricola ligure, i confini tra una
risorsa e l’altra si fanno meno netti, almeno da un punto di vista formale. Le fonti parlano infatti
più genericamente di “comunaglie” per designare le risorse naturali collettive delle comunità
soggette a Genova. Con questo termine le fonti designano una vasta gamma di situazioni,
comprendendo prati, boschi, brughiere e zone non coltivate stabilmente e quindi aperte al pascolo
o al taglio di erba o arbusti, zone rocciose, canneti fluviali. Alla genericità della denominazione si
unisce però una notevole complessità delle pratiche di sfruttamento, da contestualizzare
localmente. Non si dava quindi una nozione di proprietà dai contorni chiaramente definiti, ed anzi
153
Anche se Leiser scrive con riguardo all’ordinamento imperiale tedesco, le leggi forestali dovevano principalmente
occuparsi di conciliare i diversi usi del bosco salvando l’interesse pubblico, stabilire i tempi e i modi del taglio, riservare
determinate zone o certe qualità arboree dall’attività dei boscaioli, modulare l’immissione di bestiame per il pascolo,
C. G. LEISER, Ius georgicum, cit., lib. III; cap. XI, nn. 43-64.
154
Il taglio del fieno avveniva almeno due volte lungo l’anno, solitamente ad inizio estate e ad inizio autunno.
155
È lo stesso Leiser a citare l’usanza seguita nella marca di Francoforte, dove i prati erano distribuiti ai cittadini per il
loro sostentamento, C. G. LEISER, Ius georgicum, cit., lib. III, cap. IX, n. 45.
156
Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 47-49.
52
come si vedrà lo stesso rapporto tra fondi privati e beni collettivi non era statico, ma i membri
stessi della comunità ne determinavano l’evoluzione a seconda delle esigenze contingenti. Fu
Marc Bloch ad impostare i termini dell’analisi dei diritti di proprietà lungo il medioevo feudale
come una gerarchia di situazioni reali autonome e prive del carattere di assolutezza, fondate sul
possesso legittimato dalla tradizione157.
Il contenuto eterogeneo dei beni naturali ricompresi nel termine comunaglie è
testimoniato anche da alcuni capitoli dei più antichi statuti pervenutici di una comunità ligure: i
capitula Coxii, della castellania di Cosio d’Arroscia. In diversi articoli si fa riferimento a prati su cui
si segava l’erba ad agosto (De comunaliis segandis), a terre coltivabili (Qui laboraverit in aliqua
comunalia) o boschi (De boscantibus seu laborantibus in communibus castellanie). Il lessico con cui
si indicavano i beni di comune utilizzo comprendeva anche il termine bandita, che come si esporrà
in seguito designava un fondo sottoposto agli usi collettivi mediante precise norme158.
Accanto alle risorse collettive delle comunità si trovavano anche i boschi “camerali”, così chiamati
perché su di essi il governo della Repubblica vantava – non senza opposizioni da parte delle
popolazioni suddite – diritti di sfruttamento privilegiati, solitamente per l’estrazione di legname
dagli alberi ad alto fusto per l’industria navale159. Anche in questo frangente la qualità demaniale
del singolo bene risultava temperata da un concorso di usi civici e diritti di sfruttamento fondati su
contratto che rende difficile ricavare un quadro a tinta unita.
Alla luce delle categorie illustrate, è lecito domandarsi se le comunaglie fossero destinate
all’uso collettivo da un vincolo di inalienabilità, volto a tutelarne la fruizione diffusa e in quale
misura questo vincolo interessasse l’intero patrimonio agro-silvestre delle comunità liguri. In
attesa di verificare questi problemi con l’esame di alcuni casi concreti di gestione di comunaglie, si
può preliminarmente anticipare che anche in Liguria i confini tra uso collettivo e possesso
individuale erano resi molto labili dalle pratiche di coltivazione temporanea di porzioni di superfici
boschive, che spesso tra XVI e XVIII secolo costituirono il primo atto di usurpazione dei beni
comuni. Spettava quindi alle comunità definire di volta in volta, per ciascuna risorsa, l’estensione
dei diritti collettivi (tra tutti il pascolo e la raccolta di legname) rispetto ai diritti di proprietà
privata esercitabili su un sito. Inoltre, fatti salvi i boschi della Camera fiscale, per le comunaglie la
Cfr. M. BLOCH, Les caractères originaux de l’histoire rurale française, Paris, 1968 (ed orig. 1931), t. I, in particolare p.
155. Considerazioni già affrontate in ID., La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario (ed. orig. 1931),
Milano, 2017. Sulle comunaglie in Liguria vedi O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit.
158
Cfr. R. G. GASTALDI, Cosio in Valle Arroscia. I “capitula castellanie Cuxii” emendati il 4 febbraio 1297, Genova, 1987,
pp. 222-234.
159
Sui boschi camerali si rinvia al prossimo capitolo per un approfondimento.
157
53
pressione privatizzatrice non incontrava un argine chiaro nella qualificazione giuridica del bene –
perché non si davano distinzioni formali tra le comunaglie – ma poteva arrestarsi solo di fronte ad
un’efficace azione politica di difesa delle consuetudini o degli atti che formalizzavano il dominio
collettivo dei residenti.
2.b) Le acque interne e le res communes omnium
Sebbene sia uno dei potenziali campi di indagine per uno studio istituzionale sui beni
comuni, quello delle acque interne è stato un tema molto sottovalutato dalla storiografia giuridica
italiana. Le ragioni dell’accostamento ai boschi e ai pascoli sono molteplici e poggiano in primo
luogo su una qualità di “pubblico” che privilegiava anche per le acque l’uso, invece della titolarità,
a partire già dall’età romana. Inoltre l’acqua corrente trovò una menzione nel Corpus iuris come
res communes omnium, autonoma quindi dai fiumi e dai laghi che erano generalmente res
publicae, ma sulla cui efficacia occorre svolgere qualche precisazione. Unitamente a ciò, l’idoneità
dell’acqua a soddisfare interessi collettivi e le sue caratteristiche di bene rivale ed esauribile, ma
ad accesso generalmente aperto, ponevano alle comunità interessate problemi di disciplina
dell’utilizzo del bene non troppo differenti da quelli riguardanti le risorse silvo-pastorali160. Scopo
di questo paragrafo è dunque quello di inquadrare sinteticamente l’acqua e i fiumi dal punto di
vista della classificazione dei beni.
Il diritto romano distingueva i corsi d’acqua tra publici e privati e in ordine alle loro
dimensioni. L’attribuzione della qualità di pubblico ad un flumen, secondo il noto passo ulpianeo
del Digesto (D. 43.12.1 pr.), dipendeva esclusivamente dalla perennità del flusso idrico, da cui
conseguiva la navigabilità del corso d’acqua161. La natura pubblica o privata del corso d’acqua
Lo scarso interessamento degli storici del diritto nei confronti della disciplina delle risorse idriche ha lasciato ad altri
studiosi (storici puri e storici dell’economia) il compito di portare alla luce le scelte politiche compiute lungo il
medioevo e l’età moderna circa la loro amministrazione. Il ritorno in auge dei beni comuni ha poi stimolato molto di
più i romanisti che gli storici del diritto medievale a considerare le acque come bene al centro di conflitti e risorse da
governare tramite strumenti giuridici e tecnico-pratici. Va peraltro notato che se acque e risorse silvo-pastorali sono
accomunabili per le caratteristiche sopra esposte, è pure vero che le prime non subirono quel processo di
privatizzazione che toccò le terre civiche. Sul cammino svolto dalla dottrina per il riconoscimento dell’acqua (intesa
come massa e non come flusso) come oggetto di diritti vedi G. CARAPEZZA FIGLIA, Oggettivazione e godimento delle
risorse idriche. Contributo a una teoria dei beni comuni, Napoli, 2008, in particolare pp. 7-56.
161
Si riporta lo stralcio più rilevante: «Item fluminum quaedam sunt perennia, quaedam torrentia, perenne est, quod
semper fluat aenaos, torrens ho xeimarrous: si tamen aliqua aestate exaruerit, quod alioquin perenne fluebat, non
ideo minus perenne est. 3. Fluminum quaedam publica sunt, quaedam non. Publicum flumen esse Cassius definit,
quod perenne sit: haec sententia Cassii, quam et Celsus probat, videtur esse probabilis». Fiorentini ha osservato che
l’elaborazione dei criteri classificatori fu portata avanti dalla giurisprudenza non senza incertezze, dovute al fatto che
l’uso volgare e quello colto dei grammatici del termine flumen non coincideva. Il nodo fu sciolto da Cassio Longino che
160
54
veniva in rilievo sostanzialmente ai fini dell’esperibilità dei rimedi interdittali previsti per i fiumi
pubblici, che andavano ad iscriversi tra le res in usu publico, in quanto destinati al soddisfacimento
di bisogni dei cittadini, soprattutto la navigazione e l’irrigazione. La giurisprudenza pretorile aveva
elaborato col tempo una serie di interdetti a legittimazione popolare volti a preservare la
regolarità e l’abbondanza della portata idrica dei fiumi: il de fluminibus (D. 43.12.1. pr.) proibitivo
di qualsiasi facere o immittere pregiudizievole per il transito o la sosta delle imbarcazioni e il ne
quid in flumine publico fiat (D.43.13.1 pr.) destinato a vietare ogni alterazione del corso d’acqua
rispetto all’estate precedente e i corrispondenti rimedi restitutori162.
Se tutti i fiumi perenni erano pubblici, non lo erano necessariamente i fiumi grandi. La
grandezza delineava soltanto la differenza tra flumen e rivus, come chiaramente enuncia il Digesto
(D.
43.12.1.1):
«Flumen
a
rivo
magnitudine
discernendum
est
aut
existimatione
circumcolentium»163. A contrario, si deduce così che il flumen privatus consisteva in un corso
d’acqua inidoneo per natura a soddisfare usi pubblici e la non applicabilità dei rimedi interdittali
permetteva ai privati di effettuare opere e servirsi dell’acqua con maggiore libertà164.
In tema di fiumi pubblici è fondamentale un frammento di Pomponio contenuto nel Digesto (D.
43.12.2):
«Quominus ex publico flumine ducatur aqua, nihil impedit (nisi imperator aut senatus vetet), si modo ea aqua in usu
publico non erit; sed si aut navigabile est aut ex eo aliud navigabile fit, non permittitur id facere»
La cosiddetta lex Quominus sanciva in via generale la libertà di derivazione da un fiume
pubblico, libertà che andava tuttavia subito incontro a due eccezioni. La prima assegnava la
ricomprese tra i flumina i fiumi perenni e i torrenti, individuando nella continuità dell’alimentazione annuale il
requisito connotante i fiumi pubblici. I torrenti dal discontinuo apporto idrico, soggetti a secche estive e talvolta a
disastrose piene autunnali, rientravano quindi tra i flumina privata, ma senza automatismi. Si ricorda infine che il
flumen era una res complessa, composta dall’acqua, dall’alveo e dalle ripae, ciascuna con una qualificazione giuridica
ben precisa.
162
A. DI PORTO, Res in usu publico, cit., pp. 31-32. I mezzi di tutela in realtà non si arrestavano a queste ipotesi, giacché
ad esempio era interdetta ogni opera realizzata sul letto e le rive del fiume che ne alterasse l’attitudine alla
navigabilità, causando l’ostruzione anche parziale dell’alveo o la diminuzione della massa d’acqua defluente. In tutto
gli interdetti a tutela dei fiumi pubblici erano sei, per un’analisi dettagliata cfr. M. FIORENTINI, Fiumi e mari
nell’esperienza giuridica romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento sistematico, Milano, 2003, pp. 161230. Per quanto concerne lo status giuridico dell’alveo di un fiume pubblico, esso era chiaramente pubblico (Ist.
2.1.23; D. 41.1.7.5), e se il fiume mutava il proprio corso, la parte di terra occupata diventava pubblica a sua volta.
163
Poteva infatti trattarsi di piccoli torrenti naturali così come di canali artificiali di derivazione per usi potabili, irrigui o
altri ancora. Dopo aver ritenuto che anche i rivi, qualora perenni, potessero considerarsi pubblici, la dottrina più
recente ritiene invece che la giurisprudenza classica qualificasse come publica solo i flumina perennia, cioè quei corsi
sufficientemente ricchi di acque per tutto l’anno. Tuttavia il richiamo alla grandezza e all’existimatio circumcolentium
rendeva assai tenue il confine tra flumen e rivus, M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit., pp. 99-107.
164
Cfr. E. COSTA, Le acque nel diritto romano, Bologna, 1919; G. GROSSO, Le cose, cit., pp. 131-151; M. FIORENTINI, Fiumi e
mari, cit.
55
prevalenza della destinazione pubblica dell’acqua corrente rispetto agli usi privati. Siffatto limite
operava per i fiumi non navigabili e ricollegava il divieto al peggioramento delle condizioni del
fiume. In altre parole se la derivazione avesse causato un eccessivo impoverimento della massa
d’acqua, essa non era ammissibile. Le pubbliche autorità potevano invece vietare la presa a loro
discrezione. La seconda eccezione tutelava i fiumi navigabili e gli affluenti che rendevano
navigabile il fiume principale. Senz’altro libera era quindi la derivazione dai fiumi pubblici non
navigabili e non sottoposti a particolari usi pubblici – o entro i limiti del rispetto del pubblico
utilizzo165.
Categoria affine a quella delle res publicae, ma indubbiamente più problematica, è quella
delle res communes omnium, su cui la storiografia romanistica ha a lungo dibattuto. Delle cose
comuni a tutti tratta un frammento del giurista Marciano, inserito nel Digesto (D. 1.8.2.1) e ripreso
senza modifiche nel capitolo De rerum divisione delle Istituzioni (I. 2.1.1):
«Et quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aër et aqua profluens et mare et per hoc litora maris. Nemo
igitur ad litus maris accedere prohibetur, dum tamen villis et monumentis et aedificiis abstineat, quia non sunt iuris
gentium, sicut et mare»
Nell’elenco marcianeo figuravano il mare e il lido il cui regime di utilizzo poteva essere
definito abbastanza agevolmente in quanto res publicae, accanto ad altre, come l’aria e l’acqua
corrente, per le quali era dubbia la stessa sussumibilità nel novero delle cose oggetto di diritti. Per
tutte il fondamento era comunque da rinvenire in una qualità negativa, su cui si basava la loro
specialità tanto rispetto alle res publicae quanto alle res nullius: il non poter impedire a nessuno
l’uso di tali risorse. Non appartenendo a nessuno, le cose comuni erano destinate all’uso e al
godimento di tutti, cittadini e non, con il limite dell’incommodum ceterorum166.
La dottrina ha dibattuto sulla riferibilità a Pomponio dell’intero passo, poiché alcuni autori hanno sostenuto nel
tempo che parti più o meno ampie di D. 43.12.2 fossero interpolazioni giustinianee. Per citare solo due esempi,
appoggiandosi agli autorevoli scritti del Bonfante, del Vassalli e dell’Albertario, l’Astuti ha sostenuto che solo la libera
derivabilità era da attribuire a Pomponio, mentre le limitazioni a tutela dell’uso pubblico dei fiumi e della navigazione
erano successive e in evidente contraddizione col principio pomponiano. I compilatori avrebbero così confezionato un
frammento che dava conto dell’evoluzione della sensibilità giuridica in materia, cfr. G. ASTUTI, Acque (storia), in
Enciclopedia del diritto, I, 1958, pp. 346-387. Meno persuaso Fiorentini, che ritiene genuino e coerente tutto il
frammento, M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit., pp. 230-242, in particolare note 123 e 124, pp. 230-231.
166
È ormai opinione accettata che il concetto di res communis omnium, per quanto ignorato da Gaio, fosse conosciuto
anche da altri giuristi oltre a Marciano. Muovendo da considerazioni di ordine filosofico circa un superiore senso di
giustizia, in virtù del quale fuoco e acqua non potevano essere negati a nessuno (per usare un’espressione del De
officiis ciceroniano), Marciano elaborò una categoria di beni pubblici più raffinata, e per certi versi innovativa, rispetto
alle classificazioni precedenti. Purtroppo la sua proposta, sorta ormai al tramonto della scienza giuridica romana,
rimase allo stato embrionale e i giuristi successivi scelsero di non farla progredire in qualcosa di più sistematico. Sulle
165
56
Il confronto tra lex Quominus e lo statuto giuridico delle res communes omnium pone due
tipi di problemi diversi, benché collegati. Il primo consiste nel definire i poteri di regolazione e
controllo sull’uso dei fiumi in capo alla pubblica autorità. Il secondo tocca la stessa sopravvivenza
di un regime di libero e universale accesso all’acqua anche lungo il medioevo, almeno dal punto di
vista teorico.
Sui poteri di amministrazione delle risorse idriche sono note le profonde differenze tra
l’esperienza romana e la realtà medievale. La romanistica più autorevole ha a lungo ventilato
l’ipotesi dell’esistenza di un regime di concessioni, in virtù del quale il pretore, o altra figura che ne
facesse le veci, avrebbe svolto preventivamente un giudizio sulla compatibilità delle nuove
derivazioni con l’uso pubblico e con gli usi privati concorrenti, secondo uno schema protoamministrativo. L’ipotesi però, già messa in dubbio da Branca, è oggi ritenuta poco fondata poiché
da un esame combinato di diverse fonti risulta invece che fermo il principio della libertà di
derivare, il pretore si attivava a valle della realizzazione di eventuali opere dannose per il cursus e
la portata fluviale – salvi i casi di denuncia di nuova opera – e solo su impulso di altri soggetti
portatori di interessi privati inconciliabili167. Definito l’uso pubblico come la concreta facoltà di
impiego del fiume da parte di tutti i membri della collettività, il giudizio di compatibilità tra questo
e gli usi privati poteva essere instaurato soltanto da un privato, che agiva per tutelare un proprio
diritto soggettivo avvertito come minacciato da un terzo168.
Si è discusso circa l’esistenza di una signoria dei reges longobardi sulle acque maggiori del
nord Italia, importanti vie di comunicazione alle quali erano dedicati anche alcuni capitoli
dell’Edictum. È altamente probabile che accanto a fiumi chiaramente appartenenti al patrimonio
pubblico, ve ne fossero altri lasciati all’uso delle popolazioni locali o concessi a specifici destinatari,
res communes omnium vedi A. DELL’ORO, Le “res communes omnium” dell’elenco di Marciano e il problema del loro
fondamento giuridico, in «Studi Urbinati», n.s., XXXI (1962-63), pp. 239-290; M. FIORENTINI, L’acqua da bene economico
a “res communis omnium” a bene collettivo, in Analisi giuridica dell’Economia, 1 (2010), pp. 39-78; nonché
l’approfondimento storiografico condotto da J. D. TERRAZAS PONCE, El concepto de “res” en los juristas romanos, II: Las
“res communes omnium”, in «Revista de estudios histórico-jurídicos», XXXIV, 2012, pp. 127-163.
167
Le fonti contengono infatti le espressioni «non permittitur id facere» di D. 43.12.2 e «non oportere praetorem
concedere ductionem» (D. 39.3.10.2). Tali locuzioni alludono agli interdetti pretori diretti a interrompere le attività
pregiudizievoli, a seguito di contestazioni dei privati circa la liceità delle derivazioni dai fiumi pubblici compiute da
altri. Convinto assertore dell’esistenza di un regime di concessioni fu ad esempio E. COSTA, Le acque, cit., pp. 13-16. Su
posizioni contrarie G. BRANCA, Le cose extra patrimonium humani iuris, Bologna, 1946, pp. 198-200; M. FIORENTINI, Fiumi
e mari, cit., p. 241.
168
Sull’utlitas publica Fiorentini ha invitato alla cautela, evitando di sovrapporla alla nozione di publicus usus. È
soprattutto il diverso configurarsi del rapporto tra utilitates pubblica e privata a renderle distinte, poiché l’utilitas
publica non si arrestava all’uso delle cose pubbliche, ma poteva costituire un parametro di valutazione circa l’utilizzo
di cose private come, ad esempio, le cloache, A. DI PORTO, La tutela della “salubritas” fra editto e giurisprudenza. Il
ruolo di Labeone, Milano, 1990; M. FIORENTINI, Fiumi e mari, cit., pp. 255-262.
57
con il trasferimento di diritti di pesca, di navigazione o di derivazione169. La concezione
patrimoniale del demanio regio si consolidò sotto l’impero carolingio e la categoria dei iura regalia
fu la più evidente manifestazione di quella contaminazione tra elementi pubblicistici-giurisdizionali
e privatistici-patrimoniali che avrebbe contraddistinto l’intera epoca feudale. La concessione di
privilegi sulle acque, come sostenuto da Vaccari, costituiva: «una specie di dominio sulla
navigazione fluviale, sì da poterla governare con regole proprie e gravare, anche arbitrariamente,
di tributi», in teoria spettanti al proprietario concedente170.
Ben diverso il quadro dopo il XII secolo. I fiumi navigabili e gli affluenti ex quibus fiunt
navigabilia, i porti, le imposte sull’attracco alle rive dei fiumi, sulle peschiere e saline e sulle
navium praestationes furono considerati beni regali e oggetto della contesa tra impero e
comuni171. La pace di Costanza riconobbe alle città il diritto di poter esercitare sulle acque tutte
quelle «consuetudines quas ab antiquo exercuistis in aquis», cioè quei diritti già concessi dagli
imperatori o, più facilmente, usurpati dai Comuni a scapito dei precedenti titolari172. La divisione
delle regalie tra numerose entità politiche portò inevitabilmente alla formazione di diritti
particolari più o meno raffinati ed innovativi rispetto all’impalcatura romanistica, che in generale
La disciplina scritta si esauriva nei capitoli 265-268 dell’Editto di Rotari sulle responsabilità del portonarius, custode
dei porti e sorvegliante del traffico fluviale in caso di favoreggiamento di fuggitivi, Edicta Regum Langobardorum, in
Historiae Patriae Monumenta, Augustae Taurinorum, 1855, coll. 61-62. Sul punto va rilevata la non coincidenza di
opinioni tra G. ASTUTI, Acque (storia), cit., pp. 370-372 ed E. CORTESE, Demanio (dir. Intermedio), cit., pp. 75-76. Ad
avviso del primo l’esistenza dei portonarii dimostrerebbe la costituzione di una signoria del re sui corsi d’acqua più
importanti già agli esordi del dominio longobardo nell’alta Italia. Viceversa simile prova non è ritenuta sufficiente dal
Cortese. Si può comunque concordare con l’Astuti nell’affermare che un regime di piena patrimonialità, in grado di
comprimere quasi del tutto l’uso libero dei fiumi, non si sia mai del tutto affermato tra i secoli VI e VIII.
170
Cfr. P. VACCARI, La regalia delle acque ed il diritto di navigazione sui fiumi, Pavia, 1907, pp. 47-79; A. SOLMI, Le diete
imperiali di Roncaglia. Il diritto di regalia sui fiumi e le accessioni fluviali, in Archivio storico delle Province Parmensi,
1910.
171
La De regaliis ricalcò per i fiumi il frammento della lex Quominus di Pomponio, ma con un notevole slittamento.
Infatti la ratio di D. 43.12.2 consisteva semplicemente nel subordinare il diritto di derivazione alla conservazione della
navigabilità dei fiumi. La de regalibus elevò invece la navigabilità ad elemento ordinatore della loro pubblicità. La
dottrina successiva ritenne l’elenco non tassativo, al punto che poté enunciare il generale principio per cui «iura
fluminum et aquarum decurrentium regalia sunt». I giuristi compresero così tra le regalie anche i fiumi non navigabili, i
torrenti, i laghi e il lido del mare arricchendo quindi il novero delle cose pubbliche. Altri, pur aderendo di massima alla
classificazione romanistica, privilegiarono talvolta il diritto locale distinguendo tra i fiumi regali (perché navigabili) e
fiumi pubblici (perenni ma non navigabili). Solo per i primi e non per gli altri era necessaria la licenza del sovrano per
l’estrazione dell’acqua, cfr. P. VACCARI, La regalia delle acque, cit.; L. MOSCATI, In materia di acque. Tra diritto comune e
codificazione albertina, Roma, 1993, pp. 56-57. Sul contesto storico al momento dell’emanazione della De regaliis U.
NICOLINI, Diritto romano e diritti particolari in Italia nell’età comunale, in Rivista di storia del diritto italiano, LIX, 1986,
pp. 13-170.
172
Come riconobbe Bartolomeo Cipolla trattando del diritto imperiale sui fiumi pubblici: «Sed hodie civitates
Lombardiae, cum sibi de consuetudine vel ex privilegio pacis Constantiae acquisiverint merum imperium et regalia»,
privilegio esteso anche a chi non aveva stipulato direttamente la pace a Costanza. Il giurista veronese notava peraltro
che anche le «civitates extra Italiam» detentrici delle regalie sostenevano di disporre della proprietà dei fiumi siti nel
loro territorio, B. CIPOLLA, Tractatus de servitutibus tam urbanorum quam rusticorum praediorum, Antuerpiae, Apud
Hieronymum Verdussen, 1682, II, cap. 31, n. 4.
169
58
proseguì a regolare la maggior parte delle fattispecie in materia. Il tratto però sicuramente più
significativo fu rappresentato dall’affermarsi di una politica attiva di governo delle acque. I comuni
iniziarono infatti a gestire le risorse fluviali predisponendo regole di utilizzo dell’acqua spesso
molto dettagliate, creando un sistema di autorizzazioni per la costruzione di impianti idraulici e per
le derivazioni più importanti e finanziando opere pubbliche di arginatura dei fiumi e di modifica del
loro corso.
Il ruolo del potere pubblico fu dunque in generale più incisivo, ma con nette
differenziazioni su scala territoriale. Come si vedrà alcune città, e poi Stati regionali, soprattutto
del Nord padano adottarono politiche in campo idrico funzionali allo sviluppo dell’agricoltura. La
qualità della normativa e le dimensioni dell’apparato amministrativo furono quindi maggiori
rispetto ad altre realtà, dove il contesto idrografico e il tessuto socio-economico non giustificavano
scelte equivalenti173.
Se sul frangente amministrativo gli interventi riguardarono i fiumi complessivamente intesi,
i giuristi non poterono eludere la questione del rapporto tra una cosa pubblica (il fiume) e una sua
parte costitutiva (l’aqua profluens) sottoposta ad un diverso inquadramento giuridico. La nota
posizione di Piacentino, che a proposito dello status del lido e del mare si schierò per l’equivalenza
tra le due categorie («Omnia communia sunt publica»), fu contestata da Azzone alla luce della
disciplina dell’occupazione. Per le cose comuni infatti l’occupante poteva acquistare la proprietà
della cosa (o parte di essa) occupata, mentre il medesimo effetto era escluso per le cose
pubbliche. Furono Accursio e poi Bartolo a segnare la definitiva vittoria della tesi di Piacentino,
tramite l’affiancamento della iurisdictio al binomio proprietas-usus:
«Communia sunt quo ad usum et dominium: ut hic, sed quo ad protectionem sunt Populi Romani. Additio: pro
declaratione huius glossae dic quod mare est commune quo ad usum, sed proprietas est nullius: sicut aer est
communis usu, proprietas tamen est nullius secondum Ia. De Ra. sed iurisdictio est Caesaris: et sic ista tria sunt diversa
f. proprietas, usus et iurisdictio: et protectio secundum Bal.»174
Per l’area padana vedi ad esempio M. CAMPOPIANO, Rural communities, land clearance and water management in
the Po Valley in the central and late Middle ages, in Journal of Medieval history, 39/4 (2013), pp. 377-393.
174
Il dibattito dei secoli successivi non arrecò scossoni significativi a questo edificio teorico: la iurisdictio/protectio
muoveva sul piano pubblicistico dal soggetto legittimamente titolare dei poteri di governo sulla cosa, mentre l’usus e il
dominium rilevavano sul piano privatistico e potevano far capo a soggetti diversi, cfr. Digestum vetus, digestorum seu
Pandectarum iuris enucleati, Lugduni, apud Hugonem a Porta, 1557, p. 34. Vedi anche P. RENDELLA, Tractatus de
pascuis, cit., De Baronum pascuis, cap. VI.
173
59
Nello specifico, l’aqua profluens fu considerata da molti solo nominalmente distinta dal
fiume, ma di fatto assoggettata al medesimo regime. Per Baldo ad esempio l’acqua era
appropriabile per occupazione entro il duplice limite del rispetto degli interessi pubblici prevalenti
e dell’iniuria alterius175. La contaminazione con la disciplina della lex Quominus è evidente, poiché
il passo marcianeo sulle res communes non conteneva alcun riferimento all’interesse pubblico alla
navigazione. Gambiglioni ricordò invece un’antica differenziazione tra gli usi esercitati da tutti gli
esseri viventi (come il bere) e altri confacenti solo agli uomini (pesca, navigazione). L’idoneità di un
bene a soddisfare interessi universali lo rendeva comune, come una strada di Bologna che poteva
essere percorsa anche da unus de Anglia176.
Chi si pose in parziale controtendenza fu Giovan Francesco Sannazari della Ripa che spinse
più in là la distinctio individuando usi diversi per il fiume e per l’acqua:
«Sed dicet aliquis licet usus aque sit omnibus animalibus communis ad bibendum non tamen ad molendum et
irrigandum; ergo quantum ad molendum et irrigandum non est et vera haec ratio. Quod usus aque communis est.
Respondeo satis esse quod usus sit in genere communis. Et si institeris ergo usus fluminis erit etiam communis.
Respondeo alius est usus fluminis, alius est usus aque. Usus fluminis est navigare, usus aque inde alimenta prestare. Et
ideo aqua et mare quia sunt unus elementum dicuntur communia: flumina vero dicuntur publica»177.
L’inciso ripropone come elemento di discrimine tra beni di uso comune e beni di uso pubblico
l’idoneità a giovare a tutti gli esseri viventi o solo all’uomo. L’originalità del contributo di Sannazari
sta nel modo di considerare il diritto di impossessarsi dell’acqua, derivata tramite canali artificiali:
non più dal punto di vista economico, bensì per i bisogni primari che tale diritto mira a soddisfare.
L’autore giustificò così la natura comune dell’acqua corrente connettendo funzionalmente il suo
utilizzo per scopi irrigui o molitori all’«alimenta praestare», poiché alimentarsi era una necessità di
tutte le creature. Una ridefinizione di questo tipo comportava in linea teorica la sottrazione
dell’acqua stessa alle restrizioni in vigore per le cose pubbliche – prima fra tutte l’esperibilità
«Aqua fluminis concedit occupanti. Ergo potest amoveri de loco suo, et occupari, nisi per id eius fluminis, vel
alterius in quo illud flumen ingreditur deterior navigatio fieret. […] Aut flumen est publicum in quo fit sicut est
commune flumen, quod perpetuo currit. Tunc ei qui habet molendinum licite alius non potest impediendo aquam
locum auferre, etiam si faciat ut sibi prosit», BALDO DEGLI UBALDI, In primam Digesti veteris partem commentaria,
Augustae Taurinorum, apud heredes Nicoli Bevilaquae, 1576, De divisione rerum, § Item lapilli, nn. 1, 6.
176
Da notare che Gambiglioni interpreta publicus alla luce di categorie universalistiche («Ista sunt toti populi de
mundo») in contrapposizione ai beni delle civitates, A. GAMBIGLIONI, Commentaria seu Lectura super quatuor
Instititutionum Iustinianarum libris, Lugduni, 1540, § Littorum, cc. 58 v.-59 r.
177
G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo veteri et codice, [Lione], Vincent de Portonariis, 1541, tit. De fluminibus,
cc. 71 v.-79 v. In particolare n. 6.
175
60
dell’interdetto de fluminibus – ma anche il concreto rischio di esporre la risorsa ad
un’appropriazione incontrollata e potenzialmente dannosa178.
Deboli dal punto di vista ordinante, le res communes omnium si limitarono ad enunciare il
generico principio di esclusione dalla proprietà dell’acqua corrente, il cui uso per alcuni bisogni
fondamentali era dovuto a tutti179. Abbandonato il sistema di azioni di tutela, i comuni medievali,
interpreti principali degli interessi generali delle popolazioni, subordinarono l’impiego dell’acqua
ad un controllo pubblico in grado di effettuare ex ante il bilanciamento tra interessi e contenere
l’utilizzo entro le soglie di sostenibilità180. Posto che anche per le acque, esattamente come per le
altre risorse collettive, la consuetudine e l’uso inveterato giocavano un ruolo determinante nel
costituire o rafforzare i diritti degli appropriatori, resta da chiedersi se esistettero nella prassi casi
di regolazione “dal basso” degli usi idrici.
Per quanto riguarda l’antichità, si possono citare a tal proposito la lex rivi Hiberiensis, nota
anche come Bronzo di Agòn, un’iscrizione di circa 1200 parole contenente una minuziosa disciplina
dell’utilizzo irriguo dell’acqua del rivus derivato dal fiume Ebro da parte di alcuni pagi spagnoli181.
Recenti studi condotti da Marguerite Ronin hanno poi dimostrato l’esistenza di diverse comunità
di irrigatori organizzate tra Spagna e colonie africane, regioni aride ove l’acqua era realmente un
bene scarso182. La gestione comune dell’acqua si presentò allora come una soluzione efficace
L’esegesi del Sannazari individuava la ratio dell’interdetto nella tutela della navigabilità dei fiumi, unico publicus
usus che potesse dirsi propriamente tale e soggetto ai limiti dell’interdetto. L’autore criticava un altro autorevole
commentatore della lex Quominus, Giason del Maino, per aver erroneamente affermato che lo scopo del divieto di
derivazione dai fiumi navigabili fosse da identificarsi nella tutela delle regalie imperiali: in realtà all’impero spettava
solo il compito di assicurare la percorribilità dei fiumi e delle strade, senz’altra ingerenza su differenti usi compatibili,
cfr. G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo, cit., nn. 13-15.
179
Al punto che Antonio Gobbi, altro importante trattatista del diritto delle acque, a proposito dei diversi generi di
acque contemplati dal diritto, non citò neppure la categoria delle res communes. A. GOBBI, Tractatus varii in quibus de
universa aquarum materia, L. Bene a Zenone, Cod. de quadr. Praescriptione explanatio, de permissa feudi, ac
emphyteusis alienatione, ac de monetis, Genevae, apud Fratres de Tournes, 1699, q. I. Pecchi divise le acque tra
pubbliche e private, a seconda del fiume di appartenenza. Pur riconoscendo che l’uso dell’acqua era comune a tutti, la
derivazione del fiume pubblico dimostrava il dominium sull’acqua ed era pertanto autorizzabile solo dall’autorità
pubblica, F. M. PECCHI, Tractatu de aquaeductu, Ticini Regii, Ex Officina haeredum Caroli Francisci Magrii, vol. I, q. I, nn.
1; q. II, n. 15.
180
Cfr. M. A. BENEDETTO, Acque (diritto intermedio), in Novissimo Digesto Italiano, I, 1957, pp. 196-205, in particolare
pp. 199-200.
181
L’assemblea dei pagani era l’organo deputato a decidere sulle regole di irrigazione. Ciascun membro godeva di un
diritto di voto ponderato in relazione alla quantità d’acqua spettante ad ognuno, proporzionale all’estensione dei
fondi posseduti. Non vigeva quindi il principio “una testa un voto”. Il testo imponeva poi regolari opere di pulitura dei
canali e di controllo sullo stato dei medesimi, disciplinava modo di elezione e compiti dei curatores e dei magistri pagi
e lo svolgimento delle assemblee degli utenti nei momenti cruciali della stagione agricola, cfr. F. BELTRÁN LLORIS, An
irrigation Decree from Roman Spain: “The Lex Rivi Hiberiensis”, in «The Journal of Roman Studies», 96 (2006), pp. 147197.
182
Da fonti provenienti da diverse regioni dell’impero, l’autrice ha isolato l’operato delle “communautés d’irrigation”,
così definite per il fatto di condividere una risorsa idrica detenuta dalle stesse comunità, e ha riscontrato che la
creazione di istituzioni di gestione dell’acqua ha contribuito a plasmare l’organizzazione stessa delle comunità, con i
178
61
perché fondata su un’equa divisione del godimento del bene. Inoltre le norme giuridiche prodotte
localmente e il controllo giudiziario assicuravano la protezione dell’interesse generale e
scongiuravano eventuali distorsioni condotte dai soggetti più forti a loro vantaggio183.
L’aumento di statuti e regolamenti in materia idrica, figlio dell’interventismo pubblico
dell’età medievale e moderna, non fece venir meno il ruolo delle consuetudini e degli accordi tra
utenti per la gestione condivisa dei fiumi e l’intangibilità di questi spazi di autonomia fu
riconosciuta anche dalla dottrina, con argomentazioni assimilabili a quelle svolte in materia di
pastorizia184.
Da quanto sopra esposto risulta chiaro che i fiumi, benché compresi tra i beni pubblici,
conservarono tratti peculiari, la cui predisposizione a soddisfare bisogni essenziali per le comunità
locali indusse spesso le comunità stesse a farsi promotrici della disciplina giuridica di sfruttamento
delle risorse idriche, compatibilmente con gli spazi di autonomia lasciati loro dai governi statali. È
dunque difficile semplificare un quadro giuridico accentuatamente particolaristico. Si esaminerà
dunque più avanti la situazione del Genovesato rispetto agli altri Stati.
3.a) Il modello di Ostrom applicato alla Repubblica di Genova: fonti e istituzioni locali
Trasportare un modello di analisi dalla scienza economica alla storia senza adattamenti non
è ovviamente possibile senza snaturare il senso stesso della ricerca. Tuttavia in questo caso
l’operazione è agevolata dalle numerose affinità che rendono i “principi progettuali” individuati da
Elinor Ostrom utilizzabili anche in campo storico-giuridico, soprattutto per l’alto valore attribuito ai
vari momenti della vita di una norma (origine, approvazione, esecuzione) entro un gruppo di
dovuti adeguamenti legati al contesto geografico e politico-sociale di riferimento, cfr. M. RONIN, La gestion commune
de l’eau dans le droit romain. L’exemple de l’Afrique et de l’Hispanie (Ier siècle avant – Ve siècle après J.-C.), Thèse en
cotutelle, doctorat en histoire, Université Laval Québec – Université de Nantes, 2015, in particolare pp. 87-132.
183
Nello studio di Marguerite Ronin è centrale l’elemento del consenso politico-sociale prestato dagli utenti e dalle
comunità locali alle norme elaborate per edificare il sistema di gestione comune dell’acqua. Come afferma l’autrice
«Le système de contrainte qu’impose tout système juridique ne peut être accepté que si les membres des
communautés concernées voient un avantage à confier à la collectivité la protection de leurs intérêts. Cette assertion
peut s’appliquer à tout corps social. […] Il faut souligner que le consensus est avant toute chose le fruit d’un équilibre
entre l’intérêt de chacun et l’intérêt de la communauté». L’equilibrio era ovviamente soggetto a notevoli tensioni e
conflitti, che comportavano una periodica riaffermazione/ridefinizione dei diritti individuali rispetto all’interesse
collettivo mediato dall’autorità, M. Ronin, La gestione commune, cit., pp. 309-314.
184
Vedi infra, capitolo V, sez. 1.b. Sulla consapevolezza dei giuristi circa il ruolo di patti e consuetudini locali in materia
pastorale cfr. V. PIERGIOVANNI, De iure ovium: alle origini della trattatistica giuridica sulla pastorizia, in A. MATTONE, P. F.
SIMBULA (a cura di), La pastorizia mediterranea: storia e diritto (secoli XI-XX), Roma, 2011, pp. 32-40.
62
soggetti che si autodeterminano. Inoltre i già menzionati studi di de Moor hanno tratto da quel
modello chiavi di lettura utili per l’indagine sulle forme storiche di proprietà collettive185.
Partiamo quindi dai sette principi la cui sussistenza pare imprescindibile, a giudizio di
Ostrom, perché un gruppo di utenti possa gestire efficacemente una risorsa collettiva. Essi sono:
1) chiara definizione dei confini tra aventi e non aventi diritto all’uso della risorsa;
2) congruenza tra regole di appropriazione/fornitura che limitano tempi, luoghi e quantità del
prelievo delle risorse e le condizioni locali;
3) metodi di decisione collettiva per la definizione delle regole operative;
4) controllo svolto da sorveglianti che rispondono agli utenti o sono utenti essi stessi;
5) previsione di sanzioni progressive a seconda della gravità dell’infrazione e del contesto, inflitte
da appositi incaricati o altri appropriatori;
6) meccanismi di risoluzione dei conflitti tra utenti o tra utenti e incaricati in sede locale e con
bassi costi;
7) riconoscimento da parte delle autorità governative del diritto di auto-organizzazione.
8) inserimento delle istituzioni di gestione in organizzazioni articolate su più livelli186.
Già la semplice elencazione richiama diversi temi importanti in tema di fonti del diritto e
storia istituzionale, ma lo scopo di questo paragrafo è calare questi principi nella realtà ligure d’età
moderna. Come ben ha scritto Dani, lo storico del diritto può chiarire: «le peculiarità dei contesti
giuridici e istituzionali in cui [i beni comuni] si inserivano, nella considerazione che il concetto di
“beni comuni” acquista caratteri e valenze diverse a seconda dello scenario complessivo in cui si
colloca»187. È quindi necessario premettere all’esame ravvicinato di alcune fattispecie di
amministrazione di risorse collettive la presentazione del contesto politico-istituzionale di
riferimento. Alla luce di quanto esposto nel capitolo precedente sulle diverse “opzioni di scala”
(micro o macro), si è scelto di mettere al centro le risorse stesse, come crocevia dell’azione di
soggetti locali e statali, ciascuno mosso da propri obiettivi politici e munito di poteri specifici.
Partiamo quindi dalle comunità locali, cui si riferisce buona parte dei principi sopra elencati, e
facciamo brevemente il punto su tre aspetti: fonti del diritto, delimitazione dei confini spaziali e
185
La silenziosa rivoluzione dei commons, come descritta da de Moor, si basò su istituzioni create localmente,
autogovernate dagli stessi utenti secondo procedure relativamente democratiche, tendenzialmente esclusive e volte a
scoraggiare i free riders, cfr. M. DE MOOR, The dilemma of the commoners, cit., pp. 18-60.
186
Cfr. E. OSTROM, Governare I beni collettivi, cit., pp. 132-150.
187
Cfr. A. DANI, La lettura giurisprudenziale dei “beni comuni” in una decisione della Rota fiorentina del 1742, in P.
FERRETTI, M. FIORENTINI, D. ROSSI (a cura di), Il governo del territorio nell’esperienza storico-giuridica, Trieste, 2017, pp.
15-36, in particolare p. 17.
63
restrizioni soggettive all’accesso ai beni, legami giuridici con Genova come fondamento
dell’autogoverno.
L’esistenza di un bene posseduto in comune richiede necessariamente l’emanazione di
regole per la sua disciplina, capaci di assicurarne la durata sul lungo periodo. Il nesso risorsa
comune – codice normativo porta con sé altresì l’esistenza di uno spazio di autodeterminazione
della comunità considerata, che si attiva spontaneamente per la produzione di un diritto specifico.
Con riguardo all’età intermedia questo diritto non è fatto solo di documenti scritti, ma vede sugli
scudi le consuetudini, qui da intendersi soprattutto in senso soggettivo, come pretesa di gruppi o
collettività di godere di un diritto acquisito da tempo e fondato sulla tradizione188. Il ruolo delle
consuetudini, delle pratiche lungamente ripetute di utilizzo del suolo o delle fonti d’acqua è
particolarmente importante in materia di usi civici, poiché per le comunità rurali la conservazione
del possesso su boschi o fiumi rappresentava, oltre ad una esigenza economica, anche un fattore
di identità. La stessa dottrina giuridica riconosceva l’importanza di questa fonte nell’ordinare
l’utilizzo dei beni collettivi189.
Tuttavia non è possibile avallare l’idea che la comparsa del documento assorbì, rendendole
inattuali e dunque non più vigenti, consuetudini seguite da decenni o secoli. Il rapporto tra le due
fonti fu molto più complesso, presentandosi ora nei termini di una complementarietà, ora invece
in aperta contraddizione. A ciò come si avrà modo di vedere contribuì la stessa evoluzione delle
forme di godimento delle risorse collettive190.
La geografia statutaria del territorio ligure si compone di due aree concentriche che hanno
come fulcro centrale Genova. La prima area è il districtus della stessa Genova, i cui confini
coincidono in sostanza con quelli dell’episcopato. Qui ebbero vigore soltanto gli statuti della
Dominante, sebbene fossero compresi nel distretto centri importanti come Chiavari e Recco. La
fioritura di statuti locali a partire dal XIII secolo avvenne nella seconda area, che va a Ponente da
Sulla consuetudine come fonte si rinvia alla trattazione di F. CALASSO, Medioevo del diritto. Le fonti, Milano 1954,
pp. 181-214, in particolare per il problema della prova e del rapporto consuetudine – diritto scritto pp. 207-214. Di
consuetudine come “costituzione” del mondo giuridico medievale hanno parlato P. GROSSI, L’ordine giuridico, cit., pp.
87-108 e D. QUAGLIONI, La consuetudine come costituzione, in P. NERVI (a cura di), Dominii collettivi e autonomia,
Padova, 2000, p. 11-35; M. ASCHERI, Statuti e consuetudini: tra storia e storiografia, in R. DONDARINI, G. M. VARANINI, M.
VENTICELLI, Signori, regimi signorili e statuti nel tardo medioevo, Bologna, 2003, pp. 21-31.
189
Alla lacuna è talvolta possibile rimediare consultando gli atti di lite che riportano, specie nei verbali delle
testimonianze rese in giudizio, informazioni sugli usi delle risorse naturali, cfr. G.S PENE VIDARI, Storia giuridica e storia
rurale. Fonti e prospettive piemontesi e cuneesi, in Bollettino della società per gli studi storici, archeologici e artistici
della provincia di Cuneo, 85/2 (1981), pp. 415-425.
190
Oltre ai contributi già citati, ragiona sulle caratteristiche della normativa medievale tanto consuetudinaria che
scritta in materia di beni comuni R. DONDARINI, Comunità rurali: beni comuni e beni collettivi, in «Rivista storica del
Lazio», 21 (2005-2006), pp. 115-132.
188
64
Varazze fino a Ventimiglia e a Levante da Levanto al fiume Magra, interessando tanto i borghi
costieri quanto le piccole comunità dell’entroterra alpino. Le ricerche di Braccia hanno poi
conferito ulteriore complessità a questo schema, verificando l’esistenza di ulteriori sotto-aree
statutarie, in particolare a Ponente, dove agli statuti redatti guardando al modello genovese si
affiancarono altri testi influenzati da centri rivieraschi di medie dimensioni191.
Come è stato rilevato da Braccia, ma la considerazione vale soprattutto per il Ponente, non
tutti gli statuti liguri citano o regolano in qualche modo i beni comuni. Salvo determinati casi,
risultano molto più numerose le norme tutelanti la proprietà privata rispetto a quelle dedicate alle
altre proprietà. Ovviamente da questo silenzio non può inferirsi l’assenza di beni sfruttati
collettivamente, assenza che oltre ad essere smentita dal confronto con altre fonti – visite ai
confini, catasti di comunità etc. – attribuirebbe agli statuti un anacronistico carattere di
completezza192.
Ovviamente ciascuno statuto rispecchia le condizioni socio-politiche e le ambizioni di
organizzazione del territorio della comunità che lo emana e sono pertanto rinvenibili notevoli
differenze tra un testo e l’altro. Esauritosi il fermento statutario con il XV secolo e consolidatosi
all’inizio del Cinquecento il dominio genovese sulle riviere, gli statuti delle comunità soggette
vengono sottoposti ad un controllo capillare da parte del governo della Repubblica, le cui riforme
toccano assai più la materia criminale e amministrativa che la gestione dei patrimoni comunali193.
Contestualmente si riscontra la corposa diffusione di capitoli e bandi campestri, anche presso
comunità precedentemente sprovviste di un qualche testo di riferimento. Le molte cause
all’origine di questo processo sono state illustrate da Savelli e consistono soprattutto
nell’indebitamento comunitativo che negli anni assume dimensioni croniche e potenzialmente
destabilizzanti e il crescente carico fiscale imposto da Genova alle comunità del Dominio. Le
reazioni a tali emergenze originano tanto dal centro quanto dalla periferia194.
Cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, amministrare la giustizia, organizzare il territorio, cit., pp. 81-87; R. BRACCIA,
Processi imitativi e circolazione dei testi statutari: il Ponente ligure, in M. BIANCHINI, G. VIARENGO (a cura di), Studi in
onore di Franca De Marini Avonzo, Torino, 1999, pp. 55-69.
192
Cfr. A. DANI, Pluralismo giuridico, cit., pp. 64-67. Sugli statuti del Ponente vedi V. PIERGIOVANNI, Sui più antichi statuti
del ponente ligure, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s. LII/1 (2012), pp. 359-364; R. BRACCIA, Le proprietà
collettive, cit. Sulle relazioni di visita ai confini come fonte utile per ricostruire i diritti collettivi cfr. A. STOPANI, La
memoria dei confini. Giurisdizione e diritti comunitari in Toscana (XVI-XVIII secolo), in Quaderni storici, 118 (2005), pp.
73-96; A. DANI, Le visite negli Stati italiani di antico regime, in Le Carte e la Storia, 1 (2012), pp. 43-62.
193
Oltre a R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit., vedi anche ID, Statuti e amministrazione della giustizia a Genova nel
Cinquecento, in Quaderni storici, 110 (2002), pp. 347-377.
194
Cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit., pp. 174-191. Localmente si assiste ad un fenomeno disgregativo, laddove ville
o comunità minori tendono – con l’appoggio di Genova – a separarsi dai centri principali di riferimento per darsi
autonomamente nuove regole in materia agro-pastorale e nuovi catasti su cui tarare l’ammontare delle imposte
191
65
Statuti e bandi intendono manifestare all’esterno il diritto della comunità sui beni comuni,
cercando di preservare spazi di autonomia nella gestione e di difesa dalle pretese delle comunità
limitrofe. Tra gli aspetti solitamente presi in considerazione troviamo l’indicazione delle cariche
amministrative interessate alla vigilanza e all’amministrazione della risorsa, i limiti e le modalità di
accesso e le norme di divieto per la tutela del patrimonio. In particolare le proibizioni occupano
gran parte dei bandi campestri, la cui prima preoccupazione è quella di tutelare coltivazioni private
e comunaglie dai danni dati.
Sotto l’espressione “danno dato” rientravano condotte oggi classificate diversamente per
bene giuridico leso (asportazione di frutti, danneggiamento, uccisione di animali, alterazione dello
stato dei luoghi, pascolo abusivo per fare alcuni esempi) che si trovavano affastellate una accanto
all’altra. Quantunque considerati maleficia leviora, i danni dati costituivano la forma di
“criminalità” principale per tutti i centri rurali, ragion per cui le disposizioni statutarie tardomedioevali furono oggetto spesso di numerose modifiche apportate dai bandi campestri, per
adeguare la disciplina – solitamente nel senso dell’inasprimento – alle esigenze del momento.
Il danno poteva essere cagionato tanto da persone fisiche quanto da animali, con forme di
responsabilità in solido – che riguardavano anche il danno causato dai minori. Caratteristiche
salienti erano la previsione di un’estesa responsabilità oggettiva e il ricorso a riti giudiziari
sommari. Sulla natura del danno, come ha notato Dani, la dottrina di diritto comune non raggiunse
posizioni univoche, oscillando tra l’interpretazione penalistica – specie per i casi più gravi e
commessi con dolo – e quella civilistica195.
Rimandando ulteriori considerazioni sul rapporto tra fonti ai prossimi capitoli, va affrontato
ora il tema della definizione degli aventi diritto all’uso di un bene comune. Va subito premesso che
in Liguria non si diedero casi di netta distinzione tra beni collettivi e beni comuni, come accadde
invece per le Partecipanze emiliane o le comunità regoliere alpine, dove il consorzio di utenti
acquisì una personalità giuridica separata dalla comunità196. Ciò non comporta automaticamente
dovute. La Repubblica dal canto suo edifica un apparato di controllo sui bilanci e le spese locali, procede ad approvare
i bandi campestri e a sollecitare la riforma – o la compilazione ex novo – dei capitoli politici per poter intervenire con
cognizione di causa nei frequentissimi casi di malversazione degli amministratori locali o di irregolarità nel rinnovo
delle cariche elettive. Sul controllo delle finanze vedi inoltre S. TABACCHI, Il controllo sulle finanze delle comunità negli
antichi Stati italiani, in Storia Amministrazione Costituzione», Annali I.S.A.P., 4 (1996), pp. 81-115.
195
I danni campestri sono in genere trattati nelle edizioni di statuti o in saggi relativi a delimitate zone geografiche.
Una recente opera dedicata però al danno dato nello Stato pontificio che associa all’analisi delle fonti statutarie
l’esame della dottrina di diritto comune italiana ed europea è in A. DANI, Il processo per danni dati nello Stato della
Chiesa (secoli XVI-XVIII), Bologna, 2006. Per la Liguria si rimanda a O. RAGGIO, Norme e pratiche, cit., pp. 180-181.
196
Come precisa Dondarini, per beni collettivi si devono intendere quei beni la cui titolarità appartiene ad un gruppo
circoscritto di persone, spesso individuate per ceppi famigliari, che godono del bene e trasmettono il loro diritto agli
66
che anche in Liguria non si verificò una restrizione del bacino di utenti dei beni comuni tra XV e
XVII secolo, come documentato da Raggio circa le differenti modalità di sfruttamento tenute da
proprietari terrieri o possessori di bestiame197.
Ad essere dunque esclusi erano gli alieni homines, vale a dire coloro che non
appartenevano alla comunità. Dani ha efficacemente posto in evidenza come il possesso di terre
nel territorio comunale, per quanto richiesto spesso dagli statuti senesi per il conferimento dello
status di cittadino, non fosse di per sé requisito sufficiente per il riconoscimento di diritti collettivi
sulle risorse, vantati pacificamente dagli originari e dai continui abitatori198. Ai forestieri era invece
precluso, in linea di massima, l’uso delle risorse, sia per un’empirica consapevolezza che un sovrasfruttamento avrebbe pregiudicato irrimediabilmente le medesime, sia per non legittimare il
compimento di atti possessori pregiudizievoli per la giurisdizione territoriale della comunità e
talvolta – indirettamente – dello Stato stesso.
Boschi, terre di pascolo, fiumi costituivano non di rado confini naturali tra comunità e tra
Stati. Come ha rilevato Paolo Marchetti, la scienza giuridica di diritto comune era ben consapevole
della natura compromissoria dei confini – aperta quindi a contestazioni e turbamenti – e la stessa
apposizione dei termini era spesso oggetto di valutazione circa la fondatezza delle pretese delle
parti. Il bisogno di specificare con crescente precisione i confini inter-comunitari contribuì a
rafforzare la tendenza all’esclusione dei forestieri dal godimento dei beni collettivi199.
La situazione ligure poi era resa vieppiù complicata dalla stessa conformazione del
territorio (un continuo susseguirsi di strette valli lungo gli Appennini orientali e le Alpi liguri) e dalla
presenza di numerosi feudi che, soprattutto a Ponente, interrompevano la continuità del dominio
genovese. I principali tra questi (ad esempio Oneglia e Finale) appartenevano a Principi stranieri e
eredi tramite norme successorie. I beni comuni sono invece quei beni indivisi sfruttati (o almeno sfruttabili)
indistintamente da tutti i membri di una comunità, cfr. R. DONDARINI, Comunità rurali, cit., p. 121.
197
Vedi sia T. DE MOOR ET AL., Ruling the Commons. Introducing a new methodology for the analysis of historical
commons, in International Journal of the Commons, 10 (2016), pp. 529-588, in particolare pp. 535-537; O. RAGGIO,
Forme e pratiche, cit., pp. 159-160.
198
È ormai acquisito il fatto che dei diritti collettivi fossero titolari coloro che appartenevano alla comunità entro i cui
confini i beni erano situati A questo proposito giova specificare che per comunità si deve intendere qui la comunità
universitas, a prescindere dalle dimensioni o dalla qualifica giuridica. Come si noterà più avanti, anche gli uomini
residenti in piccole ville potevano essere titolari di usi civici ben distinti da quelli degli abitanti del centro territoriale di
riferimento. Sul senese cfr. A. DANI, Usi civici, cit., p. 62-89.
199
Cfr. P. MARCHETTI, De iure finium. Diritto e confini tra tardo Medioevo ed età moderna, Milano, 2001; A. SANDONÀ,
Statuti rurali dell’alto vicentino e carte di regola trentine: note sull’esperienza giuridica di comunità rurali di confine, in
Italian Review of Legal History, 2 (2017), pp. 1-25.
67
ciò rendeva qualsiasi conflitto per il controllo delle comunaglie di confine un affare direttamente
interessante le relazioni internazionali della Repubblica200.
Si è accennato al vaglio operato dal governo della Repubblica sugli statuti delle comunità
suddite. Genova si assicurò infatti il controllo delle riviere tra XII e XV secolo, stringendo tanto con
i centri costieri più vivaci (Sanremo, Albenga, Savona, Sarzana) quanto con i borghi minori apposite
convenzioni, che rispecchiano i differenti percorsi di assoggettamento a Genova201. Sotto il nome
di convenzione sono compresi atti di varia natura – da sentenze ad accordi – accomunati però
dallo scopo di specificare le immunità fiscali, prerogative di rapporti diretti con il Senato e privilegi
in ordine alla potestà normativa locale. Almeno fino al Cinquecento la pretese di “governo diretto”
del centro furono limitate, poiché le città si governavano autonomamente sotto la vigilanza di un
Podestà genovese (almeno i centri maggiori), concedendo in genere a Genova gli uomini per la
difesa del dominio e poco altro202.
Il c.d. “pattismo” come strumento di formazione del dominio cittadino e poi regionale non
fu ovviamente una specialità ligure, perché pressoché tutti gli Stati regionali italiani vi ricorsero per
negoziare le condizioni di subordinazione dei centri conquistati, a prescindere dal fatto che la
sottomissione di questi ultimi fosse avvenuta pacificamente o a seguito di vittorie militari203. Come
bene ha scritto Chittolini: «il patto comporta il riconoscimento e la legittimazione dei vecchi nuclei
di organizzazione politica – le città, in primis – con ambiti di libertà relativamente ampi, in una
struttura articolata ed elastica. Dopo l’esperienza relativamente centralistica e “totalitaria” dello
“stato-città”, lo stato regionale acquista ora una fisionomia che si può forse definire dualistica,
simile, per alcuni versi, a quella di altre realtà europee, nel fronteggiarsi e bilanciarsi di un’autorità
centrale, sovracittadina, da un lato, e di una serie di corpi territoriali dall’altro, con una reciproca
definizione di competenze e di diritti»204.
Lo spostamento dei termini di confine costituiti da boschi significava anche l’aumento o la riduzione degli spazi di
lavoro e di risorse economiche complementari alla piccola proprietà e necessarie ai poveri ed era quindi in grado di
scatenare lunghi contenziosi. A fronte di una bibliografia sterminata, per la sola Liguria vedi E. GRENDI, La pratica dei
confini, Mioglia contro Sassello, in Quaderni storici, 63 (1986), pp. 811-845; T. PIRLO, Un clamoroso episodio di
capitalismo feudale, Genova, 1995.
201
Cfr. V. PIERGIOVANNI, I rapporti giuridici, cit.
202
Cfr. G. ROSSI, Gli statuti della Liguria, in Atti della società ligure di Storia patria, XIV, (1878), pp. 227-232.
203
La bibliografia sul tema è molto ampia. Si segnala soltanto, oltre a quanto già indicato E.FASANO GUARINI, Gli statuti
delle città soggette a Firenze tra ‘400 e ‘500: riforme locali e interventi centrali, in G. CHITTOLINI, D. WILLOWEIT (a cura di),
Statuti, città, territori, cit., pp. 69-124; I. PEDERZANI, Venezia e lo Stado de Terraferma. Il governo delle comunità nel
territorio bergamasco (secc. XV-XVIII), Milano, 1992; L. MANNORI, Il sovrano tutore, cit.; A. DE BENEDICTIS, Repubblica per
contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna, 1995. Sul ruolo degli ufficiali centrali nel
ridimensionare i centri soggetti a partire dal Rinascimento G. CASTELNUOVO, Uffici e ufficiali, in Lo Stato del
Rinascimento, cit., pp. 333-346.
204
Cfr. G. CHITTOLINI, Città, comunità e feudi, cit., pp. 28-29.
200
68
Tra gli argomenti di storia ligure non ancora sufficientemente indagati, figura anche
l’evoluzione dei rapporti giuridici tra Genova e centri del dominio nel corso dell’età moderna.
Savelli, pur operando soltanto tramite campioni, ha ritenuto che gli spazi di libertà siano stati
progressivamente erosi soprattutto in ambito legislativo, più che in quello fiscale205. Le opinioni
dei giuristi rese durante i contenziosi sei-settecenteschi, tese ora a proteggere le convenzioni ora a
depotenziarne il carattere di patto non liberamente modificabile da una sola parte, non
mancavano ed erano eco di un dibattito politico ben presente anche a Genova, come si ricava
dalla testimonianza di Andrea Spinola, uno dei patrizi più coinvolti dalle riflessioni sul governo al
principio del secolo XVII206.
Quale rilievo ebbero le convenzioni sulla gestione dei beni comuni? Indubbiamente,
fondando giuridicamente la potestà di autogoverno delle comunità, esse furono importanti nel
ribadire la libertà di ciascun borgo e villa di darsi proprie norme per l’utilizzo di boschi e corsi
d’acqua, prevedendo anche le sanzioni per i trasgressori inflitte dagli ufficiali locali. Si trattò
comunque di una libertà “vigilata”, nel senso che tutti i regolamenti campestri dovettero essere
sottoposti all’approvazione del governo genovese, senza peraltro che questo abitualmente si
intromettesse nel merito delle decisioni assunte. La tensione intorno ai patti salì durante i conflitti
sorti intorno a situazioni critiche (occupazioni abusive, alienazioni, questioni fiscali relative al
patrimonio comunale) perché fu allora che l’intervento diretto del centro, in contraddittorio
giurisdizionale con le istanze della periferia, mise alla prova la tenuta degli accordi. “Provocando”
l’intervento giurisdizionale del Senato con ricorsi e suppliche, i vari attori della periferia curavano
anche di indirizzarne, o per lo meno contenerne, l’operato nella direzione a loro più favorevole207.
Cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit., pp. 171-174.
Patrizio, attento osservatore della politica e del costume genovese di inizio XVII secolo, ad Andrea Spinola
dobbiamo una serie di manoscritti autografi e un completo Dizionario che ordina per lemmi questioni molto diverse
che spaziano dalla giustizia criminale, agli investimenti finanziari all’educazione della gioventù nobiliare. A proposito
delle convenzioni, Spinola le poneva come elemento costitutivo dello Stato, non solo per il loro valore giuridico ma
anche per il significato politico che rivestivano per i centri del Dominio. Esse non potevano dunque essere derubricate
a privilegi concessi e unilateralmente modificabili: «Li nostri antichi, con l’opinione che altri havea della lor giustitia,
fecero acquisto di molti luoghi, che si diedero a loro volontariamente, fatte conventioni, e patti. Questi, Dio ci guardi,
che non ci venga pensiero di romperli, o che per sottilizar con li dottori, li chiamiamo concessioni, quasi privileggij
concessi a popoli di nostra volontà. Sottigliezze simili, sono più proprie de’ leggisti, che di politici prudenti, e perciò è
bene, non attenercisi», BCB, m.r. XIV. 1.4.1, cc. 395-396. Sulla vita e le opere di Spinola cfr. C. BITOSSI, Andrea Spinola.
Scritti scelti, Genova, 1981.
207
Su questo tema vedi C. NUBOLA, A. WÜRGLER (a cura di), Suppliche e gravamina. Politica, amministrazione, giustizia in
Europa (secoli XIV-XVIII), Bologna, 2002. Il rapporto contenzioso bilaterale tra lo Stato e le popolazioni governate fu
pratica costante per tutta l’epoca del diritto comune. L’esercizio della iurisdictio comprendeva infatti sia il potere di
porre norme valide pro futuro, sia di produrre regole per il caso singolo, in sede applicativa, giudicando una
controversia. A parere di chi scrive, una migliore comprensione di questo particolare tratto del modo di concepire
l’esercizio del potere politico nell’età intermedia avrebbe risparmiato una quantità di discussioni circa la “modernità”
degli Stati, valutata anche in base alla loro capacità di manifestare l’egemonia sul piano interno soltanto tramite la
205
206
69
Si dovrà perciò verificare anzitutto se le convenzioni furono effettivamente rispettate durante i
conflitti dal governo genovese, oppure furono superate dal corso degli eventi e in quale modo.
Inoltre, a scapito di qualsiasi suggestione localistica, andrà appurato se il rispetto delle convenzioni
favorì o scongiurò le innumerevoli, piccole tragedy of commons che modificarono l’aspetto delle
campagne liguri della modernità.
3.b) Segue: magistrature e fonti statali
Il contesto giuridico-amministrativo in cui le comunità liguri si trovarono inserite era quello
di uno Stato d’antico regime di origine cittadina ma a proiezione regionale, il cui prestigio
internazionale fu a lungo fondato più sulle capacità diplomatiche e finanziarie dell’oligarchia della
capitale che sulle potenzialità geopolitiche del territorio ligure. Un cambio di rotta iniziò a
registrarsi intorno alla fine del XVI secolo, quando la Repubblica iniziò a dare nuovo smalto alla
propria sovranità territoriale tramite una serie di riforme istituzionali e legislative riguardanti
l’intero territorio. Si è già avuto modo di rievocare il dibattito sulla “modernità” dello Stato
genovese e giova ripetere che se una politica del diritto nel segno della “costruzione statuale” vi fu
– e ciò è indubbio – essa non fu né priva di contraddizioni. In questo esso è perfettamente
accostabile agli Stati coevi perché nessuno, almeno fino ai decenni immediatamente precedenti la
Rivoluzione, si pose come obbiettivo una razionale ed organica politica fiscale, di redistribuzione
della ricchezza o di livellamento delle situazioni di privilegio individuali o collettive. I gruppi
dirigenti, a Genova come altrove, tentarono di conciliare esigenze spesso profondamente diverse
tramite provvedimenti empirici, di solito negoziati e dunque sempre rivedibili al mutare dei bisogni
portati alla loro attenzione208.
A partire dal Cinquecento fu chiaro al ceto di governo che una serie di problemi
affliggevano le comunità dominate in maniera ricorrente: disordini e iniquità nel calcolo e nel
prelievo fiscale (specie per l’avaria sugli immobili), occupazione abusiva dei beni comuni,
malversazioni nell’amministrazione locale, litigiosità inter-comunitaria per questioni di confine,
legami neppure troppo velati tra banditi e “fautori”. Le riforme riorganizzarono il governo del
territorio, palesando un nuovo approccio del centro nei confronti dei problemi politici della
periferia, senza che venisse intaccata la centralità delle comunità. Queste restarono fiscalmente
legislazione, scindendola dall’attività giudiziale che ne costituiva – in misura più o meno ampia - il naturale
complemento; cfr. P. COSTA, Iurisdictio, cit., in particolare pp. 159-160.
208
Cfr. E. GRENDI, Il Cervo e la Repubblica, cit., pp. 3-7; M. ASCHERI, Medioevo del potere, cit., pp. 389-392.
70
responsabili per i tributi in denaro e beni (su tutti olio e vino), a loro spettò il reclutamento delle
milizie anche dopo le novità introdotte per la repressione del banditismo209.
Si è anticipato nel capitolo precedente che il Dominio fu uno dei grandi assenti nelle
“riforme costituzionali” che disegnarono le magistrature di vertice della Repubblica prima nel 1528
e definitivamente nel 1576. Queste ultime leggi – note come Leges novae o “leggi di Casale”, dal
nome della località dove si tennero i lavori dei delegati – affidarono le chiavi del governo al Doge e
ai due Collegi, il Senato e la Camera dei Procuratori (rispettivamente di 12 e 8 membri) di durata
biennale, rinnovati ogni 6 mesi per un quarto mediante estrazione a sorte da una rosa di 120 nomi
(Seminario), la cui integrazione spettava al minor Consiglio. Al Senato spettava la conduzione degli
affari di politica generale e, ad alcune condizioni, poteva esercitare anche certi poteri giudiziari,
mentre la Camera era titolare delle competenze finanziarie e, per quello che qui interessa,
dell’amministrazione dei beni demaniali.
I Consigli maggiore e minore uscirono rafforzati dalle leggi del ’76, vedendosi attribuiti
poteri più ampi rispetto al previgente assetto. Il Consiglio minore fu strettamente associato ai
Collegi Serenissimi per la trattazione degli affari di Stato più importanti (alleanze e dichiarazioni di
guerra, imposizione di nuove gabelle, modifiche costituzionali) in relazione alle quali era garantito
dalla necessità di raggiungere un quorum per l’approvazione delle proposte dei Collegi di 4/5 o
2/3. Il resto del territorio regionale compare solo indirettamente per l’elencazione dei vari uffici
periferici210.
Nel 1576 gli uffici territoriali erano divisi tra uffici maggiori (destinati ai patrizi ascritti al
Liber nobilitatis), uffici minori (esercitabili da cittadini genovesi non ascritti) e uffici intermedi (cui
potevano ambire uomini di entrambe le categorie), tuttavia tale distinzione non rifletteva una
gerarchia di poteri o una distribuzione di funzioni precisa. Nei decenni successivi alcune podesterie
furono elevate a Capitanati, per Sanremo e Albenga fu previsto l’invio di un Commissario patrizio
al posto del vecchio podestà (rispettivamente nel 1652 e nel 1663). Come ha osservato Assereto,
la riforma delle giurisdizioni periferiche, dipanatasi su un arco temporale di quasi un secolo, è
connotata da una scarsa organicità nel suo complesso poiché i singoli provvedimenti: «sono
diretti, di volta in volta, a risolvere problemi particolari; implicano via via un rimaneggiamento
Vedi P. CALCAGNO, Per la pubblica quiete. Corpi armati e ordine pubblico nel Dominio della Repubblica di Genova
(secoli XVI-XVIII), in Società e storia, 129 (2010), pp. 453-487.
210
Contenuta, unitamente alle procedure di elezione, ai capitoli 36 (De electione nonnullorum Magistratuum), 37 (De
Praefectorum nonnullarum Arcium qualitatibus) e 38 (De officiis conferendis in Cives non descriptos) delle leges novae
del 1576, cfr. Leggi nuove della Republica di Genova, con le dichiarationi e gionte, riposte a suoi luoghi, Genova, 1584,
pp. 85-96.
209
71
delle circoscrizioni territoriali e anche un abbozzo di dipendenza gerarchica al loro interno, ma il
tutto in maniera sconnessa, senza sforzi di ingegneria politica»211. Ai giusdicenti spettavano vari
compiti, dall’amministrazione della giustizia civile e criminale, al controllo delle spese e alla
riscossione delle imposte, tutti settori segnati da una generale – e comune agli Stati del tempo –
difficoltà a tradurre in essere le prescrizioni normative212.
Alla revisione degli uffici periferici si unì anche la creazione di due magistrature con
competenza territoriale estesa a tutto il Dominio. La prima in ordine cronologico fu la Giunta dei
confini, istituita nel 1587 e formata da tre membri dei Collegi in carica per un anno e che potevano
avvalersi di due dottori di collegio, un notaro e di “giovani d’isperienza et fedeltà” inviati nel
Dominio per la raccolta di scritture e atti. Era un organo permanente, con una chiara funzione
giurisdizionale esplicitata fin dal primo articolo, e al quale furono assegnati due compiti. Per un
verso essa doveva seguire tutte quelle “differenze” che contrapponevano la Repubblica ad altri
Stati o feudi confinanti, ma dall’altro:
«Averanno anco pensiero d’invigilare in tutte quelle provigioni, ordini, e diligenze, che possano esser utili alla
conservazione del territorio e giurisdizione della Repubblica e suoi confini […] Dovrà ancora aver carico, e cura di
diffendere sotto nome di Sindico della Repubblica le liti, e controversie che vertiscono, e vertiranno per caosa di
confini, o giurisdizioni, nelle quali la Repub.ca abbia interesse»213.
La funzione di vigilanza sugli atti “utili alla conservazione del territorio e giurisdizione”,
unita al dovere di prendere parte alle cause ogniqualvolta fossero stati in gioco interessi della
Repubblica, estese l’ambito operativo della Giunta anche verso l’interno dello Stato, poiché ad
essa si demandò la delicata missione di risolvere di ogni tipo di conflitto inter-comunitario
riguardante confini e giurisdizione. La formazione di un dominio regionale composito, a lungo
trascurato dall’amministrazione della capitale, poneva diverse difficoltà in ordine al recupero di
informazioni e atti sulle quali impostare un’efficace attività di governo e di organizzazione del
territorio. La legge dispose così la riunione di investiture feudali, sentenze e scritture di vario
Cfr. G. ASSERETO, La metamorfosi della Repubblica, cit., p. 19. Si noti che la differenza principale tra l’ufficio di
Podestà e di Capitano risiedeva nell’attribuzione dello ius sanguinis in materia criminale e nella possibilità di cumulare
la carica di Capitano con quella di Commissario contro banditi. Non casualmente l’erezione di Capitanati interessò
soprattutto quegli uffici sotto la cui giurisdizione ladrocini, rapine su vasta scala e scontri armati tra bande tardavano
ad essere repressi, come la Val Polcevera, la Val Bisagno, Recco e Rapallo.
212
Sull’ufficio di giusdicente della Repubblica genovese vedi anche O. CARTAREGIA, Il perfetto giusdicente: Tomaso
Oderico. Appunti per una storia dell’amministrazione genovese, in Miscellanea storica ligure, XII/2 (1980), pp. 5-58.
213
ASGE, Archivio segreto, 20.
211
72
genere in registri con lo scopo di conservare e rendere incontestabili, almeno quanto alla loro
efficacia, i titoli su cui poggiavano (anche) le pretese di esercizio degli usi civici214.
Il processo di riforma culminò con l’istituzione di una magistratura di controllo
sull’amministrazione dei centri periferici: il Magistrato delle Comunità. Tra il 1611 e gli anni ’20 il
Senato inviò dei Commissari a rivedere lo stato finanziario delle comunità, la popolazione
residente, le condizioni del patrimonio comunale. Appurato il perdurare di una serie di problemi
come l’alto indebitamento, la corruzione dei rettori e l’occupazione dei beni comunali, il governo
decise di creare un ufficio appositamente incaricato di provvedere alle istanze locali e smaltire un
contenzioso che per il Senato stava diventando ingestibile215.
Creato nel 1623 come organo temporaneo, il Magistrato era composto da cinque membri
eletti dai Collegi insieme al minor Consiglio inizialmente per trenta mesi e, a partire dal 1635, per
due anni, e fu costantemente rinnovato fino al 1797. La natura sperimentale dell’operazione
messa in campo si ricava, più che dalla durata temporanea, dall’iniziale, forte legame di
dipendenza con i Collegi di governo216. Dalla seconda metà del Seicento il Magistrato acquisì una
propria autonomia istituzionale provvedendo all’emanazione di diversi regolamenti e decreti che
Come ha ben spiegato Cortese, sentimento comune verso i documenti scritti in età intermedia era il sospetto: «lo
spettro della loro falsità era sempre in agguato; l’aspirazione delle parti era che intervenisse un’auctoritas a
corroborarlo e a renderlo “autentico”». Da qui anche la necessità di periodiche riconferme (cfr. E. CORTESE, Le grandi
linee, cit., p. 193). Su produzione di scritture e il ruolo dei cancellieri a Genova cfr. R. SAVELLI, Le mani della repubblica:
la cancelleria genovese dalla fine del Trecento agli inizi del Seicento, in Studi in memoria di Giovanni Tarello, vol. I,
Milano, 1990, pp. 541-609. Più in generale G. ALBINI (a cura di), Le scritture del comune. Amministrazione e memoria
nelle città dei secoli XII e XIII, Torino, 1998, oltre a P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti
scritte, Roma, 1991; A. GAMBERINI, Lo stato visconteo. Linguaggi politici e dinamiche istituzionali, Milano, 2005, pp. 3567. In altre realtà urbane la redazione di registri di iura riguardanti i beni comunali risaliva al basso medioevo, cfr. M.
VALLERANI, Il “Liber terminationum” del comune di Perugia (1291), in Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen
age-Temps modernes, 99 (1987), pp. 649-669; R. RAO, Beni comunali e governo del territorio nel Liber Potheris di
Brescia, in L. CHIAPPA MAURI (a cura di), Contado e città in dialogo. Comuni urbani e comunità rurali nella Lombardia
medievale, Milano, 2003, pp. 171-199.
215
Una prima inchiesta sui beni, redditi e spese di ciascuna comunità risaliva al 1531. Essa riportava anche il numero
delle teste (o dei fuochi) e i mestieri più praticati al fine di stabilire l’ammontare dell’avaria reale. Furono però escluse
le molte comunità che in quel momento si trovavano sotto l’amministrazione del Banco di San Giorgio. Che
l’istituzione del Magistrato costituisca la risposta alle tante problematiche emerse in quasi quindici anni di visite
commissariali è dichiarato dallo stesso preambolo della prima proposta: «Visto qualche cosa delle relationi loro, e
considerato il tutto, per sgravar le dette communità e luoghi di debiti, per quanto si può, e far che chi occupa beni
loro, glieli restituisca, e chi li resta debitori paghi, e chi ha maneggiato di conti, et in somma si sollevino esse Università
di molti carichi, ne quali si vedono immerse, e si diano quelli ordini che convengono, perché le cose loro siano ben
governate», ASGE, Archivio segreto, 1033, n. 228. Sull’istituzione del Magistrato oltre a G. BENVENUTO, Una
magistratura genovese, cit., cfr. G. ASSERETO, Amministrazione e controllo amministrativo nella Repubblica di Genova:
prospettive dal centro e prospettive dalla periferia; in L. MANNORI (a cura di), Comunità e poteri centrali negli antichi
Stati italiani, Napoli, 1997, pp. 122-126.
216
Il cancelliere del Magistrato deve infatti relazionare i Collegi ogni sei mesi sull’operato del Magistrato. Inoltre il
Senato può «delegar nel detto Magistrato, et espressamente appoggiarli cura di riveder li conti de Luoghi
convenzionati, poiché loro SIg.rie Ser.me per le molte occupazioni, non possono attenderli», ASGE, Manoscritti, 311.
214
73
testimoniano una sempre più penetrante vigilanza sull’amministrazione finanziaria dei luoghi
soggetti217.
Le funzioni del Magistrato delle comunità erano molteplici. In primo luogo doveva tenere
sotto controllo debiti pregressi, spese e entrate ordinarie e straordinarie di ciascuna comunità con
informazioni aggiornate, potendo procedere anche ex officio contro: «chi avrà amministrato, o
amministrerà per l’avvenire cure, e negozii publici delle Communtà, e luoghi predetti, e non l’avrà
reso legitimamente, e lealmente a giudicio di detto Magistrato». Doveva inoltre verificare la
spinosa materia dei censi, verificando la validità dei titoli di costituzione, la corresponsione degli
interessi e agevolandone l’estinzione, nonché costringere i debitori delle Comunità a saldare
quanto dovuto. Su un’altra questione annosa, quella delle spese superflue, si introdusse la
necessaria autorizzazione preventiva.
Per quanto concerne il governo politico della periferia, al Magistrato spettava l’incarico di
considerare: «se per il buon governo et amministrazione delle Communità, e luoghi, o alcun di loro
sii al proposito far alcuni nuovi ordini, o confermar quelli, che dalli detti Commissarii li sono stati
lasciati in tutto, o in parte, o riformar in qualche luogo il Governo delle dette Communità»,
potendo inoltre ordinare ai giusdicenti di convocare i Parlamenti locali per discutere delle
modifiche proposte dal collegio.
La gestione dei beni collettivi compare nel capitolare del Magistrato nei termini seguenti:
«Di più conoscendo, che alle dette Communità siino usurpati, et occupati indebitamente beni, terre, case, e
possessioni, così e domestichi, come salvatici, o altre qualsivoglian cose a loro spettanti, avrà facoltà, e cura di farglieli
restituire con pagamento de frutti, ove debbano pagarsi»218
L’attenzione del Magistrato si appuntò dunque sulla repressione delle usurpazioni
compiute a danno delle Comunità, per le quali il collegio aveva potestà di inquisire e condannare
gli occupatori alla restituzione. Il rito seguito era sommario, sola facti veritate inspecta, ed era
utilizzato anche dalla Giunta dei confini per i procedimenti di sua competenza. Nella ratio della
legge istitutiva vi è quindi un rapporto stretto tra buon governo locale, su cui il Magistrato si
impegnava ad esercitare uno specifico controllo, e gestione del patrimonio comunale: porre un
Cfr. G. BENVENUTO, Una magistratura genovese, cit., pp. 26-28, G. ASSERETO, La metamorfosi della Repubblica, cit.,
pp. 30-35.
218
ASGE, Archivio segreto, 1033, n. 228. La rinnovazione della legge istitutiva del Magistrato del 1635 introdurrà la
possibilità di appellare le sue decisioni sugli usurpi alla Camera: «dichiarando però, che chi si sentirà in ciò gravato,
possa aver ricorso agl’illustrissimi Procuratori, li quali possano provedere in ciò quello, che per giusticia stimeranno
convenirsi, per il quale ricorso però non si ritardi l’esecuzione della sentenza», ASGE, Manoscritti, 311.
217
74
freno agli eccessi di spesa e arginare il ricorso ai censi sgrava la pressione che da più parti si
indirizzava verso i beni comuni. Correlata era la questione delle liti che avevano per parte la
comunità, fattore di innalzamento della conflittualità locale e causa di ulteriori spese. Nel 1635 si
attribuì al Magistrato la cognizione di queste cause219.
Sul versante degli organi centrali, Genova non risulta disallineata rispetto agli Stati coevi.
Certo, il Senato rimase l’unico interlocutore ufficiale delle comunità, quale Principe della
Repubblica, ed è all’ombra di questa relazione che bisogna indagare l’operato delle due
magistrature sul territorio. Dal punto di vista delle fonti, non sorprende invece constatare una
minore ricchezza di atti normativi relativi alle comunaglie. La competenza a punire gli occupatori
dei beni attribuita al Magistrato esprimeva infatti una continuità con la linea politica espressa fino
a quel momento dai Collegi di governo. Consapevoli dell’inanità di imporre una regolamentazione
uniforme su una materia tradizionalmente lasciata all’autonomia comunitaria, questi si erano in
generale disinteressati dell’amministrazione dei beni delle comunità suddite. Fa eccezione la grida
approvata dai Collegi il 20 marzo del 1600. La legge si rese necessaria dopo che i Commissari
inviati nel Dominio avevano denunciato l’alto numero di occupazioni abusive, specie nel medio
levante. Il nucleo del testo disponeva:
«Presentendo il Serenissimo Sig. Duce, Ecc.mi SS.ri Governatori ed Ill.mi Sig.ri Procuratori della Republica di Genova,
che in alcuni luoghi del Dominio di essa Republica, cioè nelle communaglie di detti luoghi del Dominio, si è andato
roncando o bruggiando per seminare, poi ne stessi luoghi, e ciò senza licenza autorità né azione alcuna, e volendo lor
Ss.rie Ser.me provedere al indenità publica, e metter ordine tale, che nell’avenire non si comettano più simili cose, che
hanno risultato, o risultano in non mediocre danno e pregiudizio, così del publico, che del privato, per tanto da parte
di lor SS.rie Ser.me si statuisce, ordina, e proibisce che alcuno, sia chi si voglia, non possa roncare, né bruggiare, ne
boschi osiano selve di communalie spettanti così alla Camera della Rep.ca come alle Comunità del Dominio».
La pena ammontava ad un quarto del valore del danno «e di ogn’altra pena arbitraria a loro
Signorie Serenissime così di galera, come di bando»220. L’inciso sull’assenza di licenza per le diffuse
pratiche del “ronco” testimonia la consapevolezza del governo circa i rischi legati
all’appropriazione delle comunaglie non intermediata dagli organi comunitari, che poteva
generare – come in effetti generò – conflitti interni alle comunità. Da notare che la grida vietò
l’esercizio del diritto di semina successivo all’incendio controllato indistintamente per le selve
«Il detto Magistrato sii e resti Giudice delle differenze, che possano avere le Communità, tanto attive quanto
passive, quale avrà pensiero di non permettere, che si consumino in liti», ASGE, Manoscritti, 311.
220
ASGe, Magistrato delle Comunità, 514.
219
75
camerali e per le comunaglie delle comunità. Solo per i boschi appartenenti al demanio la Camera
emanò più decreti specifici. Tra molti ordini minori contro i danneggiatori, spicca la legge a stampa
del 1697, prorogata nel 1707 e ancora il 5 marzo 1714 per 10 anni. Accanto ai consueti divieti di
fare danni, rimuovere termini, causare incendi e realizzare fabbriche di carbone non autorizzate, si
sancì la responsabilità dei campari per gli illeciti commessi nei boschi affidati alla loro
sorveglianza221.
Pressoché assenti sono invece disposizioni di vasta portata in materia di acque interne. Se
si eccettua l’abbondante produzione di regolamenti e decreti dei Padri del Comune e della Camera
per l’acquedotto urbano di Genova e gli impianti idraulici, l’unico settore in cui il governo
intervenne fu quello della pesca in mare. La gestione di fiumi modesti, a carattere torrentizio, fu
dunque interamente rimessa alle comunità nelle forme che si esamineranno in seguito.
Se si confronta la grida del 1600 con un più antico decreto conservato negli Statuti dei
Padri del Comune di Genova, rubricato Ne terre Communis approprientur, si possono notare
importanti differenze. Il decreto tardo-medievale vietava la terminazione o divisione di «terris
communibus vel communagiis» e il riconoscimento da parte dei magistrati del comune o del
districtus di scritture o atti relativi al frazionamento. Tali fondi «communes sint et perpetuo
remaneant»222. Il tassativo divieto di appropriazione operava per le ipotesi di divisione stabile
delle comunaglie, mentre gli incendi di porzioni di bosco erano necessari per avviarvi delle colture
temporanee. La prassi delle occupazioni tardo cinquecentesche dimostrò però che tramite il ronco
si tendeva a trasformare stabilmente la destinazione del territorio silvestre, alterando il rapporto
tra proprietà privata e proprietà comune a vantaggio della prima. Implicitamente con la grida del
1600 si ammise che la comunità potesse concedere parte dei propri terreni ai privati, facendo
venir meno la perpetuità della destinazione collettiva.
Al suo posto il governo preferì adottare un approccio volto a valutare caso per caso la
migliore soluzione da assumere per risolvere le piccole e grandi crisi legate ai beni comuni. Posto
che le magistrature centrali operarono per lo più in occasione dei conflitti, quando le proprietà
collettive risultavano o usurpate o non erano adeguatamente gestite dalle comunità, e che intorno
ad essi ruotavano di volta in volta interessi differenti, affidare ad un solo organo la cura di affari
così complessi sarebbe stato controproducente. La Repubblica divise allora tra Giunta e Magistrato
Le denunzie potevano essere comunicate a tutti i Giusdicenti del dominio, specialmente a quelli più prossimi come
il Governatore di Savona per il bosco locale e quello di Sassello, il Capitano di Chiavari per i boschi di Varese Ligure o il
Governatore di Finale per le selve ex-marchionali (dal 1714), ASGe, Camera di governo e finanze, 606.
