Scorci oltre la linea -
“Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall'abisso, Bellezza?”
Quale che sia la sua fonte, Bellezza è in primo luogo un richiamo ancestrale.
Un anelito nostalgico che ogni esule si porta nel cuore.
In greco la radice di “Kalos” è la stessa di “Kalei”, che significa chiamare.
Bellezza abita uno spazio inviolato. Un non-luogo intimo che invita l’anima frantumata a ricongiungersi coll’interezza dei suoi archetipi oltremondani.
Nell’epoca attuale, il disturbo compulsivo dell’affermazione individualistica, direttamente proporzionale all’inconsistenza del proprio essere, ha trasformato le persone in involucri di persone, rendendole incapaci di ricollegarsi ad una qualsiasi riflessione che non inerisca alla convenienza mondana del hic et nunc.
Questo fenomeno, lungi dall’essere un mero prodotto dell’alienazione a cui ci hanno portato i ritmi di vita moderni, ha un’origine culturale ben più ampia che ha a che fare in primis colla perdita del senso del Sacro.
Il termine “sacro” deriva dal latino arcaico “sakros”, e ad esso sono attribuibili svariati significati, in sostanza riconducibili da una parte all’unione colla sfera del Divino, e dall’altra di riflesso alla separazione rispetto all’ambito del profano.
Particolarmente interessante è la riconduzione al concetto di interdizione e sbarramento, per cui il Sacro si configura quindi come ciò che presuppone dei confini inviolabili.
Cosa si intende per inviolabili?
In apparenza sembra una connotazione contraddittoria, visto che il solo fatto che un limite esista mostra che esso possa essere valicato.
Trattasi in realtà di una licenza puramente illusoria, visto che il Sacro è la colonna invisibile dell’esistenza, il cui mancato riconoscimento inietta un veleno nelle fondamenta stesse dell’essere.
Ricusando il sacro, si produce l’idolo, che altro non è che una divinità abusiva, ossia il simulacro di quell’idea di inviolabilità che è ineludibile per la struttura stessa della mente umana.
L’esemplificazione più lampante l’ha prodotta la modernità col parto dell’individualismo.
Era un passo prevedibile: scardinato il Divino attraverso la progressiva demistificazione del metafisico ( si pensi al devastante impatto culturale di pensatori quali Darwin, Freud e Marx), non rimaneva che ergere a nume l’individuo.
Eppure il singolo non è mai stato così infelice ed insoddisfatto quanto nell’epoca che più gli ha dato considerazione e centralità.
Perso progressivamente il senso unificante della comunità sotto l’egida di un pantheon mitologico, l’individuo fatto dio a se stesso si è ritrovato ad essere un mero numero, un’anonima e grigia pedina di un sistema-macchinario che si nutre del suo sangue come una sanguisuga senza curarlo né arricchirlo in alcun modo.
La ricerca spasmodica del piacere non è che il palliativo con cui quest’essere spersonalizzato cerca di narcotizzarsi e vivificare l’affermazione di sé quanto più frana il terreno sotto ai suoi piedi, disvelando la sua terrificante impotenza.
Paradossalmente nulla valorizza più l’individuo della servitù rispetto ad un ideale comunitario.
Nella limitazione volontaria della propria libertà in nome di questo ideale condiviso, egli si libera del cancro dell’auto-referenzialità, ritrova il suo senso e lo fa ritrovare al suo prossimo.
Servire se stesso invece lo porta solo ad essere progressivamente annientato dalla sua stessa alienazione.
Se tutti questi concetti vengono meno nella coscienza collettiva, ecco allora che l’esperienza dei singoli sprofonda nelle torbide acque del caos dove tutto può essere violato in nome della libertà ( il cui vero significato si è perso da tempo per essere soppiantato dal liberal-ismo, che ne è la più infima delle degenerazioni) in quanto tutto è fondamentalmente sullo stesso piano orizzontale.
Non avendo un fine sacro su cui riversarsi a parte se stesso, quest’individuo sedicente libero diventa mera volontà di potenza, bisogno morboso di assoggettare l’altro a sé, perché nessuno necessita più di dominare l’alterità di colui che non detiene potere intrinseco.
Ecco perché i colonialismi che sono un fenomeno prettamente moderno, hanno potuto solo scimmiottare beceramente le grandi espansioni imperiali del passato: essi hanno origine dai complessi generati dal totale impoverimento dell’identità mitico-culturale, che per un meccanismo di compensazione genera bisogno di espansione tramite la disintegrazione dell’alterità piuttosto che tramite la sua assimilazione.
La storia non ricorda periodi più floridi e ferventi dal punto di vista culturale di quelli che hanno visto civiltà profondamente diverse assimilarsi reciprocamente mantenendo ciò nondimeno la loro autonomia identitaria. Basti pensare all’incontro fra la civiltà greco-romana e bizantina e quella arabo-islamica.