222
C. DE SIMONI (a cura di), Statuto dei Padri del Comune della Repubblica Genovese, Genova, 1885, p. 268.
221
76
la cura del profilo più rilevante che emergeva da ogni istanza proveniente dal Dominio. Il Senato
stabilì volta per volta a quale ufficio specifico demandare il compito di provvedervi sovrapponendo
un interesse pubblico “statale” (la difesa dei confini statali, la vigilanza sui patrimoni locali, la
tutela della salute pubblica etc.) a quello perseguito dagli attori locali, interessi che non sempre
coincidevano. Se da un lato questa scomposizione conferma il noto “empirismo genovese” nel
governo dello Stato, dall’altro rivela quanto i dirigenti della Repubblica fossero consapevoli della
natura intimamente complessa dei beni collettivi.
77
Capitolo III
Governare terre contese: fonti e conflitti per l’utilizzo di boschi e pascoli
Questo capitolo propone alcuni case studies di gestione sul lungo periodo di risorse agrosilvo-pastorali da parte di alcune comunità liguri. Si è scelto di partire dall’individuazione delle
risorse e del relativo “bacino d’utenza” per la ricostruzione dei diritti d’uso e delle forme di
amministrazione dei beni attraverso i secoli perché, come spiegato in precedenza, è sul governo
del territorio che i poteri locali e centrali si confrontavano per definire spazi ed equilibri dello
sfruttamento delle risorse. Il territorio era il luogo in cui si dipanavano i conflitti interni o intercomunitari legati alla destinazione di quei beni e alla correlata ridefinizione dei diritti di proprietà
individuali e collettivi. Ciascuna delle due sezioni affronterà il tema degli usi civici da una
prospettiva dinamica, che tenga conto delle interrelazioni tra diritto di origine locale e centrale.
Per questo si è volutamente fatto ricorso a fonti prodotte a Genova e in periferia, perché solo dal
combinato disposto di queste fonti si può ricavare una disciplina complessiva di una risorsa e gli
scopi politici sottesi a determinate scelte.
1) COMUNAGLIE E QUESTIONI DI CONFINE IN VALLE D’ARROSCIA
1.a) Il capitanato di Pieve di Teco e la fisionomia delle comunaglie
Lo studio prende le mosse dall’esame di uno degli aggregati insediativi più importanti
dell’entroterra ligure della riviera di Ponente, vale a dire l’insieme di comunità situate lungo la
valle del torrente Arroscia, alle spalle della pianura di Albenga, che avevano in Pieve di Teco il
centro principale. Tale scelta è giustificata per diversi motivi.
In primo luogo il territorio di Pieve si snoda alle falde delle prime, alte cime delle Alpi
marittime, situato in una posizione strategica lungo una vallata che conduceva da Albenga verso
Ormea e il Piemonte. Venduto dai signori di Clavesana al comune di Genova tra 1384 e 1386, il
capitanato pievese fu teatro di diverse azioni militari e cambi di mano durante il travagliato secolo
78
XV, finché Genova non ne cedette l’amministrazione al Banco di San Giorgio in attesa della
stabilizzazione della situazione politica con la fine delle guerre d’Italia223.
Retto da un capitano genovese tratto dall’ordine patrizio, era a tutti gli effetti una
circoscrizione di confine. Eccettuato il versante orientale, verso il contado di Albenga, la
giurisdizione pievese confinava per il resto con Pornassio, posseduto in parte dalla Repubblica e in
parte dai signori Scarella; a sud con Rezzo (dei Clavesana), Cénova, Lavina e S. Bartolomeo (dei
signori del Maro e cedute nel 1575 al Duca di Savoia), Vellego, Marmoreo, Ubaghetta, Montecalvo
e Casanova Lerrone (dei signori Della Lengueglia), mentre a occidente Caprauna e Alto (dei signori
Cepollini), Aquila d’Arroscia e Gavenola (appartenenti ai Del Carretto di Zuccarello). Ciò contribuì
ad aumentare il tasso di litigiosità intercomunitaria per l’accesso a boschi e pascoli condivisi tra
comunità vicine, dando luogo ad un contenzioso anche molto aspro e duraturo.
Il capitanato di Pieve si presenta poi come una circoscrizione amministrativa complessa,
composta da due compagini distinte (le ville superiori e inferiori). Il capoluogo formava con altri
centri una delle due castellanie delle ville inferiori. Di essa facevano parte anche Vessalico, Cartari,
Siglioli, Lenzari, Gazzo e Gazzetto. Nel complesso con 2250 persone circa era la frazione più
popolosa. La seconda castellania delle ville inferiori aveva come perno il borgo di Ranzo, che con
Borghetto di Acquatorta (Borghetto d’Arroscia), Ubaga, Costa Bacelega e Degola giungeva a
contare circa 1800 abitanti. Sotto la dicitura “ville superiori” erano invece ricompresi il quasi
abbandonato insediamento di Teco, dove era sito il castello prima della rifondazione clavesanica
degli anni ’30 del Duecento, Acquetico, Trovasta, Trastanello, Armo, Moano, Nirasca, Lovegno,
Ligazorio, Muzio e Calderara per circa 1950 abitanti224. Tale sub-articolazione del capitanato
rifletteva i legami di solidarietà politica e di condivisione di beni comunali in essere tra le comunità
Cenni di storia del borgo di Pieve in P. GUGLIELMOTTI, Ricerche sull’organizzazione del territorio, cit., in particolare pp.
101-106; J. COSTA RESTAGNO, Le villenove del territorio di Albenga tra modelli comunali e modelli signorili (secoli XII-XIV),
in R. COMBA, F. PANERO, G. PINTO ( cura di), Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti
comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), Cherasco-Cuneo, 2002, pp. 271-306; R. MUSSO, Il dominio
degli Spinola su Pieve di Teco, e la valle Arroscia (1426-1512), in Ligures, 1 (2003), pp. 197-214. Già in possesso dal
1453 della Corsica, a fine Quattrocento il Banco ricevette Lerici (1479), Sarzana (1484) con i rispettivi contadi. Durante
le convulse vicende delle guerre d’Italia, furono affidate al Banco anche Ventimiglia (1514), Pieve e Levanto (1515). Il
Doge, consapevole dell’ostilità degli uomini d’Arroscia nei confronti dei Fregosi, ritenne più prudente affidarne
l’amministrazione al Banco finché, per l’onerosità delle spese, questo non restituì tutti i possedimenti liguri alla
Repubblica nel 1562. La bibliografia su San Giorgio difetta però di studi sul suo governo delle comunità locali, si
segnala solo la parziale ricostruzione di G. DE MORO, Ventimiglia sotto il banco di San Giorgio 1514-1562, Pinerolo,
1991.
224
I dati relativi agli abitanti sono riferiti agli anni ‘10 del Seicento, quando fu redatta la Descrizione di luoghi e terre
appartenenti alla Ser.ma Repubblica di Genova, cfr. M. P. ROTA, Una fonte, cit., pp. 69-71.
223
79
interessate, oltre a costituire un fronte di azione comune contro il borgo di Pieve per il riparto
delle imposte.
Le comunità pievesi disponevano di numerosi beni usati collettivamente, economicamente
più redditizi e quantitativamente più estesi nell’alta valle, rispetto alle comunaglie delle ville
inferiori225. Si riscontra una notevole eterogeneità di siti compresi nel generico termine di
comunaglie. Numerosi i boschi, che potevano essere costituiti da vegetazione minuta e di scarso
valore o da faggete e castagneti. Diffuse le terre seminate stagionalmente e usate poi per la
segatura del fieno, e in misura minore le terre incolte. Per fare qualche esempio, Acquetico
possedeva due appezzamenti importanti, uno misto, boschivo (faggi e castagni) e seminativo e il
secondo di boscaglia minuta e di faggi. La comunità aveva anche un terreno (le «chiazze di Theco»)
utilizzato prevalentemente per il pascolo. Armo e Trastanello possedevano in comune i boschi e i
prati detti della valle Orsaira, alquanto estesi. Se per le ville superiori le risorse agro-forestali
costituiscono talvolta l’unica voce d’entrata, per quelle inferiori spicca la partecipazione ai ricavi
prodotti dai mulini di Vessalico.
I censimenti di inizio Seicento classificano le comunaglie in base alla comunità di
appartenenza. Ciascuna di esse disponeva quindi di propri beni comuni, dai quali erano
solitamente esclusi gli uomini degli altri villaggi, anche se appartenenti alla medesima
giurisdizione. La comunione indivisa su risorse naturali e beni artificiali tra Pieve e i centri minori
dell’alta valle aveva infatti cessato di esistere nel 1491, quando gli uomini di Teco, Acquetico,
Trovasta, Trastanello, Armo, Moano, Nirasca e Lovegno si radunarono al cospetto del Podestà di
Pieve Giuliano Castagnola per porre termine alle liti e alle controversie e: «dividere an non cum
hominibus dicti loci Plebis, et Vallem, sive territorium Viozene, nec non omnes alias gabellas,
molendina, et res communiter hactenus possessas cum eis»226. Dalla divisione discese così la
potestà di ogni centro abitato a gestire in autonomia i propri beni e ad autoregolamentarne
l’utilizzo, come si vedrà nel prossimo paragrafo.
Il territorio di Viozene citato era il più importante bene comune del capitanato227. Posto
aldilà del Tanaro e del torrente Negrone, l’altopiano di Viozene è delimitato dalle vette dei monti
Marguareis e Mongioie e si presentava come:
ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 134 v-157.
ASGe, Giunta dei confini, 94.
227
Il nome “Viozene” pare derivare dalla tribù dei Liguri Vogenni, abitanti le regioni montane poste tra Liguria e
Piemonte sud-occidentale, cfr. F. BOCCHIERI, Pieve di Teco. Territorio, storia, arte, riuso, Udine, 1993, p. 102. Nello
225
226
80
«Un territorio campestre alpino e seminativo, nominato Viozena, distante dal Borgo diece miglia, qual circonda miglia
30 in circa, confinato all’oriente dal territorio d’Olmea, all’occidente dal territorio della Briga, al mezo di, dal fiume
Negrone, e Tanagro, et alla Tramontana dal territorio del Mondevio, Freboza, et Olmea nel qual Territorio li Contadini
delle suddette Ville sogliono seminare, e condurre i loro bestiami a pascere nei tempi estivi, e vi hanno molti alberghi,
o sia tetti, nei quali habitano in detti tempi estivi et alcuni anco vi si governano all’invernata»228.
Le dimensioni ragguardevoli del sito ne facevano la principale zona di pascolo dell’intero
complesso della valle Arroscia ma anche il territorio più conteso da pievesi e ormeaschi per ben
cinquecento anni.
1.b) I diritti d’uso delle comunaglie
Alla molteplicità delle risorse collettive si associava un’ancor più grande varietà di diritti
d’uso in capo agli uomini delle comunità pievesi. La ricostruzione di questi diritti è resa possibile
tramite l’incrocio di fonti diverse: gli statuti dei borghi di Pieve e Vessalico, i bandi campestri
approvati dalle comunità a partire dalla fine del XVI secolo, i censimenti patrimoniali di inizio
Seicento svolti dagli inviati genovesi. Il processo di parziale autonomizzazione politica e
amministrativa delle ville del capitanato, culminato con l’atto di divisione del patrimonio pubblico
del 1491, favorì infatti la costituzione di situazioni giuridiche differenti per ciascun centro, che si
trovò a quel punto nella condizione di dover gestire e difendere i propri beni collettivi.
specifico sulla pastorizia nell’alta val Tanaro vedi T. PAGLIANA, Gli alpeggi dell’alta val Tanaro e la vita dei pastori, in R.
COMBA, A. DAL VERME, I. NASO (a cura di), Greggi, mandrie e pastori nelle Alpi occidentali, Cuneo, 1996, pp. 149-178; per
la rilevanza del pascolo di Viozene e del controllo di altre risorse naturali nel conflitto signorile tardo-medievale che
oppose i Signori di Pornassio, di Garessio, di Ormea, i marchesi di Ceva e Clavesana – di cui in parte si è detto in
apertura, vedi G. COMINO, Economia, scambi e signoria locale. L’area alpina del Piemonte sud-occidentale tra XI e XVI
secolo, in F. PANERO, C. BONARDI (a cura di), Il popolamento alpino in Piemonte. Le radici medievali dell’insediamento
moderno, Torino, 2006, pp. 237-262. Più in generale, alcune note sulla pratica del pascolo sulle Alpi liguri sono offerte
da E. BASSO, Tracce di consuetudini pastorali negli statuti del Ponente ligure, in La pastorizia mediterranea, cit., pp.
133-153.
228
M.P. ROTA, Una fonte, cit., p. 72. Nel registro del Magistrato delle Comunità si indugia maggiormente sulla misura
dei suoi confini: «Una terra detta Viozena, che cominciando dal fiume Tanaré in la parte verso Grimaudo vi sono
canelle 1850 dal luogo detto le Colme, sin al colle delle Saline vi sono canelle n. 1955, dalle Saline sin’al fiume Tanager
in confine del Carlino canelle 1419, dal Carlino sin’al Grimaudo in confine della Giara canelle 1950», ASGe, Magistrato
delle Comunità, 835, c. 136 v.
81
Per il borgo di Pieve e le ville superiori gli statuti risalgono ad un anno imprecisato, tra il XVI
e il XVI secolo, e furono successivamente messi a stampa229. Il testo è sostanzialmente ricalcato sui
coevi statuti genovesi, senza significativi adattamenti alle condizioni economiche e ambientali
locali. Non stupisce quindi che il solo articolo dedicato alla materia in oggetto sia il capitolo De his
qui arbores inciderint, vel terras intraverint alienas, molto simile all’omologo della capitale230. Per il
complesso delle ville inferiori vigevano invece gli Statuta villarum inferiorum del 1513, approvati
dal Banco di San Giorgio il 18 dicembre 1514231. Il contenuto di questo testo presenta una
maggiore vicinanza con le peculiarità del territorio, dedicando alcuni capitoli anche ai beni
comunali.
La comparsa dei bandi campestri rispose quindi a diverse esigenze. In prima istanza
occorreva mettere per iscritto norme integrative di un dettato statutario o lacunoso (come per
Pieve di Teco) o non più attuale. Un secondo motivo pare risiedere nelle conseguenze
dell’occupazione militare del 1625-26. Non appare fuori luogo ipotizzare che l’evento bellico abbia
contribuito ad innalzare il numero degli episodi di pascolo o taglio illecito, alterando l’equilibrio
agricolo della zona, come espresso dal preambolo di alcuni bandi approvati nel decennio
successivo232. Inoltre il costante transito delle greggi dirette a Viozene e la presenza di proprietari
terrieri e di bestiame originari di comunità vicine appartenenti al Ducato di Savoia, come Cènova o
Lavina, giustificarono un generale aggravio delle sanzioni per i danni campestri, di cui si parlerà
ancora.
Tornando ai diritti d’uso, dalle fonti ricaviamo quattro temi importanti: la sopravvivenza di
comunioni indivise, la natura giuridica delle bandite, la disciplina dello ius pascendi conciliato con
altri usi, i diritti esercitabili in particolare a Viozene.
Pieve di Teco tentò di dotarsi di nuovi statuti, sia civili che criminali, a metà Seicento, ma senza successo per
l’opposizione di alcune ville del Capitanato, cfr. R. SAVELLI, Gli statuti della Liguria. Problemi e prospettive di ricerca, in
Società e storia, 83 (2009), pp. 3-33, in particolare pp. 17-24. La versione a stampa a cui si fa riferimento è quella
datata 1652 intitolata Statutorum civilium burgi Plebis, et Villarum Superiorum libri quatuor cum aliquibus capitulis
extraordinariis in fine, Genuae, apud Ioannem Mariam Farronum, 1652.
230
La riproduzione assume i tratti della copiatura nel primo capoverso, come si può notare confrontando il capitolo
degli statuti di Pieve e il capitolo XIV del 6° libro degli statuti civili genovesi sulle fattispecie di danno dato, cfr. Degli
Statuti civili della Republica di Genova, libri sei, Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1613, p. 189; Statutorum civilium
burgi Plebis, cit., p 130. Simili, pur con gli opportuni aggiustamenti, anche le disposizioni in materia di procedura.
231
Editi da B. BATTISTIN, Gli statuti di Vessalico del 1513, Imperia, 1990. Il testo, in sostanza una risistemazione di
materiali precedenti oggi ignoti, trovava applicazione espressa nei centri di Vessalico, Cartari, Ranzo. Ho consultato
anche il manoscritto conservato presso l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, Fondo Rossi, 27.
232
Nei bandi del 1634 di Armo si propone di «deputare persone ch’habbino facoltà di capitulare, ordinare e provedere
intorno a ciò quello sarà necessario et con authorità di poter terminare il domestico dal salvatico, come era inanti
delle passate guerre» (ASGe, Senato Senarega, 1939). La stessa preoccupazione di preservare le coltivazioni private
dal pascolo fu espressa dai capitoli di Pieve di Teco del 1632, da quelli di Moano del 1638.
229
82
Nonostante il frazionamento dei patrimoni citato, alcune ville mantennero situazioni di comunione
indivisa o di condivisione dei diritti d’uso. Alcuni fondi di Calderara presentano ad esempio la
caratteristica di essere aperti agli usi di semina degli uomini di Lenzari233. Armo e Trastanello
possedevano in comune i boschi e i prati detti della valle Orsaira, alquanto estesi234. Anche il
territorio di Viozene fu diviso nel 1491 in due lotti, identificati con i toponimi Rataira e Grimaldi235.
Il primo fu assegnato alle comunità di Acquetico e Trovasta e l’altro a Moano e Calderara. A loro
volta i due lotti sarebbero stati divisi dal Podestà di Pieve per ripartire tra gli uomini delle varie
località l’effettivo godimento, qualora non avessero voluto conservare i pascoli indivisi, tenendo
conto del “peso” di ciascuna villa in base ai registri d’estimo236. I casi di promiscuità erano quindi
nettamente minoritari: in generale la fruizione delle comunaglie era legata alla residenza in uno
specifico borgo o villa.
Sia l’inchiesta del 1611, sia gli statuti di Vessalico e molti bandi campestri citano le bandite
o comunque l’atto del “bandimento” dei terreni comunali. A Vessalico si trovavano cinque
bandite, Lenzari disponeva di un terreno detto “Selvago” «la qual terra è posseduta in commune»,
mentre altre due bandite di semina (il Quarto sottano della chiazza e i Laghi) erano messe in
affitto. Pieve di Teco possedeva un bosco (la “Bandiazza”) mentre ad Acquetico erano banditi i
boschi comunali di Ancise. I nuovi capitoli campestri del 1629 introdussero la facoltà per i consoli
locali di nominare appositi custodi dei terreni banditi237. La villa di Calderara proibì integralmente il
pascolo nelle bandite comunali e nei castagneti durante il periodo della fruttificazione, senza
eccezioni né per i terrieri né per i forestieri.
L’istituto della bandita era diffuso nella Liguria di Ponente e nel Piemonte sud-occidentale.
Secondo gli statuti di Ormea sulle bandite della comunità, distinte dai prati privati, erano vietati il
pascolo e la raccolta di legname. «Herbagia seu bandita herbagii» per gli statuti di Lingueglietta
non potevano essere venduti a persone forestiere ed erano riservate agli uomini della comunità. A
Nello specifico gli uomini di Lenzari hanno espressi diritti di semina sui terreni detti Loveira e Peli curti, mentre altri
due (Oveghi e Beccarelli) sono goduti esclusivamente dai calderaresi. Soltanto la Chiazza del bosco genera un reddito
di 16 lire di Genova annue, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 145 v -146 r.
234
ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 141 r – 142 r.
235
Secondo Palmero le “alpi” costituenti l’altopiano di Viozene erano sette: Piano della Reijna, Mascaira, Pian
Grimaudo, Roschatto, Lontararsi, Alpe dell’Armella, Alpe di Pian Rosso, cfr. B. PALMERO, Alpeggi monregalesi nelle
relazioni territoriali di età moderna. Appunti di ricerca, in G. GALANTE GARRONE (a cura di), Le risorse culturali delle valli
monregalesi e la loro storia, Vicoforte, 1999, pp. 31-58, in particolare p. 39.
236
ASGe, Archivio segreto, 355.
237
Le Ancise erano costituite da castagneti coltivati e terre incolte. Il bando campestre del 1629 lasciò ai Consoli di
Acquetico la facoltà di bandirle per il consueto periodo (con le relative pene per chi vi avesse portato degli animali) o
di dar «libertà di pascere in detto territorio per beneficio universale impunemente», ASGe, Archivio segreto, 52 (RSL,
n. 2).
233
83
Cosio d’Arroscia i pascoli delle Alpi del Tanaro erano bandite a partire da maggio e protette da
appositi guardiani. A Diano numerose bandite identificate con precisione accoglievano le greggi
della comunità nei vari periodi dell’anno per il pascolo e la tosatura. I capitoli sull’erbatico di
Ventimiglia (1303) disegnavano diversamente lo ius pascendi a seconda dell’animale coinvolto,
assegnando a buoi e animali da macello bandite diverse da quelle delle capre ed escludendo dalla
possibilità di acquistare l’erbatico gli uomini di molte comunità limitrofe. A Triora la bandita
attribuiva il dominium herbae al titolare, il quale non poteva però impedire che fino a due buoi da
lavoro vi pascolassero in ogni periodo dell’anno238.
Le bandite compaiono anche in altre regioni italiane o straniere (Provenza e Alpi marittime
francesi)239. Le caratteristiche del territorio e i diversi modi di organizzazione dell’attività agropastorale rendevano le bandite differenti da una località all’altra, ma è possibile rintracciare alcuni
elementi comuni o, perlomeno, più ricorrenti. Anzitutto la bandita era un istituto di governo delle
risorse collettive a disposizione delle comunità locali, che in alcune realtà si trovò a concorrere con
il pascolo di Dogana regolato dallo Stato, come nel caso di Siena240. La bandita consisteva nella
concessione a titolo oneroso dello ius pascendi ad una platea di soggetti che non si identificava
sempre e necessariamente con l’intera comunità, potendo anche essere composta da un ristretto
numero di grandi allevatori. Le entrate così generate consentivano alla comunità di far fronte a
determinate spese correnti o al pagamento delle imposte determinate dallo Stato. Il diritto di
pascolo era quindi di natura obbligatoria e non reale, non trattandosi più di un uso civico, e i
capitoli rurali potevano escludere o conservare l’esercizio di altri usi collettivi sui fondi banditi
(semina, raccolta di legna, foglie etc.).
Per Ormea vedi G. BARELLI, E. DURANDO, E. GABOTTO, Statuti di Garessio, Ormea, Montiglio e Camino, Pinerolo, 1907,
pp. 172-199; Per Lingueglietta vedi gli statuti del 1434 di cui RSL, n. 585 editi da N. CALVINI, Il feudo di Lingueglietta e i
suoi statuti comunali (1434), Imperia, 1986, pp. 152-153; per Cosio d’Arroscia i capitula sono editi da R. G. GASTALDI,
Cosio in Valle Arroscia, cit., pp. 230-231 ma vedi RSL, nn. 329-331; per Diano RSL, n. 338, statuti editi da N. CALVINI,
Statuti comunali di Diano (1363), Diano Marina, 1988, pp. 232-240; i capitoli dell’erbatico di Ventimiglia in RSL, n. 1168
sono editi da N. CALVINI, Gli statuti inediti dell’erbatico di Ventimiglia (1303), in Rivista ingauna e intemelia, VII, (1941),
pp. 49-64; per Triora RSL, n. 1118, editi da F. FERRAIRONI, Statuti comunali di Triora del secolo XIV, riformati nel sec. XVI,
Bordighera, 1956, I, pp. 74-75.
239
Ben note sono le bandite di pascolo della Maremma, per le quali vedi A. DANI, Usi civici, cit., pp. 228-242; ma vedi
anche per le Marche, S. CHIRICI, Proprietà terriera e allevamento nella Valle dell’Ussita nei secoli XIV-XVI, in Studi
Maceratesi, XX (1987), pp. 165-198; per il nizzardo D. PERNEY, Une institution originale: les droits de bandite, Nice,
1978; M. ORTOLANI, Le droit de bandite dans le pays niçois - Etapes d'une réflexion, in Propriété individuelle et collective,
cit., pp. 111-130.
240
Cfr. O. DELL’OMODARME, La transumanza in Toscana nei secoli XVII e XVIII, in Mélanges de l’Ecole française de Rome.
Moyen age, Temps modernes, 100 (1988), pp. 947-969; D. CRISTOFERI, I conflitti per il controllo delle risorse collettive in
un’area di dogana (Toscana meridionale, XIV-XV secolo), in Quaderni storici, 155 (2017), pp. 317-347.
238
84
Perney ha tentato una ricostruzione del diritto di bandita alla luce dei diritti reali così come
disciplinati dal codice civile (usufrutto, servitù, superficie, uso), rilevando l’irriducibilità della
bandita ad uno o all’altro istituto. Questo non sorprende se si considerano le sue radici medievali,
aliene dalle astrazioni razionalistiche e pandettistiche dei secoli XVIII e XIX241. La bandita assume
invece una ben precisa fisionomia se la si inserisce nel contesto delle situazioni reali dell’età
intermedia, ove la scomposizione dei diritti in relazione alle diverse utilità offerte dai fondi era la
regola e la promiscuità dei godimenti in capo a diversi soggetti richiedeva strumenti giuridici
altrettanto flessibili. È insomma dal punto di vista degli strumenti “pubblicistici”, di governo del
territorio tramite la definizione dei diritti collettivi (riflettenti i rapporti socio-economici) che si
possono inquadrare storicamente le bandite, senza snaturarne la realtà storica242.
Le bandite presenti sul territorio del capitanato di Pieve di Teco erano chiaramente volte a
limitare il pascolo del bestiame in alcuni siti durante determinati mesi dell’anno. Titolare del
potere di dichiarare bandito un fondo era la comunità, tramite i propri rettori, ma il contenuto del
bando risulta variabile. Gli statuti di Vessalico ad esempio, nel prevedere le sanzioni per gli ufficiali
che avessero infranto il regime delle bandite, ammettevano che uno qualsiasi dei vari iura
esercitabili potesse essere oggetto di limitazione ed erano perlopiù concesse a titolo oneroso243.
Altrove, come ad Acquetico, le bandite interessavano soprattutto alcuni boschi ricchi di castagni,
ove si praticava però anche il pascolo degli ovini. Qui non era ammesso il pascolo dal 10 maggio
alla festa di S. Caterina (25 novembre) per proteggere la fruttificazione dei castagneti e la bandita
boschiva si associava ad un limite espresso al numero di capi che ciascuna famiglia poteva
possedere244. A Moano, secondo i bandi campestri del 1607, il diritto di pascolo era libero e
La classificazione è resa ancora più complicata dal fatto che nel nizzardo e altrove il diritto di bandita poteva
insistere indifferentemente su fondi comunali e privati ed era trasferibile dal concessionario ad un terzo.
242
Le bandite esprimevano dunque uno degli strumenti con cui si organizzò lo sfruttamento economico di territori
lontani spesso dai centri abitati e su cui incrociavano gli interessi di protagonisti diversi, dai singoli proprietari ai rettori
che amministravano i beni comunali, fino agli ufficiali del governo. Il problema della legittimazione dei diritti
possessori in un’area montana è affrontato da B. PALMERO, Regole e registrazione del possesso in età moderna.
Modalità di costruzione del territorio in alta val Tanaro, in Quaderni storici, 103 (2000), pp. 49-85.
243
La rubrica «De officialibus corrumpentibus banditas Communis» puniva i rettori e i campari di Vessalico, Cartari e
Ranzo, che avessero violato «aliquam banditam factam per homines alicuius ex locis praedictis de boscando, vel
stirpando, seu arrancando arbores grossas, et minutas, et de laborando seu lignizando […] et de herbagiis cum suis
bestiis» imponendo pene pecuniarie, IISL, Fondo Rossi, 27. Tale rubrica, qui trascritta solo in parte, non è presente
nell’edizione di Battistin.
244
La scelta di limitare il possesso delle capre (due nell’anno successivo all’approvazione e una sola nei 5 anni
seguenti) fu punto di discordia in seno al Parlamento di Acquetico, ma fu approvata ugualmente. Il motivo risiedette
nella insufficiente capacità dei terreni privati e comuni di accogliere un alto numero di capi: «In detta villa non vi sono
persone che possano pascolare ne i loro territorii e Possessioni salvo con danno d’altri particolari. Le terre communi
per il pascolo possono capire il n. 30 di pastori in circa di bestie, et ogni pastore di dette bestie resta di n. 50, e sono
dette terre capaci del numero suddetto per mesi tre e mezo in circa l’anno; il bestiame di detta villa in tempo
241
85
gratuito per i residenti e oneroso – perché occorreva aggiudicarsi un’asta – per i forestieri, che
potevano esercitarlo in una bandita loro riservata245. Le bandite di Calderara erano interdette a
tutti, residenti o stranieri246. La villa di Lovegno con i capitoli del 1624 assegnò ai consoli il poter di
proclamare bandite le comunaglie da giugno a novembre247. Nella Vessalico di inizio Seicento
quattro bandite erano affittate a titolo oneroso e una era destinata alla libera pastura del
bestiame degli abitanti248. Nel 1719 però la decisione presa dal Parlamento vessalicese di bandire
le capre e le pecore dal proprio territorio suscitò l’opposizione delle vicine ville di Lenzari e
Lovegno poiché l’assemblea, senza l’intervento dei loro rappresentanti, aveva stabilito che ovini e
bovini potessero pascolare soltanto nelle bandite comunali (Bandia, Castellasso, Chiaspola, Albarei
e Bottasso) pagando due soldi per le minute e quattro per le grosse. Anche in questo caso la ratio
consisteva nella protezione dei castagneti da maggio a fine novembre249.
Le bandite si presentano dunque come uno strumento necessario per le comunità pievesi
per contenere la pastorizia a fronte di un territorio che per la sua conformazione non si
dimostrava ideale per questo tipo di attività, ma che d’altra parte non poteva neppure essere
messa semplicemente fuori legge, a costo di causare un grave danno per ampi settori della
società. Le bandite costituiscono inoltre l’esatto contrario dell’idea hardiniana dell’accesso libero
ad una risorsa collettiva: il loro scopo era anzi quello di far convivere pratiche agricole
potenzialmente confliggenti, modulando diversamente oggetto del diritto (erba, terra, legname) e
soggetti titolari (affittuari anche stranieri, solo alcuni o tutti gli uomini della comunità o nessuno)
lungo le diverse stagioni dell’anno. La concessione onerosa o gratuita permetteva alle stesse di
andare incontro alla soddisfazione dei bisogni finanziari della comunità, come vedremo nel
prossimo paragrafo a proposito della gestione dei beni. La tutela dell’agricoltura locale, in
d’inverno secondo il solito si conduce alle marine, et in tempo d’estate sopra l’alpi di Viozena», ASGe, Senato
Senarega, 2061 (RSL, n. 4). Non risultano peraltro frequenti i conteggi svolti dagli ufficiali genovesi per conoscere
numero e qualità dei capi di bestiame posseduti dai propri sudditi, per comparazione cfr. S. BARBACETTO, Contare i
fuochi e gli animali. Sul peso economico dei beni comunali in Friuli al principio del Seicento, in Quaderni storici, 155
(2017), pp. 350-381.
245
L’incanto dell’erbaggio si teneva ogni anno sotto l’egida del console della villa, ASGe, Senato Senarega, 1733 (RSL,
n. 627).
246
ASGe, Senato Senarega, 1691, RSL, n. 186.
247
A Lovegno tutto il territorio campestre era bandito. Da giugno a novembre «non sia lecito ad alcuna persona di
detta Villa, e forastiera da essa condurvi a pascere alcune bestie minute, e capri. Questi però, se passaranno l’età d’un
anno, e non altrimente, sotto la medesma pena statuita di sopra a danno de forastieri per le terre del comune, e de
forastieri. Sia però lecito al detto Console, o sotto console pro tempore di disbandire la metà, o più, e meno gli parerà,
di detto territorio campestre, e di permetter il pascolo passata la festa di S. Bartolomeo conforme al solito». La
vigilanza era rimessa ad un camparo, ASGe, Senato Senarega, 1832, RSL, n. 602.
248
«La bandia del tono si affitta ogn’anno (L. 12); la Bandia del Comune (L. 70); un’altra zerbida (L. 200); un’altra detta
Bottazzo (L. 200)»; ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 147 r-v.
249
ASGe, Magistrato delle Comunità, 530.
86
particolare dell’ulivo e del castagno, influenzò l’esercizio del diritto di pascolo non solo sui fondi
privati ma anche su quelli comunali. Il bestiame, specie gli ovini, destinatari di restrizioni crescenti
tra il XVII e il XVIII, furono così via via allontanati dalla bassa valle Arroscia e sospinti durante
l’estate verso il pascolo d’altura a Viozene250.
Circa lo ius lignandi e lo ius colligendi delle castagne nei boschi comunali, poco si dice circa
le concrete modalità di esercizio. Molteplici le misure sanzionatorie contro i danneggiatori dei
castagneti, la cui piantumazione nei boschi comunali era gestita dalla comunità stessa. Nel silenzio
dei bandi si deve ritenere che il diritto spettasse agli uomini della comunità. I capitoli del 1599 di
Pieve di Teco, seguiti poi dai regolamenti di alcune comunità vicine, codificarono espressamente
uno dei c.d. “usi dei poveri”, cioè i diritti di raccogliere frutti (spighe, grappoli d’uva, castagne…)
sfuggiti alla raccolta del padrone o non ancora colti, per l’esclusivo uso personale in caso di
necessità251. Non sono da considerarsi usi civici veri e propri ma simili forme consuetudinarie di
servitù anomale si riscontrano in molte parti d’Europa252.
In chiusura un discorso a parte lo merita l’altopiano di Viozene, per il quale le principali
fonti per l’accertamento dei diritti collettivi sono un lodo pronunciato dall’arcidiacono di Alba
Bartolomeo e dal Marchese di Clavesana Ottone il 10 ottobre 1226 e i Capitula Viozene, di
Sulla coltivazione e gli impieghi del castagno nell’economia dell’Italia nord-occidentale, quale sostitutivo di altri
cereali, vedi almeno R. COMBA, Metamorfosi di un paesaggio rurale. Uomini e luoghi del Piemonte sud-occidentale (XXVI secolo) Torino, 1983; B. ANDREOLLI, M. MONTANARI (a cura di), Il bosco nel medioevo, Bologna, 1988, D. BACINO, Le
terre del castagno nel Piemonte sud-occidentale (secoli XII-XVI), in Economia, società e cultura nel Piemonte
bassomedievale. Studi per Anna Maria Nada Patrone, Cavallermaggiore, 1996, pp. 155-170. Per spunti comparatistici
circa il ruolo di statuti e bandi rurali per la tutela dei prodotti agricoli locali e la disciplina delle bandite, senza alcuna
pretesa di completezza, vedi oltre al già citato lavoro di Dani A. CORTONESI, Ruralia. Economie e paesaggi del medioevo
italiano, Roma, 1995, in particolare pp. 69-120; D. NOVARESE, “Pro jure pali”. Tutela delle colture ed esigenze del
pascolo in Sicilia, fra legislazione regia e norme consuetudinarie (secoli XII-XV), in La pastorizia mediterranea, cit., pp.
119-132; F. L. SIGISMONDI, La disciplina del pascolo e i “danni dati” negli statuti laziali della prima età moderna, ivi, pp.
276-295; A. CROSETTI, Potere e territorio: eclissi dell’autonomia comunale. I bandi campestri nel territorio albese tra XVII
e XVIII secolo, in M. ORTOLANI, O. VERNIER, M. BOTTIN (a cura di), Pouvoirs et territoires dans les États de Savoie, Nice,
2010, pp. 341-352.
251
L’uso era riconosciuto solo per gli stranieri, tenuti al solo risarcimento del danno, a patto che non si fossero
introdotti nei campi in presenza del proprietario, perché in tal caso si sarebbe trattato di furto: «Li viandanti forastieri
cioè alieni da questa giurisdittione che alle volte per stanchezza entrano nelle terre per mangiare un poco di uva o
fichi per rinfrescarsi e non fanno danno notabile siano esclusi dalle suddette pene e solamente restino ubbligati
all’emendare il danno per loro fatto», ASGe, Senato Senarega, 1703, RSL, n. 745. Tale articolo fu trasposto quasi
integralmente nei successivi capitoli di Muzio del 1606 (ASGe, Senato Senarega, 1691, RSL, n. 652). A Calderara la
raccolta di castagne dei non abbienti era garantita dal divieto di pascolo nei castagneti dalla festa di S. Bartolomeo (24
agosto) a quella di S. Andrea (30 novembre), vedi ad es. i capitoli del 1601 in ASGe, Senato Senarega, 1691 o quelli del
1612 in ASGe, Senato Senarega, 1733.
252
Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 340-350.
250
87
probabile origine duecentesca e sicuramente antecedenti l’atto del 1491253. Dopo la
frantumazione del dominio Aleramico e la crescita demografica degli ormeaschi, la contesa con i
pastori di Pieve per l’accesso a Viozene trovò una sua prima composizione con il lodo pronunciato
nel 1226254. Gli arbitri stabilirono che gli uomini di Ormea potessero utilizzare il sito di Viozene nei
mesi invernali (da metà ottobre a metà aprile), lasciando invece la terra libera per il pascolo estivo
ai pievesi, ai quali fu inoltre riconosciuto il diritto di far bandire i pascoli dai signori di Ormea e la
facoltà di transitare attraverso il territorio di Ormea per due giorni e due notti con le mandrie
senza recare danno ai campi. Nel 1340 un nuovo arbitrato non apportò mutamenti di rilievo255. Ciò
conferma l’assoluta ordinarietà nel panorama giuridico medievale della compresenza di
eterogenei diritti d’uso sulla terra facenti capo a soggetti – anche collettivi - differenti. Una
situazione, questa, che caratterizzò in generale la regione delle Alpi marittime, dove la persistenza
di usi civici promiscui si rinviene anche tra le comunità dell’alta Provenza e del Piemonte sudoccidentale256.
I capitoli furono quindi redatti in attuazione del primo arbitrato e riservavano agli abitanti
nella castellania di Teco che “facevano foco” e a coloro che possedevano un pezzo di terra a
Viozene pur senza essere residenti lo ius pascendi. Il diritto dei secondi era però subordinato al
pagamento di una taglia. Il pascolo era praticato durante la stagione estiva entro termini stabiliti:
ammontava a sessanta soldi la pena per gli animali condotti al di fuori dei termini. Vedremo tra
poco che la titolarità del diritto fu poi estesa anche ai residenti di altre comunità. Il diritto di far
legna era ammesso per gli usi domestici, mentre era proibita la pratica del roncamento. Notevoli
sono gli sforzi compiuti dai capitoli per conciliare la pastorizia con le coltivazioni, protette dai
Copie dei capitoli in ACSPDT, Libro dei decreti antichi della Pieve; ASGe, Giunta dei confini, 94. Stando ad
un’allegazione forense settecentesca che fa riferimento a non meglio precisati «statuti di detta Castellania di Teco
sopra il detto territorio di Viozenna, suoi Gastaldi, e Custodi», il testo potrebbe risalire al 1292.
254
Cfr. J. DURANDI, Delle antiche contese de’ pastori di Val di Tanaro e di Val d’Arozia e de’ politici accidenti
sopravvenuti, in Mémoires de l’Académie impériale des sciences, litérature et beaux-arts de Turin, 1809-1810, Turin,
chez Felix Galletti imprimeur de l’Académie impériale, pp. 187-260, in particolare pp. 203-208.
255
Il testo citava le facoltà di «pascare et boschare per Viozena a fossattu Regini usque ad cullum Montis Nigri et a
Tanagro usque punta Alpium, sine aliqua exatione et banno», senza quindi attribuire la proprietà del sito ad uno dei
due contendenti. Una copia del lodo in ASGe, Archivio segreto, 355. Sulla sentenza vedi cenni, oltre che nel già citato
lavoro di Durandi, in G. COMINO, Economia, scambi e signoria locale, cit., p. 243. Nel 1340 la sentenza pronunciata da
Raffaele Doria confermo la potestà di Pieve di Teco di bandire Viozene ai sensi del lodo duecentesco, precisando che
nelle vesti del soggetto passivo dovevano ora considerarsi i Marchesi di Ceva, succeduti ai signori di Ormea. L’erbaggio
di Viozene, vale a dire il diritto di pascolare i bestiami, fu attribuito ai pievesi, con esclusione tanto dei Marchesi di
Ceva – ai quali però spettava una parte delle decime riscosse da Pieve - quanto degli uomini di Ormea. Soprattutto,
oltre a confermare il diritto di lavorare e coltivare il sito, Doria concesse ai pievesi la facoltà di creare dei campari ad
hoc per Viozene, ASGe, Archivio segreto, 2.
256
Cfr. J. LASSALLE, La propriété collective dans le haute Roya à travers les règlements de contentieux territoriaux (XIIee
XV siècles), in Propriété individuelle et collective, cit., pp. 25-46.
253
88
danni causati da pecore, ovini e capre con sanzioni pecuniarie di varia portata. Il diritto di semina
era ammesso in una zona specificamente individuata e al suo interno gli eventuali appezzamenti
indivisi dovevano essere lavorati rispettando i diritti del comproprietario257.
1.c) La gestione dei beni tra necessità finanziarie e giurisdizionali
Se la conformazione dei diritti collettivi nel capitanato pievese tese a proteggere le
comunaglie (specie i castagneti) dalle esternalità negative causate del pascolo estivo, l’analisi della
gestione delle risorse può indicare quali furono le dinamiche politiche legate alla loro
amministrazione.
Risulta centrale sia per i borghi principali di Pieve e Vessalico, sia per le ville minori, il ruolo
del Parlamento comunitario, formato dai residenti maschi. A queste assemblee spettava il compito
di approvare i bandi campestri, eleggere i campari e approvare gli atti di disposizione delle
comunaglie proposti dai consoli.
Per quanto concerne i bandi campestri, il contenuto era determinato integralmente in sede
locale, con sporadici interventi del Capitano genovese. I controlli svolti dal Senato e talvolta dal
Magistrato delle Comunità dopo il 1623, riguardarono solitamente la moderazione delle pene e la
precisazione dei limiti giurisdizionali dei consoli delle ville. Ad esempio le pene stabilite dai capitoli
campestri di Calderara furono tutte ridotte della metà dal Senato258, mentre più puntuali furono i
correttivi apportati ai bandi di Armo del 1641, dove i Governatori relatori Giacomo Saluzzo e
Giobatta Imperiale proposero al Senato di modificare l’età minima per incorrere in responsabilità, i
diritti di pascolo sulle proprietà private e pubbliche, la giurisdizione del Capitano di Pieve per le liti
intorno all’uso dell’acqua e l’età minima per il giuramento dell’accusa259.
Anche sugli atti dispositivi furono i Parlamenti il luogo istituzionale preposto all’adozione
delle decisioni e dell’individuazione dell’interesse pubblico prevalente. La messa all’asta dell’erba
di un pascolo, o la vendita del diritto di taglio in un certo bosco comunale erano questioni che
coinvolgevano l’intera comunità e dovevano pertanto essere trattate nel consiglio “largo”, in
Era infatti vietato «laborare, vel seminare, seu laborari, vel seminari facere in Viozena in terra, que sit de
consortibus pro indiviso, sine voluntate consortium, tunc quilibet ex consortibus possit et debeat habere suam partem
laborerii pro illa parte, quam in terra haberet, sive eo quod teneretur restituere partem aliquam illi, qui dictam terram
laboraverit de laborerio suo», ASCPDT, Libro dei decreti antichi, cc. 9 r-v.
258
ASGe, Senato Senarega, 1733.
259
ASGe, Senato Senarega, 2040 (RSL, n. 108).
257
89
ossequio al principio secondo il quale «Quod omnes tangit, ab omnibus abprobari debet»260.
D’altronde non mancarono illeciti o sotterfugi per far passare surrettiziamente alienazioni o
locazioni svantaggiose per la comunità.
I verbali delle sedute del Parlamento di Pieve di Teco e i censimenti patrimoniali di inizio
XVII secolo permettono di ricostruire una linea di tendenza circa la gestione dei beni e di trovare
conferma del fatto che nel novero dei beni comunali rientravano risorse sottoposte a differenti
vincoli di indisponibilità, mai codificati una volta per tutte. Emerge poi con chiarezza il peso non
trascurabile degli introiti derivanti dallo sfruttamento patrimoniale delle risorse collettive per i
bilanci di diversi centri del capitanato. Il bosco pievese della Bandiazza era concesso a livello alla
comunità sabauda di Cénova per un canone di 45 lire, mentre la terra dei Croxi era in affitto ad
alcuni privati, per un introito complessivo di 103.13 lire. Acquetico dall’insieme delle bandite,
affitto dei prati e vendita dei frutti (legnami e castagne) ricavava lire 366.13.4. Per le ville inferiori
spicca invece la partecipazione ai ricavi prodotti dai mulini di Vessalico. Alla comunità principale,
che vi partecipava per la metà, rendeva 700 lire annue al momento del censimento. Siglioli e
Cartari ricavavano 290 lire (con una quota di ¼)261 mentre Lenzari e Gazzo 145 lire262. Su cifre più
basse, ma in scala ugualmente significative, si attestano le entrate per i mulini da grano posseduti
in comune da Bacelega, Borghetto d’Arroscia, Arancio (Ranzo) e Ubaga263.
La locazione periodica di boschi e pascoli risulta praticata fin dal 1576, ma è altamente
probabile che fosse una prassi molto più risalente264. Apposite delibere di vendita di legna tratta
dai boschi comunali o di pascoli furono approvate allorquando particolari situazioni debitorie
Sul principio del quod omnes tangit cfr. G. ERMINI, Il principio «quod omnes tangit etc.» nello Stato della Chiesa del
Seicento (secondo il pensiero di G. Battista De Luca), in Rivista di storia del diritto italiano, 1976, pp. 279-300; A.
CAMPITELLI, «Plures ut singuli, plures ut universi»: alle origini del principio maggioritario, in A. CIANI, G. DIURNI (a cura di),
Esercizio del potere e prassi della consultazione, Città del Vaticano - Roma, 1991, pp. 55-68; A. DANI, Usi civici, cit., pp.
389-398.
261
Nel loro caso tuttavia l’affitto di «una terra prativa, boschiva, zerbida e castagnativa detta li Collarei, et Albarei»
rende ben 394 lire, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 148 r. La stessa relazione chiarisce che in realtà solo la
località Collarei è oggetto di locazione, poiché quella degli Albarei «non si vende, ma gl’huomini di dette Communità
se ne servon per pascolo».
262
Anche in questo caso si registrano usi promiscui tra comunità diverse. Gazzo infatti ha un bosco detto la Chiazza
posto entro i confini di Lenzari. Il terreno Salvago, che verosimilmente è il medesimo descritto tra i possessi di Lenzari,
presenta analoghe caratteristiche di indisponibilità («non si suole vendere né appigionare, ma vi pascono li bestiami
degli huomini di detta Communità»). Al contrario le terre delle Chiazze sottane sono affittate ogni anno per 36 lire di
Pieve, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. .154 r.
263
I mulini comuni si trovano uno a Borghetto e un altro a Bacelega e dalla sommaria descrizione si apprende che
erano muniti di tre ruote ad acqua ciascuno. I ricavi per Borghetto ammontano a 88.3 lire, per Ubaga 47 lire, per
Ranzo lire 189 e Bacelega 200 lire, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, cc. 149 r, 151 v, 156 r, 157 r.
264
Il contraente veniva scelto mediante asta con rilancio immediato dell’offerta. L’incanto del 28 settembre 1576, in
cui fu locata «herba Coste Sorie pascanda iuxta solitum», è il più antico attestato dai registri delle deliberazioni di
Pieve di Teco, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1575-1582, c. 55 r.
260
90
costrinsero ad adottare misure ad hoc. Nel 1606 il Parlamento di Pieve decise di liquidare entro
cinque anni un debito di 1.600 scudi, da reperire tramite la vendita all’asta del legname del bosco
comunale e i pascoli di Rabina – precisando che quelli di Costa Soria erano già stati affittati265. I
dibattiti in seno al Parlamento pievese non mancarono. Nel 1614, in occasione del nuovo affitto
dei pascoli delle località Rolandi e Costa Soria per un anno, furono tre dei quattro Consoli a
proporre che: «dicte herbe et pascuorum locationem libera facere, ad magis utile Communis, ut in
eis ire pascare possint ac bestis nullis exclusis». Ad essi rispose il quarto console Giuseppe Bonello
sostenendo che «è più utile del Comune locarle perché non gli vaddino capre, né buovi a menor
prezzo, perché crescerano li arboscelli»: si procedette quindi come di consueto266.
La situazione non migliorò durante il Seicento, quando Pieve e le ville circostanti dovettero
far fronte alle conseguenze economiche delle guerre contro il Ducato di Savoia. Le spese
conseguenti furono affrontate facendo ricorso alla stipulazione di contratti di censo, garantiti
anche dai beni comunali, o direttamente alla vendita di alcuni beni, soprattutto boschi267. La
situazione emergenziale in cui versavano alcune comunità rese più frequenti i tentativi di aggirare
le procedure legali per lo svolgimento delle vendite, come vedremo nel prossimo capitolo.
L’amministrazione delle comunaglie della bassa valle rientrava dunque tra le normali
competenze degli organi di governo locali. Il discorso invece cambia per la gestione dell’alpe di
Viozene. Sull’altopiano si dirigevano anche le greggi di Ormea e dalla fine del XVI secolo si appuntò
sul suo controllo il lungo conflitto tra Repubblica genovese e Ducato sabaudo del quale si parlerà
meglio nel prossimo paragrafo. Per ora basti dire che un sito di pascolo così lontano dal centro
principale, condiviso tra più comunità e oggetto di una contesa secolare richiedeva accorgimenti
supplementari, sotto i profili delle modalità di utilizzo che delle figure di controllo.
ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1606-1618, cc. 3 r.-5r.
ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1606-1618, cc. 220 r-v. A Settecento inoltrato il bosco della Rabina si trovava però
in pessime condizioni. Bartolomeo Volpe, atteso che «altro quasi più non restavi che scogli, che niente frutta»,
propose ai Consoli di Pieve e Acquetico di concedergli il sito di Rabina in enfiteusi per tre generazioni, dandogli facoltà
«d’aggregarlo, e piantarvi con darli allevati, alberi quarantacinque di castagna». Il canone pari a quattro lire genovesi
sarebbe stato corrisposto solo a partire dal 12° anno, ma i rappresentanti delle ville superiori decisero di svolgere
un’asta pubblica per la concessione a livello del sito, ASCPT, Libro dei Parlamenti delle Ville superiori di Pieve, cc. 57 rv.
267
Vedi ad es. la delibera del 20 febbraio 1628 per la costituzione di un censo di 440 scudi in ASCPDT, Libro delle
deliberazioni 1627-1637, c. 7. Dopo la guerra del 1625, la Repubblica intraprese l’ammodernamento delle mura del
borgo di Pieve tra il 1626 e il 1628 e, come di consueto, il finanziamento dell’opera avvenne anche mediante la
creazione di una nuova imposta il cui riparto tra borgo e ville diede luogo ad un lungo contenzioso. Cenni in E. LUSSO,
Territorio, infrastrutture e tutela militare. I confini sabaudo-piemontesi in età moderna, in G. ASSERETO, C. BITOSSI, P.
MERLIN (a cura di), Genova e Torino. Quattro secoli di incontri e scontri, Genova, 2015, pp. 187-214.
265
266
91
L’altopiano era diviso tra le comunità in una zona di pascolo e una destinata alla semina di
legumi, segale e altri ortaggi. In particolare la campagna di Viozene era suddivisa in numerosi lotti
(gli sciorti, volgarizzazione del latino sortes) oggetto di locazioni pluriennali. L’assegnazione era
gestita dai consoli del borgo di Pieve e delle ville in possesso di una porzione del sito. Sui
conduttori gravavano diversi obblighi: pagare la camparia, costruire baracche o rifugi laddove non
ve ne fossero e conservare e migliorare le condizioni di quelli esistenti, seminare e consegnare una
quota variabile di stare di segale. I fondi erano consegnati ai vincitori per la festa di S. Michele (8
maggio) e i contraenti potevano indicare un fideiussore a garanzia del pagamento della quota di
segale dovuta. Gli appezzamenti venivano assegnati inizialmente uno per uno, mediante il
toponimo identificativo almeno fino al 1611268. Nel 1634 si procedette invece a locare per otto
anni la campagna ad un unico soggetto per 1.250 lire, con le consuete clausole. L’affitto della
campagna in un unico lotto richiedeva certamente disponibilità maggiori di capitale ma rendeva
anche più semplice l’amministrazione del sito per il Comune, e fu praticata fino alla fine del
Settecento.
Dal punto di vista istituzionale, ciò che rende peculiare il caso di Viozene è la previsione di
una magistratura apposita per la gestione del pascolo e delle altre attività agricole: il gastaldo. Di
questo antichissimo ufficio di derivazione longobarda, sottoposto nel tempo a variazioni notevoli
quanto a statuto disciplinare, si trovano tracce anche in altre zone di montagna, come in alcune
carte di regola trentine, dove il gastaldo svolgeva le funzioni di giudice e curava la concreta
applicazione degli ordini delle Regole269. A Viozene operavano due gastaldi, uno per il borgo di
Pieve di Teco e l’altro per le ville superiori, competenti con pari funzioni ciascuno per la propria
Secondo Calvini a Viozene si contavano ben 73 sortes, cfr. N. CALVINI, A. CUGGÈ, Gli antichi percorsi del sale. Dalla
Riviera di Ponente al territorio piemontese. Commercio e contrabbando, Imperia, 1995, p. 87. I contratti di locazione
conservati in ASGe, Giunta dei confini, 94 identificano col toponimo 23 sortes, per le quali erano dovuti tributi in
segale pari a 265 stare.
269
Vedi ad esempio la carta di Regola di Arsio e Brez del 1603, dove il gastaldo era giudice delle differenze in secondo
grado, dopo la prima pronuncia dei regolani. Gli “Ordini e capitoli della regola di Santa Maria di Binde di Mori” del
1616 più diffusamente enunciavano che i gastaldi dovessero amministrare le entrate della regola e difenderne le
ragioni, sovrintendendo al rinnovo delle cariche e all’aggiornamento periodico dei residenti aventi diritto, cfr. F.
GIACOMONI (a cura di), Carte di regola e statuti delle comunità rurali trentine, vol. II, Milano, 1991, pp. 365-375 e 525530. In Liguria tracce del gastaldo si rinvengono nei Libri iurium: come amministratore del castello di Baiardo a metà
Duecento (E. PALLAVICINO (a cura di), I Libri iurium della Repubblica di Genova, Genova, 2002, vol. I/8, p. 293), a Parodi
Ligure, cfr. S. DELLA CASA (a cura di), I Libri iurium della Repubblica di Genova, Genova, 1998, vol. I/4, n. 751), a Celle,
Varazze e Albissola tra i giudici civili nella convenzione con Genova del 1343, M. LORENZETTI, F. MAMBRINI (a cura di), I
Libri iurium della Repubblica di Genova, Genova, 2007, vol. II/2, n. 49).
268
92
parte di altopiano270. I gastaldi venivano entrambi eletti in occasione della festa di S. Michele. I
quattro Consoli di Pieve, a tenore degli statuti antichi, dovevano eleggere una persona che:
«Regat ius, et iustitiam in burgo Plebis pro territorio Viozennae de insultis, damnis, et guastis, tam pro nemoribus,
blavis, segetibus, et pecudibus, et omni alio damno quod fiat, et pro tempore fiet in dicto territorio Viozennae, qui
vocatur Gastaldus ut moris est, et qui regat ius, et iustitiam secundum morem, usum et ritum capitulorum Viozennae,
et qui Gastaldus habeat Camparium qui sit executor, et executiones faciat prout semper fecerunt»271.
La presenza di un ufficiale munito di funzioni giurisdizionali assicurava una
regolamentazione di dettaglio per l’esercizio della semina, della caccia e della pesca,
sovrintendendo alla transumanza delle greggi e alla riscossione di gabelle e pedaggi. Contro le
sentenze civili e criminali pronunciate dal gastaldo era ammesso appello i consoli del borgo o delle
ville superiori e, in ultima istanza, al Capitano giusdicente. Il 15 agosto il gastaldo delle ville
superiori, e il 24 quello di Pieve, emanavano i loro proclami272. Si segnalano l’obbligo di
registrazione presso il cancelliere della quantità e qualità delle sementi impiegate e dei frutti da
raccogliere. Nulla poteva infatti essere asportato dalla campagna viozenese senza autorizzazione
del Gastaldo, neppure per uso personale. Inoltre gravava l’obbligo sui conduttori del bestiame di
denunciare al magistrato il numero dei capi portati in altura, pena di confisca degli stessi273. Erano
infine proibite, salvo espressa licenza, la caccia e la pesca nel Tanaro.
La funzione del gastaldo è dunque rilevante come autorità di regolazione e controllo
dell’accesso all’altopiano. Se per le comunaglie della bassa valle era sufficiente l’operato dei
campari in esecuzione dei bandi campestri, la delicata posizione di Viozene richiedeva
Il Casalis cita un atto del 10 maggio 1268 per l’istituzione dell’ufficio di gastaldo a Pieve di Teco, cfr. G. CASALIS,
Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, vol. XV, Torino, 1847, p. 46.
Incerta la data di creazione di quello delle ville, ma di certo, se non contestuale, ess avvenne poco dopo il 1491. La
delicatezza dell’incarico era tale che nel 1622 tre consoli delle Ville superiori scrissero a Genova avvertendo che se si
fossero verificate discordie tra le medesime ville, sarebbe stata danneggiata la stessa giurisdizione della Repubblica,
ASGe, Senato Senarega, 660.
271
Statutorum civilium, cit., p. 134. Le regole per l’elezione del gastaldo sono contenute nelle c.d. “Nuove leggi della
Comunità”(collocabili all’incirca negli anni ’70 del XVI secolo) e in una successiva riforma del capitolo De officialibus et
eorum electione del 1589, cfr. ASGe, Archivio segreto, 15; ASCPDT, Libro dei decreti antichi, cc. 3 r-v.
272
ASGe, Giunta dei confini, 94 conserva più copie di proclami aventi date diverse, ma senza che nel corso del tempo vi
siano state innovazioni.
273
L’accesso a Viozene era subordinato al pagamento di un pedaggio, dovuto tanto dai pastori che dagli agricoltori, a
pena di 10 lire genovesi.
270
93
un’organizzazione più complessa274. Il gastaldo doveva anche ribadire ogni anno il dominio
genovese su Viozene, in risposta alle pretese degli ormeaschi. Anch’essi infatti disponevano di un
loro gastaldo, la cui legittimità ad emanare ordini per il pascolo e l’agricoltura era ovviamente
contestata dai suoi colleghi pievesi275. Le trasformazioni che tra XVII e XVIII secolo interessarono
l’utilizzo dei beni comuni in valle Arroscia dipesero infatti, in misura maggiore o minore, dalle liti di
confine che Pieve e le comunità del capitanato sostennero con i vicini insediamenti sabaudi. Fu in
questo frangente che il governo genovese si ingerì nella gestione delle risorse comunitarie,
sovrapponendo agli interessi delle comunità locali il peso dell’interesse pubblico statale.
1.d) Le comunaglie pievesi viste da Genova: i diritti collettivi come strumento di governo del
territorio e difesa dei confini
Dopo aver ricevuto dal Banco di San Giorgio il dominio sulla valle Arroscia nel 1562, la
Repubblica si trovò a dover governare un territorio segnato da tensioni e conflitti mai del tutto
sopiti. Oltre a mediare le ordinarie questioni di confine tra comunità, da Genova si guardava con
preoccupazione alla catena montuosa del Tanaro, per l’intenzione sabauda, più volte manifestata,
di impadronirsi di Viozene e Pornassio per poter unire con una strada franca il porto di Oneglia (dal
1575 enclave dei Savoia entro il territorio genovese) con Ormea e il resto dello stato. Le liti per i
diritti di pascolo tornarono allora utili per le reciproche affermazioni di sovranità su questa zona di
confine. Lasciando sullo sfondo gli aspetti “geopolitici” della questione viozenese, già trattati in
altre opere, preme in questa sede porre in risalto due aspetti: la capacità della Repubblica di
manipolare all’occorrenza i diritti collettivi in vista del raggiungimento di un assetto territoriale
L’ufficio di camparo fu un’istituzione flessibile, modificata a seconda delle esigenze nel corso del tempo e sulla
quale si appuntarono le attenzioni del governo centrale per rendere più deterrente la polizia rurale in una delicata
zona di confine. Nel 1611 si levarono reclami dalle comunità contro il tentativo di investire della cognizione per le
accuse campestri il Capitano di Pieve, in rottura delle precedenti consuetudini e degli statuti che assegnavano tale
competenza ai consoli. Un secondo tentativo fu condotto dal Commissario generale per la visita ai confini della riviera
di Ponente Giovanni Battista Raggio, nel 1651, che propose al Senato di sostituire i sei campari stipendiati dalla
comunità con una squadra composta dal bargello, sei famigli e un cavallero a pari stipendio, con facoltà di eseguire le
sentenze di condanna. Il Senato approvò la relazione l’undici settembre 1653 ma considerato che nel 1714 furono
approvati dal Parlamento di Pieve nuovi capitoli per i campari, verosimilmente non se ne fece nulla, ASGe, Archivio
segreto, 38, 254.
275
Emblematica è l’annuale revoca dei proclami sulla pesca, la semina e la caccia emanati dal gastaldo ormeasco in
occasione della festa di S. Bartolomeo, sostituiti dai proclami dei gastaldi liguri sulle stesse materie, ASGe, Giunta dei
confini, 94.
274
94
ottimale e la trasformazione nel corso del tempo degli usi civici in prove del dominium e quindi
della sovranità statale sul territorio276.
Va preliminarmente osservato che la restrizione dell’esercizio degli usi civici ai terrieri fu
una costante dei bandi campestri approvati dalle ville del capitanato277. Questo progressivo
irrigidimento del requisito della residenza, se comune a moltissime altre realtà locali, trova una
sua ragion d’essere anche nella situazione peculiare di molte comunità della valle, adiacenti a
villaggi o feudi ricadenti sotto sovranità diverse da quella genovese. Le comunità della Valle
Arroscia cercarono di escludere i sudditi del Duca piemontese dal godimento dei loro beni
collettivi per prevenire questioni giurisdizionali tra i rispettivi Stati278.
Tra le controversie che si svolsero in valle, una particolarmente significativa ebbe come
contendenti la comunità genovese di Acquetico e la sabauda Cènova nel 1685 per un terreno di
pascolo sito entro i confini di Acquetico (l’Alpetta) ma sul quale i cenovini erano soliti portare gli
animali a pascolare e tagliare il fieno da lungo tempo. La lite prese avvio nel 1683 quando i
campari di Acquetico istruirono processi per danno campestre contro i pastori di Cènova. Dopo
aver assunto sommarie informazioni, Il 22 marzo 1684 il Capitano di Pieve Giulio Cesare
Usodimare illustrò alla Giunta dei confini i termini della controversia:
«I prati suddetti sono situati nel territorio di Acquatico dominio di VV.SS. Serenissime e che restano posseduti dalli
huomini di Cenova, per il raccolto dell’herbe estive. Pretendono però detti d’Acquatico, che dopo il raccolto dell’erbe
estive non possano quei di Cenova più pascolare nelli detti prati in tempo di autunno, ed inverno, ma bensì, che detto
Cfr. P. PALUMBO, Un confine difficile. Controversie tra la Repubblica di Genova e il Regno di Sardegna nel Settecento,
Torino, 2010, pp. 17-25, 53-69, 175-196 e relativa bibliografia. Sulle problematiche di confine con la provincia nizzarda
vedi B. DECOURT-HOLLENDER, Les limites du Comté de Nice et de la Republique de Gênes au XVIIIe siecle: affermissement
de la frontière politique et défense de la «raison territoriale» des communautés, in M. ORTOLANI (a cura di), Pouvoirs et
territoires dans les États de Savoie, Nizza, 2010, pp. 181-190.
277
Nello specifico, Calderara introdusse un divieto di custodia di bestiame appartenente a soggetti forestieri fin dalla
prima redazione dei bandi campestri nel 1601, sotto pena di tre lire per ogni giorno e per ciascun capo (ASGe, Senato
Senarega, 1691). La già menzionata riserva di pascolo per gli stranieri in vigore a Moano dal 1607 era giustificata dagli
intrecci famigliari tra moanesi e sudditi sabaudi («E perché la comodità che danno le persone del luogo a forastieri per
parentella, amicitia, o guadagno di condur bestie a pascolare nel territorio di Moano apporta grandissimo danno […]»)
ASGe, Senato Senarega, 1733. Nel 1623 fu poi introdotto l’obbligo di segnare gli animali per distinguerli dagli altri,
ASGe, Senato Senarega, 1822, RSL, n. 629.
278
Emblematico un processo per l’illecito taglio di fieno in parte nel prato comune di Valdebelle e in parte su fondi
privati a Calderara. Un certo Gregorio Tomati di Lavina, comunità suddita del Duca di Savoia, aveva lasciato in custodia
una decina di bovini ad un uomo di Calderara, in violazione dei locali bandi campestri che proibivano espressamente la
custodia di bestiame appartenente a sudditi ducali e il taglio di fieno e alberi nel territorio della villa pievese. In forza
di tali norme, il Console comunicò al Capitano di Pieve di voler procedere. La Giunta dei Confini, investita della lite,
propose ai Collegi di ordinare al Capitano, una volta accertati i fatti, di sequestrare e vendere i bovini del Tomati,
illecitamente stanziati a Calderara, a titolo di risarcimento dei danni patiti dai privati. La lite è in ASGe, Archivio
segreto, 76.
276
95
pascolo spetti solamente ad essi d’Acquetico […] Ho avuto notizia, che in Mendatica, e Pornassio, vi fossero qualche
pastori prattichi di simile affare; e quelli fatti chiamare ho da essi inteso, che prima della passata campagna dell’anno
1672, quei di Cenova godevano, e possedevano liberamente e pacificamente i detti prati, tanto nel raccolto dell’erbe
estive, quanto autunnali»279.
A regolare i rapporti giuridici tra le comunità era intervenuta nel 1472 una sentenza che
aveva costituito il diritto dei cenovini di «gaudere et usufructuare» dei prati «sub modis formis, et
conditionibus quibus soliti sunt et non ultra» in cambio di una taglia di 4 soldi per ogni
quadrimestre pagata ai rettori di Acquetico. Inoltre Cènova non avrebbe potuto cedere il proprio
diritto se non agli uomini di Acquetico. Visto il perdurare della tensione per il desiderio dei
cenovini di incrementare le proprie (scarse) terre di pascolo, la Giunta dei confini inviò in valle
Arroscia il cancelliere Gio. Batta Garello, munendolo dei necessari poteri di arbitrium per
comporre la causa. È interessante notare che nella lettera di istruzioni per Garello la Giunta non
ritenne di ergersi a difesa di un uso civico della propria comunità soggetta - tutt’altro che provato
con certezza – ma considerò prioritario conservare in mani genovesi la strada per Pornassio, che
passava vicino alla zona contesa. Per raggiungere l’obbiettivo Garello avrebbe potuto anche
modificare i diritti di pascolo, andando incontro alle pretese di Cènova:
«Hor si come per quello riguarda il pascolo in tutto l’anno nel detto terreno Alpetta goduto da quei di Cenova, resta di
poca consideratione l’accordarglielo per più de i mesi sei, et anche quando abbisognasse permetterglielo in tutto
l’anno, così di non leggiero momento ci resta non dilatarle il confine per tutte le ponderationi, che vi sono, non
solamente di non ampliare a detta Villa, o sia particolari il territorio, ma più per quella di unirsi al detto sentiero, o sia
straditto, che porti alla strada della Briga. Sarà per tanto luogo, che voi con la vostra destrezza rimostrando a quei di
Cenova le ragioni, che vi sarebbero di non accordarle il pascolo, se non dalli sette di Marzo, sino alli otto settembre
andiate giuocando opportunamente la carta dell’arbitrio di più mesi, accordandoglielo per più tempo, et anche per
tutto l’anno se abbisognasse, ne limiti però del terreno sudetto da noi desiderati, cioè sino al principio della strada,
che curvando porta verso la Briga, e non sino al sentiero più inoltrato verso il territorio di Pornassi, come essi
pretendono, avertendovi però in questa parte ad esser inflessibile ad alcun partito, che ne meno per un palmo si entri
oltre la detta strada, che di sopra vi habbiamo espresso»280.
Lo ius pascendi di cui erano titolari le due comunità dal sette marzo all’otto settembre cessava di sussistere a
vantaggio di Cènova a partire dal giorno dopo, lasciando agli uomini di Acquetico la fruizione esclusiva dell’Alpetta
durante l’autunno e l’inverno, ASGe, Archivio segreto, 89.
280
ASGe, Archivio segreto, 89.
279
96
Garello concluse con successo la sua missione di arbitro delimitando il territorio
dell’Alpetta secondo le direttive della Giunta e modificando i diritti d’uso del pascolo in senso
estensivo per Cenova rispetto alla situazione a quo. In particolare il compromesso elaborato
riconobbe a Cènova un diritto esclusivo di utilizzo dell’Alpetta limitato a ventidue giorni (8
settembre – 1 ottobre), mentre da ottobre al 7 marzo sarebbe stata posseduta in comune281.
Composta la lite, il governo si adoperò perché la terminazione non restasse solo sulla carta. A
fronte del rischio che gli uomini di Acquetico abbandonassero il pascolo sull’Alpetta, con un
decreto del 16 giugno 1685 la Camera di finanza ordinò: «a qualunque persona di detto luogo, che
ha, o averà per avvenire più di sei bestie lanute di qualsivoglia sorte, sia obligato a condurle o farle
condurre a pascolare in dette alpi tanto nel corrente quanto negli anni avvenire, sotto pena della
perdita delle bestie sopradette, e d’ogni altra a noi arbitraria».
Il modo di procedere della Giunta e l’operato di Garello dimostrano che i diritti collettivi
erano considerati utili strumenti di controllo del territorio e di governo delle risorse collettive, da
assegnare ai soggetti coinvolti tramite un processo di negoziazione. Un processo nel quale
entravano anche interessi di più ampio respiro, giudicati prevalenti dal Senato. In vita della tutela
di questi interessi (nel caso di specie, la conservazione della strada) era ammessa anche la deroga
arbitraria delle consuetudini, considerate invece intangibili dagli attori locali.
Nel caso di Viozene il governo dovette affrontare una situazione molto più spinosa: le
aggressioni ai pastori e i furti di bestiame erano molto più frequenti rispetto ad altri siti di frontiera
del capitanato e le manovre dei piemontesi per impadronirsi dell’altopiano erano più evidenti. Già
nei primissimi anni del Seicento, e ancor di più dopo le guerre del 1625 e del 1672, occorse
disporre una scorta armata per la salita al pascolo282. La perdurante conflittualità con gli ormeaschi
si riverberò negativamente anche sulla redditività della risorsa. Il rischio di incorrere in gravi
incidenti rese infatti meno appetibile l’aggiudicazione dell’appalto del pascolo e della campagna
viozenesi, tanto che tra il 1630 e il 1632 il Parlamento di Pieve di Teco dovette gestire la
«Restò in oltre concertato, che solamente dentro i confini sovra accennati, cioè dal detto colletto sino alla via, che
conduce alla Briga, e non oltre havessero gli huomini di Cenova il ius di mietere, e raccogliere i fieni alla forma di detta
sentenza dalli sette di marzo sino alli otto di settembre, e che rispetto alle herbe autunnali dovessero queste spettare
alli istessi di Cenova per tutto settembre d’ogni anno privamente a quei di Aiguetico, e dal primo ottobre sino a i sette
di Marzo tali pascoli restassero communi tra le dette Università». La desistenza a proseguire con le accuse campestri e
la restituzione dei capi sequestrati segnò la fine delle ostilità e permise a Garello di apporre i termini divisori, ASGe,
Archivio segreto, 89.
282
Nel 1603 l’ordine di scortare il bestiame fu dato dal Capitano di Pieve, cfr. ASGe, Senato Senarega, 1659. Nel 1630
fu invece il Parlamento di Pieve di Teco ad approvare la proposta di far scortare le greggi a spese della comunità,
ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1627-1637, c. 46. Nel 1673 fu rivolta analoga richiesta alla Giunta dei confini, ASGe,
Archivio segreto, 81.
281
97
risoluzione del contratto per la manca previsione di un’assicurazione pubblica su parte delle greggi
condotte283. I conduttori lamentarono la difficoltà di riscuotere i canoni dai locatori delle sortes e
molti affittuari delle campagne iniziarono a sub-locarle ad uomini di Ormea, eludendo nei fatti il
dettato della legge del 1637 che proibiva l’alienazione per mezzo di contratto, testamento,
donazione, di qualsivoglia immobile posto ai confini dello Stato284.
Lo spopolamento del pascolo metteva a repentaglio la giurisdizione della Repubblica
sull’altopiano. Fu in quest’ottica difensiva dunque che il Senato sollecitò i giusdicenti delle
circoscrizioni vicine a Pieve (Andora, Albenga) affinché costringessero i pastori delle loro comunità
a portare le loro greggi a Viozene, estendendo così il godimento del pascolo anche a soggetti
appartenenti a comunità che non vantavano diritti riconosciuti su di esso, in forza delle sentenze
medievali ancora pienamente in vigore alla fine del XVIII secolo. Viozene diventò dunque il pascolo
“di sfogo” delle greggi dell’attuale ponente savonese285.
La controversia con Ormea e il Re di Sardegna per Viozene rimase irrisolta fino alla
Rivoluzione. La Repubblica ancorò a dei diritti collettivi formalizzati nel XIII secolo la legittimità del
suo dominium sul sito e, di conseguenza, degli atti giurisdizionali compiuti dagli ufficiali di Pieve.
Emblematiche le Osservazioni sopra la controversia di Viozenna di Gio. Agostini Ricci stilate nel
1726 per la Giunta dei Confini:
«Non controvertivasi dagl’Olmetani nanti de Signori Arbitri il dominio, né la giurisdizione di Viozenna, ma unicamente
lo gius di pascervi, e legnarvi per tutto l’anno, quale venivale proibito dagl’uomini della Pieve perloche essendo
diverso lo gius di servitù dal dominio, atteso che chi pretende aver servitù in qualche predio, confessa quegli non esser
L’assicurazione gravante sulle casse comunali avrebbe coperto un terzo delle pecore, mentre per i restanti due terzi
sarebbero stati responsabili i conduttori delle Alpi e i padroni dei capi. A seguito del respingimento della proposta, i
conduttori Antonio Lengueglia e Augusto Gandolfo comparvero in Parlamento personalmente per chiedere la
risoluzione, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1627-1637, cc 48 v. – 49 r. Una seconda proposta di assicurare almeno la
metà delle bestie portate a Viozene fu avanzata e approvata nel 1632, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1627-1637, cc.
106 r.-v.
284
Dopo la guerra del 1672 il conduttore della campagna di Viozene, che si era aggiudicato l’appalto per 1000 lire,
chiese una riduzione del canone per la mancata raccolta degli ortaggi dovuta agli eventi bellici e alle aggressioni dei
piemontesi, ASCPDT, Libro delle deliberazioni 1659-1679, cc. 173-174. La legge sull’alienazione dei possessi ai confini
in ASGe, Archivio segreto, 1021.
285
La direzione impressa dal Senato trovò terreno fertile nella politica ostile al pascolo caprino già intrapresa nel corso
dei Seicento dalle comunità interessate. Per il bando di Albenga ASGe, Senato Senarega, 2061; per Andora ASGe,
Senato Senarega, 1708; il bando di pecore e capre da Zuccarello in ASGe, Magistrato delle Comunità, 306. I consoli di
Pieve dovettero richiedere più volte al Senato di ordinare con proprio decreto ai pastori ingauni e andoresi la
transumanza a Viozene (ASCPDT, Decreti del Senato della Repubblica di Genova, cc. 282 r-v). Nel 1780 l’ingegner
Girolamo Gustavo, nella sua Annotazione sulla visita a Viozene rilevò che l’alpeggio accoglieva circa 3.000 pecore
provenienti dal genovesato (valli Arroscia, Andora e altri “luoghi circonvicini”) più 1.600 dalla valle d’Oneglia, ASGe,
Giunta dei confini, 96.
283
98
di sua spettanza, cum res sua sibi non serviat, venivano a confessare gl’Olmetani spettare questo pleno iure agl’uomini
della Pieve, quindi è che avendoli ristretto li Signori Arbitri questo preteso gius di pascere, e legnare dalla mettà di
ottobre, sino alla mettà d’Aprile dichiarorono nel restante tempo essere piena facoltà degl’uomini della Pieve il porre
in bando detto territorio di Viozenna ed essigerne le multe, atti sol proprii de veri Padroni, e che fan fede del loro
pieno dominio, e giurisdizione»286.
Termini come “pieno dominio” o “padroni” poggiavano chiaramente su fonti che tramite le
espressioni «boschare et pascare» esprimevano una mentalità proprietaria differente rispetto a
quella del XVIII secolo. Come ha notato Beatrice Palmero a proposito degli alpeggi promiscui tra
Briga, Pieve ed Ormea, le convenzioni (lodi, sentenze) relative alle contese sui pascoli promiscui si
trasformarono da semplici strumenti di difesa del territorio condiviso e di regolazione dello
sfruttamento – che non escludeva l’alternanza tra comunità diverse – in atti coerenti con le
esigenze di affermazione della sovranità, mediante la legittimazione di diritti gerarchicamente
ordinati. Il conflitto tra le comunità rurali faceva dunque emergere nodi di diversa natura
(economica, giurisdizionale, possessoria) che gli Stati provarono a sciogliere nell’ambito di una più
ampia politica di organizzazione dello spazio alpino, fondata anche sui diritti collettivi di utilizzo
delle risorse silvo-pastorali287.
La peculiare posizione dell’altopiano sconsigliava qualsiasi ipotesi di frazionamento e
privatizzazione. In termini di efficienza, il godimento collettivo assicurò nel tempo un ordinato
svolgimento delle attività pastorali della vallata e la produttività dei lotti messi a coltura, sui cui
redditi poggiò il sostentamento delle ville minori del capitanato. Dalle fonti risulta che solo gli
scontri con i pastori di Ormea e gli episodi bellici settecenteschi determinarono l’abbandono dei
terreni e la diminuzione di capi provenienti dal capitanato, senza che le modalità di gestione
incidessero negativamente sulla produttività di Viozene.
La memoria contiene una scorrevole analisi dei titoli fondanti il dominio ligure sull’alpe e la relativa decostruzione
delle argomentazioni piemontesi, ASGe, Giunta dei confini, 94.
287
Cfr. B. PALMERO, Alpeggi monregalesi, cit.; EAD., Usages et autorité du pâturage sur les montagnes liguropiémontaises (XVe-XXe siècles), in S. BERTHIER-FOGLAR, F. BERTRANDY (a cura di), La montagne: pouvoirs et conflits de
l’Antiquité au XXIe siècle, Chambéry, 2011, pp. 229-250.
286
99
2) IL BOSCO DI SANREMO
2.a) Le risorse forestali del Ponente ligure
Dalla seconda metà del Quattrocento le foreste italiane ed europee subirono un
inarrestabile ridimensionamento. La riduzione della superficie boschiva fu causata dal concorso di
svariati fattori, più o meno correlati tra loro: crescita della popolazione, estensione degli spazi
coltivati, maggiore utilizzo del legname per la cantieristica e l’attività artigianale, incremento del
pascolo. Già Braudel aveva constatato la cronica (e perennemente insoddisfatta) domanda di
legname da parte degli Stati cristiani al tempo di Filippo II. Più recentemente Williams, in uno
studio di global history sulla deforestazione, ha messo in luce come la crisi ambientale prodotta
dall’industrializzazione sia soltanto l’ultima tappa di un utilizzo massiccio delle foreste del pianeta
partito già durante l’età classica. Un dato costante attraverso i secoli è stato infatti il
disboscamento volto a soddisfare innumerevoli necessità, dal fare spazio ad un’agricoltura
estensiva, al rifornire di legname flotte ed eserciti, fino all’alimentare le prime industrie288.
Per la Liguria, è stato Massimo Quaini a porre in discussione il giudizio dato da Heers sulla
Liguria come regione senza boschi, dimostrando come in realtà le diverse foreste situate
prevalentemente a Ponente, sebbene anch’esse oggetto di pressioni crescenti da parte delle
comunità locali, riuscirono a rifornire comunque di legname i cantieri navali almeno fino al XVIII
secolo, quando la penuria di materia prima fu dichiarata apertamente289. La trasformazione dei
boschi liguri iniziata nel tardo medioevo portò alla diffusione del castagno e dell’oliveto e alla
sostituzione delle querce con i faggi. Sintetizzando questo processo, Diego Moreno ha usato
l’efficace espressione «bosco come manufatto» proprio per indicare una risorsa naturale
pesantemente modificata dall’uomo per i propri bisogni e allo stesso tempo in grado di prestarsi a
diverse forme di occupazione e utilizzo290. Le caratteristiche della microeconomia locale
influenzarono le modalità di sfruttamento dei boschi e, di conseguenza, anche le norme preposte
Pregevoli per sintesi e completezza le pagine di G. CHERUBINI, Il bosco in Italia tra il XIII e il XVI secolo, in Il lavoro, la
taverna, la strada. Scorci di medioevo, Napoli, 1997, pp. 95-114, in cui l’autore nota come l’intensificarsi della
legislazione di tutela forestale interessò tutti gli Stati italiani a partire dal primo Cinquecento. I dubbi espressi
dall’autore sul difficile accertamento dei diritti di proprietà e delle pratiche d’uso delle foreste e delle tecniche di
lavoro sono in parte stati risolti proprio dagli studi sui beni comuni. Lo studio del disboscamento su vasta scala a
partire dall’età antica è di M. WILLIAMS, Deforesting the Earth. From Prehistory to global crisis. An abridgement,
Chicago, 2006.
289
Cfr. M. QUAINI, I boschi della Liguria e la loro utilizzazione per i cantieri navali: note di geografia storica, in Rivista
geografica italiana, 75 (1968), pp. 508-537, contributo risalente ma ad oggi in sostanza insuperato.
290
Cfr. D. MORENO, Dal documento al terreno, cit., pp. 181-204; G. M. UGOLINI, Utilizzazione del bosco e organizzazione
territoriale, cit., pp. 99-108; O. RAGGIO, Norme e pratiche, cit., pp. 170-181.
288
100
alla loro disciplina. La presenza di numerose ferriere localizzate in zone specifiche (Sassello,
Masone, Finale dopo l’acquisto nel 1713) scoraggiò ad esempio l’estensione dei coltivi a danno
della superficie boschiva. Allo stesso tempo, se gli alberi utilizzati per “far carbone” erano castagni
– la cui coltivazione si era diffusa già a partire dal XVI secolo – ecco che si poneva l’ulteriore
problema di non eccedere nel disboscamento per non privare le popolazioni di un alimento
essenziale291. Non va tuttavia instaurato un nesso deterministico tra andamento delle attività
economiche locali e domanda di legname292.
La compresenza di diritti comunitari e feudali indusse Genova a promuovere una politica di
interventi mirati. Era però necessario conoscere precisamente lo stato delle selve sotto i profili
ambientale e giuridico. Per questo motivo nei primi anni del Seicento furono svolte diverse
relazioni sui boschi delle Riviere, che ci danno conto dei boschi di Taggia, Ceriana, Triora e
Badalucco. Altri importanti boschi si trovavano poi a Savona, a Sassello, sulla dorsale appenninica
ricadente sotto la giurisdizione del Capitanato di Voltri (il bosco d Ovada) e a Parodi Ligure in Oltre
giogo293. Dal punto di vista giuridico il quadro è senz’altro complesso. In sintesi si può dire che
accanto ai boschi “camerali”, situati nei dintorni della città (boschi di Ovada e Parodi, bosco di
Savona) acquisiti al dominio della Camera fiscale genovese e alla cui amministrazione furono
preposti alcuni Procuratori della Camera medesima, le altre selve, più lontane dal capoluogo,
furono al centro di un tentativo di acquisizione allo Stato compiuto solo in parte.
Le comunità ponentine infatti non rimasero immobili di fronte alle pretese di dominio
avanzate dal governo genovese. Baiardo, Taggia, Badalucco si opposero allegando il loro
antichissimo possesso sui boschi, non di rado confermato da precedenti sentenze e decreti del
Oltre ad A. ZANINI, Strategie politiche ed economia feudale ai confini della Repubblica di Genova (secoli XVI-XVIII).
Un buon negotio con qualche contrarietà, Genova, 2005 pp. 143-161, vedi anche G. DORIA, G. SIVORI, Nell’area del
castagno sulla montagna ligure: un’azienda tra la metà del Seicento e la fine del Settecento, in Quaderni storici, 39
(1978), pp. 937-954; G. BENVENUTO, Un bosco applicato a ferriere: economia e società a Masone nei secoli XVI-XVIII, in
La Berio, XXIII, 1 (1983), pp. 47-59. Sull’uso dei boschi per la produzione di carbone vedi anche il già citato lavoro di D.
MORENO, Querce come olivi, cit., pp. 117-122.
292
Come mostrato da Calcagno nel caso di Savona, il calo e poi la ripresa della cantieristica savonese non sono da
collegare alla maggiore o minore disponibilità di materia prima del nemus savonese, ma alle caratteristiche dei traffici
cittadini e alle mutevoli condizioni del mercato del lavoro, cfr. P. CALCAGNO, Savona porto di Piemonte. L’economia
della città e del suo territorio dal Quattrocento alla Grande Guerra, Novi Ligure, 2013, pp. 158-163.
293
Sul bosco di Savona vedi M. T. SCOVAZZI, Il grande nemus di Savona nella storia politica ed economica della Sabazia e
della Repubblica di Genova, in «Atti della Società Savonese di Storia Patria», XXVII (1949), p. 5-54; G. FALCO, Nemora et
terras… Appunti per una storia di due boschi medievali savonesi, gli Iliceta e le Scalete, in «Atti e memorie della Società
Savonese di Storia Patria», n.s. XXXVI (2000), pp. 73-96; G. ASSERETO, La città fedelissima, cit., pp. 80-82; P. CALCAGNO,
Savona, porto di Piemonte, cit., pp. 155-174. Sul bosco di Ovada vedi il già citato lavoro di D. MORENO, La
colonizzazione dei “Boschi di Ovada”, cit. Sul bosco di Sassello vedi E. GRENDI, La pratica dei confini. Mioglia contro
Sassello, in Quaderni storici, 63 (1986), pp. 811-845.
291
101
governo di Genova. Dal confronto che ne seguì le comunità ottennero la riconferma dei loro usi
civici esercitati sui boschi, in cambio di una generale cessione allo Stato dell’uso dei «roveri, e
legnami da garibo di sorte», il cui taglio era riservato alla flotta della Repubblica294.
La confusione tra boschi camerali e comunali permase, spesso entro i limiti della stessa
area silvestre295. Le fonti giuridiche, composte da poche gride generali e da una gran massa di
ordini e decreti specifici per singoli boschi, rivelano la refrattarietà del governo a considerare il
complesso delle risorse forestali come un unicum, regolabile con atti generali. La stessa efficacia
delle leggi a tutela dei boschi, più volte prorogate e ripubblicate, è da porre in dubbio296. È sul
piano dell’intreccio tra fonti statali e locali pertanto che si costruì una disciplina parcellizzata,
certo, ma aderente alle pratiche di utilizzo del bosco e diretta a segnare di volta in volta il punto di
equilibrio tra uso civico e sfruttamento economico.
La risorsa di cui vogliamo occuparci in dettaglio è la grande distesa boschiva situata a
Sanremo, uno dei centri economicamente più vivaci della riviera di Ponente. Come riscontreremo
anche a proposito della gestione delle acque interne, Sanremo mostrò particolari cure
nell’amministrazione delle proprie risorse naturali, riformando i propri uffici e innovando la
Emblematico è il caso di Taggia. Il bosco era utilizzato dalla Repubblica per la costruzione di galee, ma la comunità
se ne era servita nel corso del tempo per il pascolo e le necessità dei propri abitanti. Nel 1618 il Magistrato
dell’Arsenale emanò una grida generale con la quale si proibiva il taglio di qualsiasi tipo di albero nel bosco taggiasco e
di estrarre altre risorse, con pene che andavano dall’ammenda pecuniaria ai 5 anni di remo. Misure che abolivano
l’uso civico di legnatico e di pascolo riconosciuto da decenni dal governo a favore dell’universitas di Taggia, da cui
erano sempre stato esclusi gli alberi impiegati nella cantieristica. Dopo le proteste degli Anziani, la Camera salvò la
grida del Magistrato dell’Arsenale e contestualmente accolse la richiesta di Taggia, ripristinando lo status quo e
qualificando come “concesso” alla comunità l’uso civico, in una posizione quindi di subordinazione rispetto alle
necessità dello Stato. Anche a Ceriana la Camera genovese intervenne nel 1601 con ordini abbastanza stringenti circa
il taglio degli alberi e il pascolo, ma la comunità oppose il continuo possesso della foresta e la natura comunale, cfr. M.
P. ROTA, Una fonte, cit., pp. 44-50.
295
Nel 1619 il Podestà di Parodi Ligure informò il Senato circa le usurpazioni commesse dagli abitanti del luogo a
danno dei boschi pubblici presenti nella sua giurisdizione. Il giusdicente ricordò «ch’essa Communità possedeva una
buona parte di bosco oltre quello possede l’Ill.ma Camera, quale vien occupato da particolari de migliori del luogo».
L’occupazione abusiva ostacolava l’esercizio dei diritti consuetudinari sulle comunaglie dei meno abbienti e per questo
il Podestà chiedeva al Senato un decreto in forza del quale costoro potessero «conforme al costume antico tagliar per
loro uso, e pascolare». Sebbene il demanio non avesse incamerato integralmente tutte le risorse forestali di Parodi (e
di altre comunità del dominio), il Senato restava comunque l’autorità di riferimento per la difesa dei diritti
consuetudinari delle popolazioni, ASGe, Senato Senarega, 50.
296
La legge del 1697, più volte prorogata, qualificava come danno ai «boschi publici» la rimozione dei termini
confinari, il taglio di alberi, l’incendio e la fabbrica di carboni svolte senza permesso, oltre a punire alcuni delitti propri
dei campari. La competenza giurisdizionale era assegnata ai giusdicenti maggiori ratione loci. Tuttavia quando nel
1783 fu incarcerato l’altarese Lorenzo Berta, sorpreso dai campari del bosco di Savona mentre stava tagliando un
albero di rovere, il magistrato savonese informò la Camera che, mancando copia di leggi specifiche a tutela dei boschi
della Repubblica «contro il carcerato Berta dovrà aver luogo la pena portata dallo statuto civile de damnis refficiendis,
§§ qui in aliena terra». Da Ceriana nel 1785 fu lamentata la medesima incertezza circa le pene da applicare ai
danneggiatori e si chiese alla Camera l’invio di una nuova copia a stampa del decreto sui danni campestri nei boschi
pubblici, ASGe, Camera di governo e finanza, 609
294
102
disciplina che regolamentava il settore rispetto agli statuti bassomedievali. Il caso sanremese
risulta inoltre interessante per verificare la sopravvivenza delle norme d’uso di una risorsa
collettiva, anche al mutare dei rapporti politici e giuridici tra la comunità e lo Stato.
L’economia di Sanremo conobbe una decisa fioritura durante l’età moderna, divenendo il
più attivo centro di produzione ed esportazione di limoni, arance, cedri, tutelati già dagli statuti del
1435297. Il bilancio comunitario rifletteva le condizioni di benessere, secondo quanto riferirono le
relazioni del primo Seicento. «Detta Comunità non ha né censi, né debiti, né tampoco le ville l’una
nominata il Poggio, e l’altra la Colla», e in effetti gli introiti superavano quasi del doppio le uscite
(12.300 lire contro poco più di 7.000). Accanto agli agrumeti figurava però anche un’altra risorsa
di primo piano: il grande bosco comunale, situato lungo le pendici del monte Bignone alle spalle
della città, che costituiva il confine naturale con le comunità di Ventimiglia, Perinaldo, Baiardo,
Seborga e Ceriana. Le relazioni dei primi anni del Seicento lo descrivono come una selva in
larghezza un miglio in circa e di longhezza da quattro in cinque miglia in circa, inevitabilmente
segnato dal lavoro dell’uomo. Oltre agli onnipresenti castagneti, all’interno del bosco di Bignone
«vi son compresi molti campi da seminare, et altri campi, e terre boschive, e castneative di
particolari». Dunque non mancavano appezzamenti di proprietà privata, coltivati o incolti, mentre
sul Bignone si trovavano anche le bandite utilizzate dalla comunità per il pascolo. Infine non si
mancò di segnalare che grazie alla «molta diligenza, e ordini buoni» il bosco ospitava diversi alberi
ad alto fusto (erici, roveri), impiegabili nella cantieristica, ma tendenzialmente insufficienti a
soddisfare la domanda298.
2.b) Il nemus Sanctiromuli: un bosco comune o comunale?
Passando ad esaminare le questioni giuridiche ed istituzionali più salienti, va in primo luogo
chiarita la natura giuridica del bosco e la misura dei poteri esercitabili su di esso dalla Repubblica
Su questo tratto peculiare dell’economia sanremese il rimando è a G. FELLONI, Commercializzazione e regime
agrario: gli agrumi di Sanremo nel XVII e XVIII secolo, in Scritti di storia economica, cit., pp. 937-954, A. CARASSALE, L. LO
BASSO, Sanremo, giardino di limoni. Produzione e commercio degli agrumi dell’estremo Ponente ligure (secoli XII-XIX),
Roma, 2008.
298
Quando Gerolamo Doria e Giovan Battista Senarega visitarono il bosco nel 1601 notarono che gli alberi
generalmente utilizzati per le costruzioni navali (roveri, faggi, ma ricordiamo che erano adatti anche noci e tigli)
risultavano in certi casi inservibili perché troppo vecchi, segno di uno sfruttamento decisamente modesto della
foresta, ASGe, Camera di governo e finanza, 91. Sulla stessa linea il censimento del 1611-1614, che prendeva atto
dell’importazione di legname «per far barche» da Varazze e Arenzano, a causa dell’insufficiente numero di alberi
adatti, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 53 v. Il bosco di Sanremo è citato anche nella Descrittione: M. P. ROTA,
Una fonte, cit., pp. 40-41.
297
103
per le proprie esigenze. Si è visto infatti che in aggiunta alle politiche di disboscamento e di
vendita del legname, talvolta praticate dalle comunità come illustrato per Pieve di Teco, anche il
governo genovese dalla fine del Cinquecento iniziò a prelevare maggiori quantità di legname
anche dai boschi delle comunità più periferiche del Dominio. Le pretese genovesi furono però
respinte con successo da Sanremo tramite il richiamo alle due sentenze del 15 e 17 marzo 1361
pronunciate da Andriolo de Mari e Giovanni Cattaneo, arbitri eletti dal Doge Simone Boccanegra e
dai sindaci di Sanremo perché stabilissero quali diritti spettassero a Genova e quali a Sanremo299.
Nel giudicato furono compresi anche i redditi derivanti dalle bandite e dai pascoli, interamente
assegnati a Sanremo e senza che il comune genovese potesse imporre unilateralmente prelievi
straordinari o nuove norme300.
Forti del privilegio dichiarato dagli arbitri, i sanremesi considerarono il bosco come un bene
di proprietà comunale, inattingibile per la Repubblica, e ancora durante i vari censimenti del primo
ventennio dei Seicento la comunità non riconosceva alcuna competenza al governo sul bosco. È
interessante sotto questo profilo quanto riportato nella Descrittione, che riassume gli argomenti
addotti dalle parti. Ricordato che la Repubblica, in quanto «Supremo Principe» era titolare di tutte
le regalie e che poteva emanare qualsiasi ordine in nome dell’utilità pubblica per la conservazione
del bosco, la relazione compie una precisazione significativa:
«Il bosco in ogni caso non serve alla Communità, ma sì bene alli huomini li quali particolarmente ne godono, e se ne
servono per fabrica delle loro barche, e per altro uso, onde non si può dubitare, che il Doria dal quale la Republica ha
acquistato detto luogo, non si servisse ancora lui di detto bosco in la maniera che fa ogn’uno particolare di S. Remo, e
se questo è, deve la Republica, ch’è successa in suo luogo, potere per uso suo servirsi di detti legnami»
Con quell’inciso «non serve alla Communità, ma sì bene alli huomini» la relazione intende
chiarire che le utilità del bosco non erano messe sul mercato, tramite aste o appalti, per la
Questo arbitrato sostituì la previgente convenzione del 1199 tra Genova e Sanremo e regolò i rapporti tra i due
centri nei secoli a venire fino a metà Settecento. Per la storia generale di Sanremo vedi G. ROSSI, Storia della città di
Sanremo, Sanremo, 1867, R. ANDREOLI, Storia di San Remo, Venezia, 1878; A. GANDOLFO, La Provincia di Imperia. Storia,
arti, tradizioni, Torino, 2005, II, pp. 874-895. Sul rapporto pattizio tra Genova e Sanremo e il suo deterioramento nel
corso del XVIII secolo V. TIGRINO, Sudditi e confederati, cit.
300
Lo stralcio della sentenza che ci interessa è il seguente: «Item declaramus quod gabelle bandite et herbagia et
ceteri alii introytus gabellarum dicti loci spectent ad ipsam universitatem dicti loci, et non ad comune Ianue prout
hactenus spectaverunt. […] Item pronunciamus et declaramus quod Comune Ianue non possit homines predictos dicti
loci Sancti Romuli presentes et futuros collectare nec collectari facere ordinarie vel extraordinarie nisi prout infra
dicitur in presenti sentenzia, nec cabellas novas de novo imponere vel constituere seu colligi facere vel novos usus».
Vedi l’intero testo delle due sentenze in M. LORENZETTI, F. MAMBRINI (a cura di), I Libri Iurium, cit., docc. 147-148.
299
104
generazione di un’entrata per le casse comunali. Il lodo trecentesco era quindi rispettato alla
lettera, perché solo le bandite di pascolo furono oggetto di appalto ma non il taglio degli alberi301.
Il godimento assumeva invece le forme di un uso civico, gratuito e limitato a determinati scopi.
Stando così le cose, anche la Repubblica poteva fruire del bosco per le proprie necessità, essendosi
sostituita sic et simpliciter ai signori Doria – de Mari, ultimi proprietari feudali di Sanremo302.
Il bosco di Bignone era quindi comunale, ma se dovessimo recuperare la classificazione
romanistica, esso si collocherebbe tra le res in publico usu più che tra le res publicae o le res
communes. Dalla disciplina dell’accesso alla risorsa contenuta negli statuti del 1435, revisionati nel
1565, si ricava il tentativo di conciliare un’embrionale politica di tutela forestale con l’esercizio
degli usi civici degli abitanti, essendo preclusa ogni forma di commercializzazione del legname,
grezzo o semi-lavorato303.
Alcuni capitoli in successione dichiaravano illecite una serie di pratiche, dal taglio (di interi
alberi o solo delle fronde) al ronco alla lavorazione, il taglio di alberi o rami (soprattutto di quercia,
rovere e pallare) per la costruzione di baracche e recinti304. L’unica pastura generalmente lecita
era quella dei bovini utilizzati per l’aratura, mentre i proprietari di capre e altre bestie minute
potevano asportare rami per nutrirle, evitando così che i famelici ovini distruggessero
In altre regioni sappiamo che lo sfruttamento dei boschi, in certi casi assai intensivo, fu oggetto di società e imprese
appositamente costituite e dal rilevante peso economico nel contesto locale, cfr. E. ROVEDA, I boschi nella pianura
lombarda del Quattrocento, in Studi storici, 30 (1989), pp. 1013-1030; M. ORTOLANI, Les contrats d’exploitation
forestière des communautés du comté de Nice au XVIIIe siècle, in C. DUGAS DE LA BOISSONNY (a cura di), Terre, forêt et
droit, Nancy, 2006, pp. 413-441.
302
M. P. ROTA, Una fonte, cit., p. 41. Come ha notato Giovanna Petti Balbi, Simone Boccanegra preferì incorporare
giurisdizioni signorili e feudi nella respublica genovese eliminando questo o quel signore, ma non il feudo come
istituzione territoriale, non essendo nelle condizioni di stabilire un sistema di governo diretto e omogeneo su tutta la
Riviera. La sostituzione nei rapporti di potere feudali non mutò dunque la sostanza dei rapporti giuridici neppure dal
punto di vista patrimoniale del godimento dei beni posti entro il dominio cfr. G. PETTI BALBI, Simon Boccanegra e la
Genova del ‘300, Napoli, 1995, pp. 265-279.
303
Sanremo ebbe statuti già prima del 1435. In un consilium, Pietro d’Ancarano fece menzione di generici «quaedam
capitula tamen est castrum de Sancto Romulo» cfr. P. D’ANCARANO, Consilia sive iuris responsa, Venetiis, Apud
Nicolaum Bevilaquam, 1568, cons. 437, n. 2. Per considerazioni sulle precedenti redazioni cfr. N. CALVINI, Statuti
comunali di Sanremo, Sanremo, 1983, pp. 11-18. Tra i diversi manoscritti disponibili di quelli del 1565, ho consultato
ASSr, Serie I, 57 (RSL, n. 898) e ASGe, Manoscritti, 991 (RSL, n. 890).
304
Era vietato tagliare alberi selvatici «causa faciendi ex ea ligna vel causa ronchandi aut in ipso nemore faciendi
aliquod laborerium, vel aliquam ipsarum arborum scravet, seu eius frondes aut ramos incidat». Era ammesso solo il
taglio degli alberi secchi per ricavarne legna da ardere ad esclusivo uso personale e senza alcun intento commerciale.
La pena per chi abbatteva gli alberi «causa extrahendi vel deportandi ipsa ligna extra dictum districtum suo nomine,
auto nomine alicuius» ammontava a 10 soldi. Il divieto di esportare legname da Sanremo per terra e per mare era
ribadito al capitolo 73, dove si specificava che era proibito il commercio sia di legname grezzo che di assi, tavole, travi,
legna da ardere e altri prodotti semilavorati salvo il caso di compravendita con mercanti forestieri giunti a Sanremo via
mare, cfr. ASGe, Manoscritti, 991, cc. 128-130 e cc. 136-138.
301
105
irreparabilmente la selva305. Il taglio di querce e roveri a favore di singoli richiedenti era sottoposto
ad autorizzazione comunale. Se concessa, i richiedenti avevano due mesi per procedere al taglio e,
se non fosse avvenuto, era concesso a chiunque tagliare e appropriarsi dei medesimi alberi. Anche
la semina, limitata ad alcune tipologie vegetali (lino, rape, canapa, navone306), era sottoposta ad
un regime autorizzativo da parte del Consiglio e non poteva durare più di due anni consecutivi,
non prorogabili se non prima di un decennio.
Come anticipato dalle relazioni, nel bosco crescevano anche alberi idonei per le costruzioni
navali. Gli statuti (capitolo De non faciendo lignum seu barcham in Sanctoromulo) limitavano agli
originari e a coloro che abitavano nel districtus stabilmente («cum eius familia») da dieci anni
senza interruzioni il diritto di far legna per la costruzione degli scafi. La richiesta di costruzione di
un vascello da farsi al Podestà comprendeva il giuramento «quod in eo non participant aliquis
forensis et quod illud non vendet nec alienabit alicui forensi nisi post annos quinque secuturos a
confectione ipsius vasis». In caso di vendita, al Comune sarebbe spettato il 5 % del prezzo307.
Anche gli statuti di Sanremo tutelavano il castagneto dai danni campestri e lo escludevano
dal novero di alberi utilizzabili per la carpenteria navale. Il testo imponeva poi al massaro di curare
annualmente l’inserimento di nuovi castagni nel bosco308. Infine si delegava ad appositi boni vires
la verifica dei titoli costitutivi del diritto di proprietà di singoli campi all’interno del bosco e la stima
il valore degli appezzamenti per il pagamento del prezzo al Comune e il corrispettivo
riconoscimento del «dominium et proprietatem»309.
Dagli statuti emerge chiaramente una precisa connotazione del publicus usus del bosco
sanremese. Lungi dal disegnare un regime di libera appropriazione delle risorse forestali, il bosco
Tra gli usi ammessi, va segnalato il diritto di raccogliere foglie e di usare i rami per i lavori agricoli. Era invece
proibita la messa a coltura dei fondi siti nel bosco in cui fossero stati illecitamente tagliati degli alberi per un decennio,
misura introdotta per agevolare la ricrescita di nuovi alberi, ASGe, Manoscritti, 991, c. 132 e N. CALVINI, Statuti, cit., p.
230.
306
Dai semi di navone (brassica napus) si ricavava un olio giallo e viscoso utilizzato insieme all’olio di lino per la
preparazione del sapone verde e per l’illuminazione. Spesso confuso con l’olio di colza (tratti dai semi di brassica
campestris), ne condivideva l’utilizzo come combustibile per l’illuminazione, cfr. AA.VV., Enciclopedia delle scienze
mediche, ossia trattato generale, metodico e compiuto dei diversi rami dell’arte di guarire, Scienze accessorie, chimica
medica, a c. di G. BEUGNOT, trad. italiana di M. G. Levi, Venezia, 1840, pp. 346-348; F. GERA, Nuovo dizionario universale
di agricoltura, Venezia, 1842, t. XVIII, pp. 16-17.
307
ASGe, Manoscritti, 991, cc. 141-143.
308
Il capitolo 58 parla anche dell’innesto di «arbores pomorum et pirorum salvaticas nec non bozalorum in nemore
existentibus». Con arbores pomorum et pirorum si intendevano alberi di melo e di pero, la cui coltura era diffusa
mediante apposite clausole dei contratti agrari un po’ ovunque. Vedi per la zona di Salerno e Gaeta tra X e XIII secolo
G. VITOLO, I prodotti della terra: orti e frutteti, in G. MUSCA (a cura di), Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo,
Bari, 1987, pp. 159-185. Con bozalorum si designava invece il biancospino, cfr. S. APROSIO, Vocabolario ligure storicobibliografico (sec. X-XX), Savona, 2001, p. I, vol. I, voce bozalus, p. 166.
309
Cfr. N. CALVINI, Statuti, 231-232.
305
106
doveva fornire materie prime o complementari all’economia locale al di fuori del circuito
commerciale. Rettori e ufficiali della comunità dovevano farsi carico della difesa dei castagni e del
controllo del taglio degli alberi ad alto fusto tramite politiche attive e non soltanto sanzionando gli
illeciti. L’esercizio di altri usi, come il pascolo e la raccolta di legna per fini diversi da quello nautico,
era fortemente limitato, se non del tutto vietato.
Sul finire del XVI secolo però abusi e illeciti superarono il livello di guardia. Le vecchie figure
di controllo predisposte dagli statuti non dovettero essere più sufficienti per arginare le
occupazioni di porzioni boschive e il taglio non autorizzato di alberi più o meno pregiati310. Inoltre
si intensificarono gli illeciti commessi dagli uomini delle comunità confinanti con Sanremo e si
diversificarono anche le attività economiche che domandavano legname. Le istituzioni di gestione
del bosco si adattarono alle condizioni di crescente sfruttamento della risorsa, rendendosi
maggiormente autonome dal giusdicente e dal Consiglio di Sanremo, ma senza che questo
processo alterasse la natura giuridica del bosco. Esso rimase dunque ancora per il XVII e il XVIII
secolo un bene comunale funzionale al soddisfacimento di alcune esigenze economiche dei
sanremesi e non del fabbisogno di entrate della comunità.
2.c) Il governo del bosco: magistrature e politica forestale (1583-1753)
Il sopra accennato adattamento istituzionale prese forma il 22 luglio 1583, quando il
Consiglio di Sanremo approvò la proposta di istituire un collegio di quattro persone munite del
potere di nomina di custodi del bosco, nonché di ordinanza a seguito di numerosi episodi di
danneggiamento del bosco commessi da alcuni uomini del vicino castrum di Dolceacqua, feudo dei
Doria. I quattro ufficiali ricevettero anche la delega a stipulare con Dolceacqua una convenzione
sui danni campestri per la punizione dei colpevoli311. L’anno successivo il collegio dei Conservatori
del bosco – questo il nome assunto – divenne permanente «per la disordinata, anzi sfrenata
violenza, che si vede essere, et usare in detto bosco da huomini e persone forastiere, et habitanti
Oltre ai tradizionali campari, gli statuti contemplavano quattro ufficiali eletti ogni anno a maggio col compito di
sorvegliare il bosco e accusare i danneggiatori e una squadra di dieci uomini nominati dal Podestà, cfr. N. CALVINI,
Statuti, cit., pp. 228 e 324.
311
ASSr, Serie I, 90, (RSL, n. 899), cc. 1-2. Peraltro la prassi di pattuire con le comunità confinanti le regole di utilizzo
del bosco per evitare reciproche rappresaglie fu seguita da Sanremo non solo nei confronti di Dolceacqua, ma anche
con Perinaldo e Ceriana per cui vedi infra. La delibera fissò infine una pena di 25 lire per chi rifiutava l’ufficio.
310
107
del proprio luogo, non havendo alcun rispetto di tagliare et occupare legnami, e causare molti
danni in detto bosco, oltre che da molti è occupato anche nella proprietà del Commune»312.
La creazione del nuovo collegio non fu un fatto di mera riorganizzazione interna del
complesso amministrativo della comunità sanremese. L’affidamento ai Conservatori – che
dovevano riunirsi una volta a settimana – della competenza generale ad occuparsi di ogni aspetto
della conservazione del bosco, dalle autorizzazioni per l’abbattimento degli alberi alla
regolamentazione degli altri usi, dalla giurisdizione sui danni campestri, alla nomina dei campari
segnava verosimilmente l’impossibilità per il Consiglio ristretto e il Parlamento di Sanremo di
occuparsi con la dovuta attenzione la materia forestale. Inoltre cessarono di avere vigore gli statuti
nelle parti riguardanti il bosco, per lo scarso valore deterrente delle loro sanzioni313.
I Conservatori nel successivo secolo e mezzo di attività si impegnarono per dare una
regolamentazione più dettagliata per l’utilizzo delle risorse forestali, inasprendo le sanzioni e
facendo largo uso dello strumento della bandita per favorire la ricrescita degli alberi. Furono
misure la cui parziale inefficacia fu riconosciuta dagli stessi Conservatori, ma che appaiono
emblematiche della consapevolezza di dover governare il bosco con disposizioni aggiornate ed un
maggior controllo sul campo, onde evitarne la rovina.
L’uso civico di far legna non venne meno ma subì col tempo progressive limitazioni.
Inizialmente gli ufficiali si limitarono a ribadire il divieto di tagliare senza autorizzazione faggi,
carpini, roveri e castagni (salva la potatura dei rami) anche quando questi crescevano sui fondi
privati. Il diritto della comunità sugli alberi di maggior pregio si conservò nei secoli ed è una delle
manifestazioni più evidenti, all’interno del nemus sanremese, della scomposizione delle utilitates
offerte dalle risorse naturali in altrettanti beni oggetto di diritti d’uso e godimento. Sugli
appezzamenti privati ciascun proprietario poteva seminare e (con limitazioni) far pascolare alcuni
animali, ma il suo diritto di proprietà non si estendeva su tutti i vegetali che crescevano entro il
perimetro del fondo314. Il passo successivo fu l’imposizione di un divieto generale di abbattimento
di ogni tipo di albero vivo.
Ai Conservatori furono assegnate una quota delle pene pecuniarie riscosse e 50 lire come salario, ASSr, Serie I, 90,
c. 7.
313
ASSr, Serie I, 90, cc. 11-12. Per una comparazione sulla prassi amministrativa degli ufficiali forestali cfr. C. DUGAS DE
LA BOISSONNY, Mésus ruraux et délits forestiers dans le patrimoine foncier de la ville de Nancy (premier tiers du XVIIIe
siècle), in C. DUGAS DE LA BOISSONNY (a cura di), Terre, forêt et droit, cit., pp. 117-130.
314
Sulla proprietà degli alberi in capo ad un soggetto diverso dal proprietario del fondo vedi C. GIARDINA, La così detta
proprietà degli alberi separata da quella del suolo, Palermo, 1941.
312
108
I Conservatori individuarono delle aree bandite da riservare a determinati usi. Così fecero
ad esempio nel 1607 con i “Capitoli circa il legname da far barche”, delimitando i confini di una
zona bandita che avrebbe costituito la riserva di roveri da tagliare sotto licenza per la costruzione
di navi315. Non mancarono le frodi – molti tagliavano più alberi del consentito – ragion per cui i
Conservatori, oltre alla vigilanza dei campari, istituirono nel 1679 un registro dove annotare
numero e qualità degli alberi tagliati, nonché il nome dei maestri d’ascia responsabili della
trasformazione e cantiere di costruzione, per una sorta di controllo incrociato da effettuarsi
direttamente in cantiere316.
Altre bandite pluriennali furono create a scopo di rimboschimento. Il bandimento
comportava un automatico aumento delle pene per i danni causati agli alberi protetti: il taglio di
castagne, erici, roveri e faggi nelle bandite era punito con una pena di ben sei scudi d’oro per ogni
albero, mentre scendeva a 3 scudi nel periodo non coperto dal bando. Durante il Seicento i
provvedimenti di bando di parti del bosco, individuate dai Conservatori, furono molti ed ebbero
come scopo anche riaffermare la natura pubblica delle aree317. Nonostante l’incremento delle
sanzioni, sul volgere della fine del secolo neppure questo si dimostrò sufficiente318. Nel 1680 i
Conservatori decretarono un’inibizione generale dell’abbattimento per un decennio, tanto nelle
parti bandite quanto nelle altre319.
Se l’uso del legname per la cantieristica fu sottoposto ai vincoli appena illustrati, del tutto
vietato fu invece l’impiego come combustibile per le manifatture artigianali presenti a Sanremo. Le
delibere degli ufficiali citano fornaci di mattoni e calce – generalmente diffuse un po’ dappertutto
La licenza era rilasciata al proprietario dello scafo e non era permesso vendere il legname a qualcuno che ne fosse
sprovvisto. Il permesso era vincolato alla realizzazione di travi, tavole e altre parti dell’imbarcazione e non potevano
essere abbattuti più di tre roveri per ciascuna richiesta. Entro 15 giorni dall’abbattimento, l’avente diritto doveva
riunire il legname tagliato in cataste e trasportarlo via, pena la perdita dello stesso e l’assegnazione ad altri richiedenti,
ASSr, Serie I, 90, cc. 39-45.
316
Un decreto precedente aveva già introdotto la marchiatura dei semilavorati ricavati dagli alberi del bosco di
Bignone da parte dei Conservatori, ASSr, Serie I, 90, cc. 128-133.
317
Nel 1655 fu bandita una falda boschiva di castagneti poiché «da’ particolari venia non solo vanamente preteso per
proprio e come tale di tagliarlo, il che sarebbe risultato di grave danno di questo publico, essendo aggregato di alberi
novelli crescenti, che in pochi anni renderanno di serviggio comune». Il bando riaffermava dunque i diritti della
comunità contro le occupazioni private, ASSr, Serie I, 90, c. 82.
318
Nel 1618 furono bandite alcune località del bosco (Pian Bertone, Pian Forchetto) di cui si individuarono i confini,
altre furono bandite nel 1646 e nel 1654, ASSr, Serie I, 90, cc. 45-46. Con un provvedimento del 1646 i Conservatori
bandirono una parte del bosco ove erano stati piantati alberi di rovere, faggi e carpini «li quali alberi tagliandosi non
posson servire a cosa di consideratione, e per il contrario lasciandoli stare col tempo, diventeranno alberi grandi, da’
quali si potrà fare molto utile». Si dichiarava dunque bandito in modo tale che «niuna persona possa in detta parte di
bosco tagliare alcuno di detti alberi, n’in esso far legna di sorte alcuna». Gli alberi banditi, segnati con una o due croci,
furono tre faggi, quattro roveri e tre erici, ASSr, Serie I, 90, cc. 73-74; 79-80.
319
ASSr, Serie I, 90, cc. 135-140.
315
109
– nonché saponifici, concerie di pelli e distillerie, tutti laboratori che necessitavano di legname per
poter funzionare. Nel 1622 i Conservatori proclamarono il divieto per i conduttori di mattonifici e
fabbriche di calce di tagliare qualsiasi genere di albero e di acquistarne da terzi per usarlo come
materiale da combustione. Il legname utilizzato per i forni era sottoposto al controllo dei
medesimi Conservatori, senza l’approvazione dei quali l’officina non poteva iniziare a produrre320.
Alla delibera sulle fabbriche di sapone del 1668 prese parte anche il Commissario genovese Gio.
Stefano Sauli, poiché l’ordine fu esteso a tutto il territorio ricadente sotto la giurisdizione
sanremese. Le condotte sanzionate furono le medesime: taglio, acquisto, procacciamento,
detenzione di legname utilizzato per i saponifici e l’accensione dei forni senza il preventivo
controllo dei Conservatori della legna da ardere321. Una delibera approvata nel 1740 confermò
nella sostanza le determinazioni assunte nel secolo precedente anche in materia di fabbriche e
opifici, ribadendone l’attualità322. Appare quindi evidente la scelta di escludere dall’appropriazione
del legname i proprietari di imprese artigianali, vincolando il bosco alla soddisfazione dei soli
bisogni della cittadinanza e alla costruzione di imbarcazioni.
Anche l’esercizio dello ius pascendi fu circondato da restrizioni particolari. Il primo
proclama contro le capre fu emesso nel 1590 e prevedeva la subordinazione del pascolo ovino alla
concessione di una specifica licenza da parte dei Conservatori323. Nel 1634 si ricorse poi alla
creazione di alcune riserve per il pascolo di capre e altri animali, individuate con i loro toponimi,
bandendo il pascolo da tutta la restante superficie boschiva324. Inoltre, dal momento che per
raggiungere la bandita di pascolo di Bignone molti passavano per il bosco con il proprio gregge, i
Conservatori provvidero a creare un percorso obbligato per impedire che la dispersione degli
ASSr, Serie I, 90, cc. 47-48. La pena per il fabbricante che avviava l’attività senza che la materia prima da impiegare
fosse stata approvata dai Conservatori ammontava a ben 100 lire.
321
ASSr, Serie I, 90, cc. 95-97. Sulla diffusione dei saponifici lungo la riviera di Ponente vedi F. CICILIOT, La saponeria
nella Liguria occidentale, Savona, 2001, in particolare pp. 16-99. L’A. però non cita Sanremo tra i centri di produzione,
forse in ragione delle fonti utilizzate (Archivio di Stato di Genova e di Savona). I riferimenti contenuti nei capitoli alle
piante di navone e di lino, nonché queste disposizioni e la controversia settecentesca sulle gabelle (tra cui quella del
sapone) ci fanno ritenere che anche il borgo sanremese ospitasse alcuni saponifici particolarmente attivi. Secondo
Ceciliot il sapone prodotto in Liguria tra Cinque e Seicento fu un bene da esportazione che conquistò mercati
importanti, come quello milanese. Dalla seconda metà del XVII secolo, complici la decisione colbertina di avviare
un’industria saponiera di alta qualità a Marsiglia (editto del 1688) e il progressivo rialzo dei costi delle materie prime
(olio e legname), la competitività del prodotto ligure si contrasse costantemente e a Settecento inoltrato Genova era
ormai stabile importatrice di sapone marsigliese.
322
ASSr, Serie I, 90, cc. 207 v.-209 v.
323
ASSr, Serie I, 90, cc. 33-34.
324
ASSr, Serie I, 90, cc.57-59. Nel 1647 si arrivò a proibire non solo il pascolo ma il semplice ingresso nel bosco
interdetto, ivi, cc. 75-76.
320
110
animali aumentasse il rischio di danni325. Gli ordini volti a escludere gli animali dal bosco si
intensificarono nettamente nel Settecento. Paradigmatica è la riformagione del 1729 che proibì ai
sanremesi e ai forestieri di condurre senza autorizzazione: «alcuna sorte di bestie bovine, capre,
capretti, pecore, montoni, agnelli, o porci ne’ boschi di detta Magnifica Comunità, compresi anche
quelli boschi che fossero, o si potessero dire de’ particolari»326. Neppure sui fondi privati era
dunque esercitabile il pascolo in assenza di permesso.
La disciplina del bosco coinvolse anche gli altri organi della comunità, in particolare per
l’approvazione dei bandi campestri, che lungo il XVII secolo aggiornarono le procedure per
l’accertamento dei danni e rividero al rialzo il rigore delle pene. Oggetto di tutela fu anche il bosco,
oltre ai frutti e agli agrumi, preziosissimi prodotti da esportazione327. Inoltre Consiglio e Consoli
stipularono con i centri confinanti convenzioni e bandi campestri per la regolazione degli usi
promiscui del bosco, che segnava in più punti il confine naturale con Perinaldo, Dolceacqua,
Ceriana, Apricale, Isolabona. Nel 1558 ad esempio l’accordo con Perinaldo dichiarò interdetti ai
perinaldesi diversi usi del nemus Sanctiromuli (raccolta di ghiande, foglie, taglio di querce, faggi,
castagni e alberi selvatici, fieno, pascolo), comminando per ciascuno di essi sanzioni a gravità
variabile328.
Differenti per contenuto ma accostabili per ratio furono i capitoli campestri pattuiti da
Sanremo e Ceriana nel 1629, originati come compromesso avente lo scopo di porre termine alle liti
e relative rappresaglie che opponevano gli uomini delle due comunità329. Alcuni articoli si
rivolgevano espressamente alle risorse ad uso collettivo, tutelando ad esempio i castagneti siti sui
ASSr, Serie I, 90, cc. 109-110.
ASSr, Serie I, 90, cc. 193 r.-194 r.
327
I bandi campestri del 1610, del 1635 e del 1683 furono inseriti in calce agli statuti di Sanremo nel registro di cui alla
scheda in ASSr, Serie I, 57. Copia dei bandi del 1610 e del 1635, con rimandi ai capitoli statutari, anche in ASGe,
Manoscritti, 991, e ASGe, Senato Senarega, 1726 (RSL, n. 901) e ASGe, Senato Senarega, 1807 (RSL, n. 902).
328
Cfr. F. CORVESI, Magnifica Communitas Podii Rainaldi. Perinaldo. Statuti, convenzioni e documenti inediti di una
signoria ghibellina sorta tra Provenza e Liguria dai conti di Ventimiglia ai Duchi di Savoia (XI-XVIII sec.); Tricase, 2015,
pp. 167-170, pp. 414-419. La convenzione conservò peraltro in vigore l’istituto della rappresaglia. Di tale convenzione
si servì poi la Repubblica ad inizio Settecento per affermare i propri diritti giurisdizionali sul bosco del Conio, versante
silvestre sanremese che confinava con Seborga. Sulle rappresaglie vedi i risalenti lavori di A. DEL VECCHIO, E. CASANOVA,
Le rappresaglie nei comuni medievali e specialmente in Firenze, Bologna, 1894; G. I. CASSANDRO, Le rappresaglie e il
fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI, Torino, 1938. Più recentemente L. TANZINI, Le rappresaglie nei comuni italiani
del Trecento: il caso fiorentino a confronto, in Archivio Storico Italiano, 167 (2009), pp. 199-251.
329
Il testo è in ASGe, Senato Senarega, 1881 (RSL, n. 923). I capitoli furono approvati dal Senato di Genova il 7 gennaio
1630. Il ricorso alla concessione delle rappresaglie fu mantenuto ma solo nel caso in cui i rappresentanti di una delle
due comunità non avessero dato luogo ai convegni necessari per addivenire alla stipula di nuovi capitoli entro 15
giorni dalla richiesta espressa della controparte.
325
326
111
fondi comunali o i pascoli e i prati330. Emanati per rimanere in vigore per 25 anni, salvo espressa
richiesta di modifica, ai primi del Settecento risultavano ancora efficaci e invocati contro le
illegittime rappresaglie perpetrate dai campari di Ceriana a danno delle greggi di alcuni uomini del
Poggio di Sanremo331.
Nonostante le pretese della Repubblica, il grande bosco sanremese non soltanto fu gestito
in autonomia pressoché totale dalla comunità mediante i propri ufficiali, ma lo stesso prelievo di
legname da parte del governo fu verosimilmente molto limitato, potendo fare affidamento su altre
foreste. Il disboscamento crescente fu contrastato con una normativa sempre più restrittiva e lo
sviluppo di un mercato di importazione del legname dalla Francia e dal nord Europa332. In punto di
titolarità giuridica, se ad inizio Seicento la qualificazione del bosco era incerta, nell’aprile del 1716
il Commissario del borgo, rispondendo ad una lettera circolare inviata dai Collegi per avere
ragguagli circa lo stato e i confini dei boschi camerali, non aveva dubbi: «altro non posso riferire,
se non essere questa giurisdizione di S. Remo senza verun bosco spettante a codesta
Eccellentissima Camera»333. Il bosco veniva dunque riconosciuto come comunale ma, come si è
dimostrato, gestito in modo tale da farne una risorsa a disposizione dei sanremesi per i loro
bisogni privati e per il parziale sostegno alla fabbricazione di navi, senza l’intermediazione del
mercato.
2.d) Il bosco attraverso la “rivoluzione” del 1753: cesure e continuità
Ad esempio il capitolo 1° stabilisce l’inutilità di indicare i confini per i danni causati in terre «boschareccie o
prative». Il capitolo 6° sul taglio dei castagneti cita i boschi privati e delle comunità, così come il 10° sugli alberi verdi.
331
In una lettera del 28 dicembre 1701 i consoli del Poggio lamentarono che «seguivano da qualche tempo rapresaglie
contro quelli del Poggio, giurisdizione di S. Remo, non solo nelle bestie, ma nelle persone stesse che segavano e con
strapasso indicibile conducevano priggione, e per liberarsi era necessario far sborso di somme considerabili». La
questione fu sottoposta al Commissario residente a Sanremo Gio. Batta Spinola, il quale convocò prima gli Anziani di
Ceriana in contraddittorio con i consoli del Poggio e i consiglieri di San Remo e successivamente decretò che le
convenzioni del 1629 dovessero ancora integralmente rispettarsi, decisione confermata ancora il 13 maggio 1700 da
Carlo Spinola e Gio. Ambrogio Doria, sindacatori della riviera di Ponente, ASGe, Archivio segreto, 99.
332
Questo dato è ricavato dalla relazione del Commissario Marcantonio Carenzi, che durante l’occupazione sabauda
del Ponente ligure amministrò Sanremo e distretto nel biennio 1746-48, cfr. V. TIGRINO, Sudditi e confederati, cit., p.
298-300. Dalle rilevazioni effettuate dai piemontesi, si ricava inoltre la condizione di relativo benessere che
contraddistingueva Sanremo ancora a metà Settecento. Tra gli altri indicatori, il numero di bastimenti sanremesi in
attività ammontava a 80 legni, di piccola e grande stazza. Per approfondimenti P. CALCAGNO, Lo sguardo del Savoia sul
Ponente ligure: la raccolta di informazioni da parte degli ufficiali sabaudi durante l’occupazione di metà Settecento
(1746-1749), in Genova e Torino, cit., pp. 251-270.
333
ASGe, Camera di governo e finanza, 606.
330
112
Il XVIII secolo vide deteriorarsi i rapporti tra Genova e diversi importanti centri del Dominio
come Albenga, Spezia, Finale e Sanremo. La crisi originò da controversie di natura fiscale tra gli
anni ’20 e ‘30, quando il governo decise di tagliare delle spese giudicate superflue e di riformare il
sistema dei monopoli statali, dal quale dipendeva il servizio di riscossione in regime di appalto.
L’attuazione di tali riforme andò ad intaccare gli antichi assetti di esenzioni in essere tra Genova e
le comunità soggette, che si mossero in difesa dei loro privilegi. Sanremo si sollevò nel 1729 in
opposizione alla riforma delle privative delle gabelle di tabacco, vino, sapone e polvere da sparo e
contro la legge sul Portofranco. Risolta con una stentata pacificazione la prima crisi, nel 1753 la
Repubblica e il borgo giunsero allo scontro armato a seguito della decisione del Senato (febbraio
1753) di approvare la separazione dal borgo di Sanremo della Colla (oggi Coldirodi), villa
demograficamente più popolosa del districtus, e di ergerla a comunità autonoma334.
La “rivoluzione” di Sanremo ebbe vita brevissima: dal 6 giugno, quando i sanremesi
arrestarono il Commissario giusdicente Giuseppe Doria e l’ingegnere e cartografo della Repubblica
Matteo Vinzoni, incaricato di apporre i confini tra Colla e Sanremo, al 16 dello stesso mese, giorno
in cui fu spedita a Genova una supplica di perdono per la ribellione dai consiglieri del borgo rimasti
dopo la resa nelle mani del generale genovese Agostino Pinelli335. Insignificante sul piano dei fatti
d’arme, le conseguenze della sollevazione furono effettivamente rivoluzionarie sotto il profilo dei
rapporti tra Sanremo e Genova: oltre a imporre pesanti contribuzioni risarcitorie, Pinelli ordinò
l’abolizione degli statuti e delle convenzioni (in particolare l’arbitrato del 1361), la confisca dei
beni comunali e la verifica da parte genovese di tutti i capitoli in materia economica approvati
dalla comunità.
La vicenda ebbe ricadute sul piano internazionale che in questa sede non serve
ripercorrere. Preme invece indagare come i diritti collettivi e le istituzioni di gestione del bosco di
Bignone uscirono modificati dalla cesura del 1753. La transizione durò circa tre anni, durante i
Le ragioni di opportunità economica che persuasero i collantini a domandare il distacco da Sanremo furono molte.
Da un lato la fiorente produzione di agrumi coltivati entro i confini della giurisdizione sanremese era sottoposta
all’amministrazione del Consiglio di Sanremo, che decideva i prezzi. I collantini puntavano quindi a separarsi da
Sanremo per poter vendere i propri agrumi ad Ospedaletti, senza sottostare alle politiche imposte dall’élite del borgo.
In una lettera datata 8 marzo 1752 si lamentava l’obbligo di dover pagare le gabelle imposte da Sanremo senza trarre
vantaggi dall’appartenenza alla stessa unità amministrativa. Oltre al cronico squilibrio nel riparto sulle ville dei debiti
contratti da Sanremo e nel reimpiego delle entrate fiscali, gli uomini della frazione protestarono anche per la disparità
di trattamento circa l’utilizzo del bosco: «L’istesso soffrono rispetto al bosco communale, facendosi lecito quei di S.
Remo far tagliar alberi per il loro uso, senza che mai siane stato punito uno; al contrario, se alcuno di Colla si serve di
qualche poca legna, per essi è inevitabile la pena», ASGe, Archivio segreto, 303.
335
Sulla ribellione, oltre al già citato V. TIGRINO, Sudditi o confederati, cit., vedi anche N. CALVINI, La rivoluzione del 1753
a Sanremo, Bordighera, voll. I-II, 1953, in particolare vol. I, pp. 7-39.
334
113
quali una commissione genovese guidata da Pasquale Rossi elaborò i nuovi regolamenti che
avrebbero disciplinato il governo sanremese da lì in poi336. Frattanto gli agenti genovesi agli ordini
di Vinzoni procedettero con la separazione di Coldirodi.
Alla comunità fu assegnata la settima parte del bosco comunale di Sanremo, ma sorsero
discordie durante le misurazioni – che durarono almeno fino a tutto il 1754 – per l’esatta
determinazione della superficie forestale. Secondo gli ingegneri genovesi esso misurava 2.355.468
canne (quota per Colla canne 329.765), mentre dai rilievi effettuati dagli stimatori sanremesi e
collantini le dimensioni della selva scendevano a 1.707.384 (quota per Colla canne 243.912). A
rendere incerte le stime contribuiva anche il differente modo di qualificare i fondi privati siti
all’interno dell’area. Se per Vinzoni essi erano da escludere dal calcolo, per altri periti dovevano
essere inclusi perché: «il gius della Communità sopra i boschi, che consiste in fra legna secca e
foglie, si estende egualmente sopra i boschi de particolari che del Commune, alla di cui custodia vi
mantiene campari che li diffendano, ed impediscano il taglio di legna verde perfino a stessi
padroni»337.
Una parte del bosco (il Cuneo) era poi al centro di una controversia di confine con Seborga.
Il contenzioso contrappose la Repubblica al monastero benedettino di Saint Honorat dell’isola di
Lérins in Provenza, proprietario del castello di Seborga, che considerava il Conio parte del proprio
patrimonio ecclesiastico338. Tra XVII e XVIII secolo furono numerose le accuse contro i seborghini
scoperti o denunciati a raccogliere foglie, ghiande o a fare carbone nel bosco, istruite dai campari
in forza dei capitoli339.
Il regime di separazione tra la proprietà del suolo e degli alberi emergeva come un punto
controverso nella riassegnazione dei diritti ai collantini. Né gli uomini al comando di Vinzoni né la
commissione di Rossi sciolsero poi il nodo della proprietà comunale o statale del bosco, al punto
che in una relazione del 1767 esso veniva citato ancora come «Bosco che si dice essere della
I testi principali furono approvati tra l’autunno 1754 (“Regolamento economico”) e il giugno 1755 (“Regolamento
interiore”, sugli uffici pubblici). Tra maggio e settembre del 1756 videro poi la luce i regolamenti sulle acque, i
regolamenti capitolari dei Padri del Comune e quelli sui boschi della comunità.
337
ASGe, Archivio segreto, 304.
338
Gli abati sostenevano che il bosco del Conio fosse ricompreso entro i confini indicati nel testamento del conte di
Ventimiglia Guido, redatto nel 954. Una copia in ASSr, Serie I, 26. Sulle liti di confine tra Seborga, Vallebona e Sanremo
vedi N. CALVINI, Il feudo di Seborga, in La storia dei genovesi, XII/2, Genova, 1994, pp. 595-616; ID., Il Principato di
Seborga. Un millennio di storia, Imperia, 1992.
339
Si ricorda che dal 1729 il feudo di Seborga apparteneva al Re di Sardegna. Nel 1735 il Commissario di Sanremo
Camillo Doria incaricò uno dei quattro Conservatori di visitare la località contesa per riferire dei danni causati e punire
i trasgressori. Alcuni documenti della causa (corrispondenza, memoriali, atti) in ASS, Serie I, 26; ASGe, Archivio segreto,
54.
336
114
Communità»340. Nonostante la revoca della convenzione del 1361 e dopo il frazionamento con
Colla, Sanremo ritornò dunque in possesso dei propri beni pubblici, in perfetta continuità con il
previgente assetto.
La revoca degli statuti decretata dal Pinelli lasciò gli uomini di Sanremo e Colla privi di un
testo scritto di riferimento anche in relazione all’utilizzo del bosco. Le prime bozze dei nuovi
capitoli politici di Colla furono elaborate dal Senato e dalla Giunta dei Confini già nel febbraio del
1753 e in una di esse si dichiarò apertamente che in materia silvestre avrebbero legiferato gli
stessi collantini341. Il regolamento boschivo fu effettivamente votato dal Parlamento di Colla nel
novembre del 1757 e approvato dal Senato il 10 marzo successivo, con una disciplina che
riproponeva in sostanza il contenuto dell’omologo testo sanremese, in forma semplificata e con
pene per i danni campestri assai più miti342.
Quanto al borgo principale, ai sensi del nuovo “Regolamento interiore” il Consiglio della
comunità, composto da cento membri, doveva eleggere annualmente i cinque magistrati
principali, tra cui il collegio degli Anziani, motore istituzionale della politica locale. Formato da sei
membri maggiori di 40 anni, gli fu assegnata l’amministrazione ordinaria della comunità e la
gestione del bosco343. I Capitoli per la buona direzione dei boschi della Comunità di S. Remo et in
sua giurisdizione situati furono approvati il 19 maggio 1756344. Il testo riordinò su 49 articoli la
stratificata massa di decreti approvati lungo i due secoli precedenti e dal punto di vista
contenutistico le novità riguardarono più gli ufficiali preposti all’amministrazione della risorsa che i
diritti d’uso.
Agli Anziani fu imposto di far rispettare i capitoli e di punire gli abusi a vantaggio: «de’
poveri individui di quella [comunità], che sogliono dalli stessi [boschi] ricavare giornalmente il loro
mantenimento, ma ancora per la conservazione et augumento de’ medemi tanto necessari alla
La relazione di Alerame Pallavicino sullo stato dei boschi del Dominio è in ASGe, Camera di governo e finanza, 608.
«Il capitolo che riguarda il regolamento dei boschi, e li capitoli campestri, siccome ha relazione alli capitoli e Statuti
di S. Remo, li quali più non esistono, così la Comunità della Colla farà estendere il regolamento dei boschi, e li suddetti
capitoli campestri per farli presentare al Serenissimo Senato», ASGe, Archivio segreto, 303.
342
Il regolamento constava di 10 articoli. Si segnala il diritto di tutti i membri della comunità di appropriarsi della legna
secca, delle foglie e dei cespugli per usi domestici e di condurvi il bestiame a pascolare, tranne le capre. Il testo
mutuava il sistema delle licenze per il taglio del legname in vigore a Sanremo e regolava sommariamente la procedura
per l’accertamento dei danni dati. Una copia è in ASGe, Archivio segreto, 306.
343
ASGe, Archivio segreto, 305, RSL, n. 913. Gli Anziani rappresentavano il “corpo della comunità”, e si relazionavano
direttamente con giusdicente genovese. La gestione delle bandite di pascolo del monte Bignone e l’incanto degli
erbaggi furono invece assegnati ai Censori, mentre il collegio dei Raggionati, presieduto dal Governatore genovese,
aveva competenza sui redditi, imposizioni fiscali, riscossione di interessi e gestione dei crediti e debiti della comunità.
344
Una copia in ASGe, Archivio segreto, 305, RSL, n. 919 da cui sono tratte le citazioni che seguono.
340
341
115
coltura del territorio, e comodo dei particolari benestanti». Si estese il novero delle situazioni
causa di conflitti di interessi. Ora non solo i padroni di bestiami, ma anche i padroni di barche di
stazza superiore alle cento mine non potevano partecipare alle sessioni del collegio degli Anziani
dedicate ai boschi, con facoltà del Governatore di surrogare il collegio con dei supplenti nel caso
non si fosse raggiunto il numero legale (4 membri su 6). Sicuramente però l’articolo che segnò
maggiormente la rottura con le consuetudini “pre-rivoluzionarie” fu il secondo, con cui si assegnò
la competenza a riformare il regolamento al Consiglio dei cento, previa approvazione del Senato
genovese. Cessava quindi l’autogestione della comunità, per il tramite dei Conservatori che dalla
fine del XVI secolo avevano diretto la politica forestale locale senza intromissioni da parte del
governo345. Il regolamento trasferì agli Anziani le competenze prima spettanti ai Conservatori del
bosco sulla nomina dei campari e la concessione delle licenze per il taglio degli alberi346. Inoltre
furono previste situazioni in cui era necessaria la partecipazione del giusdicente genovese di
Sanremo, in particolare per l’approvazione delle licenze concesse dagli Anziani e nel giudizio sugli
illeciti dei campari, che è sicuramente uno degli elementi di novità del testo347.
Sull’impiego delle risorse forestali non si registrarono, come detto, novità significative.
L’uso civico di far legna sopravvisse e riguardava solo legname minuto secco (pini, piccoli arbusti e
brughi), che potevano essere tagliati senza licenza alcuna, mentre gli alberi vivi non potevano
essere abbattuti. L’abbattimento era sottoposto ad autorizzazione, la cui disciplina ricalcava le
precedenti previsioni dei Conservatori. Per non favorire gli abusi il regolamento precisò che dalle
licenze non si poteva «inferire alcun dominio o possesso, o sia quasi, ovvero gius, né tampoco
detenzione veruna delle terre, o d’alcuna d’esse per quali dette licenze fossero concesse, et a
favore di chi fossero concesse, a benche le medeme terre si pretendessero de’ Particolari».
L’articolo disponeva che «Quando per la diversità de’ tempi, e delle circonstanze fosse espediente rivocare, o
moderare alcuno de’ presenti ordini per la conservazione di detti boschi, detta rivocazione o moderazione spetterà al
Magnifico Consiglio di Cento sogetti, e dovrà riportar almeno li due tersi de’ voti de’ congregati in legitimo numero, e
l’aprovazione del Serenissimo Senato, altrimenti non sia luogo alla rivocazione, o grazia fatta dal detto Magnifico
Consiglio, o che si prendesse di fare, e si consideri irrita e di niun valore».
346
I campari furono previsti in numero di due ed erano rimuovibili dall’incarico difetto di diligenza in ogni momento. A
conti fatti il numero di persone fisicamente impegnate a sorvegliare il bosco diminuì sensibilmente, perché dai quattro
Conservatori, assistiti dai campari e da un numero massimo di dieci accusatori pubblici (potenzialmente) in carica
prima del 1753, si passò ai due soli campari previsti dal regolamento.
347
La connivenza degli ufficiali con i danneggiatori era sanzionata con la pena di 100 lire, ma l’aspetto più innovativo è
l’iter processuale predisposto e valido tanto per i danni dati quanto per gli abusi dei campari. Si ammise la possibilità
di ricorrere al biglietto “orbo”, largamente utilizzato per le denunce criminali le informative di carattere politico, per
segnalare la commissione di un illecito. La denuncia era legittima a condizione che il biglietto indicasse almeno un
testimone di buona voce e fama in grado di giurare sui dettagli di fatto dell’accusa. Il Vicario, compiuta l’istruttoria,
doveva sottoporre la causa al Commissario per la decisione. Uno studio specifico sulle delazioni anonime in uso a
Genova è stato compiuto da E. GRENDI, Lettere orbe. Anonimato e poteri nel Seicento genovese, Palermo, 1989.
345
116
Il regolamento conservò le autorizzazioni per il taglio degli alberi, per l’introduzione di
animali al pascolo e per il taglio e la lavorazione di alberi destinati alla costruzione di imbarcazioni.
Per questo erici, roveri e castagni furono ancora destinatari di una tutela differenziata – ancorché
crescenti su fondi privati – e certi articoli furono poco più che trascrizioni di passi degli statuti o
delle delibere dei Conservatori348. L’utilizzo, il procacciamento e il trasporto di legname per le
fabbriche di sapone, mattoni, calce e pellami fu proibito senza variazioni sensibili. Il rilascio della
licenza di taglio per fini navali fu sottoposto alla prestazione di una cauzione di 100 scudi, in
aggiunta ai tradizionali giuramenti di non tagliare un numero maggiore di alberi rispetto a quelli
richiesti e di completare il lavoro entro due mesi (tre se la lavorazione avveniva lontano dal bosco).
Per la rigenerazione della selva fu sanzionato con la massima pena contemplata dal
regolamento il taglio di alberi giovani, mentre sparì sotto il profilo formale la bandita boschiva349. il
contenuto giuridico fondamentale della bandita però rimase, giacché i fondi privati compresi entro
i confini della selva erano sottoposti a vincoli speciali, quali il già menzionato divieto di taglio di
determinate piante, l’obbligo di doversi munire di licenza per tagliare anche gli alberi non tutelati,
il divieto di pascolo.
Per quanto concerne l’attività pastorale, le capre furono circondate dalla consueta
normativa ostile. Gli Anziani potevano deputare un sito specifico nel bosco per la loro pastura, a
patto che i capi introdotti appartenessero a uomini di Sanremo. Si ribadì la necessità del
giuramento circa la proprietà sanremese dei bestiami in genere portati a pascolare a Bignone. Per
assicurare poi la fertilità della vecchia bandita di pascolo montana e del bosco si proibì
l’asportazione del letame, che avrebbe concimato la terra con comune beneficio350.
Nell’ultimo trentennio di vita della Repubblica le condizioni del bosco andarono
peggiorando, motivo per cui forse anche il governo proseguì a rifornirsi di legname l’Arsenale da
altre selve (Savona, Ceriana)351. Il caso sanremese dimostra come una comunità seppe auto«Non sii lecito a veruna persona di qualonque grado, stato, e condizione il tagliare nelle loro proprie terre tanto
boschili, quanto domestiche alberi selvatici, o brotti né alcuno d’essi come elici, roveri, castagne, et altri di tal natura
alla pena di lire cento per ogni albero e per ogni contrafaciente». Per la sostanziale assonanza del regolamento
settecentesco a disposizioni precedenti vedi ad esempio gli articoli 17, 18, 26 e 34.
349
Il bando riguardava «piante piccole d’alberi ovvero alboretti di elice, rovere, carpano, faggio, pino, e di qualsivoglia
altro genere, o specie comprese anche le piante, ossian alboretti di castagna […] in detti boschi, compresivi anche
quelli, che potessero dirsi de’ Particolari alla pena di lire cento per ogni volta, e per ogni contrafaciente».
350
Il prato di Bignone era interdetto all’accesso animale dal 1 settembre al 31 dicembre, a pena di lire 10 per bovi e
asini e 2 lire per le bestie minute.
351
Vedi la lettera dell’ingegnere Girolamo Gustavo del 20 gennaio 1785 in ASGe, Camera di governo e finanza, 609.
Un’altra lettera anonima che invocava una maggiore attenzione del governo per il patrimonio forestale della riviera di
Ponente menzionava tra i più rovinati «quei di S. Remo e della Colla, ora perduti affatto, ne’ quali non son molti anni
348
117
organizzarsi per gestire un bene comune anche in assenza, o con scarse sollecitazioni, di direttive
dello Stato. L’assenza di una disciplina generale, “legislativa”, non può essere d’altronde
considerata un segno di arretratezza della Repubblica. Se confrontata con esperienze vicine, come
quella sabauda, la politica forestale di Genova non appare affatto “arretrata” sotto il profilo degli
strumenti giuridici impiegati e del rapporto tra fonti. Rispetto al governo piemontese,
l’amministrazione ligure disponeva di minori uomini da impiegare nella sorveglianza, motivo per
cui nel secondo Settecento fu preferita la concessione ai privati, ma solo con la Restaurazione si
pose fine alla reciproca compenetrazione tra diritto locale e leggi del Principe tanto “al di qua” che
aldilà degli Appennini352.
La parziale inefficacia delle norme elaborate lungo l’arco di trecento anni è forse da
addebitare più alle lacune della vigilanza che alla loro oggettiva inadeguatezza. In caso contrario le
riforme del diritto locale successive al 1753 avrebbero mutato sensibilmente il quadro normativo
in materia boschiva ereditato dai Conservatori, cosa che come dimostrato non avvenne. Il
regolamento per i boschi del 1756, pur inserendosi in un contesto di livellamento degli spazi di
autonomia della comunità, rifuse invece in forme nuove contenuti originatisi in loco, nella
consapevolezza che solo gli abitanti del luogo potevano garantire un apparato di regole d’uso
adeguato alle caratteristiche della risorsa e funzionale al soddisfacimento (almeno parziale) della
domanda di legname locale.
che impedito ne fu perfin l’accesso agli Ufficiali della Repubblica incaricati dell’esatta loro ricognizione, della
marcazione delle piante da costruzione in essi essistenti», ASGe, Camera di governo e finanza, 2754. Per un confronto
con un’altra Repubblica R. VERGANI, Legname per l’Arsenale: i boschi “banditi” nella repubblica di Venezia (secoli XVXVII), in S. CAVACIOCCHI, Ricchezza del mare, ricchezza dal mare (secc. XIII-XVIII), Firenze, 2006, pp. 401-414.
352
Come ha ben sintetizzato Pene Vidari, la legislazione piemontese sui boschi prima della Rivoluzione era di
competenza locale (comunitaria o feudale), sottoposta al controllo regio, mentre con la Restaurazione avvenne il
trionfo definitivo della legislazione regia, generale, che impose un’unica disciplina a ogni tipo di coltura forestale,
mettendo fine alle autonomie periferiche, cfr. G. S. PENE VIDARI, Il bosco dall’ambito territoriale locale alla disciplina
sabauda, in Pouvoirs et territoires, cit., pp. 333-340.
118
Capitolo IV
Governare le privatizzazioni: le istituzioni liguri e la tutela delle
comunaglie
1.a) Introduzione
Il problema delle usurpazioni e delle privatizzazioni dei beni comuni e dei correlati
strumenti giuridici di recupero o controllo offre diversi spunti rilevanti circa la capacità delle
istituzioni locali di gestione dei beni di contenerne la dispersione e di analizzare l’operato del
Magistrato delle Comunità, incaricato di vigilare sui patrimoni delle comunità soggette. La
riduzione dei patrimoni comunali avvenne ovunque e in forme differenti. Le caratteristiche socioeconomiche e politiche del contesto ebbero in tal senso un impatto decisivo, determinando la
trasformazione del paesaggio, delle pratiche agro-pastorali e dei relativi diritti reali esercitati sul
suolo353.
Com’è noto, oltre alla diminuzione patrimoniale, il danno principale patito dalle comunità
consisteva nel mancato incasso dei redditi per i canoni o le imposte relative alle terre lavorate
abusivamente. Oltre alle occupazioni illecite da parte dei privati, non può dimenticarsi il ruolo
avuto dai provvedimenti assunti in materia fiscale dai vari governi, che individuarono spesso nei
beni delle comunità i mezzi con cui far fronte a crisi debitorie talvolta abbastanza gravi,
interessanti tanto lo Stato quanto le comunità medesime. La stessa storiografia europea ha
trattato il tema secondo approcci differenti, approfondendo ora le conseguenze economico-sociali
della fine delle proprietà collettive, ora gli aspetti giuridico-istituzionali354. Senza voler dare conto
della sterminata bibliografia sull’argomento, possiamo isolare i tratti principali
Condivisibili appaiono le osservazioni di Raggio, secondo il quale i fattori classici proposti dalla storia economica per
giustificare l’erosione dei diritti collettivi (espansione del mercato e aumento demografico) possono delineare un
contesto generale di approssimazione, ma non sono in grado di spiegare le caratteristiche specificamente locali delle
usurpazioni e della ridefinizione dei diritti di possesso, nonché la manipolazione delle consuetudini, cfr. O. RAGGIO,
Forme e pratiche, cit., pp. 160-161.
354
La storiografia inglese e quella francese possono essere considerate le due principali esponenti di questa diversità
di indirizzi: da una parte, i formidabili cambiamenti indotti dalle enclosures portarono gli storici inglesi a studiarne gli
effetti di medio-lungo periodo nella società inglese, mentre il problema dei differenti diritti collettivi sul suolo e la loro
evoluzione tra XVIII e XIX secolo furono al centro delle riflessioni degli studiosi transalpini, a partire dal già citato
Bloch. Per uno sguardo d’insieme vedi N. VIVIER, Introduction, in N. VIVIER E M. D. DEMELAS (a cura di), Les propriétés
collectives face aux attaques libérales (1750-1914), Rennes, 2003, pp. 15-34.
353
119
Il novero dei conflitti appare molto variegato e di alcuni di essi abbiamo già dato conto
nelle sezioni precedenti: poteva trattarsi di controversie per usi promiscui tra comunità confinanti,
oppure opposizioni alla fisiologica tendenza di piegare fondi pubblici ad utilizzi del tutto privati.
Indubbiamente le appropriazioni illecite operate da medi e grandi proprietari o dai signori feudali
misero a dura prova la tenuta degli assetti collettivi, così come la creazione delle Dogane di
pascolo in Toscana, nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli creò i presupposti per ulteriori
abusi nella gestione delle bandite residue355.
Sempre nel Regnum meridionale usurpi e occupazioni illegali furono conseguenza non solo
dei conflitti interni alla società rurale, ma anche di una più accentuata concezione privatistica del
rapporto con la terra da parte dei feudatari. Tramite chiusure o “difese” i baroni espropriarono
porzioni crescenti del demanio, ledendo con un solo atto la sovranità regia sul territorio e gli
insopprimibili diritti di uso civico delle universitates, per la difesa dei quali i giuristi amalgamarono
materiali diversi, da antiche costituzioni del Regno alle moderne dottrine di diritto naturale356.
L’area senese vide invece prevalere l’espansione della piccola proprietà agricola locale, che erose
nel tempo l’estensione dei fondi prima goduti collettivamente, mentre grandi proprietari cittadini
concentrarono i loro interessi fondiari solo su alcune comunità della Maremma settentrionale,
parzialmente contrastati dall’ufficio dei Quattro conservatori dello Stato357.
A Venezia, la quantità di usurpazioni commesse nello “Stato da terra” portarono la
Serenissima a dare i primi provvedimenti già nel 1461, sancendo il divieto di vendita e concessione
a livello o in enfiteusi dei beni comunali posseduti da più di 30 anni e ordinando la confisca degli
altri. Nel corso del Cinquecento furono poi delegati degli appositi Provveditori alla materia dei beni
comunali che sovrintesero al recupero o all’alienazione dei beni usurpati o illecitamente ceduti
durante le guerre d’Italia. Sempre durante il XVI secolo, Venezia riuscì a imporre per legge il
proprio dominio formale su tutti i communali, mentre alle comunità era concesso soltanto il diritto
Sulle dogane di pascolo vedi almeno O. DELL’OMODARME, La transumanza in Toscana, cit.; ID., Le Dogane di Siena, di
Roma e di Foggia. Un raffronto dei sistemi di “governo” della transumanza in Età moderna, in Ricerche storiche, 26
(1996), pp. 259-303; L. PICCIONI, Montagne appenniniche e pastorizia transumante nel Regno di Napoli nei secoli XVI e
XVII, in Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, XI, 1989-90, pp. 145-234.
356
Cfr. G. CORONA, Demani ed individualismo agrario nel Regno di Napoli (1780 - 1806), Napoli, 1995, pp. 52-77 che ha
notato come alla base delle occupazioni vi fosse, tra gli altri motivi, anche la farraginosità dell’iter giudiziario volto a
legittimare i titoli di proprietà tipica dei tribunali regi a tutti i livelli. Sulla genesi nella giurisprudenza napoletana
dell’uso civico vedi il già citato S. BARBACETTO, Uso civico sul demanio feudale, cit. Cenni sulle pratiche di utilizzo del
demanio e le fonti giuridiche nel Regnum anche in A. BULGARELLI LUKACS, La gestione delle risorse collettive nel Regno di
Napoli in età moderna: un percorso comparativo, in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 227-246.
357
Cfr. E. FASANO GUARINI, La Maremma senese nel Granducato mediceo (dalle “Visite e memorie del tardo
cinquecento), in Contadini e proprietari nella Toscana moderna, vol I, Firenze, 1978, pp. 405-472.
355
120
di godimento. Dopo essersi proposto come paterno difensore dei beni usati collettivamente, alla
ricerca di fonti di finanziamento per la guerra di Candia di metà Seicento, il governo si fece
promotore della loro privatizzazione, ma il consueto concorso di frodi e inefficienza amministrativa
resero tutta l’operazione di gran lunga meno redditizia rispetto alle stime iniziali358.
Altrove la tensione tra assetti collettivi e sfruttamento privato determinò profondi
adeguamenti delle istituzioni di gestione. È il caso ad esempio di alcune Partecipanze agrarie
emiliane, dove già a partire dal XIV secolo si nota una contrapposizione tra i ceti agiati e la
maggioranza dei meno capienti in merito all’assegnazione periodica delle terre comuni. La volontà
dei maggiorenti di rastrellare molti lotti assegnati ai poveri e interrompere il riparto periodico per
favorire uno stabile sviluppo delle attività agricole si unì alla progressiva esclusione dei residenti
non originari dal diritto di accesso. A fronte delle novità interessanti il mondo contadino tra il XV e
il XVI secolo, le Partecipanze tesero così a chiudersi verso l’esterno, contrapponendo alle mire
espropriatrici dei proprietari cittadini (bolognesi in primis) una comunanza di interessi e di fatiche
a difesa dei suoli collettivi359.
La sopravvivenza di beni utilizzati collettivamente variò anche in relazione alle
caratteristiche geografiche e naturali del luogo in cui erano situati. Si è già avuto modo di
accennare nel capitolo I che in generale le maggiori resistenze alla privatizzazione provennero
dalle aree alpine, laddove la proprietà collettiva costituiva una risorsa integrativa delle piccole
proprietà private fondamentale per le popolazioni residenti, rispetto alla pianura. Qui l’erosione a
beneficio della proprietà privata fu nettamente più evidente. Emblematica appare la decisione
assunta dal governo austriaco di Milano nel 1779, quando con editto fu ordinata l’alienazione
coattiva di brughiere e terreni incolti delle sole pievi di pianura del territorio lombardo.
L’indebitamento di molte comunità aveva già concorso a soppiantare gli usi collettivi dei boschi e
Cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., in particolare pp. 39-190.
Fu a questo proposito che si pose la distinzione tra beni collettivi, appartenenti ai consortes e sottoposti ai poteri di
amministrazione della Partecipanza, e beni comuni, rimasti indivisi e fruibili anche da parte di coloro che erano stati
esclusi dalla chiusura dei partecipanti. Tuttavia tale distinzione non si verificò ovunque nello stesso momento, cfr. M.
DEBBIA, Il territorio di Nonantola durante il medioevo: partecipanza o beni comuni? Il significato dei beni comuni nella
storia della comunità locale, in E. FREGNI (a cura di), Terre e comunità nell’Italia Padana. Il caso delle Partecipanze
Agrarie Emiliane: da beni comuni a beni collettivi, in Cheiron n. 14-15 (1990-1991), pp. 123-130; R. DONDARINI,
Comunità rurali, cit. Come ha scritto Cazzola, la chiusura della Partecipanza fu un mezzo di difesa non privo di
contraddizioni, ma per certi versi indispensabile per fronteggiare tanto i contrasti con i residenti esclusi quanto i rischi
di disgregazione intestini del gruppo stesso dei comunisti, cfr. F. CAZZOLA, Tra conflitto e solidarietà: considerazioni
sull’esperienza storica delle Partecipanze agrarie dell’Emilia, in Cheiron n. 14-15 (1990-1991), pp. 293-307.
358
359
121
dei prati a vantaggio di una gestione patrimoniale (affitto periodico) più redditizia360. Le somme
incassate dalla privatizzazione furono vincolate all’estinzione dei debiti contratti dalle comunità.
La crisi delle forme di sfruttamento collettivo delle risorse agro-pastorali e dei relativi
istituti giuridici è quindi da imputare ad un concorso di fattori che, spezzando il legame
solidaristico tra gli utenti, ne determinarono il venir meno. Nel corso del XVIII secolo, il diffondersi
di nuove idee agronomiche di matrice fisiocratica-liberale assegnarono un rango preminente allo
sviluppo dell’agricoltura nel quadro delle politiche economiche degli Stati. I sovrani erano
sollecitati a promuovere riforme che facilitassero la libera impresa e il dissodamento di crescenti
porzioni di terreno: in tale ottica usi civici di pascolo o di legnatico e proprietà collettive indivise e
sottoutilizzate rappresentavano un cattivo esempio di gestione del territorio e dovevano quindi
essere superate361. Dalla seconda metà del secolo si registrarono quindi iniziative di
parcellizzazione e vendita dei beni comuni, ma tempi, modi di attuazione e reazioni sociali a
queste politiche non sono perfettamente sovrapponibili da Stato a Stato362.
È innegabile perciò che il processo di depauperamento delle risorse collettive origini già
prima della grande stagione privatizzatrice del secondo Settecento. Molti Principi si proposero di
scongiurare la perdita dei beni comuni sottoponendo a vincoli più stringenti le comunità in
relazione agli atti dispositivi dei bona propria e di tutti i redditi e introiti fiscali. Le magistrature di
sforzarono di mantenere in equilibrio il rapporto tra i fondi lavorati dagli abitanti e le risorse
naturali comuni, nella consapevolezza della loro indefettibile interdipendenza. Oltre all’espansione
delle proprietà private, crescevano anche le esigenze dell’erario e si faceva più concreta la
probabilità di attingere ai beni comunali per potere onorare il carico fiscale. Secondo Mannori, lo
Stato mediceo fu allo stesso tempo soggetto attivo del trend di concessione in enfiteusi o terratico
di ampie parti di fondi comunali e difensore di quegli usi collettivi la cui soppressione avrebbe
Cfr. M. ROMANO, I beni "comunitativi": la gestione delle risorse collettive nella Lombardia austriaca della seconda
metà del Settecento, in La gestione delle risorse collettive, cit., pp. 207-226. Per quanto riguardava le zone montuose,
pochi erano i beni naturali di qualche valore che giustificassero la vendita. Tuttavia la scarsità dei mezzi disponibili da
parte dei residenti li rendeva in tutto e per tutto necessari alla sopravvivenza di popolazioni già provate da notevoli
tassi di emigrazione: la vendita coattiva avrebbe solo aggravato le loro condizioni, senza benefici per lo Stato.
361
Cfr. N. VIVIER, Propriété collective et identité communale: le biens communaux en France 1750-1914, Parigi, 1998,
pp. 29-34. Va detto che non tutti i piani di riforma presentati dagli agronomi, per quanto critici verso le condizioni dei
fondi collettivi, prevedevano necessariamente il trasferimento ai privati. Alcuni, come il piano del conte d’Essuiles di
tentò di conciliare un più razionale sfruttamento della terra con il mantenimento del sistema feudale, suggerendo di
frazionare solo i diritti di godimento ma mantenendo la proprietà fondiaria in capo ai comuni. Sempre N. VIVIER,
Introduction, cit., ha sottolineato come idee simili si diffusero anche al di fuori degli ambienti strettamente fisiocratici
francesi.
362
Per una cronologia più dettagliata si rinvia ai diversi saggi contenuti in Les propriétés collectives face aux attaques
libérales, cit.
360
122
causato più danni che benefici. Ciò avvenne sulla scorta della già illustrata convinzione che voleva i
beni comuni come appartenenti all’università degli uomini componenti la comunità e non all’ente
amministrativo, oltre che in base a ragioni di opportunità sociale e politica contingenti.
Si può quindi affermare che i secoli centrali della modernità videro gli Stati porsi in
generale come vigili conservatori del patrimonio delle comunità, almeno fino a quando il dissesto
delle finanze locali, le (eventuali) necessità belliche, le innovazioni nel mondo agricolo e
l’emersione di nuove idee economiche non posero i presupposti perché gli stessi sovrani
decidessero di riconfigurare il tradizionale sistema di diritti reali sulla terra in senso più
individualista. Con riguardo alla Repubblica genovese è opportuno soffermarsi ora in dettaglio sui
tratti fondamentali del fenomeno appropriativo e sul sistema organizzato dalla Repubblica per
intervenire laddove mala amministrazione e usurpazioni mettevano a rischio le comunaglie
possedute dalle comunità. Esula dall’oggetto di questa sezione illuminare in dettaglio le
trasformazioni agrarie avvenute tra XVII e XVIII secolo in Liguria, così come non ci attarderemo nel
ricostruire le reti di relazioni sociali sottostanti i casi di usurpazione dei beni comunitativi di cui
andremo a trattare: i (relativamente pochi) lavori dedicati all’argomento hanno già in parte
avanzato documentate conclusioni363.
In questa sezione prenderemo dunque le mosse dall’analisi delle problematiche sottese
all’utilizzo delle azioni possessorie che le comunità avrebbero potuto esperire per costringere gli
usurpatori dei loro beni a liberarli per giustificare la creazione di apposite magistrature dotate di
ampi poteri arbitrari, tra le quali si colloca il Magistrato delle Comunità genovese. Una breve
esposizione delle caratteristiche principali delle usurpazioni delle comunaglie liguri sarà seguita
dall’esame di alcuni processi condotti dal Magistrato, differenti per importanza ed esiti, e da un
sintetico sguardo al controllo amministrativo sulle alienazioni dei beni comunali decise dalle
comunità locali.
Mi riferisco in particolare a O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., che ha esaminato casi di occupazione di comunaglie a
Castiglione, Lumarzo, Albisola, Vallefredda e Comuneglia. Su alcune di queste torneremo anche nelle pagine che
seguono. Inoltre, sebbene non giuridicamente soggette alla Repubblica di Genova, interessanti anche le conclusioni di
B. PALMERO, Comunità, creditori e gestione del territorio, cit. svolte a proposito di Briga. Grazie ad essi si è appurato che
all’origine delle appropriazioni illecite vi furono prevalentemente i proprietari medio-grandi locali, spesso inseriti in
reti parentali in grado di condizionare le scelte economiche fondamentali della comunità come la rinegoziazione dei
diritti di possesso collettivo sulle terre comuni. Con particolare chiarezza emerge poi il peso dell’indebitamento
comunitario per la dissoluzione dei beni comunali nel caso di Briga, che pur non essendo sottoposta alla giurisdizione
genovese, bensì a quella sabauda, vantava relazioni e interessi con le comunità liguri confinanti come Triora e Ceriana.
363
123
2.a) Il problema del recupero dei beni usurpati in dottrina: due consilia di Della Corgna ed Ondedei
Muovendo dal principio secondo cui Universitas minoris et pupillis aequiparatur, l’attività
negoziale delle comunità si svolgeva sotto la vigilanza dell’autorità superiore e soltanto l’ordinaria
amministrazione era immune da forme di controllo. Per tutti gli atti economicamente più rilevanti
(stipula di censi per ottenere denaro immediatamente spendibile, aggiornamento dei libri
catastali, acquisto o vendita di beni immobili) era necessaria l’autorizzazione del sovrano. In
particolare l’alienazione dei beni comunali, notoriamente fonte di abusi che vedevano le comunità
invariabilmente nel ruolo di parti lese, fu circondata da formalità ben dettagliate e sottoposta alla
decisiva licenza del Principe364.
Va ricordato però che il grado di compressione dell’autonomia negoziale e patrimoniale
delle comunità variò da Stato a Stato. Il c.d. “accentramento” si adattò alle forme e alle condizioni
istituzionali di ciascun ordinamento regionale, realizzandosi sì in modo diacronico nei diversi Stati,
ma lungo linee di sviluppo assimilabili. In tale ottica è forse erroneo soffermarsi eccessivamente
sulla qualità degli strumenti impiegati, fossero tradizionalmente giurisdizionali o in senso lato
“amministrativi”, dal momento che sembra più rilevante analizzare i risultati effettivamente
conseguiti365.
A contrario, pure i casi di illecita spoliazione del patrimonio comunitario chiamavano in
causa il Principe e, come detto nel paragrafo precedente, non furono pochi gli Stati che istituirono
apposite magistrature per recuperare i beni. In stretto diritto, tutti i beni situati entro i confini
della comunità che non fossero di proprietà altrui appartenevano alla stessa universitas, ma le
pratiche di utilizzo potevano riguardare solo una parte di essi o differenziarsi comunque in ragione
delle caratteristiche specifiche di quel bosco o di quel prato. Non era infrequente insomma che
Su questo vedi l’ultimo paragrafo di questa sezione. Per fare un esempio, le comunità toscane furono
sostanzialmente private della qualità di centro decisionale autonomo: oltre a non poter più disporre liberamente dei
propri beni, furono anche vincolate ad amministrarli secondo le direttive impartite dal centro. Tra i mezzi tipicamente
impiegati per il controllo del patrimonio comunale possono citarsi i censimenti periodici – finalizzati a costringere gli
eventuali occupatori abusivi a sanare la loro posizione o a liberare il fondo -, le visite, i decreti di autorizzazione delle
eventuali alienazioni, i processi di accertamento dei diritti vantati da comunità e privati, l’imposizione di incanti per
l’ordinaria amministrazione, cfr. L. MANNORI, Il sovrano tutore, cit., pp. 189-222. Sulle formalità richieste dalla dottrina
per la vendita dei beni comunali vedi A: Dani, Usi civici, cit., pp. 421-432.
365
Del tutto condivisibile appare la riflessione di Elena Fasano Guarini, secondo la quale il controllo dei bilanci e del
riparto delle imposte, la conservazione dei patrimoni comunali e la prevenzione dell’indebitamento furono gli
strumenti che si affiancarono alla giurisdizione allo scopo di pacificare la società e comporre i conflitti. Accorgimenti
nuovi per esigenze antiche e insopprimibili dunque, ma come la stessa studiosa precisa: «Tutto ciò non è avvenuto
dovunque nello stesso tempo e allo stesso modo, con la stessa forza, con gli stessi orientamenti e la stessa efficacia.
Non ha in ogni caso comportato la sospensione delle autonomie locali e non ha precluso la lunga sopravvivenza di
forme di negoziazione», cfr. E. FASANO GUARINI, Conclusioni, in Comunità e poteri centrali, cit., pp. 315-331.
364
124
castra e villae possedessero molteplici risorse naturali soggette ad uno sfruttamento variabile, più
o meno intenso e regolamentato366.
L’usurpazione di un bene creava i presupposti perché i sindaci della comunità esperissero le
azioni di reintegrazione del possesso offerte dal diritto comune romano-canonico, introducendo
una controversia di fronte al giudice di volta in volta competente a decidere. Eppure non può
ignorarsi il fatto che in moltissime circostanze non fu agli strumenti ordinari che le comunità
guardarono per difendersi dagli occupatori, bensì a procedimenti attivati con semplici suppliche
rivolte alle magistrature statali. Possiamo già anticipare che su questa linea si attestarono anche le
comunità liguri nei loro rapporti con le magistrature centrali.
Le cause di questa scelta possono essere ricostruite analizzando due consilia stilati da Pier
Filippo Della Corgna e da Giovan Vincenzo Ondedei367. Protagoniste dei pareri – nonché
committenti delle scritture – due comunità umbre, rispettivamente Nocera e Spello. Dagli scarni
dettagli sui fatti della causa si apprende che la prima era stata convenuta in giudizio dal monastero
di San Pietro per un’asserita occupazione di boschi e pascoli siti su un monte. La seconda invece,
vittima di un’usurpazione di beni comunali operata da un feudatario locale nel 1507, agì contro gli
eredi per recuperare i beni solo nel 1580.
Entrambi i giuristi si espressero nell’ambito di due cause possessorie azionate ai sensi del
canone Reintegranda, un rimedio possessorio che Graziano aveva tratto dallo Pseudo Isidoro e
inserito nel Decretum368. Su tale canone la dottrina aveva costruito in via interpretativa l’azione
Oltre ai beni valorizzati economicamente, spettavano alla comunità anche le terre incolte, a prato o a selva, situate
entro i confini, come affermava il Cravetta in un noto parere spesso richamato A. CRAVETTA, Consiliorum sive
responsorum, Francofurti ad Moenum, Impens. Rulandiorum et Nicolai Rhodii, 1605, cons. 154, n. 1. Nell’incertezza
dei toponimi e dei titoli proprietari, diventava quindi fondamentale provare contro gli usurpatori l’effettivo possesso
della comunità tramite l’uso del pascolo e della raccolta di legna esercitati dagli abitanti o in virtù di accordi negoziali
oppure su mandato e dietro consenso della stessa comunità, cfr. N. LOSA, Tractatus de iure universitatum, Lugduni,
Sumptibus Antonii Chard sub signo S. Spiritus, 1627, pars III, cap. XVI, nn. 13-14. Su Losa vedi anche E. RUFFINI AVONDO,
Il trattato "De jure universitatum" del torinese Nicolò Losa (1601), in Rivista di storia del diritto italiano, IV (1931), pp.
5-28.
367
P. F. DELLA CORGNA, Consiliorum sive responsorum, Volumen secundum, Venetiis, Apud Nicolaum Bevilacquam, &
Socios, 1572, cons. 247; G. V. ONDEDEI, Consiliorum sive responsorum, Volumen primum, Venetiis, Apud Haeredem
Luciani Pasini & Socios, 1692, cons. 17.
368
Si riporta il testo completo: «Reintegranda sunt omnia expoliatis vel eiectis Episcopis presentialiter ordinatione
Pontificum: et in eo loco ubi abscesserant, funditus revocanda, quacumque conditione temporis, aut captivitate, aut
dolo, aut violentia malorum, et per quascumque iniustas causas res ecclesiae, vel proprias, id est sua substantias
perdidisse noscuntur ante accusationem, aut regularem ad synodum vocationem eorum», c. Reintegranda, 3, q. 1.
366
125
possessoria generale, utilizzabile (almeno dall’inizio del XV secolo) anche in campo civile per il
recupero della cosa perduta a seguito di una spogliazione369.
Alla base della sua fortuna giocarono due fattori: l’esiguità delle condizioni richieste per la
sua esperibilità e l’ampio novero di ipotesi di spossessamento contemplate. In punto di elemento
oggettivo la Reintegranda richiedeva soltanto che l’attore avesse perduto il possesso della cosa di
cui chiedeva la restituzione, mobile o immobile che fosse, senza pagamento di danni né interessi.
L’attore era quindi tenuto a provare il suo antico possesso e ad allegare l’attuale (e ingiusta)
disponibilità della cosa presso il terzo convenuto. Dal punto di vista soggettivo, la Reintegranda
era azionabile tanto dagli ecclesiastici quanto dai laici e il giudice, raggiunta la prova del possesso
precedente e della spoliazione, doveva concedere la restituzione a prescindere dalla buona o mala
fede del terzo. Anche nel caso in cui il convenuto fosse ignaro dell’illecito o fosse addirittura
munito di titolo, il rimedio era legittimamente invocabile370.
Della Corgna ed Ondedei si misurarono con il fenomeno delle usurpazioni di beni collettivi
nell’ambito di un rito possessorio che non li impegnava a ricostruire la titolarità della proprietà dei
beni in capo ad uno dei contendenti – circostanza frequente nei processi medievali su questi temi,
lo si ribadisce – ma mirava semplicemente ad assegnare al precedente possessore la materiale
disponibilità del bene, una volta provata l’illecita perdita. La lettura combinata dei loro pareri ci
permette di isolare tre questioni significative relative all’efficacia dell’azione Reintegranda nel
contrasto alle occupazioni dei beni comuni: la nozione si occupazione, la prova del possesso e
l’operatività di prescrizioni e presunzioni legali.
L’azione Reintegranda fu considerata dai primi canonisti come un mezzo di stretto diritto canonico, con esclusiva
tutela del possesso di cose ecclesiastiche. La tendenza estensiva del suo campo di applicabilità fu contrastata, senza
successo, da Innocenzo IV nel commento alla decretale clementina Saepe contingit. Papa Fieschi tentò di ricondurre il
testo del Decretum al rango di semplice principio generale, cui davano concreta attuazione l’interdetto unde vi e gli
altri rimedi romanistici. L’interpretazione dei canonisti e civilisti successivi rigettò la posizione innocenziana,
qualificando la Reintegranda come un’azione generale di recupero del possesso distinta dalle altre. All’inizio del
Cinquecento Roberto Maranta la descrisse come «plenissimum remedium, et magis generale, et concurrit cum
omnibus aliis remediis», R. MARANTA, Speculum quod aureum, et advocatorum lumen, sive etiam aurea praxis merito
vocatur, Francofurti ad Moenum, Impens. Sigis. Feyrab., 1586, pars IV, n. 58. Sulla Reintegranda nel quadro delle
azioni a tutela del possesso vedi. A. PERTILE, Storia del diritto italiano, cit., vol. IV, pp. 185-195; E. BESTA, I diritti sulle
cose, cit., pp. 274-284; L. MASMEJAN, La protection possessoire en droit romano-canonique médiéval (XIIIe-XVe siècles),
Montpellier, 1990, pp. 184-205.
370
Nello specifico poteva sollevare eccezione ed opporsi efficacemente al recupero il terzo possessore in buona fede
munito di titolo, che avesse ricevuto la cosa da un dante causa a sua volta in buona fede, opinione citata come
comune dal Menochio. Eccezioni fondate su elementi di fatto diversi non erano sufficienti a vanificare la domanda
attorea. Per l’analisi di tutte le possibili ipotesi con i rimandi dottrinali vedi J. MENOCHIO, De adipiscenda, retinenda et
recuperanda possessione doctissima commentaria, Genevae, Apud Ioan de Tournes, et Iac. De La Pierre, 1629, XV, nn.
67-86.