Gli umanitarismi tanto in voga ultimamente in Occidente, sono forse tra le più bieche ipocrisie della nostra epoca. Tappabuchi per sanare sbrigativamente i rimorsi di coscienza prodotti dalla devastante violenza degli imperialismi culturali.
Il pretesto? Esportare il “nobile” ideale della democrazia liberale . Che non a caso altro non è che uno dei variopinti travestimenti del culto della libertà dell’individuo.
Paradossalmente proprio in questo apogeo della libertà esteriore, l’uomo si trova al culmine della prigionia interiore, incapace di sublimare le proprie energie in altro che non sia il vile asservimento al proprio utile.
Ma poiché è venuto meno l’utile collettivo in favore degli utili individuali, ecco che gli uomini diventano acerrimi nemici gli uni degli altri, continuamente intenti a guardarsi le spalle, pronti a tradirsi per un nonnulla, dal momento che il pieno esercizio della libertà di uno diventa inevitabilmente una minaccia per la libertà di un altro.
Quest’inaridimento dei cuori conduce necessariamente ad una weltanschauung filosofico-scientifica di tipo riduzionistico/funzionalistico, per cui la mente viene concepita come una macchina, e l’inclinazione dell’anima come un mero prodotto di forze culturali.
L’uomo che si sente un prodotto di forze a lui esterne non può che considerarsi una marionetta impotente e il baratro della depressione più nera e paralizzante è a un passo. E più le proiezioni dei propri desideri non trovano riscontro nella realtà e più la frustrazione cresce a dismisura.
Se non concepiamo un terreno che non venga masticato dalle fauci del tempo, allora siamo abbandonati ad un non senso travolgente e tutta la vita diviene una grande farsa carnevalesca che rasentando la follia attende penosamente lo spegnimento delle luci sul palcoscenico, e i nostri personaggi sono come maschere dissimulatrici che celano a fatica smorfie d’orrore.
Stritolati in una morsa sempre più angusta, sentiamo tuttavia scalpitare il richiamo verso un senso antico di Bellezza di cui riconosciamo sempre più a stento le fattezze, quanto più ci convinciamo di non averne bisogno, obnubilati dalle lusinghe e dalle promesse mendaci del “progresso”.
La perdita del senso del Sacro coincide colla perdita di se stessi.
Ma se invece esiste una ricchezza cui tutti possono attingere, a prescindere dalle contingenze individuali, nonché storico-culturali, allora nessuno in ultima istanza può essere una vittima del destino se non in modo meschinamente deliberato e chiunque può, almeno in via potenziale, dischiudere gli scrigni della Sapienza.
Occorre perciò reincantare il mondo, sovvertendo tutti i paradigmi del mondo moderno: la riscoperta di quella radura vergine che è il Mito permette di uscire da quello stato di vita vegetativo che induce a perseguire la perpetrazione della vita solo in nome della vita stessa.
Esso è la narrazione immortale che non viene erosa dal tempo e che permea l’anima dei cicli storici, l’Itaca a cui tutti bramiamo tornare, consci o inconsci.
Ristabilire un legame vivo con i simboli che hanno dato vita a tutti i patrimoni tradizionali dell’umanità è l’unico modo per affrontare di petto quello che Turgenev ha definito l’ospite inquietante della nostra epoca; affinché le acque del Lete non ci rendano anime orfane e claudicanti, dimentiche della nostra origine prometeica.
Un legame vivo e quindi non intellettualistico, perché la vera conoscenza come insegna Platone è un moto erotico dell’essere che abbracciando il suo oggetto lo assimila modificandosi ontologicamente. Essa è quindi un radicale mettersi in gioco, non un pigro farneticare astrattistico.
Nulla può la devastante potenza di Chronos contro la fiammella imperitura che arde nei meandri più reconditi della coscienza, per questo, come dice Hillman, la fuga dagli dei è vana: ignorare il Sacro non solleverà l’uomo dalle sue responsabilità, semplicemente renderà più terrificante e fragorosa la deflagrazione dei suoi idoli.
Scrive Jünger in un saggio pubblicato in occasione del sessantesimo compleanno di Heidegger:
“Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca.
Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici.”
Per quanto forte sia la tentazione di collassare di fronte alla potenza nientificante, se anziché identificarsi colle proprie proiezioni e le proprie paure, si trova il coraggio di scrutare i fondali di quel pozzo divino, allora finalmente si smetterà di brancolare nel buio rincorrendo le ombre, cessando di essere cieca e servile volontà di vita, e, per dirla alla Michelstaedter, si potrà consistere nel presente come fosse l’ultimo e far di se stessi Fiamma.