369
126
Soffermiamoci inizialmente sui caratteri stessi della perdita del possesso. Le fattispecie
volgarmente chiamate “usurpi” o “occupazioni” erano qualificate come spoliationes, che potevano
comportare o meno l’uso della violenza per espellere o escludere il precedente titolare371.
Qualificarle come occupationes in senso tecnico avrebbe significato considerare i beni come res
nullius, vacanti e in attesa di qualcuno pronto ad impadronirsene. Della Corgna, contestando
l’imprecisione terminologica del libello avversario, rilevava però che boschi e pascoli non erano res
nullius, dal momento che salvo diversa attribuzione, si presumevano della comunità entro i cui
confini erano situati372. Si poneva a questo punto il problema della prova del possesso da parte
della comunità, affare di non poco momento373.
Si è già fatto cenno alla questione della capacità testimoniale dei membri dell’universitas
nei processi in cui la stessa comunità era parte, rievocando il contributo di Ugo Petronio circa la
natura pubblica o comune delle risorse naturali374. In sintesi Petronio ha rilevato come la
distinzione operata per la prima volta da Odofredo, circa l’inammissibilità della testimonianza dei
cives in cause vertenti su beni della comunità da cui ricavavano un’utilità diretta, sia stata
sostanzialmente seguita e confermata dai giuristi successivi fino a Bartolo e Baldo, offrendo ai
trattatisti del tardo diritto comune una communis opinio non più revocabile in dubbio. Così
Prospero Farinacci nel suo Tractatus de testibus, enunciato il principio della generale ammissibilità
dei cittadini all’ufficio di teste a favore della loro comunità, poté definire verissima et communis
Si deve sempre alla canonistica del Due-Trecento la progressiva confusione tra la deiectio romana, vale a dire lo
spoglio violento, e la spoliatio canonica, intesa come semplice privazione illecita di una cosa per fatto del terzo, cfr. L.
MASMEJAN, La protection possessoire, cit., pp. 108-113. Il venir meno di una nozione qualificata di violenza ebbe un
rilievo importante alla luce dell’esperibilità degli interdetti classici e nel contesto della Reintegranda Ondedei si
espresse così: «Nihilominus quia quis duobus modis spoliatus dici potest, et per vim, et re ipsa. Etiam si non probetur
violentia, satis spolium iustificatur re ipsa, probata antiquiori possessione», G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, n.
13.
372
L’obiezione non solo formale per la scelta lessicale censurava il libello del monastero di S. Pietro, nella parte in cui
accusava gli uomini di Nocera di aver occupato i suoi beni e non di averli spogliati: «Quia verbum occupo variis modis
sumitur, et quandoque in bonam, et quandoque in malam partem ponitur, et quandoque indifferenter […] Nec est
verum in caso nostro verba necessario tendant ad spoliationem. […] Sed occupare dicitur ille qui ingredit animo
querendi possessionem, quam ipse non habebat; sed erat penes alium tempore ingressus quem ipse ingrediens
intendebat spoliare, et sibi quaerere possessionem, quae occupatio dicitur spoliatio, quae spoliatio non comittitur sine
violentia. Verbum occupatio, sumatur quandoque pro occupante possessionem vacantem […] In casu nostro non vere
posse sumi dictis modis, cum dicatur in libello quod occupavit bona possessa per monasterium et Abbatem, et non
erant vacantia, et occupatio tendebat in damnum et iniuria possidentis», P. F. DELLA CORGNA, Consiliorum, cit., cons.
247, nn. 8, 14. La definizione di occupazione riprende quella data da P. DI CASTRO, Consiliorum sive responsorum, vol. II,
Augustae Taurinorum, Apud haeres Nicolai Bevilaquae, 1580, cons. 57, n. 2
373
Si rammenta che, in assenza di titoli legittimanti, la comunità acquisiva il possesso di risorse usate collettivamente
mediante gli usi praticati dagli abitanti, a patto che a monte vi fosse un mandato, o almeno la «scientia et patientia»
dei rettori, che valeva come un mandato tacito, come ricordava Ondedei appoggiandosi ad un’opinione indiscussa, G.
V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 77-78.
374
Si rinvia a U. PETRONIO, La proprietà del bosco e le sue utilità, cit., in particolare pp. 430-435.
371
127
l’eccezione che si dava «in casu in quo commodum spectat ad singulos de universitate, quo casu
non solum testis de universitate seculari, sed etiam ecclesiastica, nihil probat»375.
Tra i numerosi dottori intervenuti a corroborare l’interpretazione tradizionale, lo spagnolo
Diego de Covarrubias affrontò direttamente la questione della rilevanza dei diversi regimi di
utilizzo delle risorse collettive ai fini dell’ammissione delle testimonianze dei cittadini. La
distinzione compare fin dall’apertura del parere, quando il giurista cita le liti «ubi de pascuis
publicis et communibus agitur» mosse dai cittadini di città, oppida e villaggi. Al giurista non
sfuggiva che i fondi destinati al pascolo erano gestiti in modi diversi, con rilevanti ricadute sulla
natura dei diritti vantati dai cittadini-utenti. Poiché l’utilità doveva essere riferita alla comunità per
rendere valida in giudizio la testimonianza di un suo membro, il criterio da seguire nel caso di
specie era la subordinazione dell’esercizio del pascolo (o altro diritto collettivo sul bene) al
pagamento di una somma in denaro. Quindi soltanto se la lite riguardava i pascoli sfruttati dalla
comunità in vista di un introito finanziario – qualche che sia il sistema adottato – i suoi membri
potevano testimoniare davanti al giudice376.
Su questo punto Ondedei si sofferma diffusamente nell’ambito della propria difesa di
Spello, che nella causa contro i feudatari aveva prodotto la testimonianza di due cittadini a
sostegno della propria domanda. Si intuisce dal consilium una probabile contestazione avversaria
della veridicità stessa della deposizione, fondata sulla ricaduta positiva che la vittoria in giudizio
avrebbe avuto per gli abitanti di Spello. Tale circostanza ad avviso delle controparti era in grado di
viziare la dichiarazione e trasferire il commodum dalla comunità ai singoli.
Ondedei replica richiamando un argomento tipico delle liti sorte da comunioni («Quia
potius solet negligi, quod communiter possidetur») per comparare l’interesse dei singoli a quello
della comunità al recupero dei pascoli. Il commodum ricavato da Spello sopravanza quello degli
abitanti, che tornerebbero a fruire dei pascoli non immediate, bensì dietro pagamento di un
P. FARINACCI, Tractatus de testibus, Francofurti ad Moenum, Zacharias Palthenius D. Typographus, 1606, quest. 60,
nn. 450-455 e 496 con numerose citazioni di altri giuristi.
376
Covarrubias parte dal ricordato principio generale, secondo il quale «in causa universitatis non esse testem
idoneum eum, qui sit de ipsa universitate, ubi tractatur in ea lite de iure universitatis, quod unicuique privatim
commodum, vel damnum infert» mentre al contrario vanno ammessi i cittadini «quia in universitatem commodum
ipsum defertur, non in singulos ipsius universitatis». Ferma la distinzione, al giudice spetta quindi comprendere le
modalità di utilizzo del bene controverso per ricavare da esso le correlate preclusioni probatorie: «non ad usum
publicum singulorum, sed ad locationem pascuorum pro annuo precio in publicum aerarium conferendo, esset civis, et
oppidanus in ea causa testis legitimus et idoneus», D. DE COVARRUBIAS Y LEYVA, Quaestionum practicarum, earumque
resolutionum, Francofurti, Ex Officina Typographica Nicolai Bassaei, Impensis Sigismundi Feierabend, 1573, cap. XVIII,
n. 4. Sulla stessa falsariga vedi anche A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. XXXI, nn. 3-5.
375
128
canone riscosso dagli ufficiali locali, come si soleva fare prima dell’usurpazione377. Il giurista non
nega la materiale convergenza dei due interessi, ma la percezione di un prezzo per l’esercizio del
pascolo rende prevalente e giuridicamente autonomo l’honorem et utilitatem della comunità.
Considerato che gli introiti così generati non sono distribuiti ai cittadini ma spettano ad bursam et
capsam communem, il beneficio tratto dai singoli in caso di esito favorevole del processo è una
mera conseguenza378.
Una terza questione strettamente correlata a quest’ultima coinvolge il decorso del tempo
ai fini sia della prescrizione acquisitiva dei beni usurpati sia della decadenza dall’azione di
recupero. Sul primo versante il quadro era in linea teorica definito con sufficiente precisione: la
prescrizione operava in presenza dei due noti requisiti (tempo trascorso e buona fede del
possessore). Tuttavia conformemente alla ridotta capacità di alienare ad libitum, frutto
dell’equiparazione al pupillo, anche la prescrizione di beni appartenenti ad una comunità era
soggetta a notevoli limitazioni, presentandosi diversamente in relazione al tipo di bene
interessato. A seconda dei casi, oscillava tra 100, 40 e 30 anni379. Ma per le cose publico usui
destinatae assumeva nuovamente un ruolo decisivo il regime di accesso in vigore, oltre alla qualità
stessa della cosa. Vie, piazze, teatri e i beni loro equiparati come pascoli e boschi, lasciati all’uso
libero del popolo, si consideravano imprescrittibili per natura. Al contrario le medesime risorse
naturali, nel momento in cui diventavano fonte di entrate finanziarie per le comunità, erano
impropriamente
considerate
comuni
ed
erano
pertanto
soggette
alla
prescrizione
quarantennale380.
Ondedei rigetta l’accusa di falsa testimonianza sostenendo non solo il prevalente interesse della comunità, ma
anche che le terre di pascolo contese non erano così estese da rappresentare un incentivo tanto remunerativo da
indurre i testi a mentire, cfr. G.V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, n. 27.
378
Il rapporto meramente consequenziale di un interesse rispetto all’altro è affermato in maniera non equivoca:
«Praeterea quia commodum principaliter respicit universitatem, et si in consequentiam esset singulorum, illud non
videtur attendendum, nec in consideratione habetur ad repellendum testes». Applicando i principi già espressi al caso
esaminato, Ondedei concludeva: «Sed quando (ut in casu de quo agitur) commodum et utilitas non spectat ad
singulos, sed ad Universitatem, et fructus bonorum per officiales Communis recipiuntur pro communi utilitate, testes
idonei reputantur», cfr. G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 28, 37. Della Corgna dedicò al problema minore
spazio, G. F. DELLA CORGNA, Consiliorum, cit., cons. 247, nn. 8-9.
379
La prescrizione centennale riguardava quei beni acquisiti dalla comunità a titolo di legato, donazione,
compravendita o lascito ereditario e trovava fondamento nel canone De sacrosancta Ecclesia dell’Authenticum. Per gli
altri beni, e salve le eccezioni che si diranno in seguito, la prescrizione era di trenta o quarant’anni.
380
Il principio per cui «impraescriptibilia esse omnia usui publico destinata» era sottoposto ad una serie di limitazioni
e specificazioni, sintetizzate da N. LOSA, Tractatus de iure universitatum, cit., parte III, cap. 17, in un capitolo
interamente dedicato al tema della prescrizione a favore o contro la comunità. Come è stato messo in evidenza dal
Dani però il tema dell’imprescrittibilità risulta godere di maggior attenzione presso la dottrina meridionale, la quale
come si è accennato si serviva anche della prescrizione acquisitiva per contrastare gli abusi baronali, mentre le
comunità dell’Italia centro-settentrionale sembrano aver risolto altrimenti la tensione tra diritti collettivi e interessi
377
129
Quanto alla buona fede, il discorso si fa più complesso, perché la materia contemplava un
ampio ventaglio di ipotesi in cui operavano delle presunzioni legali, a loro volta contraddette da
numerosi casi speciali, ed è pertanto ineludibile fare una sintesi limitata allo specifico oggetto della
nostra trattazione. Preliminarmente va ribadito che per principio generale il possesso più antico si
presumeva non solo lecito ma anche goduto in buona fede, mentre quello più recente – salvo
ovviamente prova contraria – era guardato con sospetto, al punto da essere definito
“clandestino”, potenzialmente contra ius381. La situazione era ovviamente più grave quando il
possessore, oltre ad essere in mala fede, era privo pure di un titolo.
Ora va da sé che gli occupatori erano spesso (ma non sempre) consapevoli della natura
pubblica dei fondi appropriati e quindi dell’illiceità della loro condotta. Non di rado però venivano
chiamati a rispondere dei loro atti molti anni o decenni dopo l’avvio degli abusi. La regola civilistica
della presunzione di buona fede a favore di chi avesse posseduto la cosa per trent’anni era stata
mitigata dai principi dedotti dal diritto canonico. Così la prescrizione trentennale poteva sanare la
mala fede iniziale solo se essa era presunta, mentre se era certa e provata l’occupatore non
poteva in alcun modo allegare il decorso del tempo a proprio vantaggio382.
È chiaro che anche in questa circostanza la possibilità tanto materiale che giuridica di
provare il possesso precedente di una comunaglia usurpata e l’atteggiamento del preteso
spogliante aveva un impatto decisivo sulle probabilità di poter vincere in giudizio, specie quando la
causa era intentata dopo molto tempo e le stesse testimonianze si facevano incerte. Il complicato
privati, cfr. A DANI, Usi civici, cit, pp. 436-437. A titolo esemplificativo è sufficiente consultare il trattato del lucano De
Jorio sui privilegi delle università per apprezzare le diverse ipotesi contemplate in tema di prescrittibilità di bona
communia, dal diritto di pre-occupazione, alla prescrizione di servitù fino all’acquisto di diritti contro i Baroni. L’ultimo
caso era quello dei beni usati per ottenere delle entrate come pascoli, boschi e laghi. Essendo beni venduti o affittati
secondo schemi negoziali variabili, il cui uso quindi non era aperto indiscriminatamente a tutti, non potevano dirsi res
in publico usu ed erano quindi soggetti alla prescrizione di 40 anni, C. DE JORIO, Tractatus de privilegiis universitatum,
Neapoli, Typis Caroli Porsile Regii Impressoris, 1713, priv. 22, n. 32. Un discorso analogo valeva per le servitù di
pascolo, cfr. A. FERNANDEZ DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., cap. 17.
381
Per una rassegna di opinioni vedi D. TOSCHI, Practicarum conclusionum iuris in omni Foro frequentiorum, Romae, Ex
Typographia Aloysii Zannetti, 1606, vol. VI, concl. 412. Sulla presunzione favorevole a chi dimostrava di aver goduto
del possesso nel tempo più risalente cfr. L. MASMEJAN, La protection possessoire, cit., pp. 91-95.
382
L’incidenza della mala fede nella prescrizione è analizzata da Aimone Cravetta. La purgazione della mala fede
presunta grazie alla longi temporis praescriptio si fondava sul commento bartoliano al rimedio Unde vi ed era stata
ripresa da altri commentatori. Ma, avverte Cravetta, «de iure canonico standum est in hac materia malae fidei»: i
canonisti avevano escluso che la mala fede, connessa al peccato compiuto, potesse estinguersi per il solo passare del
tempo. Cravetta ammoniva quindi a non servirsi dell’autorità di Bartolo per estendere l’effetto sanante anche ai casi
in cui la mala fede era certa, ostando in tal senso i precetti canonistici, A. CRAVETTA, Tractatus de antiquitatibus
temporum, Lugduni, Apud Haeredes Iacobi Iuntae, 1562, parte IV, arg. Expressio alicuius actus, nn. 16-21. Nel suo
Repertorio il Bonacossa riportava: «Mala fides praesumitur quando sciebat rem esse alienam, item statim, quod
incipit scire rem a se possessam esse alienam; item in occupante praesumitur mala fides usque ad 30 annos tantum»,
I. BONACOSSA, Aureum repertorium alphabeticum De Praesumptionibus, Venetiis, Ex officina Damiani Zenari, 1580, p.
212-r.
130
gioco delle presunzioni e delle relative eccezioni era un ulteriore fattore di complicazione. A
riprova di ciò, nel processo seguito dal Della Corgna come avvocato di Nocera, il monastero aveva
prodotto a sostegno della domanda di recupero sia testimoni che atti di locazione, ma la comunità
era riuscita a provare con propri testimoni che da almeno 70 anni possedeva i beni pretesi dai
religiosi, tempo sufficiente per far scattare la presunzione di buona fede in capo ai nocerini383.
L’acquiescenza dell’universitas nell’agire contro gli occupatori poteva determinare anche la
decadenza dal diritto di esperire l’azione possessoria. Il punto era però controverso proprio per
l’origine canonistica della Reintegranda, che si prefiggeva di tutelare i beni e gli uffici ecclesiastici
senza limiti temporali. Le divergenze sono ampiamente testimoniate dal Cardinal Toschi, che a
proposito del rimedio in parola elenca gli autori (tra gli altri Bartolo e Tartagni) secondo i quali
dopo 30 anni si presumeva la buona fede del possessore attuale e il venir meno dell’interesse ad
agire dello spogliato, ma rivela altresì che la giurisprudenza costante della Rota romana era stata
di opposto avviso, decidendo sempre nel senso dell’imprescrittibilità del diritto ad agire384.
Imprescrittibilità che le comunità alle prese con il recupero dei beni comuni avevano tutto
l’interesse a sostenere, come nel caso di Spello. Ondedei, forte proprio della giurisprudenza rotale,
rigettò l’eccezione di decadenza sollevata dei feudatari sostenendo non solo la perpetuità
dell’azione, ma anche la legittimazione passiva degli eredi dell’originario usurpatore, avendo essi
ricevuto i beni dal padre che li aveva ovviamente invasi e tenuti in mala fede385.
I consilia dei due giuristi hanno dimostrato che, nonostante la sommarietà del rito, l’uso
della Reintegranda per recuperare i beni comunali presentava non poche controindicazioni. Lo
Non solo i testi del monastero non provavano il possesso dell’ente religioso oltre un decennio, ma gli stessi atti
prodotti non sembravano riguardare esattamente i boschi al centro della lite. In ogni caso, sostiene Della Corgna,
anche se i contratti di locazione provassero il possesso della controparte, a favore della comunità convenuta
interverrebbe la prescrizione. Tali atti non sarebbero in grado di dimostrare la mala fede dei nocerini perché «ex tam
longissima possessione debet resultare praesumptio bonae fidei». P. F. DELLA CORGNA, Consiliorum, cit., cons. 247, nn.
11-12.
384
Cfr. D. TOSCHI, Practicarum conclusionum iuris in omni Foro frequentiorum, Lugduni, Sumptibus Phil. Borde., Laur.
Arnaud, et Claud. Rigaud, 1661, vol. I, concl. 45, nn. 82-85.
385
Si ricorda che la causa era stata intentata da Spello contro i figli del feudatario che aveva occupato i beni ben 73
anni prima dell’inizio del processo. La Reintegranda ammetteva che il bene restasse presso l’attuale possessore in
buona fede soltanto se questi aveva ricevuto il bene da un dante causa a sua volta in buona fede. Nel caso di specie, lo
spoglio era stato fatto consapevolmente e pertanto la mala fede seguiva la cosa, pregiudicando gli eredi convenuti pur
in presenza di un titolo di per sé valido. Sempre a proposito della valutazione processuale del trascorrere del tempo, è
interessante infine notare un altro argomento richiamato da Ondedei. Per rispondere all’obiezione tesa a sminuire
l’efficacia delle testimonianze a favore della comunità su fatti tanto lontani, il giurista si appellò al metus. Spello era
stata dissuasa per molto tempo dall’agire per recuperare i beni comunali perché i signori erano «viri potentissimi».
L’inerzia era da riferirsi quindi al timore di probabili ritorsioni e non certo alla decisione di rinunciare spontaneamente
all’azione: «Quando quis est spoliatus, si postea renunciat, per metum renunciasse praesumitur», G. V. ONDEDEI,
Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 60-62, 79-86.
383
131
specifico regime di utilizzo del bene dedotto in giudizio era in grado di influenzare in maniera
decisiva l’uso degli strumenti processuali a disposizione delle parti: dall’ammissione dei testimoni
all’eccezione di mala fede o di prescrizione, le “istituzioni di gestione” in senso ostromiano – vale a
dire l’insieme di regole vigenti per l’accesso e la fruizione di una risorsa collettiva – erano
determinanti nel facilitare o rendere più ardua la restituzione. L’appiglio per superare la messe di
preclusioni di cui il processo era disseminato era dato dall’arbitrium iudicis. Un cenno a questo
proposito si rinviene proprio nel parere di Ondedei, che dopo aver addotto diversi argomenti a
favore della capacità probatoria delle testimonianze a favore di Spello, ammette:
«Praesertim quia cum in materia probationis non possit certa regula constitui. Sed an aliquid sit plene probatum,
remittatur arbitrio iudicis, qui potest ex diversis praesumptionibus et coniecturis motum animi sui confirmare et ex eis
sententiam ferre»386.
L’arbitrio del bonus iudex doveva garantire così una decisione conforme ad un superiore canone di
giustizia anche nei riti regolati, e di questo la dottrina giuridica era ormai pienamente convinta.
L’invasione delle terre comuni assunse però in molti casi proporzioni assai più vaste: interi ettari
furono occupati e sottoposti ad uso privato nell’arco di pochi anni, circostanza che si verificò
anche in Liguria nelle forme che si illustreranno a breve. È chiaro che di fronte ad illeciti di tale
portata i semplici rimedi possessori – per quanto sommari e diretti arbitrariamente dal giudice –
non potevano garantire un sollievo rapido alle comunità spogliate.
A fronte di un fenomeno che andava espandendosi, le comunità soggette riversarono sui
Principi una domanda di giustizia a difesa dei loro patrimoni via via più intensa e incline a non
esperire le azioni ordinarie. In molte realtà il recupero dei beni comunali fu perciò rimesso alle
cure di apposite magistrature, accomunate dal ricorso sistematico all’arbitrium quale strumento
non solo di gestione del processo, ma pure di individuazione equitativa della soluzione in grado di
conciliare opposti interessi387.
Le suppliche al sovrano sostituirono quindi i libelli introduttivi dei giudizi e i processi di
recupero dei beni usurpati acquisirono un’indubbia valenza politica, così come intrisa di forti
G. V. ONDEDEI, Consiliorum, cit., cons. 17, nn. 73-74.
In tema di arbitrium obbligatorio il rinvio a M. MECCARELLI, Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti
giuridici in età di diritto comune, Milano, 1998. In particolare per la sovrapposizione dell’arbitrator alla figura del
giudicante, con le relative conseguenze sui piani della semplificazione delle forme processuali, della natura transattiva
delle decisioni e dell’assorbimento nell’arbitrium delle clausole diminuentes iuris ordinem pp. 43-61 e 255-276.
386
387
132
idealità politiche era la stessa pratica di supplicare il sovrano affinché si prendesse concretamente
cura degli interessi e dei bisogni di singoli o gruppi, giusta la vocazione paternalistica del suo
potere388. L’abbattimento al minimo delle forme rituali consentì ai magistrati incaricati di acquisire
le prove, ispezionare i luoghi, ricevere le testimonianze degli abitanti della comunità senza tema di
eccezioni di nullità legate alla qualità della fonte di prova o al tempo trascorso. Così facendo, uscì
del tutto innovato il quadro degli strumenti attivabili allorquando le violazioni a danno dei beni di
comune utilizzo si facevano più gravi: la discrezionalità degli ufficiali incaricati di risolvere le
vertenze modellò nuove procedure, più efficaci dei rimedi tradizionali389. La valutazione delle
nuove situazioni di possesso e dell’alterazione delle consuetudini locali si inscriveva così in una
negoziazione tra il centro e gli attori periferici (usurpatori e comunità spogliata) che non poteva
non svolgersi senza un’attività di indirizzo e conferma dei risultati svolta dai sovrani.
Il bilanciamento di interessi tra la tutela del patrimonio comunitario e la legittimazione dei
nuovi diritti di proprietà risultanti dalle occupazioni non fu certo sempre ottimale, ma rappresentò
il tentativo di contenere le trasformazioni del comparto agricolo alla luce di una specie di “diritto
al sostentamento”, che tutti gli uomini dovevano poter esercitare sulle risorse naturali e che
costituiva allo stesso tempo un contrappeso alla facoltà di vendere pascoli e boschi in capo ai
Principi. Vedremo ora che il governo della Repubblica non si discostò dall’eseguire questo
bilanciamento in tutti i principali casi di occupazione390.
A differenza degli atti introduttivi dei giudizi ordinari, dove l’esito degli stessi era predeterminato, la supplica apriva
un canale istituzionale di dialogo in cui i supplicanti potevano contrattare la soluzione della questione con il sovrano,
cui era rimessa la decisione finale. Su questi temi c. In particolare per un quadro generale il saggio ivi contenuto di C.
NUBOLA, La «via supplicationis» negli Stati italiani della prima età moderna (secoli XV-XVIII), in Suppliche e
«gravamina», cit., pp. 21-63.
389
I Provveditori sopra i beni comunali veneziani ad esempio erano muniti di giurisdizione sulle materie di loro
competenza ed erano chiamati a decidere sulle liti relative tanto all’uso quanto al dominio dei beni comuni. L’iter del
processo che si svolgeva davanti al collegio, per quanto speciale, vedeva comunque la partecipazione degli Avvocati
fiscali della Signoria, cfr. S. BARBACETTO, «La più gelosa delle pubbliche regalie», cit., pp. 85-98. Con i dovuti distinguo,
anche gli Intendenti francesi alle acque e foreste ricorsero ai loro poteri giurisdizionali largamente discrezionali per
mediare tra Parlamenti, comunità, chiese e signori feudali in occasione de processi per l’appropriazione indebita o la
divisione dei beni comunali, N. VIVIER, Propriété collective, cit., pp. 57-64.
390
Il principio fu enucleato con particolare chiarezza dai giuristi tedeschi attivi nel primo scorcio del Seicento. Cristoph
Besold ad esempio scriveva a proposito della vendita dei beni pubblici, stigmatizzando il cattivo uso spesso fatto del
denaro ricavato: «In primis nullo unquam tempore vendenda sunt ea bona atque iura, quae tuendae
conservandaeque Reipublicae sunt destinata: item pascua civitatum, atque rusticorum, quibus tenues sustentatur.
Haec enim omnia nulla ratione vendi debent, quia vendita, et Rempublicam et subditos perdunt», C. BESOLD, Discursus
de aerario publico, Argentorati, Sumptibus Heredum Lazari Zetzneri, 1639, cap. V, p. 159, poi ripreso da altri, come
Kaspar Klock e il già citato Christian Gottfried Leisser. In Italia, pur emergendo qua e là nelle fonti di ogni angolo del
Paese, fu alla base della costruzione giurisprudenziale dell’uso civico per S. BARBACETTO, L’uso civico sul demanio
feudale, cit.
388
133
2.b) Il Magistrato delle Comunità di fronte alle occupazioni
Si è già parlato della costante riduzione della superficie boschiva che accomunò la Liguria al
resto d’Europa nei secoli moderni, senza però raggiungere livelli tali da poter definire la regione
una terra di “colline senza boschi”. È parimenti difficile stimare le proporzioni dell’erosione del
patrimonio fondiario collettivo che interessò il territorio sottoposto alla Repubblica genovese tra il
XVI e il XVIII secolo391. Dai fascicoli contenuti negli archivi è però possibile ricavare alcune
indicazioni di massima sugli aspetti salienti del fenomeno.
Un primo dato che emerge con chiarezza riguarda lo scopo delle principali occupazioni:
l’avvio di determinate colture di pregio, o comunque essenziali per il commercio locale. Tra tutte
spicca il piantamento di alberi di castagno, sulla cui tutela e diffusione si è già avuto modo di
ragionare. Oltre ai castagneti pubblici e privati, spesso già destinatari di specifiche disposizioni da
parte di statuti o bandi campestri, a partire dalla fine del Cinquecento prese campo in diverse
località la pratica di piantarne ex novo su comunaglie prima adibite al pascolo collettivo, o di
inserirli o sostituirli a danno della vegetazione silvestre preesistente.
Altri tipi di coltivazione permanente (viti, alberi da frutto, talvolta cereali) si direbbero
meno frequenti e la loro comparsa dipese comunque dalle caratteristiche geo-climatiche del sito.
A ciò fece seguito una più decisa intolleranza verso il permanere dell’utilizzo collettivo del fondo
usurpato: sebbene la coltivazione del castagneto non fosse astrattamente incompatibile con
l’esercizio di alcuni diritti collettivi, gli occupatori tesero a escludere chiunque dal godere in
qualsiasi modo dei frutti offerti dai loro fondi.
La pratica attraversa i secoli. A Castiglione Chiavarese, teatro del più importante caso di
usurpazione di terre comuni, le occupazioni abusive iniziarono intorno agli anni 70-80 del
Cinquecento e si conclusero con i provvedimenti del Commissario Michele Bozomo nel 1643. Il
censimento del 1611-14 riportò fedelmente la consistenza e la gravità degli abusi.392 Una relazione
stilata nel 1615 dal Podestà locale per conto della Camera dei Procuratori in occasione del
processo per il recupero dei beni ci informa che i terreni stabilmente occupati venivano lavorati in
391
Tale difficoltà è dovuta anche all’assenza di unità d’archivio dedicate esclusivamente al problema delle usurpazioni
e degli abusi a danno dei beni comuni, neppure nel fondo del Magistrato delle Comunità. I casi su cui fonderemo
l’analisi che andiamo ad introdurre sono tratti da materiali in parte contenuti nelle filze del Magistrato, in parte dai
fondi di altre magistrature (Giunta dei Confini, Camera dei Procuratori) interpellate dal Senato per l’istruttoria o un
parere sulla singola pratica.
392
Le risorse collettive della Podesteria castiglionese erano notevolmente differenziate, trattandosi di prati, boscaglie
di brughi e arbusti e boschi di roveri, faggi e castagni, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835.
134
maniera differente: i boschi comuni che già ospitavano castagneti selvatici erano oggetto della
consueta piantatura o inserimento di ulteriori castagni, mentre un’altra parte veniva “roncata” e
coltivata a semenza (grano e segale) a periodi intermittenti393. Tutto ciò aveva ridotto
sensibilmente l’area soggetta al pascolo collettivo, dal momento che le piante novelle sia di
castagno che quelle di cereali non potevano essere poste in pericolo dalla voracità degli animali.
All’esito del processo per il recupero dei beni, di cui parleremo più avanti, il 50% delle terre
vendute agli occupatori era costituito da castagneti e su un restante 30% di fondi con coltivazioni
promiscue, il castagno era la specie dominante394.
Tra gli anni ‘70 e ’80 del Seicento iniziò una vasta campagna di occupazioni anche ad
Albisola, vicino a Savona, ma il governo genovese ne fu informato solo nel 1707395. Pure in questo
caso che le terre usurpate accolsero castagneti, talvolta piantati da pochi anni e non ancora in
grado di fruttificare, mentre assai minoritarie appaiono altre specie (fichi, prugne). In numerosi
casi il castagneto si unì all’impianto di vigneti, per la realizzazione dei quali gli occupatori ricorsero
al terrazzamento di interi versanti collinari, con un sensibile mutamento del paesaggio agricolo
locale396. La pratica del “roncamento” fu applicata diffusamente quasi ovunque.
Il 4 febbraio 1792 fu infine denunciato al Magistrato delle Comunità che i Carmelitani Scalzi
del convento di S. Agostino di Triora avevano usurpato due ampie porzioni di territorio comune
(dette le Negree e Capriolo). I frati avevano fatto piantare più di 800 alberi di castagno e, per
proteggerne la crescita, impedivano il pascolo altrui e la raccolta del fieno a coloro che, in virtù di
regolari contratti d’affitto con la comunità, volevano esercitare i loro diritti sui fondi397.
Sulla diffusione del castagneto per opera dell’uomo a partire dal tardo medioevo si è già
detto. È verosimile che a Seicento inoltrato tale tendenza fosse anche ascrivibile alla penuria di
Come già illustrato, la bruciatura di sterpaglie e del sottobosco consentiva di liberare il terreno per la semina e di
produrre le ceneri da impiegare come fertilizzante naturale. Il fondo così arricchito avrebbe garantito frutti per due o
tre anni consecutivi, salvo poi essere lasciato a riposto per periodi oscillanti dai 5 agli 8 anni, in cui sarebbe stato
impiegabile come area di pascolo. Il testo della relazione del 1615 è interamente riportato da F. FIGONE, La Podesteria
di Castiglione. Lineamenti storici. Sestri Levante, 1995, pp. 150-153.
394
Cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 165-167.
395
ASGe, Magistrato delle Comunità, 551.
396
I lotti occupati visitati dagli ufficiali furono ben 57, di diversa estensione, da modesti prati adiacenti alle proprietà
private a versanti collinari. Per una delle numerose occupazioni della famiglia Giachino in località Cava la visita riporta
che «in qual occupatione è stato fatto vigna da cima a fondo, campiva, vignata et arborata». Nel bosco detto delle
Lercie, gli eredi di tal Pietro Rossello avevano distrutto una parte importante di vegetazione (più di 1600 alberi di
quercia bruciati) per far spazio ai campi e ai nuovi castagneti. Sempre ai Rossello erano riferibili un’occupazione in
località Piantavigna, dove il bosco aveva ceduto il posto a castagneti e vigne, e in località Roscia, dove Nicolò Rossello
aveva disboscato per costruire una cascina e coltivare fichi e prugne, ASGe, Magistrato delle Comunità, 551.
397
ASGe, Magistrato delle Comunità, 481.
393
135
cereali e all’andamento dei prezzi delle granaglie, che in generale conobbero un aumento, con
alcuni picchi tra gli anni 90 del Cinquecento e il 1648-49. Negli stessi anni delle più importanti
usurpazioni di comunaglie, Genova e la Liguria vivevano poi una pesante crisi annonaria, sopperita
soprattutto grazie ai rifornimenti del Nord Europa, e anche la marineria ligure stava riducendo il
proprio raggio d’azione, sospingendo molte persone a vivere del lavoro della terra e non più – o
non soltanto – del mare. Non si può escludere a priori che tali fattori non contribuirono ad
aumentare la pressione sulle terre ancora libere di cui la regione disponeva398.
Qua e là emergono poi dalle fonti fattispecie di usurpazione meno allarmanti per
dimensioni o per i danni arrecati al resto della popolazione, in cui l’allargamento della proprietà
privata non pare ricollegarsi automaticamente a obiettivi in senso lato speculativi. Non è peraltro
sempre possibile comprendere se e quali coltivazioni furono intraprese dagli occupatori sulle
comunaglie invase ma quel che è certo è che le novità introdotte si ripercossero sul piano dei
diritti collettivi esercitabili dagli abitanti.
È il caso ad esempio delle diverse occupazioni segnalate intorno al 1623 in Val Polcevera,
nell’immediato ponente genovese, disseminate tra varie comunità dell’alta valle399. Il Senato fu
informato che gli uomini di due famiglie (Rizzo e Gallino) occupavano da quasi dieci anni sei
appezzamenti di terra al Giovo, tutti confinanti con le comunaglie del luogo, per seminarvi
granaglie e legumi. Ulteriori indagini svolte dal Capitano di Polcevera Giulio Della Torre fecero
emergere un’altra ventina di usurpatori, che sui siti occupati avevano costruito cascine e avviato
colture comuni (segale, biade, grano), mentre altri avevano soltanto chiuso i prati per riservarli
esclusivamente ai loro capi di bestiame o per segarvi il fieno400.
Sui prezzi del grano vedi ad esempio G. FELLONI, Prezzi e popolazione in Italia (secoli XVI-XIX), in Scritti di storia
economica, cit., II, pp. 1231-1287. Il trend non mutò nel Settecento: per fare un esempio tratto dagli studi di Doria, a
Montaldeo il prezzo del grano aumentò del 44%, quello delle castagne del 66% tra il 1732 e il 1735, G. DORIA, Uomini e
terre di un borgo collinare: Dal XVI al XVIII secolo, Milano, 1968, p. 142. Sulla marineria ligure vedi, per ulteriori
riferimenti bibliografici L. PICCINNO, Economia marittima e operatività portuale, in Atti della Società Ligure di Storia
Patria, n.s. XL/1 (2000), L. LO BASSO, Economie e culture del mare: armamento, navigazione, commerci, in Storia della
Liguria, cit., pp. 98-114.
399
Le principali località citate sono Torbi, Giovi (oggi sul territorio di Mignanego), Busalla, Montanesi, Santo Stefano di
Larvego, Capanne di Marcarolo, San Martino di Paravanico.
400
Così Battista Ghiglione «ha usurpato communaglia vicino alla Bochetta, luogo detto Prè de Buosi, nel qual luogho
da due o tre anni in qua vi appara sbarra, e vi sega l’herbe, e dice che vuole amazzare le vacche che vi vanno». A San
Martino di Paravanico era invece la locale Compagnia del Corpus Domini a denunciare l’occupazione di un campo in
parte seminato e in parte lasciato a prato, fatta da tal Gio. Batta Parodi, terra che la Compagnia affittava per lire 4.10
all’anno e che, dopo un momentaneo rilascio, era stata nuovamente usurpata. Interessante notare come la qualità di
bene comune fosse utilizzata dallo stesso Parodi contro le pretese di reintegro della Compagnia: «Quelli di detta
Compagnia richiedono però che li si ordini, che rilasci detta terra, lui allega, che è ben di Commune, però non ha
ragione alcuna compita», ASGe, Archivio segreto, 49.
398
136
A Mele, giurisdizione di Voltri, nel 1716 fu denunciata un’importante occupazione di risorse
collettive compiuta da un certo Tommaso Gaggero. Dalle testimonianze non si evince in quale
maniera le comunaglie fossero state impiegate dopo l’appropriazione. Di certo, oltre a fornire
brughi e legna da cui qualche testimone ricavava abbastanza per vivere e l’erba per gli animali,
l’area era attraversata da tre rii costantemente muniti d’acqua che la rendevano idonea per una
coltivazione più intensiva, ciò che avrebbe giustificato la sottrazione dei fondi al libero accesso da
parte degli altri abitanti di Mele401.
L’asperità del terreno tipica del paesaggio ligure rendeva impegnativa anche l’occupazione
abusiva delle terre in possesso delle comunità sotto i profili del lavoro richiesto per adattarle alle
nuove esigenze produttive e dei relativi mezzi economici necessari. Non è quindi casuale, in
perfetta continuità con quanto riscontrato in altre regioni d’Italia, che responsabili delle
appropriazioni fossero soprattutto i ceti più abbienti. Sulla composizione sociale dei responsabili
delle usurpazioni più gravi (Albisola, Castiglione Chiavarese) si è concentrato il lavoro di Raggio, dal
quale spicca il fatto che poche “parentele”, numericamente molto estese e forti di legami
clientelari all’interno della comunità e di appoggi al di fuori, si accaparrarono una buona fetta dei
fondi402. Nel caso di Castiglione ciò si può riscontrare in modo plateale. La composizione degli
occupatori fu all’inizio decisamente variegata. Accanto ad alcuni esponenti delle principali famiglie
del posto, si trovarono anche decine di semplici contadini che da lunghissimo tempo solevano
coltivare stagionalmente appezzamenti di terreni comuni. Un paio di decenni dopo la situazione si
era nettamente evoluta in senso elitario, per cui un ristretto numero di famiglie controllava ormai
buona parte delle comunaglie usurpate a scapito di chi le aveva abbandonate o era divenuto un
loro lavorante.
Alla base di tali manovre non vi fu soltanto il desiderio di allargare le proprie basi
patrimoniali. In taluni casi si può ravvisare nell’occupazione delle comunaglie la volontà di
sottrarre certe risorse (soprattutto boschive) alle comunità confinanti, funzionale ad un progetto
di sfruttamento organizzato delle stesse. In una situazione di cronica incertezza dei confini, il taglio
401
Al momento di decidere sul rilascio, gli stimatori valutarono in 6 lire il valore dei terreni occupati e in ben 12 lire
quello dei miglioramenti apportati dal Gaggero, segno che i fondi erano stati sicuramente coltivati intensivamente,
ASGe, Magistrato delle Comunità, 551.
402
Ad Albisola fu l’iniziativa di un gruppo proveniente da Ellera (piccola comunità dell’entroterra) economicamente
dotato e capace di avviare un massiccio sfruttamento del territorio a mutare profondamente il panorama agricolo del
territorio e le consolidate consuetudini di utilizzo comune delle boscaglie di cui la comunità abbondava. A Castiglione
le famiglie Carroccio e Castiglione si impadronirono della maggioranza relativa delle comunaglie, vedi O. RAGGIO,
Forme e pratiche, cit.
137
di un bosco o la costruzione di cascine comportavano la ridefinizione dei confini giurisdizionali tra
le comunità, per mezzo dei quali si incrementavano anche le risorse economiche a disposizione di
alcuni suoi membri403. Sembra difficile immaginare che simili piani fossero attuabili senza la regia
dei principali possidenti locali, contemporaneamente uomini forti del governo comunitario. La
stratificazione sociale interna alle comunità trova quindi una sua epifania nel momento delle
usurpazioni.
Sul fronte opposto i soggetti danneggiati dai cambiamenti in atto indirizzarono al governo
della Repubblica le loro proteste, supplicando il Senato affinché ordinasse il ripristino delle
consuetudini violate. Ovviamente l’oggetto delle rivendicazioni variava a seconda della microeconomia locale, importando di più ora la difesa dei diritti di pascolo ora di raccolta della legna o
di altri frutti (erba, foglie). Portato all’attenzione delle magistrature, il conflitto si ricomponeva
servendosi del linguaggio giuridico e, come illustreremo meglio nel prossimo paragrafo, il conflitto
palesava interessi materiali e concezioni della proprietà del suolo divergenti tra le parti in causa.
Le controversie legate alle appropriazioni illegali di comunaglie dal 1623 furono rimesse al
Magistrato delle Comunità, che per statuto doveva sorvegliare l’amministrazione dei luoghi
soggetti e intervenire qualora malversazioni e spese eccessive portassero disordini e scontento tra
i popoli del Dominio. La legge istitutiva del 1623, parzialmente modificata negli anni successivi,
diede al nuovo collegio l’autorità sufficiente per reprimere gli abusi amministrativi diffusissimi a
livello locale e, contemporaneamente, promosse una politica di più duro contrasto contro chi
impoveriva le comunità. Il depauperamento poteva essere causato in tante maniere: stipula di
contratti di censo dagli interessi troppo onerosi, mancata riscossione dei crediti e occupazione
illecita di beni comunali. Su questo ultimo punto l’articolo 9 della legge disponeva:
«Di più conoscendo, che alle dette Communità siino usurpati et occupati indebitamente beni, terre, case, e
possessioni così domestichi, come selvatici, o altre qualsivoglian cose a loro spettanti, avrà facoltà, e cura di farglieli
restituire con pagamento de frutti ove debbano pagarsi, dichiarando però, che chi si sentirà in ciò gravato, possa aver
È quanto nota ad esempio T. PIRLO, Un clamoroso episodio, cit., pp. 5-18, dove il signore del feudo di Masone a
partire dagli anni Settanta del 1500 incoraggiò l’occupazione dei boschi contesi con gli uomini di Voltri per rilanciare
l’attività delle ferriere. Quantunque indecisa, l’occupazione delle comunaglie in Val Polcevera pare assumere tratti
simili, dal momento che la trattazione fu assegnata dal Senato alla Giunta dei confini a motivo dell’alto numero di
appezzamenti appropriati in zone incolte di diverse località.
403
138
ricorso agl’Ill.mi Procuratori, li quali possano procedere in ciò quello, che per giusticia stimeranno convenirsi, per il
quale ricorso però non si ritardi l’essecuzione della sentenza»404.
Con questa disposizione si attribuiva la giurisdizione sui beni comunali al Magistrato, che diventava
giudice di prima istanza, essendo ammesso appello alla Camera dei Procuratori da parte del
soccombente. La formula molto ampia consentiva alle comunità di dedurre di fronte al Magistrato
qualsiasi lesione su beni di loro pertinenza, anche in materia di acque, come illustreremo nel
prossimo capitolo.
L’articolo non fu intaccato né aggiornato: anche i capitoli e i regolamenti emanati dal
Magistrato delle Comunità tra Sei e Settecento si proposero di riformare – con alterne fortune –
altri settori problematici dell’amministrazione delle universitates (nomina degli agenti e degli
esattori; controllo dei conti; riscossione dei debiti) ma non si registrano altri provvedimenti di
rilievo sui patrimoni comunali405. Per il Magistrato questo fu solo uno delle molteplici fattispecie di
pregiudizio che le comunità potevano subire dai loro stessi abitanti, non meritevole di un
trattamento differenziato anche dal punto di vista cancelleresco406.
Volgendo lo sguardo al profilo delle condotte punite, possiamo notare una tendenza
evolutiva della legislazione nel segno di un più uniforme e severo trattamento verso coloro che
attentavano ai beni comunali. La rubrica De damnis reficiendis et arboribus caedendis del libro VI
degli statuti civili genovesi non fissava solo una pena pecuniaria per i danni dati agli alberi entro la
giurisdizione cittadina genovese ma stabiliva altresì che tale soglia non potesse essere derogata in
melius dagli statuti e dalle fonti in vigore presso le comunità locali407. All’estendersi delle
usurpazioni, richiesto da più luoghi di intervenire, il Senato emanò un decreto il 20 marzo 1600,
che abbiamo già citato al capitolo I. Ricordiamo che il contenuto dispositivo del decreto proibiva i
“roncamenti” e i tagli selettivi a scopo di coltivazione tanto nei boschi della Camera e nelle
ASGe, Manoscritti, 311.
Una raccolta di capitoli e regolamenti del Magistrato è in ASGe, Magistrato delle Comunità, 514, 520.
406
A differenza di altre magistrature simili, il Magistrato delle Comunità non separò gli atti relativi alle occupazioni dei
beni comunali dagli altri. Suppliche, relazioni di visita, processi si trovano quindi infilzati insieme alle altre pratiche
trattate nell’anno (periodo di suddivisione delle filze d’archivio) o, in qualche caso, nelle serie degli atti e scritture
provenienti dalle giurisdizioni maggiori (Commissariati o Capitanati).
407
Nella versione in volgare del 1622 si legge: «Chi farà alcun danno ne i boschi della Republica, o anco spettanti alla
communità o per uso, o altrimente, cada nelle pene respettivamente statuite a coloro, che fanno danni in simili
boschi, purché però non siano minori delle soprascritte respettivamente», Degli Statuti civili della Serenissima
Repubblica di Genova Libri sei, tradotti in volgare da Oratio Taccone, Genova, per Giuseppe Pavoni, 1622, libro VI, cap.
XIV, p. 189
404
405
139
comunaglie delle comunità, stabilendo pene arbitrarie che raggiungevano la condanna alla galea o
al bando, oltre al solito risarcimento del danno408.
Se in precedenza abbiamo osservato che il decreto non prendeva in alcun modo posizione
circa il punto della titolarità dei beni, proponendosi solo di punire determinati modi d’uso che ne
alteravano la natura collettiva, possiamo ora mettere in evidenza il fatto che il decreto assegnava
esplicitamente ai giusdicenti l’incarico di controllare e riferire al Senato su eventuali privatizzazioni
illecite dei boschi comuni, cui avrebbero fatto seguito i provvedimenti più acconci al caso.
Con l’istituzione del Magistrato delle Comunità il governo decise quindi di completare
l’abbozzo di accentramento avviato già da alcuni anni, affidandogli la competenza su tali questioni.
È evidente però che la fissazione del recupero dei beni nell’interesse delle comunità soggette
quale obiettivo principale del Magistrato esprimeva la volontà politica di governare i conflitti senza
ricorrere soltanto alla punizione dei responsabili, ma contrattando la parziale restituzione dei beni
occupati.
Sotto il profilo procedurale la legge istitutiva munì il collegio dell’arbitrium necessario per
procedere «sommariamente e riguardata la sola verità del fatto», tralasciando le subtilitates409. La
Repubblica mise così a disposizione delle comunità dominate una magistratura in grado di
procedere contro gli abusivi senza i limiti e le dilazioni proprie della giustizia civile ordinaria410. Ai
fini della concreta efficacia delle decisioni del Magistrato si ribadiva l’importanza del giusdicente
locale, una volta di più vera longa manus del governo nel Dominio. Podestà e Capitani non
avrebbero solo fornito ministri, notai e “cavalleri” in servizio presso la loro curia per lo
Copia del decreto in ASGe, Magistrato delle Comunità, 514. Il capitolo, già presente nella redazione statutaria del
1413, fu riscritto e semplificato nel 1588 e inserito nel libro VI degli statuti civili, cfr. R. SAVELLI, Scrivere lo statuto, cit.,
pp. 102-103.
409
L’espressione «sola facti veritate inspecta» risaliva alla clementina Saepe contingit ed era una delle varie clausole
che esoneravano il giudice dall’obbligo di seguire strettamente l’ordo procedendi. In concreto concedeva al giudice
maggiori poteri anche rispetto a quelli esercitabili in virtù della clausola «sine figura iudicii». Per l’instaurazione del
giudizio era sufficiente una petizione contenente i soli elementi di fatto, anche poco dettagliati ed approfonditi. Il
giudice andava incontro a pochi limiti quanto all’assunzione delle prove, specie quelle testimoniali, sia durante che
dopo la conclusione del procedimento e poteva sentenziare anche in merito a fatti non contenuti nell’istanza
introduttiva, vedi R. MARANTA, Speculum quod aureum, cit., parte IV, distinctio IX, nn. 32-34; O. CACHERANO D’OSASCO,
Decisiones Sacri Senatus Pedemontani, Francofurti, Paltheniana, Curante Ioanne Feyrabendio, 1590, dec. I, nn. 20 e ss.
410
Per esteso l’articolo 6 disponeva: «Avrà detto Magistrato facoltà, e cura di far non solo ad istanza delle Communità,
e suoi agenti, o d’altri interessati, m’anche ex officio render buon e vero, e leal conto con pagamento del reliquato, da
chi avrà amministrato, o amministrerà per l’avvenire cure, e negotii publici delle Communità, e Luoghi predetti, e non
l’avrà resi legittimamente, e lealmente a giudicio di detto Magistrato, procedendo in ciò, come anche a tutte l’altre
cose spettanti alla sua cura sommariamente, e riguardata la sola verità del fatto, senza rimedio d’appellazione,
concedendo solo, che chi si sentisse gravato possa averne ricorso dal Serenissimo Senato, il quale ricorso non ritardi
l’essecuzione del giudicato, e per esseguire, e far esseguire le deliberazioni, che farà, possa non solo servirsi de
ministri della Città, ma li Giusdicenti del Dominio debbano prontamente somministrar li loro ministri, acciò sia
esseguito quello, che dal Magistrato sarà stato ordinato», ASGe, Manoscritti, 311.
408
140
svolgimento delle ordinarie pratiche accessorie ai procedimenti (citazioni, notifiche di
provvedimenti e gride, visite) ma avrebbero ricoperto l’ufficio di giudice delegato del Magistrato
se il caso l’avesse richiesto.
La riforma, introducendo criteri equitativi e discrezionali nel giudizio sulle occupazioni,
seguiva una tendenza ampiamente diffusa e palesava anche l’attenzione dei Collegi verso le
popolazioni dominate, in particolare verso quegli strati più poveri spesso autori delle suppliche di
denuncia. Essa era pure coerente pure con l’obiettivo della riduzione del contenzioso tra
comunità, fenomeno che prosciugava le casse e faceva aumentare le tensioni. Nell’ottica dei
governanti genovesi la speditezza del rito portava quindi con sé indubbi vantaggi411.
Non possiamo però isolare il dispositivo di poteri arbitrari così congegnato dal contesto.
Nello specifico, il contesto era un Dominio politicamente e giuridicamente composito, da cui
discendeva anche una certa pluralità di istituzioni di gestione dei beni collettivi, che si
conformavano alle caratteristiche economiche e politiche delle società che ne fruivano. I casi di
Sanremo e Pieve di Teco sono emblematici a tal proposito, ma se spostiamo l’angolo visuale dalla
periferia alla magistratura centrale, possiamo rilevare la linea politica tenuta dal Magistrato su
questo frangente.
Il collegio non si fece promotore di riforme riguardanti il regime giuridico dei beni posti
sotto la sua vigilanza, né si ingerì spontaneamente nelle pratiche di gestione degli stessi vigenti
presso le comunità del dominio. Il motivo, va ricordato, risiedeva probabilmente nel crocevia di
interessi di cui i beni comunali erano il fulcro: un’area di pascolo era al tempo stesso una risorsa
finanziariamente redditizia, un “ammortizzatore sociale” naturale, un confine tra comunità o tra
Stati. La materia era quindi spinosa, troppo per provvedimenti di ampio respiro e omologanti. Il
Magistrato delle Comunità giocò quindi “di rimessa”: gli ampi poteri giurisdizionali di cui disponeva
furono dispiegati solo in occasione di iniziative provenienti dal Dominio. Il meccanismo supplicarescritto, largamente utilizzato dai Collegi governativi, fu riproposto anche dal Magistrato, che con
L’esigenza di assicurare una definizione rapida del procedimento possessorio a tutela dello spogliato tramite la
sommarietà del rito era comunemente affermata in dottrina. Menochio a proposito scriveva: «Hinc docent omnes,
spoliatum de facto sua possessione, ante omnia esse restituendum, etiam de facto sine aliqua iuris solennitate, lege
vel ipsa permittente». Pertanto il giudice poteva utilizzare anche prove di per sé deboli per formarsi un
convincimento, J. MENOCHIO, De arbitrariis judicum quaestionibus et causis, Genevae, Sumptibus Samuelis De Tournes,
1690, q. VII n. 74; q. XXIV n. 4. Maranta ricordava che pure le cause in cui erano coinvolti pupilli, ai quali le comunità
erano equiparate, dovevano essere trattate sommariamente R. MARANTA, Speculum quod aureum, cit., parte IV,
distinctio IX, nn. 43, 193-194.
411
141
propri decreti – o con pareri che costituivano la parte sostanziale degli atti emanati dal Senato –
regolò situazioni e rapporti giuridici ben determinati, con efficacia inter partes.
Ma le occupazioni, e per certi versi anche le alienazioni, offrirono il destro al Magistrato per
ingerirsi con maggiore decisione nell’amministrazione dei centri che lo chiamavano in causa,
ridisegnando il panorama delle proprietà pubbliche e private tramite la legittimazione dei
possedimenti acquisiti per vie di fatto e la conferma ufficiale dei diritti collettivi che non potevano
essere soppressi, nonostante il ridimensionamento quantitativo dei beni su cui potevano essere
esercitati. La portata costitutiva dell’intervento del Magistrato aveva ricadute anche in campo
fiscale, perché le terre cedute agli occupatori venivano sottoposte al pagamento dell’avaria reale,
sopperendo alle compiacenti “distrazioni” degli agenti locali, affatto rare. Vedremo però che
l’incisività della condotta del Magistrato fu direttamente proporzionale alla capacità ordinante
delle istituzioni di governo delle proprietà collettive.
Infatti in realtà dove le risorse naturali collettive costituivano un elemento cardine
dell’economia locale ed intorno alle quali si erano sviluppate lungo i secoli norme e pratiche di
amministrazione solide, integranti l’identità stessa della comunità, i processi di privatizzazione
conobbero resistenze più frequenti e meglio organizzate. Viceversa, in altre località dove i rapporti
di produzione erano configurati diversamente, lo sfruttamento delle comunaglie prima delle
occupazioni era avvenuto senza particolari limiti, senza che fosse incentivata l’elaborazione di un
quadro normativo sufficientemente definito. Pertanto quando le colture arboree si estesero sui
beni comunali, fu più facile addivenire al loro definitivo trasferimento ai privati.
3.a) La gestione degli abusi tra azione centrale e ambiente locale
Abbiamo quindi messo sul tavolo gli strumenti indispensabili per leggere alcuni episodi di
usurpazione di beni collettivi sotto diverse prospettive: quella strettamente processuale, quella
socio-economica e quella giuridico-politica di rapporto tra governo e comunità periferiche.
Possiamo quindi passare all’analisi diretta delle fonti per verificare le considerazioni svolte fin qui.
Partiamo dalla maggiore capacità reattiva delle comunità avvezze a tutelare con cura il
proprio patrimonio comunale. Un primo caso ci riporta in valle Arroscia, ad Acquetico. L’anno è il
1674. La comunità, alla pari di altre sue vicine, praticava da decenni una politica di coltivazione del
castagno sulle comunaglie. Come abbiamo visto, i bandi campestri di molte comunità pievesi
142
vietavano il pascolo del bestiame nei castagneti in autunno, quando i frutti erano maturi per la
raccolta, e obbligavano i terminatori ad effettuare delle visite annuali di controllo dei confini tra
proprietà private e terre comuni. Acquetico aveva fatto piantare alcuni alberi di castagno nel
territorio di Roncogelato, al confine con le proprietà dell’ufficiale militare Guglielmo Saldo. Questi,
insieme ai figli, tagliò diversi castagni e rimosse i termini di confine, inserendo altri alberi per
allargare le sue proprietà. Così facendo invase un sito che vantava pratiche di coltivazione
controllata del castagno tutelate fin dai regolamenti rurali di metà secolo412.
La supplica rivolta al Senato fu prontamente girata al Magistrato delle Comunità, il quale
delegò il Capitano di Pieve Oberto Castiglione per il compimento del processo. L’ufficiale
procedette secondo il rito sommario prima descritto. Dopo aver appurato la veridicità dei fatti
denunciati con un sopralluogo, alla presenza degli agenti di Acquetico decretò la riapposizione dei
confini tra proprietà comunale e privata e il ripiantamento dei castagni sradicati, chiedendo poi al
Magistrato genovese di decidere sulla condanna pecuniaria dei responsabili413.
In questa circostanza la spedizione della causa fu assai celere e in meno di un mese la
comunità fu reintegrata nei propri diritti con un rito celebrato esclusivamente in sede locale, sotto
l’alta vigilanza del Magistrato delle Comunità. Ma la giustizia periferica poteva dare talvolta
risultati poco soddisfacenti o contraddittori, motivo per cui le comunità danneggiate erano
costrette a supplicare il Magistrato perché trattasse direttamente la questione. È ciò che avvenne
a Triora quando i Carmelitani nel 1792 si impossessarono di alcune terre comuni, impedendo gli
usi altrui.
Va premesso prima di proseguire che Triora, insediamento del profondo entroterra,
disponeva di ampie distese di boschi e bandite di pascolo su cui si fondava una fiorente economia
agro-pastorale. Proprio per il rilievo assunto da tali risorse, il loro utilizzo fu oggetto di una
minuziosa regolamentazione fin dagli statuti tardomedievali414. La posizione al confine con alcuni
Alla difesa della vegetazione arborea e alla castagnicoltura in località Roncogelato era dedicato l’art. 6 dei capitoli
campestri di Acquetico del 1640, ASGe, Senato Senarega, 2061.
413
Dalla lettera inviata dal Capitano di Pieve al Magistrato 29 aprile 1674 si comprende che la sanzione dei
responsabili per decisione del Magistrato fosse dotata di un’autorevolezza maggiore: «Hora per reprimere l’orgoglio
del detto Guglielmo e suoi figlioli, persone inquiete, et contenerli in l’avvenire, come anche altri che turbassero et
usurpassero li beni del Commune, stimerei accertato, che da VV. SS. Illustrissime potesse esser imposta quella pena
peccuniaria, che meglio soverrà alla prudentia di VV. SS. Ill.me.», ASGe, Magistrato delle Comunità, 302.
414
Cfr. B. PALMERO, Boschi e confini nelle Alpi Marittime, cit.; E. BASSO, Tracce di consuetudini pastorali, cit. oltre
ovviamente agli statuti editi F. FERRAIRONI, Statuti comunali di Triora, cit. In estrema sintesi, si ricorda che la pastorizia
fu regolata in dettaglio sia con riguardo ai tempi che ai luoghi di alpeggio. Il custode dell’alpe e i campari dovevano
vigilare sull’ammissione del prescritto numero di animali per famiglia al pascolo e alla repressione di eventuali illeciti.
Le bandite erano tutelate tanto dalle invasioni del bestiame che dai lavori agricoli compiuti senza il permesso del
412
143
villaggi nizzardo-sabaudi come Briga e Saorgio (oggi La Brigue e Saorge) diede vita a numerosi
conflitti per l’utilizzo di foreste delle alpi Marittime in cui esigenze economiche e questioni di
sovranità territoriale si saldarono in maniera non dissimile dal caso di Viozene.
Sull’usurpazione in sé abbiamo già detto qualcosa in precedenza. I Carmelitani Scalzi di
Triora avevano fatto piantare 800 alberi di castagno presso le terre dette Negree e Capriolo. In più
commissionarono il furto del fieno maturo a danno dei coltivatori degli appezzamenti situati in
un’altra località (“Bauso doloso”). Gli occupatori in questo caso si avvalsero anche di strumentali
accuse campestri contro coloro che portavano a pascolare i loro bestiami nel castagneto abusivo
per manifestare pubblicamente la loro rivendicazione. Un atto simile può spiegarsi se ipotizziamo
che i religiosi considerassero quei siti come propri, dai quali i terzi potevano essere esclusi415.
Come qualificare giuridicamente i beni occupati? Sicuramente una parte di essi non si
limitava a fornire un sostegno agli abitanti di Triora sprovvisti di proprietà terriera, ma essendo
concessa con affitti annuali dietro pagamento di un canone (il terratico) rientrava in quei beni
publico usui destinata che impropriamente venivano detti pubblici416. Non è possibile dire con
certezza se anche i fondi occupati dal castagneto ricadessero sotto questo regime di utilizzo.
L’intervento del Magistrato delle Comunità diventò indispensabile nel momento in cui la
risoluzione della controversia andò incontro a complicazioni presso le giurisdizioni locali. Dopo due
sentenze favorevoli ai terrieri danneggiati emanate dal magistrato sopra le accuse campestri e dal
vicario della curia di Sanremo, il Podestà di Triora il 16 giugno 1792 dichiarò nulle le due
precedenti pronunce. I Carmelitani presero formalmente parte al giudizio, dichiarando che: «le
terre nelle quali erano state instituite le accuse da detti padre, e figlio Martini come beni delle
padrone del fondo. Oltre a porre limiti e condizioni per il taglio del legname nei diversi boschi comunali, gli statuti
provvedevano anche a stabilire le regole d’uso delle altre comunaglie, vale a dire le distese di terra comunale non
bandite e potenzialmente coltivabili. Su di esse chiunque poteva avviare la coltura prenotando un lotto presso gli
ufficiali del comune o semplicemente occupandolo: solo la seconda ipotesi contemplava il pagamento di una gabella
in denaro o in natura.
415
Dalle scritture prodotte da Triora fa capolino il sospetto che l’ultima compilazione del catasto, risalente a metà
degli anni Settanta del 1700, fosse stata manipolata a vantaggio dei Carmelitani grazie alla «taciturnità d’alcuni
individui poch’affetti all’interesse commune, ed aderenti di detti RR. PP.». Il convento pagava come avaria tra le 36 e
le 40 lire, mentre secondo i denuncianti la somma dovrebbe ammontare a circa 130 lire, se la stima fosse eseguita da
periti imparziali, ASGe, Magistrato delle Comunità, 481.
416
Come dichiarato dagli agenti di Triora e delle ville (Molini, Corte e Andagna) al Magistrato delle Comunità, le terre
Negree (in località Gerbonte) e Bauso doloso, danneggiate su mandato dei Carmelitani, erano state concesse a
terratico a Gio. Batta Martino e a suo figlio Giuseppe con facoltà di semina e di raccolta e vendita del fieno. Nella
supplica inviata a Genova si evidenziavano due distinte utilità. Una era il sostentamento assicurato dai lotti dati a
terratico alle famiglie che non possedevano abbastanza terre. In più «il terratico che pagano i coltivatori de beni
communi forma un de redditi non indiferente della medesima, quale ora è diminuito per essersi sospesa la coltura di
questo territorio preteso occuparsi da RR. PP.», ASGe, Magistrato delle Comunità, 481.
144
dette Magnifiche Communità appartenessero al detto Convento di cui ordine avessero detti
condannati damnificato»417.
Secondo le formule rituali, il processo avrebbe rischiato di trascinarsi a lungo. Nel merito,
fatti salvi i terreni periodicamente concessi a terratico per i quali potevano reperirsi anche prove
documentali, nulla escludeva che il convento potesse provare un lungo possesso sulle Negree dove
aveva piantato i castagni. La comunità scelse pertanto la via transattiva e il 26 giugno chiese ed
ottiene l’autorizzazione al Magistrato di poter sborsare 609 lire per comporre la lite e ottenere,
pagando, il rilascio delle terre occupate e migliorate dai religiosi interrompendo il processo418.
In entrambi queste due circostanze la tenuta degli assetti collettivi fu assicurata da una
pronta reazione dei soggetti interessati, conforme alla radicata consuetudine di utilizzo collettivo
dei prodotti del suolo. Ma non è il caso di generalizzare. Le medesime aree potevano anche essere
teatro di usurpazioni o malversazioni tollerate o non adeguatamente punite. Sempre a Triora ad
esempio, più o meno nello stesso torno di anni, si informava il Magistrato delle Comunità che
l’asta per l’affitto dei pascoli dell’alpe di Gerbonte era viziata da alcune irregolarità gravi (assenza
del Podestà all’incanto, irregolare costituzione del Parlamento etc.) mentre gli uomini della vicina
Badalucco detenevano da anni alcune terre comunali senza pagare i dovuti canoni, in un momento
di difficoltà finanziarie della comunità alpina. Quanto alla valle d’Arroscia, nel 1683 i Consoli delle
ville di Siglioli e Cartari comunicarono al Senato che alcuni boschi comunali erano stati in parte
tagliati per far spazio a campi seminati. Lo stato di momentaneo indebitamento delle ville indusse
il Capitano di Pieve Giulio Cesare Usodimare ad acconsentire alla richiesta dei consoli locali: sulla
scia di una prassi per cui la semina nelle comunaglie era soggetta al pagamento di una quota del
seminato, gli occupatori (21 in tutto) non furono puniti ma gli fu imposta la sanatoria tramite
pagamento del terratico 419.
Anche laddove l’economia agro-pastorale non poteva prescindere da una corretta gestione
di pascoli e boschi comuni non mancavano violazioni delle regole di utilizzo, a fronte delle quali le
reazioni non si presentano lineari e uniformi. Ciò conferma la natura flessibile delle proprietà
ASGe, Magistrato delle Comunità, 481.
La cifra sborsata arrivava quasi ad eguagliare il valore castale dei terreni occupati, tuttavia la mancanza di altri
documenti e la perdita dell’archivio comunale di Triora impediscono di chiarire se questo episodio fosse solo l’ultimo
anello di una catena di conflitti ben più lunga, ASGe, Magistrato delle Comunità, 481.
419
Scrivendo al Magistrato, i consoli delle ville orientarono la decisione del collegio sull’interesse preminente: «Quelli
che l’anno corrente hanno seminato in sudetto territorio, e semineranno per l’avvenire, siano tenuti a pagare il
terratico, conforme sogliono pagare all’altre comunità circonvicine, e questo per soglievo dell’istessa communità,
aggravata da carrichi camerali, et altri, il che per esser giusto sperano ottenere». I debiti erano probabilmente dovuti
alle spese per la guerra sabaudo-genovese appena conclusa, ASGe, Magistrato delle Comunità, 304
417
418
145
collettive durante l’età di diritto comune: il vantaggio connesso al loro sfruttamento consisteva
talvolta nei soli frutti della terra, talaltra nel ricavato che se ne poteva trarre cedendole a terzi (per
sempre o solo per un periodo circoscritto, in tutto o limitatamente a determinate utilitates) a
seconda delle esigenze avvertite come più impellenti dalla comunità in quel dato momento.
Se ci allontaniamo dalle zone montane della Liguria e ci avviciniamo alla costa, il discorso
cambia, soprattutto per quanto riguarda l’ambiente in cui si verificano le occupazioni e le
conseguenze sul piano processuale. A mutare non sono solo gli aspetti materiali dell’occupazione
– il tipo di colture avviate, la composizione sociale degli usurpatori – ma anche il retroterra
giuridico in cui si inscrivono tali episodi e il modus operandi del Magistrato delle Comunità.
Senz’altro paradigmatico è quello che avvenne ad Albisola all’inizio del Settecento.
Il centro era composto da diversi nuclei insediativi – i principali erano il borgo detto
“superiore” e la Marina – ed era parte integrante della Podesteria di Varazze, Celle e Albisola. Nel
1653 erano stati confermati dalla Repubblica gli statuti del 1389, che comprendevano alcune
rubriche dedicate alla materia silvo-pastorale non molto articolate420. In sostanza, oltre a mettere
nero su bianco le condotte vietate e le relative sanzioni, il testo non si spingeva a regolamentare in
dettaglio modi e limiti dell’utilizzo delle comunaglie albisolesi, per le quali si deve ipotizzare la
vigenza di un regime di libero accesso basato sulla consuetudine421. Dalle inchieste di inizio
Seicento risulta che Albisola disponesse di diverse boscaglie che si stendevano lungo i valloni
circostanti il borgo, quantunque non di notevole pregio422.
Come si diceva nel paragrafo precedente, l’appropriazione dei boschi comuni iniziò nella seconda
metà del XVII secolo, ad opera soprattutto di alcune famiglie provenienti da una frazione di
Albisola, che intrapresero una massiccia coltivazione di specie di pregio (castagno, viti e in misura
minore alberi da frutto) sulle terre della comunità. Gli otto rettori delle due Albisole (superiore e
La podesteria di Varazze comprendeva anche i centri di Celle e Albisola, per la storia del centro e ulteriore
bibliografia cfr. A. ROCCATAGLIATA, Gli Statuti di Varazze, Genova, 2001, pp. V-LIII. Sugli statuti di Albisola, confrontati
con i testi degli altri centri della podesteria vedi R. BRACCIA, Processi imitativi, cit., in particolare pp. 64-65. Ho
consultato sia il testo trecentesco in BCB, B. VII.27 sia la versione compendiata più tarda – ma ai nostri fini priva di
variazioni significative – in CSBG, 93.4.17.
421
Il capitolo sui De lignis a territorio Albisole non extrahendis sanzionava il commercio di legname con forestieri,
mentre il De bestiis inventis in alienis terris fissava le pene pecuniarie per i danni dati dagli animali in orti, prati e
boschi privati. Qualche disposizione sul nemus communis Albisole si ritrova sparsa in altri capitoli, che punivano i danni
dati agli alberi di castagne, il taglio di alberi verdi senza licenza e autorizzavano il taglio e il prelievo della sola legna
secca per uso personale.
422
I numerosi “boschi communi” di Albisola erano perlopiù composti da arbusti (brughi, ginestre) pochi faggi e altre
vegetazione minuta. Tra le entrate si segnala una gabella del bosco, il cui ammontare non è dato conoscere per la
rovina del registro dovuta all’umidità, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835.
420
146
marina) invocarono l’intervento del Magistrato delle Comunità perché inviasse un ufficiale a
visitare i luoghi e a recuperare i beni. Con supplica del 22 aprile 1707 posero in risalto due criticità
legate alle usurpazioni: oltre alla riduzione delle superfici incolte prima usate per il pascolo del
bestiame e la raccolta di legname, l’abbattimento degli alberi piantati lungo la riva del torrente
Sansobbia che attraversa Albisola per far spazio ai campi coltivati comprometteva la sicurezza
pubblica423.
Il Magistrato delegò il Podestà di Varazze, giusdicente del luogo, ordinandogli di recarsi
insieme agli agenti delle due Albisole sul posto per la visita richiesta. Il Magistrato rimise la
cognizione all’ufficiale territorialmente competente non solo per la verifica dello stato dei luoghi
ma anche per la formazione di uno schema di composizione della causa. Ciò si spiega se teniamo
presenti un paio di dati.
Da una parte l’azione di restituzione fu avviata dai rettori di Albisola marina e superiore
congiuntamente, che “coprirono” i residenti danneggiati dai soprusi. I confini delle parti in
conflitto assumevano quindi contorni chiaramente definiti, senza pericolose convergenze di
interessi tra rappresentanti delle comunità e usurpatori che avrebbero richiesto un diverso
approccio del Magistrato alla definizione della controversia. Inoltre, conscio forse delle
caratteristiche specifiche della vegetazione silvestre albisolese, tanto abbondante quanto poco
pregiata, e della durata di alcune usurpazioni, il Magistrato non escluse a priori la possibilità di
concedere in affitto le terre illecitamente coltivate424. La bassa intensità delle proteste dovette
probabilmente convincere i cinque nobili componenti il Magistrato che la risoluzione del conflitto
poteva utilmente svolgersi in sede locale, senza onerose udienze a Palazzo Ducale.
Dalla relazione di visita condotta dal Podestà di Varazze Nicolò Giustiniani tra il 12 e il 23
luglio 1707 possiamo trarre alcuni elementi utili per dare la giusta profondità ai problemi
In dettaglio si comunicò che le «terre, e boschi [che] servivano per uso de popoli d’ambe dette Communità» erano
state «ridotte in vigne, et castagnetti», cagionando «grandissimo danno, e pregiudicio a dette Communità non solo
per detto danno dato, ma anche per gli danni che per detta caosa continuamente ci da la fiumara». Già dalla supplica
non si evincono quindi specifici sistemi di amministrazione delle comunaglie albisolesi, fatto poi confermato dalle
testimonianze successive, come si vedrà tra poco. La tutela del territorio dalle piene del torrente Sansobbia era
contemplata anche dagli statuti, che vietavano il taglio degli alberi posti a difesa dei fondi costeggianti il corso
d’acqua, ASGe, Magistrato delle Comunità, 551.
424
Le istruzioni date al Podestà di Varazze seguirono due direttrici. Per un verso egli doveva verificare la regolare
stipula degli eventuali affitti di particelle di terre comuni e che i canoni venissero effettivamente corrisposti alla
comunità. Secondariamente era tenuto a compiere un’accurata istruttoria per «ricconoscere per mezzo delle più
sincere informationi, giustificando quali siano gl’effetti communali che si pretendono usurpati da particolari con
divisare da chi, da quanto tempo in qua, e che fitto potrebbero pagare annualmente, indicando quali siano li coltivati e
di qual sorte di coltura, per rifferirci il tutto con ogni maggior distintione», ASGe, Magistrato delle Comunità, 551.
423
147
istituzionali sollevati da un’occupazione di così ampia portata425. È soprattutto il caso di chiedersi,
al di là della netta preponderanza di una ristretta cerchia di famiglie nella vicenda, se tutti i fondi
fossero stati invasi abusivamente, o non vi fossero invece situazioni in parte legittimate o dal
compimento di atti negoziali o dalla lunghezza del tempo trascorso.
Il più recente catasto di Albisola recava la data del 1656 ma dopo mezzo secolo esso non
rispecchiava più né la distribuzione della proprietà fondiaria né il valore delle parcelle possedute
dai privati. Per questo durante il sopralluogo del Giustiniani fu eseguito un costante confronto tra
la descrizione del registro e il reale stato dei praedia, così come appariva agli occhi degli ufficiali.
Su 57 occupazioni censite, in 9 casi i possessori citati produssero un regolare titolo di acquisto. Si
trattava prevalentemente di atti di compravendita, talvolta stipulati dai padri dei possessori al
1707, o di eredità, mentre in un solo caso si fa menzione di una donazione. Secondo gli
interpellati, i trasferimenti erano avvenuti in buona fede e al Podestà dichiararono di non sapere
che i fondi lavorati fossero comuni426.
Ancora maggiori furono i possessori di lungo periodo, che consideravano le comunaglie
come proprie. Se prendiamo solo gli appezzamenti per i quali fu stimato un tempo di occupazione
superiore ai 10 anni, per approssimazione o dichiarazione testimoniale, vediamo che erano
addirittura 16 le terre oggetto di un godimento ormai connotato da una certa stabilità. Se a questi
numeri aggiungiamo che la grande maggioranza degli occupatori si era semplicemente
impossessata dei fondi adiacenti a quelli di cui erano già proprietari, possiamo dedurre una certa
trascuratezza da parte dei rettori nel far controllare lo stato dei confini tra beni privati e beni
comuni che giocò a favore degli usurpatori. Lo stesso dicasi per la facoltà di escludere dal
Può essere utile descrivere come si svolse l’ispezione. Il Podestà fece preannunciare i sopralluoghi in ciascuna
località da un proclama del nunzio della corte, che intimava a tutti coloro che avessero interessi nei boschi comuni di
presentarsi all’ufficiale per rilasciare le dichiarazioni del caso. Il giusdicente si fece accompagnare dagli otto rettori del
borgo di Albisola e della marina e località per località raccolse i giuramenti di persone del posto circa il precedente
stato dei confini o gli usi civici praticati dalla popolazione. Per ogni particella furono annotate le coltivazioni e le
migliorie apportate, l’attuale possessore, la durata stimata dell’occupazione, il valore e il potenziale reddito annuo.
426
I fratelli Francesco e Sebastiano Rosselli, citati per l’occupazione di un bosco coltivato a castagni, produssero la
ricevuta di pagamento per l’acquisto del fondo e la fede di registrazione catastale del 1658. Un certo Gregorio
Bagliardo, comparso in relazione all’occupazione di una parte di bosco in località Cianrenero, dichiarò di aver
acquistato la terra nel 1706 dagli eredi di Bernardo Freghiero e di non conoscerne la qualificazione a catasto. Infine,
interrogati su alcuni vigneti e castagneti posseduti abusivamente, Gio. Antonio Poggio e Simone Saettone risposero
che «detti beni, che al presente possedono sì dette occupationi, sono detti beni nella loro heredità e che essi non
hanno preso niente di quello del commune». Durante il sopralluogo alla località Piantavigna, gli ufficiali visitarono il
vigneto di Pietro Rossello, che produsse l’atto di compravendita stipulato dal padre. Nonostante la scrittura, il Podestà
acquisì la dichiarazione di tal Andrea Vezzolla che «testifica essere detta occupatione stata fatta in quello del
Commune per esservi stato molte volte e veduto che prima era bosco commune a tutti, per havervi massime veduto
legnare e tagliar del bosco minuto da più persone senza contraditione alcuna», ASGe, Magistrato delle Comunità, 551.
425
148
godimento i terzi praticata dagli occupatori: dopo svariati anni di lavori agricoli svolti senza
contestazioni, gli interrogati furono generalmente concordi nel ritenere legittima l’inibizione
dell’accesso per il pascolo brado o l’esercizio del legnatico.
Un processo simile sarebbe stato semplicemente inaffrontabile con i riti possessori, tenuto
conto delle decine di persone coinvolte e delle differenti situazioni di ciascun convenuto.
L’arbitrium concesso al giusdicente locale dal Magistrato delle Comunità permise una gestione
della controversia che unì alla valutazione degli elementi in diritto una realistica compensazione
tra interessi collettivi e diritti soggettivi. Il prodotto fu una riscrittura dei diritti reali esercitati sul
territorio di Albisola.
Il Podestà varazzino, preso atto della conformazione del territorio e dei bisogni della
comunità manifestati dagli agenti e dai testimoni, propose al Magistrato il recupero e il ripristino
dello status di bene comune per 17 delle 57 terre visionate. Nello specifico si trattava di fondi
lavorati in vario modo, ma che il Giustiniani aveva dichiarato: «assai bisognevol[i] al pascolo, et
alle persone che in tempo di cattivi tempi puonno andarvi a legnare». Il potere arrogatosi dagli
occupatori di impedire l’accesso alle risorse fu quindi sancito ufficialmente come illecito
limitatamente a quei beni e non per gli altri. Senza dubbio va però altrettanto sottolineato che,
nonostante l’espansione notevole della proprietà privata, le comunaglie non scomparvero del
tutto, poiché molti fondi usurpati risultavano ancora «confinare con il commune».
Il Magistrato delle Comunità esaminò la relazione e nel maggio 1708 emise la decisione
finale che legittimava le occupazioni di maggior redditività, sottoponendole al prelievo fiscale sulla
scorta delle stime effettuate durante la visita. In accordo con le indicazioni del Podestà, da Genova
arrivò anche l’ordine di ripristinare il possesso comune dei fondi lasciati a bosco o soltanto coltivati
discontinuamente tramite i “roncamenti”:
«È stato decretato et ordinato che quei beni resi in coltura di vigne, castagne, olive e simili debbano restare a Patroni
occupatori dei medesimi, con obligo di pagare sopra il valsente d’esso e secondo l’estimatione fattane come in
sudetta visita un annuo canone alla Communità del tre per cento, quale debba servire in dedutione delle avarie et altri
carrichi di detto Luogo, oltre l’annua avaria saran capaci detti beni occupati; e per li altri beni che non siano resi in
coltura come sopra, ma fossero boschi, prati e campi, o come si suol dire roncati questi debban esser communati e
che detti occupatori contenuti in detta visita sian obligati rilassarli a detta Communità et in essi sia lecito a particolari
tutti dell’istessa Comunità di andarvi a legnare e pascolare i bestiami e fare come nelli altri beni comuni».
149
Date le condizioni di partenza, la sentenza finale sanò il 70% delle occupazioni e riaprì
all’uso collettivo non soltanto i fondi occupati, ma anche quelli che a seguito delle trasformazioni
avvenute risultavano fisicamente irraggiungibili per l’appropriazione di zone di passaggio e di
alcune strade. Se letta alla luce dei criteri ostromiani, la vicenda pare chiaramente supportare la
tesi di Hardin del depauperamento delle risorse collettive in presenza di free rider agevolati dal
libero accesso alle medesime. L’assenza di istituzioni adeguatamente capaci di disciplinare
l’appropriazione privata temporanea delle comunaglie e l’inefficacia dei meccanismi di controllo –
dalla relazione non emergono accuse intentate dai campari agli occupatori – crearono le
condizioni perché alcuni gruppi economicamente attrezzati potessero impossessarsi di molte terre
senza grossi ostacoli. Al Magistrato e al Podestà che agiva quale giudice delegato fu rimesso
l’onere di bilanciare i diritti di proprietà privata con la tutela della comunità davanti al fallimento
del meccanismo di composizione degli interessi in sede locale.
L’incapacità di controllare l’integrità delle risorse pubbliche è un argomento che ritorna
ciclicamente: prima dell’affermazione della cartografia moderna, i confini raramente potevano
dirsi certi ed indiscutibili, specie per quelli delimitanti due enti sovrani distinti. Le secolari liti di
confine tra Mioglia e Sassello studiate da Osvaldo Raggio si riproducono pressoché ovunque nella
Liguria d’età moderna e l’analisi delle risorse collettive in valle Arroscia ce ne ha dato un’ulteriore
conferma. L’alterazione dei termini di confine a danno degli spazi collettivi poteva però risolversi,
e in concreto avveniva di frequente, in un’appropriazione non autorizzata interna alla stessa
comunità. La mancanza di una oggettiva rappresentazione del precedente stato dei luoghi faceva il
gioco degli usurpatori, che potevano sostenere tramite testimoni la proprietà del fondo occupato.
La corretta gestione delle comunaglie passava anche per regolari (potremmo dire rituali) visite e
riapposizioni dei confini separanti le terre private, coltivate o incolte, e quelle destinate all’uso
pubblico e ad una costante sorveglianza da parte degli stessi fruitori delle risorse. Il rapporto tra
lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la sua denuncia e l’efficacia dei
provvedimenti di reintegro può dirsi inversamente proporzionale: più tempo passava, minori
erano le probabilità di riuscire a recuperare integralmente il fondo usurpato.
Oltre ai casi che abbiamo già esaminato, possiamo a questo proposito richiamare quello
che accadde a Tivegna nel 1645, quando i rettori della comunità spezzina denunciarono al Senato
un’occupazione di terre comunali da parte di un certo Andrea Mazzo. Maggiormente significativi
appaiono i fatti precedenti la denuncia. Dall’esposizione degli agenti si apprende che parecchie
persone usurpavano una serie di terre comunali. Tra gli occupatori, il Mazzo era stato sottoposto a
150
processo penale dal Capitano della Spezia per il taglio di molti castagni, dal quale era uscito assolto
grazie a due testimoni secondo cui: «detto Andrea era molto tempo che godeva detta terra stata
damnificata». Ciononostante, il giusdicente aveva inviato un notaio a visitare il luogo e a
riposizionare i termini confinari, ordinando poi con sentenza del 1644 il rispetto della confinazione
alle parti. Tuttavia né Mazzo, né gli altri occupatori si erano adeguati e per questo i rappresentanti
di Tivegna avevano fatto ricorso al governo427.
Possiamo situare la condotta illecita del Mazzo intorno ai primi anni Quaranta del Seicento,
ma par di capire dagli atti che le altre occupazioni risalissero a molto prima. Questo episodio
dimostra una volta di più che non agire tempestivamente causava incertezza sull’esatta titolarità
del bene conteso: dopo anni la posizione della comunità si faceva più difficile da difendere e il
rispetto dei confini tradizionali tra fondi privati e comunali faticava ad imporsi sulle posizioni
acquisite dagli occupatori. Se riprendiamo il criterio ostromiano circa l’esatta individuazione della
risorsa, possiamo comprendere che una siffatta situazione, diffusa un po’ dappertutto nelle
campagne tardomedievali, non presentava le condizioni ideali per la conservazione dell’uso
collettivo dei beni.
3.b) Autonomia e conflitto sociale: il caso di Castiglione Chiavarese
L’intervento del Magistrato delle Comunità nei processi di recupero dei beni comunali
presenta caratteristiche diverse a seconda del contesto di svolgimento dell’abuso. Quello
albisolese fu sicuramente uno degli episodi più gravi di depauperamento del patrimonio fondiario
di una singola comunità, agevolato da un quadro normativo inadeguato nel disciplinare l’uso delle
risorse. Ma il caso in assoluto più eclatante fu quello di Castiglione Chiavarese, dove la vasta
appropriazione di terre comunali manifestò un latente conflitto interno alla comunità da cui essa
sarebbe uscita trasformata anche dal punto di vista istituzionale.
Va aggiunto che la confinazione era stata eseguita con la partecipazione e il consenso dei rettori e degli occupatori.
La sentenza del Capitano spezzino che le attribuiva efficacia fissò un termine di un mese entro il quale «li possessori
delle terre della detta università fussero tenuti a mostrare le loro ragioni, altrimente s’intendessero essere beni della
detta università». La composizione però fallì perché nessuno pose fine all’usurpo, e il Mazzo ricorse al Capitano della
Spezia chiedendo che i Consoli di Tivegna gli rimborsassero le spese per il processo criminale da cui era uscito assolto.
Comparendo di fronte al Magistrato delle Comunità i procuratori della comunità chiesero di rendere esecutiva la
sentenza del Capitano e l’autorizzazione a recuperare i beni illecitamente posseduti col risarcimento dei danni patiti
per l’abbattimento del castagneto compiuto dal Mazzo, ASGe, Magistrato delle Comunità, 169.
427
151
La comunità di Castiglione, nell’entroterra di Moneglia, era sede di Podestà e godeva di una
totale immunità fiscale, in virtù di una convenzione risalente al 1440: i castiglionesi non versavano
alcuna imposta al fisco genovese ed erano tenuti a sostenere soltanto l’onere di pagare salario e
spese del Podestà e della sua familia428. Lo status di comunità convenzionata esentava la curia
locale dall’obbligo di redigere i registri d’estimo. Il sistema di divisione del carico fiscale consisteva
nella suddivisione proporzionale di un valore fisso simbolico tra il borgo di Castiglione e le ville
della giurisdizione, metodo seguito dal Quattrocento e solo parzialmente riformato nel 1610,
senza però che fossero cancellate le disuguaglianze più gravi429.
Abbiamo già accennato alla grande quantità di comunaglie rilevata dalle inchieste di inizio
Seicento sul territorio di Castiglione. Oltre a servire come terra di pascolo e a fornire ai residenti
legname per il proprio uso, si apprende da una lettera del Podestà di Castiglione che molte
persone erano solite trarre dai boschi comuni fasci di legna smerciati tra Sestri e Genova430. Detta
abbondanza si inscriveva entro un quadro normativo di modesta qualità. I capitoli campestri
(datati 1587) non sancivano altro che brevi e tradizionali divieti di procurare danni ai coltivi e alle
«terre altrui sì dimestiche come salvatiche», deputando a ciò appositi campari431. Tutto ciò, unito
ad una divaricazione degli interessi sempre più marcata tra i gruppi sociali, gettava le basi per
L’esenzione era stata conseguita dagli uomini di Castiglione per “meriti acquisiti sul campo” in occasione della
ribellione di Genova alla signoria di Filippo Maria Visconti del 1435 e della successiva difesa della riviera di levante
dagli assalti del condottiero milanese Niccolò Piccinino. In riparazione dei danni patiti e delle perdite di vite umane,
nel 1440 il Comune di Genova approvò la richiesta dei sindaci castiglionesi, impegnandosi per tutto il tempo in cui la
comunità fosse stata sottoposta a «non imponerge ne laxarge imponere sopra de loro ne de loro beni avarie alcune
ordinarie ne estraordinarie ne etiam prestito alcuno nì scodere eccetto quelle le quali si imponeranno per lo salario de
lo Podestà loro e de serventi o messi suoi». Una copia è in ASGe, Senato Senarega, 1733.
429
Il riparto delle imposte per le spese comunitarie avveniva ancora nei primi anni del XVII secolo secondo un “modo
antico” abbastanza schematico: all’intero territorio della Podesteria era attribuito un valore fisso di 50 carati, pari a
200 lire (4 lire a carato) che venivano ulteriormente suddivise in quarti. Il valore totale era poi ripartito tra il Borgo e le
13 ville con un criterio proporzionale (per possessi e per teste) periodicamente ridefinito dal consiglio comunitario.
Come era già emerso durante la prima inchiesta del 1531 e come sarà acclarato durante i processi per le usurpazioni,
tale meccanismo era fonte di sistematiche vessazioni a danno dei più poveri. Nel 1610 il Parlamento locale approvò
una riforma comprensiva di una “caratata perpetua”, sul cui esatto funzionamento vi sono più ombre che luci. Si può
ragionevolmente ritenere però che, ferma la divisione tra borgo e ville del podere complessivo di 50 carati, il podere di
ciascuna frazione venisse calcolato sulla base delle terre situate entro i confini della circoscrizione e non sulle terre
possedute individualmente dagli abitanti. In tal caso si potrebbe realmente parlare di censimento perpetuo, perché
stimava una volta per sempre il valore di tutti i beni di una certa villa, cfr. ASGe, Manoscritti, 797, cc.39-40; ASGe,
Magistrato delle Comunità, 365/B, F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 343-354.
430
ASGe, Magistrato delle Comunità, 135. Le usurpazioni interruppero evidentemente questo mercato di
sopravvivenza, dando fiato alle proteste.
431
Cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 141-142.
428
152
pesanti frodi a danno del patrimonio collettivo432. Ma quali erano le pratiche consuetudinarie di
utilizzo delle comunaglie castiglionesi?
Nel 1600, quando gli uomini di Castiglione lamentarono l’insostenibilità delle «riduttioni a
proprio uso» di ampie porzioni di terre comuni, il Senato emanò il 20 marzo il decreto valido per
tutto il Dominio sul divieto di appropriazione delle comunaglie di cui abbiamo parlato a più
riprese. Appena un mese dopo gli uomini della villa di Campegli richiesero un decreto che punisse
pecuniariamente i danneggiatori delle loro comunaglie, in modo da poter accusare legittimamente
gli uomini dei centri contigui.
È interessante notare che questi ultimi presentarono un memoriale al Senato, dichiarando
che in realtà da sempre gli abitanti in ciascun centro potevano: «scorrere dall’un capo all’altro
della giurisdittione legnando e pascendo, essendo quelle terre communi in universale, e non
assegnate particolarmente a villa per villa»433. Al netto dell’esigenza immediata dello scritto –
opporsi ad un provvedimento potenzialmente sfavorevole – pare però abbastanza evidente come
si confrontassero all’interno della stessa unità amministrativa due visioni diverse sull’accesso alle
risorse: una (quella di Campegli) orientata ad vedersi riconoscere un potere di tutela più intenso
sui “propri” beni comuni anche in virtù della soggettività socio-politica raggiunta - Campegli era
sede di parrocchia -, l’altra propensa a conservare lo status quo del godimento indistinto di tutte le
risorse da parte di residenti nella podesteria, senza limiti di sorta.
Altre testimonianze circa l’accesso alle risorse sostanzialmente libero proviene dagli atti del
successivo processo, che chiarì come l’etichetta di “occupatori” dovesse riferirsi soltanto a coloro
che si erano appropriati stabilmente di alcuni boschi, chiudendone l’accesso ai terzi e mutandone
spesso la destinazione agricola. Accanto ad alcuni esponenti delle principali famiglie del posto, si
trovavano infatti anche decine di semplici contadini che da lunghissimo tempo solevano coltivare
stagionalmente appezzamenti di terreni comuni. Il 19 giugno 1624 il Podestà di Castiglione
Giacomo Fornelli informò il Magistrato delle Comunità che molti avevano seminato su terreni
sterili per cercare di far fronte alle cattive annate di olio, uva e castagne che si erano susseguite in
quegli anni434. La pratica della coltura temporanea era del resto sempre stata utilizzata, col che si
Accanto a semplici lavoratori di terra nulla (o poco) tenenti, si era sviluppato un ceto di notabili arricchitisi grazie al
commercio e all’esercizio di attività artigianali o di servizi (tavernari e bottegai), oltre ai mulattieri che agivano sulla
tratta Sestri Levante – pianura Padana.
433
ASGe, Senato Senarega, 1625.
434
I semplici fruitori temporanei, citati come occupatori, si dichiaravano pronti a rilasciare il fondo occupato, dopo
aver raccolto i frutti della semina. Uno di loro, Pietro Grino, respinse l’accusa sostenendo che «se alle volte ha lui
432
153
giustificava il fastidio manifestato da costoro nel vedersi inquisire dal giusdicente. Viceversa le
intenzioni di altri usurpatori erano dichiaratamente ostili agli usi collettivi temporanei delle
risorse:
«È ben vero che vi sono di quelle persone che godeno tante di esse terre che vagliono più di 8 in 10 milia, uno delli
quali si chiama Gio. Francesco Maggio et l’altro Antonio Carrosso detto Mangiafatto, et quelli se li godeno, come beni
proprii, et non come comunaglie, et sono beni che li rendono molto fruto, cosa che non fa quelli che hanno seminato
qualche poca biada, perché sono terre inutili»435.
Il processo contro gli occupatori di Castiglione durò circa un quarantennio ma fu sospeso e
riavviato più volte, dopo intervalli anche rilevanti e per niente congrui con una soluzione ordinata
della questione. Accanto al momento delle suppliche di denuncia ad inizio secolo, possiamo isolare
due fasi contraddistinte da precise scelte di conduzione del processo e dalle relative reazioni a
livello locale. La prima va dal 1619 al 1627 e vede realizzarsi due fallimenti: quello del Senato nel
tentativo di trasformare gli occupatori in enfiteuti e quello castiglionese di mediare il conflitto tra
ricchi occupatori e il resto della comunità. La seconda fase (anni 1639-1643) è segnata dal cambio
di strategia adottato dal Magistrato delle Comunità e porta alla vendita dei fondi usurpati gestita
direttamente dal Commissario genovese. Vedremo che la tradizionale funzione di bilanciamento
tra interessi contrastanti svolta dagli ufficiali genovesi fu portata ai limiti dell’impraticabilità per le
profonde lacerazioni del tessuto sociale.
Partiamo dalla prima fase del processo, la cui direzione fu impostata dal Senato dal
momento che il Magistrato delle Comunità non era stato ancora istituito. Dopo più di un decennio
durante il quale i Podestà che si erano succeduti non erano riusciti a punire gli occupatori, il
Senato si risolse per l’invio di un commissario ad hoc col compito di accertare lo stato dei luoghi e
restituire all’uso pubblico i terreni. L’incaricato, il nobile genovese Cornelio De Ferrari, si recò a
seminato qualche poco nelli beni communali, ciò ha fatto per il passato perché chi voleva vi seminava, e poco o nulla
di frutto vi ha preso, atteso la mala qualità delle terre», ASGe, Magistrato delle Comunità, 135.
435
Simile differenza sostanziale fu tenuta nel debito conto dal Senato fin dal 1603, quando ordinò al Podestà di
procedere con la causa, calibrando però le pene a seconda dello stato patrimoniale del condannando: «Ci è parso dirvi
che procediate inanti in detta causa per li termini di giusticia e che rispetto alli poveri miserabili la condanna non passi
la somma di lire diece e gli altri richi che possono pagar la pena li condannerete sino alla somma de L. 100 per caduno
e se vi sarà qualcheduno che per abbrugiamento o altro meritasse maggior pena, ce lo scriverette», ASGe, Magistrato
delle Comunità, 135.
154
Castiglione nel novembre del 1619 e censì circa una settantina di occupatori, riscontrando però
notevoli resistenze al rilascio dei fondi436.
Vista la sua relazione e considerata la disponibilità di altre comunaglie non usurpate, il
Senato emanò un decreto il 6 dicembre. Considerata la consistenza e i miglioramenti apportati a
molti fondi, la Repubblica rinunciò alla politica repressiva di cui il decreto del marzo 1600 era il
significativo manifesto ma stabilì che le terre occupate fossero date in locazione o enfiteusi per
l’annuo canone dell’1% del valore e che, in caso di trasferimento, fosse pagato il laudemio alla
comunità. I boschi di castagno, sebbene investiti a privati, dovevano rimanere aperti al pascolo –
tranne, va da sé, nel periodo di fruttificazione – e ogni altra occupazione da quel momento era
vietata senza licenza governativa, né potevano essere dati in locazione i fondi comuni ancora
liberi. Una deputazione di tre uomini eletta dal Parlamento di Castiglione avrebbe dovuto
individuare i beni e stipulare i contratti.437
La scelta dell’investitura enfiteutica premiava, sanandolo, il lavoro degli occupatori ma
portava con sé diverse conseguenze rilevanti dal punto di vista giuridico ed economico. In primo
luogo con essa si ufficializzava che le comunaglie erano di dominio della comunità e non della
Repubblica. Come abbiamo più volte osservato, la titolarità dei beni ad uso collettivo raramente
era definita con univocità, mentre in questo caso la qualità del soggetto proprietario diventava
chiaramente identificabile: il contratto aveva ad oggetto i fondi «ex communaliis bonis
spectantibus ad Communitatem Castilioni» e alla comunità doveva essere versato il canone
annuale e il laudemio in caso di vendita, salvo l’esercizio della prelazione riconosciuta a favore dei
rettori438.
Non solo. L’imposizione del canone annuale all’1% fu considerata una violazione dei
privilegi su cui si fondava ii rapporto tra Castiglione e Genova. Si ricorda infatti che dal 1440 la
comunità godeva non solo del privilegio di essere esente da avarie o gabelle decisa dal capoluogo,
Al 1602 risultavano censiti 75 occupanti, numero destinato a crescere fino a raggiungere i 118 del 1639. Si stima
che le comunaglie usurpate nel 1619 ammontassero a circa 14-15 ettari di terreno, F. FIGONE, La podesteria di
Castiglione, cit., p. 157, O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., p. 149.
437
Il decreto in latino è in ASGe, Magistrato delle Comunità, 135.
438
Si ricorda che in sede processuale la concessione enfiteutica non provava di per sé il dominium del concedente,
salvo che esso non emergesse da altri elementi. La questione era comunque controversa e i commentatori non
mancarono di presentare le articolate posizioni sul punto: F. FULGINENS, Tractatus de iure emphyteutico, Genevae,
Apud Leonardum Chouët, 1665, quest. XXVI; G. L. RICCIO, Praxis aurea quotidianarum rerum ecclesiastici fori, Venetiis,
Apud Laurentium Marchesinum et Socios sub signo Sapientiae, 1674, vol. II, resol. XCVII, nn. 1-6. Trattandosi di beni di
una universitas, ceduti in esecuzione di un comando del sovrano, il dubbio nel caso di Castiglione non si poneva: essi
appartenevano alla comunità, che li concedeva in enfiteusi ai privati possessori. Ma una soluzione che conservava una
(seppur debole) proprietà pubblica delle terre non sarebbe stata accolta dal consenso degli interessati.
436
155
ma di dover sostenere (per l’ordinario) soltanto le spese per la corte podestarile, secondo il
sistema fiscale prima illustrato439. Le ampie immunità contenute nel patto non fornivano alla
comunità alcun appiglio giuridico per pretendere ulteriori prelievi: le pensiones dovute in virtù di
contratti agrari relativi a fondi siti sul territorio erano pertanto da considerarsi illegittime440.
La procedura proposta dal Senato, che prevedeva l’elezione da parte del Parlamento di tre
persone per la stima dei beni e la stipula delle concessioni, abortì fin da subito. I castiglionesi
nicchiarono fino al 1624, quando il vicario della corte di Chiavari fu inviato a Castiglione per
sollecitare il compimento dell’iter sotto pene pecuniarie. Quando il Parlamento fu convocato alla
presenza dell’ufficiale emerse in tutta la sua gravità la spaccatura tra i grandi occupatori e gli
esclusi:
«Dopo di haver ragionato il popolo nel luogo solito, se gli propose quanto da VV. SS. Molto Illustri venne ordinato, et
la maggior parte di quelle persone cominciorno a levarsi in piedi, et dire che non volevano altrimente prendere
investitura alcuna delli beni di questa Communità poiché loro son franchi di ogni cosa, e che questo non vogliono li sii
posto simile agravio, et tutto questo li diceva tutte quelle persone che godeno gran somma di detti beni, et quelli che
non ne godono cominciorno a dire che era bene di prender dette investiture, non essendo ciò altrimenti agravio ma
sibene utile di questa Communità, et per queste parolle si cominciorno a maltrattare l’una parte e l’altra di parolle
molto impertinenti».
La rissa che mandò a monte ogni dibattito convinse il vicario che poco o nulla si sarebbe
concluso per via del conflitto di interessi di molti componenti del consiglio. È opportuno
soffermarsi un momento sui motivi posti alla base dell’opposizione verso la formalizzazione dei
All’incirca in quegli stessi anni, i rettori di Castiglione dovettero ricorrere più di una volta alle convenzioni
quattrocentesche per contrastare l’espansione della fiscalità genovese. Nel 1613 i sindaci opposero le immunità
pattizie all’introduzione della gabella della macina (ASGe, Senato Senarega, 1733). Alla fine degli anni ’20 il Senato
chiese un parere al consultore Stefano Lasagna per sapere se l’avaria straordinaria al tasso dell’1% per spese belliche
gravante sul Dominio ricadesse sotto l’ambito di applicazione delle convenzioni o meno. La risposta fu affermativa e il
Senato non poté far altro che prenderne atto, ASGe, Magistrato delle Comunità, 860. Sulle varie forme di prelievo vedi
G. FELLONI, Distribuzione territoriale della ricchezza e dei carichi fiscali nella Repubblica di Genova, in Scritti di storia
economica, cit., I, pp. 199-234.
440
La determinazione di un canone era un elemento costitutivo dell’enfiteusi stessa, ma non si richiedeva una sua
proporzionalità al prodotto netto del fondo. Salvo casi particolari di distruzione del bene o di invasione da parte di
eserciti nemici, la semplice sterilità casuale, una cattiva annata o altri casi fortuiti non sollevavano l’enfiteuta dal
pagamento integrale del canone, mentre nel caso della locazione di lunga durata la contingente minore produttività
del bene si ripercuoteva sul locatore mediante la compensazione del canone. La diversità del trattamento era
giustificata dall’appartenenza dei frutti, che erano fin dalla loro origine di proprietà dell’enfiteuta ma non del
conduttore, F. PINHEIRO, De censu et emphyteusi tractatus, Eborae, Ex typographia Academiae, 1681, disp. IV, sez. III, n.
24.
439
156
titoli di possesso. Il rispetto delle convenzioni, è stato notato da Raggio, era spesso utilizzato
pretestuosamente da alcuni notabili nelle loro relazioni con magistrati genovesi per ribadire il
rispetto dell’autonomia da cui dipendeva la loro supremazia a livello locale. Ma scendendo su un
piano più concreto, vi sono indizi che inducono a ipotizzare altre cause. Particolarmente
interessante appare la dichiarazione di Antonio Arzeno, citato a comparire nel 1626 di fronte al
Magistrato delle Comunità per conto proprio e di altri quattordici occupatori.
L’accusa al Parlamento di Castiglione, strutturalmente incapace di deliberare dal momento
che «non si congrega mai salvo una volta l’anno al primo di Gennaro con tanta confusione che
malamente si può espedire quelli negotii forzosi», cioè il rinnovo delle cariche, appare prevedibile
e in linea con la difesa di molti occupatori. La critica più interessante Arzeno la muoveva al canone
imposto dal Senato all’1% annuo ma non tanto sulla base delle convenzioni del 1440, bensì perché
l’occupazione non implicava lo sfruttamento continuo dei terreni e quindi una loro redditività
costante. Lo si è detto prima: il “ronco” richiedeva fino ad un massimo di dieci anni perché la
boscaglia ricrescesse e si potesse coltivare nuovamente il fondo. Un canone annuo non teneva
conto di questa caratteristica ed era giudicato insostenibile da parte di chi, tutto sommato, non si
dichiarava pregiudizialmente contrario a fare “instrumenti et altre scritture” per aggiudicarsi la
propria quota dei beni441.
Nonostante il deterioramento del contesto istituzionale, il Parlamento locale riuscì a
licenziare una riforma dei capitoli campestri nel 1630. Il nuovo articolato dichiarò illecito il taglio, i
“roncamenti” e «altri lavori nocivi al crescimento di quella boscaglia, intendendosi anco vietato il
potervi condure a pascolare capre, ma non altre bestie» e riformò lo statuto dei campari,
prevedendone 6 tenuti a sorvegliare e a formulare le accuse per i danni dati alle comunaglie442.
Sull’efficacia di questo testo è però lecito avanzare più di un dubbio. Dal contenuto si deduce
Arzeno dichiarò che «Le terre nelle quali hanno ognuno di essi seminato […] non possono sopportare il carrico che
se le pretende d’imporre di pagare uno per cento l’anno e massime, che quella terra dove si sarà seminato due volte
convien poi lassarla posare per sette in otto anni tanto che di nuovo vi cresca il boscho, quale roncato poi e bruggiato
serve in luogo di grassura, altrimente sarebbe del tutto gettata via la spesa e le semente, et il pagare terratico osia
piggione annua di simili cose che non fruttano, se non con tanta distanza di tempo non è cosa che possa sostenersi, e
verrebbe per questo la Communità a pigliare li sudori e travagli di questi poveri huomini, il che non è raggionevole né
giusto», ASGe, Magistrato delle Comunità, 135. Questa obiezione era funzionale ad un certo tipo di sfruttamento del
suolo, privo del connotato di stabilità che pure caratterizzava altre usurpazioni. Si deve tenere altresì presente che la
discontinuità delle visite degli ufficiali genovesi agevolarono molti occupatori, che avevano buon gioco a dirsi
disponibili a rilasciare i terreni dopo aver raccolto i frutti della semina, consci del fatto che nessuno avrebbe
controllato l’aderenza al vero delle loro affermazioni.
442
Lo scopo dichiarato dal preambolo era restituire ai poveri di Castiglione boscaglie sufficienti per mantenere su
discreti livelli il commercio di legname a Sestri, precedentemente praticato. Il testo fu approvato con emendamenti
dal Senato il 14 ottobre 1630, ASGe, Senato Senarega, 1889, RSL, n. 263.
441
157
facilmente la sua origine dettata dall’emergenza di reprimere ulteriori spoliazioni, tramite la
(tardiva) previsione di nuove sanzioni pecuniarie. Non sembra che i titolari dei fondi occupati da
più tempo e che ormai vi praticavano stabili coltivazioni potessero essere citati alla luce delle
nuove disposizioni, quando ormai perfino il Senato ne aveva in qualche modo riconosciuto l’utilità.
Gli stessi Commissari genovesi non parvero tener conto del testo. L’approvazione dei bandi fu un
successo simbolico della minoranza dei contrari alle usurpazioni, nel quadro del persistente
conflitto che scuoteva il borgo e le ville.
L’opposizione portata avanti dagli occupatori contro l’azione del Senato fu quindi in
definitiva vincente e segnò un primo, momentaneo punto a loro favore. Il registro delle
argomentazioni tirate in ballo univa un piano “alto” consistente nella ferma difesa dello status di
comunità privilegiata, ad uno assai più pragmatico, volto a far intendere ai governanti genovesi
che l’ostilità si dirigeva soprattutto verso quella soluzione, cioè l’investitura enfiteutica e il
conseguente mantenimento di un dominio della comunità.
La sospensione durata più di un decennio non fece altro che esacerbare gli animi ed acuire
le disuguaglianze socio-economiche. Tra gli anni Venti e Trenta una parte degli occupatori più
piccoli si inserirono nel reticolo di rapporti clientelari che faceva riferimento alle famiglie del
notabilato locale più attive nella campagna di usurpazione (Carroccio e Castiglione tra tutte). La
tendenziale concentrazione di lotti di terra occupata in mano ad un numero ristretto di famiglie
portò molti di quelli che ad inizio secolo avevano usurpato “poca robba” a divenire manenti o
mezzadri di chi, al contrario, di “robba” se n’era accaparrata molta di più443.
Gli strati sociali medio-bassi, denunciando le malefatte degli occupatori, criticavano in
realtà le disparità economiche e le ingiustizie fiscali che le appropriazioni abusive avevano
aggravato, sì, ma non creato444. Gli usurpatori d’altronde disponevano di un’influenza riconosciuta
pubblicamente e in grado di mandare a monte qualsiasi ulteriore tentativo di attuazione del
decreto senatorio del 1619. Per fare solo un esempio, quando nel 1639 si presentò a Castiglione
un nuovo Commissario, Geronimo Sanseverino, questi coinvolsero nella difesa dei loro interessi
Cfr. sia O. RAGGIO, Forme e pratiche, cit., p. 152 che F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 155-156.
Francesco Maria Imperiale, durante il sindacato degli ufficiali della riviera di Levante per il 1642, visitò Castiglione e
informò il Senato delle gravi spaccature e “partialità” intercorrenti tra poveri e ricchi, il divario tra i quali era
aumentato nel corso degli anni. Sulle occupazioni in particolare, stimate sufficienti le comunaglie rimaste libere,
scrisse: «Perciò disaprovano le coltivazioni, se bene più utili al luogo che le boscaglie, sotto preteso del ben publico,
volendo il danno privato», F. FIGONE, La podesteria di Castiglione, cit., p. 163.
443
444
158
prima due sacerdoti (l’arciprete di Castiglione e il rettore della chiesa parrocchiale di Masso) e poi
Gio. Batta Carroccio, chiedendo e ottenendo la sua ricusazione445.
La seconda ed ultima fase del processo fu caratterizzata da un netto cambio di marcia
deciso dal Magistrato delle Comunità per chiudere definitivamente la questione. Attese
l’impraticabilità delle concessioni enfiteutiche e l’evidente impossibilità di supportare le istituzioni
locali nella ricomposizione della frattura, al collegio non restava altro che alienare direttamente le
terre civiche. D’altro canto però si voleva sfruttare l’occasione per introdurre una maggiore equità
nel sistema di riparto dell’avaria sugli immobili in vigore. Il disegno era quindi decisamente
favorevole agli occupatori ma tentava di compensare la perdita di una parte consistente delle
comunaglie con la redazione di un nuovo catasto che ponesse fine alle vessazioni cui i poveri erano
soggetti da decenni.
L’attenzione su quest’ultimo argomento fu richiamata soprattutto dalla relazione stilata
nell’estate del 1642 dal Capitano di Chiavari Nicolò Clavesana. La disuguaglianza nel sistema di
prelievo era alla base di una buona fetta delle tensioni che turbavano Castiglione da inizio secolo:
«non sono le terre carattate, né si sa per qual caosa uno sia più in registro dell’altro». In più i
maggiori responsabili delle occupazioni, come Gio. Andrea Carroccio e Gio. Batta Castiglione, non
pagavano alcunché in quanto cittadini di Genova. Gli altri, per quanto privi del privilegio della
cittadinanza, volgevano spesso a proprio vantaggio la crisi di liquidità delle famiglie più deboli, che
per avere un po’ di denaro a breve termine accettavano di vendere i propri terreni riservandosi
l’onere fiscale relativo, che quindi non si trasferiva ai compratori. Occorreva eseguire
l’accatastamento di tutti i fondi della Podesteria, non solo per quelli occupati, e registrare il valore
I due prelati, Paolo Tealdo e Michele Vallaro, scrissero al Magistrato delle Comunità il 23 gennaio 1640, mentre la
lettera del Carroccio è datata 1 gennaio 1643 rispettivamente in ASGe, Magistrato delle Comunità, 365/B e 166. I due
scritti sono però analoghi per contenuti, segno che ormai la strategia difensiva degli occupatori era compiutamente
definita. Tra gli argomenti citati, oltre all’ingiustizia del canone dell’1%, vi fu quello della consuetudine
dell’addomesticamento del bosco selvatico e delle colture temporanee che «habbiamo per tradditione da vechi et
antenati, che sempre così s’è costumato fare». Lo scontro su questo punto rivela quindi il mutamento delle pratiche
d’uso dei fondi, rispetto ad una consuetudine spesso richiamata ma non più rispettata nella sua essenza. La gente
«otiosa e poltrona», «invidiosa del ben altrui» che denunciava gli occupatori stava sollevando un falso problema, dal
momento che su trenta miglia di terreno compreso entro i confini della giurisdizione di Castiglione c’erano ancora
sufficienti risorse collettive per tutti. Un altro argomento non secondario citato consisteva nel ricordare al governo
che i beni usurpati erano stati al centro di un’attività negoziale (compravendite, donazioni, doti) che ne rendeva
socialmente improponibile il recupero. La rinnovata attenzione per l’affaire di Castiglione fece salire la tensione tra i
gruppi in lite e furono denunciati al Magistrato delle Comunità furti, omicidi e risse a danno di coloro che portavano i
propri animali a pascolare sulle comunaglie occupate. Dietro le violenze c’era la mano dei principali occupatori, tra cui
Gio. Andrea Carroccio, cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 160-161.
445
159
imponibile e l’ammontare della tassa per ciascuna particella, ponendo fine alle manipolazioni
dolose dei libri d’estimo e alle confusioni «mai in pregiudicio de ricchi».446
Il Magistrato recepì e trasse le dovute conseguenze. L’anno successivo la nomina
dell’ultimo Commissario pro recuperatione bonorum communalium, Michele Bozomo, fu
accompagnata dall’accantonamento del decreto del 1619. La decisione di procedere alla vendita
definitiva dei terreni occupati faceva decadere uno dei motivi di protesta sollevati dagli usurpatori
(l’onerosità del canone annuale) e permetteva loro di disporre liberamente del bene, una volta
pagato il prezzo. Il collegio confermò poi la linea già intrapresa nel 1619: i boschi di castagni,
quantunque privatizzati, dovevano essere gravati dall’uso civico di pascolo, mentre sulle
comunaglie residue si costituiva un vincolo di indisponibilità salvo licenza del Senato. A questi
provvedimenti si aggiungeva poi l’ordine al Bozomo di far censire tutti gli immobili siti sul territorio
di Castiglione447.
Il Commissario Bozomo censì 84 particelle di terreni ex-comuni da vendere, valutandole nel
complesso (secondo il valore precedente l’occupazione e i relativi miglioramenti) 3.501 lire.
L’operazione di vendita rese 433 lire, di cui solo 205 riscosse immediatamente, e 22 fondi su 84
furono gravati dall’uso di pascolo collettivo. Il ricavato fu irrisorio rispetto al valore attuale dei
beni, in certi casi intorno al 10 %, e quindi la vendita rappresentò indubbiamente un affare per gli
occupatori. Buona parte dei fondi venduti peraltro confinava con terre rimaste comuni, segno che
le accuse dei nullatenenti potevano essere davvero sproporzionate448.
Da questa vicenda, alla quale abbiamo dedicato qualche pagina in più per l’evidente
complessità dei fatti, possiamo trarre alcune importanti indicazioni. È in primo luogo innegabile
che il sistema di prelievo fiscale in vigore a Castiglione ebbe un ruolo di indubbio rilievo nel
ASGe, Magistrato delle Comunità, 365/B.
Le istruzioni al Bozomo sono contenute in una relazione del Magistrato delle Comunità al Senato stilata il 12 agosto
1642. In dettaglio il Magistrato suggeriva di stimare il valore dei fondi usurpati «nel stato primevo anco a buon
mercato», senza cioè considerare le migliorie eseguite per evitare ulteriori contestazioni. Date le dimensioni del
fenomeno «non si può né deve castigare come delitto particolare, et essendo maggior utile della Serenissima
Repubblica haver detti beni coltivati, da quelli i suoi sudditi ricevono maggior sollevo, che boscaglie a fatto inutili». Per
quanto riguarda l’accatastamento degli immobili privati, il Magistrato ordinò a Bozomo di farsi accompagnare da due
o tre stimatori del posto e un cancelliere. Nel loro libro dovevano annotare per ogni particella «il nome del padrone,
che al presente le possede con li loro respettivi confini, et estimo, acciò da questo si faccia registro, sopra il quale a
soldo, e lire debbano detti habitanti pagar li carrichi tanto pubblici, come privati senza continuare nel disordine
presente, dove il povero paga per il ricco, e questo resta immune; nel qual libro distintamente si noti anchora la
qualità, grandezza, sito e confini de beni communi, acciò sempre consti quali sono, e che non possino essere alienati»,
ASGe, Magistrato delle Comunità, 365/B.
448
Per quanto non fosse più la soluzione principale, Bozomo stipulò anche una decina di locazioni enfiteutiche, mentre
per circa un’altra decina di fondi gli occupatori presentarono atti di acquisto rogati tra la fine del Cinquecento e i primi
anni del Seicento.
446
447
160
mancato sviluppo di istituzioni amministrative sufficientemente solide. Il processo mise in luce la
strutturale incapacità di governare adeguatamente la routine politica del centro del Parlamento
castiglionese, da cui discendeva anche il basso livello dei servizi svolti dagli ufficiali, al punto tale
che nel 1647 – quindi pochi anni dopo il frazionamento deciso da Bozomo – furono approvati dei
capitoli politici per il governo di Castiglione, in riforma di quelli precedenti, approvati dal
Magistrato delle Comunità449.
L’alterazione delle consuetudini di utilizzo della terra si abbatté come un uragano su
istituzioni deboli e controllate agevolmente dalle stesse persone che stavano defraudando la
comunità dei propri beni. Dal punto di vista sostanziale fu proprio il tradizionale esercizio libero
del pascolo e del legnatico su tutti i fondi comuni a pregiudicare le possibilità di recupero degli
stessi, nel momento in cui gli strati economicamente più attrezzati della società si servirono dei
tradizionali “roncamenti” per impadronirsi stabilmente di parecchi ettari di comunaglie e
intensificare la ben più redditizia coltivazione delle castagne. La mancata codificazione di regole
scritte, in grado di conciliare appropriazione temporanea e godimento collettivo, agevolò
verosimilmente gli occupatori. Le poche e tardive disposizioni a tutela dei boschi comuni
arrivarono solo nel 1630. È possibile spiegare tale assenza?
Senza dubbio la pastorizia aveva scarso peso nell’economia del centro, ragion per cui
l’ampia distesa silvestre sopravanzava di molto la domanda di terre di pascolo e non vi era dunque
necessità di regolamentarne l’utilizzo. La semplice raccolta di legna da rivendere presso i mercati
dei centri costieri doveva probabilmente trovare da sé, anche qui in via consuetudinaria, un
proprio equilibrio tra taglio e tempi di rigenerazione della vegetazione. Pure la coltivazione
stagionale si svolgeva senza un qualche indirizzo da parte degli organi comunitari, nemmeno nelle
forme del frazionamento e dell’assegnazione – temporanea o definitiva – di parte delle
comunaglie: qualsiasi canone o terratico corrisposto per l’affitto sarebbe stato illegittimo per le
convenzioni.
In questo quadro dovettero operare le magistrature della Repubblica, alle quali va
perlomeno imputata una certa lentezza nella gestione del processo. La politica di arbitrato tra le
parti a Castiglione non trovò terreno fertile per l’ostilità che gli occupatori si erano attirati. In ogni
caso, fallito il primo tentativo del Senato, il Magistrato delle Comunità valutò che per la
Le misure adottate cercarono di ovviare al problema dell’inadeguatezza delle persone elette agli uffici di massaro e
Priore e al disordine che regnava sovente in occasione delle sedute del Parlamento, dove le delibere erano più spesso
adottate per acclamazione – con i relativi abusi – che con le palle colorate, ASGe, Magistrato delle Comunità, 171.
449
161
conservazione della quiete nella podesteria fosse indispensabile intervenire alle radici dello
scontento, che originava dal modo regressivo con cui ricchi e poveri concorrevano alle spese
comuni.
La risposta alla domanda di giustizia che si levava dalla comunità si articolò così in una
ridefinizione dei confini tra proprietà privata, pubblica e privata gravata da uso civico, attuata
mediante un’inedita ingerenza nell’amministrazione locale. Con la registrazione degli estimi svolta
dal Commissario, le varie situazioni reali diventavano conoscibili (e quindi tutelabili) dagli organi
giurisdizionali genovesi. Come ha osservato Figone, sorsero contese negli anni successivi circa
l’esatta delimitazione dei fondi privati e sul pagamento del prezzo, così come altre occupazioni si
verificarono ancora nel XVIII secolo, sebbene di minor portata450. Esse erano tuttavia strascichi
frequenti in questo tipo di cause, che non sminuiscono gli sforzi compiuti dei Commissari nel
tentativo di governare il conflitto sociale.
Ci sembra di poter affermare in conclusione che la vicenda di Castiglione sia
rappresentativa per un verso del fatto che a larghe condizioni di autonomia amministrativa e
fiscale non corrispondevano necessariamente buone pratiche di gestione delle risorse collettive.
Le differenze tra Sanremo e Castiglione, entrambe comunità convenzionate, dovrebbero essere a
questo punto evidenti. Per altro lato conferma come sui beni comuni potessero convergere
tensioni di origine diversa che le magistrature della Repubblica tentarono di contenere,
conciliando alla meglio antiche consuetudini collettive – sempre meno “collanti” della società –
con la legittimazione di nuovi diritti di proprietà frutto di un’agricoltura estensiva che a Genova
non era certo guardata con disprezzo.
4.a) Le alienazioni: difesa dei beni o difesa delle regole?
L’alienazione dei beni comunali era circondata da particolari solemnitates e i giuristi solevano
rimandare per la materia de qua ad un consilium del mantovano Antonio Gobbi che le illustrava
una ad una. Alessandro Dani ha ben contestualizzato il contenuto del parere di Gobbi nel quadro
450
Cfr. F. FIGONE, La Podesteria di Castiglione, cit., pp. 168-171.
162
della dottrina del tempo e dello ius proprium senese. Rimandando a quella sede per gli
approfondimenti, possiamo sintetizzare così:451
1) Competente a deliberare era il consiglio della comunità, regolarmente convocato secondo
le consuetudini del luogo, con l’intervento e l’avallo dell’ufficiale rappresentante il sovrano;
2) Durante la seduta, ciascuno doveva poter esprimere il proprio parere – specie i notabili e
possidenti del posto – e, solo dopo aver esaurito la discussione, si poteva proseguire con la
votazione;
3) La deliberazione era valida a patto che vi prendessero parte almeno due terzi dei
componenti dell’assemblea a pena di nullità della stessa e, a cascata, del contratto
eventualmente stipulato;
4) Fondamentale era la redazione di un verbale da parte del notaio che indicasse i nomi degli
intervenuti al Consiglio e l’oggetto della delibera;
5) L’elemento causale doveva consistere nel bene e nell’utilità della comunità, di cui i
consiglieri erano garanti;
6) La comunità doveva aver ottenuto la preventiva autorizzazione del Principe per alienare i
propri beni;
7) Il mezzo preferito per l’individuazione del contraente era l’asta pubblica, tuttavia su questo
punto Dani ha rilevato come l’opinione del Gobbi non fosse seguita da tutti;
8) A perfezionamento della vendita interveniva il decreto con cui l’ufficiale del Principe
integrava la volontà espressa dalla comunità.
Va da sé che questo apparato regolamentare andava incontro a molteplici deroghe ed
adattamenti in ragione sia della specialità dei vari diritti particolari, sia delle dimensioni delle
comunità e del tipo di beni oggetto di disposizione. A rilevarlo era stato, tra gli altri, niente meno
che il Cardinal De Luca nel “Dottor volgare” concludendo che: «molto rari, e forse niuni sono i casi,
ne’ quali in questa materia si abbia da caminare con la sola disposizione delle sudette leggi. Atteso
che […] non vi è forse luogo, il quale sopra ciò non viva con le sue leggi, o consuetudini particolari,
le quali, così in questa, come in ogni altra materia, prevagliano le sudette leggi chiamate
comuni»452.
Cfr. A. DANI, Usi civici, cit., pp. 421-438. La fonte è in A. GOBBI, Juris Consultationes decisivae civiles et criminales,
Venetiis, Apud Nicolaum Pezzana, 1707, cons. V. Si chiarisce che le solennità erano richieste per qualsiasi atto di
disposizione di un certo rilievo, perciò non solo in occasione delle alienazioni ma anche locazioni, enfiteusi etc.
452
G. B. DE LUCA, Il Dottor volgare, Roma, Nella Stamperia di Giuseppe Corvo, 1673, lib. 7, parte III, cap. VIII, n. 1.
451
163
Ogni Stato faceva quindi storia a sé, e lo stesso giurista di Venosa portò come esempi le realtà che
meglio conosceva, vale a dire lo Stato Pontificio e il Regno napoletano. Scopo di questa sezione è
dunque quello di esaminare alcuni casi di vendita sottoposti al vaglio delle magistrature di Genova
per comprendere secondo quali schemi esse sovrintesero al controllo sugli atti dispositivi dei beni
comunali e quali interessi tutelarono in via prioritaria.
Per cominciare bisogna dire che le procedure di vendita o di locazione periodica dei beni
erano raramente regolate dagli statuti locali. In conformità con l’incanto delle gabelle, oggetto di
una disciplina più diffusa, il modello dell’asta pubblica si estese anche alla vendita dei beni
comunali, con aggiudicazione a colui che avesse presentato la migliore offerta allo spegnimento di
una candela. Salvo sporadiche eccezioni, le comunità del Dominio non si discostarono da questo
metodo per assegnare ai privati di pascoli e boschi. È pacifico che a seconda delle attività agropastorali praticate presso la comunità considerata e delle risorse di cui essa disponeva, la
locazione periodica poteva essere effettuata costantemente oppure solo nei periodi in cui erano
necessarie entrate extra. A giustificazione delle operazioni fu spesso addotto lo stato di
indebitamento, come già accennato problema endemico e diffuso a tutte le latitudini, seppur con
un grado di incidenza variabile da luogo a luogo.
I Parlamenti locali erano le assemblee preposte a deliberare in ordine agli atti dispositivi dei
beni. Alla presenza dei consoli locali e del giusdicente territorialmente competente, il Parlamento
metteva ai voti la proposta. Se essa aveva ad oggetto la cessione o il frazionamento di un bene
della comunità, il verbale era inviato a Genova per l’approvazione del Senato o di altra
magistratura da esso delegata. Anche in questo campo, come per il recupero dei beni usurpati, il
Magistrato delle Comunità assunse progressivamente la competenza generale al trattamento dei
fascicoli provenienti dal Dominio e indirizzati al Senato. Beninteso, senza automatismi: il principale
collegio di governo della Repubblica aveva comunque facoltà di decidere autonomamente o di
chiedere un parere funzionale all’emanazione di un decreto di risposta.
L’interlocuzione tra capitale e Dominio si serviva dei giusdicenti quali informatori nonché
controllori della legalità delle procedure. In particolare furono soprattutto i giusdicenti maggiori,
dotati della massima giurisdizione all’interno della loro circoscrizione, a fungere da longa manus
dei Collegi, scavalcando i Podestà locali, troppo spesso facilmente influenzabili.
Le operazioni di un certo rilievo dovevano essere autorizzate preventivamente e
convalidate al loro completamento, a maggior ragione se la comunità era indebitata. Il debito
164
accumulato si presentava come la principale causa della vendita di parte dei beni, soluzione spesso
caldeggiata dagli strati più agiati. Il Senato e il Magistrato delle Comunità assunsero le dovute
decisioni tenendo conto di diversi fattori: capacità economica della comunità, gravità
dell’indebitamento, valore del bene oggetto della causa, sussistenza di eventuali contrasti in seno
alla comunità stessa. Un’ordinata discussione del consiglio locale avrebbe fatto emergere infatti
alla luce del sole le posizioni contrarie alla privatizzazione. Tuttavia abbiamo visto nelle pagine
precedenti che le negligenze dei rettori e le disfunzioni dei Parlamenti comunitari potevano spesso
impedire alle istituzioni locali di elaborare una sintesi efficace ed era in queste circostanze che
l’intervento suppletivo degli organi repubblicani si rendeva indispensabile.
Alcuni casi possono aiutarci a ricostruire la procedura amministrativa seguita in occasione
della dismissione del patrimonio comunale. Iniziamo da quanto accadde a Casarza negli anni
Trenta del 1600. La comunità era gravata da parecchi debiti, dovuti soprattutto a spese sostenute
per processi aventi ad oggetto proprio le comunaglie. Nel 1630 ottenne dal Senato l’autorizzazione
al frazionamento e alla vendita di parte dei campi comuni fino al raggiungimento di 2.096 lire,
sotto la vigilanza del giusdicente di Sestri Levante. Il Magistrato delle Comunità, dopo aver
esaminato i conti presentati dal giusdicente, fu però di diverso avviso e ordinò ai sindaci di Casarza
di iscrivere quei debiti tra le spese cui far fronte tramite le avarie ordinarie. A questa decisione la
comunità si oppose, rinnovando la richiesta di alienazione di prati e boschi453.
Il Magistrato fece allora pubblicare una grida a Casarza fissando un termine di otto giorni
entro il quale dovevano comparire a Genova o presso la cancelleria del Podestà di Sestri coloro
che si opponevano per esporre: «perché non si debba concedere alli detti huomini di Casarza
licenza di poter vender tante communaglie di detti huomini, o sia della detta Communità, per
pagarne del prezzo di esse quello che sudetta Communità deve». Spirato il termine senza alcun
reclamo, il Magistrato delle Comunità propose al Senato di autorizzare la vendita mediante
pubblica asta da svolgersi sotto l’egida del Capitano di Chiavari. La somma da raggiungere però salì
a 2.479 lire, con le quali sarebbero stati soddisfatti due creditori di Casarza e si sarebbe estinta la
cospicua spesa per interessi.
Notiamo quindi che tramite il consueto schema giurisdizionale-contenzioso, il Magistrato
delle Comunità si proponeva come autorità competente per la risoluzione delle eventuali
controversie tra favorevoli e contrari alle privatizzazioni. Il Magistrato esercitò il proprio potere
453
ASGe, Magistrato delle Comunità, 164.
165
rideterminando all’occorrenza anche gli obiettivi finanziari che le alienazioni dovevano
raggiungere. Consapevole delle frequenti irregolarità che affliggevano le cessioni, il collegio
incaricò il giusdicente maggiore più vicino alla località interessata – qui il Capitano chiavarese –
perché garantisse la legalità della procedura e mediassero personalmente i conflitti sorti.
Il secondo caso ci porta ad Ortonovo. I rettori del borgo spezzino avevano ottenuto dal
Senato nel 1637 un decreto che li autorizzava a mettere all’incanto i beni fondiari del comune
elencati in una lista. Alcuni di questi, che già fruttavano alla comunità piccoli redditi derivanti
dall’affitto, sarebbero stati concessi a livello o in enfiteusi, mentre per le altre terre che non
rendevano nulla si sarebbe semplicemente dato luogo alla vendita definitiva. Alla gara
parteciparono anche due debitori della comunità (tali Francesco Masini e Andrea Coppino),
aggiudicandosi alcuni appezzamenti ma, al momento del frazionamento e della redazione degli
atti, rifiutarono di ricevere la proprietà dei beni, realizzando forse di aver acquistato quelli meno
pregiati, e riuscirono a far sospendere la procedura454.
Seguendo le forme consuete di supplica al Principe, i due fecero istanza al Senato nel
marzo del 1639 chiedendo di non approvare la delibera finale di vendita. Le motivazioni sollevate
di fronte al Magistrato delle Comunità, more solito delegato a sbrigare la faccenda, consistevano
nell’irregolarità dell’asta, che aveva riguardato anche fondi non compresi nella lista del 1637, e
nella ipotetica insufficienza di siti dove praticare il pascolo e la raccolta di legna. I Consoli di
Ortonovo chiesero comunque l’approvazione dell’operazione, sostenendo che si trattasse solo di
una confusione tra i nomi degli appezzamenti. Il Commissario di Sarzana, dopo la visita ad
Ortonovo, propose che fosse ridotte ad un terzo l’estensione delle terre da assegnare a Masini e
Coppino con equivalente riduzione del prezzo e che per il resto si approvasse la vendita. Ad agosto
del 1639 il Magistrato propose al Senato di dare il proprio assenso all’aggiudicazione e chiudere la
questione.
Il caso è rivelatore del complesso intreccio di interessi che ruotavano intorno alle
alienazioni delle comunaglie. In particolare sotto gli argomenti sollevati dai due ricorrenti si celava
una strategia abbastanza precisa, diretta a mantenere la comunità in condizioni di esposizione
debitoria nei loro confronti per meglio condizionarne la vita politica, almeno fino a quando non si
fosse presentata una buona contropartita. Nel caso di specie, considerato che Ortonovo disponeva
454
ASGe, Magistrato delle Comunità, 164.
166
di altri siti dove portare il bestiame al pascolo, il Magistrato ritenne prioritario l’alleggerimento del
carico debitorio rispetto alla conservazione delle risorse455.
La vittoria dei consoli davanti ai collegi genovesi fu però vanificata l’anno successivo:
Masini riuscì infatti a farsi eleggere anche Console e Coppino consigliere nel 1640, nonostante le
direttive del Magistrato delle Comunità volte ad evitare simili situazioni456. L’elezione, per quanto
favorita dal parziale pagamento dei loro debiti al cassiere di fronte all’assemblea riunita, non fece
che aggravare la situazione di Ortonovo perché i nuovi rettori non diedero seguito all’asta, né si
premurarono di riscuotere i crediti vantati dalla comunità o i canoni non pagati per l’affitto di altri
terreni comunali già locati457. Il semplice controllo ex ante ed ex post non poteva dunque dirsi
sufficiente e in una simile circostanza il Magistrato avrebbe dovuto agire contro gli agenti per la
negligenza nel curare la riscossione dei debiti, ma non si conosce l’esito della vicenda.
Durante l’esame del processo contro gli usurpatori castiglionesi abbiamo notato come
Senato e Magistrato delle Comunità adottarono due approcci diversi per la definizione della causa.
Anche in materia di alienazioni non sempre il Senato avallò le proposte del Magistrato all’insegna
del risanamento finanziario delle comunità soggette, se questo cozzava con il rispetto di altri
interessi giudicati prioritari.
Un caso emblematico a questo proposito si verificò a Vessalico nel 1634. Sappiamo che il
conflitto sabaudo-genovese interessò molto da vicino le comunità ponentine del capitanato di
Pieve di Teco e ciò ebbe riflessi anche sui loro bilanci. Oltre alle spese eccezionali per la riparazione
dei danni e il mantenimento degli indigenti, dopo la guerra del 1625 la Repubblica intraprese
l’ammodernamento delle mura del Borgo di Pieve di Teco in ottica difensiva, in parte finanziata
mediante la creazione di una nuova imposta il cui riparto tra le tre comarche diede luogo ad un
Le comunità di Ortonovo e Nicola disponevano, tra gli altri, anche del diritto di pascolo alla Marinella di Sarzana,
località pianeggiante vicino alla foce del fiume Magra. Verso fine Seicento le due comunità intentarono una causa per
il rispetto dei loro usi civici contro il conduttore della Marinella che aveva ricevuto il sito in enfiteusi dal comune di
Sarzana, ASGe, Archivio segreto, 97.
456
L’elezione fu propiziata dalla rinuncia del primo Console eletto, che aprì la strada all’elezione di Masini. Dal
rapporto del Commissario pare che gli ufficiali uscenti tentarono di influenzare l’elezione per evitare che persone in
conflitto di interesse fossero elette, ma senza riuscirvi. Il Commissario, vista l’acclamazione e la mancanza di
opposizioni, ratificò quanto deliberato – la raccomandazione del Magistrato delle Comunità, se trasgredita, non
determinava la nullità dell’elezione - informandone però subito Genova.
457
Una lettera anonima del 1640 descrive il Masini come un “caporione”, che «non ha mai guardato se non al danno
di essa Communità, e particularmente mentre era console l’anno passato, qual ufficio si usurpò e mendicò per poter
maneggiare detta Communità et le liti, che sustentava, e che al presente sustenta contro essa a modo suo».
L’anonimo informatore elencava i nomi di 10 uomini che dovevano ad Ortonovo circa 200 lire, elenco definito però
parziale. Anche i conduttori di terre comunali morosi erano diversi, ASGe, Magistrato delle Comunità, 165.
455
167
lungo contenzioso458. Gravato da questo carico e da pregressi censi contratti per le spese di
guerra e per acquistare scorte alimentari per la popolazione, Vessalico all’esordio degli anni Trenta
si trovò pesantemente indebitato. Tra i provvedimenti individuati per dare sollievo alle casse
comunali, i Consoli scelsero di proporre la vendita della bandita boschiva del Comune durante la
seduta del Parlamento del 19 febbraio 1634459. Questa mossa si attirò però l’aperta opposizione di
un gruppo abbastanza ampio di vessalicesi, che ricorsero al Senato contro la vendita.
In sintesi furono due i motivi di doglianza dedotti. Innanzitutto si eccepirono diversi e gravi
vizi affliggenti la seduta del Parlamento che aveva deliberato in proposito e l’asta conseguente.
L’assemblea era stata convocata senza l’adeguata pubblicità e il numero di persone convenute non
era sufficiente per integrare il numero legale – la proposta era stata approvata con 39 voti
favorevoli e 18 contrari. Dall’esposizione dei ricorrenti si profila insomma un tentativo di trasferire
il bosco pubblico in mani private sotto il pretesto dell’indebitamento tramite una serie di forzature
procedurali, dirette da un ristretto gruppo di famiglie benestanti del posto460.
Il secondo argomento riguardò la natura comune del bosco, che forniva agli uomini del
borgo legname impiegato nelle più svariate circostanze, dai lavori alle mura alle riparazioni dei
mulini locali fino all’alimentazione di alcune fornaci di calce. Inoltre: «in li tempi de carestia, o
penuria di vetovaglie, bisognando li poveri di ristoro, et aiuto, si servono in luogo di sigortà, del
detto bosco obligandolo, non havendo la communità altri stabili sufficienti, che per altro
sarebbono soggetti a gravissimi dissaggi».
Il bosco rientrava quindi tra le garanzie date dalla comunità ai propri creditori, che
sarebbero stati soddisfatti nel tempo grazie agli introiti derivati dal prelievo fiscale e dai redditi
generati dai mulini e dai frantoi. L’alienazione consentiva di alleggerire il carico gravante sulle
casse di Vessalico, misura da cui chiaramente traevano maggiori benefici coloro che disponevano
Il rinnovamento dei secondi anni Venti fu in realtà l’ultimo anello di una catena di interventi di edilizia militare che
interessarono il Borgo a partire dai primissimi anni del Seicento. Per finanziarli, il Senato ricorse a provvedimenti ad
hoc come la vendita dell’ufficio della scrivania all’asta e l’assegnazione alla comunità di un terzo del valore delle
condanne riscosse, come informa la Descrizione in ASGe, Manoscritti, 218, cc. 31 r. – 34 r. Sulle mura di Pieve cfr. E.
LUSSO, Territorio, infrastrutture e tutela militare. cit.
459
Richiamata la pesante situazione debitoria della Comunità, che si trovava a sborsare quasi 10.000 lire per effetto
delle spese ordinarie e dei debiti accumulati, i Consoli proposero di mettere all’incanto la Bandita del Comune con
aste da tenersi per cinque o sei giorni festivi. Il ricavato sarebbe andato ad estinguere parte del debito consolidato,
ASGe, Senato Senarega, 1939.
460
Per far sì che la manovra dei «più ricchi di questo luoco, tutti parenti» andasse a buon fine, non fu suonata la
campana per annunciare pubblicamente la riunione e la notizia dell’adunanza fu diffusa solo fra gli stretti famigliari.
Anche l’asta rischiava di non dare quei benefici sbandierati, dal momento che «seguendo detta vendita si come loro
procurano, che segue Domenica prossima che viene, acciò detto bosco resti fra di loro con manco pretio di quello che
vale», ASGe, Senato Senarega, 1939.
458
168
di proprietà allibrate e tassate, ed è proprio in tale prospettiva che va letta la decisione di cedere il
bosco: il ricavato avrebbe ridotto la quota che i possidenti avrebbero dovuto sborsare e un piccolo
gruppo di famiglie se ne sarebbe servito in maniera esclusiva461.
Il Senato ordinò al Capitano di Pieve di recarsi a Vessalico per verificare l’effettiva utilità
dell’operazione e svolgere una breve istruttoria. Chiaramente gli esponenti del “partito
privatizzatore” ribadirono la bontà della decisione presa e poiché dopo alcune sedute, si era già
raggiunta la somma di 750 lire per l’acquisto del bosco, chiesero al giusdicente di garantire la
prosecuzione dell’incanto. Contrariamente alle loro aspettative, il Capitano accolse la domanda di
riconvocazione del Parlamento con tutte le formalità del caso: rimessa ai voti la proposta, fu
bocciata per 46 voti contro 23.
È interessante però notare che nel suo rapporto, il Capitano pievese espresse al governo
genovese il proprio favore alla vendita della selva, adducendo la disponibilità di altre risorse
collettive462. Sulla stessa linea si pose il Magistrato delle Comunità, proponendo al Senato di
convalidare l’asta nonostante la violazione delle regole procedurali, ma questi, nella seduta del 21
agosto, «proposito de concedendo dictis Consulibus venditionem nemoris in precibus requisita, et
sumptis calculis, propositio reprobata fuit».
Il governo scelse quindi di anteporre il rispetto della volontà politica espressa dalla
comunità nelle forme legali all’alleggerimento del debito comunitario che, nel modo in cui andava
realizzandosi, risultava essere un buon affare soprattutto per i registi di tutta l’operazione. Questo
episodio è anche importante come riprova del fatto che in un contesto segnato da una lunga
tradizione di utilizzo regolato delle risorse collettive, la loro difesa risultava più efficace,
nonostante una situazione finanziaria destinata a non migliorare nell’immediato463.
Se finora abbiamo trattato di vendite definitive, dobbiamo perlomeno ricordare
brevemente che alla sua attenzione venivano spesso sottoposti anche atti di locazione periodici
dei beni o gabelle comunali per l’approvazione. Contenuto e complessità dei contratti di locazione
variavano a seconda della quantità e delle pratiche di utilizzo dei beni, proprie di ciascuna
461
Oltre a richiamare il possesso in comune del bosco da lunghissimo tempo, gli oppositori ricordarono che «né si può
sotto corretione di VV. SS. Serenissime allegar dalla parte per inconveniente il sgravar la Communità da debiti con
pagar per podere, poiché quando si vende un stabile si vende franco, e libero, eccetto che dalle avarie e carrichi
publici communi, così restano li particolari obligati sgravar la Communità per quella rata parte che loro possedono»,
ASGe, Senato Senarega, 1939.
462
ASGe, Senato Senarega, 1939.
463
Nel 1637 i rettori di Vessalico chiesero l’autorizzazione al Magistrato delle Comunità di poter prendere a prestito
400 scudi per acquistare vettovaglie per i poveri, ASGe, Magistrato delle Comunità, 162.
169
comunità, ma in generale il Magistrato valutò principalmente la congruità dei benefici finanziari
ricavati e la regolarità dell’iter amministrativo seguito464.
Alla luce dei casi esposti, possiamo affermare che anche in occasione degli atti di cessione
dei beni comunali il Magistrato delle Comunità legittimò il proprio ruolo mediante la riconduzione
entro l’alveo istituzionale l’eventuale conflitto intorno all’utilizzo delle risorse naturali. Il
Magistrato si rese via via più autonomo nel valutare quale fosse la soluzione più confacente al
buon governo delle medesime sulla base delle circostanze peculiari di ciascun caso. Stante che il
suo compito primario consisteva nella riduzione dei debiti contratti localmente, esso intervenne
solertemente allorquando per farvi fronte le comunità sceglievano di vendere il loro patrimonio.
Il Magistrato tentò di trarre il massimo in assenza di un apparato amministrativo proprio,
facendo dei giusdicenti maggiori una specie di ispettori da attivare nei casi più gravi. L’equilibrio
tra proprietà privata e collettiva, messo sotto stress anche da debiti dovuti a guerre e carestie, fu
perseguito dal Magistrato in ausilio del Senato, ma come abbiamo riscontrato in diversi episodi le
valutazioni dei due organi non furono sempre convergenti. Nel complesso di può considerare
dimostrata l’ipotesi da cui eravamo partiti, cioè che anche in Liguria le proprietà collettive
subirono erosioni meno significative nelle zone montane del Ponente, laddove i rapporti di
produzione trovavano nei beni comuni un elemento indispensabile. Lì si riscontrano anche le più
organizzate reazioni in caso di abusi a danno del patrimonio comunale. In definitiva non ci sembra
errato sostenere che le magistrature genovesi, per il loro stesso modo di operare, costituirono un
valido ed efficace presidio di tutela dei beni per quelle comunità dotate di una “tradizione”
nell’amministrazione di risorse comuni. Altrove il combinato agire dell’espansione delle
coltivazioni private e dell’indebitamento indussero i governanti della Capitale a vigilare soltanto
sulla regolarità delle procedure e a conferire legittimità ai mutamenti avvenuti, tentando al più di
conservare quel minimo di comunaglie necessarie per il sostentamento dei più poveri.
Ad esempio nel 1634 il Magistrato approvò il contratto con cui la comunità di Triora aveva appaltato la gabella
dell’erbaggio e del pascolo sulle bandite alpine ad un suo creditore, Giovanni Ardissone di Taggia (ASGe, Magistrato
delle Comunità, 161), mentre nella prima metà del Settecento fu chiamato a convalidare i numerosi contratti di
locazione dei pascolo stipulati da Arenzano (ASGe, Magistrato delle Comunità, 551).
464
170
Capitolo V
Le acque interne liguri: un bene comune?
1) IL GOVERNO DELLE ACQUE TRA MUTAMENTI ECONOMICI E SCIENZA GIURIDICA
1.a) Le politiche di gestione delle acque interne: gerarchia di diritti d’uso e istituzioni
Durante il medioevo si sviluppò una vera e propria “cultura dell’acqua”. Una coscienza
diffusa, cioè, del valore di un bene prezioso ma limitato, indispensabile per i bisogni umani e
strettamente correlata alle attività economiche più diffuse, ma anche facilmente inquinabile con
conseguenze potenzialmente fatali per interi insediamenti465. Data la rilevanza storica delle acque
per la società medievale, il governo delle acque è ormai un tema storiografico consolidato e ricco
di studi al quale tuttavia, lo si è anticipato, la storiografia giuridica ha contribuito in minima parte.
Eppure l’indagine sui beni comuni offre l’occasione per indagare l’apporto della scienza giuridica
alla definizione degli strumenti con cui furono governate le acque stesse.
Il trinomio dominium – usus – iurisdictio presiedeva alla disciplina delle risorse collettive
tanto agro-pastorali che idriche e fu tramite il diritto che i governi (cittadini o statali)
determinarono limiti e modalità di esercizio dei diritti sulle acque. Fu un processo disomogeneo,
dove la rivendicazione particolaristica delle regalie sui corsi d’acqua medievale e la struttura
economica locale portarono di volta in volta a normative differenti tra loro. A monte vi fu però
ovunque l’individuazione di una publica utilitas che le risorse idriche dovevano soddisfare, in
funzione della quale gli organi politici fissarono uno specifico regime proprietario e le regole di
derivazione per i privati. L’affermazione di Astuti circa l’esistenza di due distinti regimi giuridici tra
loro alternativi (libertà di derivazione gratuita o concessione onerosa) può dirsi ancora attuale nel
cogliere le due soluzioni con cui il diritto locale mediò il rapporto uomo – acqua.
Il primo modello fu adottato in Lombardia. Prima del XV secolo esistevano solo due grandi
canali da cui traevano l’acqua le “rogge” per l’irrigazione dei campi. Il primo era il Naviglio Grande,
derivato dal Ticino con direzione Milano, i cui lavori di costruzione durarono dal 1177 al 1272. Il
secondo era la Muzza che irrigava la pianura lodigiana partendo dall’Adda e fu ultimato all’inizio
del XIII secolo. Fino alla fine del Duecento la libertà di derivare con il consenso dei vicini fu un
465
Cfr. J. LEGUAY, L’eau dans la ville au Moyen Âge, Rennes, 2002.
171
principio generalmente seguito per consuetudine, che tuttavia si rivelò inadeguato a reggere l’urto
di una domanda d’acqua in rapida crescita. I consorzi tra utenti privati, che comparvero sulla scena
tra Due e Trecento per gestire privativamente le acque di alcuni fiumi secondari (Olona, Vettabbia,
Nirone), limitandosi a tutelare i diritti di alcuni a scapito di altri, non potevano offrire soluzioni
adeguate. Fu il comune di Milano allora che si assunse l’incarico di determinare chiaramente i
confini tra acque pubbliche e private. Della questione fu investita una commissione di 14
giureconsulti, che nel 1296 – recuperando alla lettera il contenuto della de regalibus – dichiarò
pubbliche solo le acque dei fiumi navigabili e dei loro affluenti, riducendo il diritto del comune
milanese alla sola gestione del Naviglio e poco di più. Alla fine dell’età comunale le acque
sottoposte al dominio di Milano sottostavano così a tre differenti regimi giuridici: esistevano infatti
le acque pubbliche (fiumi navigabili regali su cui il comune vantava diritti fiscali); le acque civiche
(Naviglio, gestito direttamente dal Comune tramite concessioni d’uso) e le acque private (sulle
quali i poteri del Comune si riducevano alla sola risoluzione delle controversie, a prescindere
dall’effettiva titolarità)466. Una sostanziale estensione dei diritti privati sull’acqua riguardò anche il
cremonese, in risposta ad esigenze di bonifica ed irrigazione non molto diverse467. Il costante
aumento della domanda di acqua almeno fino al Cinquecento indusse poi le autorità ducali a
mettere in opera lavori di ulteriore ampliamento dei navigli nella prima età moderna468.
Al secondo modello si ispirò invece la politica seguita dalla Repubblica di Venezia per il
Dominio di terraferma. Nel 1556 con il decreto istitutivo dei Provveditori sopra i beni inculti
dichiarò pubblici tutti i corsi d’acqua (maggiori e minori), riconoscendo agli utenti il solo diritto
d’uso costituito tramite concessione onerosa. Con questo provvedimento, coerente con quello di
attribuzione alla Signoria dei beni comunali, la Repubblica superò il precedente regime giuridico
ereditato dal diritto particolare vigente nelle città via via sottomesse469.
La sentenza informò sostanzialmente gli statuti successivi. Il canale della Muzza fu invece dichiarato pubblico dagli
statuti di Lodi e il comune poteva cederne l’uso dietro pagamento di un piccolo canone annuale, cfr. G. BIGATTI, La
provincia delle acque, Ambiente, istituzioni e tecnici in Lombardia tra Sette e Ottocento, Milano, 1995, pp. 34-51.
467
F. PETRACCO, Il divertimento delle acque. Irrigazione e bonifica tra Cinque e Seicento nella provincia cremonese: il
caso del diversivo Magio, infrastruttura privata di utilità pubblica, in A. CALZONA, D. LAMBERINI (a cura di), La civiltà delle
acque tra medioevo e rinascimento, Firenze, 2010, vol. I, pp. 261-271.
468
Cfr. E. ROVEDA, Uomini, terre e acque. Studi sull’agricoltura della “Bassa lombarda” tra XV e XVII secolo, Milano,
2012, pp. 260-277.
469
Con la consueta chiarezza il Ferro ricordava che: «Nello Stato Veneto le acque tutte di qua dal Mincio sono di
pubblica ragione, e di là del medesimo i particolari le commerciano, come fanno delle terre. Non possono dunque i
privati usar delle acque di ragione del Principe senza una special investitura; ed a queste presiede il Magistrato
Eccellentissimo di Beni Inculti, instituito dal Senato per versar anche sopra questa materia», M. FERRO, voce Acque, in
Dizionario di diritto comune e veneto, I, Venezia, 1845, pp. 31-35. Pur trattando prevalentemente delle opere di
canalizzazione, affronta alcuni aspetti giuridici dei diritti sulle acque delle comunità padane assoggettatesi a Venezia R.
466
172
Presso altre realtà cittadine i confini tra acque pubbliche e acque private appaiono espressi
in termini meno netti. Più che l’attribuzione proprietaria dei corsi d’acqua, agli statutari dei centri
urbani settentrionali interessò vincolare il loro uso a fini pubblici per la soddisfazione degli
interessi della collettività470. La rivendicazione comunale delle acque “regali” si saldò a dei piani di
governo delle risorse idriche più o meno coerenti ed organici, in parte ricostruibili grazie agli
statuti471. Questi e i provvedimenti assunti in seguito dai comuni e poi dagli Stati definirono una
gerarchia di diritti d’uso sulle acque, variabile a seconda dei bisogni e delle attività economiche.
Alla stregua di quanto esaminato per i pascoli e i boschi, dunque, anche per le acque si pose il
problema (politico) di raggiungere un equilibrio tra usi potenzialmente confliggenti di una risorsa
scarsa tramite la modulazione di diritti d’uso riconosciuti a singoli o collettività. Se considerata dal
punto di vista neo-istituzionale, lo studio della gestione delle acque deve considerare le principali
funzioni economiche a cui l’acqua concorreva, l’autorità investita della potestà giurisdizionale a
regolamentare la risorsa e la natura e il contenuto delle fonti normative.
Lo straordinario ruolo politico svolto dalle città rimase una specialità italiana. Altrove la
proprietà delle acque si distribuì tra i sovrani e l’insieme di soggetti (signori laici, ecclesiastici, città)
a vario titolo legati al sovrano da vincoli feudali. In Spagna ad esempio il codice delle Partidas
riservò espressamente al sovrano i fiumi navigabili, mentre per i corsi minori il diritto eminente del
re o dei signori coesistette con i domini utili degli utilizzatori, spesso dichiarati dalle carte di
franchigia o di privilegio sui beni comuni concesse dai feudatari. Alcune città in età moderna
emanarono poi delle ordenanzas contenenti una più puntuale regolazione dei vari usi. Una
situazione simile si riscontra in Francia. Le numerose consuetudini vigenti stabilivano regole
speciali relativamente all’utilizzo dei fiumi, ma l’ordinanza del 1669 sulle acque e le foreste
razionalizzò i diritti che i corpi territoriali potevano esercitare. La condizione di liceità era in ogni
caso la concessione regia472.
VERGANI, Problemi d’acque e scavo di canali nell’alta pianura veneta dei secoli XIV-XVI, in La civiltà delle acque, cit., II,
pp. 507-526.
470
Cfr. ad esempio P. GALETTI, La disciplina delle acque nelle normative statutarie del territorio piacentino, in F. CAZZOLA
(a cura di), Acque di frontiera Principi, comunità e governo del territorio nelle terre basse tra Enza e Reno (secoli XIIIXVIII), pp. 37-51; G. DOTTI MESSORI, Norme statutarie, magistrature e istituzioni per il governo del territorio a Modena in
età medievale, ibidem, pp. 103-138: R. RINALDI, La normativa bolognese e il suo contado, ibidem, pp. 139-164.
471
Come ha evidenziato P. RACINE, Du moulin antique au moulin medieval, in P. GALETTI, P. RACINE (a cura di), I mulini
nell’Europa medievale, Bologna, 2003, pp. 1-15.
472
L’accentuata confusione dei regimi giuridici dei vari corsi d’acqua rende ardue sintesi più estese. Considerazioni
ulteriori per la Spagna in J. MALUQUER DE MOTES, El agua en el crecimiento catalan de los siglos XVII y XVIII: derechos de
propiedad y utilizaciones energéticas, in S. CAVACIOCCHI (a cura di), Le acque interne. Secc. XII-XVIII, Atti in cd-rom del
convegno di Prato, 15-20 aprile 1983. Per riferimenti bibliografici più aggiornati e un’indagine più accurata sulle fonti
173
I fiumi servirono soprattutto come vie di comunicazione, come corpi alimentatori di
impianti idraulici e come fonti d’irrigazione. Sull’uso largamente praticato della navigazione dei
fiumi, le ricerche condotte hanno dimostrato che la rovina delle strade romane rilanciò il ruolo
primario delle vie d’acqua473. Nell’ottica di signorie, città ed enti ecclesiastici, i diritti di navigazione
sui fiumi fecero parte dello strumentario di governo del territorio a cui si legava il controllo e lo
sfruttamento di tutte le altre risorse fluviali (porti, isole, terreni golenali coltivabili)474. Dopo l’XI
secolo i Comuni iniziarono a ripristinare adeguate infrastrutture viarie, tramite la ristrutturazione
delle antiche strade e la costruzione di nuovi tracciati. Fiumi e canali artificiali navigabili
continuarono ad essere percorsi da battelli e traghetti, ma la loro rilevanza nell’”economia dei
trasporti” del tardo medioevo si ridimensionò475.
Il rinascimento medievale poggiò su un’espansione economica nettamente più accentuata
rispetto al passato, trainata dalla messa a coltura di nuove superfici prima occupate da boschi e
paludi. L’aumento della produzione agricola fu legato all’estensione delle superfici coltivate, più
che a innovazioni tecniche, perché la resa dei raccolti si attestò intorno al 3 per 1 del seminato fino
al Trecento, con picchi al 4 o 5 per 1 più frequenti solo dal XV secolo in poi476. Ciò incentivò
pratiche di diversificazione, entro le possibilità offerte dal clima locale, grazie alle quali accanto al
locali castigliane vedi anche P. ZAMBARANA MORAL, Historia del derecho medioambiental: la tutela de las aguas en las
fuentes jurídicas castellanas de la edad moderna, in Revista de Estudios Histórico-Jurídicos, XXXIV, 2012, pp. 277-319.
In Franca i diritti regi sulle acque prendevano sostanzialmente la forma dei poteri di giurisdizione e non di disposizione
o godimento diretto, vedi J. RENAULDON, Traité historique et pratique des droits seigneuriaux, Paris, chez Despilly, 1765,
pp. 357-370; G. LEYTE, Domaine et domanialité publique dans la France médiévale (XIIe- XVe siècles), Strasbourg, 1996,
pp. 165-185; X. GODIN, Considérations sur la police des eaux fluviales dans la première Modernité, in A. MERGEY, F.
MYNARD (a cura di), La police de l’eau. Réglementer les usages des eaux: un défi permanent, Paris, 2017, pp. 69-103.
473
Vedi per i primi indirizzi di ricerca J. SYDOW, Le vie d’acqua, in S. CAVACIOCCHI (a cura di), Le acque interne, cit., e gli
altri contributi di quella sezione; P. RACINE, Poteri medievali e percorsi fluviali nell’Italia padana, in Quaderni storici, 61
(1986), pp. 9-32. Un lavoro di sintesi abbastanza ampio che analizza il tema dal VII al XIV secolo su scala nazionale è
quello di S. PATITUCCI UGGERI, La viabilità di terra e d’acqua nell’Italia medievale, in S. PATITUCCI RUGGERI (a cura di), La
viabilità medievale in Italia. Contributo alla carta archeologica medievale, Sesto Fiorentino, 2002, pp. 1-72, oltre agli
altri saggi del medesimo volume, geograficamente più circoscritti. Per la Lombardia vedi N. COVINI, Strutture portuali e
attraversamenti del Po: alcuni aspetti delle relazioni tra comunità, signori e Stato ducale lombardo (secolo XV), in La
civiltà delle acque, cit., I, pp. 243-259.
474
Per un caso sulla Sesia cfr. R. RAO, Abitare, costruire e gestire uno spazio fluviale: signori, villaggi e beni comuni
lungo la Sesia tra Medioevo ed età moderna, in R. RAO (a cura di), I paesaggi fluviali della Sesia fra storia e archeologia.
Territori, insediamenti, rappresentazioni, Firenze, 2016, pp. 13-29.
475
Per alcuni studi sulle vie d’acqua in Toscana vedi ad esempio L. ROMBAI, Le acque interne in Toscana tra medioevo
ed età moderna. Il caso delle Maremme, in A. MALVOLTI, G. PINTO (a cura di), Incolti, fiumi, paludi. Utilizzazione delle
risorse naturali nella Toscana medievale e moderna, Firenze, 2003, pp. 17-42; F. SALVESTRINI, Navigazione e trasporti
sulle acque interne della Toscana medievale e protomoderna (secoli XIII-XVI), in La civiltà delle acque, cit., vol. I, pp.
197-220. Per un confronto tra le politiche di navigazione fluviale di diverse città in età comunale vedi R. GRECI, Le città
navigabili. I progetti dell’età comunale, in La civiltà delle acque, cit., vol. I, pp. 177-196
476
Le rese agricole restarono pressoché immutate fino alla rivoluzione agraria di fine Settecento, cfr. G. DUBY,
L’economia rurale nell’Europa medievale, Bari, 1966 (ed. orig. Paris 1962); M. MONTANARI, Tecniche e rapporti di
produzione: le rese cerealicole dal IX al XV secolo, in B. ANDREOLLI, V. FUMAGALLI, M. MONTANARI (a cura di), Le campagne
italiane prima e dopo il Mille. Una società in trasformazione, Bologna, 1985, pp. 44-68.
174
tradizionale frumento si intrapresero coltivazioni di segale, orzo, avena, sorgo, oppure altri legumi
idonei alla macinatura, come le fave. Sia la crescita dei terreni coltivati che l’edificazione di nuovi
mulini furono iniziative avviate e guidate al successo grazie all’azione di vescovi, abbazie, signori
feudali o comuni (urbani o rurali), soggetti capaci di mobilitare maggiori risorse umane ed
economiche rispetto al singolo o ad una famiglia477. Lo sfruttamento più intensivo e razionale delle
campagne richiedeva anche l’irreggimentazione dei fumi. Sono però noti i danni portati dalle piene
che periodicamente rompevano gli argini, riportando l’acquitrino nelle terre coltivate. Nonostante
gli sforzi profusi dalle popolazioni delle comunità fluviali, l’equilibrio idrogeologico era afflitto da
una costante precarietà478.
Alcuni studi di storia rurale dedicati al tema delle bonifiche hanno accertato tuttavia un
dato: anche nelle vaste zone pianeggianti lombarde e venete l’introduzione di colture che
necessitavano di grandi quantità d’acqua fu guardata talora con scetticismo, talaltra con vera e
propria ostilità, tanto dalle autorità quanto dagli stessi proprietari terrieri. Il persistente
attaccamento alle coltivazioni granarie, certamente giustificato dalla costante paura di non riuscire
a sfamare la popolazione in tempi di carestia, unito alla difesa dei prati su cui si praticava
l’allevamento rallentò l’avvio di coltivazioni specializzate come leguminacee invernali, miglio, lino
e soprattutto il riso, da più parti accusato di deteriorare le condizioni di vita degli abitanti prossimi
alle risaie. Si può dire quindi che le paludi non ovunque fecero spazio a coltivazioni intensive, ma
incrementarono gli ettari dei tradizionali campi cerealicoli479.
Dal punto di vista tecnico-giuridico, l’acquedotto coattivo rappresentò indubbiamente
l’istituto più originale del diritto intermedio, perché il proprietario di un fondo era obbligato a
vendere o a concedere una striscia del proprio terreno per la realizzazione di un canale a favore di
Cfr. A. CORTONESI, Ruralia, cit., pp. 21-61; G. CHERUBINI, L’Italia rurale del basso Medioevo, Roma-Bari, 1985, pp. 1114; M. LUZZATI, La dinamica secolare di un «modello italiano», in R. ROMANO (a cura di), Storia dell’economia italiana,
vol. I, Torino, 1990, pp. 5-116.
478
Il problema riguardava in generale tutta l’Italia. Per uno studio particolare relativo all’area padana vedi V.
FUMAGALLI, Il paesaggio si trasforma: colonizzazione e bonifica durante il medioevo. L’esempio emiliano, in Le
campagne italiane, cit., pp. 95-132.
479
Già Fernand Braudel aveva osservato che il confronto tra agricoltura e allevamento, a parità di superfici impiegate,
vedeva vincente la prima in termini di resa produttiva. Inoltre va tenuto presente che i prodotti delle due attività si
rivolgevano a classi non del tutto sovrapponibili: il pane rivolto (prevalentemente) ai ceti medio bassi, il formaggio e
soprattutto la carne a quelli medio-alti, pur in un contesto di tendenziale diminuzione del consumo di carne tra XVI e
XVIII secolo, cfr. F. BRAUDEL, Civilization and capitalism 15th – 18th Century. Vol. I The structures of everyday life. The
limits of the Possible, Londra, 1981 [ed. orig.: Parigi, 1979], pp. 104-144 e 190-199. Per le proposte di riforma agricola
nella bassa pianura lombardo-veneta vedi S. CIRIACONO, Acque e agricoltura. Venezia, l’Olanda e la bonifica europea in
et moderna, Milano, 1996, pp. 39-49.
477
175
un fondo vicino, dietro percezione di una somma di denaro. Nonostante la sua indubbia
importanza ai fini produttivi, non di rado i testi statutari presentavano una disciplina lacunosa480.
Anche laddove permasero terre incolte, fertili o ghiaiose, lasciate prive di protezione dalle
piene dei fiumi stava una platea di beni comuni che comprendeva, oltre ai soliti pascoli, anche gli
spazi acquei in cui si praticava la pesca e la caccia all’uccellagione, i canneti, i mulini alimentati dai
fiumi che non di rado divennero di monopolio comunale per assicurare alla comunità adeguati
rifornimenti di farina. Anche intorno al territorio paludoso sorsero conflitti, per riprendere le
parole di Cazzola: «per decidere se quest’acqua poteva essere mantenuta ed impiegata utilmente
per la pesca, la caccia e le attività di raccolta e pascolo a vantaggio della comunità rurale, ovvero
se la potenziale terra coltivabile che giaceva sommersa dall’acqua poteva essere riscattata
utilmente per le colture agrarie, per farne campi e poderi, a privato ed esclusivo vantaggio di colui
che nella bonifica investiva risorse finanziarie e lavoro»481.
La coltivazione di cereali estivi come orzo e avena, intensificatasi nel periodo carolingio,
aumentò la domanda dei servizi di macinatura. È difficile avere un quadro chiaro della quantità di
mulini attivi nei i secoli precedenti il Mille stante la frammentarietà delle fonti, ma si può
ragionevolmente sostenere che una larga maggioranza dei contadini abitanti nelle terre del regno
franco potesse macinare i propri grani in mulini situati all’interno della tenuta o poco distanti. Per
quanto concerne i mulini, in un suo imprescindibile lavoro Marc Bloch ha collocato nell’VIII secolo
il sorpasso del mulino idraulico rispetto agli impianti a trazione animale o umana (tramite schiavi,
ormai ridottisi numericamente)482. Anche in questo caso solo i signori laici o ecclesiastici riuscirono
Laura Moscati ha però dimostrato come la dottrina del maturo diritto comune e, specie per il Piemonte sabaudo, la
giurisprudenza senatoria abbiano elaborato col tempo principi e regole di dettaglio, successivamente fatte proprie
dalle riforme legislative del Settecento. La natura dell’acquedotto coattivo rimase incerta, almeno in Piemonte, fino
alle Costituzioni regie del 1723, quando fu dichiaratamente qualificata come servitù legale. Moscati ha dimostrato
come dottrina e giurisprudenza integrarono in senso evolutivo le disposizioni di un editto di Carlo Emanuele I del
1584. I compilatori settecenteschi attinsero molto anche alle Constitutiones dominii Mediolanensis, cfr. L. MOSCATI, In
materia di acque, cit., pp. 15-68.
481
Le indagini condotte sulle zone umide della Toscana (lago di Bientina, Padule di Fucecchio, la bassa Maremma)
hanno dimostrato che una multiforme varietà di proprietà comunali e usi civici organizzò lo sfruttamento delle risorse
idriche e del suolo in vista dell’autosufficienza alimentare della popolazione. Vedi almeno: F. CAZZOLA, Risorse contese:
le zone umide italiane nell’età moderna, in A. PROSPERI (a cura di), Il padule di Fucecchio. La lunga storia di un ambiente
«naturale», Roma, 1995, pp. 13-34; G. PINTO, Incolti fiumi, paludi. Alcune considerazioni sulle risorse naturali nella
Toscana medievale e moderna, in Incolti, fiumi, paludi, cit., pp. 1-16 e A. MALVOLTI, I proventi dell’incolto. Note
sull’amministrazione delle risorse naturali del comune di Fucecchio nel tardo Medioevo, ivi, pp. 247-272; B.A RAVIOLA,
«Terra nullius». Ghiare, siti alluvionali e incolti nella piana del Po di età moderna, in G. ALFANI, R. RAO (a cura di), La
gestione delle risorse collettive, cit., pp. 157-173.
482
Il mulino idraulico determinò anche il progressivo abbandono della coltivazione del farro, la spulatura e
macinazione del quale mal si adattavano ai nuovi impianti, cfr. A. VERHULST, L’economia carolingia, Roma, 2004, [ed.
orig. Cambridge, 2002], pp. 88-101. Il noto lavoro di Bloch è M. BLOCH, Avènement et conquête du moulin à eaux, in
480
176
a destinare risorse sufficienti alla loro costruzione, per far fronte all’aumento della domanda dei
servizi di macinatura. La bannalità del mulino garantì la redditività dell’investimento, vincolando i
residenti al monopolio, fino a quando i comuni cittadini e rurali non si sostituirono ai signori
nell’esercizio della iurisdictio483. Toccò a loro a quel punto dirigere le politiche di
approvvigionamento annonario e idrico, interagendo con gli altri soggetti operanti sul territorio.
Gli schemi seguiti furono diversi, dal coordinamento con i titolari dei mulini delle forme di
sfruttamento delle acque, all’acquisizione diretta di diritti signorili su fiumi e mulini, ma comune fu
il fine: legare sempre più strettamente le risorse del contado alla domanda di beni e servizi della
città484.
Lo spettro delle strutture che abbisognavano di un accesso diretto a fiumi o canali
comprendeva anche tintorie, gualchiere, fabbriche di tessuti, officine metallurgiche, cartiere485. Lo
sviluppo dell’industria laniera, che nel nord Europa prosperò già intorno all’VIII-IX secolo, indusse
molte città a destinare speciali zone per questo tipo di produzione, gestendo il rifornimento idrico
sia sul piano infrastrutturale che su quello della disciplina dei diritti d’uso486. Allo stesso modo si
comportarono con manifatture artigianali inquinanti come la conciatura delle pelli e la
macerazione e lavorazione della canapa.
La gestione delle acque ebbe quindi un peso politico di primo piano. Come risorsa
fondamentale per la vita, se ne doveva assicurare un rifornimento costante e di buona qualità. Gli
organi di governo si fecero poi carico di organizzarne la distribuzione più giusta ed equa possibile,
Annales d’Histore économique et sociale, VII (1935), pp. 538-563, disponibile anche in italiano in M. BLOCH, Lavoro e
tecnica nel medioevo, Bari, 1959, pp. 48-87.
483
La banalità dei mulini, criticata nel corso del Settecento perché lesiva della naturale libertà degli uomini, rimase in
vigore in Francia fino alla rivoluzione francese, mentre in Italia la situazione è meno omogenea. Per il milanese ad
esempio si è ipotizzato che i mulini, salvo rare eccezioni, avessero perso ogni qualità bannale già nel corso del XII
secolo, cfr. C. G. MOR, Bannalità, voce in Novissimo Digesto Italiano, II, Torino, 1958, p. 272; M. GARAUD, La Révolution
et la propriété foncière, Paris, 1958, pp. 65-69; L. CHIAPPA MAURI, Acque e mulini nella Lombardia medievale. Alcune
riflessioni, in I mulini nell’Europa medievale, cit., pp. 233-268; G. CHERUBINI, La «bannalità» del mulino di una signoria
casentinese (1350), in Id., Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del basso medioevo, Firenze,
1974, pp. 219-228.
484
Molti gli studi condotti con riferimento a città e ai loro contadi. A mero titolo esemplificativo vedi per il milanese L.
Chiappa Mauri, I mulini ad acqua nel milanese (secoli X-XV), Roma, 1984. Per il senese D. BALESTRACCI, La politica di
gestione delle acque e dei mulini nel territorio senese nel basso medioevo, in I mulini dell’Europa medievale, cit., pp.
287-302. Sul Piemonte vedi tra i tanti saggi, e per ulteriori rinvii bibliografici R. COMBA, Il principe, la città, i mulini.
Finanze pubbliche e macchine idrauliche a Torino nei secoli XIV e XV, in G. BRACCO (a cura di), Acque, ruote e mulini a
Torino, Torino, 1988, I, pp. 79-103; V. MARCHIS, Acque, mulini e lavoro a Torino, in Acque, ruote e mulini, cit., II, pp. 969.
485
Notoriamente la prima gualchiera da carta attestata dalle fonti in Italia è quella di Fabriano, attiva già nel 1268. In
campo siderurgico l’acqua azionava i magli o dei mantici che alimentavano il forno di fusione dei minerali. Per
considerazioni di sintesi vedi P. MALANIMA, L’energia disponibile, in Storia dell’economia italiana, cit., pp. 117-136.
486
Considerazioni di sintesi sul tema dell’industria della lana in E. CARUS-WILSON, L’industria laniera, in M. POSTAN, P.
MATHIAS, Storia economica Cambridge. Commercio e industria nel medioevo, Torino, 1982, pp. 402-481.
177
cercando un non facile equilibrio tra usi diversi (irriguo, idraulico-industriale, potabile domestico o
pubblico) per realizzare il “bene comune”487. Le comunità rurali, cittadine, poterono a tal fine
adoperare un ampio numero di strumenti normativi, dagli statuti agli accordi contrattuali.
L’allargamento territoriale della giurisdizione statale pose poi lo Stato di fronte alla scelta di
assumere o meno una responsabilità politica in ordine all’amministrazione dei corsi d’acqua delle
comunità dominate. Le soluzioni istituzionali messe in campo per governare i cambiamenti e
risolvere i conflitti tra titolari di diritti d’uso furono influenzate anzitutto dalle regole generali in
tema di derivazione (libera o subordinata a concessione). Nella seconda ipotesi, la licenza poteva
essere rilasciata dalle singole comunità o da ufficiali o magistrati del Principe, come avveniva a
Venezia con ben due magistrature (Savi alle Acque e Provveditori sopra beni inculti) 488.
Per la Toscana Elena Fasano Guarini ha riscontrato come l’autorità granducale, guidata da
una visione complessiva – sebbene discontinua – dei problemi attinenti ai corsi d’acqua del
Dominio, favorì consapevolmente una trasformazione dei rapporti produttivi. Inoltre le funzioni
amministrative e giudiziarie esercitate dall’Ufficio ridussero notevolmente gli spazi di autonomia
delle comunità locali lungo il XVII secolo, disciplinando ad esempio le attività di pesca e di taglio
degli alberi costeggianti gli argini o servendosi della forza-lavoro locale per dare corpo ai progetti
di bonifica489.
Nella misura in cui gli Stati adottarono una politica interventista in materia idrica, la
potestà di ridefinire la gerarchia dei diritti d’uso su fiumi e rivi fu sottratta alle comunità locali e
attribuita ai governi. Su un piano parallelo si situa la creazione di ufficiali delegati a vigilare sull’uso
Cfr. A. LEVASSEUR, La police de l’eau dans la ville médiévale (XIIIe-XVe siècles). Fondements, mise en ouvre et
protection d’un «devoir de l’eau», in La police de l’eau, cit., pp. 47-67.
488
I primi sei Savi furono istituiti nel 1415 per la soprintendenza della laguna, dei porti e dei lidi. La composizione mutò
più volte lungo il XVI secolo e nel 1542 si creò anche la figura tecnica del Soprintendente generale ai fiumi dello stato. I
Savi avevano facoltà di procedere penalmente contro i danneggiatori degli argini e dei corsi d’acqua a tutela della
laguna. I Provveditori ai beni inculti, come detto, comparvero nel 1556 dopo che una visita generale ai luoghi dello
Stato compiuta nel 1545 aveva rivelato che «per negligenza degli abitanti, moltissimi fondi di terra ferma e dell’Istria
erano divenuti affatto incolti, per esser resi o troppo secchi, o coperti di acque, e ridotti ad una sterilità non naturale».
Allo scopo di incrementare la coltivazione cerealicola, i Provveditori potevano concedere le licenze per la realizzazione
di canali e colatoi, nonché le concessioni di derivazione per campi, mulini e altri edifici idraulici a favore di singoli
privati o di consorzi di proprietari. I costanti problemi dati dal fiume Adige indussero infine la Repubblica a costituire
un collegio di tre provveditori ad flumen. Eletti nella seconda metà del Cinquecento, diventarono definitivi solo nel
1667, cfr. M. FERRO, voci Acque (Magistrato delle), Adige (Magistrato dell’), Beni Inculti, in Dizionario di diritto, cit., I,
pp. 35-36, 44-45, 264-265; S. CIRIACONO, Acque e agricoltura, cit., pp. 49-61 con ulteriore bibliografia.
489
Cfr. E. FASANO GUARINI, L’intervento pubblico nella bassa valle dell’Arno nei secoli XVI e XVII, in Le acque interne, cit.
Sulla campagna pisana vedi anche A. M. PULT QUAGLIA, L’uso delle acque interne nel territorio pisano in età moderna, in
Incolti, fiumi, paludi, cit., pp. 215-235. Un interessante studio sulla gestione delle risorse idriche nel regno di Murcia,
tra politica regia e istituzioni locali degli irrigatori cristiani e musulmani in M. MARTINEZ MARTINEZ, La cultura del agua en
la Murcia medieval (ss- IX-XV), Murcia, 2010.
487
178
delle acque, dare attuazione ai lavori di arginatura e bonifica e punire i trasgressori. È in questo
frangente allora che la iurisdictio torna a farsi spazio come attività di governo del territorio e
disciplinamento della popolazione in vista del perseguimento di una publica utilitas che per le
acque, così come per le comunaglie, assunse contenuti concreti diversi a seconda del luogo e del
tempo considerati.
1.b) Il contributo della scienza giuridica al “giure delle acque”
Le novità emergenti dal diritto locale e il rinnovato interesse pubblico per una efficiente
amministrazione dalle acque interne coinvolsero anche i giuristi, chiamati a ricercare all’interno
del Corpus iuris principi e norme con cui indirizzare o integrare il dettato delle fonti locali. Le
forme letterarie ovviamente variarono. Il noto Tyberiadis o De fluminibus di Bartolo,
prevalentemente dedicato ai temi delle acquisizioni di proprietà conseguenti alle alluvioni e alle
isole formatesi nel letto dei fiumi, fu accompagnato dai commenti svolti da diversi autori ai
frammenti del Digesto, specie alla lex Quominus490. La crescente complessità del settore idrico e lo
sviluppo in alcuni Stati di leggi e giurisdizioni specializzate concorsero nel rendere lo ius aquarum
una materia dotata di una sufficiente autonomia, tale da essere organicamente inquadrata in
apposite opere. Per l’area italiana furono Antonio Gobbi e Francesco Maria Pecchi a redigere nel
XVII secolo i principali trattati monografici sul regime idraulico e la risoluzione di numerose
questioni tramite l’applicazione del diritto romano e locale. Ovviamente le opinioni espresse nelle
pagine di commentari e trattati furono poi citate da una quantità di giuristi più o meno rinomati
all’interno di numerosi consilia e vota. In numerosi ordinamenti fu proprio la giurisprudenza a
promuovere lo sviluppo di un diritto delle acque, opera cui i giuristi concorsero nell’ambito della
loro attività consulente o giudicante491.
I moltissimi aspetti della complessa materia non possono evidentemente esaurirsi in poche
pagine. Si vuole piuttosto dare conto di alcune questioni per dimostrare l’ampiezza degli spazi
lasciati alla scienza giuridica da una disciplina “legislativa” che disponeva solo per alcune, parziali
Sull’opera e sul ruolo dei giuristi nella costruzione dello ius aquarum cfr. O. CAVALLAR, Quod de Tibere dicetur: fiumi,
incrementi fluviali, mulini ad acqua e giuristi, in La civiltà delle acque, cit., I, pp. 91-120. Per l’analisi dell’evoluzione dei
water rights in Inghilterra tra diritto romano e consuetudini britanniche dal medioevo al XIX secolo J. GETZLER, History
of water rights at Common law, London, 2004.
491
Tra i non molti lavori dedicati all’attività consulente sull’oggetto del presente capitoli vedi P. MAFFEI, Un “consilium”
della fine del Duecento in tema di acque (con notizie su Iacopo D’Arena, Riccardo Petroni ed altri consulenti), in M.
ASCHERI (a cura di), Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, Padova, 1991, pp. 135-152.
490
179
fattispecie e in misura strettamente correlata all’intervento pubblico di messa in sicurezza dei
fiumi più tumultuosi, in vista di un più razionale sfruttamento dell’acqua. Sotto gli altri profili, le
principali norme di utilizzo delle acque venivano ricavate dalla tradizione giuridica giustinianea,
filtrata attraverso l’interpretatio sapienziale e giurisprudenziale. Inoltre con frequenti rinvii alle
consuetudines loci, ad accordi tra utenti, comunità o Principi i giuristi legittimarono la fissazione
concordata delle regole d’uso di una risorsa, la cui importanza dal punto di vista della politica
economica e territoriale era indubbia492.
La scienza giuridica fece proprie le preoccupazioni dei governi di assicurare un volume di
raccolti adeguati ai bisogni della popolazione e le riqualificò col proprio linguaggio. Per Gobbi la
pubblica utilità della derivazione delle acque «praediorumque fertilitate praesertim consistit».
Non diversamente Pecchi mosse dalla necessità vitale dell’acqua per giustificare il pubblico
interesse ad una fiorente produzione agricola dei campi coltivati privati. L’acqua era dunque una
risorsa che per quanto sottoposta ad appropriazione privata, produceva vantaggi indispensabili
per l’intera collettività493.
La crescita politica dei poteri pubblici aveva attirato tra le funzioni pubbliche non soltanto
la concreta determinazione della publica utilitas ma pure la conformazione del diritto di
derivazione come liberamente esercitabile o sottoposto a concessione. L’interesse dei sovrani si
arrestava in genere ad un equilibrato sfruttamento dei fiumi, tramite un’attenta valutazione degli
effetti delle derivazioni. Posto l’indiscutibile principio di illiceità delle derivazioni dai fiumi
navigabili senza permesso, per quei fiumi non navigabili o affluenti di altri navigabili «cognitio an
aquae deductio nocitura sit, necne, spectat ad ipsum Principem, cum agatur de iuribus ad ipsum
reservatis». Pecchi notava inoltre che la giurisdizione dei Principi in materia di acque si era estesa
Dovendo operare una scelta, si utilizzeranno le opere dei due principali specialisti del diritto delle acque del
Seicento, Antonio Gobbi e Francesco Maria Pecchi, senza ignorare però le lecturae svolte sulla lex Quominus da
Bartolo da Sassoferrato, Giason del Maino e Giovan Francesco Sannazzari della Ripa in qualità di più autorevoli
commentatori di D. 43.12.2. Le edizioni consultate sono le seguenti: BARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam ff. Novi
Partem, Venetiis, 1585, tit. De fluminibus, cc. 135-137; G. DEL MAINO, In primam Digesti novi partem commentaria,
Lugduni, 1582, § repetitio l. quominus de fluminibus, cc. 161 v.-170 (riportante la lettura universitaria tenuta
nell’ottobre 1491); G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo, cit., tit. De fluminibus, cc. 71 v.-79 v.; A. GOBBI,
Tractatus varii, cit.; F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, I e II, cit.; ID, Tractatus de aquaeductu, III e IV, Ticini Regii,
Ex officina Caroli Francisci Magrii, 1681.
493
Il passo di A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. II, n. 1. Pecchi si soffermò sul rapporto tra incremento della redditività
dei fondi privati e il bene pubblico di cui godevano tutti i consociati dal poter disporre di rifornimenti alimentari
abbondanti e diversificati. In definitiva «aquam ducere ad privatorum bona irriganda, respiciet bonum publicum, cum
tendat ad Annonae manutentionem, pro cuius conservatione in quocumque Regno, Provincia, ac Statu, tam diligenter
custoditur», F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, t. I, cap. VII, q. III, nn. 12-21.
492
180
al punto tale che anche nei grandi fiumi padani, quali il Po o il Ticino, nessuno poteva navigare o
pescare senza autorizzazione, sebbene ciò fosse lecito per diritto comune494.
Il potere di imporre divieti di derivazione conosceva qualche limite? Le risposte fornite dai
giuristi svilupparono il richiamo allo ius gentium accennato da Bartolo a proposito della libertà di
derivazione d’acqua dai fiumi non navigabili. Del Maino individuò nella sussistenza di una causa di
pubblica utilità il presupposto che poteva giustificare il divieto di servirsi delle cose che per diritto
naturale spettavano a tutti gli uomini, essendo soggette solo a Dio. Ma era sufficiente la sola
manifestazione di volontà del potere pubblico per ritenere sussistente la pubblica utilità alla base
del provvedimento, come aveva ritenuto Baldo? Del Maino opinava diversamente:
«Ista responsio non est bona ad istum tex. qua illud quod dicitur in Principe in dubio presumitur iusta causa, et
voluntas principis habetur pro iusta causa, procedit in his quae sunt positivi iuris, et in quibus princeps potest tollere
vel non tollere. Secus autem in his quae sunt iuris gentium, quibus non potest princeps ex sola voluntate derogare, in
istis praesumpta causa non sufficit ad tollendum ea qua sunt iurisgentium»495.
Sannazari si mosse sulla scia di Del Maino, pur tra qualche critica, rilevando che né l’imperatore né
il senato potevano senza un valido motivo «statuere contra ius civile fundatum in ratione
naturali». Nemmeno un’autorità legibus soluta poteva, in linea teorica, derogare alle leggi
fondamentali sull’utilizzo delle cose comuni e in uso pubblico496. Più tardi Pecchi notò molto
chiaramente che la prassi aveva reso molto labili i limiti ai poteri di disposizione e di proibizione in
capo alle autorità. Sicché, salva la prova di aver usucapito il diritto a pescare o a estrarre acqua
durante il periodo di occupazione della risorsa, le decisioni pubbliche adottate tramite appositi
provvedimenti normativi erano difficilmente censurabili in tal senso497.
Cfr. F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, cit., I, cap. II, q. II, nn. 18-19.
G. DEL MAINO, In primam Digesti novi, cit., nn. 6-7, ma più diffusamente nn. 3-7.
496
G. SANNAZARI DELLA RIPA, Super Digesto novo, cit., nn. 8-12. Il rispetto delle necessità pubbliche poteva invalidare
anche i privilegi di derivazione concessi successivamente al costituirsi di un diritto di utilizzo dell’acqua da parte di una
comunità, via prescrizione o altro privilegio. Sannazari esprimeva chiaramente il principio per cui «Privilegia publice
utilitati damnosa non sunt recipienda», pur con un’oscillazione forse non solo lessicale tra usi della respublica e usi
accolentium: si presenta insomma anche qui il problema della sussistenza o meno di un’autonoma soggettività
giuridica della comunità rispetto ai singoli abitanti.
497
Cfr. F. M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, cit., I, cap. II, q. II, nn. 27-28. Gobbi dal canto suo osservò che i sovrani,
in assenza di una legittima causa di giustificazione, non potevano «prohibere usum fluminum, sed tantum illum
restringere, et moderari», ma riconobbe allo stesso tempo che alcuni statuti cittadini avevano proibito interamente le
derivazioni, A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. II, nn. 13-16.
494
495
181
Alla stregua delle attività silvo-pastorali, anche l’utilizzo dell’acqua di un fiume da parte di
una comunità era sovente fondato sulla consuetudine. Quando la domanda di acqua aumentò a
seguito delle trasformazioni in campo agricolo e produttivo, giuristi e governanti dovettero fare i
conti con le istanze di conservazione degli antichi assetti, corroborati dalla vetustas, contrapposte
alle pressioni per la ridefinizione dei diritti d’uso. Il tempo immemorabile metteva infatti al riparo
il singolo utente da innovazioni per lui dannose, poiché la consuetudine antica aveva forza di
legge498.
Un semplice accordo tra privati e, a certe condizioni, perfino la decisione di un signore o di
una comunità non avevano efficacia derogatoria come affermava un’autorevole mole di consilia
richiamati dal Gobbi. In generale si può però dire che in tema di acquedotto e derivazioni era
regola universalmente riconosciuta che il corso dei canali non potesse essere deviato né impedito
in pregiudizio dei vicini e di coloro che captavano da tempo l’acqua in una posizione più bassa499.
Il rispetto della consuetudine quale limite al potere dei proprietari dei fondi attigui di
disporre dell’acqua non era assoluto. Tra chi argomentò in senso contrario spicca il cardinal De
Luca, in occasione di un parere su una causa per il decorso di acque in pregiudizio dei proprietari
dei fondi inferiori. Qualificando il caso entro lo schema della servitù, l’autore negava l’illiceità della
diversione in mancanza di prova da parte degli asseriti danneggiati dell’esistenza della servitù
medesima a loro vantaggio500. In un’altra causa vertente sulla divisione stagionale dell’uso delle
acque, De Luca sostenne che la consuetudine locale – secondo la quale l’acqua del fiume doveva
servire per azionare i mulini d’inverno e irrigare gli orti privati in estate – doveva essere rispettata
senza tener conto di una concessione di derivazione disposta dal barone locale e pregiudizievole
per i proprietari dei praedia che da sempre si erano serviti dell’acqua per irrigare501.
Il rispetto della sola vetustas come elemento costitutivo di diritti o presupposto per la
tutela giudiziale di situazioni possessorie non era sufficiente a governare un ambito della vita
socio-economica in tumultuoso cambiamento e che vedeva anche evolversi i rapporti tra
proprietari fondiari. Peraltro vi era anche in questo frangente il rischio concreto che i soggetti
A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XII, nn. 23-26.
A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XII, nn. 1-5.
500
Cfr. G. B. DE LUCA, Theatrum veritatis, cit., IV, De servitutibus, disc. XXVI. Va specificato però che il caso riguardava
un fossato già dichiarato privato in precedenti sentenze, la cui acqua, lasciata libera di scorrere per molto tempo
attraverso i vigneti dei convenuti, era stata ad un certo punto deviata da questi per loro uso, scatenando l’azione
giudiziaria dei vicini.
501
Nel caso di specie «huic consuetudini magna aequalitatis ratio assistebat» e la pretesa del barone di mutarla non
era sostenuta da poteri giurisdizionali sufficientemente ampi da recare lecitamente pregiudizio ai diritti preesistenti
degli utenti, cfr. G. B. DE LUCA, Theatrum veritatis, cit., IV, De servitutibus, disc. XXVIII.
498
499
182
interessati a manipolare a proprio tornaconto i diritti d’uso sui fiumi cercassero di sostenere
durante i processi la non cogenza delle norme consuetudinarie, qualificando l’uso stesso come una
mera facoltà e non un diritto fondato su un titolo502.
Del Maino rilevò acutamente il contrasto che poteva verificarsi in concreto tra le esigenze
sorgenti dal mondo rurale, rievocando un fatto specifico già esaminato da Baldo in cui alcuni
coltivatori avevano trattenuto nei propri fondi l’acqua del canale che, più a valle, attivava le
macine di un mulino che da lunghissimo tempo se ne serviva. La soluzione proposta ribadiva il
rispetto dell’uso più risalente, lasciando però trasparire una preferenza verso la possibilità di
risolvere la causa mediante una composizione che definisse la ripartizione dell’acqua e le modalità
di impiego con reciproci benefici503.
L’efficacia vincolante degli accordi tra gli irrigatori non poteva essere messa in discussione
neppure dal Principe. Secondo Pecchi alcuni utenti non potevano mutare i giorni o le ore di
irrigazione rispetto a quanto pattuito contrattualmente con gli altri coutenti. Le modifiche
unilaterali degli accordi elaborati a maggioranza «magna cum deliberatione, ponderatione,
maturitate, et summo studio, et labore» erano vietate. Ogni tipo di modifica contrattuale poteva
essere adottata a condizione che non recasse pregiudizi a terzi, consenzienti gli altri titolari di
diritti d’uso, e neppure il Principe poteva intromettersi ledendo i diritti acquisiti. Parimenti
inammissibile era l’introduzione di nuove consuetudini in violazione delle clausole dell’accordo,
poiché difettanti del necessario consenso tra gli interessati e prive di un’apprezzabile ratio.
Pertanto, concludeva Pecchi: «in hac materia standum esse conventionibus ad lites sedandas»504.
Tra i vari impieghi dell’acqua, s’è detto, figurava quello di forza motrice dei mulini idraulici.
Intorno all’attività di questi edifici ruotavano numerose problematiche affrontate dai giuristi in un
numero di controversie così alto che Bartolo poté parlare nel suo commento alla de fluminibus di
quotidianas quaestiones circa molendina. Dottrina e giurisprudenza enuclearono così una serie di
principi guida utili a risolvere le controversie più frequenti, in particolare quelle riconducibili al
Sempre nei pareri XXVI e XXVIII De Luca evoca il fatto che le controparti della causa avessero eccepito le lacune
probatorie a sostegno della vigenza della consuetudine. In particolare nel discursus XXVIII si legge: «Ideoque illius
observantia demandanda erat, quamvis per alteram partem huiusmodi consuetudinem non bene probatam esse
diceretur, quasi quod usus, vel non usus aquae per habentes praedia in latere sinistro fuisset mera facultas, contra
quam non praecedente prohibitione cum subsequuta acquiescentia non datur praescriptio», G.B. DE LUCA, Theatrum
veritatis et iustitiae, cit., IV, De servititutibus, disc. XXVI, n. 4.
503
Cfr. G. DEL MAINO, In prima Digesti novi, cit., nn. 94-96.
504
Cfr. F.M. PECCHI, Tractatus de aquaeductu, cit., II, cap. IX, q. 22.
502
183
divieto di atti emulativi505. Ma ancor più a monte si colloca l’inserimento del mulino nella
classificazione dei beni e le conseguenze sul piano giuridico discendenti dalla sua funzione.
Oltre ai mulini privati o feudali, esistevano i mulini pubblici, per i quali si riproponeva la
scissione tra proprietà (della comunità o dello Stato) e l’uso (pubblico e comune a tutti)506. La
necessità di disporre di sicuri rifornimenti annonari per la popolazione attribuiva ai mulini una
funzione pubblica di primaria importanza. La publica utilitas, qui ravvisabile non solo nel proficuo
uso dell’acqua ma anche nell’effettiva operatività degli impianti, giustificò per i giuristi la creazione
di un apparato di regole particolarmente favorevoli per i mulini e i loro conduttori. Gobbi,
chiamando a proprio sostegno un consilium di Baldo, affermava che nelle molte liti sorgenti dai
conflitti tra conduttori dei mulini e terzi per l’uso dell’acqua, si dovesse giudicare nei casi dubbi in
favore dei mulini, proprio in virtù della funzione pubblica svolta507. Regime di favore corroborato
dal rapporto giuridico che si instaurava tra il bene-mulino e gli abitanti del luogo. Hering a
proposito scrisse:
«Caeterum huic respondeo, cives alicuius communitatis molendininis Reipublicae non servitutis, aut locationis
conductionis iure, sed iure dominii sive proprietatis uti; utpote quorum usus omnibus et singulis suo modo, et citra
aliorum iniuriam, est communis; in tantum, ut pauperi hic aeque illius utifrui liceat, ac diviti. […] Si statutum fiat, vel
exstet pauperes non debere uti pascuis publicis, quod illud statutum sit iniquum, atque ita praedicta obiectio locum
nullum invenit.»508
Sulla materia degli atti emulativi in campo molitorio si rimanda soprattutto a N. SARTI, Inter vicinos praesumitur
aemulatio. Le dinamiche dei rapporti di vicinato nell'esperienza del diritto comune, Milano, 2003, in particolare pp.
121-138. Sarti ha ben rilevato come le conclusioni di Pillio da Medicina e di Azzone furono sostanzialmente
anticipatrici delle interpretazioni dei commentatori basso-medievali in materia di uso delle acque. È soprattutto
esemplare la nona quaestio aurea relativa alla illiceità della costruzione di un secondo mulino su un fiume pubblico, a
danno di un altro attivo da più di 30 anni, poiché sono già presenti tutti gli elementi tipici di questo tipo di
controversie: i limiti allo ius aedificandi, la verifica della sussistenza concreta del danno in relazione all’utilità ricavata
dall’utilizzo di un bene pubblico/comune e la rilevanza del tempo trascorso per misurare l’efficacia dei diritti di
derivazione.
506
Johann Hering nel suo trattato sul diritto dei mulini incorporò i mulini tra i bona universitatis publicis usibus
exposita, J. HERING, Tractatus singularis de molendinis eorumque iure, Francofurti, Typis Wechelianis apud Danielem et
Davidem Aubrios et Clementem Schleichium, 1625, q. VII, n. 7. Allargando lo sguardo al contesto insediativo, i mulini
erano pertinenze dei centri abitati ove erano edificati. Per dettagli cfr. G. DEL MAINO, In prima Digesti novi, cit., n. 120;
A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XIV, nn. 13-14.
507
A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XIV, nn. 19-22.
508
J. HERING, Tractatus singularsi de molendinis, cit., q. VII, nn. 22-24. Hering richiama in particolare l’opinione di
Giovan Battista Piotti a proposito della facoltà di accusare e di giurare contro i poveri che portavano i propri animali a
pascolare sulle terre comunali ed ora, per effetto di una riforma statutaria, vedevano il loro atto, da sempre lecito,
qualificato come danno dato. La modifica, ingiustificatamente pregiudizievole per gli interessi di chi aveva due o tre
capi di bestiame, non poteva derogare alle antiche consuetudini che, giova ripeterlo, avevano una particolare forza
cogente tanto in materia pastorale che di acque. Espressamente: «Nam cuilibet de populo competit ius depascendi
animalia sua cuiscunque generis in pascuis publicis, cum sint omnibus communia. […] Fallit etiam quando statutum
505
184
Data la centralità economica e politica del mulino per le comunità, il principio della libera
edificabilità fu fortemente compresso dalla crescita del potere pubblico, che tra le competenze
acquisite in politica annonaria si interessò anche della costruzione dei gli impianti di macinatura.
Antonio Gobbi, dopo aver ricordato che anche all’interno dei feudi i signori non potevano inibire la
costruzione di un mulino ai sudditi, constatò: «Hodie vero aliter videtur practicari, ut nimirum
molendina absque Principis licentia, nequeant fabricari». Con quell’aliter il giurista mantovano
riassumeva l’enorme distacco delle pratiche amministrative e di governo delle risorse fluviali
rispetto al principio romanistico. Alla base della sottoposizione a concessione dell’impresa
molitoria vi era anche una ragione giuridica, oltre che politica. Sia che fosse realizzato su fiumi
navigabili o meno, l’edificio si situava sugli argini i quali, essendo a loro volta pubblici e non
comuni, non erano liberamente occupabili senza permesso dell’autorità509.
Le autorità pubbliche si posero dunque come mediatrici in un’attività la cui regolazione non
poteva essere interamente rimessa ai principi giuridici ma richiedeva un’adeguata ponderazione
politica. La mediazione pubblica si poneva lo scopo di prevenire le liti valutando la sostenibilità di
un concorso di impianti idraulici sul medesimo corpo idrico. L’abbondanza o la penuria di acqua
corrente, influenzata dai cicli stagionali, suggeriva di provvedere ad una ripartizione temporale
delle derivazioni per risolvere i conflitti e sfruttare comunque i mulini in sovrannumero, tramite gli
atti ritenuti di volta in volta più idonei allo scopo (statuti, delibere, arbitrati…). Inoltre in periodi di
siccità il proprietario del mulino più a monte non poteva in alcun modo appropriarsi interamente
dell’acqua lasciando all’asciutto gli edifici molitori posti a valle.
Caso tipico richiamato spesso dai giuristi era quello del comune di Bologna, che proibiva la
costruzione di nuovi mulini senza l’autorizzazione del governo cittadino, limitando lo ius
aedificandi del proprietario. Sempre il comune bolognese in passato aveva concesso prima ai frati
Predicatori e poi ai Francescani minori l’acqua di un fiume. «Nam» scrisse Bartolo «cum illa aqua
novum esset generale contra omnes divites, et pauperes». Mulini e pascoli assolvevano quindi nell’elaborazione
giuridica ad una funzione simil-perequativa, in forza della quale l’accesso a tali beni non poteva essere impedito a
nessuno, G.B. PIOTTI, Tractatus de in litem iurando, Venetiis, Apud Andream Ravenoldum et Bartholaemeum Rubinum,
1565, § L, n. 33.
509
A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XIV, n. 26. La dottrina aveva poi chiarito che si dovesse intendere compreso nel
divieto anche l’allargamento di impianti già attivi, B. DA SASSOFERRATO, In primam ff. Novi, cit., n. 1; A. GOBBI, Tractatus
varii, cit., q. XIV, nn. 17, 27-28.
185
sufficiens esset ad utrumque, diviserunt eam mensuris, et quilibet ordo ducit eam ad suum
locum»510.
Dall’insieme di tali questioni emerge un indirizzo tutto sommato univoco circa il modo di
governare le acque secondo la scienza giuridica. Consapevoli delle notevoli differenze geomorfologiche, idrogeologiche ed economiche che caratterizzavano la campagna italiana e dell’alto
numero di controversie de aquis, i giuristi concepirono un doppio ruolo del potere pubblico nel
ciclo delle acque. Per un verso esso doveva sovrintendere alle opere principali (canalizzazioni
irrigue principali, derivazioni, costruzione di impianti idraulici) assumendo le decisioni più
adeguate al contesto e mobilizzando le risorse necessarie. Al contempo si profila però anche
un’autorità che conserva (compatibilmente con le esigenze economico-sociali) gli spazi
consuetudinari, che incentiva o almeno non ostacola l’autodisciplina delle comunità locali o dei
consorzi di utenti, in molti casi più efficaci nel gestire equamente la risorsa – pur sempre una res
communes omnium – prevenendo liti destabilizzanti per le comunità stesse. Le politiche seguite
nei vari ordinamenti non sempre aderirono a queste direttive, ma è significativo il fatto che la
disciplina di un bene di uso pubblico trovasse un proprio punto di forza nella compenetrazione tra
fonti di diversa provenienza.
2) «RIGANO LA LIGURIA MARITTIMA MOLTE FIUMARE». DIRITTO E ISTITUZIONI
DI GESTIONE DELLE
ACQUE INTERNE LIGURI
2.a) La gerarchia dei diritti d’uso nelle fonti locali
Le caratteristiche geo-morfologiche del territorio ligure e dei suoi bacini idrografici stanno
probabilmente alla base della scarsità di studi sulle modalità di impiego dei corsi d’acqua regionali.
Eppure furono proprio due fiumi a delimitare storicamente i confini del genovesato, che
estendendosi «a Corvo usque ad Monachum» aveva per limite orientale il fiume Magra (sulle cui
rive era capo Corvo) in Lunigiana e giungeva fino al Var (o Varo, in volgare) nel Nizzardo. Alcune
Seguiva poi il consiglio a produrre un atto pubblico o, ancor meglio, a ottenere un nullaosta dal magistrato all’inizio
dei lavori per notificare formalmente ai concorrenti l’intenzione di servirsi dell’acqua. Alla città felsinea rimandava
anche Gobbi ricordando che lo statuto cittadino vietava la realizzazione di un impianto i cui canali, provocando il
ristagno o un’espulsione irregolare dell’acqua, danneggiassero i mulini già operativi, BARTOLO DA SASSOFERRATO, In
Primam ff. Novi, cit., n. 10; A. GOBBI, Tractatus varii, cit., q. XV, nn. 15-16. Sul divieto di raccolta d’acqua in tempore
siccitatis vedi BARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam ff. Novi, cit., n. 25, successivamente seguito da tutti i commentatori
posteriori. Giason del Maino distinse tra fiumi pubblici (seguendo Bartolo) e privati. Nel secondo caso una volta che
l’acqua entrava nel canale, il proprietario diveniva dominus aquae e poteva farne ciò che preferiva, salvo il limite del
divieto di atti emulativi a danno degli interessi pubblici, G. DEL MAINO, In prima Digesti novi, cit., nn. 91-92.
510
186
descrizioni del dominio genovese risalenti ai secoli XVI-XVII citano i corsi d’acqua distinguendo tra
fiumi, rivi e torrenti a seconda della lunghezza e dell’importanza per le comunità finitime511.
Ad Ottocento inoltrato la sezione appennino-alpina compresa tra Magra e Var apparve allo
scrittore Davide Bertolotti solcata da innumerevoli fiumare di varia grandezza e tra tutte «il Varo,
la Roja, la Centa, l’Entella e la Magra primeggiano tra loro per la copia ed incessanza
dell’acque»512. Le caratteristiche salienti dei fiumi regionali venivano sintetizzate in poche righe di
grande efficacia:
«Le fiumane ligustiche ingrossano repentinamente e smisuratamente ad ogni subitanea pioggia, e scendono
impetuose, rovinose, talora improvvisamente, ravvolgendo seco ciottoli ed anche grossi macigni, fanno alluvioni, e con
ciò rinnalzano i loro alvei, arrecando grandissimi guasti nelle loro subitanee piene. Per la maggior parte asciugano
nell’estate, o non conducono che un filo d’acqua; ma poche ore di pioggia bastano a farle soverchiare i loro argini e
impedire il passo al viandante. Le acque invece che scendono dalla pendice settentrionale, tributarie dell’Adriatico,
non sono così rovinose e repentine, e conservano in generale maggior copia delle loro acque»513.
È significativo in primo luogo che si parli di fiumare e non di fiumi veri e propri per
comunicare apertamente il carattere principale dei corsi d’acqua del versante marittimo, cioè la
discontinuità stagionale del flusso idrico. Le condizioni di secca estiva cessavano con l’arrivo delle
piogge autunnali e invernali, capaci di causare alluvioni rovinose. L’andamento tumultuoso e
Agostino Giustiniani descrive il fiume Arroscia «vicino al mare [è] nominato Centa, come che in esso entrino cento
picoli fiumi o per dir meglio rivi, secondo alcuni» ma senza attardarsi sulle attività economiche legate al fiume, cfr. M.
QUAINI (a cura di), La conoscenza, cit., pp. 71-112. Uno dei pochi fiumi citati per il loro rilievo economico è il Leira, nei
pressi di Voltri «celebre per l’utilità grande che produce a gli huomini del paese, come che su quella siano edificati
molti molini, molte ferrere, molte fabriche per il papèro e somiglianti edificii». Nella villa di Sernio, vicino a Bavari,
sgorga una «copiosa fontana che dona acqua in abondantia, et a vinti sei molini quali sono in detta villa». Il rilievo dei
corsi d’acqua in campo agricolo viene indirettamente attestato dagli attributi di fertilità riconosciuti dall’autore a
determinate terre, come la valle di Oneglia, Triora, la valle di Diano e del Bisagno. Cenni all’idrografia ligure erano già
contenuti nella Naturalis historia di Plinio il vecchio, ripresi dallo Stella negli Annales Genuenses, cfr. G. PETTI BALBI (a
cura di), Annales Genuenses, in «Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento e Millecinquecento, ordinata da L. A.
Muratori», t. XVI, p. II, Bologna, 1975, pp. 12-13.
512
Considerando soltanto i corsi principali che sboccano in mare, non vi era (né vi è) praticamente borgo costiero di
qualche importanza che non fosse bagnato da un fiume o un torrente: «Il Varo, il Paglione, la Roja nella contea di
Nizza, la Nervia che bagna Dolceacqua, l’Argentina l’Imperio e la Meira, ossia le fiumare di Taggia di Oneglia e di
Andora, la Centa accanto ad Albenga, la fiumara di Finale, il Letimbro a Savona, la Sansobia ad Albizzola, il Leirone tra
Cogoleto ed Arenzano, la Cerusa e la Leira in mezzo alle quali giace l’industre e popoloso borgo di Voltri, la Polcevera e
il Bisagno a destra ed a manca di Genova, l’Entella che tra Chiavari e Lavagna porta al mare il tributo di tre grandi valli,
e finalmente la Magra che ingrossata dalle acque dell’emula Vara, s’insala lambendo il piede orientale del Capo Corvo,
e radendo a sinistra i campi dove fu Luni», D. BERTOLOTTI, Viaggio nella Liguria Marittima, Torino, 1834, t. I, p. 19.
513
L. DE BARTOLOMEIS, Oro-idrografia dell’Italia, in L’Italia sotto l’aspetto fisico, storico, artistico e statistico, parte II,
fasc. 215, disp. 429, Milano, [1873], p. 195.
511
187
rapido delle acque trascinava poi a valle detriti che innalzavano gli alvei e in certi casi potevano
anche ostruire le foci. Se consideriamo che molti di questi fiumi a carattere torrentizio erano di
lunghezza modesta, abbiamo posto tutti i dati geografici che stanno alla base della politica
genovese in materia di acque.
Dal punto di vista normativo, risulta assente una disciplina generale delle acque interne del
Dominio di provenienza statale. Salvo alcune eccezioni i fiumi liguri non ricoprivano un’importanza
tale da giustificare una legislazione ad hoc. Solo alcuni erano navigabili per un tratto del loro
percorso e la scarsissima estensione delle pianure fluviali non creava i presupposti per riforme in
vista di uno sviluppo dell’agricoltura, alla stregua di quanto accaduto nel Lombardo-veneto. La
politica genovese rimase sotto questo profilo essenzialmente “cittadina”, ossia diretta ad
assicurare la tutela dell’uso pubblico dell’acqua mediante la gestione dell’acquedotto civico e la
pianificazione degli impianti idraulici eretti soprattutto lungo il Bisagno e il Pocevera. I due capitoli
statutari dedicati alle acque, non particolarmente originali, furono integrati dai decreti dei Padri
del Comune, la magistratura incaricata di gestire l’acquedotto e sostenere gli oneri finanziari per la
manutenzione dell’intera rete514.
Che l’estensione della politica genovese sulle acque si fermasse alle necessità della capitale
è dimostrato anche dallo studio di Zanini sui lavori di ampliamento dell’acquedotto civico di inizio
Seicento, che produssero la diminuzione della portata d’acqua del Bisagno a valle della presa. A
soffrirne furono soprattutto i numerosi mulini privati che dovettero ridurre o interrompere del
tutto le loro attività. Il contrasto tra privati proprietari degli impianti e l’interesse collettivo fu
superato dal governo con una legge del 1622 con la quale fu stabilito un indennizzo o un
risarcimento a favore dei danneggiati. Il governo si servì del conflitto per rivisitare i diritti di
proprietà delle strutture idrauliche esistenti. Essendo ormai poco redditizi i vecchi opifici lungo il
Bisagno, i Padri del Comune furono incaricati di costruire 19 nuovi mulini tra Trensasco e Sarzano,
di proprietà pubblica e concessi in affitto, incrementando così anche le entrate dell’erario.
I due capitoli statutari sono però indicativi della preoccupazione del governo cittadino di tutelare in special modo i
canali di rifornimento dei mulini mediante la proibizione tanto della deviazione d’acqua quanto della riparazione senza
licenza degli ufficiali preposti di alvei, canali o chiuse, cfr. Degli Statuti civili, cit., VI, capp. XV, XVIII. Numerosi decreti e
regolamenti sull’acquedotto civico dei Padri del Comune sono editi in C. DE SIMONI (a cura di), Statuto dei Padri del
Comune, cit. Vedi anche C. GUASTONI, L’acquedotto civico di Genova: un percorso al futuro, Milano, 2004.
514
188
Interesse precipuo fu dunque quello di assicurare l’abbondante rifornimento dell’acquedotto
civico, subordinando a ciò ogni altro utilizzo incompatibile515.
Se dunque i fiumi rivieraschi erano comunque sottoposti ad un uso pubblico – nelle forme
che si esporranno a breve – questo “pubblico” consisteva prevalentemente nella collettività locale
insediata nei pressi del corso d’acqua. Il governo si interessò della gestione delle acque non tanto
per i suoi aspetti ordinari, quanto invece nei casi in cui le controversie relative al loro uso
chiamarono in causa interessi territoriali o fiscali rilevanti per l’intero Stato.
L’andamento stagionale dei corsi fluviali non fece comunque venir meno il carattere
pubblico degli stessi. Ce lo testimoniano due fonti. La prima è un conislium di Baldo degli Ubaldi, in
occasione di una lite tra le comunità di Villafranca Lunigiana e Lusuolo per l’interdetto, (invocato
dalla prima) contro la costruzione di un mulino (voluto dalla seconda) sul fiume Magra,
inequivocabilmente flumen publicum516. La seconda è una scrittura prodotta a Vessalico, dove nel
1642 fu condotto un tentativo di liberalizzazione dell’attività molitoria, a danno della privativa
comunitaria. Tal Giacomo Benci, che guidava il fronte dei contrari, ricordò ai Consoli che le acque
del torrente Bottasso, su cui si appuntavano le mire dei privatizzatori, non potevano essere
vendute senza concessione del Senato «poiché essendo stati concessi li acquaritii dal
Prestantissimo Officio di S. Georgio alle Comunità, li furono concessi con conditione che non
potessero di quelli disporre senza licenza di loro Signorie»517.
La definizione del concreto uso pubblico al quale i fiumi venivano subordinati era rimesso
alle singole comunità, che espressero in forma più o meno dettagliata negli statuti le norme sulle
derivazioni d’acqua, la tutela delle condotte e la repressione degli illeciti. Menzioni esplicite sulla
titolarità pubblica delle acque si trovano così sporadicamente negli statuti. Quelli di Triora
vietavano ad esempio di inquinare i «flumina seu aquas Triorie». A Diano ai sensi degli statuti del
1363 dalla tutela delle fontane pubbliche discendeva un regime di inappropriabilità dell’acqua
A. ZANINI, “Perché la città sia ben proveduta d’acque”. Momenti di crisi e strategie di gestione delle risorse idriche.
(Genova, secoli XVI-XVII), in I. LOPANE, E. RITROVATO (a cura di), Tra vecchi e nuovi equilibri. Domanda e offerta di servizi
in Italia in età moderna e contemporanea, Bari, 2007, pp. 73-85.
516
Il processo nacque come opposizione del comune di Villafranca alla decisione di Lusuolo di costruire un proprio
mulino, realizzando una presa per la derivazione d’acqua. Il danno lamentato consisteva nella sicura diminuzione del
volume di grani macinati – e dei correlativi introiti – che la costruzione del nuovo impianto avrebbe causato a
Villafranca. Baldo respinse come absurdum l’inquadramento della fattispecie suggerito dai procuratori di Villafranca,
secondo i quali il fiume era comune tra le due comunità alla stregua di un corso d’acqua privato. Scorrendo per tutto
l’anno il Magra era invece un fiume pubblico e così impostata, la questione andò a risolversi nel rigetto della pretesa di
Villafranca per insussistenza del danno, B. DEGLI UBALDI, Consiliorum sive responsorum, Venetiis, apud Dominicum
Nicolinum, et socios, 1580, vol. I, cons. 71.
517
ASGe, Magistrato delle Comunità, 166. Per i dettagli della vicenda vedi infra.
515
189
corrente, che non poteva essere né incanalata dai privati né asportata in altro modo. Solo i capitoli
politici di Diano del 1622 designarono esplicitamente con l’espressione «acque Comuni» quelle
destinate all’uso dei mulini «ancorché non fussero arrivate al beudo ordinario»518. Il capitolo 31°
degli statuti albenganesi del 1288 dedicato ai mugnai dichiarava espressamente che i mulini situati
tra le ville di Cisano e Lusignano prendevano l’acqua «de aquareriis sive aquarerio communis
Albingane». Il comune era dunque titolare di alcuni canali di particolare utilità pubblica per la
funzione economica svolta519. Lo statuto del borgo di Calizzano in val Bormida dichiarava pubblici
tutti i fiumi presenti entro i confini del centro, sancendo al contempo la libera derivazione per gli
usi irrigui, mentre gli statuti del 1535 di Novi in Oltregiogo qualificavano come Communis il fossato
«quod est ab Ecclesia S. Gaudentii supra mediam viam, per quam itur ad Gragnolatum»520.
In un territorio collinare e spesso angusto, dove la terra coltivabile era faticosamente
ricavata grazie ai terrazzamenti, il confronto si giocava tra usi irrigui e come fonte di energia
idraulica, in particolare durante i mesi estivi quando minore era la quantità d’acqua a
disposizione521. Tra i due pare essere l’irrigazione l’uso maggiormente tutelato da molti testi
statutari. La valle del torrente Argentina, a ponente, si offre come un buon caso di studio per la
presenza di diverse comunità lungo il suo corso munite di statuti, accostabili per l’omogeneità di
soluzioni prospettate per la gestione dell’acqua. Partendo dalle comunità più interne, a Triora gli
articoli dello statuto relativi all’argomento in parola sono numerosi. Un primo dato rilevabile è la
ricchezza di acque sorgive del territorio triorese. Il testo ne menziona una decina di pubblica
rilevanza, individuandole con i rispettivi toponimi, e si premura di tutelare la qualità delle acque
punendo chi lava, abbevera gli animali, interrompe il flusso o inquina522.
La sanzione per chi deviava illecitamente il corso dell’acqua ammontava a mezzo scudo d’oro, ma nel caso delle
acque al servizio dei mulini la pena ammontava a due scudi, cfr. i capitoli a stampa di Diano in RSL, n. 347, cc. 118-120.
519
La proprietà comunale dei canali e dei mulini non durò a lungo e già a metà Trecento il beudus molandini si trova
attestato come beudus Cepollorum, dal nome di una delle più importanti famiglie albenganesi che lo aveva acquistato,
cfr. gli statuti duecenteschi RSL, n. 20, editi J. COSTA RESTAGNO (a cura di), Gli statuti di Albenga del 1288, Genova, 1995,
p. 61.
520
Cfr. gli statuti di Calizzano in RSL, n. 195, editi Statuti di Calizzano, 1600, Rocchetta Cairo, 1988, pp. 31-32. Su
Calizzano vedi anche G. C. LASAGNA, Gli statuti di Calizzano, in Atti della Società Savonese di Storia Patria, XXXI (195960), pp. 17-68. Per Novi V. TRUCCO, R. ALLEGRI (a cura di), Statuti civili concessi dalla Repubblica di Genova a Novi: con
decreto del 15 marzo 1535 e con aggiunte in materia dello stesso secolo XVI, Alessandria, 1976, pp. 35-38. L’acqua del
fossatum Communis non poteva essere derivata o deviata, p. 91.
521
Sull’agricoltura, oltre ai già citati lavori di Quaini e Moreno, vedi anche G. NUTI, Sull’agricoltura in Liguria nel XIII
secolo (dal Cartulario del notaio Salmone), in Clio, 1 (1974), pp. 5-31.
522
Il divieto di inquinare l’acqua di fonte è ripetuto in vari luoghi degli statuti. Degno di nota è il bando in vigore nel
trimestre luglio-settembre riservato ai calzolai, conciatori di cuoio e macellai, che non potevano lavorare in prossimità
di fonti e canali, onde non pregiudicare l’irrigazione durante il raccolto.
518
190
L’acqua corrente che scaturiva dalle fonti pubbliche non poteva essere deviata ma ad ogni
abitante era concesso di trattenerne una parte per usi irrigui per tre ore ogni due giorni. In caso di
compresenza di più utenti sullo stesso corpo idrico, gli statuti rimettevano all’autonomia privata la
negoziazione delle ore e dei giorni di captazione tra gli aventi interesse, fissando la pena di 6 lire
per la violazione dell’accordo. Ovviamente chi non partecipava alla divisione non aveva alcun
diritto di adaquare. La pesca libera era proibita in tutti i torrenti e fiumi di Triora, in quanto attività
sottoposta a concessione onerosa. Mancano curiosamente disposizioni sui mulini, nonostante una
delle ville della podesteria (Molini di Triora) situata più a valle del borgo principale prendesse il
nome proprio dalla presenza di numerosi impianti attivi già dal medioevo.
La rubrica De aquis accipiendis pro rigandis ortis degli statuti di Badalucco delinea un
sistema di irrigazione dei campi basato sul godimento periodico dell’acqua canalizzata tra le
comunità di Badalucco e Montalto, acqua a sua volta divisa tra gli utenti di ciascun centro. Le
sanzioni pecuniarie colpivano chi violava l’ordine sia chi privava dell’acqua uno dei due paesi. Le
fonti, site a Montalto, erano affidate in gestione ad un conduttore, ai sensi dello statuto
responsabile per qualsiasi mancanza o interruzione dello scorrimento. Una rubrica speciale
riconosceva poi il diritto di ciascuno di abbeverare il bestiame presso le fonti situate entro i confini
di un fondo privato523. I capitoli aggiuntivi del 1444 circondarono poi di tutele particolari la
Colletta, forse una località in cui era collocata una cisterna, regolando gli orari di presa e
obbligando i campari di Montalto ad assicurare il costante rifornimento d’acqua sotto pena
pecuniaria524.
Lo statuto di Taggia, posta sulla costa in prossimità della foce dell’Argentina, dedica un
capitolo alla gestione dei canali irrigui del districtum Thabie. L’articolo riconosceva il diritto di
«aptare, reficere vel purgare» canali di legno o semplicemente ricavati tramite solchi nella terra a
seguito di danni, senza tener conto di opposizioni o dell’effetto della prescrizione. Anche in questo
caso lo statuto rimetteva agli accordi tra utenti la divisione dell’uso delle acque irrigue, precisando
inoltre che il Podestà doveva renderla cogente e punire alle pena di 3 soldi chi l’avesse violata.
Sempre il Podestà locale era l’autorità competente a costituire la servitù di acquedotto e a
comporre le liti. La rubrica si chiudeva con un’enunciazione importante: nelle ghiare del fiume non
Per gli statuti di Badalucco e Montalto vedi RSL, n. 116 ed editi da N. CALVINI, Gli antichi statuti comunali di
Badalucco, Imperia, 1994, pp. 194, 204, 214.
524
Il testo parla della Coletam come di un luogo cui condurre l’acqua, in modo tale da consentire a chiunque «que
iverit ad acipiendam aquam possit semper acipere aquam ad Coletam, videlicet in bunda heredum quondam Jacobi
Admirati». Era inoltre vietato prendere l’acqua dal mattino all’ora terza e dal vespro fino a sera, mentre nel giorno di
sabato il divieto copriva l’intera giornata, N. CALVINI, Gli antichi statuti, cit., p. 241.
523
191
soggette ad alcun tipo di lavorazione la derivazione era libera e gratuita, mentre nel momento in
cui quell’appezzamento veniva toccato dal lavoro umano, ricadendo in proprietà privata, la presa e
la relativa servitù di acquedotto divenivano onerose525. La rubrica dedicata ai doveri dei mugnai
contemplava anche un capoverso volto a garantire l’equilibrato sfruttamento del canale vicino al
quale erano presenti campi coltivati. Per il resto le altre disposizioni concernevano la
manutenzione dei mulini comuni tra più privati e la riparazione dei canali526.
A Diano era l’acqua che azionava le ruote dei mulini a godere di una protezione speciale.
Gli statuti del 1363 ponevano come unica eccezione al divieto di deviazione dell’acqua dai canali
dei mulini l’irrigazione stagionale527. La rubrica De molinari, e molini dei capitoli politici del 1622
riunì disposizioni in materia di acque prima disperse tra vari capi degli statuti antichi, regolando il
concorso di usi tra i mugnai e i proprietari di orti situati nei pressi dei canali dei mulini. Questi
ultimi potevano servirsi dell’acqua per l’irrigazione dal vespro domenicale fino al mezzogiorno del
martedì ma solo durante le ore diurne, «ordinatamente con discretezza, acciò dentro esso termine
ognuno possa participare di detta acqua». L’irrigazione durante il periodo compreso tra le feste di
san Giovanni Battista (24 giugno) e di San Michele (29 settembre) era sottoposta alla vigilanza di
mugnai e proprietari delle terre, che insieme dovevano garantire a tutti la distribuzione dell’acqua
necessaria per ciascun orto. L’assenza del mugnaio o di uno dei proprietari o di un loro famigliare
o dipendente determinava nel primo caso la libera irrigazione e nell’altro l’impossibilità di fruire
dell’acqua per quel giorno.
Un borgo che fondò la prosperità della propria economia su un’agricoltura selezionata e
vocata all’esportazione fu Sanremo. La coltivazione degli agrumi destinati al mercato si univa alle
tradizionali colture ortive e ciò imponeva un’attenta amministrazione delle scarse risorse idriche a
disposizione della comunità ponentina. I torrenti più importanti della zona (Nervia, Argentina) si
trovavano al di fuori del distretto, che poteva fare affidamento soltanto su alcuni rii discendenti
dalle colline dell’entroterra528.
Cfr. l’edizione degli statuti RSL, n. 1072 di N. CALVINI, Statuti comunali del 1381, Taggia, 1981, pp. 242-243.
Era dovere del mugnaio assicurarsi di non «ducere aquam in tanta quantitate pro beudo quod faciat dampnum in
ortis vel possessionibus contiguis», N. CALVINI, ibidem, p. 179.
527
Cfr. gli statuti trecenteschi di Diano RSL, n. 338 editi da N. CALVINI, Statuti comunali di Diano (1363), Diano Marina,
1988, pp. 126-129, 278-281.
528
Nella Descrittione del Giustiniani si lege che «Il territorio di San Remo è tutto pieno di citroni, limoni, cedri et aranzi,
non solamente dilettevoli al vedere e boni al gusto ma di grande utilità, come che questi frutti si portino per mare e
per terra in più luoghi», M. QUAINI (a cura di), La conoscenza, cit., p. 77. Vedi anche A. CARASSALE, L. LO BASSO, Sanremo,
giardino di limoni, cit. Sanremo non dispose prima del XIX secolo di molte acque potabili per uso umano secondo L. DE
BARTOLOMEIS, Oro-idrografia dell’Italia, cit., p. 204.
525
526
192
Le linee fondamentali erano contenute già negli statuti del 1435. Dalla rubrica De rigandis
ortis, et de clusis, seu aquareciis non innovandis possiamo infatti trarre indicazioni destinate a non
esser modificate dalle riforme del XVII secolo. Anzitutto il consueto favor riservato ai mulini
cedeva il posto all’irrigazione degli orti e dei campi, interesse del tutto preminente per l’economia
sanremese. Ciò si traduceva nell’impossibilità di costruire chiuse o canali «non solitas, et non
solitos» tanto per irrigare quanto per azionare le ruote di un mulino. Dall’altro i mugnai non
potevano né deviare, né proibire ad un irrigatore di servirsi della medesima acqua che alimentava
il loro impianto sotto pena pecuniaria. In secondo luogo emerge l’attenzione per le pratiche di
gestione collettiva dell’acqua dei valloni o dei singoli canali, che gli statuti incentivavano ponendo
al tempo stesso sanzioni per la violazione degli obblighi derivanti dalla compartecipazione al
consorzio529.
Per ovviare alla siccità estiva, i decreti sulle acque approvati nel 1608 fissarono una
gerarchia di diritti d’uso modellata non sulla mera proprietà fondiaria formale, bensì sul tipo di
coltivazione praticata. Privilegiata l’irrigazione regolare dei soli agrumi, si limitava quella a
beneficio dei castagneti a soli tre giorni (il 15 dei mesi di luglio, agosto e settembre) mentre era del
tutto inibita per i vitigni. Orti e campi di canapa potevano ricevere acqua dai rivi solo per 15 giorni
dopo la semina. Il prolungamento del periodo era sottoposto al pagamento di una somma di
denaro giornaliera. L’utilizzo per fini diversi da quello irriguo determinava come sanzione la
sospensione della derivazione. Sotto il profilo della distribuzione dell’acqua le riforme successive
non introdussero novità dirompenti. Solo i capitoli sulle acque del 1682 modificarono le regole di
ripartizione, stabilendo che ogni anno l’irrigazione iniziasse dai primi fondi lasciati senz’acqua
secondo l’ordine dell’anno precedente530.
La preoccupazione di tutelare in ogni frangente i proprietari degli orti coltivati emerge a più riprese nei capoversi in
cui si citano i mugnai. La gestione consortile dell’acqua di un canale era stimolata dalla disposizione secondo cui, in
assenza di divisione, ciascun proprietario che «de novo plantaverit ortaliam» poteva derivare senza alcuna richiesta
agli altri utenti. La divisione poteva essere richiesta da uno dei partecipanti al giusdicente, sul quale gravava il dovere
di convocare gli utenti interessati per «ipsam aquam inter eos bene et iuste dividendum pro rata» ed era tenuto far
rispettare i patti stipulati, punendo i trasgressori. I proprietari consorziatisi per il godimento dell’acqua di un canale
erano poi tenuti a sostenere solidalmente le spese per le riparazioni, N. Calvini, Statuti Sanremo, cit., pp. 318-321.
530
I decreti sulle acque del 1608 in ASSr, Serie I, 57, cc. 133-141. I capitoli sulle acque furono riformati tra il 1671 e il
1676 ASGe, Archivio segreto, 84 (RSL, n. 910) e nel 1682 ASSr, Serie I, 57, cc. 136 v – 140 v. Nel 1702 fu nuovamente
integrata la normativa a causa della penuria di piogge, ivi, cc. 155 v-158. Dopo la sollevazione di metà Settecento, il
regolamento emanato nel 1756 coordinò in un’unica sede le previgenti disposizioni. Furono quindi riproposti i
contenuti tradizionali (ufficiali regolatori, fattispecie illecite e pene, regole di procedura) con minime innovazioni.
Significativo è l’articolo 11 che confermò l’assenza di una via preferenziale per l’alimentazione dei mulini rispetto agli
orti, ASGe, Archivio segreto, 305, RSL, n. 921.
529
193
La puntuale regolazione sanremese sull’uso delle acque fu presa a modello dalla vicina
Bordighera per i capitoli del 1692 dedicati a disciplinare l’uso irriguo delle acque del vallone di
Monte Negro, tra Bordighera e Ventimiglia, che alimentavano anche i mulini bordigotti in
estate531. L’acqua «patrimonio de’ luoghi dell’università di XXmiglia» era oggetto di liti per le
rotture delle chiuse commesse dai proprietari privati e dai possessori a terratico dei fondi comuni.
La cura del Parlamento fu quella di addivenire ad un testo che ripartisse tempi e turni di irrigazione
da giugno a settembre, tutelando i canali dei mulini e fissando le adeguate pene. I proprietari di
fondi posti sotto l’acquedotto dei mulini comuni verso ponente non potevano servirsi dell’acqua a
valle della presa poiché essa era riservata ad irrigare le terre comuni. Era inoltre vietata
l’accumulazione d’acqua in pozzi e cisterne durante il quadrimestre di vigore della regola per non
pregiudicare il godimento di tutti gli utenti532.
Appare evidente che le comunità considerarono fiumi e torrenti come beni di pertinenza
della collettività. Il bilanciamento tra diritti d’uso privati e interesse pubblico fu individuato tramite
l’adozione ora di una precisa disciplina dell’accesso, integrata talvolta da accordi tra gli utenti. Si
conferma così un quadro normativo molto sfaccettato, dove la normativa statutaria lasciava in
molti casi maglie assai ampie per l’autoregolazione da parte degli stessi utilizzatori o, più
semplicemente, per la prosecuzione delle pratiche consuetudinarie533. La marginalità del ruolo
dello Stato sotto questo profilo fece venir meno anche la necessità di instaurare un regime di
concessioni per l’utilizzo delle acque, tipico del modello demaniale. Si può quindi ritenere che
vigesse in buon parte delle comunità liguri il principio della libera derivazione, sebbene temperato
dalla definizione di una gerarchia di diritti d’uso frutto di un processo politico eminentemente
locale, senza input da parte del governo.
2.b) Gestione e autorità di controllo sulle acque tra Genova e il Dominio
531
Le acque del vallone di Monte Negro sembrano costituire un tutt’uno con i mulini pubblici e il patrimonio fondiario
comune di Bordighera. Le terre da irrigare erano costituite anche da appezzamenti di comunaglie concessi a terratico
ad alcuni abitanti del posto, che non potevano derivare l’acqua per condurla altrove, ASGe, Archivio segreto, 94, in
RSL, n. 709.
532
I capitoli furono approvati dal Senato, previa relazione favorevole del Commissario di Sanremo Giovan Battista
Pallavicino, il 7 luglio 1692 con il parere della Giunta dei Confini.
533
A tale scopo sarebbe necessario estendere l’indagine agli archivi notarili per verificare l’esistenza di contratti di
irrigazione stipulati formalmente tra gli utenti di una certa comunità.
194
Una politica di gestione delle acque, più o meno incisiva a seconda del contesto politico e
ambientale locale e degli obiettivi di trasformazione del territorio, doveva necessariamente
avvalersi di soggetti incaricati di rendere esecutive le norme e le direttive impartite dagli organi di
governo e mediare le tensioni scaturenti tra soggetti portatori di confliggenti interessi. A parte la
competenza giurisdizionale esercitabile in loco dai giusdicenti, rientrava nell’autonomia
amministrativa di ciascuna comunità istituire ufficiali preposti alla vigilanza sui corsi d’acqua. Le
scelte compiute dagli statuti liguri si orientano verso due soluzioni: l’affidamento della
competenza ad ufficiali già incaricati di altre mansioni o la creazione di figure specifiche, ipotesi
questa nettamente minoritaria.
Nel primo insieme rientrano comunità diverse tra loro per posizionamento geografico e
dimensioni. A Triora la cura delle numerose sorgenti e dei relativi acquedotti era affidata ai
rasperi, che il capitolo XVII degli statuti definiva come «custodes nemorum et bonorum
Communis». Analoga incombenza gravava sui loro omologhi delle tre ville dipendenti dal borgo
(Molini, Corte e Andagna)534. L’assenza di un incarico esclusivo non toglie che la sorveglianza sui
canali e le fonti fosse avvertita come un interesse pubblico, per il vitale contributo all’agricoltura
triorese. Le leges municipales stilate dal Capitano di Chiavari Giovan Battista Raggio per la
comunità di Lavagna nel 1656 assegnarono ai censori la competenza su strade, cloache e fossati.
Gli stessi censori erano tenuti a conservare gli atti pubblici relativi agli acquedotti e a vigilare sulla
loro pulizia da parte dei proprietari confinanti535. Gli statuti di Ovada del 1327 non contemplarono
un ufficiale dedicato alle acque, facendo rientrare il controllo sulla pulizia di torrenti e rivi tra le
mansioni del Podestà e del suo vicario536. Il borgo di Novi suddivise tra massari, campari e
incaricati temporanei la competenza a curare gli interessi pubblici della comunità in materia537.
La creazione di appositi uffici destinati a provvedere alla regolazione dell’accesso all’acqua
fu propria di comunità tanto costiere quanto montane, ma con un elemento di demarcazione
abbastanza evidente costituito dalla durata della carica. Se molte comunità interne
contemplarono di solito figure temporanee, in ottica spesso di prevenzione delle liti, i centri della
Cfr. F. FERRAIRONI, Statuti comunali di Triora, cit., I, pp. 83-84.
Cfr. le Leges municipales Lavaniae, BUG, 4. BB. VII. 66 (2), RSL, n. 561, pp. 25-32.
536
G. FIRPO, Statuti di Ovada del 1327, Ovada, 1989, p. 132.
537
I massari dovevano tra le altre cose garantire il buono stato dei pozzi, riscuotendo la quota di eventuali spese dai
residenti più vicini agili stessi, e controllare che i proprietari dei canali facessero la debita manutenzione. Ad agenti
eletti appositamente, senza una continuità d’incarico, spettava l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie per le prese dal
canale del Comune. Un numero sufficiente di campari eletti annualmente doveva infine dividere tra gli utenti
interessati l’acqua del canale di Gadio, cfr. V. TRUCCO, R. ALLEGRI (a cura di), Statuti civili, cit., pp. 35-39, 91-94.
534
535
195
costa mostrano la tendenza ad istituire uffici stabili, per via di una maggiore mole di lavoro data
dalla vicinanza alla foce e la natura perlopiù pianeggiante del territorio, che favoriva un uso più
intensivo delle risorse idriche. Non mancarono tuttavia eccezioni.
Le comunità munite di veri e propri ufficiali alle acque furono Sanremo, Albenga, Vado e
Castelnuovo Magra. A Vado l’ufficio dei Deputati alle acque, eretto anche per la tutela della
salubrità dell’aria, è citato dagli statuti del 1783. A Castelnuovo Magra un Magistrato alle acque fu
sicuramente operativo dl 1674 al 1797, ed è singolare che questa fosse l’unica comunità genovese
sita sul Magra a munirsi di agenti specializzati, nonostante le nota turbolenza del fiume538. Ad
Albenga il collegio degli Ufficiali alle acque sorse per iniziativa del commissario genovese Gregorio
Molassana nel 1588, come prolungamento amministrativo delle competenze che gli statuti del
1288 e del 1350 riconoscevano già al Podestà cittadino539.
La comunità di Sanremo si conferma anche sotto questo punto di vista assai vivace. I
bisogni dell’agricoltura, più volte ricordati, esigevano un corretto utilizzo delle risorse idriche. I
decreti sulle acque del 1608 istituirono i soprastanti alle acque, eletti in numero di due per ogni
vallone o fossato artificiale. Il compito principale consisteva nel curare tempi e quantità di
distribuzione dell’acqua tra i proprietari dei fondi serviti dal rivo. Questi ultimi erano iscritti su un
apposito registro tenuto dai soprastanti, che dovevano quotidianamente visitare i corsi d’acqua di
loro competenza per verificare lo stato delle derivazioni e accusare chi le alterava o chi si
appropriava dell’acqua violando l’ordine stabilito.
I nuovi capitoli del 1703 tentarono di rafforzare l’intervento pubblico nel settore per via
delle pratiche scorrette diffuse a danno dei poveri. È ragionevole pensare che il catasto degli orti,
documento contenente le colture praticate in ciascun fondo già previsto dai decreti del 1608, non
fosse mai stato redatto o, se esistente, non fosse aggiornato. I capitoli ordinarono nuovamente la
dichiarazione in cancelleria dei fondi e del numero di alberi coltivati. A supporto dei regolatori
(nuova denominazione dei soprastanti), la riforma istituì una magistratura composta da tre
membri col compito di esaminare le loro relazioni, adottare i provvedimenti opportuni e comporre
le liti insorgenti per l’utilizzo dell’acqua, ricorrendo se necessario al Commissario per l’esecuzione
Cfr. E. PETACCO, L. PIAZZI, Istituzioni, territorio, economia: Castelnuovo Magra ed il suo archivio storico, Arcola, 1996,
p. 91.
539
Gli ufficiali alle acque costituirono in realtà più di un collegio, condividendo parte delle competenze con il
Magistrato dei pubblici, ma per questo vedi infra.
538
196
delle decisioni. Inoltre la stessa magistratura si doveva far carico della riparazione dei canali,
individuando i lavori da svolgere e dividendo le spese tra i proprietari interessati540.
Tra le incombenze usualmente ricadenti su queste figure, troviamo la repressione delle
derivazioni abusive, capaci di turbare l’equilibrato utilizzo dell’acqua, e il controllo sulla pulizia e la
manutenzione di canali e torrenti, a carico dei proprietari frontisti. Specie la seconda attività, come
dimostrato dal caso albenganese di cui parleremo, non sempre risultava efficace. In località dove
la distribuzione dell’acqua era disciplinata puntualmente, agli ufficiali spettava anche il compito di
controllare l’ordinato svolgimento dei turni di distribuzione.
Altre comunità, anche di notevoli dimensioni, demandarono ad agenti individuati volta per
volta la gestione di una serie di questioni relative alle acque, in contesti dove il concorso di usi era
meno gravoso per la conservazione della risorsa. I capitoli della villa di Bestagno, nell’entroterra di
Oneglia, prevedevano l’elezione di una commissione di due uomini per terziere competente sia a
stabilire il luogo di realizzazione di un canale sul fondo altrui in caso di contestazioni, sia ad
ordinare la ripartizione dell’acqua. Le disposizioni speciali per Prosanico e Gazzelli punivano coloro
che violavano l’ordine di turno per la presa dell’acqua, mentre i capitoli di Torria fissavano a 6
denari la multa per chi avesse deviato il torrente Carpaneto, prosciugando il beudum Communis541.
Una previsione analoga a quella di Bestagno si ritrova anche negli statuti di Rezzo, ove la
costituzione di una servitù coattiva di acquedotto era soggetta alla mediazione di un numero
imprecisato di boni homines. Va detto che l’intervento di stimatori o arbitri per la composizione
delle liti in occasione del riparto della risorsa o per la costituzione di una servitù coattiva a
vantaggio di orti e mulini era già presente nei capitoli delle castellanie ponentine di Mendatica,
Cosio e Montegrosso del 1297542.
Gli statuti di Onzo del 1581 al capo De discordia terminorum, arborum, aquarum et viarum
obbligavano il giusdicente ad assegnare a due bonos viros partibus non suspectos la definizione
Il testo prendeva atto che consentire a ciascuno di accusare i regolatori pregiudicava l’efficacia della loro attività di
vigilanza, ASSr, Serie I, 57 cc. 155 v.-157r.
541
Il capitolo 7 del libro VI degli statuti onegliesi impediva di servirsi in agricoltura delle fonti e dei pozzi «de quo
accipitur aquam ad bibendum aut alios usus in domibus». È significativo inoltre che i primi due articoli degli Specialia
Gazzelii fossero dedicati alle acque (De fontibus e De aqua), a sottolineare l’importanza della risorsa idrica
nell’economia locale. Per gli statuti di Oneglia e i capitoli speciali delle ville cfr. G. MOLLE, Statuti di Oneglia e della sua
valle, Imperia, 1979, in particolare pp. 247, 296-297, 305-308, 316, 332, 347, 349.
542
S. MACCHIAVELLO (a cura di), Liber iurium ecclesiae, comunitatis, statutorum Recii (1264-1531). Una comunità tra
autonomia comunale e dipendenza signorile, Genova, 2000, p. 58. Per Cosio e Mendatica cfr. Capitula Castellanie
Cuxii, Mendatice et Montisgrossi (1297), in Atti della Società Ligure di Storia Patria, appendice al vol. XIV, 1888, pp. 8081.
540
197
sommaria della controversia entro otto giorni543. In val Bormida gli statuti di Millesimo
contemplavano l’elezione di tre boni homines per la manutenzione e la pulizia di strade e canali a
partire dal mese di giugno, mentre alla stima del danno da pagarsi per la realizzazione di un canale
su fondo altrui era rimessa agli estimatori544. Gli statuti del 1345 di Savona delegarono a quattro
uomini il coordinamento delle operazioni per la costruzione degli argini del torrente Lavagnola, a
spese dei proprietari frontisti545.
In sintesi, anche l’articolazione istituzionale per l’amministrazione delle acque fu elaborata
dalla comunità locale, in relazione alle priorità che il contesto geografico o le esigenze economiche
ponevano a quella specifica collettività. La varietà di soluzioni adottate testimonia per un verso
l’empirismo nell’approccio al problema, che non escludeva la condivisione di modelli istituzionali
tra più comunità, e dall’altro l’assenza di qualsivoglia ingerenza da parte del governo centrale. Se
nei capitoli precedenti si è visto che la Repubblica fece sentire il proprio peso nella gestione delle
risorse collettive solo quando erano in gioco interessi esorbitanti il piano meramente locale, o che
le istituzioni locali non erano in grado di mediare adeguatamente (confini e sovranità, difesa delle
foreste militarmente strategiche, tutela fiscale, risoluzione dei conflitti vertenti sulla proprietà dei
fondi), si può affermare che Genova non si discostò dal medesimo modus operandi neppure sulle
acque.
In realtà una piccola differenza rispetto ai boschi e ai pascoli è data dalla presenza, almeno
dalla seconda metà del Seicento, dei Deputati camerali alle acque e ai mulini. Questi due
Procuratori si occupavano però prevalentemente delle pratiche coinvolgenti i mulini di proprietà
dello Stato, e non anche gli impianti comunitari. Le controversie sui diritti d’uso dell’acqua dei
fiumi non furono dunque di loro esclusiva competenza, ma come gli altri beni comunali
chiamarono in causa le magistrature centrali a seconda dell’interesse pubblico di maggior rilievo
nel caso di specie. Alcuni episodi tratti dai fondi d’archivio ben illustrano come il governo agì a
fronte di conflitti sorti intorno alle acque, o per sopperire all’incapacità delle istituzioni locali di
risolvere la controversia o per impedire privatizzazioni pregiudizievoli per le finanze comunali.
Vedi gli statuti di Onzo, RSL, n. 689, editi in A. CASA, Gli antichi statuti del libero comune di Onzo tradotti dal latino
dell’epoca (1581), Albenga, 1996, p. 109.
544
Per gli statuti di Millesimo vedi L. OLIVERI, Gli statuti di Millesimo (1593). Aspetti di vita in Val Bormida, Genova,
1987, RSL, n. 623, rubb. LXIX, CIII.
545
I capitula del 1345 di Savona sono editi da L. BALLETTO, Statuta antiquissima Saone (1345), Bordighera-Genova,
1971, (RSL, n. 986), pp. 219-220.
543
198
Un caso emblematico avvenne tra 1721 e 1722 a Carrodano, nell’entroterra di Levanto. I
titolari di alcuni mulini avevano costruito degli sbarramenti in legno che, interrompendo il naturale
corso del torrente Levantina, avevano causato l’allagamento dei campi situati lungo il fiume e la
rovina dei raccolti546. L’innalzato livello dell’acqua metteva inoltre a rischio la stabilità di un ponte
importante per i collegamenti viari tra Carrodano e i centri vicini. I Deputati camerali alle acque e
mulini Marcantonio Giustiniani e Niccolò Cattaneo, dopo aver inviato Paolo Battista Fieschi sul
luogo decretarono che:
«Si debbano al più presto levare le dette prese, in maniera che l’acqua possa prendere il suo corso naturale, e ciò al
minor danno, con fare che un molino dii l’acqua all’altro e con deliberare, che in appresso non sii lecito ad alcuno di
qualonque conditione innovare nel fiume con far nuove prese senza espressa e previa licenza dell’illustrissima et
Eccellentissima Camera e previa la citazione degl’interessati nelle pianure, e ciò sotto quelle pene che più pareranno
all’Illustrissimo et Eccellentissimo Commissionato»
Le “innovazioni” in materia di acque appaiono vietate, salvo la facoltà del governo di
autorizzare nuove derivazioni in contraddittorio con i terzi interessati. Dalla tipologia di documenti
conservati nelle filze dei Deputati alle acque, le autorizzazioni alla derivazione d’acqua rilasciate
dai Deputati furono quantitativamente insignificanti. Ciò conferma quanto detto in precedenza
sulla competenza delle comunità in materia di costituzione dei diritti di appropriazione della
risorsa a favore dei privati.
L’invio sul posto di Fieschi per la rimozione delle prese fu solo apparentemente risolutivo
perché nonostante l’iniziale collaborazione dei proprietari dei mulini, emerse rapidamente una
seconda contrapposizione tra alcuni di loro – che potevano condividere l’acqua dei medesimi
canali – e tal Angelo Battista Saluzzo, originario di Levanto, autore di una presa di derivazione
usata in estate per irrigare un prato e dei campi. Secondo alcuni l’innalzamento del livello del
fiume era addebitabile in via principale proprio alla sua presa. Saluzzo chiese ed ottenne dal
Fieschi il mantenimento nel possesso dell’acqua – derivazione di cui godeva a titolo oneroso per
averla lecitamente acquistata. Il Commissario ordinò poi il 26 aprile 1722 lo smantellamento delle
Gli sbarramenti servivano per innalzare il livello dell’acqua, assicurando così una derivazione più efficiente e
costante. La scelta del sito per il posizionamento degli sbarramenti era legata alle caratteristiche del torrente, che non
doveva trasportare troppi materiali solidi, mantenere un flusso costante lungo l’anno e non essere propenso ad
esondazioni frequenti. Le prese di derivazione venivano solitamente collocate poco più a monte delle barriere, cfr. M.
E. CORTESE, L’acqua, il grano, il ferro. Opifici idraulici medievali nel bacino Farma-Merse, Firenze, 1997, pp. 68-78.
546
199
dighe costruite nel letto del fiume, concedendo ai padroni dei mulini di realizzare un
prolungamento dei canali lungo la riva del torrente, tramite la costruzione di una seconda sponda
parallela all’argine, senza causare danno ai vicini né creare gorghi o intasamenti pericolosi per i
mulini superiori.
Andatosene l’inviato della Camera, quasi tutto tornò come prima. Alcuni uomini di
Carrodano a luglio scrissero ai Collegi per informarli che molti avevano ricostruito le prese, tra i
quali Saluzzo: i campi e gli orti dei carrodanesi erano dunque nuovamente a rischio allagamento.
Francesco Maria Durazzo, inviato ad ottobre a Carrodano, appurò che quanto denunciato
rispondeva a verità ed ordinò nuovamente la distruzione delle chiuse e la rimozione del canale di
un mulino, anche per non mettere ulteriormente a rischio la tenuta del ponte sul fiume.
L’esecuzione dell’ordine fu rimessa al Commissario di Sanità di Bonassola Francesco Ferretto, con
l’ausilio dei soldati, stante l’indisponibilità degli interessati ad adeguarsi.
Alla base del fallimento della gestione dell’acqua del torrente Levantina vi è anzitutto la
mancanza di istituzioni adeguate alla mediazione tra gli interessi confliggenti degli appropriatori,
un’assenza non colmabile neanche dall’intervento dell’autorità esterna, che faticò ad imporre i
propri ordini. Il caso di Carrodano dimostra inoltre che l’azione del governo non si rivolse soltanto
verso gli impianti di proprietà demaniale, ma tutelò anche quelli privati, allo scopo di difenderne la
funzione di pubblica utilità. Occorrerebbe un’indagine più approfondita per verificare se il conflitto
descritto fosse spia di una ridefinizione più vasta dei diritti d’uso delle acque del torrente,
considerato che nella vicina frazione di Ferriere erano localizzati alcuni opifici siderurgici.
Le forme di manifestazione dell’intervento centrale furono, al solito, assai mutevoli, poiché
spettò ora ai membri dei Collegi ora ai giusdicenti l’imposizione di norme volte a conciliare l’uso
irriguo con il rifornimento degli opifici idraulici. I sette mulini (parte privati, parte camerali) di
Porto Maurizio che si servivano in comune delle acque del torrente S. Lorenzo pativano d’estate
un sensibile decremento d’acqua per le numerose derivazioni effettuate dai proprietari dei fondi
vicini al canale. Nel 1623 fu dapprima il governo a limitare ad un solo giorno alla settimana il
diritto di derivazione da parte dei proprietari fondiari. Nel 1676 il Capitano di Porto Maurizio
Battista Chiavari ribadì il principio, mediante una sentenza che assegnava a ciascun lotto di terre le
ore di fruizione dell’acqua, sotto pena di 25 lire e due tratti di corda547.
Il dispositivo della sentenza di Chiavari stabilì in dettaglio: «Che quelli, che hnno campagne per adaquare dell’aque
de suddetti molini, possino servirsi di sudetta aqua dal sabbato mattina d’ogni settimana sino alla domenica mattina
547
200
A Finale, nel 1763, il Governatore Massimilano Sauli confermò le statuizioni dei suoi
predecessori a tutela dei mulini privati e della cartiera situati a Calvisio e nella borgata di Pia.
Anche qui all’irrigazione fu riservata solo una giornata tra il sabato e la domenica, con proibizione
per coloro che non godevano del diritto di estrarre l’acqua dai canali al servizio degli impianti di
derivare illecitamente, forando o danneggiando altrimenti le condotte548.
I conflitti tra uso industriale e uso agricolo dell’acqua non furono i soli a chiamare in causa
le magistrature della Repubblica. Come bene comunale, anche l’acqua – o meglio, i diritti d’uso – e
i mulini potevano essere oggetto di alienazioni volte a risanare le dissestate casse delle comunità
locali. In tali frangenti, si riprodusse lo schema già esaminato a proposito delle alienazioni nel
capitolo IV. Possiamo citare un paio di esempi che coinvolsero il Magistrato delle Comunità.
Il primo caso ci riporta a Vessalico, nel capitanato di Pieve di Teco, nei primi anni ’40 del
Seicento, all’incirca il medesimo periodo durante il quale alcuni membri della comunità avevano
tentato di privatizzare il bosco comune. La comunità, gravata da debiti e censi per 50.000 lire,
vantava entrate sicure soltanto dall’affitto degli edifici produttivi di proprietà comune con le ville
inferiori del capitanato549. La frequenza con cui d’inverno le alluvioni rendevano inservibili mulini e
frantoio, per la rottura delle chiuse e dei canali, spinse il Parlamento di Vessalico a deliberare la
costruzione di un nuovo impianto lungo le rive del torrente Bottasso, affluente dell’Arroscia, così
da poter garantire la continuità del servizio di macinatura.
Uno dei possidenti del borgo, Pietro Manfredo, mobilitò il capitale di cui disponeva per
rastrellare i terreni siti lungo il Bottasso e più idonei per la costruzione del frantoio e offrì 50 scudi
alla comunità per la vendita dell’acqua, necessaria per alimentare il mulino che avrebbe realizzato
privatamente. Si è già visto che la parte contraria all’operazione gli oppose il rilascio della licenza
da parte del Senato. La pressione verso la privatizzazione dei beni comunali scosse nel profondo la
vita politica del borgo della bassa valle Arroscia, generando conflitti interni e ciò accadde anche la
questione del Bottasso. Manfredo possedeva infatti non solo i mezzi economici, ma anche gli
appoggi politici per raggiungere il proprio obbiettivo ed alterare l’ordinato svolgimento delle
seguente, cioè quei dalla presa dell’aqua sino alli tre primi molini dell’Ancellino Gandolfo per ore quattro, quei da detti
tre molini sino a quello di Gio. Gerolamo Ricca sino a quello di Giacomo Ricca sino al primo dell’Eccellentissima
Camera ore sette, e quei dal primo sino all’ultimo dell’Eccellentissima Camera ore cinque, e che in tal forma
gradatamente dovere osservarsi sotto le pene contenute nelle preventive gride, et ordini dell’Eccellentissimo
Tribunale», ASGe, Camera di governo e finanza, 1063.
548
ASGe, Camera di governo e finanza, 1063.
549
Ad inizio Seicento la metà degli introiti derivanti da un frantoio e dai mulini ammontavano a 850 lire, ASGe,
Magistrato delle Comunità, 835, c. 147 r. Gli edifici erano in comunione tra Vessalico, Lenzari, Siglioli, Cartari e Gazzo.
201
deliberazioni assembleari550. Nel febbraio 1642 il sopralluogo degli estimatori rilevò che Manfredo
(nonostante l’inibitoria) aveva già costruito il frantoio ed era pienamente operativo. L’incanto per
l’acqua del Bottasso avvenne ad inizio maggio – la concessione del Senato era arrivata il 14 aprile –
e se lo aggiudicò Pietro Manfredo per 250 scudi.
Nei decenni successivi al primo edificio se ne aggiunse un secondo, privo di qualsiasi
copertura legale e che arrecò un ulteriore danno alla redditività dei mulini comunali. È evidente da
un lato che la connivenza degli ufficiali locali fu decisiva per la buona riuscita del piano organizzato
dal Manfredo, che poté compiere una serie di illeciti senza incorrere in conseguenze. Dall’altro si
conferma il modus operandi del Magistrato delle Comunità a fronte di gravi crisi debitorie. Nel
caso in esame esso fu centrato solo in parte, poiché oltre a risultare privo di effetti l’intervento del
Commissario Zoagli, il Magistrato non riuscì ad impedire la costruzione di un secondo frantoio
servito dal Bottasso, non autorizzato.
Nel secondo caso Ortovero, una villa della piana di Albenga, fu costretta nel 1685 a porre
fine alla privativa sui mulini e frantoi per alleggerire il debito che impegnava la comunità per un
interesse annuo oscillante tra il 6 e il 7 per cento. Giudicata accettabile dai locali consoli l’offerta
del marchese Francesco Maria Clavesana, signore di Casanova Lerrone e Vellego, il Parlamento di
Ortovero costituì una commissione di sei procuratori cui delegò la definizione dell’affare che
avrebbe fatto incassare ben 21.000 lire. Per assicurare un ragionevole profitto all’acquirente, la
comunità si impegnò a non costruire altri mulini e ad imporre ai propri abitanti di macinare grani e
olive presso gli impianti passati a Clavesana551.
Oltre agli edifici, la comunità vendette anche i canali e i diritti sulle acque derivate
dall’Arroscia a servizio dei mulini, per di più esenti da qualsiasi onere. Tra le condizioni di vendita
fu espresso il divieto di non distruggere canali e chiuse, né effettuare deviazioni d’acqua o altre
nuove opere capaci di danneggiare i mulini. La popolazione ortoverese poteva anzi essere
obbligata ad eseguire i lavori di riparazione, se richiesta dal compratore. La comunità concordò
L’inibitoria del Capitano di Pieve emanata contro Pietro Manfredo perché non si ingerisse nell’affare dell’acqua
ebbe vita breve, grazie all’interessamento di tal Paolo Giordano, che convinse l’ufficiale a rimuoverla. Neppure
l’intervento di uno dei Commissari del Magistrato delle Comunità (il nobile Francesco Zoagli) tornò a vantaggio della
comunità vessalicese. Il collegio dei consoli infatti annoverava un suo parente, mentre gli altri erano suoi “adherenti”,
ASGe, Magistrato delle Comunità, 166.
551
Cenni sulla presenza di mulini ad Ortovero in G. BARBARIA, Ortovero: una comunità ligure nella storia, Albenga, 1995.
L’organizzazione del contado da parte del comune albenganese è tratta da J. COSTA RESTAGNO, Le villenove del territorio
di Albenga, cit.
550
202
però il mantenimento di un uso civico per l’irrigazione dei campi, il cui esercizio era limitato ai
giorni di sabato e domenica a partire da aprile fino ad ottobre.
Il Magistrato delle Comunità approvò il contratto, rimettendo però al Senato la
concessione della licenza per il trasferimento dei diritti sulle acque pubbliche, che fu
verosimilmente concessa, considerato che nel 1687 l’alienazione fu richiamata come ormai
perfezionata. In questo caso la riduzione del debito (abbattuto quasi interamente) fu perseguita
tramite il trasferimento ad un privato di beni comunali, ma nel rispetto dei diritti di accesso alle
risorse idriche per l’irrigazione.
Dal punto di vista della tutela degli interessi collettivi all’utilizzo dell’acqua e degli impianti
idraulici pubblici, il Magistrato adottò dunque una politica simile a quella seguita per l’alienazione
di boschi e pascoli, cercando di contemperare due opposte esigenze: l’estinzione dei debiti e la
conservazione di un adeguato patrimonio collettivo. Tale politica non escludeva a priori il
trasferimento ai privati di quote dei beni comunali, ma tentava almeno di convogliarlo entro forme
legali, mirando a tutelare le acque da appropriazioni massicce. L’azione delle magistrature centrali
si configura quindi nei termini di un controllo in vista dell’equilibrato utilizzo delle risorse idriche,
onde evitare effetti destabilizzanti sull’intero centro abitato, ma senza iniziative autonome di
trasformazione del territorio e di ridefinizione della gerarchia dei diritti d’uso delle acque.
L’efficacia dell’intervento del governo o del Magistrato appare strettamente legata alla capacità
delle istituzioni locali di supportare la sua azione di mediazione. Per saggiare però più a fondo
l’interazione tra governo e comunità nella gestione delle acque è opportuno prendere in esame
due casi specifici in grado di allargare l’orizzonte dei problemi cui entrambi erano tenuti a far
fronte.
2.c) Governare un fiume di confine: diritto e conflitti in riva al Magra
La storia del fiume Magra si intreccia con quella dei soggetti che nell’arco del medioevo si
disputarono il dominio della Lunigiana, soggetti a loro volta inseriti in relazioni politiche di ben più
vasto respiro perché partecipi, ora come protagonisti, ora come comprimari, a partite
diplomatiche che vedevano quali altri giocatori città come Firenze e Genova, l’Imperatore o la
203
Chiesa, feudatari come i Malaspina552. Il Magra e la sua fertile piana rappresentarono un elemento
di spicco della base patrimoniale costruita tra X e XII secolo dai vescovi di Luni, che si assicurarono
una serie di diritti di sfruttamento dei pascoli e delle acque fluviali. Contestuale fu l’organizzazione
del territorio tra Magra e Vara, tramite la fondazione di borghi muniti di fortezze come Sarzana,
Santo Stefano sulle rive del Magra, Caprigliola e Bolano in prossimità della confluenza tra i due
fiumi, Falcinello, Ponzanello e Fosdinovo alle spalle di Sarzana stessa.553
Al volgere del secolo tuttavia l’incapacità dei vescovi di Luni nel rendere effettivamente
cogente la loro giurisdizione sul territorio in presenza di altri soggetti (città o feudatari)
sufficientemente organizzati e animati dagli stessi obiettivi, senza scendere a patti con i gruppi
dirigenti dei borghi e dei castelli vassalli, determinò l’inizio delle fortune del più vitale e meglio
posizionato borgo di Sarzana554. In un momento storico in cui si tornava a guardare con interesse
alle zone costiere per la ritrovata vivacità dei traffici commerciali, il Magra era una via d’acqua
troppo importante per la navigazione sia per la fluitazione del legname che dai colli interni veniva
trasportato a valle. La crescita di Sarzana come centro politico ed economico di riferimento in
concorrenza con (e poi al posto di) Luni era nell’ordine delle cose e lo spostamento della sede
vescovile disposto da Innocenzo III nel 1203-04 formalizzò lo stato di fatto.
L’affrancamento di Sarzana e dei borghi vicini dal potere vescovile e l’erosione del dominio
episcopale ad opera dei Malaspina, dei Fieschi – e indirettamente del comune genovese –
proseguirono tra alterne vicende fino all’inizio del Trecento. Ludovico il Bavaro con un diploma del
26 novembre 1328 concesse al comune di Sarzana da una parte la facoltà di «introytus ordinare,
Parlando di Lunigiana, si fa riferimento ad una regione “marginale”, intendendo in tal modo un’area disomogenea
territorialmente e posta ai margini fisici di entità politicamente più strutturate e definite (Lucchesia, Garfagnana,
genovesato…), che nel suo periodo di massima espansione si estende da Framura nel Levante ligure a Piazza al Serchio
in Garfagnana e in alta Versilia, comprendendo l’alta e bassa val di Magra e la val di Vara. Un territorio quindi
geograficamente assai vario, andando litorale tosco-ligure alle anguste valli appenniniche, ma attraversato pure da
fondamentali vie di comunicazione, come la Francigena e l’Aurelia, e valichi appenninici. Il principale fattore di
omogeneizzazione politico-amministrativa sia stato rappresentato dalla diocesi di Luni. Su questi temi vedi R. RICCI,
Poteri e territorio in Lunigiana storica (VII-XI secolo). Uomini, terra e poteri in una regione di confine, Spoleto, 2002, pp.
1-14 e la citata bibliografia.
553
Vedi R. RICCI, Poteri e territorio in Lunigiana storica, cit., pp. 156-188. Furono innalzati castelli anche a Ceperana,
Vezzano, Trebiano, Ameglia, cfr. G. VOLPE, Toscana medievale. Massa marittima, Volterra, Sarzana, Firenze, 1964, pp.
324-334.
554
Nel 1163 Federico I aveva accolto i sarzanesi sotto il mantello protettivo dell’impero concedendo loro, tra l’altro,
l’esenzione da qualsiasi pedaggio o dazio per l’attraversamento o l’uso del Magra e la conferma degli usi civici
consuetudinari, diploma poi concesso nuovamente da Federico II nell’agosto 1226. Nel 1198, quindi pochi anni dopo
la legittimazione del proprio comitatum, il vescovo Gualtiero cedette ai sarzanesi il diritto d’uso dei pascoli e dei
boschi episcopali compresi tra la Magra e l’Avenza, i monti di Fosdinovo e il mare, in cambio dell’appoggio nella guerra
contro i marchesi Obertenghi. Cfr. G. VOLPE, Toscana medievale, cit., pp. 368-386. I documenti sono contenuti in G.
PISTARINO, II "Registrum vetus" del Comune di Sarzana, Sarzana, 1965, doc. nn. 1,2, 11.
552
204
facere et habere» ma soprattutto fissò la giurisdizione del districtus cittadino nel raggio di due
miglia, dal mare fino al torrente Parmignola e al monte Caprione555. Il basso corso del Magra
veniva così definitivamente attirato nella potestà amministrativa della città sarzanese, come gli
statuti del 1330 provano platealmente556.
La val di Magra restò una zona contesa fino alle guerre d’Italia: subentrata al Banco di San
Giorgio nel 1562 nel governo diretto della bassa valle del Magra, la Repubblica si trovò a gestire un
nutrito gruppo di comunità che da tempo avevano legato la loro prosperità al fiume. Un fiume che,
dopo la confluenza del Vara nei pressi di Ceparana, si estende per circa 15 km fino al mare e che
Genova controllava solo per la parte finale, costituendo per diversi tratti il confine naturale con le
comunità ricadenti sotto la signoria toscana557. Alcune descrizioni del XVI secolo ci danno
testimonianza di un corso pescoso e ricco d’acqua558. Quali furono i capisaldi del governo di
Genova sul Magra?
La maggior parte delle comunità della bassa valle erano dotate di statuti e vantavano
convenzioni di soggezione con la Dominante che lasciavano loro come di consueto ampi margini di
autonoma circa l’amministrazione dei propri beni. Inoltre il sistema di sfruttamento dell’acqua
fluviale, in particolare per l’alimentazione dei numerosi mulini eretti lungo il corso, preesisteva
abbondantemente alla signoria genovese559. Non furono quindi imposte unilateralmente riforme
ma il governo, direttamente o attraverso i propri giusdicenti, mirò a raggiungere un equilibrato
utilizzo dell’acqua tra tutte le comunità della valle ristabilendo i diritti violati. Trattandosi di una
Sarzana aveva peraltro già ottenuto nel 1318 il diritto a riscuotere la saltarìa sulla stessa area in locazione dal
vescovo di Luni Gherardino – in quel momento esiliato a Firenze – per 50 fiorini d’oro e una pensione annua di 12
denari imperiali. Il testo in G. PISTARINO, Il Registrum vetus, cit., doc. n. 38. Sull’espansione del comune di Genova in
Lunigiana vedi anche R. PAVONI, Ameglia: i vescovi di Luni, i vicedomini, i Doria e il Comune di Genova, in Giornale
storico della Lunigiana e del territorio lucense, n.s., XLIII-XLV (1992-1994), n. 1-4, pp. 11-170.
556
Editi da I. GIANFRANCESCHI, Gli statuti di Sarzana del 1330, Cuneo, 1965, vedi RSL, n. 947. Informazioni sugli statuti
sarzanesi anche in A. ROCCATAGLIATA, I notai di Sarzana e i loro archivi (secc. XIII-XVIII), in Memorie della Accademia
Lunigianese di Scienze Giovanni Cappellini, LXXX (2010), pp. 225-287.
557
Cfr. F. BONATTI, M. RATTI, Sarzana, Genova, 1991, pp. 71-86; A. BERNARDINI, Alle origini dello “Stato” di San Giorgio in
Lunigiana. Le prime acquisizioni territoriali della Casa nell’estremo Levante ligure (1476-1479), in Memorie della
Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Cappellini, LXXVIII (2008), pp. 133-155.
558
Così la «Descrizione della Liguria» (1543) di Giacomo Bracelli e Fabio Biondo: «Da la parte di levante vien questo
porto a chiudersi in un capo, chiamato hora di Luna, presso al quale va giù nel mare Macra, piacevol fiume e pieno di
pesci, e novissimo e celebre per dividere la Liguria da la Toscana», cfr. M. QUAINI (a cura di), La conoscenza, cit., p. 69.
559
Indubbiamente anche i campi coltivati a cereali, alberi da frutto e gli orti – che per prescrizione statutaria ogni
abitante di Santo Stefano, Ponzano, Vezzano e altri centri era obbligato ad avere – attingevano alle ricche fonti idriche
presenti in valle, ma senza raggiungere estensioni ragguardevoli. A parte ciò si può ritenere che la coltivazione del lino
e della canapa, che richiedeva notevoli quantità d’acqua ed era praticata in altre località della Lunigiana toscana, fosse
del tutto minoritaria in bassa val di Magra. A motivo dei lunghi periodi di macerazione, la coltura del lino peggiorava la
salubrità dell’aria e la vivibilità delle zone di macerazione. Cenni su questo tema in I. LAZZERINI, Le comunità rurali della
Lunigiana negli statuti dei secoli XII-XIV, Firenze, 2001, pp. 135-142.
555
205
zona di confine particolarmente delicata, Genova optò apertamente per una politica di basso
profilo, diretta a difendere la giurisdizione territoriale e la pace tra le comunità governate, ma
senza intraprendere iniziative degne di nota sul terreno delle opere di regimazione del fiume e
della relativa ridefinizione dei diritti d’uso.
È difficile datare con certezza l’avvio della diffusione del mulino idraulico in media e bassa
val di Magra. La menzione dei mulini tra le concessioni fatte dall’Imperatore Ottone al vescovo di
Luni Adalberto nel 963, essendo inserita in un più vasto elenco di possedimenti vescovili
disseminati tra vari castra (Vezzano, Sarzana, Lerici, Ameglia per citarne alcuni) non permette di
stilare elenchi precisi560. È ragionevole pensare che impianti di modeste dimensioni attecchirono
senza pena in una terra abbondante di acque. La discontinuità del flusso dei torrenti che dalle
colline scorrevano verso il Magra poteva però costituire un limite alla loro piena efficienza561. In
ogni caso è evidente il ruolo di Sarzana come centro propulsore della gestione delle acque per le
comunità della bassa valle.
Risale al 1235 l’accordo sull’utilizzo dell’acqua del Magra con cui i santostefanesi
ottennero, tra l’altro, la cittadinanza sarzanese. L’atto prevedeva la vendita da parte dei consoli di
Santo Stefano di «medietatem pro indiviso prese aque et aqueductus et betalis et tereni, per quod
ducitur ipsa aqua a flumine Macre, sicut intrat aqua predicta in betale suprascriptum, usque ad
saltariam et foveam Veçanensium» in cambio di 15 lire imperiali e quattro macine, rinunciando a
qualsivoglia futura rivendicazione o azione contro i sarzanesi. Le clausole sull’impiego dell’acqua
riconoscevano un generale diritto dei rettori di Sarzana di servirsene a loro piacimento perché la
quota spettava loro iure proprietario. Il prosieguo del contratto enunciava altresì l’obbligo delle
parti di procedere alla costruzione di tre mulini sull’acquedotto derivato da Santo Stefano di cui
sopra. La gestione consortile tra le due comunità toccava tutti gli aspetti dell’attività dell’impianto,
dalla divisione delle acque al riparto delle spese per la costruzione e la manutenzione, agli utili562.
M. LUPO GENTILE, Il regesto del Codice Pelavicino, Genova, 1912, doc. 18.
Secondo Neri e Petacco la crescita numerica dei mulini è da ascrivere alla suddivisione del comitato episcopale e
dei feudi malaspiniani in signorie e comuni più o meno indipendenti, fino all’affermazione degli Stati fiorentino e
genovese. In questo lasso di circa quattro secoli, molte comunità si sarebbero dotate di un proprio edificio molitorio,
di proprietà pubblica o privata, cfr. G. NERI, E. PETACCO, Arcola: termini di confine e mulini, Sarzana, 1993, pp. 19-24. Il
paese di Caprio (alta val di Magra) disponeva ancora ad inizio Ottocento di 19 mulini, 4 frantoi e altri opifici idraulici
alimentati dal torrente Caprio e altri minori. Si conservavano ancora i resti di due mulini a braccia, da secoli in disuso.
Non è da escludere che anche in Lunigiana il mulino idraulico abbia sostituito quello a trazione umana, secondo
l’ipotesi formulata da Bloch, E. REPETTI (a cura di), Dizionario geografico fisico storico della Toscana, contenente la
descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana, Firenze, 1833, vol. I, pp. 471-472.
562
G. PISTARINO, Il Registrum vetus, cit., n. 30.
560
561
206
Una convenzione del 1237, oltre a ribadire la perpetuità della comunione di canali ed
edifici, affermò il divieto di cessione di diritti o del possesso dei beni a terzi. Le complicate vicende
storiche della civitas di Sarzana si ripercossero tuttavia anche nella gestione dei mulini comuni,
poiché durante la dominazione pisana, nel 1317, Il Podestà decretò la vendita della quota dei
redditi prodotti dai mulini di Piazza per un anno a tal Adorno Pasqualini di Sarzana, per il prezzo di
30 lire imperiali563. Dall’accordo fu invece escluso il castrum di Sarzanello564.
Gli statuti di Sarzana, a cominciare da quelli del 1330 in avanti, da un lato riflettono
fedelmente le trasformazioni occorse al sistema di gestione dei mulini nel secolo trascorso e
dall’altro non ignorano l’opportunità di dettare precise disposizioni per la tutela delle fonti d’acqua
e la manutenzione dei canali565. Nell’edizione del 1529 furono articolati meglio gli obblighi solidali
dei consorti in occasione dei lavori di riparazione ordinari e straordinari. Il testo si fece carico
anche assegnare a due uomini eletti ogni anno dal Capitano il compito di controllare i canali che
portavano acqua al mulino della Porta, aggiuntosi ai tre consortili di Piazza. La costruzione di nuovi
mulini rese probabilmente irrinunciabile la messa per iscritto di regole più precise sulla gestione e
manutenzione delle condutture che servivano gli impianti566. Degna di nota è infine l’attenzione
rivolta alle fosse usate per irrigare i numerosi orti e ai pozzi567.
Registrum vetus, cit., n. 33. Lo stesso documento elenca anche gli obblighi e i diritti del gestore dei mulini quali
l’obbligo di consegnare l’impianto intatto, l’onere di agevolare il trasporto dei grani per la macinatura, anche
approntando una scuderia di asini e cavalli, la conservazione delle bilance e la quota di compenso dovutagli per la
macinatura.
564
La crescita del borgo di Sarzanello portò i rettori del castrum ad agire contro i consoli di Sarzana per vedersi
riconosciuta la quota di 1/3 dei redditi incassati dal comune ai sensi dell’atto del 1235 ma il lodo pronunciato
dall’arbitro Franco da Trebiano respinse la domanda, confermando che tutti i diritti ed introiti spettavano «iure
dominii seu quasi» alla sola universitas Sarçane, cfr. Registrum vetus, cit., n. 36.
565
La rubrica De molendinis de Pracia et fluminis Macre, preso atto della politica di affitto dei mulini, limitò il potere
dispositivo del Comune, che poteva cedere ad un privato fino ad un massimo di tre anni solo l’usufrutto della propria
metà, sancendo poi definitivamente gli obblighi dell’usufruttuario tramite l’inserimento nel testo statutario delle
clausole dell’atto del 1317, cfr. I. GIANFRANCESCHI, Gli statuti di Sarzana, cit., pp. 70-71. Vedi anche gli statuti del 1529 in
BCB, m.r.VIII.1.11, cc. 53-54, RSL, n. 950.
566
Il capitolo De molendinis reficiendis a consortibus del 1529 (più esaustivo rispetto all’edizione del Trecento) vietò
espressamente atti pregiudizievoli per il buon funzionamento dei mulini, come la manomissione dei canali e delle
alzate e l’interramento dei beudi. La condivisione dell’acqua tra più impianti era tutelata dalla proibizione di
«extorquere acquam unum alterius, vel alterum alteri, ita quod non habeat cursum rectum versus dicta alia
molendina» a pena di 40 lire genovesi, cfr., BCB, ibidem, cc. 50-51.
567
Responsabili del riattamento della fossa “de Aciliano” e del rivum Pilli erano appositi ufficiali eletti ogni anno dal
Consiglio di Sarzana su iniziativa del Podestà/Capitano. Le spese per la realizzazione dei lavori del rivo erano divise tra
coloro che si giovavano dell’acqua scorrente per il canale. All’inizio di agosto, il giusdicente doveva anche comandare
pubblicamente la pulizia e la riparazione dei pozzi. I lavori erano a carico delle “vicinie” che fruivano dell’acqua e il
magistrato doveva vigilare che non venissero realizzati edifici «super aliquo puteo Communis et super terreno putei
Dominarum», a pena di ben 100 soldi imperiali, I. GIANFRANCESCHI, Gli statuti di Sarzana, cit., pp. 66-68. Sulla pesatura
dei cereali e della farina ivi, p. 73.
563
207
Gli statuti della comunità di Santo Stefano vietarono la chiusura e la deviazione di ogni
acquedotto, tanto pubblico quanto privato, punendo così ogni atto pregiudizievole non solo per
l’ordinata convivenza ma che avrebbe disperso un bene prezioso568. Un capitolo assegnava poi al
proprietario del fondo inferiore la “ragione” sulla fossa irrigua attraversante una proprietà altrui,
in una rudimentale riproposizione dell’acquedotto coattivo569. I tre mulini posseduti da Santo
Stefano e i due frantoi (i torchi “di sopra” e “di sotto”) venivano regolarmente messi all’incanto
ogni anno insieme alle altre gabelle e beni comunali570.
Il sistema così formato resse per secoli e attraversò le varie dominazioni che si alternarono
tra Tre e Cinquecento. Assai più problematico si rivelò invece il rapporto tra la stessa Santo
Stefano e la vicina Ponzano571. Qui a fronte di un problema analogo – la necessità della seconda
comunità di alimentare i propri mulini con l’acqua presa sul territorio della prima – le due
comunità furono incapaci di addivenire ad un compromesso, ma neppure l’intervento degli ufficiali
genovesi giovò a ricomporre definitivamente la controversia, che si trascinò fino alla fine del
Settecento.
A metà Cinquecento, durante l’amministrazione del Banco di San Giorgio, i Protettori
riconobbero con sentenza ai ponzanesi il diritto di derivare dai canali di Santo Stefano (detti di
Rossiolano e Ceratello) e servirsene per l’irrigazione e per azionare le ruote dei mulini, senza dover
intraprendere la costruzione di un nuovo canale direttamente dal Magra572. In coerenza con la
pronuncia, gli statuti di Ponzano del 1586 introdussero la rubrica Del bedale del Mulino, assente
nelle versioni precedenti, a tutela del nuovo acquedotto costruito per la derivazione dai canali di
È il capitolo XXVI° del quarto libro degli statuti del 1565 in ASGe, Archivio segreto, 36, RSL, n. 941.
Capitolo LXXXVII° degli statuti del 1533 in ASGe, Manoscritti, 667, RSL, n. 940. Vedi anche G. NERI, E. PETACCO, Tutela
ambientale, diritto di famiglia, note di araldica comunale attraverso le carte delle comunità di Santo Stefano e
Ponzano, Sarzana, 1992, pp. 29-30.
570
Dal censimento della comunità di S. Stefano del 1611 risulta che i tre mulini e un frantoio rendevano 184 lire
annue, mentre il torchio “detto il canal del Rio” fruttava da solo 276 lire. L’elenco delle entrate cita anche una pigione
pagata da tal Bertino Pasquinelli per un mulino privato (25 lire), ASGe, Magistrato delle Comunità, 835. La riforma
degli statuti di Santo Stefano compilata dal Commissario di Sarzana Tommaso di Negro nel 1609 specificò che i
conduttori dovevano lasciare alla comunità tutte le migliorie apportate ai mulini e ai torchi, ASGe, Archivio segreto,36.
571
Ponzano possedeva un grosso impianto in località Vencinella dotato di sei macine, azionate da un roteggio di sedici
pale, unito ad un frantoio. La caratata di inizio Seicento censì in tutto tre torchi (rendita complessiva 734 lire) e un
mulino (lire 50), ASGe, Magistrato delle comunità, 835.
572
I due canali segnavano il confine tra Ponzano e Santo Stefano. La sentenza concedeva agli uomini di Ponzano
«facultatem, et ius aqueductum, et quandocumque ipsis placuerit, tam de die, quam de nocte ad eorum libitum
accipere aquam, et bedalia, et bedale, et presam, et presas facere, factamque manutenere in dicta parte territorii
assignata ut supra dicte universitati Sancti Stephani, tam in terris universitatis, quam etiam particularium hominum, et
habitantium dicti loci, et dictam aquam ducere, et duci facere, per dicta bedalia, et presas faciendas ad molendina
Pontiani absque aliquo impedimento, et prohibitione dictae universitatis Sancti Stephani, eius Potestatis et
particularium». Si imponeva poi la costituzione della servitù di acquedotto a favore dei ponzanesi sui fondi privati di
Santo Stefano, ASCSSM, Fondo Taddei, 3, doc. 99.
568
569
208
Santo Stefano573. Gli oneri della riparazione e pulizia dei canali di Rossiolano, Ribarbari e di
Rendinette gravavano su ogni famiglia della comunità, che doveva delegare un proprio membro
(maschio o femmina) a lavorare nei giorni individuati dal Parlamento574.
Per indennizzare parzialmente i santostefanesi, un nuovo lodo pronunciato dal
Commissario di Sarzana nel 1628 impose a Ponzano un canone di 80 lire all’anno per l’uso
dell’acqua, che Santo Stefano avrebbe dovuto assicurare costantemente ma che, di fatto, negò a
più riprese575. Fu invece del tutto fallimentare la decisione di costituire d’autorità un consorzio tra
i mulini di Santo Stefano e di Ponzano assunta nel 1637 dal Commissario sarzanese Agapito
Centurione: affittati con un'unica asta pubblica, i redditi degli edifici sarebbero stati divisi a metà
tra le due comunità576. Oltre al danno economico – le entrate furono minori per entrambi i paesi –
il decreto scontentò le parti anche per il modo con cui era stata emanato (in assenza dei sindaci di
Ponzano) e per la sua inefficacia nel risolvere il problema dell’accesso alle fonti idriche577. Il
consorzio fu sciolto solo nel 1670 in occasione di una nuova transazione, che cancellò anche il
canone di 80 lire, mantenendo però in capo a Santo Stefano l’obbligo di assicurare il rifornimento
idrico a Ponzano e a svolgere i lavori di manutenzione e difesa della presa e dei canali fino alla
Vencinella578.
573
Le edizioni precedenti del 1543 e del 1573 (in ASGe, Senato Senarega, 1405, RSL, n. 769-770) citavano un’«aqua
funtis de Chiarolo» azionante il mulino comunale tramite un acquedotto situato lungo una strada. Il nuovo articolo
richiamava espressamente la realizzazione della nuova opera: «Perché si construì l’acqueduto, et bedale del Comune
destinato alli molini et torchii si prohibisce che alcuno sotto la pena di lire 40 per volta ardisca di non fare, e cavar
pietre di detto bedale», ASCSSM, Statuti Ponzano, c. 49.
574
La rubrica «Di provedersi alle acque» vietava anche la deviazione abusiva di solchi, fossi e canali, fissando le
corrispettive pene, cfr. G. NERI, E. PETACCO, Tutela ambientale, cit., p. 93.
575
Nel 1629 i rettori di Ponzano si appellarono al Senato chiedendo il rispetto della transazione dell’anno prima. In
dettaglio eccepirono che «questa transatione non è mai stata osservata da quelli di Santo Steffano, quali non solo non
hanno concesso l’aqua né mandatala fra i detti cannali, né hanno fatto alcuna difesa per mantenerla a quelli di
Ponzano, i quali hanno quattro mulini, in quali consiste la rendita maggior d’esso Commune». Il danno arrecato ai
quattro opifici ponzanesi si ripercuoteva però anche sulla capacità fiscale della comunità, che sui redditi del mulino e
dei frantoi fondava larghissima parte delle proprie entrate. Inoltre, a differenza dei mulini consortili di Piazza, su
quello di Ponzano la comunità esercitava diritti bannali, ASCSSM, Fondo Taddei, 2.
576
Decisione citata in una delibera del 30 luglio in ASCSSM, Delibere Ponzano 1624-1639, c. 95 v.
577
La diffidenza verso la controparte portò il Parlamento di Santo Stefano ad approvare una proposta volta a vietare le
sub-locazioni degli impianti comunali ai ponzanesi, ASCSSM, Delibere Santo Stefano 1631-1654, delibera del 29
settembre 1651. Comunicata la sentenza di Centurione al Parlamento di Ponzano, i consiglieri fecero notare che la
decisione «resta molto dannosa a detta Comunità, et huomini […] massime che si vede che la presente Comunità non
è stata citata, né chiamata», ASCSSM, Delibere Ponzano 1624-1639, c. 95 v.
578
Copia dell’atto in ASCSSM, Libro dei decreti della comunità di Santo Stefano. Il quarto articolo del compromesso, al
centro delle dispute successive, disponeva: «Che tre volte l’anno siano obbligati quei di S. Steffano levare per sei giorni
continui l’aqua, acciò quei di Ponzano possino nettare i loro bedali, al tutto però sempre, nel tempo più congruo, e
commodo alla communità, a giudizio del soddetto Ill.mo Signor Commissario, e che altante volte, se quelli di S.
Steffano haveranno bisogno d’impedire l’aqua per nettare i bedali, a loro commodo, ne loro bisogni, li sia lecito il farlo
con darne aviso a molinari di Ponzano, e prendere licenza dall’Ill.mo Signor Commissario, al quale sia sempre lecito il
poter permettere, che si chiudino in un caso impensato».
209
La fine del consorzio tra Santo Stefano e Ponzano incontrò dunque il favore delle stesse
comunità. Le circostanze che determinarono il fallimento furono principalmente due. La prima, di
ordine tecnico, consisteva nell’onere della riparazione di canali e chiuse condivisi, che la
transazione del 1670 addossò interamente a Santo Stefano, senza che Ponzano fosse tenuta a
contribuire in alcuna misura alle spese. I santostefanesi dovevano scongiurare ingorghi lungo i
canali capaci di danneggiare i mulini di Piazza, ma come fu eccepito durante il processo nel
secondo Settecento i costi di manutenzione complessiva dell’intera rete non potevano ricadere su
una sola comunità, vuoi perché così facendo si derogava in peius al diritto comune, vuoi perché la
turbolenza del Magra rendeva i lavori troppo frequenti ed onerosi579.
La seconda criticità consistette proprio nella stessa propensione del fiume ad esondare,
danneggiando le strutture di conduzione dell’acqua, danni che si riverberavano indirettamente
sull’operatività dei mulini di Ponzano. I ponzanesi si lamentarono più volte per l’insufficienza del
livello di acqua corrente rispetto a quanto richiesto, ma dalle testimonianze raccolte dal
Commissario di Sarzana nel 1630 si comprende che per gli uomini di Santo Stefano la condivisione
dell’acqua tra le due comunità era un fatto consolidato nel tempo e incontestabile. Tuttavia solo i
santostefanesi dovevano fronteggiare le disastrose piene del Magra e la rottura delle chiuse a
scopo preventivo si rendeva necessaria per impedire danni più gravi580. Invece di accusare la
comunità vicina, sostenevano i santostefanesi, Ponzano avrebbe potuto servirsi della fonte sita nel
proprio territorio come forza idraulica quando il canale di Rossiolano si prosciugava.
Tensioni e liti coinvolsero anche le comunità confinanti ricadenti sotto la giurisdizione
toscana. Anche in questo caso furono le comunità a stipulare specifiche convenzioni per l’uso delle
risorse idriche. Una particolarmente importante fu conclusa nel 1539 tra Santo Stefano e i borghi
Dal 1759 alla fine degli anni Sessanta del secolo si svolse un ulteriore contenzioso tra Ponzano e Santo Stefano
davanti al Magistrato delle Comunità per la chiusura dei canali e la loro pulizia. L’avvocato di Santo Stefano a
proposito dall’iniquità degli oneri scrisse: «L’obbligo di tirare l’acqua della Magra all’imboccatura dell’alveo per i
sghiari, e ripari, che convien fare nel letto d’un fiume vario di sua natura nel corso, e rapido, che frequentemente
dall’ottobre infino a maggio ingrossa, devastando ogni riparo; un anno per l’altro non importa minor spesa di 400 o
500 lire. Tutto questo peso si pose a carico della Comunità di S. Stefano, e la Comunità di Ponzano, cui vien
comunicata l’acqua per uso dei di lei molini, si rese esente da qualunque onere; e pure ogni buon principio di ragione
persuade, che siccome ella ne sente egual vantaggio, debba essere pure a parte di tali spese», G. VENTURINI, Ingiustizia
delle eccezioni date dalla magnifica Comunità di Ponzano alla transazione fatta dal M. Michelangelo Ferro nelle
controversie vertenti tra la magnifica Comunità di S. Stefano, e detta M. Comunità di Ponzano, Genova, per Casamara
dalle Cinque Lampadi, 1768, p. 10.
580
Il teste Antonio Ferrari dichiara che «i molini di Ponzano, hanno più acqua che li nostri di San Steffano, essendo che
vi nasce una polla, o sia acqua viva, che non hanno li molini di San Steffano». Battista Tarrella spiega che da moltissimo
tempo l’acqua del canale Ceretiello scorre fino alla Vencinella e ai mulini di Ponzano, in misura sufficiente per tre
mulini. «Ma quado la chiusa si rompe, perché la Magra vien grossa, bisogna havere patienza, e rompere anco il bedale
a San Steffano»
579
210
di Albiano e Caprigliola in forza della quale il borgo ligure godeva del diritto di derivare l’acqua dal
Magra entro i confini di Caprigliola, in cambio di un corrispettivo per la macinatura dei grani pari a
quello imposto agli originari di Santo Stefano. Per più di ottant’anni l’accordo fu rispettato,
consentendo all’insediamento genovese di reperire l’acqua anche quando il fiume deviava dal suo
corso solito.
Lungo gli anni Venti del Seicento gli uomini di Albiano violarono ripetutamente la
convenzione per favorire gli interessi di alcuni privati. Nel 1622 l’appaltatore albianese della pesca
nel Magra interruppe con barriere il corso dell’acqua per favorire la propria attività. Nel 1625,
complice una nuova deviazione del fiume che lo fece allontanare dai limiti di Santo Stefano, i
mulini del borgo ligure rimasero nuovamente a secco. Quattro anni dopo alcuni membri della
famiglia Corbani, importanti proprietari di fondi lungo il Magra che ambivano ad acquistare il
possesso di alcune zone della ghiara liberate dal fiume cercarono di scoraggiare i mugnai dal
ripristinare gli acquedotti. I Corbani erano abbastanza influenti da manovrare i consoli locali e
godevano di appoggi anche presso il Magistrato dei Nove a Firenze, al quale chiesero di non
ottemperare agli obblighi scaturenti dall’atto del 1539. L’episodio portò con sé altre scaramucce
tipiche delle liti confinarie (semina abusiva, rimozione di termini divisori) ma l’opposizione dei
Corbani volta a rimuovere la servitù coattiva gravante sui loro terreni fu in ultima analisi vincente:
la comunità di Albiano si associò alle loro proteste, mentre il Senato genovese per appianare la
controversia si rivolse direttamente all’ufficio dei Nove, esortando il Commissario sarzanese a
contenere le rappresaglie. A Santo Stefano non rimase altro che dichiarare tamquam non esset la
convenzione sull’uso delle acque nel 1632.
Molteplici furono dunque i conflitti appropriativi legati all’acqua del Magra che coinvolsero
le comunità della bassa vallata. Sotto il profilo normativo, statuti, delibere dei consigli locali e
consuetudini formatesi nel tempo furono le fonti principali circa l’uso del fiume e, più in generale,
le fonti con cui si provvide alla tutela ecologica dell’area fluviale. A questi si affiancarono nel corso
del tempo gli accordi (convenzioni, sentenze) con cui le comunità pattuirono forme e limiti
d’esercizio dei rispettivi diritti collettivi. Tra i diritti d’uso è evidente la supremazia
dell’alimentazione degli edifici idraulici. Essa rispecchiava il regime di debole irreggimentazione
211
delle acque del Magra seguito ancora per tutta l’età moderna. Il principale mezzo di contrasto
risiedeva nella difesa naturale offerta dalla vegetazione delle “macchie” del Magra581.
Se l’obiettivo della gestione collettiva dell’acqua del Magra fu quello di offrire ai principali
utenti il bene scarso di cui abbisognavano, si può dire che il risultato fu complessivamente
raggiunto. Il governo svolse le consuete funzioni di mediatore e mirò a difendere l’accesso delle
comunità ad un fiume quanto mai “mobile”, senza ingerirsi però nelle forme di impiego dello
stesso. Il governo rifiutò il ruolo di regista di un’opera di sistemazione fluviale di ampia portata,
anche di fronte alla proposta del nobile Matteo De Franchi di deviare artificialmente il corso
Magra poco più a valle della confluenza col Vara, avanzata al Senato nel 1640. Se attuata, la piana
sarzanese ne avrebbe sicuramente giovato in termini di maggiore produttività agricola: oltre ai
terreni recuperati al fiume, quelli golenali non avrebbero più vissuto sotto la spada di Damocle
delle alluvioni. Sarebbe allora stata realizzabile una più razionale dislocazione di mulini e altri
impianti idraulici e una rivisitazione dei diritti d’utilizzo pubblici e privati582.
2.d) Una fertile pianura dall’aria malsana: la fallimentare gestione delle acque ad Albenga
581
La mechia del Magra comprendeva tutti i terreni boschivi e agricoli situati tra la confluenza del Magra col Vara e la
foce e serviva dunque i centri abitati posti sia ad oriente che ad occidente del fiume. La difesa della vegetazione che
rafforzava gli argini e riduceva l’impeto delle piene fu al centro dei bandi campestri approvati tra XVI e XVIII secolo
dalle comunità del Magra. Nella seconda metà del Settecento il noto medico e naturalista Giovanni Targioni Tozzetti
ricordava le «varie folte, macchie, e salciaie, che frenavano l’impeto del fiume, e l’obbligavano a gettarsi tutto dalla
parte del promontorio Lunense, e bagnare le radici sassose del medesimo monte, senza nuocere alle terre coltivate»,
destinatarie di una delibera di tutela del comune sarzanese già nel 1460, che non fermò per il disboscamento, cfr. G.
TARGIONI TOZZETTI, Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali, e gli
antichi monumenti di essa, t. X, Firenze, per Gaetano Cambiagi stampatore Granducale, 1777, pp. 314-324, in
particolare p. 323. Le inondazioni e gli spostamenti dell’alveo indussero le comunità della bassa valle ad istituire un
procedimento pubblico di verifica dei titoli possessori e di riassegnazione ai proprietari dei fondi liberati dall’acqua
chiamato rilevaglia. A partire dagli statuti di Sarzana del 1330 e poi a seguire Vezzano, Ponzano e Santo Stefano, alcuni
ufficiali (“rellevatori”) eletti dai locali Parlamenti e sotto il controllo del giusdicente ricevevano la rivendicazione degli
appezzamenti da parte dei privati, visitavano i luoghi e valutavano le prove documentali o testimoniali prodotte.
All’esito del procedimento le terre rivendicate, se il possesso era stato provato, erano iscritte in un registro e copia
dell’atto di assegnazione era consegnata al proprietario. Viceversa se la prova non era raggiunta, oppure il
proprietario risultava irreperibile, i fondi erano attribuiti al comune. Sulle dispute giurisdizionali per il controllo della
piana vedi ad es. D. VENERUSO, Contributi per la storia amministrativa di Vezzano dal tramonto della Repubblica di
Genova all’inizio dell’età liberale (1797-1848), in AA.VV. Studi vezzanesi, Cuneo, 1970, pp. 61-76.
582
Per quanto invitante sotto il profilo strategico – sul golfo della Spezia aveva manifestato qualche mira la Spagna ad
inizio Seicento e l’interramento l’avrebbe reso meno appetibile – il timore di un eccessivo impaludamento della piana
e le opposizioni delle comunità della bassa valle indussero il governo a rinunciare. Di opere per la difesa dal fiume si
continuò però a parlare ancora fino agli estremi anni di vita della Repubblica, e anche dopo, durante la dominazione
francese, fino alla costituzione dei primi consorzi di canalizzazione del bacino del Magra in pieno Ottocento. Vedi U.
MAZZINI, Il progetto genovese di scaricare la Magra nel Golfo, in «Memorie dell’Accademia Lunigianese G. Cappellini»,
II, 1920, pp. 17-32; M. QUAINI, Viaggiatori, vedutisti e cartografi nel Golfo della Spezia e in Lunigiana, in M. QUAINI (a
cura di), Carte e cartografi in Liguria, Genova, 1991, pp. 219-231.
212
Tra i fiumi più considerevoli per lunghezza e importanza per il sostegno all’agricoltura vi era
il Centa, croce e delizia della piana di Albenga, originante dalla confluenza del torrente Neva
nell’Arroscia 4 km circa prima della foce. Esso spiccava tra i corsi d’acqua del medio ponente ligure
per le piene devastanti. Se le comunità del distretto sarzanese dovettero fronteggiare le irruente
inondazioni del Magra, uscendone non troppo compromesse, diversamente la mancata
irreggimentazione del Centa contribuì in modo decisivo al declino demografico e politico di
Albenga a partire dal tardo medioevo, imponendo anche trasformazioni economiche i cui effetti
perdurarono almeno fino al XIX secolo583.
Sotto il profilo idrografico, la pianura albenganese era solcata dal Centa e da altri rivi
secondari (Carenda, Antoniano, Remerdaro, Allavena i principali) e da una rete di canali e fossati
artificiali che crebbe dal XII al XVI secolo, segnandone indelebilmente l’aspetto. Croniche e spesso
catastrofiche le alluvioni: tra 1252 e 1254 il Centa mutò addirittura letto, invadendo e occupando
stabilmente quello che era probabilmente solo un importante canale artificiale utilizzato dai cuoiai
cittadini. Le inondazioni proseguirono anche nei secoli successivi, distruggendo ponti,
danneggiando i campi coltivati e i mulini che nel frattempo erano stati costruiti e in qualche caso
le mura stesse della città. Anche gli affluenti del Centa furono interessati da eventi simili584.
Gli sforzi del comune furono notevoli ma il carattere seriale delle esondazioni rese sterili i
lavori di prevenzione e ripristino dei danni eseguiti di volta in volta. Aderenti alle priorità imposte
dalla natura, gli statuti del 1288 si occuparono soprattutto di mettere nero su bianco lil dovere per
il Comune di effettuare la manutenzione dei canali e dei corsi d’acqua. Altri obblighi gravavano sui
privati, come stabilito per il controllo del Neva a carico degli uomini di Bastia e Leca o per la pulizia
dei canali dei mulini, le cui spese erano addebitate ai titolari dell’impianto585. L’esigenza di
preservare fondi ed edifici dalla furia delle piene non venne mai meno ed anche la redazione
Cfr. G. BALBIS, L’agricoltura in Albenga nel XV secolo, in Clio, X/1 (1974), pp. 121-158.
Vedi L. DE BARTOLOMEIS, Oro-idrografia dell’Italia, cit., pp. 205-206. All’incirca a metà del XIII secolo il torrente
Arroscia mutò alveo spostandosi dal meridione all’attuale corso a nord-ovest del centro abitato: il nuovo ramo di
fiume fu chiamato Centa. A fine Trecento strariparono l’Arroscia e il Neva. Ancora il Neva tra il 1408 e il 1410
danneggiò le mura del borgo di Cisano, mentre l’ampia alluvione del 1656 che toccò tutta la piana portò l’Arroscia ad
invadere il letto del rio Remerdaro, rimanendovi alcuni anni. Come è stato rilevato, già gli statuti del 1288
giustappongono disposizioni riferite al vecchio Arocia prima della deviazione ad altre rivolte al Centa, più vicino al
borgo, cfr. V. ZUCCHI, Topografia storica della piana di Albenga nel medio evo, in Rivista Ingauna e Intemelia, n.1-4,
1938, pp. 18-53, cfr. gli statuti del 1288 RSL, n. 20, p. 108, nota 93; M. QUAINI, Matteo Vinzoni e l’ingegneria idraulica: il
caso del Centa, in «Rivista Ingauna e Intemelia», 52-53 (1997-1998), pp. 113-119.
585
Sono dedicati alla manutenzione dei canali i capitoli 86 (De alveo Arocie et Neve determinando), 87 (De non
faciendo edificio in alveo Arocie et removendo quod ibi factum est vel plantatum) e 88 (De driçando Nevam) degli
statuti del 1288.
583
584
213
statutaria del 1350 ribadì, con qualche aggiunta, la preminenza della cura idrologica del
territorio586.
Il Quattrocento si chiudeva con una città in condizioni sempre più gravi: i due secoli appena
passati non avevano solo impegnato le casse pubbliche per i lavori di riparazione, ma avevano
anche provocato un’estensione delle zone paludose nei dintorni del borgo cittadino. Le colture
ortive lasciarono quindi posto alla lavorazione del lino e soprattutto della canapa, mentre nelle
zone collinari più distanti si avviava una decisa coltivazione di uliveti e viti. Nel frattempo si era
anche diffusa intorno al borgo e nel contado la presenza di mulini, che insieme alle concerie di
pelli fruivano del reticolato di canali e «bedali». All’inizio dell’età moderna tuttavia non risultano
attivi impianti di proprietà pubblica587.
La riforma statutaria del 1519 apportò alcune novità, mettendo in luce i caratteri ormai
emergenziali della situazione idro-geologica della città e il contestuale tentativo di un gruppo
ormai consolidato di possidenti di imporre all’intera comunità delle contromisure normative in
difesa delle coltivazioni. Si segnalano soprattutto tre articoli. Il De defendendis possessionibus a
flumine Cente et aliorum fluminum assegnò al consiglio di Albenga il compito di eleggere una
commissione composta da un numero variabile di membri (da quattro a otto) che esaminasse lo
stato dei fondi danneggiati dopo un’alluvione e imponesse coattivamente il finanziamento delle
opere di riparazione delle difese. A questa si aggiunse l’istituzione del Magistrato dei Pubblici,
competente per la rimozione degli impedimenti alle strade pubbliche e la pulizia del canale de
Pratis, che dovevano difendere anche dagli scarichi inquinanti dei canapai588.
La creazione di questo collegio con competenze miste palesò la latente, ma ormai
innegabile, dissonanza tra gli interessi dei lavoratori della canapa con quelli di altri settori della
società locale: il trattenimento dell’acqua per i maceratoi e lo scavo di una quantità di fossi privi di
Gli statuti del 1350 introdussero una nuova rubrica in materia di rotture dei canali dei mulini a causa di inondazioni,
disciplinando gli eventuali trasferimenti di proprietà dei fondi per la costruzione dei nuovi canali, RSL, n. 21; P. ACCAME,
Statuti antichi di Albenga (1288-1350), Finalborgo, 1901, pp. 302-303.
587
Cfr. J. COSTA RESTAGNO, Albenga, Genova, 1985, p. 37. La medesima studiosa ha rilevato che anche per Albenga si
può constatare che i primi mulini idraulici furono costruiti per iniziativa di enti ecclesiastici (episcopato, monastero
dell’isola Gallinaria) o di signori, soppiantati poi dal Comune intorno alla metà del XII secolo. La proprietà pubblica di
alcuni molendina tuttavia non durò più di un paio di secoli, cfr. J. COSTA RESTAGNO, I mulini di Albenga e l'antico assetto
delle acque nei dintorni della città, in Ligures, 3 (2005), pp. 166-176. L’inchiesta dei primi del Seicento non registra più
alcun mulino in possesso della comunità, ASGe, Magistrato delle Comunità, 835, c. 277.
588
La pulizia di fossi e canali era funzionale alla difesa dell’integrità delle strade adiacenti o confinanti con gli stessi. La
macerazione o lo scarico delle acque inquinate dalla lavorazione delle canape nel canale era vietata e la denuncia degli
illeciti era formulabile da chiunque, con la possibilità di incassare metà della sanzione, cfr. gli statuti del 1519,
comprensivi delle riforme apportate nel 1608 in CSBG, 93.4.32, (RSL, n. 57), cc. 27 v. – 30.
586
214
sbocco sui rivi o sui canali principali concorreva all’impaludamento della piana e amplificava gli
effetti delle inondazioni. Il pregiudizio recato ad alcuni operatori (mugnai, coltivatori) e alla
salubrità dell’aria dell’intera città fu al centro di numerose discussioni del Consiglio albenganese e
oggetto di lettere inviate dai Consoli al Senato genovese589.
Va osservato che solo la portata dannosa delle inondazioni accomuna questo caso con
quello del Magra. Diversi sono gli altri caratteri che più rilevano per la gestione del fiume: il Centa
non era un fiume di confine e la disciplina del suo impiego era tradizionalmente rimessa agli
statuti, più che a patti esterni, con il Comune che era titolare anche del potere di concedere le
licenze di derivazione. Detta disciplina si era però rivelata inadeguata con il trascorrere dei decenni
e l’inarrestabile peggioramento delle condizioni idrogeologiche, ma la comunità appariva incapace
di raggiungere una soluzione coerente tanto sul piano ingegneristico che su quello giuridico. A farsi
carico del compito di dettare una riforma più organica fu dunque il governo, con l’invio di due
Commissari ad Albenga (Lorenzo De Fornari e Gregorio Molassana) rispettivamente nel 1552 e il
1587-88 che emanarono alcuni decreti inseriti poi negli statuti590.
Il primo decreto consiste in undici articoli volti a regolamentare con maggiore precisione i
modi e i limiti dell’irrigazione e della lavorazione della canapa rispetto a quanto già disposto dagli
statuti, in modo da renderla compatibile con gli altri usi e tutelare la salute pubblica591. Furono
così individuati i luoghi ove era ammessa la macerazione, tutto l’anno o solo durante l’estate,
imponendo pene severe (pecuniaria e di bando) ai trasgressori. Agli sciaiguatori appartenenti ad
alcune tra le più importanti famiglie cittadine (D’Aste, Ricci, Scotto, Costa) fu concessa
l’autorizzazione direttamente dal De Fornari. Tra le misure volte a migliorare le condizioni della
rete idraulica si segnalano l’obbligo di scavare fossi che permettessero lo scorrimento delle acque
verso i rivi o i canali principali, la pulizia dei fossati di Lusignano e San Fedele e il riconoscimento
del diritto dei mugnai delle due stesse ville di proibire la deviazione dei canali alimentanti i mulini
per l’irrigazione delle canape592.
Cfr. J. COSTA RESTAGNO, Il territorio di Albenga: quattro secoli di cartografia, in M. QUAINI (a cura di), Carte e
cartografi, cit., pp. 119-131. La macerazione della canapa avveniva da luglio a ottobre e richiedeva preferibilmente
grandi quantità d’acqua per ottimizzare il processo. Una volta terminata, l’acqua de-ossigenata doveva essere
scaricata e le canape lavate e poi messe ad essiccare, cfr. F. GERA (a cura di), Nuovo dizionario universale di agricoltura,
vol. XIV, Venezia, 1841, voce Macerazione, pp. 723-728.
590
ASCA, Statuti, 15, RSL, n. 28.
591
Vedi la rubrica De xeiguando canapum negli statuti del 1519 in ASCA, Statuti, 15, c. 37.
592
ASCA, Archivio D’Aste, 45.
589
215
Nel 1587 il Commissario Molassana emanò un primo, succinto provvedimento in agosto,
nuovamente rivolto ai canapai di San Fedele e Lusignano per integrare e correggere in parte gli
ordini del predecessore in vista della tutela della salubrità dell’aria. Lo scarico delle acque dai
maceratoi doveva avvenire lo stesso giorno e dovevano essere convogliate nella ghiara del Centa o
disperse per i terreni, in modo da facilitarne l’assorbimento593. Molassana fu anche il primo a
stabilire una quantità massima di acqua di cui ciascun canapaio poteva servirsi per la macerazione,
obbligando quelli di San Fedele e Lusignano a condividere la risorsa senza inquinarla a danno dei
vicini594.
Il testo più importante fu però il decreto del 15 ottobre 1588, quando Molassana
intervenne su due fronti. Da un lato, ribadì l’efficacia del decreto di De Fornari, proclamando
nuovamente il divieto di sciacquare le canape nei luoghi non consentiti e di inquinare i canali dei
mulini. Per altro verso, considerati gli ulteriori eventi alluvionali, creò ex novo il magistrato degli
Ufficiali alle acque, un organo collegiale essenzialmente preposto alla vigilanza sulle acque, alla
costruzione o riparazione degli argini e all’esecuzione degli ordini sui canapai595. In particolare per
quanto riguardava l’approntamento degli argini, Molassana stigmatizzava indirettamente le
croniche difficoltà dei rettori cittadini nel riscuotere le tasse imposte per la loro costruzione dagli
aventi interesse, ragion per cui gli ufficiali furono muniti di maggiori poteri596. Gli eletti dovevano
anche ispezionare periodicamente il letto e la ghiara del Centa, oltre agli altri tratti di rivi o canali
segnalati alla loro attenzione, per rimuovere tutto ciò che poteva impedire all’acqua di scorrere
liberamente (vegetazione, detriti, manufatti).
Fu dunque grazie all’interessamento degli inviati governativi che la normativa sulle acque di
Albenga fu profondamente rivisitata. Il combinato disposto dei decreti di De Fornari e Molassana
ridisegnò l’idrografia della piana e dei diritti d’uso delle acque per i canapai e i mugnai, cercando di
contemperare le esigenze della salute con gli interessi economici di un settore tra i più redditizi
La prassi comunemente seguita consisteva invece nel trattenere le acque stagnanti, che la sola evaporazione
indotta dalle temperature estive non era in grado di smaltire.
594
ASCA, Archivio D’Aste, 45.
595
Gli Ufficiali si componevano di due collegi di quattro persone, uno per il ponente della piana e uno per il levante.
Eletti a gennaio dal Consiglio generale di Albenga, restavano in carica un anno e disponevano della stessa autorità
giurisdizionale del Commissario per quanto riguardava l’emanazione di ordini e l’imposizione di pene, ASGe, Giunta
dei confini, 108.
596
L’articolo 8 dichiarava apertamente che «la special caosa della rovina di questo paese procede dalla difficultà, che
si ha in essiger esse tasse e nell’abusi di farle quando a un modo, e quando a un altro». Per aggirare le contestazioni
che impedivano l’avvio dei lavori, Molassana conferì l’autorità commissariale agli Ufficiali di imporre i tributi e
riscuotere coattivamente le somme presso i debitori, ASGe, Giunta dei confini, 108.
593
216
della città597. L’istituzione degli ufficiali e la limitazione della lavorazione di canapa e lino a ben
precise località del contado non diedero però i risultati sperati, al punto che nella seconda metà
del XVIII secolo la situazione era immutata, se non peggiorata. Quali le cause del fallimento nella
gestione delle acque albenganesi?
Un primo elemento consiste nel fatto che gli ufficiali alle acque non riuscirono a
raggiungere tutti gli scopi istituzionali fissati dai decreti. Le fonti pervenuteci raccontano di due
collegi perlopiù impegnati nel riparare gli argini distrutti dalle piene, o nella costruzione di nuove
palizzate a protezione dei prati e dei campi disseminati nel contado. Le denunce dei proprietari e
le iniziative d’ufficio avviavano un procedimento di verifica dello stato dei luoghi, cui seguiva la
proposizione di un progetto con la relativa stima delle spese da imputare ai proprietari frontisti. Si
trattò quindi di un’attività prevalentemente manutentiva, senza spunti di risistemazione idraulica
di più vasta portata e non priva di ostacoli nella riscossione della “tassa sulle acque”598.
La diffusa trascuratezza nella cura dell’ambiente fluviale non poteva essere sanata dai soli
ufficiali, perché alcuni fattori che aumentavano il rischio delle alluvioni erano riconducibili
all’abbandono di antiche pratiche ecologiche. Ad esempio fu più volte ricordato tra il Cinque e il
Seicento che l’eccessivo innalzamento del letto del Centa sarebbe stato evitabile qualora si fosse
ripristinato l’uso di ararlo, dissodando e rimuovendo parte del sedime per abbassare l’altezza
dell’alveo e facilitare lo scorrimento. Inoltre gli ufficiali dovettero procedere spesso contro coloro
che estendevano le superfici coltivate occupando l’alveo, favoriti in ciò dai lunghi periodi di secca
del Centa e degli altri corsi. Oltre all’occupazione di un bene pubblico, tale pratica non agevolava
per ovvi motivi la realizzazione di arginature stabili599.
Come riferisce il Mangini «Solo di canepa da fabricare le funi per navigli cava ogn’anno 740 scudi» cfr. M. QUAINI (a
cura di), Conoscenza, cit., p. 157.
598
Alcuni procedimenti di verifica dei danni e di riparazione o costruzione degli argini per la protezione dei campi
privati in ASCA, Magistrati diversi, 708, 709, 710. A fine Seicento Gio. Antonio Aschero rifiutò di pagare la tassa
dell’acqua perché le sue terre erano prese a livello. La scarna documentazione rimasta non permette però di
effettuare una valutazione statistica sull’incidenza delle opposizioni alla tassa. Nel 1691 il Senato fu poi informato da
Bartolomeo Riccio che, nonostante l’elezione degli Ufficiali «mancano bene la maggior parte di quelli li compongono
non solo di spontaneamente essercire il loro ufficio, ma ancora di non congregarsi alle chiamate», sebbene la rottura
degli argini di un canale tra San Fedele e Lusignano richiedesse un intervento di riparazione. Il governo affidò allora al
Commissario giusdicente di Albenga il compito di visitare il luogo e ripartire tra gli interessati la tassa, ASCA,
Magistrati diversi, 710.
599
Nel 1758 gli Ufficiali intervennero per alcune riparazioni agli argini della Carenda. Nel corso della visita, oltre a
rilevare che molti proprietari avevano di loro iniziativa praticato aperture negli argini, ordinarono che i frontisti
ripulissero l’alveo del fiume «con doversi anche tagliare, ossia smorrare parte delle ripe delle terre, che occupano, e
rendono stretto detto alveo». L’estensione dei fondi nelle aree golenali era abbastanza frequente, stando anche alla
relazione di Francesco da Nove, ASCA, Magistrati diversi, 709. Sulla relazione vedi anche V. ZUCCHI, Topografia storica,
cit.
597
217
Anche l’attività dei canapai stentò ad essere ricondotta alle norme dei decreti e diede
quindi luogo a conflitti con i proprietari dei mulini per l’appropriazione dell’acqua. Teoricamente
gli ufficiali avrebbero dovuto vigilare anche su questo aspetto, ma dagli atti di alcuni processi
celebrati nel corso del XVII secolo si evince che le prescrizioni di De Fornari e Molassana furono
spesso disattese dagli interessati600. Alcune controversie emblematiche originarono a Bastia. Un
processo si svolse nel 1608 davanti alla corte podestarile di Albenga tra un gruppo di notabili
proprietari di frantoi e mulini di Bastia e Cisano (Alessandro Costa, Gregorio D’Aste, Giobatta
Bossano) e alcuni «sciaiguatori» di canapa, tra cui figuravano cognomi altrettanto di spicco
(Giovanni e Guglielmo Trincheri, Antonio Vio, Giobatta Bruno), accusati di aver deviato le acque
verso i loro campi601. Dal sopralluogo condotto durante l’istruttoria emerse l’alto numero di fondi
irrigati grazie all’acqua sottratta dal canale, impresa facilitata dalla fitta rete di fossi minori che
attraversava la piana. Il processo, svoltosi secondo le forme del rito possessorio, si concluse con la
dichiarazione di manutenzione nel possesso degli attori. Nel 1665 furono i Sindacatori della riviera
di Ponente a comporre una nuova lite tra Gio. Antonio Peloso, proprietario di mulini e frantoi a
Bastia, e i canapai per l’utilizzo dell’acqua in uscita dalle ruote. Nel caso di specie la deviazione
verso i campi danneggiava i mulini di Leca, posti più a valle, e la decisione contemperò le diverse
esigenze introducendo la turnazione a giorni alterni, già contemplata dagli statuti di Albenga602.
Durante il Settecento non furono introdotte riforme amministrative volte a semplificare
l’intreccio di attribuzioni in materia di acque tra le magistrature cittadine, né a rivedere la
disciplina sostanziale, sebbene le esondazioni del Centa e l’avanzamento degli acquitrini non
avessero cessato di affliggere Albenga603. Era però abbastanza chiaro che difficilmente la comunità
sarebbe riuscita a darsi autonomamente norme nuove, per il peso politico dei soggetti interessati
Non giovò a tal proposito la concorrente competenza giurisdizionale del Podestà (sancita dal decreto De Fornari) e
degli ufficiali (istituiti da Molassana) per quanto riguardava gli illeciti commessi dai canapai ai danni degli acquedotti
dei mulini. Ricadeva senz’altro tra le cure degli ufficiali la repressione delle immissioni di acque inquinate nei «beudi»,
mentre per altre fattispecie la competenza rimaneva al Podestà, come giudice civile o criminale a seconda della
specifica natura dell’illecito.
601
In termini espliciti i canali dei mulini erano stati danneggiati da «certi sciaquatori de canapi, che hanno fatto presso
detta bearera in luoghi prohibiti dagli ordini fatti da M. Illustrissimi Signori Commissari del Serenissimo Senato,
prendendo l’aque sudette, e conducendole a detti sciaiguatori con rompere il canale, e ripe, e ciuze di dette bearere,
dal che restano dannificati in detti loro molini, che per mancamento di aque non possono più macinare», ASCA,
Archivio D’Aste, 45.
602
La sentenza, riconoscendo il diritto dei particolari di Bastia di servirsi dell’acqua per l’irrigazione nei giorni di
mercoledì e domenica, proibì però allo stesso tempo la costruzione di nuovi mulini. La sentenza fissò anche la quantità
massima d’acqua che i canapai potevano utilizzare nei giorni stabiliti, ASCA, Archivio D’Aste, 45.
603
Negli anni ’70 del secolo si consumò anzi un conflitto tra il Magistrato dei Pubblici e gli Ufficiali alle acque per il
ristoro dei danni causati dalle piene alle strade, a seguito dell’imposizione di una tassa di 800 lire per i lavori da parte
degli Ufficiali e contestata dal Magistrato, ASCA, Magistrati diversi, 711.
600
218
che si contrapponevano alle riforme. Non più rimandabili apparivano i lavori di regimazione e
arginatura del Centa, che avrebbero eliminato alla radice buona parte dei problemi ormai secolari
dell’albenganese. Nel 1751 sembrò essere giunto il momento della svolta. Sorta una lite tra il
Comune e il convento dei frati minori, a motivo della pretesa del Magistrato dei Pubblici di ripulire
un fossato in disuso da anni e che attraversava il giardino di clausura del convento, il Senato
ordinò all’ingegnere e cartografo Matteo Vinzoni e al figlio Panfilo di lasciare Pietra Ligure e
dirigersi ad Albenga per studiare la questione e redigere una pianta dell’intero bacino idrografico
del Centa. Nella lettera inviata a Genova in cui riassumeva i termini della controversia, il
Commissario di Albenga Lazzaro Viganego constatava che la causa delle inondazioni non era di
certo risolvibile con il ripristino di questo o quel fossato secondario, ma bisognava intervenire alla
radice e radicalmente:
«[Il fiume Centa] ha il letto quasi più alto della città medesima, epperò in tempo di gran pioggie allaga tutte le vicine
campagne, entra in città ed è di ostacolo non solo alle aque piovane, ed alle altre, che entrano per le porte il poter
sboccare fuori della detta città, oltre il danno che porta alla salute delli abitanti per la gran quantità di fango che lascia
per le strade. E però se non si rimedia all’origine del male con abassare il letto, e tenere freno con li dovuto ripari il
detto fiume, non ostante l’apertura di questo condotto la città sarà sempre inondata»604.
Al di là degli aspetti tecnico-ingegneristici, già esaminati da Quaini, la relazione stilata da
Vinzoni per il governo della Repubblica presenta alcuni spunti interessanti. Anzitutto l’ufficiale
genovese considerò i lavori da eseguire nella piana del Centa come tasselli coerenti di un generale
progetto di sistemazione idraulica della zona e respinse così sia la politica di piccolo cabotaggio da
sempre seguita dalle magistrature civiche, sia il disegno originato localmente di deviare parte delle
acque del fiume nell’Antognano605. Accanto alla costruzione di nuovi argini e palificazioni e alle
varie ipotesi di deviazione del corso, Vinzoni presentò come inderogabile l’abbassamento e la
pulizia dei condotti e dei fossi privati, misura che di certo avrebbe suscitato le contestazioni dei
ASGe, Archivio segreto, 1236.
La relazione è in ASGe, Giunta dei confini, 108. Nella lettera scritta il 28 agosto al governo, il cartografo notò che
«Questi Signori anno desiderio di fare de grandi lavori, e variare alveo al fiume, che per esseguirli vi si richiedono
parole, e denari, e non anno abbondanza che delle prime, le quali al solito de i luoghi otiosi, sono di continuo
contrasto, e con riguardo del respettivo particolare privato interesse», ASGe, Archivio segreto, 1236.
604
605
219
canapai606. Inoltre ripropose l’utilità di arare il letto del fiume, se necessario obbligando tutti i
maschi di età compresa tra i 17 e i 70 anni abitanti nella giurisdizione di Albenga.
Sotto il profilo giuridico-istituzionale, il colonnello allegò alla relazione una copia del
decreto di Molassana di un secolo e mezzo prima, in particolare per il metodo di riparto delle
spese. Conscio delle difficoltà di bilancio successive alla guerra di successione austriaca, Vinzoni
propose di chiamare a concorrere anche gli enti ecclesiastici. Un semplice auspicio, tuttavia,
poiché il governo non ebbe né la volontà, né poi il tempo per dare seguito al progetto vinzoniano.
Il fallimento nella gestione delle acque delle istituzioni albenganesi non è dunque da
imputare alla sola comunità locale, incapace di disciplinare l’uso delle acque e di provvedere alle
opere necessarie. Gli ufficiali non riuscirono ad imporre la prevalenza dell’interesse collettivo
sull’interesse privato dei singoli utenti. Il governo rispettò fino in fondo l’autonomia patrimoniale
della città convenzionata – nonostante l’erosione dell’autonomia politica e normativa condotta tra
XVI e XVII secolo – lasciandole in toto l’onere di fronteggiare i guasti prodotti dal Centa, ma la
sorte del progetto Vinzoni evidenziò i limiti di una simile impostazione e, indirettamente, la scarsa
reattività del Senato a fronte di un quadro ormai critico. Dopo più di trecento anni di alluvioni, il
governo avrebbe dovuto supportare la comunità facendosi carico anche finanziariamente della
risistemazione dell’alveo e agevolando una riforma delle magistrature locali sulle acque che
distinguesse meglio le competenze e munisse gli ufficiali di poteri più ampi. Ma i Collegi genovesi
optarono anche in questo caso per la conservazione degli equilibri esistenti con i centri del
Dominio.
Lo scavo consentiva di ricevere una quantità di acqua piovana maggiore, rendendo più difficile l’allagamento della
campagna. Pur senza citare direttamente i coltivatori di canapa, Vinzoni scrive: «Quindi è che li fossi non potendosi da
se mantenere scavati, e necessariamente dovendo interrirsi per le cause sopradette, oltre molte, che o l’ignoranza, o
la malizia permette, anno bisogno li fossi di temporanei, e replicati scavamenti», ASGe, Giunta dei confini, 108.
606
220
CAPITOLO VI
Dalle comunaglie al diritto del “Comune”
1) IL GOVERNO DELLE RISORSE COLLETTIVE IN UN TERRITORIO COMPLESSO: UN PARZIALE BILANCIO
1.a) Le risorse collettive liguri: la lunga resilienza di un modo di possedere
La Repubblica Democratica Ligure, sorta dopo il crollo della Repubblica oligarchica, avviò
un’inchiesta sulle condizioni demografiche ed economiche delle municipalità del nuovo Stato
tramite l’Istituto nazionale607. Il questionario richiedeva ai compilatori di fornire informazioni sullo
stato e l’utilizzo di comunaglie, boschi, acque e sull’esistenza di prati artificiali. Raccomandandosi
al Presidente dell’Istituto, il parroco di Mendatica Giuseppe Sciandini esponeva che:
«Non si costumano prati artificiali […] Vi sono comunaglie molte, a selva, a pascolo, il descriverne l’estensione non m’è
possibile. Le buone strade, ed una più grande popolazione renderebbero più utili le selve. Li pascoli comunali servono
al grande numero delle bestie locali. L’alpi di spettanza di questo Comune vengono affittate dalle attuali
Municipalità».
Le tinte non mutano se si esaminano le risposte di comunità site più a valle, come
Quiliano608. I risultati dell’indagine, sebbene non coprissero l’intero territorio regionale,
confermano però una linea di tendenza che nelle pagine precedenti è stata accennata più volte: la
resilienza sul lungo periodo degli usi civici e, in generale, delle comunaglie nell’ambito
dell’economia rurale delle comunità liguri. Per quanto sottoposte ad un processo di
ridimensionamento che vantava cause differenti, le aree boschive e le terre zerbide di pascolo e
coltivazione temporanea conservarono in generale un ruolo non secondario tanto sotto il profilo
del sostentamento dei non proprietari, sia come voce di entrata per i bilanci locali.
Vedi l’art. 17 della costituzione della Repubblica Democratica in Costituzione della Repubblica Ligure con le
successive leggi organiche, Genova, Stamperia nazionale, 1803, p. 9. L’Istituto entrò in funzione il 5 ottobre 1798. Sugli
istituti nazionali vedi L. PEPE, Istituti nazionali, accademie e società scientifiche nell'Europa di Napoleone, Firenze, 2005.
608
ASGe, Repubblica Ligure, 610. Sull’inchiesta vedi più in dettaglio C. COSTANTINI, Comunità e territorio in Liguria:
l’inchiesta dell’«Instituto nazionale»(1799), in Territorio e società nella Liguria moderna, Firenze, 1976, pp. 291-363.
607
221
L’agricoltura ligure mantenne perlopiù inalterati i suoi tratti fondamentali. Il terzetto ulivovite-agrumi assorbiva gran parte degli investimenti di capitale diretti verso il settore primario,
mentre la coltivazione dei boschi a castagno e in minor misura a nocciolo ammortizzò le
periodiche crisi cerealicole. L’orografia del territorio regionale d’altronde non offriva larghi spazi
per la diffusione dei prati artificiali o estese coltivazioni di riso o altri cereali e anche la regimazione
delle acque conobbe risultati contrastanti a seconda delle località609. Innegabilmente vendite e
occupazioni ridussero quantitativamente gli ettari di comunaglie disponibili, ma senza condurre ad
un impoverimento massiccio delle terre civiche.
Si è visto che i fattori alla base di tale ridimensionamento cambiarono a seconda della
localizzazione della comunità e della risorsa, delle caratteristiche dell’economia locale e dei
comportamenti dei gruppi interni alle comunità stesse. Il passaggio delle comunaglie dall’uso
comune alla proprietà privata mise in luce la spaccatura interna della società rurale, con
ripercussioni anche sul piano del diritto. La consuetudine non era infatti più in grado di assicurare
un’estesa uniformità di condotta tra i soggetti interessati e si rendevano necessari nuovi
strumenti, come i bandi campestri, spesso rivolti a difendere più i campi privati che i beni
comunali610. La pratica dei «roncamenti», un sistema di lunga rotazione con antichissime radici, fu
abbandonata da strati crescenti della popolazione in favore di coltivazioni stabili e di lunga durata,
associate alla cura dell’erba per il fieno e alla conseguente chiusura delle terre al pascolo brado
tramite recinzioni e muri611.
In alcuni casi si è riscontrata la penetrazione di capitali da centri limitrofi che ridisegnarono
l’aspetto delle campagne, come ad Albisola. Dal solo esame delle fonti archivistiche centrali, è
difficile ricavare un dato sulla frequenza di episodi simili. Di certo la presenza di proprietari
stranieri incise negativamente sulla riproduzione degli usi civici nel corso del tempo. Emblematico
è quanto accaduto a Cipressa e Lingueglietta, due piccole comunità dell’entroterra imperiese,
solite mettere all’incanto il pascolo invernale non solo sulle comunaglie, ma anche sui fondi privati
incolti o aggregati con alberi da frutto. Nel 1686 si levarono però le proteste da parte di un gruppo
Il fallimento della comunità albenganese nel domare la rete drografica naturale del Centa e dei torrenti secondari
può spiegarsi da un lato con l’incapacità politica di rendere effettive le regole stabilite nel corso degli anni, dall’altro
con la mancanza di capitali rivolti all’investimento in agricoltura, cfr. M. QUAINI, Per la storia del paesaggio, cit., pp. 3335.
610
A questo proposito sarebbe interessante stabilire, tramite un esame incrociato presso gli archivi comunali e
centrali, in quante occasioni i bandi campestri furono emanati a seguito di consistenti appropriazioni di comunaglie
per la difesa della proprietà privata. È verosimile che quanto accaduto a Castiglione, con la tardiva approvazione dei
bandi dopo decenni di usurpazioni, sia accaduto anche altrove.
611
Cfr. D. MORENO, Dal documento al terreno, cit., pp. 149-159.
609
222
di proprietari terrieri provenienti da Porto Maurizio e da Costarainera. I supplicanti contestarono
la ragionevolezza dell’uso civico di pascolo:
«Gli agenti della Cippressa e Lengueglia si sono compiaciuti vendere li herbaggi delle terre sì zerbide quanto aggregate
con ricavarne pochissima somma, e caosarne danno gravissimo, e massime agli alberi domestici delle persone
forastiere, perché nelle proprie invigilandovi gli huomini di dette ville, poco o niuno ne vengono a patire, e perché
simile vendita pare del tutto irragionevole, Bernardo Aquarone, Pantaleo Ricci, e molti altri del luogo del Porto
Maoritio, et il R. P. Gio Batta Gandolfo della Costa Rainera havendo molti poderi in quelle giurisditioni per non haver a
sentire danni irreparabili, vengono a supplicare humilmente VV. SS. Ill.me voglino restar servite ordinare che da detta
vendita o concessione di pascolo, restino escluse le terre aggregate de sudetti oratori, e che contra li dannificanti
possino instituire le accuse solite, o fare tutti quelli ordini, che meglio pareranno»612.
Davanti al Capitano di Porto Maurizio si confrontarono due interessi e due concezioni della
proprietà contrapposte: la conservazione del diritto di pascolo sui fondi privati, acquisito ab
immemorabili dalla comunità e condiviso con i centri vicini, e la volontà di proteggere la proprietà
dalla servitù collettiva della quale peraltro i convenuti non potevano avvalersi, non possedendo
bestiame. La richiesta di sottrazione dei propri beni allo ius pascendi era quindi finalizzata a
riqualificare secolari pratiche pastorali in danni dati, perseguibili dalla giustizia campestre. La
tradizionale facoltà di disporre di una singola utilità del terreno (l’erba) scindendola dalle altre
veniva ora rigettata da un gruppo di possidenti estranei alla comunità.
Altro carattere peculiare delle proprietà collettive liguri è l’indefinitezza della loro natura
giuridica. Le comunaglie non comprendevano soltanto risorse differenti dal punto di vista fisico e
ambientale, come anticipato, ma anche beni in senso giuridico che potevano rientrare tra le res
publicae in patrimonio o tra le res in publico usu. L’esatta collocazione di una risorsa in una delle
due categorie dipendeva dall’esito dei processi politici interni alla comunità stessa e molto meno
dall’operato del governo genovese, che non seguì l’esempio di Venezia o di altri Stati coevi
definendo una volta per tutte la fisionomia giuridica dei beni comunali. Una scelta che alla luce di
quanto illustrato, non può certo dirsi irrazionale, considerata la grande disomogeneità delle risorse
non solo dal punto di vista fisico-naturale, ma anche per il ruolo ricoperto nelle rispettive
economie locali.
612
ASGe, Magistrato delle Comunità, 305. Non è dato sapere come si concluse la controversia.
223
D’altronde la polivalenza del termine “comune” riferito ai pascoli era ben nota anche agli
stessi giuristi specialisti della materia. Fernandez De Otero, osservando la regolazione pastorale
spagnola, notò che la locuzione pascua publica comprendeva sia i pascoli destinati all’uso pubblico
e alla comune utilità dei residenti, sia quelli propriamente appartenenti all’ente, generatori di
lucro. Il giurista sottolineò le imprecisioni lessicali:
«Et quia eorum redditus, vel pecunia (quae ex eis provenit) pro communi commodo erogari debet, ideo publica
(quamvis abusive) etiam solent nominari cum vere, et proprie privatarum rerum effectus, et qualitatem sortiantur in
multis, ut in d. l. inter publica, ibi: Sed si qua sunt civitatum, velut bona, seu peculia servorum, civitatum, proculdubio
publica habentur, d. l. 10 ibi: Mas los fructos, y las rentas que salieren dellas, deven ser metidas en pro comunal de
toda la ciudad, y villa cuya fueren»613.
Più sfumata la posizione del giurista tedesco Heinrich Hahn. Introducendo gli usi di pascolo sui
fondi pubblici, avverte che comune è termine che «accipitur diversimode» e che diffusa è la
confusione tra comune e pubblico, sebbene nella pratica non si registrino differenze per l’esercizio
del pascolo. Attingendo abbondantemente alla letteratura giuridica italiana del secolo precedente
(Deciani, Menochio, Cravetta), l’autore tedesco riesamina il percorso che ha portato
all’assimilazione dei fondi comuni ai bona universitatum:
«Commune illud dicitur, quod non quidem ad universitatem, sed tamen ad plures pertinet dominos. Nos hic per
fundum communen cum Noe. Meurer intelligimus statuta et definita loca, in quibus vicanorum animalia pasci et
aestivari solent, caeteris inderdictis: et nuncupantur pascua vicanalia seu communalia vulgari sermone, alias pascua
universitatis. Universitatis enim nomine designatur vicanorum societas legitima, quae res communes habet, et
praecipue pascua circum villas et pagos, pro eorum sufficientia et necessitate, adeo, ut si quis pascua villis auferat,
necesse sit, ipsas cito in perniciem ruere»614.
Nella prassi, di cui il vulgari sermone era fedele specchio, i pascoli comuni erano divenuti a mano a
mano comunali, cioè di proprietà dell’organizzazione istituzionale (societas legitima) e non
A. F. DE OTERO, Tractatus de pascuis, cit., II, nn. 7-8, p. 4.
La distinzione principale risiedeva nella proprietà: «In eo tamen differunt, quod communium proprietas nullius sit,
fiatque accipientis l. quaedam ff. de R. D., publicorum autem proprietas sit universitatis, et non possit quoquam
privato occupari», H. HAHN, Dissertatio inauguralis de iure pascendi, Helmestadii, Typis Henningi Mulleri Acad. Typ.,
1654, cap. XI.
613
614
224
soltanto del mero aggregato di individui coabitanti nel medesimo luogo, ma da essi impiegati pro
sufficientia et necessitate.
Era dunque la pluralità di forme di utilizzazione, non definibile in assoluto e a priori, che
influenzava la gerarchia di diritti esercitabili sulle risorse, la cui attrazione nella sfera pubblica era
comunque incontestabile. Sia che si trattasse di fondi concessi dietro pagamento di un terratico
annuale o pluriennale, sia di boscaglie aperte al libero sfruttamento dei residenti di una o più
specifiche comunità, non si riscontrano fattispecie di “assenza” di proprietà: per quanto magari
sfumata dall’inerzia dell’ente locale, la titolarità pubblica delle comunaglie è una costante.
L’elasticità delle comunaglie fece sì che le stesse risultassero difficilmente comprimibili
entro gli schemi del diritto civile contemplati nel Corpus iuris. Lo prova la rilettura del possesso di
Viozene nella produzione di memorie e allegazioni tra genovesi e piemontesi nel XVIII secolo, dove
da atti che riconoscevano delle semplici facultates si facevano discendere le prove della proprietà
di una parte e delle servitù di legnatico e pascolo dell’altra615. Un’altra prova è data da una
controversia di portata più modesta che coinvolse quattro ville del Marchesato di Finale (Tovo,
Bardino, Magliolo e Gorra) contro la villa di Verezzi. Originatasi prima dell’acquisto del feudo da
parte di Genova nel 1713, la lite vide le quattro comunità difendere alcune selve della dorsale
appenninica del Melogno (non trasferite dal demanio marchionale alla Camera genovese) dai
pretesi diritti di sfruttamento degli uomini di Verezzi.
La vicenda conferma che dipanare l’intricata matassa degli usi civici esercitati in forza di
titoli legittimanti diversi (possesso immemorabile, lodi o privilegi antichi di secoli) e dal difficile
accertamento era impresa ardua. Le quattro comunità finalesi potevano vantare un lunghissimo
possesso dei boschi, concretizzatosi con l’esercizio degli usi civici da parte degli abitanti e anche di
valorizzazione patrimoniale tramite la periodica vendita del taglio dei faggi. La comunità di Verezzi
sosteneva invece di poter esercitare servitù analoghe grazie a un privilegio concesso dal Marchese
Giacomo Del Carretto nel 1253616. Nel 1780 Agostino Queirolo, giurista incaricato dal governo di
decidere, dichiarava «liberas, et immunes a servitute, seu quasi lignandi, fenandi, et pascendi, et a
quocunque alio jure, et servitute, vel quasi erga praedictam Communitatem, et Homines Veretii».
Un decreto del Senato sospese la sentenza in attesa della valutazione dell’interesse della Camera
Vedi ASGe, Giunta dei confini, 94, 95.
Oltre a garantire l’accesso al mercato del borgo in cambio di un tributo annuale, il Marchese garantì la sua
protezione agli uomini di Verezzi «tali modo, quod universi homines praedicti Loci Villae Veretii possint ire, stare,
venire, et redire per totam terram suam salvi, et securi in Personis, et rebus sicuti caeteri Homines praefati D.
Marchionis».
615
616
225
dei Procuratori e dell’accertamento della feudalità delle selve, ma va rilevata l’ampiezza della
formula usata da Queirolo per designare i diritti ingiustamente vantati da Verezzi. Protrattasi fino
alla caduta della Repubblica e ragionevolmente non conclusa, la vicenda conferma l’irriducibilità
delle risorse naturali della collina ligure ad una categoria unitaria di beni pubblici.
Ad avviso di chi scrive, si può ben parlare di resilienza delle comunaglie in Liguria come
“altro modo di possedere” largamente diffuso e capillarmente complementare con
l’individualismo agrario. Non mancarono contrasti, lo si è dimostrato, ma da essi non uscì vincitore
un modello, comunitarista o individualista che fosse. Si determinarono invece nuovi equilibri tra
allevamento e agricoltura (latamente intesa) influenzati dal paesaggio e dall’organizzazione
territoriale, così poco uniformi lungo l’arco regionale. La comunione delle terre andò certo
ridimensionandosi tramite appropriazioni e alienazioni ma la lunga durata delle comunaglie e degli
usi civici in Liguria è confermata anche dalla relazione dell’avvocato Giacomo Carretto, che ad
inizio Novecento riscontrava per il circondario di Albenga l’ininterrotta sopravvivenza nella
mentalità dei residenti di un regime alternativo alla proprietà privata:
«In quasi tutti i comuni rurali del circondario di Albenga ed in molti altri della provincia, da tempo immemorabile si
esercita l’uso del pascolo su luoghi comunali, ed alcuna volta promiscuamente su luoghi comunali e di privati; e
sebbene tale uso non abbia il nome né la veste di un diritto, è talmente antico ed immutato, e necessario che quasi
viene nella coscienza pubblica ad assumere le apparenze di un’incontestabile necessità di natura. Ne avviene perciò
che alla domanda se in un comune esistano diritti civici, si risponda negativamente; e quando poi chiedi se i cittadini
esercitino il pascolo su beni comunali, si rimanga sorpresi che di ciò alcuno possa dubitare»617.
Dal punto di vista di molti utenti, la bontà degli usi collettivi non era venuta meno neppure
durante il secolo XIX, ma esula dai fini della ricerca indagare l’evoluzione degli usi civici in Liguria
nel corso dell’Ottocento. È invece opportuno inserire la lunga sopravvivenza dei beni usati
collettivamente nel quadro delle istituzioni di gestione dei beni che, come anticipato nel capitolo I,
chiama in causa il ruolo dello Stato.
G. CARRETTO, Gli usi civici nelle Provincie di Cuneo, Genova e Porto Maurizio, Roma, 1908, p. 63, ma vedi anche la
relazione conclusiva con la classificazione di comunaglie e usi civici alla luce del diritto contemporaneo, pp. 133-157.
617
226
1.b) Successi e fallimenti nella gestione dei beni comuni tra Stato e comunità
Le politiche agrarie fisiocratico-liberali promosse da sovrani e ministri, con l’appoggio di
accademie e società d’agricoltura, cercarono di promuovere la piena proprietà della terra e il suo
libero sfruttamento, smantellando un’impalcatura secolare fatta di privilegi fiscali, diritti signorili e
diritti collettivi delle comunità locali. Le contraddizioni di questo processo di “liberazione della
terra” di portata europea furono molteplici, considerato che ciascuno Stato diede attuazione alle
riforme muovendo dalle proprie, originali, caratteristiche economiche, cercando allo stesso tempo
di modificare le strutture agrarie senza sconvolgere troppo i rapporti di dominio in vigore nella
società618.
Un caso esemplare fu proprio la Francia. Qui la monarchia si fece prima protettrice di
usages, droits et biens communaux usurpati illecitamente dai signori per l’allargamento delle loro
tenute, spesso tramite la produzione di titoli e documenti falsi ma fatti valere in giudizio. La
protezione dei beni comunali fu sancita da un editto del 1667 e poi dalla più nota ordinanza sulle
acque e foreste del 1669. Durante il secolo successivo però, sotto la doppia pressione delle
difficoltà finanziarie e delle crescenti richieste di riforma del settore, il governo incentivò un nuovo
attacco ai beni comunali, favorendo il dissodamento dei fondi incolti da parte della feudalità. Ad
una nuova ondata di abusi pose fine la legislazione rivoluzionaria che dopo aver agevolato il
recupero giudiziario dei communaux, ne ordinò la divisione a titolo gratuito e definitivo (senza
distinguere tra beni patrimoniali e goduti in comune) fino alla legge del 9 Ventoso dell’anno XII619.
Gli studi compiuti negli ultimi anni hanno dimostrato che anche le enclosures inglesi, il caso
più noto di sottrazione di fondi agricoli agli usi collettivi, si affermarono con difficoltà ed
opposizioni da parte delle comunità locali, fino alla decisa accelerazione delle c.d. enclosures
parlamentari inaugurate dal Public general enclosure act del 1801, seguito poi da altri
provvedimenti620. Anche in Italia alcuni progetti di riforma agraria furono intrapresi prima
dell’invasione francese, come nella Toscana di Pietro Leopoldo, in Piemonte o nel Regno di Napoli,
Il riformismo agrario generò tensioni e conflitti di varia intensità in tutto il continente, ben prima della Rivoluzione
francese, cfr. J. JESSENNE, N. VIVIER, Libérer la terre! Une Europe des réformes agraires (vers 1750-1850) ?, in Revue
d’histoire moderne et contemporaine, 64, 4/4 bis (2016), pp. 27-65.
619
Cfr. M. GARAUD, La Révolution, cit., pp. 369-386.
620
Cfr. M. TURNER, Enclosures in Britain, 1750-1830, London, 1984; E.P. THOMPSON, Customs in common, London, 1991,
pp. 97-126; L. SHAW-TAYLOR, The management of common land in the lowlands of southern England, circa 1500 to circa
1850, in The management of Common Land, cit., pp. 59-86.
618
227
ove l’ostilità verso servitù collettive e vincoli sui beni comunali si tradusse in misure legislative621.
Più vicino alla realtà italiana, si potrebbe citare la vicenda dell’editto delle chiudende nella
Sardegna sabauda di inizio Ottocento. La decisione di Vittorio Emanuele I di concedere ai
proprietari fondiari la facoltà di chiudere i terreni con muri o siepi nel 1820-1823 assestò un colpo
durissimo alla pastorizia – che per le caratteristiche del territorio era praticata nelle forme del
pascolo brado – causando sul medio periodo disagio sociale ed aumento della criminalità622.
Alla luce dei risultati forniti dalla ricerca e tenuto conto del metodo seguito per lo
svolgimento della stessa, restano da chiarire in conclusione due questioni. La prima riguarda
l’eventuale “fallimento” delle proprietà collettive: se andarono in contro a critiche circa la loro
inefficienza anche in Liguria, ciò fu dovuto al modello proprietario o ad altri fattori? In secondo
luogo la Repubblica intraprese qualche iniziativa di chiaro stampo liberal-fisiocratico?
Per quanto concerne l’incidenza di nuove idee sulla proprietà agraria, occorre richiamare in
parte le considerazioni svolte nel paragrafo precedente. La policoltura praticata sulle comunaglie,
spesso e volentieri associata al pascolo sui medesimi fondi, resistette fino alla caduta della
Repubblica, come la già citata inchiesta dell’Istituto nazionale mise in luce623. La composizione
delle colture (castagno, faggi, ontani, larici, cereali) e l’intensità dell’attività pastorale dipendevano
dalle pratiche agro-silvo-pastorali locali la cui definizione era del tutto rimessa alla comunità (in
senso amministrativo) o al gruppo sub-comunitario (frazione, villa).
Lasciando sullo sfondo il tema dell’evoluzione delle medesime pratiche nel corso del
tempo, si è dimostrato che sulla gestione complessiva delle risorse naturali impattarono diverse
variabili. Per quanto riguarda l’amministrazione del patrimonio boschivo, la contemporanea
presenza del bestiame – spinto da tempo a pascolare su territori permanentemente incolti per la
scomparsa del maggese – unita alla costante attività di abbattimento dei residenti pregiudicava in
molti casi la rigenerazione delle selve. Un disboscamento eccessivo metteva anche a rischio la
tenuta idrogeologica del territorio perché, riducendo la capacità di assorbimento dell’acqua
Cfr. G. CORONA, La propriété collective en Italie, in Les propriétés collectives, cit., pp. 157-174 ; EAD., Demani e
individualismo agrario, cit.
622
Cfr. A. MATTONE, Nel crepuscolo degli usi collettivi in Sardegna. Dall’introduzione della “proprietà perfetta”
all’abolizione dei diritti di ademprivio (1820-1865), in F. ATZENI, A. MATTONE (a cura di), La Sardegna nel Risorgimento,
Roma, 2014, pp. 481-589.
623
Cfr. D. MORENO, Dal documento al terreno, cit., pp. 205-217.
621
228
piovana dei versanti collinari e montani, aumentava indirettamente il flusso d’acqua delle fiumare
rendendo più frequenti le inondazioni624.
La conservazione delle risorse silvo-pastorali fu sfavorita anche dal loro costituire in
moltissimi casi dei confini naturali tra comunità. Il clima di ostilità faceva aumentare
proporzionalmente anche il numero degli abusi commessi a danno dei beni. Inoltre il contenzioso
giurisdizionale avente per oggetto la regolazione dei confini, il possesso di un sito o l’esercizio dei
diritti collettivi, imponeva alle casse comunali spese straordinarie, per far fronte alle quali si
ricorreva anche alla vendita o alla locazione di beni comunali.
Se si riesaminano i casi alla luce delle condizioni di sostenibilità di Ostrom, solo alcune
realtà liguri rispettano un numero sufficiente di condizioni per una gestione discreta. Quantunque
elaborata dalle comunità locali, la normativa prodotta risultava lacunosa sotto alcuni profili di
primario rilievo. Uno di questi era l’individuazione precisa del perimetro dei beni di comune
utilizzo e dei soggetti legittimati ad appropriarsi della risorsa. Se la confinazione precisa si riscontra
in alcuni statuti di area prevalentemente montana (Cosio d’Arroscia, Triora, alcune ville di Pieve,
Sanremo, i capitoli per l’erbatico di Ventimiglia), la sua assenza rivelava al momento delle
occupazioni l’estrema difficoltà per la comunità a rientrare in possesso delle comunaglie usurpate.
D’altra parte, salvo i beni comunali patrimoniali, per i quali il diritto d’uso era costituito mediante
un atto negoziale, molti usi civici traevano legittimazione da atti risalenti, corroborati dal lungo
tempo trascorso e difesi dalle comunità anche a distanza di alcuni secoli. Il carattere rigido,
definitivo di queste disposizioni mal si accordava con i cambiamenti sociali ed economici in atto. La
ricomposizione del conflitto in assenza di un intervento statale in grado di ridefinire la gerarchia
dei diritti d’utilizzo e le norme collegate, legittimandole, era pressoché impossibile.
Una considerazione va svolta anche riguardo agli stessi Parlamenti delle comunità
competenti a decidere sui beni comuni. Lungi dall’essere luoghi di manifestazione di un
comunitarismo unitario, al loro interno si riproducevano le divaricazioni tra gli interessi e i
comportamenti dei vari gruppi sociali. I casi di Vessalico e Castiglione sono più di tutti
paradigmatici. In fondo la naturale tendenza ad estrarre da una risorsa la massima utilità possibile
cercando di non sostenere i relativi costi era un fenomeno costante, spesso tollerato o compiuto
con la connivenza degli agenti locali. Ciò nondimeno si è riscontrata la capacità di molte comunità
di far fronte alle problematiche poste dalla gestione di risorse collettive, come Sanremo o Santo
624
Vedi G.M. UGOLINI, Utilizzazione del bosco, cit., pp. 115-120.
229
Stefano Magra, ricorrendo a differenti strumenti giuridici e soluzioni istituzionali più o meno
complesse per mantenere sufficienti livelli di coordinamento nell’azione degli utenti e scoraggiare
comportamenti individuali tipici del free rider.
Strettamente legato alla creazione delle regole è il tema delle forme di sorveglianza sugli
appropriatori. Le comunità liguri, alla pari delle comunità rurali del resto d’Italia, si munirono di
ufficiali locali (campari, rasperi) incaricati di vigilare sulle proprietà pubbliche e private e, in alcuni
centri, furono affiancati da ufficiali preposti alla distribuzione delle acque e alla riparazione di fiumi
e canali artificiali. La scelta ricadeva su uomini appartenenti alla medesima comunità, un elemento
che rende conforme la pratica antica con i principi ostromiani. Sull’indipendenza e l’adesione degli
stessi controllori alle regole in vigore le fonti gettano in diversi casi più di un’ombra625.
La scarsa irreprensibilità dell’operato delle guardie campestri era nota anche al governo.
Relazionando i Collegi sui danni commessi nella Bandita boschiva di Sassello, i Procuratori camerali
delegati ai boschi Antonio Grimaldi e Gio. Pietro Serra citarono il rapporto dei Sindacatori della
riviera di Ponente dal quale emergeva un quadro alquanto grave che merita di essere riportato per
intero:
«La causa principale, da cui procedono simili, e tanti danni, restringersi alla poca vigilanza di quei campari, perché se
bene i danni sono moltissimi, poche sono le denoncie, che si fanno, e che quantonque le gride, et ordini per
osservanza della legge in questa materia pubblicata, che impone pena a transgressori etiam sino ad anni cinque di
galea, possino dimostrare il rigore si vuole, ad ogni modo alcuni che vengono accusati sfuggon la pena, o è sì tenue,
che non li intimorisce. Riflettano pure loro Eccellenze che li campari fanno l’accuse, quando dubitano esser scoperti di
non compire al loro ufficio, o perché sono complici, e partecipi di tali danni, come hanno riconosciuto, da processi che
ultimamente loro Eccellenze ordinarono a quel Magnifico Podestà impinguarsi, non essendo state fatte che le sole
denuncie. E che li detti campari siano partecipi de danni ne scrive anche l’illustre Governatore di Savona,
commissionato a far rivedere li danni, e visitare li suddetti boschi»626.
Traccia di casi simili si trova talvolta negli archivi locali. Un caso, ad esempio, è il processo istruito nel 1675 contro
Gio. Battista Mallarino, guardiano del bosco di Ronco di Maglio nel Marchesato di Finale per «haver tagliato, et fatto
tagliar alberi d’abeto di quelli del Boscho di Roncho di Maglio, et contravenuto al suo ufficio di Guardiano e custode
dello stesso». Si apprende che il Fiscale ne ordinò la scarcerazione dopo 4 mesi di detenzione, ma non ci è dato sapere
come terminò la causa (ASCFL, Camera, 57). Da Vernazza nel 1626 si informa il Magistrato delle Comunità che i
campari, eletti per vigilare sui boschi e terre comuni e sulle coltivazioni private, trascurano il loro incarico per dedicarsi
alla pesca, nell’indifferenza degli agenti locali (ASGe, Magistrato delle Comunità, 138).
626
ASGe, Camera di governo e finanza, 606.
625
230
Il sistema giurisdizionale di controlli diffusi su più livelli di governo scontava più di un
difetto nel prevenire la cattiva condotta degli agenti forestali, potendo al massimo intervenire a
valle con l’istruzione di processi per danni, quando il numero degli illeciti non perseguiti
oltrepassava la soglia di tolleranza. Quello della custodia dei boschi fu comunque un problema che
il governo vide sorgere un po’ dappertutto, tanto per risorse possedute da secoli quanto per altre
di più recente acquisizione, come quelle del Marchesato di Finale627.
Le diffuse inefficienze del sistema di controllo, lamentate anche presso realtà
(relativamente) virtuose come Sanremo o Triora, erano spia di un generale sfaldamento delle
istituzioni di gestione delle risorse collettive? Fornire una risposta certa è assai difficile, dovendola
fondare soltanto sulle fonti scritte. Sembra però ragionevole affermare che la scelta di guardie
inadeguate rendeva inutili anche le normative più stringenti, incentivando gli altri fruitori del bene
a tenere comportamenti illeciti (e non cooperativi). Anche la legislazione posta dalla Repubblica
aveva una parte di responsabilità nel determinare le possibilità di scelta di capaci sorveglianti da
parte delle comunità. Gli Anziani di Ceriana nel 1760 chiesero ai Collegi la facoltà di derogare al
privilegio di ineleggibilità alle cariche comunali di cui godevano gli iscritti alle liste dei soldati scelti:
le persone migliori erano tutte iscritte e quelle che rimanevano «erano le meno capaci, meno
sincere e più inferiori all’adempimento de’ loro doveri»628.
Insomma se anche in Liguria le proprietà collettive mostrarono segni di “fallimento”
rispetto all’obbiettivo di allocare meglio della proprietà privata le risorse, ciò pare addebitabile più
al mancato rispetto di alcuni dei principi operativi individuati da Ostrom che al modello
proprietario in sé. Le comunità dovevano far fronte ad una serie di problemi correlati alla
conoscenza dei comportamenti individuali da parte di decisori e controllori e alla sintesi tra
interessi differenti che la stessa struttura istituzionale degli organi politici della prima modernità
rendeva talvolta di difficile soluzione. Rispetto ai principi ostromiani vi erano quindi delle
condizioni oggettive che ne pregiudicavano il pieno dispiegamento.
Venendo alla politica tenuta dalla Repubblica, si è più volte posto l’accento su cosa il
governo genovese non fece: non acquisì compiutamente al proprio demanio tutte le risorse
Scrivendo il 19 marzo 1749 il Governatore di Finale Sauli informò la Camera che la richiesta di individuare un
soggetto cui affidare la custodia del bosco Ronco di Maglio – selva al centro di un conflitto d’uso con gli uomini di
Pallare fin dai tempi della dominazione spagnola – non poteva essere soddisfatta in tempi brevi. Il sondaggio
effettuato dall’economo dell’Impresa generale finalese aveva dato esito negativo: «Mi segna non esservi persone da
potersi fidare, che vogliano prendere tale incarrico, e ne pure con qualche mercede».
628
ASGe, Camera di governo e finanza, 608.
627
231
forestali più importanti della regione, non fornì una regolazione quadro sulle comunaglie se non
generali divieti di usurpazione né si intromise nella disciplina delle acque se non espressamente
chiamato in causa dalle comunità. Ma a giudizio di chi scrive non è possibile inferire da queste
assenze anche la mancanza di una politica imperfetta ma coerente nelle sue linee essenziali sul
punto.
Le condizioni di partenza poste da un Dominio disomogeneo giuridicamente ed
economicamente, discontinuo dal punto di vista territoriale e costituito da un gran numero di
comunità dell’entroterra che fondavano la propria autosufficienza anche sulle risorse collettive
sconsigliavano interventi unilaterali di modifica dei diritti di uso e godimento. Tuttavia sotto la
triplice spinta del debito, delle questioni di confine e delle trasformazioni agricole le pratiche di
appropriazione e utilizzo dei beni si allontanarono dalle regole formali sancite da statuti o
sentenze. Secondo Ostrom la mancanza di leggi nazionali relative alle risorse collettive non
comporta l’assenza di regole effettive, perché gli utenti si daranno comunque regole informali
(operative nel lessico ostromiano) per gestire la risorsa. Però, ricorda Ostrom:
«In molti contesti caratterizzati dall’uso di risorse collettive, le regole operative seguite dagli appropriatori possono
differire considerevolmente dalle norme legislative, amministrative e giurisprudenziali. La differenza tra regole
operative e leggi formali può comportare solo il colmare le lacune rimaste in un ordinamento giuridico generale. Al
limite, le regole operative possono assegnare de facto diritti e doveri che sono contrari ai diritti e doveri de jure di un
ordinamento giuridico formale»629.
Da questa prospettiva si coglie allora lo sforzo di mediazione politica volta a governare la
modificazione delle regole e dei diritti di sfruttamento con il concorso delle stesse parti
interessate. Così facendo la Repubblica conservò sulle comunaglie un ruolo di semplice custode, in
virtù della sovranità territoriale, spendendosi però per evitare che l’esito di una serie di processi
economici fosse determinato dai soli rapporti di forza interni delle comunità stesse. Magistrato
delle Comunità e Giunta dei confini, ciascuno per il proprio ambito di competenze, cercarono di
creare uno “spazio pubblico” di confronto tra gli attori coinvolti per colmare lo iato tra regole
formali e condotte concrete, individuando caso per caso la publica utilitas prevalente.
629
Cfr. E. OSTROM, Governare i beni collettivi, cit., p. 81.
232
In questo spazio pubblico gli ufficiali e le magistrature genovesi si servirono spesso
dell’arbitrium come mezzo per la costituzione di situazione giuridiche, talvolta derogatorie delle
consuetudini tradizionali e delle normative già in vigore. Esso era necessario sia per colmare i
contrasti capaci di paralizzare i processi decisionali degli organi locali sia perché i rimedi classici
offerti dai riti giudiziari possessori non erano in grado di addivenire in tempi ragionevoli alla
conclusione della controversia. La funzione arbitrale esercitata dai giusdicenti e Commissari
delegati dal Magistrato o dalla Giunta non può essere quindi declassata a sintomo di arretratezza,
bensì come un metodo di riconduzione entro forme legittime e legali delle trasformazioni in corso
in campo economico e delle contese tra comunità o tra gruppi, che fosse allo stesso tempo
rispettoso dell’intelaiatura costituzionale dello Stato genovese. A ciò vanno ricondotte sia
l’approvazione dei capitoli campestri, svolta dal Senato ma approvati dai Parlamenti locali alla
presenza o con l’avallo dell’ufficiale genovese, sia la presenza degli stessi ufficiali (in chiave
certificatrice) in occasione delle investiture o del riposizionamento dei termini di confine.
Non ci furono ovviamente soltanto successi, perché in diversi casi neppure l’intromissione
del potere centrale portò ad un risultato soddisfacente. Lasciando da parte alcune controversie
legate a dissapori tra Genova e la Savoia (Viozene o il bosco del Cuneo a Sanremo), in altre
circostanze l’equilibrio raggiunto fu o criticato dalle stesse comunità (consorzio dei mulini tra S.
Stefano e Ponzano) o alla lunga meno incisivo di quanto auspicato (riforma dei regolamenti sulle
acque ad Albenga). Si è tuttavia riscontrata una generale direzione politica del Magistrato delle
Comunità nel senso della conservazione (nei limiti del possibile) degli usi civici e dei beni comunali
a vantaggio delle popolazioni locali.
In particolare la gestione delle acque evidenziò i limiti che uno Stato d’antico regime a base
ancora fortemente cittadina scontava. I progetti di canalizzazione del Magra e del Centa, che
avrebbero condotto ad un più razionale utilizzo delle acque, caddero nel vuoto per motivazioni
diverse. Soprattutto il caso del Centa mise però in luce che una gestione ottimale di un fiume così
problematico non poteva basarsi soltanto sulla rivisitazione delle regole d’uso dell’acqua, ma
richiedeva anche degli investimenti il cui totale addossamento alla comunità ingauna era
insostenibile o politicamente improponibile, come ventilato da Vinzoni. Ad ogni modo la netta
separazione amministrativa e finanziaria tra Stato e comunità non favoriva la presa in carico da
parte della fiscalità genovese delle spese necessarie per realizzare l’opera. Ostava anche la
233
congiuntura, con i patrizi intenti a discutere di accorpamenti delle magistrature e di riduzione delle
uscite, viste le condizioni del bilancio dopo la guerra di successione austriaca630.
Resta infine da chiedersi se le nuove idee influenzarono in qualche misura la politica di
amministrazione dei beni pubblici seguita dal ceto di governo della Repubblica. Se è vero, come
sostenuto da Bitossi, che il sistema politico genovese non poteva permettersi una politica
riformista eccessivamente audace – e questo limite diventò ancor più evidente dopo il 1789 – è
indubbio che un vocabolario politico d’avanguardia, coerente con il movimento dei Lumi,
risuonasse anche nelle sedute dei Consigli della Repubblica, sebbene privo di mire destabilizzanti
di un assetto di governo che si reggeva da duecento anni. Così, in mezzo a più ampie discussioni
sulla riforma giudiziaria per il superamento delle Rote e sulla politica annonaria, i Collegi decisero
di mettere mano anche alla disordinata materia dei boschi. I malanni di una gestione pubblica
incapace di controllare effettivamente l’aderenza alle prescrizioni impartite dai Deputati camerali
ai boschi faceva propendere una certa parte del patriziato verso la privatizzazione delle selve.
Di affitto o concessione a livello perpetuo dei boschi pubblici si era cominciato a parlare già
nel 1721, ma alla Camera fu opposto il danno che le comunità ne avrebbero ricevuto per il loro
sostentamento. L’anno dopo si ritentò inserendo nel pacchetto anche i mulini, i frantoi e gli altri
immobili camerali ma senza successo, e non migliore fortuna ebbe un terzo passaggio in Maggior
Consiglio nel 1738. Quasi un trentennio più tardi, per mettere in campo riforme di qualsiasi segno
occorreva disporre di un quadro aggiornato sullo stato di conservazione delle foreste pubbliche e
sugli aspetti giuridicamente più rilevanti per ciascuna di esse. Lavoro affatto semplificato dalla
confusione e dispersione che regnavano sovrane nella documentazione relativa.
I Coadiutori camerali decisero il 10 gennaio 1766 di affidare la stesura di una dettagliata
relazione ad Alerame Maria Pallavicino, che presentò il risultato delle sue fatiche il 12 marzo 1767.
Pallavicino mise mano alla grande quantità di lettere, relazioni di visita di giusdicenti e Sindacatori
di riviera, scritture del Magistrato delle galee e di altri uffici per offrire una sintesi chiara ai
Cfr. C. BITOSSI, La repubblica è vecchia, cit., pp. 153 e ss. Interessante notare che proprio nel manoscritto di
Gualberto De Soria, analizzato da Bitossi, si proponga l’istituzione degli Edili rustici, incaricati di sovrintendere alle
strade di campagna, ai ponti e al regolamento di fiumi e torrenti, assistiti da architetti e periti idraulici. Più in generale,
la consapevolezza che dal Dominio, specie la riviera di Ponente, non si potessero ottenere maggiori entrate fiscali era
condivisa da larga parte del patriziato, ibidem, pp. 560-566. La visione municipalistica del governo dell’economia ligure
non era comunque un’eccezione cfr. F. FRANCESCHI, L. MOLÀ, Stati regionali e sviluppo economico, in Lo Stato del
Rinascimento, cit., pp. 401-420.
630
234
Collegi631. Il pensiero era sempre rivolto al fabbisogno dell’arsenale militare e al pesante
indebitamento della Camera, pertanto non deve stupire che la stessa relazione sia “parziale”. Essa
restituisce infatti solo le informazioni utili per l’industria navale, (qualità della vegetazione,
distanza delle macchie dal mare e lo stato delle vie di comunicazione) sorvolando sugli altri usi
boschivi ed è dichiaratamente finalizzata a gettare le basi per una decisa privatizzazione del
patrimonio forestale632.
La relazione diede conto di nove boschi pubblici situati a Levante e diciassette a Ponente
(Oltregiogo compreso), che rendevano annualmente 3922.6.4 lire in virtù di affitti e contratti di
livello o enfiteusi. Una somma giudicata spaventosamente modesta dal relatore, considerata la
potenziale ricchezza del patrimonio silvestre di cui Genova disponeva ma che andava
impoverendosi quotidianamente633. Non erano ovviamente contemplati gli introiti di cui
beneficiavano esclusivamente le comunità locali.
I Coadiutori camerali esortarono il governo a prendere atto del fatto che le misure di difesa
adottate in passato (nomina di campari, militarizzazione di alcuni boschi con corpi di guardia)
avevano sortito gli effetti esattamente opposti a quelli auspicati. In verità la missione era resa
L’introduzione della relazione sulla pratica merita di essere riportata per supportare quanto detto in precedenza
circa l’approccio non più localistico alla materia forestale: «Avendo considerato gli Illustrissimi et Eccellentissimi
Diputati alla cura de pubblici boschi per avere una piena cognizione di tutto ciò, che si conviene per raggion della loro
obbligazione essere in primo luogo necessario avere sotto gl’occhi un registro intiero in cui siano descritti i boschi
tutti, e distintamente primieramente quelli della riviera di Levante, e successivamente gl’altri della riviera di Ponente
come altresì quelli di là da Giovi con la loro estensione, circonferenza, confini, quantità circa, e qualità degl’alberi che li
compongono e loro distanza dal mare, et altre particolarità degne per saputa, ad ogetto di potersi valere
all’arberatura de medesimi per la provista del Magistrato dell’Arsinale nella fabbrica de scaffi delle galee, come per il
lavoro continuo che ne sta facendo il prefatissimo Magistrato dell’artigliaria, e per gl’altri pubblici lavori onde si sono
applicati da molto tempo in qua ad averne le più individuali notizie da Magnifici Giusdicenti con moltiplicità di lettere
loro scritte. Mentre per lo passato non s’era fatto alcun libro in cui si facesse una particular mentione di detti pubblici
boschi», ASGe, Camera di governo e finanza, 608.
632
Per fare solo un esempio, la relazione non cita, se non con un brevissimo cenno, all’alimentazione delle ferriere che
interessava i boschi del Marchesato di Finale. La relazione sul Ronco di maglio si conclude infatti così: «Di faggio ve ne
sono poche da far remi, et altre per il più non atte ad altro, che a far carbone», ASGe, Camera di governo e finanza,
608. La relazione si compone di varie parti: un primo blocco (“Pratica dei boschi”) contiene il testo del referto, nutrito
di rimandi alle fonti documentarie consultate dal Pallavicini. Da esso fu ricavato un “Ristretto” con l’elencazione dei
boschi comunità per comunità, partendo da quelle di Levante, e una “Nota del reddito attuale” dei boschi camerali
concessi in affitto al 1767. Infine è presente la proposta di riforma avanzata dallo stesso Pallavicino con i verbali di
alcune votazioni consigliari. In ASGe, Archivio segreto, 1063, il fascicolo n. 74 contiene il testo della relazione e gli
articolati sottoposti alla votazione del Consiglio in più sessioni, con i riassunti degli interventi in aula di alcuni
Magnifici.
633
Significativo questo passaggio in chiusura della relazione: «La Republica intanto, sebbene padrona di un cospicuo
fondo, altro reddito in oggi non ne ricava, che quello di annue L. 3982.6.4, come risulta dall’annesso foglio segnato B,
e può quindi considerarsi padrona di un fondo poco meno che infruttuoso, quale anzi va sempre più deterriorando per
le distruzioni, usurpazioni, e smembramenti, che ne fanno le Communità, ed i particolari, tanto nazionali, che esteri,
senza che chi presiede al Governo ne abbia notizia, o avendola possa verificarli, o impedirli», ASGe, Camera di governo
e finanza, 608.
631
235
assai ostica dalla stessa conformazione del territorio ligure: larga parte delle foreste confinava con
i «popoli degli esteri Dominii» che si aggiungevano ai sudditi del Doge nel disboscare senza
controllo, per necessità o nell’ambito di micro-conflitti locali. Vetrerie e ferriere «a spese del
Pubblico consumano ogni sorte di arboratura in detti boschi», mentre le occupazioni abusive a
scopo agricolo avevano modificato profondamente l’aspetto del paesaggio che «in oggi
comparisce diverso, e più non distinguendosi l’antica qualità, estensione, e confine, si confonde il
terreno di pubblica spettanza con quelli de’ particolari, in pregiudizio anche gravissimo del
Territorio della Repubblica»634.
La riforma da adottare doveva tenere conto delle caratteristiche dei singoli boschi e della
loro vicinanza al mare. I boschi situati alle pendici alpine del profondo entroterra – dove i costi di
trasporto avrebbero superato i benefici – e quelli privi di vegetazione utile per la cantieristica
potevano essere alienati o locati perpetuamente635. Per gli altri bisognava valutare la fattibilità di
strade di collegamento con la costa, se assenti. Per l’attuazione del progetto si propose
l’istituzione di una nuova Deputazione di cinque membri, che avrebbe dovuto tenere un proprio
registro di scritture su cui annotare investiture, debitori morosi e condanne, nonché un fondo di
tipi geometrici dei boschi, tutto allo scopo di evitare il perpetuarsi del caos burocratico636.
Lo strumento scelto per la stipula dei contratti di vendita quanto di affitto o enfiteusi fu
l’incanto pubblico e per le locazioni perpetue era obbligatorio prestare un’assicurazione sul
pagamento dei canoni annui. A tutela dei boschi e degli interessi fiscali furono formulati alcuni
indirizzi, come l’indivisibilità del bene tra gli eredi dell’enfiteuta o la predisposizione di generali
ASGe, Camera di governo e finanza, 608. Il ronco, vale a dire il taglio e il dissodamento di fondi boschivi per la
semina, fu bersaglio di critiche crescenti tra XVIII e XIX secolo. Il funzionario forestale Agostino Bianchi nelle
Osservazioni sul clima, sul territorio e sulle acque della Liguria marittima edite nel 1817 bollò come «cattive pratiche
della nostra Agricoltura» la semina di cereali negli uliveti e nei vigneti, il pascolo caprino nei boschi e la semina vaga
del ronco. Il concorso di queste pratiche, spogliando le montagne del loro manto forestale, contribuiva alla loro
erosione portata da venti e piogge, cfr. G.M. UGOLINI, Utilizzazione del bosco, cit., pp. 65-70. La compromissione dei
boschi fu, come già detto, un problema generale non solo italiano. A titolo comparativo per lo stato delle foreste e la
legislazione settecentesca a loro difesa nel Regno di Napoli vedi G. POLI, Una risorsa insidiata: la presenza dei boschi
nel Mezzogiorno d’Italia durante l’età moderna, in S. CAVACIOCCHI (a cura di), L’uomo e la foresta. Secc. XIII-XVIII,
Firenze, 1996, pp. 533-550, G. CORONA, Demani ed individualismo, cit., pp. 104-128. Per la Francia una compressione
dei diritti d’uso fu stabilita in Lorena dall’amministrazione forestale D. BERNI, L’action de l’administration forestière
Lorraine au XVIIIe siècle, in Terre, forêt et droit, cit., pp. 69-88.
635
Con riserva per i secondi di proibire comunque il taglio di roveri, faggi e altri alberi idonei qualora fossero stati
piantati dal conduttore/enfiteuta.
636
La Deputazione avrebbe avuto il compito di dedicarsi alla «ricognizione di detti boschi, e terreni, assumerne tutte le
più sincere e distinte ricognizioni, e passar poi o alla loro vendita, o alla locazione perpetua, o alla formazione delle
strade ove la spesa potesse venir compensata dal beneficio de legnami da estraersi, e provedere in decorso di tempo
a tutto ciò che fosse necessario». La proposta suggeriva di porre come presidente del nuovo collegio uno dei
Procuratori, con due membri del minor Consiglio e due altri patrizi, anche minori di 27 anni, assistititi da uno dei
cancellieri della Camera stessa, ASGe, Camera di governo e finanza, 608.
634
236
obblighi di conservazione della selva e di incremento della vegetazione, specie per le zone di
confine. L’indicazione di prescrizioni più dettagliate sarebbe stata poi rinviata ai singoli atti di
concessione, il mancato rispetto dei quali avrebbe determinato la risoluzione del contratto.
La flessibilità dell’impostazione adottata da Pallavicino nella sua relazione per i Coadiutori
emerse anche a proposito del nodo più spinoso dell’intera materia, quello su cui le precedenti
proposte erano cadute: il trattamento da riservare agli usi civici delle comunità. Se lo scopo
dell’intera manovra era quello di assicurare una migliore conservazione delle foreste rendendo
certi confini fisici e titoli giuridici di appartenenza in capo ai privati, esso non cozzava forzatamente
con il mantenimento di aree sottoposte all’uso collettivo. Era anzi l’occasione propizia per fare una
volta per tutte chiarezza sui diritti di proprietà vantati dalle comunità:
«E siccome alcune Communità povere si trovano in precisa necessità per la loro sussistenza di prevalersi de boschi
pubblici per pascolo de bestiami, e taglio di legna a proprio uso, potrebbe da chi fosse incombenzato previe le
opportune informazioni assegnarsi loro o tutto il terreno o porzione di esso, entro certi limiti, con vendere, o affittare
il rimanente. In questa guisa rimarebbe proveduto alle indigenze de Popoli senza continuarsi l’odierno gravissimo
disordine di distrugersi a man salva tutto l’intiero bosco sotto l’amparo, e pretesto delle urgenze comunali. Per quelle
Communità poi, che pretendono la spettanza in proprietà di qualche bosco potrebbe autorizarsi lo stesso Tribunale ad
esaminare il gius, che possa loro competere sentito il M. Sindico Camerale, quindi farne quelle dichiarazioni, che
stimasse di giusticia»637.
La proposta fu approvata dai Collegi che l’otto aprile 1767 diedero ordine di redigere la
minuta dell’articolato per avviare l’iter in Minor Consiglio638. La discussione apportò precocemente
emendamenti di rilievo. Sparì la Deputazione proposta da Pallavicini e la competenza fu assegnata
ai Coadiutori camerali stessi, malgrado la loro dichiarata indisponibilità. Gli introiti delle alienazioni
sarebbero andati a ripagare il debito di tre milioni gravante sull’erario e i boschi siti entro le due
miglia dai confini non potevano essere ceduti a stranieri ma esclusivamente a cittadini della
Repubblica, preferendo comunque la cessione alle comunità stesse se avessero avuto i mezzi per
acquistarli. Così modificata, la legge non convinse comunque un numero sufficiente di Magnifici:
ASGe, Camera di governo e finanza, 608.
Il governo apportò alcuni aggiustamenti al testo base, estendendo la politica di alienazione a tutti gli immobili
camerali e precisando che qualsiasi contratto di vendite o enfiteusi perpetua dovevano essere approvati con 4 voti
favorevoli su 5 della nuova Deputazione.
637
638
237
gli 87 voti favorevoli (52 i contrari) erano lontani dalla maggioranza qualificata e il Consiglietto
decise di rinviarne la discussione ad un’altra sessione.
La proposta fu riassunta tra l’aprile e il maggio 1769 e le minute di cancelleria ci offrono
alcuni spunti interessanti per comprendere come alcuni patrizi si approcciarono al problema.
Ambrogio Doria ad esempio affermò che i boschi non erano «materia di una legge», considerate le
peculiarità fisiche e giuridiche di ognuno di essi. Giacomo Brignole e Gio. Agostino Imperiale
ribadirono, forse un po’ pleonasticamente, la necessità di separare i fondi su cui le comunità
esercitavano gli usi di pascolo e legnatico da quelli alienabili ai privati. Imperiale tuttavia aggiunse
una considerazione degna di nota a proposito delle conseguenze ambientali della scelta
privatizzatrice: la probabile messa a coltura dei boschi avrebbe reso più fragile il territorio,
incrementando i rischi di frane e alluvioni639. Nonostante il recepimento degli emendamenti
suggeriti durante la discussione, l’esito del voto non cambiò. È chiaro tuttavia che il favore verso la
proprietà privata dei boschi non assumeva – almeno nelle idee di chi prese la parola – una
dimensione totalizzante: la cessione di numerosi boschi pubblici non doveva pregiudicare la
conservazione degli antichissimi usi civici delle comunità640.
I diversi atti di concessione in affitto o enfiteusi contenuti nelle filze d’archivio tra gli anni
1760-1797 paiono confermare che la scelta privatizzatrice espressa dalla relazione Pallavicino non
fu un canto del cigno641. Non è questa la sede per un esame approfondito dei diversi contratti, ma
Dopo aver ricordato che alcuni uomini delle valli savonesi estraevano liberamente dal bosco camerale legname di
castagno e brughi con cui alimentavano anche le fabbriche di maiolica, l’intervento di Imperiale prosegue: «Che
bisogna riflettere che vendendosi i boschi o dandosi in enfiteusi saranno subito ridotti in coltura, e le pioggie dirotte
porteranno necessariamente l’alzamento del letto de’ fiumi, e torrenti, e conseguentemente l’inondazione delle Città,
luoghi e borghi nelle riviere, e non potersi trascurare un rischio così grave», ASGe, Archivio segreto, 1063. Col senno di
poi, considerazioni ancora attualissime.
640
Sia la relazione sia le minute delle discussioni non fanno uso di termini giuridicamente impegnativi come
“demanio”, “proprietà” o altri, ma la sostanza consiste comunque nel bilanciare i poteri dispositivi del sovrano sul
patrimonio appartenente allo Stato vincolandoli al soddisfacimento di certi bisogni. Le circostanze legittimanti
l’alienazione dei pubblici fu oggetto di lunghe riflessioni da parte della cultura giuridica di diritto comune. In Francia
esse furono chiaramente enucleate solo nel XVI secolo e divennero una loi fondamentale del regno: solo in caso di
finanziamento di spese belliche e di costituzione di un appannaggio per l’erede maschio era possibile cedere a terzi
beni demaniali. I meccanismi di controllo elaborati non solo oltralpe furono spesso inefficaci e in molti casi prevalsero
deroghe ed eccezioni. Sulla formazione del principio di inalienabilità del demanio in Francia G. LEYTE, Domaine et
domanialité publique dans la France medievale (XII-XV siecles), Strasburgo, 1996. Per una comparazione tra Francia e
Savoia vedi F. A. GORIA, Claudio di Seyssel e i beni demaniali, in Pouvoirs et territoires, cit., pp. 169-179
641
Nel 1750 fu messo all’asta il taglio di ampie porzioni dei boschi di Monte Rotondo, del Bando e di Rinegro a
Calizzano (Marchesato di Finale), ASGe, Camera di governo e finanza, 608. Parti dei boschi di Ovada e Sassello erano
già da tempo oggetto di enfiteusi e concessioni a livello, ma nel 1789 fu riformato il regolamento destinato agli
enfiteuti con l’obiettivo di risolvere la cronica morosità degli affittuari. Nel 1788 fu il bosco di Tomena (Triora) ad
essere messo all’asta. Il disordine e l’approssimazione con cui furono però effettuate alcune concessioni convinsero la
Camera ad emanare un decreto il 12 maggio 1789 con cui impose la previa determinazione della consistenza e
dell’estimo dei boschi affittandi per mezzo di periti, ASGe, Camera di governo e finanza, 609. Nel 1794 infine la
639
238
l’impressione è che i Procuratori camerali ai boschi scelsero di raggiungere il medesimo obiettivo
senza provvedimenti di ampio respiro, ma adattando puntualmente a ciascun negozio l’indirizzo
esplicitato nel 1767 con decreti ad hoc.
Per quanto risorse forestali e usi civici non fossero «materia di una legge», a Genova si
intraprese un percorso di graduale trasferimento ai privati dei principali boschi regionali. Anche
questo episodio conferma in primo luogo la resilienza degli usi civici, dei quali nessuno chiese il
superamento, e il prudente approccio del governo repubblicano nel modificare istituti e assetti di
governo del territorio che segnavano ormai il passo, dopo secoli di vigenza.
2) OLTRE I BENI COMUNI. TEORIE SUL “COMUNE” E SPERIMENTAZIONI TRA FRANCIA E ITALIA
La ricerca storica sulle proprietà collettive ha conosciuto una nuova vivacità negli ultimi
decenni, in concomitanza con l’avvio di un dibattito di scala continentale sul tema dei commons,
assurti a vessillo della difesa di un modo di regolare la produzione e la proprietà di risorse (tanto
materiali quanto immateriali) alternativo a quello predominante. Indubbiamente lo shock causato
dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, ripercossosi poi in Europa con un effetto domino che
ha coinvolto molti Stati aderenti all’Unione Europea, ha fatto fare un salto di qualità allo stesso
dibattito che, da tecnico, si è fatto anche politico. E per politico s’intende sia il contributo
crescente di teorici, sociologi, filosofi alla costruzione di un nuovo modello di azione politica, sia
l’attenzione che partiti, comitati, movimenti hanno iniziato a dare al tema dei beni comuni,
facendone oggetto di iniziative legislative o amministrative.
Sul campo dei beni comuni si giocano insomma più partite, segnate da obiettivi, linguaggi,
strumenti e “tempi di gioco” diversi. Il “benicomunismo” non intende più soltanto sconfiggere
l’hardinianesimo neo-malthusiano degli anni ’60 – al quale gli studi di Ostrom hanno già inflitto un
colpo verosimilmente definitivo – ma si propone come movimento politico di opposizione al neoliberismo, quale sistema di mercificazione pervasivo e totalizzante dei rapporti sociali e non solo di
quelli di scambio. Contemporaneamente, da un punto di vista più tecnico-giuridico, i beni comuni
hanno rinvigorito il processo di “costituzionalizzazione” della proprietà, cioè la trasformazione da
Camera stipulò con tal Gio. Batta Pino il diritto esclusivo di raccogliere semi di faggio per produrre olio, misura che
interessò anche il bosco di Sanremo, ASGe, Camera di governo e finanza, 610. Sui contratti di sfruttamento delle
risorse forestali in una zona geograficamente prossima alla Liguria vedi M. ORTOLANI, Les contrats d’exploitation
forestière des communautés du comté de Nice au XVIIIe siècle, in Terre, forêt et droit, cit., pp. 413-441.
239
semplice principio a diritto vigente della funzione sociale della proprietà. Fare ordine non è
semplice, né la parte conclusiva di questo lavoro ha la pretesa di sostituirsi alla mole di monografie
e articoli di diritto positivo sul punto. Si vuole invece effettuare una sintetica comparazione tra
l’esperienza italiana e quella francese per rilevarne affinità e differenze, nonché porre in evidenza
alcuni punti fermi tratti dalla lunga storia delle proprietà collettive, utili per la disciplina dei
commons contemporanei.
2.a) I communs in Francia: una teoria ancora inattuata
La scelta della Francia come termine di raffronto con i progressi scientifici e le
sperimentazioni di “altri modi di possedere” non è casuale. Si tratta a ben vedere di due realtà
situate su differenti livelli di avanzamento: l’Italia è certamente all’avanguardia tanto sotto il
profilo teorico che pratico, grazie al lungo lavoro di critica della proprietà pubblica e privata
originatosi dopo il 1948, brevemente richiamato in apertura, e oggi arricchitosi anche di un nuovo
linguaggio a seguito dell’aumentata interdisciplinarietà del dialogo. Ad essa guardano giuristi,
storici e filosofi francesi in uno scambio proficuo di cui il recente Dictionnaire des biens communs è
forse la testimonianza più eloquente642. Tuttavia se oggi è l’Italia a costituire un modello (seppur in
evoluzione), c’è stato un momento in cui la Francia ha rappresentato un esempio da seguire,
specie per le azioni politiche legate al bene comune per eccellenza: l’acqua.
Si è richiamata nell’introduzione l’importanza del referendum del 12 e 13 giugno 2011 sulla
gestione del servizio idrico integrato per la definitiva affermazione nell’agone politico dei beni
comuni. Nel corso della campagna referendaria – ma sui media anche prima – la scelta
privatizzatrice fu contestata facendo appello alla decisione della città di Parigi di riportare sotto il
controllo pubblico l’acquedotto, dopo una gestione privata durata dal 1985 al 2009. Una scelta
rivendicata dal maire Delanoë, in un contesto nazionale dove la maggioranza degli utenti sono
serviti da società private643. Tramite la costituzione di Eau de Paris si intende arrivare ad un
Cfr. M. CORNU-VOLATRON, F. ORSI, J. ROCHFELD (a cura di), Dictionnaire des biens communs, Paris, 2017 (d’ora in poi
DBC).
643
Nel 2013 le società pubbliche servivano in Francia il 35% di utenti per i servizi idrici e il 47% per i servizi di
depurazione, cfr. P. BAUBY, The French system of water services, in «CIRIEC Working paper», 2009, n. 3, reperibile al
link https://ideas.repec.org/p/crc/wpaper/0903.html (url consultato il 13 dicembre 2018). Nel caso specifico, il
servizio idrico di Parigi era delegato a Générale des eaux per i quartieri a destra della Senna e a Lyonnaise des eaux per
la parte a sinistra. Il modello francese di gestione privata nel settore idrico è stato anche adottato fuori Europa, ma
con scarsi risultati sotto i profili degli investimenti e dell’efficienza, cfr. S. PETITET, Paris-Buenos Aires et retour, mythes
et limites du «modèle français» de gestion des services d’eau potable, in Environnement Urbain/Urban environment, 1
(2007), reperibile al link http://eue.revues.org/1029 (url consultato il 13 dicembre 2018).
642
240
modello gestionale che realizzi economie di scala, generi un abbassamento delle tariffe per i
cittadini grazie al venir meno della remunerazione del capitale e coinvolga maggiormente la
collettività nelle decisioni legate al governo del servizio con la creazione di un osservatorio644. In
Italia problemi simili hanno assunto visibilità nazionale per la vicenda dell’Acquedotto pugliese,
trasformato nel 1999 in società per azioni in house, una veste giuridica inadatta perché capace di
condizionare obiettivi legali e politiche aziendali in senso incompatibile con la ratio dell’acquabene comune645.
Nello stesso periodo, contemporaneamente al Nobel conseguito da Ostrom, anche in
Francia si è così imposto all’attenzione degli studiosi il tema dei biens communs come potenziale
trasformatore di istituti e linguaggi politici. È possibile distinguere due filoni principali di studi.
Uno, più strettamente giuridico-economico, ha preso spunto dalle ricerche ostromiane per
proporre nuovi schemi proprietari e modelli gestionali in grado di reggere alle sfide ambientali e
sociali del nuovo millennio. Un altro, di stampo filosofico-politico, ha preso le mosse dal discorso
sui beni comuni per elevare il “comune” a principio di azione politica, rifiutandone dunque la
reductio ad rem, propria invece del primo indirizzo. Per dare un giudizio complessivo è bene
esaminare brevemente entrambe le correnti.
La contestazione della proprietà assoluta ed esclusiva, diretta erede del dominium di
derivazione romanistica, ha trovato una felice e documentata espressione nei lavori di Yan
Thomas, che ha invertito la logica del processo genetico del diritto reale soggettivo. Questo non
sarebbe una facoltà naturale e originaria dell’uomo ma la conseguenza di due precise decisioni
collettive: l’esclusione dalla sfera patrimoniale di alcune cose (res extra commercium) e la
creazione di una terza categoria di beni assoggettata ad un particolare vincolo di destinazione
collettiva, nettamente prevalente sulla titolarità, capace di limitare le facoltà dispositive tanto dei
privati che della respublica stessa646. Se è quindi la proprietà privata ad avere un carattere derivato
Per uno studio approfondito P. BAUBY, M. M. SIMILIE, La remunicipalisation de l’eau à Paris. Etude de cas, in «CIRIEC
Working paper», 2013, n. 2, disponile al link https://ideas.repec.org/p/crc/wpaper/1302.html (url consultato il 13
dicembre 2018); V. CHIU, Vers la «remunicipalisation» du service public d’eau potable en France, in «Pyramides»,
25 (2013), reperibile al link http://journals.openedition.org/pyramides/985 (url consultato il 13 décembre 2018).
645
Cfr. M. CIERVO, Beni comuni: accesso alla risorsa e giustizia sociospaziale. Il caso dell’Acquedotto Pugliese, SPA in
house, in Memorie geografiche, n.s. 14 (2016), pp. 537-543.
646
È in sostanza il ruolo delle res in publico usu, cui tardivamente si sovrapposero le res communes omnium, a creare
uno spazio di cose pubbliche indisponibili e vincolate all’uso di una moltitudine non preventivamente definita di
soggetti, cfr. Y. THOMAS, «La valeur des choses. Le droit romain hors la religion», in Annales, Histoires, Sciences sociales,
6 (2002), pp. 1431-1462.
644
241
e non originario, risulta fallace il fondamento storico principale della proprietà tradotto in norma
dall’art. 544 del Code civil.
La crisi ambientale e l’avanzamento delle nuove enclosures nel settore della proprietà
intellettuale e dei brevetti hanno quindi indotto molti studiosi a rileggere gli studi di Ostrom per
trovare soluzioni alternative ad un modello proprietario sempre più discusso e superare il
pregiudizio della proprietà comune come situazione di “assenza di proprietà”647. Tra gli spunti
offerti dalla studiosa, ha ricevuto particolare attenzione il recupero della teoria della proprietà
come fascio di diritti (bundle of rights o, in francese faisceaux de droit) elaborata dal realismo
giuridico americano. Il primo a proporne una versione organica fu l’economista istituzionalista
John Rogers Commons, in «The distribution of wealth» del 1893 e sviluppata più ampiamente nel
1924, a seguito anche di un articolo di Hohfeld che organizzò la molteplicità dei rapporti giuridici in
uno schema basato sul binario opposizione/equivalenza, per dimostrare che la proprietà è un
insieme di relazioni all’interno delle quali gli individui sono interdipendenti648. La riscoperta dei
loro scritti da parte dei giuristi progressisti americani a partire dagli anni Settanta non ha però
suscitato l’interesse dei giuristi francesi, che ne hanno apprezzato le potenzialità applicative solo
dopo l’analisi concettuale ostromiana649.
La teoria della proprietà come fascio di diritti ha alla base l’idea che la distribuzione della
ricchezza risulta dalla politica dello Stato – ivi comprese le regole giuridiche che definiscono la
proprietà – e non dalle forze naturali del mercato. La proprietà senza Stato, sostiene Commons,
non esiste, né esiste una proprietà del tutto assoluta. Essa consiste sempre in un fascio di diritti
(pubblici o privati) distribuiti tra soggetti diversi. Lungi dall’assumere i connotati universali e
immutabili cari ai giusnaturalisti della tarda modernità, dietro la proprietà si cela invece un
insieme di diversi diritti – questi sì, individuabili e costanti – la combinazione e distribuzione dei
quali dipendono dai rapporti sociali tra i soggetti. Ne risulta che questo assetto non è mai
definitivo, perché soggetto a scomposizioni e ricomposizioni in funzione delle forze sociali presenti
Su questo particolare aspetto cfr. S. BROCA, Les communs contre la propriété? Enjeux d'une opposition trompeuse, in
SociologieS, Dossier «Des communs au commun : un nouvel horizon sociologique?», disponibile all’URL:
http://journals.openedition.org/sociologies/5662 (consultato il 15 dicembre 2018).
648
Cfr. J. R. COMMONS, The distribution of Wealth, London, 1893; ID., The legal foundations of capitalism, New York,
1924. Le otto nozioni giuridiche fondamentali di Hohfeld erano: diritti, doveri, privilegi, assenza di diritti, poteri,
soggezione, immunità, incapacità. Vedi W. N. HOHFELD, Some fundamental legal conceptions as applied in judicial
reasoning, in Yale Law journal, 23, 1913, pp. 16-59;
649
La teoria della proprietà come un bundle of rights in grado di riconnettere alla stessa cosa le posizioni di utilizzatori,
possessori e proprietario fu esplicitamente fatta propria da Ostrom in un articolo del 1992 scritto con Edella Schlager:
E. SCHLAGER, E. OSTROM, Property rights and natural resources: a conceptual analysis, in Land economics, 68/3, 1992, pp.
249-262.
647
242
in un dato contesto. Sono state così proposte diverse tassonomie della proprietà. Tra queste
vanno almeno citate quella di Anthony Honoré del 1961, che individuò una lista di ben undici
diritti, e quella più limitata di Ostrom e Schlager sulle common pool resources, che contemplarono
solo quattro diritti (accesso e prelievo, amministrazione, esclusione, alienazione) correlati ad
altrettante posizioni (proprietario, usufruttuario, detentore di diritti d’uso e gestione, utente)650.
Si è fatta dunque spazio l’ipotesi di utilizzare la teoria del bundle of rights come veicolo per
ridare forza alla funzione sociale della proprietà, superando al contempo sia i limiti insiti nella sua
matrice di Common law, sia la lettura di Ostrom, che non ha rimesso in questione la nozione di
proprietà651. La ridefinizione della proprietà non più come regno della volontà dell’individuo ma
come strumento funzionale ai bisogni sociali è un processo che necessiterà di numerosi
esperimenti pratici per essere perfezionato652.
Sulla scorta di quanto sopra, è ormai chiaro che non potrà esistere “un modello” di
proprietà comune, ma più modelli articolati diversamente a seconda delle caratteristiche del bene
da condividere, dell’ampiezza della comunità interessata e degli scopi (trasmissione alle
generazioni future, conservazione dell’accesso o dell’integrità etc.). Judith Rochfeld ha ad esempio
ipotizzato tre distinte soluzioni, che ruotano intorno ad altrettante comunità diverse (negative,
positive, diffuse) capaci di innovare alcuni istituti già presenti nel diritto civile francese, come la
disciplina delle choses communes (art. 714 del codice) o di alcuni beni demaniali. Il ripensamento
della proprietà va insomma verso il recupero del “diritto all’inclusione”, cioè di un diritto
individuale di non essere esclusi dall’uso o godimento di risorse produttive accumulate da tutta la
L’elencazione di Honoré era ovviamente più ampia, in ragione dell’oggetto studiato (la proprietà in generale e non
limitata alle risorse naturali). Essa includeva quindi anche il diritto al reddito, il diritto al capitale e quello alla sicurezza
dall’espropriazione: cfr. A. HONORÉ, Ownership, in ID., Making law bind: Essays legal and philosophical, Oxford, 1961,
pp. 161-193; E. SCHLAGER, E. OSTROM, Property rights, cit., p. 252.
651
Sotto questo profilo la minimizzazione dell’ambiente istituzionale e politico nei casi studiati da Ostrom lascia in
ombra il rilievo della conformazione dei diritti di proprietà in ciascun ordinamento, cfr. O. WEINSTEIN, Comment
comprendre les « communs » : Elinor Ostrom, la propriété et la nouvelle économie institutionnelle, in Revue de la
régulation, 14 (2013), disponibile all’URL : http://journals.openedition.org/regulation/10452 ; (consultato il 14
dicembre 2018). Per la proposta di lavoro sulla funzione sociale della proprietà a partire dai beni comuni e dal bundle
of rights vedi. F. ORSI, Elinor Ostrom et les faisceaux de droits: l’ouverture d’un nouvel espace pour penser la propriété
commune,
in
Revue
de
la
régulation,
14
(2013),
disponibile
all’URL :
http://journals.openedition.org/regulation/10452 ; (consultato il 14 dicembre 2018); F. ORSI, Revisiter la propriété
pour construire les communs, in B. CORIAT (a cura di), Le retour des communs. La crise de l’idéologie propriétaire,
Mayenne, 2015, pp. 51-67.
652
Vedi ad esempio A. INGOLD, Les sociétés d’irrigation: bien commun et action collective, in Entreprises et histoire, 50,
2008, pp. 19-35; B. CORIAT, Le retour des communs, in Revue de la régulation, 14 (2013), disponibile all’URL:
http://journals.openedition.org/regulation/10463 (consultato il 15 dicembre 2018).
650
243
società. Risorse la cui destinazione “comune” è sempre frutto di una decisione politica e mai
discendente da caratteristiche naturali della cosa653.
Gli esiti concreti di tale ripensamento sono per ora ancora abbastanza modesti. La
supremazia dell’art. 544 viene però sempre più erosa dal processo di valorizzazione di altre
proprietà, collettiva o comune, che faticosamente cercano di emanciparsi dal modello dominante.
Anche il tentativo di costruire un diritto dei beni comuni a partire dalla c.d. propriété démembrée
in materia ambientale, con la costituzione di obbligazioni reali ambientali disciplinate dal codice
dell’ambiente, attende di essere intrapreso654. Analogamente abbondante dal punto di vista della
produzione scientifica, ma ancora in attesa di realizzazioni compiute è il processo creativo di
nuove istituzioni per la gestione dei beni qualificati come comuni, ivi compresi anche alcuni servizi
pubblici, e per l’attuazione di progetti di economia sociale, tramite l’adeguamento al nuovo
paradigma di modelli già esistenti, come le cooperative655.
Il secondo filone di approccio al tema dei communs, come anticipato di stampo filosoficopolitico, ha negli scritti di Pierre Dardot e Christian Laval la sua più alta (e discussa) espressione656.
Il loro discorso si emancipa tanto dall’alveo micro-istituzionale dell’approccio economico à la
Ostrom, quanto dal piano giuridico di riproposizione aggiornata dei communs superati nel XVIII
secolo, rifiutando recisamente ogni proposta di oggettivizzazione. Il comune è invece un principio
di azione politica, che va tradotto in pratiche di auto-organizzazione e di auto-governo
radicalmente democratiche. È la società che elabora collettivamente regole e definisce delle
pratiche per l’autogestione di spazi comuni. Solo entro la cornice di una costante ”istituzione del
Comune” la designazione di alcuni beni come comuni (quindi inappropriabili e inalienabili) è
realizzabile ed acquista un senso.
Cfr. J. ROCHFELD, Quels modèles juridiques pour accueillir les communs en droit français?, in B. CORIAT (a cura di), Le
retour des communs, cit., pp. 87-105.
654
Vedi A. CHAIGNEAU, voce Propriété collective, in DBC, pp. 954-957; G. SALORD, Propriété commune, in DBC, pp. 960964; L. PFISTER, Propriété démembrée, in DBC, pp. 964-969.
655
Vedi P-A. MANGOLTE, Une innovation institutionnelle, la constitution des communs du logiciel libre, in Revue de la
régulation, 14 (2013), disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/regulation/10517 (consultato il 15 dicembre
2018); A. LETOURNEAU, La théorie des ressources communes : cadre interprétatif pour les institutions publiques ?,in
Éthique publique, 17 (2015), disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/ethiquepublique/2284 (consultato il
15 dicembre 2018); J-C. BARBIER (a cura di), Économie sociale et solidaire et État. A la recherche d’un partenariat pour
l’action, Paris, 2017, in particolare N. ALIX, L’économie sociale et solidaire et les communs: les tendances à l’ouvre et les
enjeux d’une coopération, ivi, pp. 43-61.
656
Cfr. P. DARDOT, C. LAVAL, Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo, Roma, 2015 (ed. orig. 2014). Vedi anche la
recensione di M. FIORAVANTI, E. I. MINEO, L. NIVARRA, Dai beni comuni al comune. Diritto, Stato e storia, in Storia del
pensiero politico, 1/2016, pp. 89-116.
653
244
Dardot e Laval muovono su un terreno già battuto da Michael Hardt e Antonio Negri, autori
di una trilogia che si è conclusa proprio con un libro dedicato al Comune657. La critica dei due
autori francesi tocca sia la definizione di comune658 sia il fine ultimo del libro, quello cioè di
identificare il comune con le risorse disponibili “catturate” dal capitale, di cui le moltitudini
possono riappropriarsi659. Il comune dunque esiste già e non abbisogna istituirlo, ciò che è
esattamente antitetico alla tesi sostenuta da Dardot e Laval. Ora, non è questa la sede per un
esame critico delle rispettive impostazioni politico-filosofiche, peraltro già analizzate anche dagli
stessi interessati660. La sociologia politica del comune come prassi istituente proposta nel libro si
fonda però sulla dimostrazione dei limiti della teoria di Ostrom e su una approfondita disamina
della consuetudine che meritano qualche considerazione.
All’economia istituzionale dei commons Dardot e Laval muovono tre critiche principali: il
mancato superamento della teoria dei beni privati e pubblici, nonostante l’accento posto sulle
istituzioni di gestione e non sulle qualità del bene per definire un commons; una visione liberale
degli individui razionali capaci di costruire gli accordi più convenienti per il gruppo (in ossequio alla
logica del “dilemma del prigioniero); la sottovalutazione del ruolo dei rapporti di potere interni al
gruppo e all’influenza sui comportamenti esercitata dal sistema sociale nel suo complesso661. Sono
critiche che gli autori formulano pur riconoscendo alla scuola ostromiana il merito di aver portato
il discorso dei beni comuni sul terreno dell’azione collettiva e delle regole d’uso stabilite dagli
appropriatori. Dal punto di vista storico, soprattutto l’ultima critica appare quella più fondata
anche retrospettivamente, come dimostrato anche nei capitoli centrali della presente tesi.
La consuetudine occupa un posto importante nella distesa analisi del sistema di common
law, da cui gli autori partono per esplorare la legittimità del diritto consuetudinario della povertà.
Il sistema giuridico inglese è correttamente storicizzato come un prodotto dell’attività di selezione
delle consuetudini da parte dei giuristi e dei tribunali: esse erano leges loci, un insieme di pratiche,
Cfr. M. HARDT, A. NEGRI, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, 2010.
Ad uno teologico (il comune come ricchezza materiale del mondo) e uno antropologico (l’insieme delle condizioni e
dei risultati dell’attività umana), se ne associa uno legato alle caratteristiche del capitalismo cognitivo, che vede il
lavoro immateriale a forte intensità cognitiva un produttore spontaneo del comune. Inoltre un quarto significato
intende il comune come nuova forma di organizzazione sociale della moltitudine che agisce collettivamente, cfr. M.
HARDT, A. NEGRI, Comune, cit., pp. 8-10, 145-146.
659
Cfr. M. HARDT, A. NEGRI, Comune, cit., pp. 174-178.
660
Vedi la recensione tranchant di A. NEGRI, La metafisica del Comune, il Manifesto, 6 maggio 2014 (disponibile all’URL:
https://ilmanifesto.it/la-metafisica-del-comune/, consultato il 15 dicembre 2018); S. MAROTTA, Alcuni problemi
sociologico-giuridici sul tema del comune. Riflessione a margine di un recente libro di Pierre Dardot e Christian Laval, in
Sociologia del diritto, 1/2016, pp. 175-182; S. VIBERT, L’institution de la communauté, in SociologieS, disponibile all’URL
http://journals.openedition.org/sociologies/5683 (consultato il 15 dicembre 2018).
661
Cfr. P. DARDOT, C. LAVAL, Del Comune, cit., pp. 124-148.
657
658
245
aspettative, regole e sanzioni inscritte in un ambiente determinato. Ma ancor più rilevante è
l’osservazione, tratta da Thompson, per cui la consuetudine fu sempre un luogo di conflitto tra le
forze sociali, un campo aperto alla ricomposizione del confronto in nome di un senso di giustizia
ed equità da determinare volta per volta662. La dimensione conflittuale si pone quindi come
essenziale alla stessa attività di creazione e consolidamento del diritto consuetudinario.
Considerato che il nuovo “diritto del comune” rovescia il binomio comunità-attività,
facendo precedere l’azione istituente alla comunità politica, rimane irrisolta la questione
dell’identità dei soggetti che dovrebbero “mettere in comune”, i loro caratteri storici, culturali,
antropologici, economici etc. Viene insomma a mancare totalmente la fissazione (anche vaga) dei
contorni del collettivo che dovrebbe agire e confliggere per creare il comune e disporre
dell’inappropriabile. Eppure sia Ostrom che gli studi sulla consuetudine hanno evidenziato
l’importanza della delimitazione di soggetti, luoghi e beni chiaramente definiti quale elemento
necessario (ma non sufficiente) per un’azione collettiva di successo663.
Una simile forzatura non deve però stupire, perché s’inscrive in un radicale rifiuto della
teoria del diritto contemporanea, che mette all’Indice non solo la proprietà privata ma anche la
proprietà dei beni pubblici dello Stato. Un’impostazione forse obbligata per dare maggior forza
alle tesi dell’opera, ma rischiosa perché liquidando lo Stato come nemico del “comune” alla
stregua delle multinazionali si preclude la possibilità di costruire la categoria del comune partendo
da un nuovo statuto della proprietà pubblica e da una più marcata limitazione della proprietà
privata da parte dell’autorità, mediante strumenti giuridici in parte già disponibili.
Una simile impostazione situa quindi su posizioni (per ora) poco convergenti teoria politica
ed elaborazione giuridica. I “limiti del giuridico” sono stati denunciati apertamente da Dardot
anche a proposito della valutazione dell’esperienza italiana664. Quanto incida in ciò un generale
Cfr. P. DARDOT, C. LAVAL, Del Comune, cit., pp. 253-256.
Laval ha ribadito la posizione, sostenendo che concetti come comunità, associazione, mutualismo sono inadatti a
contenere le trasformazioni in atto nel mondo della cooperazione sociale tra individui, i cui esiti ultimi non sono
ancora pronosticabili, C. LAVAL, «Commun» et «communauté» : un essai de clarification sociologique, in SociologieS,
2016, disponibile all’URL: http://journals.openedition.org/sociologies/5677 (consultato il 15 dicembre 2018).
664
La critica ruota intorno alla definizione stessa di beni comuni come mezzi di soddisfazione dei diritti fondamentali.
Se la definizione stessa dei diritti fondamentali dell’uomo coinvolge una decisione democratica, è direttamente
l’accesso alla democrazia che deve essere rivisto alla luce del “comune”: «Il s’agit bien au-delà de la démocratie
comprise dans son sens le plus radical, comme co-participation de tous les citoyens aux affaires publiques. Ce n’est
pas une exigence abstraite, c’est une condition de possibilité de la gestion des biens communs eux-mêmes. […] Avec
cette exigence nous touchons à un principe « méta-institutionnel » sans lequel il est impossible non seulement de
gérer mais même d’identifier les « biens communs » : c’est à chaque fois à la société elle-même de déterminer ce qui
est un bien commun et ce qui ne l’est pas en fonction de l’appréciation collective qu’elle porte sur les besoins de la
662
663
246
sentimento di irriformabilità di un sistema di servizi pubblici legato a doppio filo alla storia
amministrativa dello Stato francese, sentimento presente in misura diversa in molti contributi
citati, è difficile dire. Certo è che rubricare come secondario l’apporto della cultura giuridica alla
prassi istituente – specie a livello locale – rischia di perpetuare l’attuale immobilismo
dell’ordinamento francese su questo fronte. Se Commun di Dardot e Laval ha un merito è aver
indicato alcune strade di sviluppo con le nove “Proposizioni politiche” per la costituzione di una
“federazione di comuni”, la cui attuazione è però una storia ancora tutta da scrivere.
2.b) Il movimento per i beni comuni in Italia: verso un giurista dei commons?
L’Italia può invece vantarsi del proprio ruolo di laboratorio per un numero di
sperimentazioni sociali ed istituzionali in lenta e costante diffusione sul territorio. Nonostante le
critiche, è innegabile che proprio l’attiva partecipazione dei giuristi ad alcune importanti battaglie
politiche ed azioni giudiziarie in difesa di alcuni beni o servizi considerati comuni al fianco di
comitati e movimenti abbiano contribuito a portare l’argomento nell’agorà dei non addetti ai
lavori. In particolare un potente momento di formazione e discussione critica si è avuto nel 2011 in
occasione del già citato referendum sul servizio idrico integrato, che portò all’abrogazione dell’art.
23-bis della legge 133/2008, poi modificata dal c.d. decreto Ronchi. Fu in quei mesi che tornò con
forza di dominio pubblico la proposta della Commissione Rodotà per la riforma della disciplina dei
beni pubblici, grazie al “manifesto” per i beni comuni pubblicato da Mattei665. Negli stessi anni si è
verificata una positiva contaminazione che ha rianimato la nozione di funzione sociale della
proprietà, che la civilistica italiana aveva ormai archiviato tra i (tanti) progetti incompiuti di
trasformazione dei rapporti economici indicati dalla Costituzione666.
personne. Une telle détermination n’est pas, tant s’en faut, l’affaire exclusive des juristes», P. DARDOT, Les limites du
juridique,
in
Tracés.
Revue
de
Sciences
humaines,
16, 2016,
disponibile
all’URL
http://journals.openedition.org/traces/6642 (consultato il 15 dicembre 2018).
665
Si ricorda che la Commissione fu istituita nel 2007 e definì i beni comuni come quelle cose «che esprimono utilità
funzionali all’ esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona», vedi l’articolato al link:
https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page;jsessionid=aRh5d2RDNnNFTxKJWbZ08+Lg?contentId=SPS47624
&previsiousPage=mg_1_12_1 (consultato il 16 dicembre 2018). Vedi poi il già citato U. MATTEI, Beni comuni, cit.; E.
VITALE, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Roma-Bari, 2013.
666
A. QUARTA, La polvere sotto il tappeto. rendita fondiaria e accesso ai beni comuni dopo trent'anni di silenzio, in
Rivista critica del diritto privato, 31/2 (2013), pp. 253-272; U. MATTEI, Una primavera di movimento per la 'funzione
sociale della proprietà, in Rivista critica del diritto privato, 31/4 (2013), pp. 531-550.
247
Il successo della campagna referendaria, subita dalle principali forze politiche parlamentari
e poi disconosciuta in meno di un anno con il sostegno alla decisione del governo Monti di
riportare in vigore la normativa abrogata, ha impedito che sui beni comuni calasse il velo
dell’oblio. Al contrario si sono intensificate le riflessioni sul superamento della tradizionale forma
individualista ed escludente di proprietà, tesa ad estrarre utilità dalla rendita con conseguenze
negative per il territorio e le collettività lì insediate, con elaborazioni più dettagliate di revisione
della proprietà pubblica e, successivamente, di erogazione dei servizi pubblici nei settori
fondamentali (sanità, istruzione, beni culturali) in nome dei principi di accesso, inclusione e
sussidiarietà. Anche dal punto di vista pratico gli esperimenti di “messa in comune” di beni
pubblici o privati, spesso fatiscenti e abbandonati, si sono diffusi a tutte le latitudini del Paese,
aggregando individui e associazioni intorno a progetti culturali o artigianali667. Il permanere del
tema nel dibattito politico ha facilitato nell’ultimo decennio il graduale ingresso nell’ordinamento
dei beni comuni, seppur in forme diverse e spesso non coordinate tra loro e nonostante l’assenza
di una tassonomia sancita ufficialmente dalla legge. Anzi, ciò non ha impedito alla stessa Corte di
Cassazione di recuperare la definizione dell’abortito progetto Rodotà per qualificare le valli di
pesca della laguna veneziana come beni comuni (C. Cass. 3665/2011)668. Fornire un quadro
esaustivo dello stato dell’arte della dottrina civilistica e pubblicistica, unito all’evoluzione in atto
dei comportamenti degli attori sociali, è impossibile in poche pagine e fuori luogo all’esito di una
ricerca storica. Semmai approfittando dello sguardo di lunga durata offerto dal caso ligure, si vuole
concludere formulando alcune osservazioni sulle principali novità emergenti e sul ruolo che i
giuristi attrezzati di conoscenza storica potranno giocare in questi processi di “produzione di
istituzioni”.
I commons della conoscenza (brevetti, pubblicazioni scientifiche etc.), campo nel quale in
ogni caso qualche passo in avanti verso un più ampio regime di accesso libero si sta compiendo, e
quelli immateriali saranno quindi lasciati un po’ sullo sfondo nelle righe che seguiranno, sebbene
alcuni tratti fondamentali siano condivisi con quelli ecologici e urbani669. Riprendendo la sintesi
proposta da Fulvio Cortese, l’Italian theory sui beni comuni presenta i seguenti caratteri670:
Sono noti a livello nazionale i casi di occupazione del Teatro Valle di Roma, di Torre Galfa a Milano, del Colorificio
Toscano di Pisa, della fabrica Rimaflow di Trezzano sul Naviglio e dell’ex Asilo Filangieri di Napoli.
668
Le Sezioni Unite introdussero la definizione con un obiter dictum, introducendo ufficialmente la categoria nel diritto
vivente italiano, cfr. R. A. ALBANESE, Dai beni comuni all’uso pubblico e ritorno. Itinerari di giurisprudenza e strumenti di
tutela, in Questione giustizia, 2 (2017), pp. 104-111.
669
Sui commons digitali e open data vedi G. DONADIO, Open Acess, Europa e modelli contrattuali: alcune prospettive sui
beni comuni, in Rivista critica del diritto privato, 31/1 (2013), pp. 107-122; A. PRADI, A. ROSSATO (a cura di), I beni comuni
667
248
a) Pluralismo nella definizione di ciò che è “comune”, sia per l’oggetto che per la variabilità
sociale e territoriale delle valutazioni;
b) La fonte del “comune” deriva da dati normativi costituzionali o sovra-nazionali;
c) Stretto legame tra risorsa/servizio proveniente dal “comune” e una collettività di
riferimento;
d) Carattere necessariamente partecipato dell’azione definitoria, della gestione e della
valutazione dei risultati;
e) Eterogeneità dei soggetti compartecipi;
f) Ricorso ad una tecnica giuridica volutamente ibrida, di diritto pubblico o privato;
g) Necessità di forme di condivisione costante di informazioni sul “comune” gestito.
A spingere per una più concreta oggettivizzazione dei beni – categoria la cui definizione pare
destinata a mantenere una vocazione espansiva – è l’urgenza di adattare l’ordinamento giuridico
alle molte crisi del nostro tempo: ecologica, economica, relazionale, sociale. La cannibalizzazione
degli ecosistemi condotta attraverso l’azione combinata di diritti di proprietà esclusiva e scarse o
nulle azioni di limitazione da parte degli Stati ha prodotto e continua a produrre gravi conseguenze
sulle società locali di molte parti del mondo671. Inserita in questo contesto una governance
ecologica del territorio avente come scopo la riconquista del “comune” come spazio in cui vige
l’“opposto della proprietà” acquisisce un respiro ed una potenza politica notevole. La proposta
Rodotà di connettere determinati beni – la cui elencazione nel disegno di legge non era
giustamente esaustiva – alla tutela di diritti fondamentali è solo il primo passaggio di uno sviluppo
più ampio della tutela giuridica dell’ambiente. Il cambio di paradigma legato al “comune” deve
saldare insieme la costruzione di un diritto coerente con le leggi ecologiche e la tutela dei diritti
delle generazioni future, primo fra tutti il diritto ad un ambiente salubre, ponendosi come
obbiettivi il contrasto all’estrazione di profitti – cosa che non esclude limitate forme di
digitali. Valorizzazione delle informazioni pubbliche in Trentino, Trento, 2014; F. PONTE, I big data come commons
goods, in Cyberspazio e diritto, 57 (2017), pp. 31-68. Si segnala che è all’esame della Commissione Cultura della
Camera dei Deputati l’A.C. 395 sulla riforma del regime di accesso aperto alle informazioni scientifiche e ai prodotti
della ricerca finanziati con fondi pubblici.
670
Cfr. F. CORTESE, Che cosa sono i beni comuni?, in M. BOMBARDELLI (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire
dalla crisi. Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, Napoli, 2016, pp. 37-62.
671
Esemplare l’accaparramento di vastissime porzioni di terreni agricoli e forestali mediante il c.d. “land grabbing”: cfr.
L. PAOLONI, Land grabbing e beni comuni, in M. R. MARELLA (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, cit., pp. 139-148; M.
BALDARELLI, Beni comuni e terreni collettivi. Brevi note sulle frontiere del mercato fondiario in Africa, in A. QUARTA, M.
SPANÒ (a cura di), Beni comuni 2.0. Controegemonia e nuove istituzioni, Milano, 2016, pp. 71-84.
249
commercializzazione delle utilità prodotte dalla risorsa in alcuni casi – l’appianamento delle
disuguaglianze e la difesa dei beni tanto dalla distruzione che dall’abbandono672.
Diversi sono i settori dove il “comune” sta orientando le scelte legislative e amministrative, a
partire da quello più tradizionale delle risorse silvo-pastorali soggette a uso civico. Dopo la legge
Zucconi sugli usi civici (l. 5489 del 24 giugno 1888), che cercò di realizzare un compromesso tra il
riordinamento fondiario su base individuale e la conservazione delle proprietà collettive inscritte
nella struttura economica italiana, intervenne la più nota legge 1766 del 16 giugno 1927 col
proposito di sciogliere laddove possibile i gravami civici sulle proprietà private e ridimensionare
l’estensione delle proprietà collettive. I tentativi di riformare la legge fascista furono intrapresi
quasi subito ma con scarsi risultati, finché l’attuazione del regionalismo assegnò alle Regioni molte
competenze in materia, diversificandone la disciplina. Dalla metà degli anni ’80, con la c.d. “legge
Galasso” (l. 431 dell’8 agosto 1985) gli assetti fondiari collettivi acquisirono una specifica valenza
ambientale e non più soltanto produttiva, orientamento poi avallato anche dalla giurisprudenza
costituzionale673.
Sulla scorta della mutata sensibilità nei confronti di un territorio rurale e boschivo che negli
ultimi anni ha mostrato tutta la propria fragilità, e nell’ottica di un più ampio quadro di
ripopolamento dei borghi e dei piccoli centri la legge n. 168 del 20 novembre 2017 la cui
prospettiva muta già a partire dal lessico scelto: domini collettivi in luogo di usi civici, che sono
ricondotti al novero dei beni collettivi. Sebbene non abroghi espressamente la legge del 1927 né si
ponga come legge cornice per le leggi regionali, la 168 segna un punto di partenza tardivo per una
organica attuazione legislativa dei principi costituzionali in tema di proprietà collettive su nuove
basi. Lo Stato si propone come difensore dei domini collettivi, a tutela sia della loro vocazione
produttiva che ambientale e paesaggistica, ma il dispiegamento degli effetti della legge andrà
verificato nei prossimi anni674.
Cfr. S. RODOTÀ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, 2013, pp. 4659-488; U.
MATTEI, Il buon governo del comune. Prime riflessioni, in S. CHIGNOLA (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della
sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, Città di Castello, 2012, pp. 210-221; F. CAPRA, U. MATTEI, Ecologia del
diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro, 2017.
673
Vedi P. FALASCHI (a cura di), Usi civici e proprietà collettive nel centenario della legge 24 giugno 1888, Camerino,
1991; F. MARINELLI, Gli usi civici, Milano, 2013, pp. 73-128, 250 e ss.; S. MURA, Parlamento e questione fondiaria
nell’Italia liberale (1861-1914), Milano, 2017. La rilevanza delle comunità di villaggio e dei diritti collettivi sul
patrimonio boschivo e agricolo locale era già stata sottolineata poco dopo l’approvazione della legge Galasso, cf. G. C.
DE MARTIN (a cura di), Comunità di villaggio e proprietà collettive in Italia e in Europa, Padova, 1990.
674
Cfr. M. COSULICH, Gli assetti fondiari collettivi nell'ordinamento repubblicano: dalla liquidazione alla valorizzazione?,
in Archivio Scialoja Bolla – Annali di studio sulla proprietà collettiva, 2, (2018), p. 9-26; più critico sull’utilità della legge
672
250
Sempre collegato alla rigenerazione dello spazio rurale è lo sviluppo di nuove forme di attività
imprenditoriale che contemplano tra le loro mission anche la salvaguardia di beni comuni e di
risorse ambientali, unitamente all’esercizio di attività economiche in campo agricolo o turisticoricettivo. Nella teoria dei commons in realtà l’idea che anche dei privati cittadini possano coprodurre beni comuni, definendo collettivamente il tipo di bene, l’organizzazione della
produzione, le modalità di accesso è perlopiù ignorata ma ciò non ha impedito l’evoluzione di
alcuni modelli societari caratterizzati dalla prevalenza dei fini sociali e ambientali sulla creazione di
profitto. Spiccano in particolare le cooperative di comunità che, rispetto alle cooperative
tradizionali, esercitano l’attività economica con lo scopo di perseguire lo sviluppo di comunità
vulnerabili, massimizzando il benessere collettivo (non solo dei soci)675.
Va notato che, in assenza di un riferimento normativo nazionale tanto sulla nozione di “bene
comune” quanto sulle cooperative di comunità, sono state le leggi regionali a riconoscere queste
forme innovative di imprenditoria, definendone i settori di attività e istituendo forme di sostegno
mirate. La legge della Regione Liguria n. 14 del 7 aprile 2015 attribuisce la qualifica di cooperativa
di comunità a quelle società cooperative che attraverso la valorizzazione delle risorse umane, delle
innovazioni, dei beni culturali, ambientali e comuni accrescono le occasioni di lavoro e di
reddito676.
La diffusione spontanea di numerose cooperative di comunità sul territorio nazionale ha
indotto anche il Ministero dello Sviluppo economico ad approfondire la sostenibilità economicofinanziaria di tali imprese. Tra i vari aspetti portati in luce dal rapporto, basatosi molto su case
studies delle coop già attive, preme evidenziare come la governance dell’impresa sia difficilmente
168 e le sue lacune G. DI GENIO, Gli usi civici nella legge n. 168 del 2017 sui domini collettivi: sintonie e distonie
attraverso la giurisprudenza costituzionale e il dibattito in sede Costituente, in Federalismi, 18 (2018), pp. 2-16.
675
Vedi i contributi raccolti in L. SACCONI, S. OTTONE, Beni comuni e cooperazione, Bologna, 2015; P. A. MORI, Comunità e
cooperazione: l’evoluzione delle cooperative verso nuovi modelli di partecipazione democratica dei cittadini alla
gestione dei servizi pubblici, in Euricse Working Papers, 77 (2015) disponibile al link
http://www.euricse.eu/it/publications/wp-7715/ (consultato il 16 dicembre 2018); S. DEPEDRI, S. TURRI, Dalla funzione
sociale alla cooperativa di comunità: un caso studio per discutere sul flebile confine, in Rivista impresa sociale, 5, 2015,
pp. 65-82.
676
Tra i progetti integrati (art. 4) la valorizzazione dei beni comuni, ambientali e culturali è al primo posto, seguita
dalla cura dell’ecosistema comunitario e la produzione di beni e la prestazione di servizi. Coerentemente con questa
impostazione si possono citare l’art. 5 della c.d.c. di Mendatica “Brigì”, gli artt. 3 e 4 dello statuto della c.d.c.
“Germinale” (Demonte, CN) e gli artt. 3 e 4 dello statuto c.d.c. “La Volpe e il Mirtillo” di Ormea (CN). Sotto il profilo
della sperimentazione di questo modo di prendersi cura dei beni comuni dando (o ridando) al contempo occasioni di
lavoro per i piccoli borghi dell’entroterra, la Liguria può senz’altro dirsi al passo di altre Regioni anche più popolose: R.
LA MARCA, S. TRINGALI, Cooperative di comunità e beni comuni. Viaggio in Liguria: tra attivismo cooperativo e nuovi
modelli di sviluppo locale, Labsus, 17 luglio 2018, disponibile al link http://www.labsus.org/2018/07/cooperative-dicomunita-e-beni-comuni/ (consultato il 19 dicembre 2018).
251
modellabile a priori, ma debba essere adattata alle circostanze del contesto comunitario di
riferimento e alla qualità dei soci aderenti, per garantire allo stesso tempo efficienza,
autogestione, democraticità e garanzia dell’accesso al bene o al servizio anche da parte dei non
soci677. Un problema aperto dunque, che per quelle imprese dedite alla gestione di beni
considerati comuni, richiede specifiche soluzioni coerenti con i principi fondamentali propri dei
medesimi beni.
Anche sull’acqua vanno registrati progressi, in particolare per il servizio idrico integrato
che, nonostante le ovvie ricadute ambientali e la stretta correlazione con il bene acqua,
comprende attività complesse basate sull’organizzazione di fattori (impianti di captazione,
depurazione, reti idriche etc.) articolata e onerosa. Nello sforzo di fornire piena attuazione al
referendum del 2011, fallito il primo tentativo di disciplinare la materia, è in corso d’esame presso
la Commissione Ambiente della Camera dei Deputati l’esame della p.d.l. n. 52/2018 sulla gestione
pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque. In attesa dell’esito dell’iter parlamentare, si
può soltanto notare la previsione di alcune misure importanti, come la garanzia di un diritto
universale di accesso all’acqua, l’istituzione di un fondo per la ripubblicizzazione del SII,
l’assegnazione al Ministero della determinazione delle tariffe e l’introduzione di strumenti di
partecipazione civica alla governance locale del servizio. Un servizio la cui permanenza nel campo
pubblico è ribadita più volte (artt. 8, 9, 10) ma che potrà realizzarsi secondo un principio di libera
organizzazione678.
Quello del servizio idrico è sicuramente il campo ove la tensione per sottrarre un bene (e il
relativo servizio di fornitura) al mercato è più evidente, a motivo anche dei vincoli esterni imposti
al bilancio pubblico e alle possibilità di spesa di Stato ed enti locali. Vincoli che appaiono tanto più
irragionevoli se considerata l’ingente mole di lavori di adeguamento della rete e di realizzazione
degli impianti di depurazione e che, d’altra parte, creano i presupposti politici per l’affidamento ai
privati del servizio. La proposta di legge in esame sembra dunque avviata per la giusta strada di
coniugare pubblicità del servizio e previsione di fondi per gli investimenti negli impianti e nella
rete, senza i quali la qualifica di bene comune data all’acqua resterebbe una mera petizione di
principio.
Ministero dello Sviluppo Economico, Studio di fattibilità per lo sviluppo delle cooperative di comunità, Roma, 2016,
pp. 188-201.
678
Sull’acqua vedi almeno A. LUCARELLI, Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica, Viareggio, 2011; F. CAPORALE, I
servizi idrici. Dimensione economica e rilevanza sociale, Milano, 2017.
677
252
Correlate alle acque vanno citati i c.d. “contratti di fiume”, disciplinati dall’art. 68-bis del
codice dell’ambiente (D. Lgs. 152/2006)679. Tramite questi atti di pianificazione negoziata, su base
volontaria, Stato, Regioni, Enti locali, autorità di bacino, privati possono individuare insieme le
politiche più idonee per contenere il degrado eco-paesaggistico e riqualificare i territori dei bacini
idrografici. La comunità nel suo complesso è dunque chiamata ad elaborare una visione condivisa,
facendo emergere tanto i conflitti quanto gli interessi condivisi680. Il contratto di fiume declina in
un ambito specifico i principi di sussidiarietà orizzontale e verticale, prestandosi facilmente ad
essere uno strumento giuridico duttile per la tutela del bene comune fiume attraverso il
coinvolgimento e la corresponsabilizzazione della stessa comunità insiediata.
Da ultimo si possono citare i commons urbani, cioè tutti quei beni immobili pubblici di varia
natura (edifici, giardini, parchi urbani, impianti sportivi) che versano in uno stato di abbandono e
degrado ma di cui gruppi più o meno ampi di “cittadini attivi” decide di prendersi cura,
restituendone la fruizione al pubblico. Oltre alle iniziative di occupazione più clamorose, come il
Teatro Valle a Roma, in decine di altre città si sono verificati casi di riappropriazione di spazi
pubblici, in accordo con le amministrazioni locali o in loro vece. Anche in questo caso risulta
essenziale la presenza degli elementi di base per la gestione di un bene collettivo (individuazione
chiara del gruppo di interessati, modalità decisionale partecipata e trasparente, assenza di fini di
lucro), ma i percorsi amministrativi che hanno dato legittimità a queste pratiche sono diversi. Un
primo, importante laboratorio è costituito dal Comune di Napoli, che dopo le elezioni vinte da
Luigi De Magistris nel 2011 istituisce un apposito Assessorato ai Beni comuni. Al lavoro di questo
ufficio vanno ricondotte due delibere sulla rigenerazione degli immobili pubblici e privati, da
destinare a quei soggetti che vogliano restituire alla proprietà immobiliare la sua piena funzione
sociale. In entrambi i casi il Comune è l’ente mediatore del cambio di destinazione o del passaggio
di proprietà, a lui spetta individuare i soggetti (associazioni, comitati, cooperative etc.) per la
gestione del bene e di vigilare sul mantenimento della fruizione collettiva della cosa681.
L’articolo è stato inserito all’art. 59 c. 1 della legge 221 del 28 dicembre 2015 (c.d. “collegato ambientale” alla
Legge di stabilità 2016): «I contratti di fiume concorrono alla definizione e all'attuazione degli strumenti di
pianificazione di distretto a livello di bacino e sottobacino idrografico, quali strumenti volontari di programmazione
strategica e negoziata che perseguono la tutela, la corretta gestione delle risorse idriche e la valorizzazione dei
territori fluviali, unitamente alla salvaguardia dal rischio idraulico, contribuendo allo sviluppo locale di tali aree».
680
È stata elaborata anche una Carta nazionale dei contratti di fiume ed è ormai operativo da un decennio il Tavolo
nazionale dei contratti di fiume, http://nuke.a21fiumi.eu/.
681
Trattasi delle delibere n. 258 e 259 della Giunta Comunale di Napoli, che traducevano in atto amministrativo le
proposte avanzate da Alberto Lucarelli, giuspubblicista ben addentro al tema dei beni comuni. Vedi ad es. A. LUCARELLI,
Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, in Costituzionalismo.it, 3 (2014) al link
679
253
Altro strumento amministrativo che sta conoscendo un notevole successo è quello dei patti
di collaborazione, attraverso i quali numerose amministrazioni traducono operativamente i
principi di sussidiarietà e di amministrazione condivisa con la cittadinanza. La stesura del patto è il
momento di emersione dell’interesse generale del caso concreto, per la cura del quale
amministrazione e cittadinanza individuano congiuntamente obiettivi, mezzi finanziari,
coinvolgimento di altri enti etc. e il suo contenuto può essere vario, purché abbia un bene comune
come punto terminale dell’azione combinata di Ente locale e comunità. Nonostante la ricorrente
applicazione dei patti per la gestione di cose semplici (aree verdi, giardini), non va sottovalutata la
loro diffusione sul territorio e la potenziale adattabilità a realtà complesse682.
L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura, richiamando anche i principi espressi dalla carta
europea sui beni comuni683. Quanto esposto fin qui sembra sufficiente per dimostrare le molteplici
direttrici su cui si articola la gestione di un bene da parte di una collettività. Si intersecano interessi
diversi, politiche pubbliche assegnate dall’ordinamento ad enti di differente livello, grande
mutevolezza delle caratteristiche sia degli stakeholders che delle risorse gestite. Inoltre già questi
pochi esempi dimostrano che trascinare sul banco degli imputati delle crisi contemporanee non
solo la (rapace) proprietà privata, ma anche lo Stato sovrano e privatizzatore è un’operazione
forse ideologicamente attraente ma in concreto controproducente. Come spiegato in sede
introduttiva, appiattire lo Stato su un’unica posizione non rende giustizia al suo divenire storico e
preclude la possibilità di farne un alleato – come in molti casi si sta già dimostrando – contro gli
aspetti deteriori del liberismo684.
http://www.costituzionalismo.it/articoli/492/ (consultato il 19 dicembre 2018); ID., Beni comuni e funzione sociale
della proprietà: il ruolo del Comune, in L. SACCONI, S. OTTONE, Beni comuni e cooperazione, cit., pp. 111-122.
682
Cf. G. ARENA, Nuove risorse e nuovi modelli di amministrazione, in M. BOMBARDELLI (a cura di), Prendersi cura, cit., pp.
283-306; ID., Che cosa sono e come funzionano i patti per la cura dei beni comuni, in Labsus.org, 6 febbraio 2016,
disponibile al link http://www.labsus.org/2016/02/cosa-sono-e-come-funzionano-i-patti-per-la-cura-dei-beni-comuni/
(consultato il 19 dicembre 2018); C. ANGIOLINI, Possibilità e limiti dei recenti regolamenti comunali in materia di beni
comuni, in A. QUARTA, M. SPANÒ (a cura di), Beni comuni 2.0, cit., pp. 147-156. Proprio al laboratorio di Labsus si deve
un rapporto annuale sul numero e la tipologia di patti di collaborazione per la gestione dei beni comuni in Italia.
Sempre in tema di urban commons e soluzioni alternative M. R. MARELLA, La difesa dell’urban commons, in M. R.
MARELLA (a cura di), Oltre il pubblico, cit., pp. 185-201; A. VERCELLONE, Urban commons e modelli di governo. Il
community land trust, in A. QUARTA, M. SPANÒ (a cura di), Beni comuni 2.0, cit., pp. 171-185.
683
Cf. A. SIMONATI, Per la gestione “partecipata” dei beni comuni: una procedimentalizzazione di seconda generazione?,
in M. BOMBARDELLI (a cura di), Prendersi cura, cit., pp. 103-142; F. GIGLIONI, Beni comuni e autonomie nella prospettiva
europea: città e cittadinanze, ivi, pp. 151-218.
684
Cfr. A. ALGOSTINO, Riflessioni sui beni comuni tra il “pubblico” e la Costituzione, in Costituzionalismo.it, 3, 2013 al link
http://www.costituzionalismo.it/articoli/460/ (consultato il 19 dicembre 2018); L. PENNACCHI, Beni comuni e politica
progressista: l’erosione della democrazia e il futuro della sfera pubblica, in L. SACCONI, S. OTTONE, Beni comuni e
cooperazione, cit., pp. 81-110.
254
In un quadro così variopinto e denso di problematiche da risolvere nel presente, cosa può
dire uno storico? Ad avviso di chi scrive due cose. Premesso che qualsiasi ricerca storicamente
accurata ha evidenziato sia la centralità del conflitto tra comunità e signori o città per la creazione
di spazi politici e la definizione delle regole di accesso, sia la non sovrapponibilità della proprietà
collettiva storica con ciò che nel XXI secolo viene inteso come bene comune, è innegabile che una
delle chiavi di volta storicamente più efficaci risieda nella tutela giudiziale di un diritto diffuso
all’uso dei beni pubblici. Lo si è visto anche a proposito dell’operato del Magistrato delle
Comunità, quando l’attivazione del procedimento di recupero dei beni occupati manifestava
formalmente un bisogno da soddisfare, chiarendo solo dopo l’avvio dell’azione le posizioni
soggettive degli attori coinvolti. Come osservato da Spanò una ridefinizione teorica della tutela
potrà proteggere le nuove forme di vivere, produrre e cooperare create dal “comune”685.
In secondo luogo la conoscenza storica tanto della storica duttilità del contenuto dei diritti
di proprietà quanto delle pratiche di utilizzo di specifici beni comuni locali può validamente
supportare iniziative di riattivazione di quei beni in vista di una riappropriazione collettiva del
territorio. L’attivazione di circuiti relazionali intorno alla gestione di un bene, la convergenza
operativa di soggetti pubblici e privati in vista dell’attuazione di un progetto possono allora dare
nuovamente luogo a quella “produzione dei luoghi” per mezzo della cooperazione tra soggetti che
caratterizza l’antichità. Un processo storico, si è detto, che dunque può riproporsi ma che non
potrà mai dirsi perfettamente compiuto.
Per i diversissimi campi di applicazione dei principi del “comune”, pare dunque profilarsi la
domanda di giuristi capaci padroneggiare competenze che spaziano dal diritto civile a quello
pubblico, passando per materie trasversali e soggette ad articolati riparti di competenza tra enti di
diverso livello, a nozioni di economia aziendale. Siamo forse all’alba di un nuovo mestiere, il
giurista dei commons? A giudicare dalla platea di soggetti interessati dalla neonata Scuola Italiana
Beni Comuni si potrebbe dire di sì686. Neppure questa specializzazione sarebbe a ben vedere una
novità assoluta, come dimostrano le figure più note di dottori incontrate nei capitoli centrali, da
685
Cf. V. CERULLI IRELLI, L. DE LUCIA, Beni comuni e diritti collettivi, in Politica del diritto, XLV, 2014, pp. 3-35. Sulla nozione
di “diritto pubblico diffuso” e la relativa tutela popolare vedi da diverse prospettive A. DI PORTO, Res in publico usu, cit.,
pp. 78-89; M. SPANÒ, Il comune rimedio. Un’apologia minima della tutela, in A. QUARTA, M. SPANÒ (a cura di), Beni
comuni 2.0, cit., pp. 133-146.
686
Nata in partnership tra Labsus, Università di Trento ed Euricse la Scuola organizza corsi di formazione specifici
rivolti ad imprenditori del profit e no profit, funzionari pubblici e professionisti chiamati a svolgere attività di
consulenza giuridica e finanziaria tanto in fase di progettazione che nella successiva fase di gestione del bene o
servizio.
255
De Otero a Pecchi e Gobbi, capaci di maneggiare diversi iura propria all’interno di una più ampia
cornice concettuale e valoriale espressa dal diritto comune per “giuridicizzare” situazioni
possessorie uniche. L’irriducibilità della categoria a definizioni esaurienti e schemi completi lascerà
molto probabilmente largo spazio ai giuristi nel fissare gli avanzamenti della materia lavorando
tanto sul piano dell’elaborazione concreta di soluzioni di governance delle risorse, sia
promuovendo l’introduzione di principi e norme coerenti con la dimensione ecologica del
diritto687. Se sarà quello ambientale il tema politico principale del XXI secolo, la scienza giuridica
italiana non si farà trovare impreparata, anche ai beni comuni.
Sulla necessità di importare intorno ai commons naturali un governo dell’economia e della società più attento alle
condizioni ambientali del pianeta, attraverso la revisione dei diritti di proprietà e la definizione di nuovi rapporti tra
Stato e mercato, vedi B. H. WESTON, D. BOLLIER, Green governance. Ecological survival, human rights and the law of the
commons, New York, 2013, in particolare pp. 123-225.
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